CESARE DICE .......

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PROPRIETÀ LETTERARIA

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I DIRITTI RISERVATI

VIETATA LA RIPRODUZIONE ANCHE PARZIALE SENZA AUTORIZZAZIONE

© UFFICIO STORICO SME- ROMA 1996

I" EDIZIONE ANNO 1973 2' EDIZIONE ANNO 1981 3• EDIZIONE ANNO 1996


STATO MAGGIORE DELL ' ESERCITO U fflCIO S TORI CO

GIUSEPPE MOSCARDELLI

Cesare dice ... UNA LETTURA DEL BELLUM OALLICUM

RO MA 1996



e

esare dice: « Fatti allontanare dalla vista i cavalli di tutti, omnium ex conspectu remotis equis, - il mio per primo, primum suo, - perchè, uguale il pericolo per tutti, nessuno potesse sperare nella fuga, ut aequato omnium periculo spem fugae tolleret, pronunziai l' "esortazione" e diedi il segnale di battaglia ». Brano dei Commentarì della Guerra Gallica - il Bellum Gallicum comunemente detto De Bello Gallico - che mi ritornò per caso sotto gli occhi in età, per dirla eufemisticamente, non più proprio giovane, allorquando ci può avvenire, anche nolenti, di dover dare diverso significato, quando non addirittura volto nuovo, ai riflussi del passato. Proprio nell'imminenza d'una battaglia Cesare s'era dunque trovato nella necessità di puntellare l'abnegazione e il coraggio di coloro che presto avrebbero dovuto darne esempio: ufficiali e quant'altri, nelle legioni, cioè in unità di fanteria, al cavallo avessero diritto. Provvedimento che mal nasconde o non nasconde affatto una buona dose di sfiducia: ho fatto allontanare la tentazione del cavallo non perchè diffidi di voi ma perchè . . . Rigirate la questione come volete e vedrete che un perchè almeno passabile non si riesce a trovarlo, e che un'imp0sizione del genere, all'ultimo momento, quando altro non restava che ingoiarla, potè riuscir sgarbata anche a guerrieri di duemila anni fa. Il fatto ha un precedente, anteriore di circa un lustro, nelle croriache che ci sono rimaste dell'esercito romano: Catilina, anche lui, non proprio all'ultimo momento ma prima di schierare l'esercito, fece allontanare i cavalli di tutti, compreso il suo. « Quindi, allon:anati i cavalli di tutti, - così racconta Sallustio - perchè l'uguaglianza del pericolo accrescesse il coraggio dei soldati, egli stesso, a piedi, schiera l'esercito secondo la natura del terreno e la disp0nibilità delle forze» . Quasi le stesse parole di Cesare, quasi espressioni, entrambi i casi, regolamentari: solo che Cesare parla di fuga mentre Catilina tendeva, se non è attenuazione di Sallustio, a dar soddisfazione a coloro, di gran lunga i più, che la disponibilità di un destriero non se l'erano mai neppur sognata, podisti per destino. Ma il caso di Catilina fa meno effetto di quello di Cesare, vi giungiamo preparati; perchè, come ognuno ricorda, fu una situazione proprio disperata che imp0se al famoso cospiratore di giocar tutto per tutto, in quel di Pistoia, con una battaglia. L'espediente di allontanare i cavalli doveva essere ammissibile nell'esercito romano solo in casi di resistenze a oltranza; in contingenze gravi da tutti avvertite che lo


8 rendessero spiegabile e tollerabile; ce ne sono comunque rimasti, così precisati, codesti due soli esempi. Situazione, ànche quella di Cesare, disperata? Ma per quanto mi fossi d~to a rileggere in studi saggi commenti nonchè in classiche traduzioni i fatti che precedettero l'episodio dei cavalli (la bibliografia del Bellum Gallicum, in grandissima parte francese e germanica, è vas:issima e tuttora in aumento), malgrado dunque ,Je molte ricognizioni ·bibliografiche, non so se sarei mai giunto a spiegazioni per me convincenti se non avessi fatto diretto ricorso al testo latino. E il risultato mi ·sospinse a proseguire per l'istessa strada; l'impegno anzi mi s'accrebbe di mano in mano che m'avveniva di rivivere in tutta la sua estensione un evento che, come tutti abbiamo almeno sentito dire, ha in quei Commentart - molto al di là d~ogni più particolareggiata cronistoria ovunque e da chiunque facilmente rinvenibile - potenza rievocativa singolare. Uno di quei libri che a lettura finita e a distanza anche di anni si riaffacciano s.pontaneamentc alla memoria con vicende - ne incontreremo parecchie - che, pur altro non essendo che nuda e cruda realtà, hanno risonanze omeriche. E' nata così, ·col tempo, - .favorita dal fatto che l'episodio dei cavalli è proprio all'ìnizio della guerra gallica - dell'intero Bellum Gallicum la presente « lettura ». Ho ascoltato a ogni pas;,, quanto più ho potuto, filologi storici umanisti di ieri e di oggi (e senza t~uni di loro, superfluo dirlo, questo lavoro non sarebbe) ma il maggior impegno l'ho posto - riducendo al limite chiarificazioni e commenti - nel tentativo di sminuire quanto meno possibile ciò che del Bellum Gallicum è precipua caratteristica: la essenzialità, lineare e ritmica, dei fatti narrati. Rinunzia pertanto quasi assoluta ai richial,lli della erudizione anche quando questa poteva offrire o ispirare gradite attrattive. Queste memorie, - da Cesare ricomposte e dettate, rapidamente, e si può dire in fretta, nel tempestoso trapasso dalla impresa gallica alla guerra civile - rimaste isolate nel tempo, prive di documenti e testimonianze contemporanei e vicini che valessero in qualche modo a condizionarle, hanno dato via libera, specie per individuazione di luoghi che possano· interferire nella sostanza dei fatti, a un ricorrente travaglio (quando necessario e quando virtuosismo) di ipotesi e polemiche; e le ·Stesse più solide traduzioni, messe fra loro a confronto, o perchè v'è seguita una lezione piuttosto che l'altra (a centinaia le varianti dei numerosi manoscritti medioevali e rinascimentali) o per maggiore o minore intransigenza filologica o perchè non può che essere diversa, in ognuno, l'immaginativa per un mondo sì lontano, presentano spesso, con pari autorità; inconciliabili contrasti. Impronte personali oltre l'ordinario numerose, e qualcuna accentuata, - prive però, ormai, di sostanziali deviazioni ·_ non possono perciò ~on riscontrarsi in tutti i lavori sul Bellum Gallicum, da chiunque e comunque fatti_ e quale ne sia il valore critico. L;i vasta bibliografià, pur ognora alimentançlo, sinp al mito, la rinomanza del Bcllum Gallicum, non è però valsa a trarlo fuori della cerchia degli specialisti (interpreti e competenti veri e propri, però, assai meno numerosi, diremmo, di quanto possa apparire nei soliti lunghi indici bibliografici) e portarlo fra lettori di larghi interessi culturali, disposti, se rimosse o atte~uate le remore specialistiche o troppo accademiche,


9 ad accoglierlo. Opera perciò famosissima (sin dal suo primo apparire col noto rumoroso giudizio di Cicerone) e tuttavia (dove meno, certe volte, ve lo aspe:tereste) sconosciutissima: due superlativi che potrebbero resistere, ci sembra, a quella qualunque inchiesta che chiunque volesse fare per proprio conto. A ciò certamente ha anche e forse soprattutto influito l'uso affatto strumentale e rudimentale che, per generazioni, se n'è fatto nelle scuole come se le peculiarità stilistiche d'una narrazione fossero senz'altro scindibili dal!a sostanza dei fatti. Anche il Bellum Gallicum, comunque, fra quei libri (pochi meno pochi troppi?) che si po:rebbero classificare « studiati e mai letti ». E si aggiunga, spesso anche ad alti livelli culturali, la transitoria e distratta condiscendenza a soffermarsi su argomenti che appena oppongano germinazioni militari, come se queste non fossero, _e Jo sono sempre state e saranno, componenti irrefùtabi!i e determinanti - anche quando non appaiano o sembrino oppos:e o addirittura estranee - dell'inarrestabile dramma sociale e politico che informa il quotidiano cammino umano. Risentiremo infatti, di individui e di popoli, fremiti e contrasti che non sapremo quanto si potrebbero nell'essenza distinguere - pur giunti come siamo dalle frecce ai potenzfali atomici e spaziali - da quelli di individui e popoli dei nostri stessi giorni; - sebbene siano stati affatto estranei a ogni nostro in:ento, e lo si constaterà, cesarismi e anticesarismi, esaltazioni e demolizioni, storicistiche o avveniristiche inframmittenze. Ma non si può non riconoscere, a maggior spiegazione dei due superlativi, ciò che è stato detto da tempo: la lettura di ques:'opera no~ è fruttuosa senza un personale, specifico e piuttosto prolungato, impegno. Le traduzioni non possono offrire che poche pagine e brani di rapiido acquisto: non potendosi in esse rendere tutta subito accessibile - tentativi che si sono risol.i e si risolvono non poche volte in travisamenti l'ardua concisione d'una narrazione . che svela il suo valore solo se consapevolmente indagata e scandita. Nè abbiamo proprio potuto far a meno di lasciare qua e là numerose locuzioni latine: voci, vivificanti, dal!a lontananza dei secoli. Ma il testo latino, se non ci fossimo proposto di rendere non pesante il cammino, avremmo voluto riportarlo tutto, tanto ogni nostra argomentazione ha procurato di tenersi ognora vicina alla fonte. « Lettura » perciò quasi completa e diretta . (per quel che vi siamo riusciti) di un documento in cui ancor respira un evento fra i più significativi nello svolgimento storico dell'Europa occidentale, e, conseguentemente, dell'Europa tutta.

G. M.



NOTA BIBLIOGRAFICA



La presente « lettura » s1 compone di quattro parti: Prima: T re battaglie. · Seconda: Atlantico - Reno - Britannia. T erza: « Freme la Gallia ... ». Quarta: La rivolta di Vercingetorige. H testo latino seguìto è quello di L. A. Costans in: Guerre des Gaules, Textc latin. Classiques Hachette, Paris, 1929 (Introduzione, commento filologico e critico, indice storico e geografico). In tutte le cartine, corografiche e topografiche, omesso ogni rapporto di « scala » con i luoghi cui si riferiscono; sono perciò solo orientative e da associare alle frequenti misurazioni segnate nel oorso del commento. Uno dei maggiori storici della Gallia, Camille Jullian, ha lasciato scritto (Histoire de la Caule, Tome III: La conquete romaine et les premières invasions germaniques. Hachette, Paris, 1930): « Una follia topografica, un vero furore, ha incrudelito quasi in rutti i tempi sui testi di Cesare». E in effetti anche noi . abbiamo presto avvertito la necessità di tenerci fuori, pur ascoltandole, da serrate e spesso artifiziose controversie su ipotesi topografiche: il rapido e illuminativo proéedere della narrazione cesariana è in gran parte quasi indipendente - e si potrebbe dire per magia - da precisazioni di luoghi e tempi.



PARTE PRIMA

TRE BATTAGLIE



Cap. I. - EL VEZI E GERMANI (Anno 58 avanti Cristo)

LA MIGRAZIONE ELVETICA Ù RGETORIGE.

Cesare, di Poco più di quarant'anni, aveva appena finito l'anno del consolato e gli era stato appena conferito, per un quinquennio, il governo di tre province - Gallia Transalpina o Narbonense, che i Romani chiamavano semplicemente Provincia, Gallia Cisalpina, Illirico ~ quando dovè partarsi da Roma a Ginevra, richiamato in quelle regioni da una grossa e imminente minaccia agli interessi del Popolo Romano. Minaccia che maturava già da qualche anno fra gli Elvezt, popolo con la Provincia confinante, e per opera, specialmente, di certo Orgetorige, personaggio fra gli Elvezi di gran lunga il più nobile e ricco. La proposizione che Orgetorige andava diffondendo fra i suoi era davvero temeraria: noi Elvezt, superiori come siamo in valore guerriero a tutti, possiamo conquistare senza difficoltà la supremazia sul!'intera Gallia, totius Galliae. Un popolo anche numericamente, come sentiremo, assai modesto che pensa di imporsi all'intera Gallia? Ma Orgetorige, anche se presto farà brutta fine, non era un esaltato. Gli Elvez1 ritenevano di essere tutt'altro che favoriti dalla propria posizione geografica; si sentivano chiusi come in un cerchio di ferro: la natura ci serra d'ogrii parte: da una parte, col Reno, fiume molto largo e profondo che divide il nostro territorio da quello dei Germani; da un'altra, con l'alta catena del Giura che ci separa dai Sequani (sapremo presto chi sono); e infine col lago Lemano e il Rodano che ci separano dalla Provincia. Reno, Giura, Lago di Ginevra, Rodano: quattro barriere naturali; ne conseguiva che essi si vedevano limitata e la loro libertà d'azione e la possibilità di far guerra ai vicini: un vero tormento, quest'ultimo, per gente sì bellicosa.

2. -

U.S.


Non ritenevano, inoltre, di aYere sufficiente spazio vitale; e, cifre alla mano, magari un po' esagerando, protestavano: data la nostra considerevole entità demografica, nonchè l'alta reputazione guerriera, il nostro territorio è piccolo: circa 360 chilometri di lunghezza (da ovest a est), circa 260 in larghezza (da nord a sud). Essendo dunque diffusa opinione fra gli Elvez1 che i propri confini fossero ingrati, molte le bocche e poca la terra, senza adeguato frutto il cospicuo capitale guerriero, Orgetorige ebbe buon giuoco: nel/'anno che a Roma erano consoli Marco Messa/a e Marco Pisone; - ossia circa tre anni prima dell'anzidetta partenza di Cesare da Roma - Orgetorige, spinto da ambizione di potere, creò un accordo fra i nobili, e persuase i suoi concittadini ad abbandonart; in massa e con tutti i beni trasportabili il proprio territorio. Una grande migrazione verso luoghi prestabiliti e, certamente, fertili di quella vasta Gallia dove, secondo lui, esistevano o si potevano creare con dizioni favorevoli ai bisogni di vita del popolo elvetico. Bisogni immaginari o reali? Per i motivi appena detti e mossi dall'autorità di Orgetorige, gli Elvezt stabilirono di preparare quanto era necessario alla partenza. Ossia, nelle linee principali: di acquistare il più gran numero di bestie da soma e di carri; di seminare quanto più frumento possibile perchè non ne mancasse durante la marcia - progettavano dunque di andar lontano - ; di stringere pace e amicizia con i popoli vicini. Programma a tempi prestabiliti: a preparar tutto questo essi calcolavano che potessero bastare due anni; con apposita legge pertanto - affinchè non vi fossero dubbi e indugi per nessuno - decretarono la partenza al terzo anno, in tertium annum. Un piano, diremmo oggi, biennale: aumentato, con l'acquisto ,di mezzi di trasporto, il volume delle importazioni; potenziata l'agricoltura e istituiti gli ammassi; condizionata a distensione la politica estera: lungo e faticoso · impegno, perciò, che sarebbe difficile pensare non stimolato da reali e piuttosto crude necessità. Anche la temeraria proposizione di Orgetorige, ora, alla luce dei fatti, sembra che si attutisca: nessuna aperta affermazione di superiore possanza guerriera, chè i migranti si porteranno dietro il pane di cui abbisognano e chiederanno ai vicini, per il transito, benevolo consenso. Prese legalmente tali decisioni, Orgetorige continuò nella sua infaticabile opera: posto alla direzione dei prepararivi, è lui che si assume anche l' incarico di creare buoni rapporti con gli altri popoli, recandovisi di persona. Due furono gli obiettivi, e quindi le tappe, della sua missione politica: Sequani ed Edui. I Sequani àbitavano - fra Saona (allora Arar), Rodano, Giura, Reno e Vosgi - un vasto territorio che aveva per capitale ·e quasi al centro Vesonzione, l'odierna Besançon.


La migrazione elvetica.


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In questo viaggio, tappa a Vesonzione o dove che fu, Orgetorige persuade il sequano Castico ( il padre di costui, già re dei Sequani, dal Senato aveva ricevuto il titolo di « Amico del Popolo Romano») a impadronirsi del potere tenuto un tempo dal pa,dre ... Orgetorige venne dunque a contatto e prese accordi con un pretendente, all'insaputa, sembrerebbe, dei legittimi rappresentanti del governo sequano. . . . E così pure persuade a far lo stesso tentativo l' eduo Dumnorige, itemque Dumnorigi Haeduo ... Siamo, così, alla seconda tappa, al secondo obiettivo della missione Orgetorige; siamo - e qui occorrerebbe scandir le parole tanto la cosa è importante nell'intero corso di queste memorie - fra gli Edui. I quali Edui risiedevano nel territorio attraversato dalle vie che uniscono il bacino della Loira al bacino della Saona e al bacino della Senna: di gran parte, cioè, di quella feracissima Borgogna ·che costituisce il più agevole transito dalla Manica al Mediterraneo, dal centro Europa alle regioni centrali e occidentali della Francia. E del loro territorio faceva parte anche il massiccio del Morvan, dove - in remota contrada, sul Monte Beuvray, a una ventina di chilometri da Autun - sorgeva l'edua capitale, Bibracte: oppido, come hanno accertato gli scavi, di grande estensione, operoso e munitissimo. Dunque: Orgetorige, così come aveva fatto col sequano Castico, persuade l'eduo Dumnorige ... Il qual Dumnorige - e qui ancor più occorrerebbe scandir le parole era fratello di un certo Diviziaco, dell'uomo cioè più importante dell'eduo paese (d:1 cui ora è però temporaneamente assente, e presto sentiremo perchè) e particolarmente amato dal popolo. Orgetorige persuade dunque D umnorige a far lo stesso tentativo di Castico e gli dà in moglie, evidente il calcolo politico, una sua figlia. Dumnorige però, a differenza di Castico, che avrebbe agito da preten~ dente, doveva porsi contro il proprio fratello. Facile vi potrà riuscire l'impresa - Orgetorige disse sia a Castico che a Dumnorige - perchè io otterrò i pieni poteri nel mio paese, imperium obtenturus, e nessuno può mettere in dubbio che gli Elvezt siano il popolo più potente di tutta la Gallia. Unite le due cose -. io al potere e le grandi possibilità del popolo elvetico - e cons!aterete che camminiamo sul sodo. Vi assicuro comunque che con i miei averi e col mio esercito vi agevolerò la via ol potere. , Tutto però subordinato, s'intende, alla migrazione; al gran giorno in cui il popolo elvetico avrebbe preso possesso delle nuove terre. Cesare dice: « Indotti da questo discorso, si giurano reciproca fede e sperano di poter diventare - una volta a capo di tre popoli fortissimi e tenacissimi, per tres potentissimos ac firmissimos populos; - i padroni di tutta la Gallia ».


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Padroni della Gallia per cupidigia di _potere e personali profitti? Giudicherà il tem_po. Sintomatico, intanto, questo: che .in due _potentati della Gallia, Sequani ed Edui, - e quello degli &fui è, in tutta la Gallia, al vertice - esistono segni d'inquietudine e di fermento sino al punto che c'è chi opina che l'intera Gallia - come se la si dovesse proteggere da chi sa quali pericoli debba essere sottoposta a una triarchia, e che a tal fine essa debba accettare l'app<>rto e quasi la direttiva degli Elvezt, _popolo a sè etnicamente affine ma residente fuori mano, a oriente del Giura. Orgetorige però, come abbiamo già accennato, fece triste fine; e ciò avvenne nel suo stesso paese, subito o non molto dop<> la missione. I fatti si svolsero così: una denuncia portò l'.1 conoscenza degli Elvezt il suo complotto; fu cioè denunciato il suo intento di impadronirsi del governo del proprio paese; intento che alla migrazione non era necessarfamente legato o non era legato affatto (ma chi può ormai più dirlo ?). Gli Elvezt, secondo le lor procedure giudiziarie, arrestarono Orgetorige; se fosse stato riconosciuto colpevole, lo aspettava il rogo. Colpo di scena però il giorno del processo: nel gjorno fissato per il dibattimento, Orgetorige fece riunire d'ogni parte sul posto tutti i suoi schiavi, cirro diecimila, e vi fece arrivare clienti e debitori che aveva in gran numero: potè così, con il loro aiuto, impedire l'inizio del processo. Il che provocò l'indignazione del paese e di quanti sul luogo del processo si trovavano o erano convenuti : ma mentre il popolo, irritato per questo fatto, si accingeva a far valere con la forza il suo diritto, il rispetto della legge, e i magistrati chiamavano dai campi gente d'arme, Orgetorige morì. Fine inattesa e incomprensibile se si tien conto di oiò che se ne disse presso gli Elvezt stessi: non è improbabile, - come gli Elvezi opinano - che egli si desse la morte di sua mano. Sicchè, dei tre personaggi del patto, siccome del sequano Castico non sentiremo più parlare e Orgetorige è morto, non ci rimane - e occorre ben rilevarne il nome e <l'ora in avanti seguirlo con particolare attenzione - che l'eduo Dumnorige. Quel Dumnorige che secondo il patto a tre avrebbe dovuto sovrap_porsi alla potenza e alla popolarità del fratello Diviziaco temporaneamente assente dal paese. Esooo

IRREVOCABILE ..

Ma che ne fu della migrazione elvetica dop<> la scomparsa del suo ideatore e principal fautore? Quando i progetti nascono da real,i bisogni, morto un Orgetorige se ne fa un altro, o di Orgetorigi se ne fa addirittura a meno. E infatti: la morte di Orgetorige non fece abbandonare agli Elvezt il progetto di uscire dal loro territorio.


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Si misero anzi in condizioni, con barbarica esaltazione, di rendere l'esodo irrevocabile: non appena si ritengono pronti a mettersi in cammino, danno alle fiamme tutte le loro città in numero di dodici, circa quattrocento villaggi e ogni altro sparso edificio; e tutto il grano, tranne quello che dovevano portar con sè, bruciano, affinchè, tolta ogni speranza di ritorno, fossero risoluti ad affrontare i rischi del futuro. Fu ordinato che ciascuno portasse seco farina per tre mesi: grandissimo - ce lo confermerà il numero dei migranti - dovè pertanto essere il numero dei mezzi di trasporto impegnati solo per un tal carico. Persuasero anche quattro modeste entità etniche loro confinanti (che nomineremo via via che sarà necessario) a imitarli e partir con loro; la più importante: accolsero presso di sè e addirittura associarono all'impresa una piccola comunità di Boi, proveniente dal Norico.

Gli Elvezi non avevano che soli due itinerari per uscire dalle loro terre, itinera duo ... Ma dov'erano diretti? perchè Cesare ritarda l'informazione evidentemente più importante? Due dunque gli itinerari: uno attraverso il paese dei Sequani, per Sequanos, - fra Giura e Rodano - stretto e difficile, angustum et difficile, ... l'altro attraverso la Provincia, molto più piano e agevole, multo facilius atque exspeditius. Circa il primo: tanto stretto e difficile che i carri vi sarebbero a stento passati uno alla volta e monti assai alti lo dominavano sì che pochissime forze avrebbero potuto impedire il passaggio. Circa il secondo, quello della Provincia: gli Elvez1 pensavano che dagli Allobrogi avrebbero ottenuto con la persuasione, e caso mai con la forza, il permesso di attraversare il loro territorio. Lasciamo per un minuto da parte, presto dovremo riparlarne, l'itinerario stretto e difficile « per Sequanos » (la zona del passo <lell'Ecluse) e consideriamo, in breve, questi Allobrogi appena apparsi. Il territorio degli Allobrogi - antiche province francesi della Savoia e in parte del Delfinato - era separato da quello degli Elvezi dal corso del Rodano, il che vuol dire che erano gli Allobrogi il primo popolo della Provincia in cui gli Elvezi - che r,erò non sappiamo ancora <love fossero diretti - si sarebbero imbattuti se avessero seguito il secondo itinerario. Allobrogi c-he solo recentemente erano stati dai Romani pacificati: <la appena due anni e dopo lunga e durissima lotta. Il che però era quanto più faceva ben sperare gli Elvezi ai fini del passaggio attraverso il loro territorio: chè agli Elvezt sembrava che quella gente, appena soggiogata, non fosse ancora ben disposta verso il Popolo Romano.


Una complicazàone, perciò: il secondo itinerario implicava non solo il passaggio per territori sotto dominio romano bensì anche attraverso gente che forse attendeva una qualsiasi occasione per ribellarsi ancora a Roma. IL

PROCONSOLE A GINEVRA.

Quando tutto fu pronto per la partenza, gli Elvezt fissano il giorno, diem dicunt, e il luogo - sulla riva del Rodano - dell'adunata generale: al confine cioè del loro paese con quello degli Allobrogi. Il giorno da essi fissato era il 28 marzo del!'anno in cui a Roma erano consoli Lucio Pisone e A ufo Gabinio. Avevano dunque deciso per l'itinerario della Provincia. Ecco dunque perchè Cesare, appena investito del proconsolato - e del governo, appunto, della Provincia - dovè portarsi a Ginevra in gran fretta. Dice: << Quando seppi che essi tentavano di passare per la Provincia, affrettai la partenza da Roma e a tappe più lunghe possibili, quam maximis potest itineribus, mi diressi verso la Gallia Transalpina e raggiunsi Ginevra». Dovè giungere a Ginevra pochi giorni prima di quello stabilito dagli Elvezì per l'inizio del movimento. Ginevra era l'ultima città degli Allobrogi più vicina agli Elvezt, e a Ginevra un ponte portava nel paese degli Elvezt. Appena a Ginevra, Cesare ordinò che si riunissero da tutta la Provincia - dove c'era di stanza una sola legione, omnino legio una - il massimo numero possibile di soldati, e che si tagliasse il ponte. La legione, un cinque seimila uomini, potè considerarla pronta subito; ma una certa disponibilità di truppe provinciali non potè conseguirla che piuttosto lentamente, a gettiti successivi. Quale agitato preludio al proconsolato di Caio Giulio Cesare questi Elvez1 che, dopo aver tutto distrutto dietro di sè, sono già in movimento di radunata al Rodano per invadere il paese degli Allobrogi e creare a Roma nuovi fastidi. Guerra inevitabile? Non ancora. Gli Elvezi, informati del!'arrivo di Cesare, gli inviarono ambasciatori i più alti personaggi dello Stato, con a capo (più del nome non sappiamo) N ammeio e Veruclezio. Costoro gli dissero: E' nostra intenzione di attraversare la Provincia senza apportarvi alcun danno. Siamo costretti a passare per là Provincia perchè non abbiamo altra possibile via. Vi preghiamo perciò di renderci lecito, col vostro permesso, tal passaggio, ut eius voluntate id sibi facere liceat. Richiesero dunque, per mezzo di personaggi responsabili, un accordo. Ma fra Elvezì e Romani c'era scabroso precedeµte, vecchia ruggine.


Cesare dice: « Poichè non avevo certo dimenticato che, proprio per opera degli Elvezt, il nostro console Lucio Cassio era stato ucciso e il suo esercito battuto e fatto passare sotto il giogo, ritenni che non fosse il caso di far concessioni. Ero d'altronde persuaso che uomini di animo ostile, una volta avuto il permesso di passare per la Provincia, non si sarebbero astenuti dal far danni e arrecare offese ». La disfatta di un esercito consolare a· cui qui si accenna era avvenuta fuori territorio elvetico (lontano, sulla Garonna) circa mezZò secolo prima, nientçmeno, del progetto Orgetorige, al tempo dei rivolgimenti provocati dalle invasioni dei Cimbri e Teutoni. Autori di tal disfatta erano stati i Tigurini - una delle quattro comunità che componevano il popolo elvetico - sotto il comando di un certo Divicone (che però fra un tre mesi ci riapparirà ancor vivo e vegeto). Naturalmente, nè da Cesare nè tantomeno dagli ambasciatori fu detto verbo che richiamasse tal ricordo. La risposta di Cesare fu solo questa: che gli si lasciasse qualche tempo per decidere; che se avessero altro da chiedergli ritornassero agli Idi di aprile, ad Idus apriles. Dice: « Ciò feci per guadagnar tempo, sino a quando fossero disponibili le milizie di cui avevo ordinato la riunione». Nessuna intenzione perciò, nè ora nè poi, di concedere il passaggio per le terre degli Allobrogi. Ma il contegno del generale romano dovè essere talmente cordiale se non lusingatore che gli ambasciatori - soprattutto perchè schiacciati, ora che tutto era pronto al gran passo, dalla necessità di non volger le cose al peggio - accettarono la proposta di differire il passaggio del Rodano fino agli Idi di aprile. Accettarono cioè la complicazione di consumare improfìcuamente, nell'attesa, circa due settimane dei tre mesi di viveri che si por~ tavano dietro. Cesare, frattanto, - ossia da quando giunse a Ginevra fino agli Idi di aprile - dalla legione e dalle milizie che di mano in mano giungevano, fece sbarrare con particolari opere - solo nei tratti guadabili, sembrerebbe - la riva sinistra del Rodano, da Ginevra al Giura (sino al passo dell'Ecluse, pare), a lacu Lemano ad montem Iuram, per circa ventotto chilometri, cioè il tratto del fiume, guadabile in parecchi punti, · su cui gli Elvezi confinavano con gli Allobrogi. Scaglionò poi dietro tal .fronte le truppe legionarie e provinciali, raggruppate in appositi ridotti i'n maniera che fosse rapido l'accorrere della difesa sui punti ove si manifestassero minacce. Si premunì come meglio potè; ben prevedendo che alla violenza non si sarebbe, per ora, giunti.

Ma gli Elvezi dov'erano diretti?


Sicchè, agli Idi di aprile, quando venne il giorno che Cesare aveva fissato con gli ambasciatori e questi ritornarono a lui, ecco la dichiarazione che quei signori dovettero ascoltare: Il permesso di passare per la Provincia, stante la tradizionale politica del Popolo Romano, non è nelle mie facoltà di concederlo ad alcuno: e dichiaro che l'impedirò se farete ricorso alla forza . Le masse elvetiche erano sul Rodano da molti giorni in attesa di iniziare la marcia: eppertant-0 nervose; qualche atto di forza perciò vi fu: gli Elvez1, perduta la speranza di un accordo, su barche, zattere e per guadi, di giorno e specialmente di notte, cercarono di passare il Rodano: ovunque però respinti. desistettero dal tentativo. Ma dovè trattarsi di sporadiche reazioni dei capi più rozzi e focosi forse anche inaspriti dai propositi niente affatto bellicosi - e come potevano esserlo? - dei capi supremi a cui era affidata la responsabilità della migrazione. (( PER SEQUANOS

», AL'LORA.

Agli Elvezz non restava dunque che solo la via attraverso il territorio dei Sequani, una per Sequanos via, per la quale però non potevasi passare, dati i lunghi e stretti avvallamenti, contro la volontà di quel popolo. E perciò essi, fallito con i Sequani un tentativo di accordo diretto, ricorsero a procedimento diplomatico: inviarono ambasciatori ali'eduo Dumnorige per ottenere, con la sua intercessione, eo deprecatore, dei Sequani il permesso. Dumnorige, l'eduo che ci siamo proposti di seguire con particolare attenzione, aveva tutti i numeri per questa mediazione <li intrinseca delicatezza e soprattutto di estrema urgenza: Dumnorige, e per simpatie e per largizioni, godeva presso i Sequani di largo credito; Dumnorige degli Elvezt era amico perchè aveva impalmato donna di lor gente, la figlia di Orgetorige; Dumnorige, - e questo è il punto dove sembra che Cesare batta più l'accento - ambizioso di regno, era propenso a rivolgimenti politici e voleva tenersi legati con benefici quanti più popoli fosse possibile. E Dumnorige infatti aderì alla richiesta e ottenne dai Sequani il permesso di passaggio, alla seguente condizione: Elvezt e Sequani si scambino ostaggi: i Sequani per garantire agli Elvezt indisturbato passaggio; gli Elvez1 per garantire che il loro passaggio sarebbe avvenuto senza recar danni e offese, sine maleficio et iniuria. Fu così dunque che verso la fine, si calcola, di aprile, __,. di quanti giorni, intanto, erano diminuiti i tre mesi di viveri? - gli Elvezi, inizialmente con lieve diversione rispetto all'itinerario per la Provincia, poterono mettersi in moto verso quelle terre - quali? - che dessero pane in quantità adeguata alla loro potenzialità demografica e al loro prestigio guerriero.


Passando attraverso il territorio dei Sequani - per il passo dell'Ecluse e col permesso dei Sequani, fuori e sempre più lontano dalla Provincia, così essi pensavano, non vi poteva essere morivo di attrito con Roma. Cesare dice: « Fui informato che gli Eluezt avevano intenzione di raggiungere - _attraverso le terre dei Sequani e degli Edui - il paese dei Santoni, iter in Santonum fines facere; e il paese dei Santoni non è lontano dalle terre dei T o/osati, i quali sono nella Provincia, quae civitas est in provincia. Capivo che se questo fosse avvenuto grande pericolo sarebbe stato per la Provincia aver confinanti - in un paese ovunque piano, e fertilissimo uomini bellicosi, nemici del Popolo Romano. E per questi motivi . .. ». Molto lontano intendevano dunque portarsi gli Elvezi: dalle regioni dell'alto Reno, alle coste, nientemeno, dell'oceano. Da alpigiani, atlantici. I Santoni infatti abitavano a nord dell'estuario della Garonna, nelle terre che contengono tutto il corso della Charente; e Saintonge - territorio della odierna Saintes - è il nome <li una vecchia provincia francese. Se però guardiamo su una carta il territorio che circonda Tolosa, vasto ancor più che fosse quello ove abitavano i Tolosati, non riusciamo a convincerci come gli Elvezi, una volta nelle terre dei Santoni, potessero divenire «confinanti » dei Tolosati e quindi della Provincia: tra l'un territorio e l'altro ci sono due grandi fiumi, Dordogna e Garonna, nonchè una d istanza, allora rispettabile anche se in gran parte pianura, di circa duecento chilometri. Più lontani , non più vicini alla Provincia si sarebbero dunque venuti a trovare, una volta nel Saintonge, gli Elvezì. Ma le conoscenze geografiche di Cesare non potevano essere che quelle del suo tempo. (Potrebbe quindi non ritenersi alterazione voluta il << confinanti »; pur rimanendo il fatto che nella nuova sede gli Elvezi avrebbero raggiunto potenzialità economica e guerriera ben maggiore dell'attuale). Dice: << E per questi motivi . .. affidai il comando della linea fortificata sul Rodano al Legato Tito LAbieno, e io mi diressi a grandi tappe verso l'Italia, ipse in ltaliam magnis itineribus contendit ... ». Lascia dunque il comando a Tito Labieno siamo di Labieno alla prima apparizione: è il << Legato propretore », il più elevato in grado dopo il Proconsole e lo ritroveremo d'ora innanzi in importanti contingenze militari e politiche - lascia dunque il comando a Labieno e si precipita in Italia per procacciarsi, evidentemente, le forze necessarie a contrastare la migrazione elvetica: chè in tutta la Provincia, ci ' ha già detto, non c'era che una sol a legione, omnino legio una. Spiegabile senz'altro l'urgenza del viaggio, circa un mese fa, da Roma a Ginevra; ma a qual fine l'urgenza, ora, da Ginevra in Italia, se gli Elvezi stanno attraversando territorio seguano, col permesso· dei Sequani, fuori e sempre più lontano da Allobrogi e Provincia? Interrogativo prematuro.


27 E' che non abbiamo ancora elementi neppure approssimattv1 per spiegarci l'ostilità <li Cesare contro gli Elvezi; e dovremo attendere che via via ce li rivelino gli avvenimenti, vicini e meno vicini, dei futuri mesi. Sebbene già si Possa avvertire che si tratta di questioni Politiche complesse, di quelle che oggi diremmo - e tali furono, in sostanza, allora - di interesse europeo. Assistiamo intanto alla reazione di questo proconsole. O, meglio: alla prima esplosione dell'uomo che ha nome Cesare. OLTRE RODANO.

Si dirige a grandi tappe verso l'Italia, ossia nell'altra sua provincia, la Gallia Cisalpina: qui arruola due legioni - ma le relative operazioni di leva erano certo cominciate da temPo e <lovè quindi trovare le due unità quasi pronte - e ne chiama altre tre che svernavano intorno ad Aquileia. Cinque legioni, dunque; due <li nuova formazione, <li reclute, e tre di anziani: riunite queste cinque legioni, per la via più breve, attraverso le Alpi, - valicò il Monginevra - si affretta verso la Gallia Ulteriore. Da Ocelo, probabilmente Avigliana, città estrema della Gallia Cisalpina, giunge in sette giorni nel paese dei Voconzt. Con un esercito attraversò dunque le Alpi in sette giorni; e non sènza resistenze oppostegli da talune poPolazioni montanare non ancora a Roma sottomesse. Dal paese dei Voconz1 - che risiedevano, approssimativamente, nei dipartimenti Isère e Drome - passa in quello degli Allobrogi. E', pertanto, ancora sulla sinistra del Rodano, è ancora nella Provincia. Ma dal paese degli Allobrogi passa - con sei legioni : le cinque della Cisalpina e quella di Ginevra a esse unitasi non sappiamo dove - nel paese dei Segusiavi - nel Lionese - i quali Segusiavi sono il primo popolo, al di là del Rodano, fuori i confini della Provincia, bi sunt extra provinciam trans Rhodanum primi.

Partito solo da Roma circa a metà marzo, lo ritroviamo, - si calcola meno di tre mesi - nel territorio di Lione (Lugdunum), cioè oltre Rodano, fuori Provincia, con sei legioni. Per lo spazio vitale degli Elvez1, egli ha dovuto prendere, l'una in conseguenza dell'altra, due iniziative: qu~lla di portare a sei - senza autorizzazione del Senato - le quattro legioni che gli erano state assegnate (una a Ginevra e tre ad Aquileia) all'atto dell'investitura <lel proconsolato; quella di uscire - senza autorizzazione del Senato - dalla Provincia e invadere il paese dei Segusiavi.


LA POLITICA EDU A (( AMICI E CONSANGUINEI DEL POPOLO ROMANO » .

Gli Elvezz intanto - quando Cesare era già al Rodano o l'aveva appena superato - eran già passati per i luoghi difficili, il Giura, nonchè per il paese dei Sequani ed eran pervenuti nel territorio degli Edui ... Stavano superando la Saona, l'Arar, confine fra Sequani ed Edui. Vecchi donne bambini, file interminabili di carri e quadrupedi, per piste e sentieri e poco o niente strade: colonne l'una piuttosto lontana dall'altra che marciavano lentamente, alle prese con quotidiane difficoltà d'ogni sorta. Ora però, finalmente, esse sono nel territorio degli Edui, nella patria di Dumnorige, sposo di donna elvetica. Ma proprio nel paese degli Edui cominciarono i guai. Cesare dice: « Gli Elvezz erano pervenuti nel territorio degli Edui . .. e ne devastavano i campi». Gente sazia e pacifica non erano, certamente: un'enorme folla - anticipiamo il dato - di circa 368 mila anime, ad milia trecenta sexaginta octo, comprese le popolazioni d'oltre Reno alla migrazione associate; e come stesse a viveri, dopo gli indugi imposti da Cesare e dalle trattative con i Sequani nonchè da un mese e più di marcia, non sapremmo più dire. Cesare ci riporta ben tre appelli a lui pervenuti che pongono gli Elvez1 sotto accusa. Il primo: Gli Edui, non potendo difendere dagli Elvez1 e se stessi e i loro beni, chiedono, per mezzo di ambasciatori, a Cesare aiuto, legatos rnittunt rogatum auxilium. Dissero gli ambasciatori: noi Edui siamo stati, in ogni tempo, sì benemeriti del Popolo Romano che non dovrebbe accaderci, ora, di vedere - quasi sotto gli occhi dell'esercito romano - i nostri campi devastati, i nostri figli condotti in schiavitù, le città espugnate. Campi sconvolti qu~ndo non era lontano il raccolto, giovani rastrellati, città sottoposte a scorrene. Secondo appello: Nello stesso tempo, gli Ambarri, clienti e parenti stretti degli Edui, informano Cesare che i loro campi fOno stati devastati e che essi a !tento riescono a difendere le loro città dalle aggressioni nemiche. Nessuna ambasceria da parte degli Ambarri : si limitarono a fargli conoscere, non è detto come, la loro situazione. Terzo appello: Quegli Allobrogi che avevano villaggi e possedimenti oltre Rodano si rifugiano presso Cesare e raccontano che, salvo il nudo terreno, a essi non resta più nulla. Allobrogi della destra Rodano: fuori, quindi, i confini della Provincia. Tale dunque nella realtà, secondo codesti tre appelli, quella migrazione -che avrebbe dovuto avere come condizione essenziale, secondo gli intenti di Orgctorige, l'assenso amichevole dei popoli interessati.


Cesare dice: « Da questi fatti sospinto, decisi di non dover attendere che gli Elvezi, dopo aver distrutto tutti i beni dei nostri alleati, omnibus fortunis sociorum consumptis, fossero giunti nel paese dei .Santoni ». I più grandi predatori di tutti i tempi e luoghi, questi Elvezi; in tre o quattro mesi, quanto sarebbe durata la marcia, capaci di inghiottirsi, marciando, tutti i beni dei territori che attraversavano. A dir vero, però, Cesare era già in marcia verso la Provincia con le cinque legioni rilevate in Italia quando tali fatti non erano ancora avvenuti; anzi, stando - nè si potrebbe altrimenti - alla successione dei fatti della sua stessa relazione, aveva già passato il Rodano, e quindi i confini della Provincia, allorchè gh pervennero i tre appelli. Appelli che si potrebbero ridurre a due: quello che riguarda le 'piccole prnpaggini di Allobrogi fuori giurisdizione romana ~ segnalazione, più che altro, di danni a beni privati - offende forse un diretto interesse del Popolo Romano? E gli Ambarri stessi, anima e corpo legati agli Edui (abitavano a cavallo della Saona, a nord di Lione: li ricordano le città di Ambèrieu e Ambronay), e gli Ambarri stessi, popolo fra i minimi, che cosa aggiungono alla protesta ufficialmente formulata e condotta dai loro potenti patroni? Unico appello consistente e inoppugnabile sembrerebbe perciò il primo. Furono dunque gli Edui che invitarono Cesare a uscire fuori della Provincia; ovvero, più esattamente: che invitarono Cesare, già fuori della Provincia, a prendere iniziative belliche contro gli Elvezi, i quali si trovavano di passaggio per il loro territorio sotto protezione di un loro alto personaggio. Ma poteva, allora, un generale, proconsole che fosse, uscire dai confini del suo Stato e intraprendere atti di ostilità contro altro popolo su invito straniero e senza autorizzazione del suo governo? Non lo poteva neppure allora. Ma Cesare aveva in tasca un decreto senatoriale (lo ant1c1p1amo perchè ci verrà mostrato ufficialmente in altra, prossima, occasione),· decreto di due anni e poco più, il quale suonava quasi testualmente così: - Consoli Marco Messala e Marco Pisone, il Senato delibera che chiunque governi la Provincia, uti quicumque Galliam provinciam obtineret, deve difendere - purchè possa farlo senza danno dello Stato, quod commodo rei publicae facere posset, gli Edui e gli altri amici del Popolo Romano, Haeduos ceterosque amicos popùli romani defenderet. E gli Edui (anticipiamo di poco anche questo) erano in sì buone relazioni con Roma, da oltre sessant'anni, che dal Senato venivano spesso chiamati, ambito titolo d'onore, amici e consanguinei del Popolo Romano, fratres consanguineosque. Alleati quindi sicuri, tradizionali, che così come avevano reso ottimi servizi nel passato ~ lo hanno appena detto, a titolo di credito, i loro ambasciatori - avrebbero potuto renderli nel futuro.


30 Vien fatto però di chiedersi : come mai un contegno del tutto passivo in un papalo ricco e numeroso verso queste masse elvetiche in marcia, e quindi non difficilmente vulnerabili, che devastano campi, traggono in schiavitù, saccheggiano città? Per paco che gli Edui si fossero impegnati con le armi, Cesare - che ora deve dimostrare a Roma l'urgenza e l'ineluttabilità delle sue iniziative - non avrebbe certo taciuto, tutt'altro, una contingenza di tanta impartanza. E ancora: Dumnorige, amico e intercessore ,degli Elvezi, che ne pensa della nuova situazione? dove- si trova?

IL

FATTO Dl TRÉVOUX.

Una nota idillica: è un fiume, la Saona, flumen est Arar, che, attraverso le terre degli Edui e dei Sequani, affluisce nel Rodano con incredibile lentezza, Rhodanum influit incredibili lenitate; sì lento, che l'occhio non riesce a distinguere da che parte esso scorra, ita ut oculis in utram partem fluat iudicari non possit. Una nota di terrore: Cesare, con tre legioni, raggiunge quegli Elvezz che non avevano ancora passato la Saona: assalitili di sorpresa e impacciati dai bagagli, impeditos et inopinantes, in gran parte li uccide, magnam partem eorum concidit: i superstiti cercano salvezza nella fuga e nelle vicine selve. Il fatto avvenne, sembra, in quel <li Trévoux, una trentina di chilometri a nord - ovest di Lione (dove pare che si fosse fermato, appena giunto fra i Segusiavi, l'esercito romano); e avvenne - stando a codeste attendibili congetture topografiche - nelle- prime ore del mattino, dato che Cesare partì dagli accampamenti nell'ora del cambio della terza guardia notturna, alla terza vigilia, circa a mezzanotte. Quando Cesare era appena giunto in quel di Lione, gli Elvezi non avevano ancora tutti passato l'Arar (il nome Sauconoa, Saona, è di qualche secolo dopo) e perciò non erano ancora tutti usciti dal territorio dei Sequani: avevano passato il fiume - così Cesare seppe dagli esploratori - i tre quarti di loro: circa la quarta parte, quella or ora colpita, era ancora sulla sinistra del fiume. Tre legioni, dunque, con una marcia notturna di cinque o sei ore, all'improvviso, sbucando forse dai boschi, àvevano posto rapidamente fuori giuoco circa una quarta parte degli Elvezi; senza che le altre tre parti, col fiume in mezzo, potessero accorrere in aiuto. ~entissima, penosa, la prima parte della marcia dei migranti attraverso le terre sequane se in un mese e mezzo circa, avevano percorso, da Ginevra sino alla Saona, appena un duecento chilometri; marcia, a giudicare dal fatw di Trévoux, senza sospetto, senza dispositivi di sicurez:ta. Proprio vero dunque che gli Elvezi, una volta rinunciato all'itineario per la Provincia, non si aspettavano più, ormai, alcuna ingerenza rom na?


Cesare dice: « !.A comunftà colà sorpresa e distrutta ( tutto il popolo elvetico è diviso in quattro comunità) era quella dei Tigurini, is pagus appellabatur Tigurinus; cioè proprio quella comunità che, a memoria dei padri, uscita dalle sue terre, aveva ucciso il console Lucio Cassio e il di lui esercito fatto passare sotto il giogo ». La sorpresa di Trévoux fu sì improvvisa e violenta, con tre legioni, che è difficile per non dire impossibile supparre che i T igurini avessero patuto, nonchè reagire, porre in salvo vecchi donne bambini. Cesare sente il bisogno di commentare questa operazione con particolare, e quasi si direbbe mistica, intonazione. Dice: « E così, fosse caso o volontà degli dei immortali, sive casu sive consilio deorum immortalium, quella comunità elvetica che al Popolo Romano aveva inflitto grave danno fu proprio essa la prima a pagarne il fio». E aggiunge argomento a quei tempi lecito anche in pubbliche dichiarazioni: « Vendicai offese non solo pubbliche ma anche private: i Tigurini, nella battaglia fatale al console Cassio, avevano ucciso l'avo di mio suocero, il Legato Lucio Pisone ». A motivi palitici e militari si aggiunga dunque divino volere e onore familiare. DrsPOSTI ALLA PACE •.. .

Dopo tal combattimento, h~c proelio facto, (combattimento?), Cesare, per poter raggiungere il resto degli Elvezt, fa costruire un ponte sulla Saona e vi fa passare l'esercito. Nesrnn indugio: si patrebbe anche supparre l'inizio dei lavori del ponte appena conclusa l'operazione Trévoux. Dice: « Gli Elvezt, turbati, commoti, dal mio improvviso sopraggiungere e dal vedere che ero riuscito a fare in un sol giorno, uno die, quel passaggio del fiume che essi avevano compiuto faticosamente in venti, mi inviano ambasciatori, con a capo Divicone ch'era stato duce degli Elvezz nella guerra contro Cassio >> . ·Coloro che hanno testè pagato il fio della disfatta di Cassio non potevano essere che nipati <lei combattenti di allora; ma ecco, ora, ancora alla ribalta, di quei combattenti il capo, il quale se allora intorno ai trent'anni ora lo è ~gli ottanta. Così disse Divicone a Cesare: - Se il Popolo Romano fa pace con gli Elvezt, gli Elvez1 andranno e rimarranno in quel territorio dove Voi vorrete che si stabiliscano, ubi eos Caesar constituisset atque voluisset ... Gli Elvezi - assai più « commoti », diremmo, per l'immane sciagura di Trévoux che per la costruzione del ponte in un sol giorno - piegano dunque il capo: non più il ricco Saintonge ma dove al consiglio e alla volontà del proconsole fosse piaciuto.


32 Divicone volle però far anche sentire la dignità del p0polo che rappresentava . . . . Che se Voi, invece, insistete col perseguitarci con la guerra, non dimenticate la disavventura toccata nel passato al Popolo Romano e il tradizionale valore degli Elvezi .. . Le trattative dovevano già essere divenute poco serene, ammesso che lo fossero mai state, quando Divicone, vegliardo di fronte a quarantenne, fece un apprezzamento del fatto di Trévoux sotto forma di pungente esortazione . . . . L'aver potuto cogliere alla sprovvista. una nostra comunità - mentre le altre, che avevano passato il fiume, non potevano darle aiuto - non deve farvi sopravvalutare le vostre capacità e disprezzare le nostre ... Le trattative dovevano già volgere al peggio se Divicone non volle o non seppe più contenere il suo sdegno per la condotta, secondo lui sleale, dei Romani a Trévoux. . . . Noi abbiamo appreso dai più lontani nostri antenati a combattere più col valore che con astuzie e imboscate, quam dolo aut insidiis ... Le trattative dovevano essere già quasi fallite se Divicone osò lanciare al generale romano ingiurioso e lugubre ammonimento . . . . Badate a che questi luoghi, dove oggi gli Elvezi sostano, non prendano nome e fama da una sventura del Popolo Romano e dalla strage del suo esercito. Cesare così rispose: C'è in me tanto minor possibilità di incertezze sul da farsi proprio perchè ho presenti alla memoria gli avvenimenti da voi ricordati. Avvenimenti tanto per me più dolorosi quanto minore la colpa del Popolo Romano. Se, infatti, il Popolo Romano avesse avuto coscienza di aver offeso qualcuno, non gli sarebbe stato difficile stare in guardia; ma ciò che lo trasse in inganno fu appunto la coscienza di non aver commesso cosa alcuna di cui temere e pertanto pensava di non dover temere senza ragione ... Il console Cassio fu sconfitto per la sua assoluta buona fede verso l'esercito vostro: proprio voi, dunque, ardite chiamare proditorio l'attacco di Trévoux ? · ... Che se anche io volessi dimenticare il vecchio insulto, come non ricordare le vostre recenti offese? Avet~ tentato di ottener con la forza il negato passaggio per l(' Provincia; avete gravemente danneggiato e gli Edui e gli Ambarri e gli Allobrogi . .. Fatti, questi, ancora respiranti, ma che forse non si prestavano a reali é precise contestazioni, a lungo discorso;- onde Cesare ritorna a1I'ombra sì a lungo invendicata del console Cassio. / ... Che voi possiate ancora gloriarvi con tanta insolenza della vostra vittoria, e stupirvi di non averci ancora pagato il conto delle vostre offese, la causa è una sola: gli dei immortali sogliono talvolta concedere a coloro che vogliono punire dei loro delitti liete fortune e lunga· impunità affinchè, poi, maggiormente soffrano del cambiamento ...


33 E' la risposta, distaccata e solenne, all'ingiurioso e lugubre ammonimento di Divicone. . . . Ebbene, nonostante tutto, :se voi mi date ostaggi, si obsi<les ab ii-s sibi dentur, - ostaggi che mi garantiscano l'adempimento delle vostre prome:s.re - e :se risarcirete dei danni gli Edui e loro alleati nonchè gli Allobrogi d'oltre Rodano, io :sono dùposto a fare con voi la pace., A codesta proposizione conclusivca .Divicone ribattè: Ostaggi r Questo il comandamento che gli Elvezi hanno ricevuto dai loro antenati: prender.e ostaggi non darne!, accipere obsides non dare. E ciò ben :sa proprio il Popolo Romano!, eius rei populum romanum esse testem. Data tal risposta, Divicone si allontanò, ho.e responso dato discessit. Trattative fallite, e non per altro, stando a quanto qui è detto, che per la protervia degli El vez1. Senonchè Cesare non ci ha dato l'informazione più importante che certo tutti attendevamo (ma ce la farà dare, presto, dai fatti): se gli Elvezi dovessero dargli ostaggi a garanzia che si sarebbero acconten:tati delle terre che egli avrebbe loro assegnate (ma dove? non è egli stesso in terie d'altri?) oppure a garanzia del loro ritorno nello stretto territorio che avevano appena lasciato. Solo una constatazione - di quelle meramente militari, un po' cruda possiamo e dobbiamo fare con sicurezza ora che il fallimento delle trattative riporterà la ripresa ,delle 'Ostilità; questa: ,che nelle mani del generale romano è rimasta una grossa vincita, dato che un quarto circa del popolo elvetico è stato spazzato via, .a Trévoux, con un soffio. Proditoria aggressione? Mancata discriminazione fr.a combattenti e po- , polazione civile? Che reazione avrebbe ciò provocato negli altri popoli della. Gallia? Come avrebbero giudicato tali fatti a Roma? EPISODIO

CONTURBANTE.

Il giorno dopo il colloquio, gli Elve:ii, da .quel luogo, - si trovavano anch'essi nel teuitorio dei Segusiavi a occidente della Saona - riprendono la marcia. Lo stesso fa Cesare. E in quello stesso giorno il primo combattimento. Cesare manda avanti tutta la cavalleria, circa quattromila cavalli, per. conoscere gli itinerari tenuti dal nemico. Compito, diremmo oggi, solo esplorativo. · / Quei quattromila cavalieri gli provenivano in parte da tutta la Provinciq e in parte - ma come ·si spiega questo invio contemporaneo quasi all'am~ basceria? - dagli Edui e loro alleati. (La cavalleria romana composta _,,. e così dovremo considerarla sempre di sole truppe ausiliarie: tutta di Galli; con propri comandanti i contingenti 3· -

u.s.


34 concessi dai popoli fuori Provincia, romani solo i comandanti - romanizzati della Provincia, in genere, i graduati - nei contingenti assoldati). Ecco il comunicato romano sul primo combattimento, uno scontro delle cavallerie forse poco dopo l'inizio della marcia: - J nostri cavalieri, avendo inseguito con troppa foga , cupidius, la retroguardia nemica, attaccano battaglia con la cavalleria elvetica in luogo a essi sfavorevole, alieno loco: s,,bimmo alcune poche perdite. Gli Elvezt, imbaldanziti da questo scontro favorevole - perchè con soli cinquecento cavalieri ne avevano respinto sì gran numero - cominciarono a fermarsi con maggiore audacia, audacius subsistere, e, con la retroguardia, a provocare i nostri a battaglia. Cinquecento cavalieri - tutta qui la cavalleria elvetica? - avevano potuto aver ragione di quattrom ila. Cesare dice: « Ma io trattenevo le mie truppe dall'impegnarsi e mi limitai per il momento a impedire al nemico rapine foraggiamento devastazioni. Si marciò così per una quindicina di giorni, .dies circiter quindecim, con una distanza fra la retroguardia elvetica e la nostra avanguardia non più di otto nove chilometri ». L'episodio occorso alla cavalleria romana è dunque serio e grave: quattromila cavalieri respinti da cinquecento e sei legioni - ognuna un organismo bellico formidabile e con una forza combattente, tutte e sei, di circa trentamila uomini - che si limitano, e per quindici giorni, a pedinare un nemico che, a cagione dei bagagli, della popolazione che trascinasi dietro e di tante altre necessità, è lentissimo e dappertutto vul nerabile. Come mai? Ma anche un'altra considerazione occorre far subito. Gli Edui ci sono apparsi per la prima volta con D umnorige, il quale, secondo le intese con l'elvetico Orgetorige, avrebbe dovuto impadronirsi del governo del suo paese <love predominavano potenza e prestigio di suo fratello Diviziaco; ci è poi riapparso lo stesso Dumnorige felice intercessore degli Elvezì presso i Sequani; ma non senza sorpresa abbiamo visto proprio il paese di Duninorige chiedere aiuto a Cesare contro gli Elvez1; e c'è sembrato anche di poter constatare, fondandoci sul silenzio di Cesare, che gli Edui non avevano impugnato le armi, loro per primi, contro quegli Elvezì che pur denunciavano come aggressori e avevano invece, in una con la richiesta <li aiuto, inviato a Cesare un contingente di cavalleria. Atteggiamento politico, <lunq ue, - non si può far a meno di rilevarlo contraddittorio, e meglio si direbbe agitato e confuso.

LA

DENUNZIA DEL

V ERGOBRETO.

Cesare dice: « Frattanto continuavo a chiedere agli Edui, ogni giorno, cotidie, quel frumento che essi mi avevano promesso _con deliberazione ufficiale. Altre possibilità di rifornimenti non avevo: a -eagione del clima freddo,


35 - la Gallia è paese settentrionale _ , non solo il grano nei campi non era ancor maturo, ma non v'erano neppure pascoli in quantità sufficiente ai bisogni. In quanto al grano che ricevevo per nave, navibus (dalla Provincia, risalendo Rodano e Saona), non potevo tJtilizzarlo che in parte, - di mano in mano che i lenti convogli sarebbero giunti - perchè gli Elvezt s'erano già allontanati dalla Saona e io non volevo perdere con essi il contatto, a quibus disce-dere nolebat » . Saremmo a me1tà giugno, quando la messe in Gallia non è ancor pronta; perciò situazione logistica sempre più preoccupante: onde le ininterrotte sollecitazioni alle autorità edue, risiedenti a Bibracte. Ogni giorno urna sollecitazione da parte di Cesare e ogni giorno, invece del grano, una risposta illusoria da parte delle autorità edue: gli Edui differivano la consegna del grano di giorno in giorno, diem ex die ducere Haedui: lo stiamo raccogliendo, è in viaggio, sta per giungere, conferri comportari adesse dicere, essi rispondevano. Gli &lui dunque non solo avevano subito chiesto aiuto e inviato il contingente di cavalleria: avevano anche, e con pubblica deliberazione, promesso il rifornimento di grano. Ma perchè allora questo indugio invece di favorire con ogni mezzo la marcia di Cesare? E' vçro, o esagerazione se non falso, che gli Elved stiano devastando i loro campi, traggano i loro figli in schiavitù, espugnino le loro città? Cesare, pertanto, accortosi che gli Edui volevano tirarla in lungo, quando, invece, era prossimo il giorno, diem instare, in cui bisognava distribuire il grano alle truppe ...

Ma il quadro eduo si fa, a questo punto, addirittura indecifrabile.

Ci sarà, in effetti, di che smarnrs1: le maggiori autorità edue responsabili della politica del paese che noi avevamo il diritto di ritenere risiedenti nella lor sede naturale, in Bibracte, le troveremo invece, in gran parte, rifugiate presso l'esercito di Cesare. Quale il motivo? Ma neppur questo ci verrà, per ora, detto, nè ci riuscirà, per ora, di scoprire. Che forse esse avevano abbandonato la capitale, come verrebbe fatto di supporre, per sfuggire a prepotenze, effettive o solo temute, degli Elvezt di passaggio? No, neppur di ciò v'è traccia, nè ora nè poi. Dunque: Cesare, accortosi che volevano tirarla in lungo mentre invece . era prossimo il giorno della quindicinale distribuzione di viveri alle truppe, ... convocati i capi degli Edui che erano in gran numero presso di lui, convocatis eorum principibus quorum magnam copiam in castris habebat, chiese spiegazione dei rifornimenti ufficialmente promessi e non giunti.


Fra quei capi, finanche, il supremo magistrato dello Stato, qui summo magistratui praeerat; magistrato dagli Edui denominato Vergobreto, quem vergobretum appellant Haedui. Il Vergobr~to dura in carica un anno, durante il quale ha poteri illimitati sui suoi sudditi, sino a quello di vita e di morte. Grave rimp,rovero fece Cesare a quei signori riuniti: Il grano io non posso nè comprarlo nè trarlo dai campi e' voi avete il coraggio di venirmi meno - in un momento sì critico, a sì poca distanza dai nemici - in una guerra che ho intrapreso perchè sospinto, in gran parte, magna ex parte (non disse esclusivamènte), dalle vostre istanze, eoium precibus adductus. Più soprattutto mi rammarico che abbiate tradito la fiducia che avevo in voi riposta. Ma dovette trattarsi, assai più <li quanto qui non sia detto, di una pesante e concitata" requisitoria, non priva forse di minacce. E se ne videro subito gli effetti: finalm ente, il Vergobreto, - aveva nome Lisco - spinto dal discorso di Cesare, svela ciò che aveva sino ad allora taciuto. Confessioni forzate; ma tuttavia sincera esplosione di animo amareggiato dagli interni dissensi politici del suo paese. Ci sono persone, e non poche, - egli disse - che hanno grandissima autontà sulla plebe e che, pur essendo privati cittadini, hanno più potere degli stessi magistrati, qui privatim plus possint quam ipsi magistratus. Avviene dtmque clu. costoro, con argomento sedizioso e maligno, dissuadano la moltitudine dalla consegna del grano. Questo l'argomento che essi vanno propalando: se noi Edui non possiamo ormai più conservare il predominio sulla Gallia, è preferibile essere soggetti ad altri Galli - siano pure Elvezt piuttosto che ai Romani, Gallorum quam Romanorum imperi a perferre. Perchè nessuno - essi, ascoltate, osano aggiungere - deve farsi illusioni: vinti gli Elvez1, i Romani priveranno della libertà e gli Edui e tutta l'altra Gallia. E sono proprio tali persone che riferiscono al nemico i nostri pro- · getti e cià che avviene negli accampamenti. lo nulla posso per tenerli a freno. Da Voi costretto, coactus, ho denunziato sì grave situazione: ma ben comprendo il pericolo che corro, e solo per questo motivo il più a lungo che mi è stato possibilè ho taciuto. Situazione interna instabile, eppertanto preoccupante, quella degli Edui se presso di essi « privato può più di magistrato »; e proprio fra gli &lui, che appena ieri hanno chiesto aiuto al Popolo Romano vantando le loro benemerenze, proprio fra loro serpeggi~ diffidenza circa il disinteresse dell'intervento del generaJe romano nella 'questione elvetica. Cesare dice: « Ben capivo a chi Lisco alludesse: a Dumnorige, fratello di Diviziaco, Dumnorigem Divitiaci fratrem. Non volendo però approfondire la cosa in presenza di troppe persone, sciolsi rapidamente l'adunata e trattenni Lisco1" Il quale, infatti, richiesto da solo a solo di maggiori parti-


37 colari su quel che aveva detto in pubblico, parlò con maggzor franchezza e audacia, liberius atque audacius ». Ma è solo una calunnia che Dumnorige informi gli E~vez~ dei progetti romani e di ciò che avviene negli accampamenti, che si comporti insomma da spia; per far ciò, occorrerebbç che anche lui - lui sposo di donna elvetica e protettore della migrazione elvetica, - si fosse rifùgiato presso Cesare: un assurdo. L 'INCHIESTA.

Cesare chiese informazioni, in segreto, anche ad altri e venne così a sapere che quanto Lisco aveva riferito era vero: si trattava proprio di Dumnorige, ipsum esse Dumnorigem ... Anche Dumnorige, altro che assurdo, era dunque presso Cesare. Anzi: era Dumnorige che comandava il contingente di cavalleria eduo mandato a Cesare. Anzi : dall'inchiesta di Cesare risultò che, nell'insuccesso equestre di pochi giorni prima, l'inizio del fugone, initium eius fugae, era dovuto proprio a Dumnorige e ai suoi cavalieri, factum a Dumnorige atque eius equitibus: era stata la fuga di costoro a gettare il panico nella restante cavalleria. Non dunque s~lo combattimento in luogo sfavorevole con poche perdite, come dal comunicato: ma fuga, e fuga generale. Dnmnorige - e, naturalmente, gli Edui che la pensavano come lui comincia dunque a scoprirsi. Ma che cosa egli rappresenta nel suo paese? Che cosa vtiole? I ragguagli sulla ma vita privata e pubblica che Cesare a questo punto ci dà lasciamoli per ora da parte (li rievocheremo forse con maggior profitto fra quattro anni, in memorabile occasione): per ora èi basti rilevarne quello che riteniamo di Dumnorige il pensiero più concreto e incalzante. Questo: se le cose- vanno male per i Romani, io ho buonissime speranze di ottenere, con l'aiuto degli Elvezi, il regno del mio paese: sotto l'impero del Popolo Romano invece ... Pensiero che, naturalmente, non propalava; si faceva però seminatore de! sospetto che la migrazione elvetica potesse divenire al Popolo Romano pretesto per allungare la mano fuori della Provincia, e ingerirsi nelle cose interne della libera Gallia. E perciò, chi se non lui: l'autore"della calunniosa profezia: « nessuno si faccia illusioni: una volta vinti gli Elvez1, i Romani priveranno della libertà e gli Edui e la restante Gallia »? Cesare dice : « Venuto a conoscenza di tali fatti, siccome a codesti sospetti, ad has suspiciones, si aggiungevano fatti certissimi, certissimae res ... ». L'inizio eduo della fuga, come pure lo spionaggio, rientra dunque nelle « suspiciones », nei sospetti, gravi e fondati che possano sembrare: come


infatti affermare con tranquilla coscienza che il contingente eduo è fuggito per tradimento anzichè per prevalenza, valore manovra o altro, del nemico? E non è pur vero che la cavalleria romana ha avanzato con troppa foga, cupi,dius, e s'è impegnata in luogo sfavorevole, alieno loco ? Dice: « Siccome a codesti sospetti si aggiungevano fatti certissimi, ... ritenevo che c'erano abbastanza ragioni o per punirlo io stesso o per ordinare al suo popolo di punirlo». Questi i fatti certissimi : D umnorige aveva fatto passare gli Elvezt per il paese dei Sequani; s'era fatto, anzi, intermediario per lo scambio di ostaggi; che tutto questo aveva fatto non solo senza autorizzazione di Cesare e del popolo eduo ma a loro insaputa, iniussu suo et civitatis etiam inscientibus ipsis; ad accursarlo, infine, era lo stesso supremo magistrato degli Edui. Veniamo così a sapere, per implicita e tuttavia sicura dichiarazione, che la migrazione elvetica, anche dopo la rinuncia all'itinerario per la Provincia, è questione che interessa sì urgentemente e da vicino il Popclo Romano sino al punto che un suo proconsole ritiene che sia in sua facoltà o punire lui direttamente Dumnorige o pretendere che lo punisca il suo governo; e non proprio perchè Dumnorige, in qualità di combattente nelle file romane, abbia abbandonato per tradimento il posto in battaglia o abbia fatto la spia « suspiciones » non <e certissimae res » - m a perchè pri ma di immischiarsi nella migrazione elvetica avrebbe avuto l'obbligo di chiedere il consenw al suo governo e, assieme a questo, al Popolo Romano. Cesare dice: cc Dal punirlo io direttamente o dall'ordinare che lo punissero, mi tratteneva una sola considerazione . .. >> . D1v1z1Aco. Esce dalla penombra, a questo punto, e comincia a venire in piena luce D iviziaco, il fratello di Dumnorige, anche lui presso Cesare: uomo di importanza decisiva - ce ne convinceremo fra un mese e paco più - per il destino della Gallia. Dice: « Mi tratteneva una sola considerazione: di Diviziaco avevo conosciuto la grande devozione per il Popolo Romano, summum in pcpulum romanum studium, l'affetto per me, la lealtà, la giustizia, la moderazione: temevo perciò, con la punizione di Dumnorige, di offendere di Diviziaco l'animo ». Piena reciproca conoscenza, anzi .vìva amicizia, fra due uomini di due mondi diversi e lontani: quali circostanze l'avevano originata e favorita? Cesare dunque indugiò; volle prima parlarne a Diviziaco : pertanto, prima di cqminciare comunque ad agire, fece chiamare presso di sè D iviziaco. E gli avrebqe sicuramente parlato a quattr'occhi se non ci fosse stato il solito ostacolo della lingua; fece di tutto, però, perchè il colloquio restasse se-


39 greto: allontanati gli interpreti ordinari, discorse con Diviziaco per mezzo di Caio Valerio Truci/lo ( gran personaggio, costui, della Gallia romana, romanizzato, come si rileva dal nome - con Cesare in grande dimestichezza e nel quale Cesare ognora riponeva la più assoluta fiducia).

Ma Cesare non fece altro che comunicare a Diviziaco la decisione da lui già presa di punire, in un modo o nell'altro, Dumnorige ; gliela comunicò prima di renderla di pubblica ragione, ecco tutto. Gli ricordò quel che, Diviziaco stesso presente, ipso praesente, era stato detto di Dumnorige nella recente adunanza; gli riferì quel che ciascuno di Dumnorige gli aveva poi detto separatamente: lo pregò ed esortò infine, petit atque hortatur, a non offendersi se - dopo, beninteso, aver ascoltato accuse e difese - avrebbe lui stesso, vel ipse, preso o dal popolo eduo, vel civitatem, fatto prendere un provvedimento a carico del fratello.

Procedimento di doveroso riguardo all'amico, dunque, non altro. Ma Diviziaco, dirottamente piangendo, abbracciò Cesare, multis cum lacrimis Caesarem complexus, e cominciò a scongiurarlo di non prendere qualche grave decisione contro il fratello. Tutto ciò che Voi avete detto è purtroppo vero, illa esse vera. E nessuno ha motivo di soffrirne più di me; perchè quando io già godevo di grandissimo prestigio - nel mio paese come in tutto il resto della Gallia, domi atque in reliqua Gallia, - mio fratello, ancor giovane, non ne aveva che pochissimo: sono stato io che l'ho aiutato a salire. M a egli s'è poi servito dei mezzi e della potenza che a me doveva non solo per diminuire il mio prestigio ma per tentare la mia rovina. Tut• tavia: io non posso restare insensibile al vincolo fraterno e al pubblico giudizio. Perchè se a mio fratello toccherà qualche grave pena per iniziativa vostra, non ci sarà alcuno che _,. pensando al posto che io godo nella vostra amicizia _,. non sospetterà, perlomeno, il mio consenso; sospetto che mi alienerebbe per sempre gli animi di tutta la Gallia.

Quest'ultimo argomento Diviziaco avrebbe pctuto espcrlo a ciglio asciutto, tanto di per sè valido: mai facile l'assoluzione per chi congiura con lo straniero contro i suoi; e qui, pci, Dumnorige (eh, sì, proviamoci a far finta di non udirlo) è a cavallo: s'è pesto a fare il geloso e della libertà edua e della libertà di tutta la Gallia. Tanto ,dunque il danno che ne deriverebbe a Diviziaco _,. il quale ha per sua prima qualità, come abbiamo appena inteso, la somma devozione al Popolo Romano - che Dumnorige è, almeno per ora, intoccabile. Caio Valerio Trucillo, sicchè, potè godere, Gallo qual era, della conclusione del colloquio: mentre Diviziaco continua, piangendo e pregando, a chiedere il perdono di Cesare, Cesare gli prende la destra, eius dextram prehendit, e, consolatolo, lo invita a non aggiungere più altro: La vostra amicizia - gli dice - mi è sì cara che condonerò al vostro desiderio e alle


vostre preghiere l'offesa allo Stato e il dolore che ne ho provato, et rei publicae iniuriam et suum dolorem. Ma un altro atto segreto, salvo che per Trucillo, si ebbe forse subito dopo il colloquio: Cesare fa chiamare Dumnorige e, alla presenza del fratello, gli dice quel che trovava da rimproverargli: e quanto aveva constatato egli stesso e quanto lamentavano le stesse autorità edue. Lo ammonisce a evitare per l'avvenire ogni sospetto, ut in reliquum tempus suspiciones vitet. Lo congeda con un'umiliazione: quel che voi avete fatto non a voi ma a vostro fratello Diviziaco condono. La faccenda sembra, così, chiusa: evitato (ma doveva essere proprio questo il segreto intento del generale romano) che Dumnorige, sul patibolo in carcere proscritto, proiettasse fastidiosa ombra sull'opera disinteressata del proconsole in Gallia. Ma Cesare ci fa anche sapere (e ce ne ricorderemo fra quattro anni) che prese subito spe.:iali precauzioni.: a Dumnorige pose vicino persone, custodes _ponit, - signoroni edui del doppio giuoco, evidentemente - incaricate di riferirgli quel che fa e con chi parla. Una riconferma dell'importanza politica, forse in tutto il mondo gallico, di quest'uomo, sembrerebbe, piuttosto giovane.

Nel popolo eduo ci sono dunque, circa la migrazione elvetica, e per quale altro sia motivo, due opposte correnti; e non è senza forza, tutt'altro, quella che ha paralizzato agrico1tori e autorità rimaste a Bibracte impedendo la consegna ai Romani del grano ufficialmente promesso. Lo stesso fatto di Trévoux sembra, ora, che cambi volto: che i Galli non solo Elvezi ed Edui ma tutti i Galli - lo considerino, barbari quali sono, proditoria aggressione, strage di innocenti, segno, in -definitiva, di debolezza militare? · Gli Elvezi, dopo il salasso .di Tr.évoux, avrebbero dovuto consegnare gli ostaggi e far ritorno, se questo il volere del generale romano, alle terre di partenza: hanno invece, e proprio alla richiesta di ostaggi, rialzato orgogliosamente il capo e ripreso la strada per il Saintonge. Possibile tal condotta se si sentissero soli? Quali promesse e garanzie li accompagnano ? La cavalleria romana è, sì, su quattromila cavalli, ma, improvvisata ed eterogenea, occorrerà del tempo prima che· raggiunga una soddisfacente efficienza. E quale sicurezza possa offrire in futuro il contingente eduo, forse il più numeroso, lo dice il recente scoµtro con gli Elvezi e, soprattutto, l'ago della politica edua che oscilla forte. Tutt'altro che .disprezzabile, infine, anche la consistenza militare degli Elvez1 se Cesare ci ha appena detto che, imbaldanziti dal successo equestre, essi hanno osato fermarsi con più aodacia e, persino, .provocare i Romani a battaglia -con la loro retroguardia di truppe a piedi.


41 MUTANO PIANO E DIREZIONE DI MARCIA L'ABBAGLIO DI

Comm10.

Non è valsa gran che la costruzione in un sol giorno del ponte sulla Saona se, poi, sei legioni e quattromila cavalli devono segnare il passo dietro nemico che dovrebbe avere assai più interesse a marciare che a combattere. Circa quindici giorni, dies circiter quindecim, di operazioni al rallentatore, e la più gran parte proprio nel territorio degli Edui, sotto i loro occhi. Bisognerebbe che il generale romano rompesse l'indugio al più presto se vuole che presso gli Edui magistrato possa più <li privato e siano a lui inviate, con l'urgenza che occorre, le vettovaglie ormai indispensabili. Dice: « Nello stesso giorno in cui chiusi l'inchiesta su Dumnorige, informato dagli esploratori che i nemici l erano f ermatì sotto un monte a circa dodici chilometri dai nostri accampamenti, mandai a riconoscere la namra di quel monte e quali ne fossero, tutt'int.orno, gli accessi. Mi fu riferito trattarsi di posizioni facili». Il monte, secondo accettabili ipotesi , è quello dove oggi sorge Sanvignes e gli accampamenti romani, a sud - est di esso, erano a Saint Romain sous Gourdon: territorio di Montceau Les Mines. Dal territorio ài Lione a occidente della Saona, dove avvenne il colloquio <li Cesare con Divicone, a tali località interèorre una distanza di circa centoquaranta chilometri: Elvez1 e Romani avevano dunque marciato davvero lentamente nei quindici giorni dal colloquio di Divicone alla chiusura dell'inchiesta su Dumnorige; una media giornaliera neppure di dieci chilometri. Ma ritorniamo all'informazione che Cesare ha appena ricevuta: i vasti accampamenti degli Elvez1 sono in quel di Sanvignes, ai piedi del monte, e il territorio di Sanvignes dista da quello di Saint Romain, dove sono i · Romani, una dozzina <li chilometri. Dice: « Ordinai al Legato Tito Labieno di partire dagli accampamenti con due legioni a mezzanotte circa, e di occupare la sommità di quel monte, summum iugum montis: a queste forze dotJet1ano essere di guida gli stessi. che at1et1ano /.atto poc'anzi la ricognizione. A Labieno esposi ciò clu i ~ det10 di fare. lo, circa tre ore dopo, mi diressi contro il nemico, reguenda tli. questo lo stus-o itinerario, facendomi precedere da tutta la cat1alle:ria, equit1r tumque omnem; e innanzi alla cat1alleria inviai esploratori a cavaUo al ca,mando di P. Considio, P. Considius cum exploratoribus. >). . H a dunque deciso di sorprendere gli Elvezi alle primissime luci dd gtorno. . Se Labieno riuscirà a occupare i.o piena notte, di SO.rpE"e5-a, la sommità dì quel monte, Cesare - dispone ~ i esploratori, di Mta la o:valleria, di quattro legioni - farà il resto.


Molto dipenderà anche da P. Considio (centurione anziano che aveva combattuto sotto Silla e sotto Crasso. Cesare dice di lui: « era ritenuto professionalmente un asso, rei militaris peritissimus ». « Era ritenuto » : Cesare non ne aveva dunque una conoscenza diretta), molto ,dipenderà, pertanto, anche da Considio: appena questi avvertirà e comunicherà a Cesare la presenza delle truppe romane sulla sommità del monte, si avrà più rapida e scoperta l'avanzata di Cesare verso gli accampam enti nemici e, contemporaneo, l'att..cco di sorpresa di Labieno. Non battaglia, dunque, ma azione di ~rpresa: il buon esito quindi condizionato dalla occupazione, che risulti al nemico inavvertita, della sommità del monte e dalla tempestiva informazione di Considio. E tutto procedè bene si no all'alba. All'alba - quando le truppe di Cesare erano dagli accampamenti nemici a poco più di due chilometri - un fulmine a ciel sereno: ali'al ba, prima luce, Considio, a briglia sciolta, equo admisso, piomba su Cesare e gli dice: fermatevi: il monte che doveva essere occupato da Labieno è invece già occupato dai nemici, ab hostibus teneri . Se ne sono sicuro? ho riconosciuto con questi occhi armi e cimieri gallici, id se a gallicis armis atque insignibus cognovisse. Sorpresa fallita. Ma niente, in fondo, da temere: si tratta di nemico fermo, da cui Labieno saprà ben guardarsi per conto proprio; e le quattro legioni di Cesare hanno davanti a sè tutta la cavalleria. Ma Cesare non la pensa così: ritira le sue truppe su un colle vicino e le schiera a battaglia, aciem instruit. Sicchè, all'improvviso, dalla marcia in tensione offensiva alla stasi in tensione difensiva. Finalmente, ma a giorno avanzato, si venne a sapere, per mezzo di esploratori, la verità: ma che armi e « caschi a corni » e cimieri e pennacchi gallici!, sulla cima del monte, puntualmente raggiunta durante la notte, c'era, e come, Labieno ! Il qual Labieno - attenendosi all'ordine di non cominciare l'azione se non quando le truppe di Cesare fossero comparse davanti agli accampamenti nemici, in modo che l'attacco avvenisse contemporaneamente da tutte le parti, undique uno tempore, - aspettava le truppe di Cesare e si asteneva, naturalmente, dal combattere. Quel Considio a briglia sciolta aveva rovinato tutto. Solo dunque a giorno avanzato, ::- ormai troppo tardi per riparare al mal fatto - Cesare venne a sapere e che il monte era occupato dai suoi e che gli Elvez1 avevano ripreso, come se nulla fosse, la marcia e che insomma Considio, per effetto di fifa, timore perterritum, aveva dato a Cesare per cosa veduta, pro viso, ciò che in realtà veduto non aveva, quod non vidisset. Episodio, insomma, ,poco piacevole; di quelli che anche allora dovevano lasciare la bocca amara e dar luogo a mormorazioni : sarà la stanchezza,


43

I probabili luoghi della battaglia di Bibracte (Montmort).

- tre mesi che marciamo - sarà l'audacia di quella poca cavalleria elvetica e la fiacca della nostra, sarà questa quotidiana sfida alla battaglia che subiamo senza reagire, sarà la fantasia scossa di Considio, sarà tutto quel che volete, certo è che le cose non vanno. La fifa di Considio avete visto che ripercussione ha avuto: e ci siamo fermati, e abbiamo retrocesso sino a posizione sicura, e ci siamo, il che non è poca fatica, addirittura schierati; quando invece, così vicini al monte e con tutta la cavalleria alla mano, bastava allungare il collo per scoprire la verità. Cesare dice: « Per tutto quel giorno ripresi a seguire il nemico con la solita distanza e a fine marcia posi gli accampamenti ad appena quattro chilometri e mezzo dai suoi ». Nessuno sospetti, in altri termini, che il suo intento offensivo sia uscito modificato dal contrattempo provocato da Considio: l'inseguimento ripreso


44 quel giorno stesso e la distanza di sosta dal nemico è questa volta minore del solito, davvero minima. Due giorni fa, appena chiusa la faccenda Dumnorige, era già in corso la ricognizione intorno al monte di Sanvignes; ieri, sorpresa fallita ma, a fine tappa, sosta a soli quattro chilometri e mezzo dagli accampamenti elvetici. Intento offensivo immutato; sebbene solo fondato sulla speranza di ottenere un qualche successo con rapide azioni <li sorpresa. Come infatti pensare a battaglia se non si è sicuri alle spalle? che succederebbe alle spalle, che sicure non sono, .se capitasse un mezzo successo o addirittura un insuccesso? A

BIBRACTE.

Ma l'indomani della sosta ravv1cmat1SS1ma un avvenimento davvero sgradito se non proprio inatteso per i notabili edui, sia quelli presso Cesare che quelli in Bibracte. Dice: « Il giorno appresso a quello -della sosta ravvicinatissima, non mancando ormai che due soli giorni, omnino biduum, alla distribuzione del grano ali' e_sercito, ed essendo Bibracte, la città' degli Edui più grande e più ricca, distante solo ventisette chilometri, pensai che bisognava che provvedessi al vettovagliamento: lasciai quindi gli Elvezz, iter ab Helvetiis avertit, e mi diressi verso Bibracte, ac Bibracte ire contendit ». Caspita: l'esercito romano si dirige sulla capitale edua benchè fosse nelle terre edue solo di passaggio, .con fine specifico ~ limitato. Intercorrevano un trenta chilometri -da Toulon sur Arroux, dove sembra che fossero le legioni, al monte Beuvray, dove sorgeva Bibracte: se Cesare si fece precedere da forieri a cav:3llo questi furono nell'oppido neppure <lue ore dopo la decisione. Che dirà a Roma il Senato di quest'altra spregiudicata iniziativa, di quest'altro atto di forza, questa volta su capitale di popolo << fratello e consanguineo»? La risposta, appaghi o non appaghi, è però pronta e concreta: due soli giorni mancavano alla distribuzione del grano. Sennonchè, le legioni avevano appena iniziata, forse all'alba, la marcia su Bibracte che cominciarono a giungere a Cesare informazioni - che però non diremmo impreviste - di estrema gravità. Dice: « Disertori di Lucio Emifio, decurione della cavalleria gallica, informano il nemico della mia mutata, direzione di marcia ». Sintomo non trascurabile questi mercenari gallici che disertano: ma non fu certo effetto delle informazioni dei disertori l'avvenimento che segue. Dice: « Gli Elvezi, .ria che credessero determinato da paura l'allontanamento dei Romani, - e tanto più che il giorno prim.a, pur essendoci noi schierati su posizioni elevate, non li avevamo attaccati - sia che sperassero di po-


45 terci impedire il rifomimento dei viveri, mutato piano e direzione di marcia, commutato consilio atque itinere converso, cominciarono a inseguire e a provocare a battaglia la nostra retroguardia ». Gli Elvezt osarono prendere essi l'iniziativa della battaglia.

Decisione contraria, però, a ogni logica; tant'è evidente che i Romani che si allontanavano impauriti potesse considerarsi <lagli inseguiti la più grossa fortuna; e non potendosi in alcun modo immaginare come gli Elvezi potessero per primi giungere, senza battaglia, a Bibracte per impedire ai Romani i rifornimenti. Assetati che fossero di vendetta per Trévoux, - il che ha certamente un gran peso in quanto sta per avvenire - com'è possibile che presero una decisione opposta alla loro necessità? Interrogativo che nessuno può scansare e al quale non si potrà, forse, trovare altrove risposta se non in quel poco, sebbene sostanziale e vivido, che sappiamo della situazione interna degli Edui. Dei notabili presso Cesare, Lisco e Diviziaco avevano, sì, voce e seguito in Bibracte, ma chi ora vi contava di più, provvisoria che fosse la sua prevalenza, doveva essere proprio Dumnorige: tant'è vero che il grano - promesso ufficialmente forse da Lisco ma quando era ancora nella .capitale non era giunto, malgrado le pressanti richieste; tant'è vero che Cesare, convinto ormai che non sarebbe più giunto, s'è visto costretto a volgere le spalle al nemico e prendere la strada di Bibracte. Noi il grano non glielo invieremo; ma se il generale romano dovesse prendere, giacchè vi si troverà per inseguirvi, la strada di Bibracte, attaccatelo. Che ci giunga sotto l'oppido scosso, almeno, e affamato : noi le porte non gliele apriremo, noi, dovete crederci, combatteremo sulle mura sino all'estremo. Se codesto il tenore delle intese fra Elvezt e coloro che la pensavano come Dumnorige, nulla più appare contrario alla logica: gli Elvezt erano in effetti imbaldanziti dal contegno poco o niente affatto aggressivo, per circa due settimane, dei Romani; ed erano sicuri, attaccandoli, che Bibracte avrebbe a loro negato il rifornimento. Cesare, appena si accorse dell'intento nemico, ritirò le sue truppe su un colle vicino, in proximum collem, - vicino, sembra, al villaggio di Montmort, a nord-ovest di Toulon sur Arroux - e, per. prender tempo, mandò avanti la cavalleria a sostenere il primo urto nemico. Fu subito certo ~ ma lo era, si direbbe, anche iermattina - che gli Elvezt, sollecitati da nascoste e meno nascoste personalità edue, gli volevano imporre battaglia.


Se, ieri mattina, Elvez1 fermi hanno immediatamente prodotto arresto arretramento schieramento (tanto che Considio stesso - non è piacevole passare alla storia « timore perterritum » - potrebbe rialzare il capo e interloquire: vedete? non ero poi solo io che vedevo Elvez1 dappertutto), se dunque ieri si ebbe un sì brusco mutamento di contegno, oggi, col nemico che ha già cominciato ad attaccare la retroguardia, le cose non han potuto non prendere, con immediatezza se possibile maggiore, un significato assai più serio. Un'imprudenza, senza garanzie sicure ~:la parte degli Edui, e facendosi come trascinare dagli Elvez1, lasciare la Provincia e avventurarsi nel cuore della Gallia indipendente. Al primo insuccesso, o anche solo alla prima incertezza, gli Edui avrebbero potuto ritirare - e come impedirglielo? - il loro forte contingente di cavalleria, da chiunque ora comandato: il che avrebbe anche potuto creare un clima di rivolta generale contro Roma uscita dai confini della Provincia. Cesare desiderava condurre contro gli Elvezt una guerra, come suol dirsi, a economia (e ne aveva le sue buone ragioni che non tarderemo a scoprire), altrimenti avrebbe dato loro battaglia, sicuro di vincerli, subito dopo il passaggio della Saona. Ma ecco che ora è costretto a porre in giuoco tutt'e sei le legioni. Delle quali, solo quattro di veterani, - quella di Ginevra e le tre di Aquileia: ma da quanto non combattevano? - le altre due, imbarazzo non lieve, di reclute; e tutt'e sei, da circa tre mesi, prima per le Alpi e ora per contrade non certo accoglienti, in continuo e ansioso movimento. C'era da contare, è vero, sull'assoluta superiorità dell'armamento e dei procedimenti tattici rispetto alla quasi incon sistenza militare del nemico; ma non altrettanto poteva dirsi dello spirito combattivo: gli Elvez1, guerrieri reputatissimi, gli si sarebbero ora opposti con l'esasperazione della belva contro chi l'ha ferita e l'insegue. Malfido, giova ripetere, quel contingente di cavalleria eduo sotto comando eduo; e, a giudicare dall'insufficienza di tempo più che dalle diserzioni, combattivamente non ancora a punto, anzi malfermi, anche i contingenti della cavalleria provinciale: eppertanto, essendo insicura o inefficiente quest'arma, le sei legioni, granitica che da fermo ognuna sia, sono come affette da miopìa, insufficienti, esse sole, a opera~ioni di vasta portata. Troppe cose, insomma, contrarie o ·incerte. E ora, malgrado queste troppe cose, e anzichè breve sosta recuperatrice a Bibracte e per i rifornimenti e per' mostrare il pugno agli Edui di Dumnorige, ecco che gli Elvez1 (tutti i popoli della Gallia sono alla finestra a farsi i conti) mutano piano e direzione di marcia. E' la battaglia. Ma il generale romano, accada quel che vuole, rifiutarla non può.


47 LA BATTAGLIA DI BIBRACTE GLJ

SCHIERAMENTI.

Le prime molestie degli Elvezi alla retroguardia romana poterono cominciare anche all'alba: ma la battaglia non ebbe inizio, come poi sentiremo, che alle ore tredici circa. Entrambi gli avversari ebbero quindi tempo, in quel di Montmort o dove che fu, di apparecchiarsi all'urto; compiendo entrambi, più o meno contemporaneamente, le stesse essenziali operazioni: la riunione in apposito luogo delle impedimenta e l'organizzazione dello schieramento di battaglia, difensivo il romano, offensivo l'elvetico. Cesare, da parte sua, schiera su tre linee, triplicem aciem instruxit, a metà m onte, in colle medio, le quattro legioni veterane, legionum quattuor veteranarum ... Un generico schieramento di battaglia della fanteria romana può presentarsi, schematicamente, così : legioni affiancate a intervallo variante a seconda del terreno o di altri fattori; in ciascuna legione le dieci coorti disposte a scacchiera: disposizione che consentiva alla coorte - unità tattica fondamentale della battaglia - di conservare una relativa individualità e mobilità. A seconda che alla legione veniva ordinato di dislocare le sue dieci coorti su due o su tre linee - assai meno frequente o raro il caso di schieramento su una linea sola - si otteneva la dupl1ce, o, come nel caso nostro, triplice schiera. Se avanziamo l'ipotesi che Cesare avesse voluto più forti prima e terza schiera, - che cioè ciascuna delle quattro legioni avesse posto, a esempio, cinque coorti in prima schiera, due in seconda e tre in terza - e calcoliamo intorno ai cinquecento uomini la forza di ciascuna coorte, avremmo : la prima schiera, venti coorti, forte di un diecimila uomini; la seconda, otto coorti, un quattromila; la terza, dodici coorti, un seimila. Sulla sommità del monte, in summa iugo, protette pertanto dalle legioni veterane, Cesare collocò le due legioni di reclute e tutto l'altro personale ausiliario: di modo che tutta l'altura - i declivi delle colline di Montmort rivolti al nemico - risultò occupata. Dispose inoltre che il bagaglio che ciascun legionario portava con sè, sarcinas (circa trenta chili), fosse riunito in un sol luogo, - sulla spianata ov'erano le due legioni di reclute - e che le truppe che costituivano lassù quella specie di quarta schiera si fortificassero. Posizione forte, visto così, il complesso collinoso che qui chiamiamo semplicemente Montmort.


Quante forze, vien fatto di. chiedersi, lo attaccheranno? Gli atti alle armi sia degli Elvezi che dei popoli che li avevano segutn erano (anticipiamo il dato) circa novantaduemila, ad milia nonaginta duo. Se ne consideriamo efficienti, comunque armati, solamente i due terzi, parteciperanno alla battaglia un sessantamila uomini: quasi il triplo, a un di presso, della forza delle quattro legioni veterane. Cesare dice: « Gli Eluez1, avendoci seguiti con tutti i loro carri, riunirono le loro impedimenta in un sol luogo, impedimenta in unum locum contulerunt ... ». Nomina solo i carri; ma con i carri vecchi donne bambini che i capi elvetici, dopo l'esperienza di Tré-voux, non potevano pensare di lasciar lontano dalle forze combattenti e senza protezione. Fu certamente lento, perciò, l'avvicinamento degli Elvezt al nemico e il luogo di riunione delle loro impedimenta non potè che trovarsi, per necessità di protezione, non lontano dalle posizioni romane. Tuttavia,- - malgrado la lentezza dell'avvicinamento, la preoccupazione delle famiglie alle spalle., la contropendenza del terreno d 'attacco e l'impcnenza visibik dello schieramento romano - l'avanzata dello schieramento elvetico, appena sistemate le impedimenta, dovè essere, a giudicare dalle seguenti tredici parole,· impressionante: i psi confertissima acie reiecto nostro equitatu falange facta sub primam nostram aciem successerunt: quei combattenti, dopo auer respinto con. formazione a massa la cavalleria, - che forse oppose scarsa resistenza- dùpostisi a serratissima falange - un unico schieramento frontale, forse dì quattro falangi, quante le comunità, se ancor valido qualche residuo dei Tigurini - presero a salire verso la prima schiera romana. Cesare, fatti allontanare dalla vista i cavalli di tutti, omnium ex conspectu remotis equis, il suo per primo, primum suo, - ordine certamente dato quando le masse nemiche erano ancor lontane ma già avvistate - perchè, uguale il pericolo per tutti, nessun.o potesse sperare nella fuga, ut spero fugae tolleret, fatta- ai suoi I"« esortazione », diede il segnale di battaglia. Si privò anche lui, per primo, e patentemente, del cavallo: ma che pensare <fun generale che non può rapidamente spostarsi durante la battaglia? E' che non ci sono mezzi termini: o la muraglia di quattro legioni resiste---. questo soprattutto, per intanto, oc.corre - o tutto è perduto. NESSUNO VOLSE LE SPALLE . . .

Gli Elvezi avanzavano in contropendenza, e a falange tipo gallico e germanico, cioè a masse serrate; subirono pertanto l'effetto micidiale della più comune arma romana da lancio,, il « pilo » (giungeva anche oltre trenta metri con forte penetrazione della punta di ferro, dato anche il peso della lunga asta, nel legno duro degli scudi): i soldati effettuarono, da posizione vantag-


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giosa, il lancio dei pili e scompaginarono facilmente, così, le falangi nemiche. Di mano in mana che una falange veniva scompigliata, essi, tratti i gladi, muovevano all'attacco. Prdiminare lancio di pili unito - lo rileveremo altrove - al tiro inin-· terrotto e massacrante di arcieri e frombolieri ovunque sparsi e nascosti nel1'intemo e alle ali dello schieramento. L'effetto del pilo fu, questa volta, assai pregiudizievole all'azione degli Elvezz; sebbene non solo il pilo ma tutto l'armamento romano, offensivo e difensivo, individuale e collettivo, si giovasse di una superiorità assoluta nei confronti del gallico. Accadde infatti che più scudi furono attraversati da un sol colpo di pilo rimanendone come inchiodati l'uno all'altro: il che potè avvenire sulla prima riga della falange dove gli uomini usavano proteggersi con i grandi scudi tenuti verticali e, margmalmente, l'uno all'altro sovrapposto. Ma il danno più grave e più generale dovè essere indipendente dalle eccezioni - se non esagerazioni o invenzioni - di più scudi inchiodati da un sol colpo; dovè essere questo : che la punta in ferro dolce del pilo, una volta conficcatasi nello scudo, - gli scudi che usavano tener alti e orizzontali, a protezione delle teste, gli uomini delle righe successive alla prima ~ si storceva, sì che coloro a cui ciò accadeva nè rius.eivano a svellere il pilo nè a combattere con suffici.ente libertà di movimento essendo la sinistra, dove la mobilità dello scudo era compromessa da sì trista appendice, impedita. Avvenne pertanto che molti, dopo aver scosso a lungo il braccio, diu iactato brachio, preferirono abbandonare lo scudo e combattere a corpo scoperto, nudo corpore. Il primo scontro sulle pendici di Montmort - a· giudicare anche da quei molti che rinunciano allo scudo ma non a combattere ~ dovè essere durissimo. Gli Elvez1, finalmente, scossi dalle perdite subìte, cominciarono a indietreggiare e a raccogliersi su un'altura più bassa del Montmort e da questo distante circa un chilometro e mezzo. Quando già avevano occupato tale altura - nei pressi, c'è chi congettura, dd villaggio di Armecy - e i Romani si accingevano a riattaccarli ... L'altura ora occupata dagli Elvez1, quale che fosse, doveva trovarsi sulla sinistra dell'iniziale schieramento romano, ovunque questo avvenuto e comunque orientato: i Romani, quindi, per inseguire gli Elvez1 - ferme restando in cima al monte le due legioni di reclute e tutto il resto - dovettero fare, percorrendo su tre schiere quel chilometro e mezzo, una grande conversione a sinistra. A questo punto, conversione durante o appena avvenuta, l'imprevisto. Perchè gli Elvezi s'erano lasciate alle spalle, e a una certa distanza, altre notevoli forze - il che da parte romana quasi certamente non era stato avvertito nè era, forse prevedibile -; le quali forze, chiamate a partecipare alla battaglia, - anche se non sufficientemente orientate, forse, su quanto 4· -

u.s.


50 sino ad allora era davanti a loro avvenuto - giunsero a contatto delle quattro legioni quando queste avevano appena effettuata o, com 'è probabile, stavano effettuando la conversione. Quando dunque gli Elvezt avevano già occupato l'altura di Armecy e i Romani si accingevano a riattaccarli ... Boi e Tulingi (due di quei piccoli popoli d'oltre ~ eno associati alla migrazione), i quali con circa quindicimila uomini chiude'tlano lo schieramento d'attacco elvetico proteggendone le forze più arretrate - erano stati lasciati a protezione immediata degli accampamenti ? - sospesero la marcia e passarono all'-attacco del fianco destro romano, tentandone l'avvolgimento ... Grave avvenimento che ebbe la sua immediata ripercussione sulle posizioni di Armecy: ... gli Elvezz che s'erano ritirati sull'altura, di ciò accortisi, ripresero a resistere e riaccesero il combattimento. T°utto lo schieramento romano - fermo o in movimento che, tutto o parte, fosse - dovè subire, specialmente alle ali destre, una non lieve perturbazione dall'inatteso evento; ma qui non v'è cenno a crisi, e viene solo posta in luce, in termini militari meramente tecnici, la validità della « triplex acies » : i Romani, con una conversione, conversa signa, assunsero due fronti: la prima e seconda schiera si impegnarono a resistere agli Elvezz già vinti e respinti, - e ora ritornati all'attacco da favorevole posizione - la terza - che fu quella che fece la conversione a destra - si impegnò a fronteggiare i sopraggiungenti Boi e Tulingi. Si combattè, così, su due fronti, ancipiti proelio, lungamente e accanitamente, <liu atque acriter. Elvezt e alleati, quando non poterono più resistere ai contrattacchi romani, in parte tornarono sull'altura, altri si raccolsero dov'erano le loro impedimenta e i loro carri. Si ritirarono parte sulle alture di Armecy e parte nel luogo dove avevano. rac~olto, con impedimenta e carri, le famiglie: nessun segno però di disgregazione. Cesare dice: « In tutta questa battaglia, durata dalle tredici circa sino a sera, ab hora septima ad vesperum, - un sette ore - nessun romano potè vedere un nemico volgergli le spalle, aversum hostem videre nemo potuit ». Le ultime cinque parole latine danno anche più risalto al comportamento delle quattro legioni di veterani ; ma sono anche quelle che meglio svelano la disperazione a cui gli Elvezt erano giunti in questi tre mesi circa (saremmo agli ultimissimi di giugno o ai primi di luglio) dal rifiuto di Ginevra. Col sopraggiungere della notte, la battaglia si sarel:>be definitivamente spenta se parte delle truppe romane non fosse stata indirizzata verso il luogo per il nemico più delicato e per i Romani, quanto m inore l'indugio, più proficuo : sino a notte avanzata si combattè anche presso le impedimenta. Resistenza acc,anita anche qui: perchè i difensori avevano disposto i carri


5r. a guisa di muro e gli assalitori venivano colpiti dall'alto nonchè da coloro che lanciavano proiettili appostati fra carri e ruote. Dopo lunga lotta, diu cum esset pugnatum, i Romani si impadronirono delle impedimenta e dell'accampamento;. e nell'accampamento furono fatti prigionieri la figlia e uno dei figli del defunto ideatore della migrazione, di Orgetorige. Cesare dice: « Si salvarono in circa 1 30 mila, circiter mili a hominum centum et triginta, che per tutta quella notte, senza tregua, marciarono ... ».

Ma a inseguirli nè fu lanciata la cavalleria - che, evidentemente, non dava nessun affidamento - nè mossero le legioni. Dice: « Si salvarono in 130 mila: ... ma i nostri, essendosi fermati tre giorni, triduum morati, e per curare i feriti e per seppellire i morti, et propter vulnera militum et propter sepulturam occisorum, non poterono inseguirli». Tre giorni di sosta, col nemico del tutto atterrito e sbandato, per curare feriti e seppellire morti: l'ammissione, indiretta, delle forti perdite subìte e la riconferma della violenza d ella battaglia.

L\

RESA.

Dalla battaglia si salvarono in circa 130 mila che continuarono a marciare per tutta quella notte ... e, non interrompendo la marcia neppure nelle ore notturne, raggiunsero, nel quarto giorno, i confini dei Lingoni . .. I Lingoni abitavano l'altipiano di -displuvio che dai Lingones ha preso nome di Langres. L'ansante moltitudine avrebbe pertanto raggiunto, nel quarto giorno, - dalla zona di Toulon sur Arroux, dove si suppone la fine della battaglia il territorio di Digione; dopo aver percorso oltre centocinquanta chilometri con l'intento, c'è chi opina, di riportarsi, per la valle della Saona e il territorio dei Sequani, nei propri paesi. · I Lingoni, pertanto, in grave imbarazzo: l'imperativo, da una parte, di non negare passaggio e pane a gente -del proprio sangue; la preoccupazione, dall'altra) di apparire ostili a Roma: chè gli Elvezi, aiutati, avrebbero avuto la possibilità di sottrarsi, anzichè arrendersi, alla volontà del vincitore. Come si regolarono? Il dilemma se lo posero, certamente; però, e quasi si può dirlo con più certezza, ne soffrirono solo per poche ore: Cest:re manda ai Lingoni, per mezzo di corrieri, una lettera in cui li avverte di non aiutare quei fuggitivi nè con grano nè in qualsiasi altro modo. E all'avvertimento aggiunge una minaccia - invero un po' forte per un popolo della libera Gallia - : se avelsero comunque dato aiuto, li avrebbe trattati come gli Elvezi.


52 Supponiamo la lettera giunta a destinazione poco prima dell'arrivo dei fuggitivi nelle terre di confine dei Lingoni; e rileviamo, ora, che Cesare, trascorsi i tre detti giorni, mosse con tutto l'esercito all'inseguimento di quella moltitudine: appare, così, che gli Elvez1, appena giunti in quel di Digione, appresero, quasi contemporaneamente, che i Lingoni non li avrebbero aiutati e che l'esercito romano s'era già mosso a inseguirli. Allora: costretti dalla mancanza d'ogni cosa, omnium rerum inopia adducti, mandarono a Cesare ambasciatori per la resa. Gli ambasciatori - partiti dalla supposta zona <li Digione - s'incontrano con Cesare in marcia, in itinere, gli si gettano ai piedi e implorano piangendo, ad pedes suppliciterque flentes, pace. Cesare invia, forse a mezzo degli stessi ambasciatori, l'ordine ai fuggitivi di non proseguire la marcia ma di attendere colà dove ora si trovavano il suo arrivo. Ubbidirono. Quando Cesare giunse nel luogo dove quella moltitudine s'era fermata, chiese ostaggi, le armi, i servi che avevano disertato; - non pochi, sicchè, gli indigeni di bassa condizione che parteggiavano per gli Elvezì.

Mentre tutto ciò, ostaggi armi servi, si cerca e si mette insieme, essendo sopraggiunta la notte, nocte intermissa . . . Ci fu un tentativo di fuga, durante la notte, ~ certo concepito e condotto da giovani fra i più forti e audaci - che accrebbe la chiazza del sangue elvetico: ... circa seimila uomini del cantone detto Verbìgeno (i Verbigenes hanno lasciato il nome all'odierna Orbe sul corso d'acqua omonimo che si versa nel lago di Neuchatel), circa seimila uomini, dunque, di quella comunità - sia perchè atterriti dall'idea che, consegnate le armi, li attendesse il supplizio, sia perchè sperassero di potersi salvare e credessero che, con la moltitudine che s'era arresa, la fuga o sarebbe avvenuta nascostamente o sarebbe stata del tutto ignorata - uscirono, nelle prime ore della notte dal loro accampamento, dirigendosi verso il Reno e il paese dei Germani, ad Rhenum finesque Germanorum. Non dunque verso i propri paesi e neppure verso altri della Gallia quei seimila si sarebbero diretti sebbene verso il Reno e il paese dei Germani. Quando C~sare venne a saperlo, ordinò agli abitanti dei paesi che quei fuggiaschi stavano attraversando - la valle della Mosa, probabilmente di .ricercarli e ricondurli a lui, se volevano - altra espressione forte per popoli della libera Gallia - apparirgli imm uni da colpa. Ricondotti che furono, li considerò nemici, in hostium numero habuit: schiavi o uccisi sparvero <lalla circolazione. Episodio chiuso.


53 Di tutti gli altri - una volta avvenuta la consegna degli ostaggi, delle armi, dei disertori - Cesare accettò la resa. Ecco qui, <li quel patto di resa, il punto principale: Elvèzt, Tulingi, Latovici, devono ritornare nelle terre donde son partiti, in fines suos, con l' obbligo di ricostruirvi città e villaggi incendiati. Cesare, a commento, <lice: « Feci ciò soprattutto perchè non volevo che il paese abbandonato dagli Elvezt restasse disabitato e, data la bontà delle terre, i Germani d'oltre Reno passassero dal loro territorio in quello degli Elvezt, ne Germani qui trans Rhenum incolunt e suis finibus in Helvetiorum fines transirent, diventando così confinanti della Provincia e, più precisamente, degli Allobrogi ». Un motivo dunque <lell'accanimento del proconsole contro gli Elvezi: la supposizione, certo non infondata, che l'Elvezia potesse costituire richiamo a g-ente d'oltre Reno, ai Germani. Ma i 130 mila -, ossia, ora, 124 mila - non hanno più nulla di nulla (difficile o impossibile che i patti di resa avessero loro lasciato beni di qualche valore eh.e potessero barattare con viveri): poichè, dunque, perdute tutte le provviste, non avr.ebbero avuto in patria di che sfamarsi, domi nihil erat quo famem tolerarent, Cesare ordinò aglì Allobrogi di rifornirli - a spese lor-0 o dell'erario romano? - di frumento. Un altro articolo del patto è di secondaria importanza e riguarda i Boi, che poc'anzi hanno fatto parlare ,di sè con i T ulingi: è concesso, su richiesta degli Edui, petentibus Haeduis, che i Boi - popolo in fama per il suo singolare valore guerriero - prendano stanza in territorio eduo. I Boi, dunque, saranno l'unico popolo della migrazione che resterà in Gallia (e lo ritroveremo, in grave momento, fra sette anni).

Fortuita circostanza ci ripone sotto gli occhi in termini aritmetici, da Cesare scrupolosamente riportati, il disastro elvetico: nell'accampamento degli Elvezt furono trovate e portate a Cesare tavole scritte in lettere greche, tabulae litteris graecis confectae, che contenevano l'elenco nominativo e il numero di quanti erano usciti dal paese e di quanti atti alle armi e, a parte, dei bambini vecchi e donne, pueri senes mulieresque. Complessivamente erano 263 mila gli Elvezt, 36 mila i Tulingi, 14 mila i Latovici, 2 3 mila i Rauraci, 32 mila i Boi. Totale, già da noi anticipato: 368 mila, di cui circa 92 mila, come pure sappiamo, gli atti alle armi. Cesare dice: « Il numero di quelli che ritornarono in patria _, secondo un censimento da me ordinato, censu habito ut Caesar imperaverat, - risultò di 110 mila, numerus milium centum et decem ».


54 Da 368 mila detratti 110 mila, si hanno mancanti al ritorno in patria 258 mila persone; e, tenuto conto dei 32 mila Boi rimasti in Gallia, che però avevano pagato anch'essi il loro tributo in battaglia, i mancanti sarebbero stati - periti di ferro, periti a Trévoux, periti per malattie e denutrizione, scampati in vari luoghi della Gallia od oltre Reno, periti, anche, di crepacuore - i mancanti sarebbero stati, in poco più di tre mesi, 226 mila.

L'APPELLO DI DIVIZIACO GLI

SI GETTARONO AI PIEDI.

Finita la guerra contro gli Elvez1, ambasciatori di quasi tutta la Gallia, totius fere Galliae, i più autoret oli personaggi dei vari popoli, principes civitatum (tali per nobiltà o per carica o l'uno e l'altro: ma non sappiamo nè sapremo mai chi e quanti erano), vennero - in Bibracte, certamente, - a congratularsi con Cesare. E gli dissero: Ora ben comprendiamo quanto la guerra da Voi condotta contro gli Elvezt - con lo scopo di vendicare vecchie offese al Popolo Romano - si sia rivelata del pari vantaggiosa alla Gallia e a Roma. Gli Elvezz infatti - che pur godevano piena prosperità - avevano abbandonato le loro terre con l'intento di portar guerra in tutta la Gallia e diventarne i dominatori, nonchè di scegliersi, per stabilirvisi, la contrada fra tante da essi giudicata più adatta e feconda, locumque domicilio opportuni ssi mum ac fructuosissimum, e rendere a sè tributari gli altri popoli ... Capaci di tanto trecentomila e poco più Elvez1, in una Gallia sì vasta sì popolosa sì viva? Ma gli ambasciatori certo alludevano al patto Orgetorige che effettivamente sembrava che mirasse a ridurre sotto tre padroni tutt'in- · tera la Gallia. I principes non erano però venuti a Bibracte solo per inutile sfogo contro gli Elvezt e per formali congratulazioni . . . . Intenderemmo, essi infatti aggiunsero, convocare in giorno stabilito un Concilio di tutta la Gallia, concilium totius Galliae; ma ciò desidereremmo fare col Vostro assenso: ci sono alcune cose che, col consenso di tutti, ex communi consensu, vogliamo chiedervi. Rappresentanti di liberi popoli che per indire un concilium totius Galliae, un'assemblea che oggi si direbbe nazionale, hanno bisogno del permesso di Cesare? Segno che le questioni da trattare non potevano essere tenute estranee, e anzi erano senz'altro da associare, alla politica di Roma; indispensabile quindi che il proconsole accettasse la proposta e stabilisse quando avrebbe potuto concedere la sua perwnale partecipazione. 1


55 Avendo Cesare dato il suo assenso, essi fissarono la data del concilio ... Ma a questo punto accadde un fatto un Po' strano: i principes, fissata che ebbero la data del concilio, ... si obbligarono fra loro con giuramento, iure iurando inter se sanxerunt, che nessuno dovesse di quanto era avvenuto far parola a chicchessia, salvo a coloro che fossero stati indicati da deliberazione unanime. Tutto ciò che nell'adunanza s'era -detto - necessità di un concilio, data, invito al proconsole - doveva restare un segreto; e a quei principes a congratularsi non venuti o all'adunanza non presenti nulla doveva es~ere partecipato se non con l' autor:izzazione <li tutti. Poco dignitoso e indice di animi turbati quel giuramento in presenza di uno straniero, il quale avrebbe potuto pensare che quei signori vi ricorressero pe:·chè diffidenti l'uno dell'altro. Ma, piuttosto: come potevasi conciliare la necessità del segreto con un avvenimento di sì vaste e inoccultabili proPorzioni quale poteva essere, ed era, l'assemblea dei rappresentanti di tutta la Gallia? La risposta è qui, pronta. Sciolta l'adunanza gratulatoria, quegli stessi capi ritornarono a Cesare e gli chiesero di poter trattare con lui - segretamente! in iuogo nascosto! secreto in occulto, - di questioni che riguardavano la vita delle loro persone e dell'intero paese. Il concilium totius Galliae non è stato dunque che un'intenzione, un razzo : perchè avvenne che a distanza forse d:i un giorno e forse di ore dalla prima adunanza i principes delle congratulazioni, tutti o parte, si ripresentarono a Cesare, con l'intento di porgli subito le questioni da essi dichiarate d:i importanza capitale. Animi solo turbati ? Ottenuto quanto chiedevano, - le condizioni della più assoluta segretezza - essi, tutti, si gettarono piangendo ai piedi di Cesare, omnes flentes Caesari ad pedes: il nostro desiderio - essi <lissero - che le dichiarazioni che ora faremo rimangano segrete è altrettanto vivo e impellenu quanto il desiderio di ottenere ciò che vi chiederemo; ma se ciò verrà risaputo, nostra sorte sarà l'eterno supplizio, summum in cruciatum se venturos. Se ciò che ora diremo si saprà, in un modo o nell'altro, fuor: di qui, è la nostra morte; ma altrettanto avverrebbe se le nostre istanze non dovessero <lare i risultati che ci ripromettiamo. PARLA DIVIZIACO.

Parlò a nome loro l'eduo Diviziaco, locutus est pro his Divitiacus H aeduus, - quel Diviziaco che, Cesare ci ha detto, nutriva profonda devoz:ione per il Popolo Romano e affetto per lui ed era degno di alta stima per la sua


lealtà giustizia moderazione; quel Diviziaco che ben ricordiamo dissenziente dalla palitica di suo fratello Dumnorige - : - Tutta la Gallia è divisa in due blocchi di popoli, factiones duas: a capo dell'uno gli Edui, harum alterius principatum tenere Haeduos, dell'altro gli Alverni, alterius Arvernos . . . Siamo, così, alla prima fugace apparizione dell'Alvernia, l'incantato paese del Massif Central. Diviziaco segnala ,della situazione il punto sostanziale: l'esistenza, da tempa (da quando era fallita, una trentina d 'anni prima, l'ultima affermazione egemonica su tutta la Gallia dell' Alvernia), di due inconciliabili blocchi. - ... La contesa fra i due blocchi per la supremazia delruno sull'altro è stata per molti anni accanita; finchè è accaduto che Alverni e Sequani hanno chiamato per mercede i Germani, factum esse uri ab Arvernis Sequanisque Germani mercede arcesserentur ... Mercenari germanici hanno dunque cominciato, da anni, a passare il Reno chiamati dal blocco degli Alverni contro il blocco degli Edui : da Galli contro Galli. Piccole aliquote? fenomeno non preoccupante? - ... In un primo tempo hanno passato il Reno un quindicimila; poi, quegli uomini feroci e barbari hanno preso gusto ai campi, alla civiltà, alle ricchezze dei Galli, agros et cultum et copias Gallorum, e ne sono passati di più: ora sono diventati centoventimila ... Ma il numero è il meno: quei mercenari .hanno di mano in mano acquistato, superandone le prove, una. propria individualità e potenzialità militare. - ... Noi Edui, assieme ai popoli del nostro blocco, abbiamo più d'una volta combattuto contro di essi; ma invano: vinti, abbiamo sulìto gravi danni, sì che oggi lamentiamo incolmabili vuoti nella nobiltà, nelle magistrature, nell'ordine dei caval~ri ... Si era in tal modo affermata, nel blocco facente capo all' Alvernia, la preponderanza dei Sequani, che - confinanti, al Reno, con i Germani più direttamente s'erano potuti giovare di quel mercenariato ospitato nel loro territorio. - ... Abbattuti da queste battaglie sfortunate, noi Edui - noi che per il nostro valore e per la stretta amicizia col Popolo Romano, et populi romani hospitio atque amicitia, eravamo il popolo più potente della Gallia - proprio noi abbiamo dovuto dare ai Sequani in ostaggio i nostri più nobili cittadini e obbligarci con giuramento - si ascoltino le assurde pretese - che di quegli os.taggi non avremmo richiesto la restiiuzione, che non saremmo ricorsi per aiuto al Popolo Romano, e che ci saremmo adattati a riman~re, per sempre, perpetuo, sotto il loro dominio. Io solo di tutto il popolo eduo, unum se ex omni civitate, non mi sono piegato a giurare o a dare come ostaggi i miei figli .. Per questo, essendo il solo non obbligato da giuramenti e ostaggi, sono fuggito dal mio paese e non ho esitato - come Voi ben sapete - a "carmi


57 a Roma e chiedere l'aiuto del Senato, et Romam ad senatum venisse auxitium postulatum ... Diviziaco avrebbe lasciato i] suo paese e sarebbe giunto a Roma, pare accettato, nd periodo più acuto della crisi politica provocata dalla congiura di CatiLina: la preponderanza dispotica dei Sequani s'era dunque affermata un cinque anni prima di questo suo discorso. E in Gallia Diviziaco non aveva fatto più ritorno - possiamo ora aggiungere - se non al sèguito dell'esercito di Cesare, presto raggiunto da Lisco e da quanti altri principes la pensavano come lui.

Ma che era avvenuto in Gallia dal giorno che Diviziaco l'aveva lasciata? - ... Ma ai Sequani vincitori è poi toccata sorte peggiore che a noi Edui vinti, sed peius victoribus Sequanis quam Hae<luis victis accidisse . .. Già dunque crollata, mentre Divi~iaco parla, la torb~da supremazia dei Sequani. • - Ai Sequani vincitori è poi toccata una sorte peggiore che agli Edui vinti, ... perchè Ariovisto, un re germanico, Ariovistus rex Germanorum, si è stabilito nel loro territorio e s'è impadronito di .un terzo delle loro terre, fra le migliori di tutta la Gallia. Nè basta: egli ha ora imposto ai Sequani di lasciar libero un altro terzo del loro territorio perchè pochi mesi fa sono a lui venuti ventiquattromila Arudi .. . Un crescendo che impensierisce: da quindicimila a centoventimila, più ventiquattromila; da mercenari di rinforzo a nerbo dell'esercito dei Sequani; da forestieri a padroni; e un loro capo, un re, promette terre ga1liche a genti che vengono d'oltre Reno ad accrescere la sua potenza. Quale fu la profezia di Dumnorige all'apparire d'un eseroito romano nel paese dei Segusiavi? « Nessuno deve farsi illusioni: vinti gli Elvezi, i Romani priveranno della libertà e gli Edui e tutta intera la Gallia ». Ecco, ora, la profezia di suo fratello Diviziaco. - ... Avverrà che in pochi anni tutti i Galli saranno cacciati dalla Gallia e tutti i Germani ,passeranno il Reno, futurum ' esse paucis annis ut omnes ex Galliae fìnibus pellerentur atque omnes Germani Rhenum transirent ...

Profezie che l'una accanto all'altra sembra che illuminino, ora, i tanti nessi finora oscuri degli avvenimenti di tre mesi e poco più, dall'arrivo di Cesare a Ginevra a oggi. Il dissidio fra i due fratelli divenuto inconciliabile proprio quando Diviziaco, fuoruscito, aveva chiesto l'aiuto a Roma ; mentre invece Dumnorige riteneva che si dovesse evitare - con tutti i mezzi: anche concedendo agli Elvezi il Saintonge - sì pericoloso ricorso.


58 Ma tra fine aprile e fine giugno di quest'anno, appena sessanta giorni, la tesi di Dumnorige - e chi poteva avversarla con coscienza del tutto tranquilla ? - era rapidamente crollata sotto la sequenza di avvenimenti incredibili: - sei legioni hanno passato le Alpi; - hanno passato anche il Rodano e sono fuori Provincia, nel paese dei Segusiavi; - Diviziaco è con l'esercito romano e da Bibracte altri principes, e lo stesso vergobreto, l'hanno raggiunto; - il generale romano, ormai da Bibracte non lontano, chiede agli amici Edui, e d'urgenza, cavalleria : bisogna decidersi, subito: o contro gli Elvezi o contro Roma ... Dumnorige da tutto ciò superato (ma come avrebbe potuto prevedere che neppure a due mesi dall'inizio del movimento gli Elvez1 sarebbero stati raggiunti da sei legioni quando in tutta la ·Provincia non ve n'era di stanza che una sola?) tenta di tenersi a galla: sarà lui stesso iI comandante del contingente di cavalleria presso Cesare e un condizionatore, pertanto, dell'azione romana. Udite, udite: l'esercito romano, a Trévoux, ha distrutto quasi per intero una comunità elvetica; - l'esercito romano, con un ponte costruito in un sol giorno, ha passato la Saona e gli Elvezt hanno anche tentato di accordarsi col generale romano ... Dumnorige non dispera: eccita segretamente, e con una fuga apertamente, l'aggressività elvetica, nota l'indugio, che non è poi tutto prudenza, dei Romani; non dispera: l'esercito romano, senza viveri, dovrà fermarsi. L'esercito romano marcia, arrogantemente, su Bibracte . .. Ma la notizia che gli Elvez1 lo hanno attaccato è giunta quasi assieme a quella degli Elvez1 distrutti.

Diviziaco, dunque, - riponiamoci m ascolto del suo discorso, - è l4i senz'altro, ora, il padrone della situazione politica di tutta la Gallia. - ... Avverrà che in pochi anni tutti i Galli saran no cacciati dalla Gallia e tutti i Germani passeranno il Reno : ... non si può infatti paragonare il territorio gallico al germanico nè le condizioni nostre di vita alle loro ... Il passaggio dei Germani oltre Reno dovuto non ad ambiziose e artifiziose pretese di capi bensì all'attrattiva naturale, irresistibile e contagiosa, di un miglior tenore <li vita sì a portata di mano. - ... Ariovisto, po.i, - vincitor~ di un esercito gallico in battaglia campale - è diventato padrone superbo e crudele, superbe et crudeliter imperare ... Ariovisto ci comincia ad apparire più da vicino (veduto, naturalmente, con gli occhi di Diviziaco o, se si vuole, con uno di Diviziaco e l'altro di Cesare).


59 La battaglia a cui Diviziaco accenna - e che verrà richiamata p.iù d'una volta in seguito - era avvenuta due anni prima a Magetobriga, ai confini del paese degli E<lui, oppido di cui però sembra sparita ogni traccia. - Ariovisto è diventato padrone superbo e crudele ... che chiede in ostaggio i figli dei più nobili cittadini e li sottopone a punizioni esemplari e a tormenti d'ogni genere quando la sua volontà non è subito eseguita o è appena contrariata. E' uomo barbaro, iracondo, temerario, barbarum iracundum temerarium: insopportabile è divenuto il suo dominio, non posse eius imperia diutius sustinere ... Una modesta migrazione è stata testè stroncata e ricacciata indietro perchè il vuoto elvetico non costituisse richiamo ai Germani : ma ascolti il proconsole quale altra migrazione Diviziaco crede di potergli annunziare. - ... Se non troviamo aiuto in Voi e nel Popolo Romano, a tutti i Galli non resterà altro che imitare gli Elvezi, i-dem ess~ faciendum quod H elvetii: emigrare, cercar altro domicilio e altra sede lontano dai Germani, aliud domicilium alias sedes remotas a Germanis, e tentare, accada che vuole, il destino ... Che Roma, a difesa della Gallia, dichiari suo nemico Ariovisto: ecco la carta segreta e compromettente che quei principes volevano chiedere a Cesare. - ... Se Ariovisto viene a sapere di queste nostre querele, non v'è dubbio che punirà nel modo più grave gli ostaggi che ha presso di sè ... Diviziaco giunge, così, alla fine del suo discorso. Ed è lui che pone in termini espliciti la richiesta di aiuto al Popolo Romano a nome degli Edui (e perchè non Lisco, vergobreto?) e degli altri principes presenti (ma chi e quanti erano?). - ... Voi, con l'autorità vostra e del vostro esercito, col prestigio della recente vittoria e del nome del Popolo Romano, potete impedire che i Germani passino in maggior numero il Reno, ne maior multitudo Germanorum Rhenum traducatur, e difendere tutta la Gallia dalla prepotenza di Ariovisto. Appena Diviziaco ebbe finito di parlare, tutti i presenti cominciarono a chiedere con alti pianti, magno fletu, l'aiuto di Cesare.

E che tale invocazione fosse generale Cesare sembra che ci tenga a confermarlo segnalandone l'unica eccezione. Dice : « Notai che, soli fra tutti, i Sequani non facevano come gli altri, ma tristi a capo chino guardavano a terra, tristes capite demisso terram intueri. Meravigliato, chiesi a loro stessi la causa di quel loro atteggiamento. Ma essi non rispondevano e restavano in silenzio nella stessa tristezza, in eadem tristitia taciti permanere. Avendoli interrogati più volte .senza riuscire a far loro pronunciare una parola . .. ». Tristezza a ciglio asciutto, invocazione di aiuto muta e con lo sguardo a terra, ostinatezza, persino, alle richieste di Cesare in persona.


60 Quando, insomma, si vide che neppure Cesare riusciva a cavar di bocca ai Scquani una parola, riprese a parlare, per spiegare il lor silenzio, Diviziaco, idem Divitiacus Haeduus: - Più misera e più grave di quella degli altri è la situazione dei Sequani, i soli che non osano lamentarsi e chiedere aiuto neppure in segreto e hanno orrore di Ariovisto lontano come se fosse presente: gli altri hanno almeno possibilità di fuga, ma i Sequani che hanno accolto Ariovisto nel loro territorio - e tutte le loro città sono in potere di costui, oppida omnia in potestate eius, - sono esposti a tutte le vendette. Ma non v'è traccia che i Sequani, anche dopo tal spiegazione, abbiano detto alcunchè: fiducia .in Diviziaco ma diffidenza per i romanofili dell'ultim~ momento colà presenti ? Cesare, sapute queste cose (ossia, possiamo dire: di queste cose reso ufficialmente partecipe dagli stessi interessati), rincuorò con adatte parole l'animo dei Galli, e promise che si sarebbe occupato della cosa. Ho grande speranza - disse - che Ariovisto, indotto da un favore da me fattogli e dalla mia autorità-, vorrà porr_e fine ai soprusi, finem iniuriis facturum ». Esisteva dunque già un filo fra Cesare e Ariovisto, e sapremo presto qual è il favore su cui Cesare conta. Detto questo, dopo aver promesso tutto e niente, sciolse l'adunanza, concilium dimisit.

D1c0No

LE STESSE

cosE ...

Dice, quasi soliloquio: « Molte considerazioni, multae res, mi spingevano a prendere in esame quella situazione e a cercar di ripararvi. Anzitutto, il vedere gli Edui - chiamati tante volte dal Senato « amici_ e consanguinei>> - in servitù e soggezione dei Germani e il sapere che loro ostaggi erano presso Ariovisto e i Sequani: condizione di cose che ritenevo troppo vergognosa, turpissimum, - in tanta potenza del Popolo Romano e per il mio prestigio e per lo Stato, sibi et rei publicae. Che i Germani, poi, si abituassero a poco a poco a passare il Reno, paulatim consuere Rhenum transire, e che ne venisse in Gallia gran ntt;mero, magnam multitudinem, lo consideravo un pèricolo per il Popolo Romano, non avendo io alcun dubbio che quegli uomini barbari e feroci, una volta occupata tutta la Gallia, avrebbero invaso la Provincia, - come già Cimbri e Teutoni - e di lì avrebbero marciato verso l'Italia, in provinciam atque inde in Italiam; e non c'era che il Rodano da varcare per essere dal paese dei Sequani - già ora invaso da Ariovtisto - nella Provincia. Tutti pericoli a cui conveniva porre riparo al più presto. Quanto ad Ariovisto, aveva questi preso tanta superbia tanta arroganza che non si poteva più tollerarlo » .


61 Dicono le stesse cose Diviziaco e Cesare: è il pericolo germanico - mentre dopo mezzo secolo non era ancor spenta, in Italia e in Gallia, la memoria dei Ci.mbri e Teutoni - che ,domina, e da temp0, nei loro pensieri. Espellere Ariovisto dalla Gallia con l'aiuto o senza l'aiuto di Roma? In codesto interrogativo l'assillo, per pareèchi anni, dei Galli più coscienti. Ma la tramontana della battaglia di Bibracte (quella disgraziata migrazione elvetica incappata in cose di essa tanto più grandi!) ha fugato dall'orizzonte gallico ogni nube, lasciandovi scoperto, cima e pericolo numero uno, il germanico Ariov.isto. ARI OVISTO TRE CONDIZIONI.

Cesare decise di inviare ad Ariovisto - che trovavasi con l'esercito, secondo accettabile ipotesi, a sud di Strasburgo - ambasciatori. Gli ambasciatori ,dovevano chiedere ad Ariovisto semplicemente questo: che scegliesse egli stesso una località intermedia ai due eserciti per un colloquio in cui Cesare desiderava trattare con lui di affari di Stato e di questioni per etrambi importantissime. Un incontro alla pari; ad Ariovisto, anzi, la scelta del luogo. Ma a tal ambasciata Ariovisto risposte: se Ariovisto avesse avuto bisogno di qualche cosa da Cesare, Ariovisto si sarebbe recato da Cesare; se dunque Cesare desidera qualche cosa da Ariovisto, Cesare si rechi da Ariovisto. Ma all'arguzia fece subito seguire seri e gravi argomenti; quali avevano potuto suggerirglieli i quattro mesi circa - siamo in luglio inoltrato? dell'azione di quel proconsole in Gallia. Io non mi arrischio - aggiunse - a venire senza esercito in luoghi della Gallia occupati da Cesare; nè d'altronde posso riunire l'esercito in un sol luogo senza grandi difficoltà per gli approvvigionamenti. Diffidenza verso un rappresentante del Pop0lo Romano, quasi temesse, presentandosi senza esercito, un'imboscata. Svelò infine il suo cruccio: Non riesco a capire che cosa c'entrino Cesare o lo stesso Popolo Romano negli affari della mia Gallia, in sua Gallia, da me vinta con buona guerra, quam bello v.icisset. La vittoria, un due anni or sono, in battaglia campale - ce lo ha detto poc'anzi Diviziaco - aveva accresciuto le pretese di Ariovisto; sino al punto che ora, al cospetto di ambasciatori del Popolo Romano, chlama sua una parte della Gallia. Nessun positivo risultato dunque da questo primo indiretto contatto fra Cesare e Ariovisto: alla proposta conciliativa di Cesare il barbaro ha risposto in termini di insofferenza.


Cesare, riportate che gli furono tali risposte, inviò ad Ariovisto una nuova ambasciata con le istruzioni che seguono. Anzitutto una rimostranza, in cui gli si rinfacciava il favore ricevuto da Cesare: Voi che siete stato tanto beneficiato da Cesare e dal Popolo Romano, - sotto il consolato di Cesare infatti, or è un anno, avete ricevuto dal Senato il titolo di « re e amico », in consulatu suo rex atque amicus a senatu appellatus, - Voi siete stato tanto riconoscente e a Cesare e al Popolo Romano da ricusare l'invito al colloquio e con l'affermare che non avete interesse a discutere di affari comuni e neppure a prenderne conoscenza. Ariovisto insignito dunque del titolo di « re e amico del Popolo Romano » sotto il consolato di Cesare, ossia circa un anno dopo la grande battaglia campale in cui Edui e alleati sono stati battuti. (Ma allora: il titolo non era riconoscimento, anche, di quella vittoria?). Alla rimostranza segue una « nota » con tre condizioni e una Postilla. Prima condizione: Ariovisto non faccia più passare in Gallia d'oltre Reno altre masse di uomini. Seconda: restituisca gli ostaggi che ha avuto dagli Edui e consenta ai Sequani di restituire, senza alcun ostacolo da parte sua, gli ostaggi che i Sequani detengono. T erza : non rechi offesa agli Edui e non faacia guerra nè a essi nè ai loro alleati. Postilla: Se tanto avesse fatto, Ariovisto avrebbe goduto sempre del favore e dell'amicizia di Cesare e del Popolo Romano; se a tali richieste non avesse aderito - poichè il Senato, consoli Marco Messa/a e Marco Pisone, aveva deliberato (documento che già conosciamo) che chiunque governasse la Provincia dovesse difendere gli Edui e gli altri amici d'el Popolo Romano, - se a tali richieste non avesse aderito, Cesare non avrebbe tollerato offese agli Edui. Dunque: che Ariovisto, ormai per il Popolo Romano « re e amico », ri~ manga pure a occidente del Reno; purchè: si impegni a non farvi passare altra gente (nessun aumento, pertanto, di potenza militare); restituisca e faccia restituire gli ostaggi (si tolga cioè dalle mani la più valida garanzia per la riscossione di tributi); rinunci aWiniziativa di muover guerra agli Edui e loro alleati (e chi, allora, in Gallia non ~iventerà alleato degli E<lui ?). Un Ariovisto, in definitiva, che consideri se stesso straniero, e diremmo meglio intruso, nelle terre a occidente .del Reno. A tali richieste Ariovisto rispose'co,n un'affermazione di diritto, una costatazione di fatto, una postilla. L'affermazione di diritto: Diritto di guerra vuole, ius esse belli, che i vincitori trattino i vinti secondo il lor proprio criterio. Ed è per ciò òhe il Popolo Romano ha sempre usato comandare ai vinti non secondo ingiunzioni altrui ma a suo senno. Di conseguenza: se io non detto norme al Popolo


Romano per l'esercizio di un suo diritto, non éè motivo che il Popolo Romano ostacoli me nell'esercizio del mio. La costatazione di fatto: gli Edui hanno tentato la fortuna delle armi, si sono battuti con me, sono stati vinti; sono quindi diventati miei tributari. Cesare, pertanto, che con le sue intromissioni ·vuol rovinarmi le entrate commette un sopruso, magnam iniuriam. Non restituirò gli ostaggi agli Edui. Non farò, sì, guerra a Edui e loro alleati senza ragione: purchè però essi rispettino i patti e paghino ogni anno il tributo; se ciò non faranno, poco varrà loro essere chiamati fratelli del Popolo Romano. Postilla : Poichè Cesare minaccia di non tollerare offese fatte agli Edui, sappia che nessuno ha mai combattuto con me senza sua rovina. Che Cesare venga ad attaccarmi quando voglia: comprenderà allora quanto possano per valore gli invitti Germani, quid invicti Germani virtute PoSsent; questi miei Germani ognora addestratissimi alla guerra, exercitatissimi in armis, che da quattordici anni (prima di passare il Reno pare che avesse a lungo errato in cerca di terre) non sanno c,he cosa sia un tetto!

«

V EHEMENTER

COMMOTUS

».

Che cosa rispose, a sua volta, Cesare? Nulla; perchè caso volle, che farci?, che proprio al momento della risposta sopraggiungessero nuove e inaspettate complicazioni. Proprio mentre gli riferivano tali risposte, giunsero presso Cesa.re ambasciatori degli Edui e dei Treveri. Gli ambasciatori e-dui gli espressero le loro lagnanze perchè gli Arudi, i quali erano appena giunti, d'oltre Reno, in Gallia, - lo abbiamo testè appreso dal discorso di Diviziaco - compivano scorrerie nelle loro terre. Non siamo dunque riusciti a comperare la pace da Ariovisto - quei messi dissero - neppure con ostaggi! Gli ambasciatori treveri gli riferirono che cento comunità di Svevi, pagos centum Sueborum, si erano stabilite sulle rive del Reno, ad ripas Rheni consedisse, con l'intento di passarlo: avevano a capo due fratelli, Nasua e Cimberio. Dice: « Da queste notizie fortemente turbato, vehementer commotus .. . ». Gli Arudi avevano compiuto o stavano compiendo incursioni a occidente della Saona che divide il territorio sequano dall'eduo; non altro che incursioni, chè sono in attesa di un terzo - se Diviziaco ha detto il vero e non ha esagerato - del territorio sequano. I Treveri - prima apparizione di un altro popolo che farà spesso parlar di sè - abitavano il territorio a cavallo della Mosella, la quale sfocia nel Reno: tenevano perciò una delle maggiori porte fra Germania e Gallia.


Ariovisto è padrone del territorio dei Sequani e si trova col suo esercito, secondo la detta ipotesi, a sud di Strasburgo; le cento comunità sveve trovansi, se minacciati sono i Treveri, nelle terre a oriente di Coblenza: una invasione in atto e una imminente gravano dunque sulla Gallia. Ma che significano in concreto, cioè in forza guerriera, cento comunità ? di qual entità i loro tentativi, se ci sono stati, ·di passare il Reno ? che significa l'informazione, nuda e cruda, che sono comandate da due fratelli? c'erano intese fra i due fratelli e Ariovisto o si trattava di imprese indipendenti che avrebbero potuto associarsi, se mai (solo in linea d'aria da Coblenza a Strasburgo intercorrono circa centosettan~a chilometri) in tempi successivi? Interrogativi importanti quanto si sia, ai quali però nè ora nè mai avremo risposta. Incursioni degLi Arudi e la notizia delle cento comunità dettero luogo, comunque, al « vehementer commotus » ed ebbero, di conseguenza, il potere di far assumere a Cesare, con una nuova iniziativa, una nuova grave responsabilità. Dice: « Da queste notizie fortemente turbato, pensai che bisognava affrettarsi per evitare che la congiunzione di cotali nuove forze con le vecé-hie forze di Ariovisto mi rendesse più difficile la lotta. E perciò, provveduto rapidamente al rifornimento dei viveri, mossi a grandi tappe, magnis itineribus, alla volta di Ariovisto, ad Ariovistum contendit ». La gran.de tappa comportava da otto a nove ore quotidiane di marcia - da trentacinque a quaranta chilometri - anzichè le normali sei o sette. L'esercito romano iniziò il movimento, quasi certamente, dai pressi di Bibracte, e diciamo, perciò, da Autun ; Ariovisto e l'esercito si trovavano, secondo l'anzidetta ipotesi, nel territorio dell'Alsazia settentrionale. Da Autun a Strasburgo circa quattrocento chilometri: dovevano quindi passare parecchi giorni - non meno, valuteremmo, di dodici - prima che Cesare venisse a contatto con Ariovisto.

IMPROVVISA DIVERSIONE.

Ma ecco, dopo tre giorni di marcia, un'altra complicazione. Dice: « Dopo tre giorni di marcia, cum tridui viam processisset, mi fu annunziato che Ariovisto era partito con tutte le sue forze per occupare Vesonzione, Vesontionem, la più grande éitt?i dei Sequani, e che già da tre giorni, tridui, egli era in marcia fuori del suo territorio ». Si poteva ancora nutrire qualche speranza che in breve le cose si sarebbero accomodate per il meglio,-in moto Cesare ma Ariov.isto fermo e lontanoed ecco che ora veniamo a sapere che anche Ariovisto è in movimento; anzi: Cesare e Ariovisto, da tre giorni in marcia T'uno e l'altro, si sono posti in movimento contemporaneéilllente.


Ma Diviziaco non ci ha appena detto, nel supplemento al suo discorso, che le città dei Sequani, tutte, erano in potere di Ariovisto, oppida omnia in p<>testate eius? Evidentemente, non tutte: Ariovisto - sebbene a occidente del Reno da qualche anno, forse un lustro e più - proprio Vesonzione, la città più grande, solo ora, dopo le ambascerie di Cesare, s'è deciso a occuparla. Da Strasburgo a Vesonzione, oggi Besançon, intorno a duecento chilometri e da Digione - chè Cesare, dopo tre giorni di marcia, poteva essere giunto nel territorio dove oggi sorge tal città - quasi cento; se Ariovisto percorrerà anche venti chilometri al giorno (egli si trascina dietro, come gli Elvez1, tutta la sua gente), il vantaggio di Cesare è evidente: è Cesare, anche a tappe or,dinarie, che giungerà senz'altro prima, e non di ore ma di giorni, a Besançon. Ma se Ariovisto, ora che vi si è avvicinato di tre giorni, dovesse lanciare su Besançon la sua cavalleria? Dice: « L'occupazione di Vesonzione da parte di Ariovisto bisognava che a ogni costo io cercassi di evitare, chè in quel!'oppido era straordinaria abbondanza di tutto ciò che era necessario alla guerra ... E perciò mi diressi colà, marciando notte e giorno, magnis nocturnis diurnisque itineribus, e, occupata la città, vi posi un presidio ». Un'improvvisa diversione di marcia e<l eccolo senza colpo ferire - forse, da Digione, in poco più di tre giiorni - a Vesonzione ossia Besançon. I Sequani sorpresi in pieno. Ma non sappiamo se esultanti o avviliti; se insomma Cesare ha pienamente e giustamente interpretato il pensiero dei loro muti ambasciatori. La lor capitale, comunque, è ora saldamente presidiata dai Romani e non potrà più correre il pericolo ,di cadere in mano di Ariovisto. E se il Senato volesse rinfacciare al proconsole anche questa iniziativa, sappia che quella marcia forzata, notte e giorno, non tendeva a sorprendere, sì sgarbatamente, i Sequani bensì a sottrarre Vesonzione all'imminente occupazione, con la cavalleria, di Ariovisto: imperdonabile che un generale romano si fosse lasciato soffiare sotto gli occhi, da un barbaro, una posizione di primario valore strategico.

LA VICENDA DI BESANçON VESONZIONE.

Vesonzione era munita dalla natura in modo da costttutre base ideale per lunghe operazioni perchè il fiume Doubs, flumen Dubis, circonda quasi tutta la città, paene totum oppidum cingit, come cerchio tracciato da com5. -

u.s.


66 passo: il tratto dove manca il fiume - circa cinquecento metri - è chiuso da un monte di grande altezza, - Mont des Buis - disposto in modo che, da tutte e due le parti, le sue falde toccano le rive del fiume. Un muro, inoltre, circonda tal monte, facendone una vera e propria rocca e congiungendolo alla città. E' come vista dall'aereo. I legionari, non pochi ancora col ricordo nelle carni della battaglia di Bibracte, e tutti con le ossa indolenzite per quattro mesi - saremmo, ora, in agosto - di ininterrotte operazioni, giuns~ro forse a Besançon col desiderio e la speranza che vi avrebbero trascorso sufficiente meritato riposo.

J

LEGIONARI FANNO TESTAMENTO.

Cesare <lice: « Durante i pochi giorni di sosta a Vesonzione per i rifornimenti di viveri, repentinamente, tutto l'esercito, omnem exercitum, fu invaso da un tal panico, tantus timor, che menti e animi di tutti, omnium mentes animosque, ne furono non poco, non mediocriter, turbati ». Che forse si temeva lo scontro con Ariovisto che, in marcia da sei sette giorni, avrebbe dovuto ormai apparire da un momento all'altro? Neppur per sogno: anzi del tutto falsa, come poi ci risulterà, l'informazione (eppure, illustri Senatori, proveniva da fonte più che attendibile!) che Ar.iovisto si fosse mosso dai luoghi dove si trovava, sud di Strasburgo o dove che fosse. Quale dunque la causa di tanto panico in tutto, nientemeno, l'esercito? Dice : « Il perturbamento derivò dalle voci pro.palate dai Galli e dai commercianti, ai quali i legionari si rivolgevano per aver notizie del futuro nemico. I Galli descrivevano i Germani come uomini di straordinaria statura, ingenti magnitudine corporum, e d'incredibile valore e destrezza nel combattere. E i Galli, i Galli guerrieri, confessavano, candidamente, che le non . poche volte che si erano scontrati con loro non avevano potuto sostenerne neppure il volto e lo sguardo, vultum atque aciem oculorum ». I legionari, non più truppa fresca, allibivano; maggiormente forse li atterriva il connotato della straordinaria statura, essendo essi, come Cesare ci dirà in altra occasione, di bassa statura: homines tantulae staturae. L'onda del panico investì, dapprima, le strutture gerarchiche più deboli. I primi a esserne colpiti furono i tribuni, i prefetti, e tutti quelli che avevano seguito Cesare da Roma per ragion,i di amicizia, amicitiae causa, e non avevano consistente pratica di cose militari. Tribuni e prefetti che però non possono essere ufficiali investiti, come diciamo oggi, di effettivo comando di reparto operante se vengono inclusi fra coloro che a Roma si sono posti al seguito di Cesare confidanti nella benignità del generale; sono giovani, aristocratici e democratici, non proprio di vocazione guerriera ma che, avendo arraffato a Roma una qualifica mili-


tare, tendono ora, così come i tempi comportavano, alla benemerenza di guerra che costituisca titolo a impieghi civili o cariche politiche. Tali dunque della paura le prime vittime. Paura che quando si manifesta gagliarda non ha, e non aveva forse neanche allora, che una di queste tre vie da battere: il ricovero in ospedali, per il riacutizzarsi di vecchi o l'affiorare di nuovi malanni; la licenza, per urgenti e grav.i motivi di famiglia; la rassegnazione: ma tutt'altro che muta, come a tutta prima verrebbe fatto di figurarsela. La prima via, l'ospedale, in questo caso, era proprio intransitabile. Lasciare Cesare, che non aveva ancora basi logistiche sicure, e restare ammalato in località ,di transito non significava, in caso di rovescio, essere sgozzato dagli stessi ospiti? Nè i me-dici militari dovevano essere allora gran che propensi a riconoscere mali non all'occhio evidenti. · Rimanevano perciò la seconda e terza via: licenza e rassegnazione. Dice: « Di costoro, e'era chi, adducendo questo o quel pretesto, alius alia causa illata, mi chiedeva il permesso di partire ». Voi sapete, signor generale, con quale animo io mi sia mosso da Roma e vi abbia seguito sin qui; sapete che ho sempre anteposto l'interesse, sommo, della Repubblica al mio personale : ma ora, mio malgra<lo, sono costretto a rappresentarvi come qualmente ... (e qui il motivo di famiglia o di salute). Dice: « Parecchi, che per punto d'onore volevano evitare il sospetto di viltà, timoris suspicionem, restavano, remanebant ». La terza via: quella dei compromessi; cioè di coloro che da un ritorno non giustificato da cicatrice o accompagnato da papiro encomiastico avevano troppo da perdere. Ebbene, dei tre casi, questo è in guerra il più pernicioso. Ospedale e licenza ta'ìpano la bocca: ma nessuna forza umana può tapparla alla paura rimasta esposta, senza scampo, al pericolo. Dice infatti: « Questi ultimi nè riuscivano a darsi un contegno, neque vultum fingere, nè, talvolta, a trattenere il pianto, neque l.acrimas tenere. Rannicchiati sotto le tende, in tabernaculis, imprecavano contro il loro destino, suum fatum querebantur, o, insieme agli amici, deploravano il pericolo che su tutti sovrastava». I Germani, l'ho sentito anche dai miei vecchi, sono guerrieri feroci. Non che li temiamo; ma non è umano, in coscienza, intraprend~re una guerra a neppure <lue mesi dall'altra! E tutto questo senza autorizzazione del Senato, non per altro, - credetelo: lo conosco - che per sporca ambizione! Dice: « Dappertutto, in tutti gli accampamenti, in totis castris, si sigillavano testamenti, testamenta obsignabantur ». Non dunque solo da parte di tribuni e prefetti senza comando e di giovani di belle speranze: ma i testamenti si facevano « in totis castris ». E chi fa te,stamento vuol dire che ha sullo stomaco, dissimulato che sia anche a se stesso, qualche brutto presentimento; il testamento in pubblico poi,


68 - perchè il testamento, allora, oltre che della presenza del Questore, il notaio, aveva bisogno del sigillo di testimoni - la pubblicità di un tale atto insomma, richiama in chi lo compie e in chi vi assiste, volere o non volere, l'idea del finale trapasso. Siamo perciò ad una impressionante manifestazione <li depresso spirito militare sebbene in forme, si può ben dire, legali. Dice: « A poco a poco, le voci e le paure di cotal gente, giunsero a turbare anche i più induriti alla vita di gtterra; legionari, centurioni, comandanti dì cavalleria, milites centurionesque quique equitatui praeerant ». Ma è difficile pensare (e può darsi che così fosse anche allora) che la paura delle strutture gerarchiche più deboli non sia cominciata proprio da qualche imprudente discorso di guerrieri verj. Si impaurirono, comunque, quei legionari che ancor oggi miriamo sulla colonna di Traiano o su altre vestigia con tanto di elmo scudo e gladio impugnato. Si impaurirono i centurioni, che sarebbe come dire oggi i tenenti i capitani i maggiori i colonnelli di carriera, querce delle fanterie e delle artiglierie. Si impaurirono gli ufficiali di cavalleria, i comandanti, oggi, di unità celeri e corazzate, folgori della battaglia. Ma costoro non li troviamo rannicchiati sotto le tende, in tabernaculis: sono all'aperto, pensoso l'aspetto e misurato il verbo. Dice: « Dei legionari, centurioni e comandanti di cavalleria, quelli dze volevano sembrare meno paurosi dicevano di non temere il nemico ma le valli strette e profonde, angustias itinerjs, e la vastità delle selve, magnitudinem silvarum; che caratterizzavano l'itinerario fra noi e Ariovisto; oppure d~ev~no di temere le dif.ficoltà che sarebbero sorte per il rifornimento dei vtveri ».

Non sono però argomenti, se ben li consideriamo, ispirati solo <la paura:· le valli anguste e le numerose « strette n che non consentono spiegamento di forze, per cui pochi possono aver ragione di molti o far pagar caro il forzamento; il combattimento nei boschi - le fitte selve di duemila anni fa - che, a parte la perenne insidia nelle marce, si frantuma nella guerriglia, procedimento tattico ostico all'indole romana; e infine una lunga e indifesa, eppertanto insicura, linea di rifornimento alla mercè di popolazioni, non c'era da dubitarne, tutte ostili. Argomenti perciò di natura profess1onale che, assai più delle maldicenze in tabernaculis, corrodevano il prestigio del proconsole. Al quale parecchi giunsero a dire che il giorno che egli avesse ordinato di togliere il campo é di riprendere il movimento, i soldati non gli avrebbero ubbidito, non f9re <lieto audientes milites, e che quindi, stante la paura, propter timorem, nòn si sarebbero posti in marcia. Preannunziata, a chjare note, la rivolta.


Dice: « Appena mi resi conto dello stato delle cose, ordinato un "gran rapporto" , convocato consilio, a cui feci partecipare ufficiali di ogni grado, omniumque ordinum adh~bitis centurionibus ... ». A rapporto dunque non solamente, oltre Legati e tribuni, i centurioni primipili, come pare che di solito avvenisse, ma anche i centurioni di minor grado: tutti gli ufficiali, oggi diremmo. Sessanta i centurioni, sembra, di ciascuna legione; più i comandanti di cavalleria, più i comandanti <lei reparti ausiliari e gli ufficiali dei servizi, più Legati e tribuni; un gran rapporto, anche numericamente, solenne, in cui ascolteremo uno dei più vivi discorsi militari dell'antichità romana. IL

DISCORSO.

Cesare li biasimò aspramente perchè avevano osato arrogarsi il dirt.tto di chiedere, o anche solo di pensare, dove e con quale piano egli li conducesse. Li ributtò, così, tutti indietro, a primo colpo, ristabilendo l'enorme, e non formale, distanza gerarchica fra lui e loro. - Ariovisto, sotto il consolato di Cesare, aveva fatto di tutto per ottenere l'amicizia del Popolo Romano, cupidissime amicitiam adpetisse: che motivo c'era per credere che, a distanza di appena un anno, egli venisse meno senza ragione ai suoi impegni? Cesare era invece persuaso che Ariovisto, conosciute meglio le sue richieste e riconosciuta l'equità delle condizioni propostegli, non avrebbe ripudiato nè l'amicizia sua nè quella del Popolo Romano neque suam neque populi romani gratiam repudiaturum. Dopo il colpo rude, la nota distensiva: tutti i presenti hanno l'onore di essere resi partecipi - e per bocca di un uomo sino a ieri investito della suprema magistratura dello Stato - dei precedenti e dello sviluppo di una grossa faccenda politica. Le intolleranze di Ariovisto, incubo taciuto di quegli ascoltatori, attribuite alla scarsezza delle informazioni sulle effettive intenzioni romane; Cesare, inoltre, fiducioso nella stabilità delle amicizie. Ma fu distensione di breve durata perchè il proconsole la troncò con d ue seri interrogativi. - Che se Ariovisto fosse stato così folle e dissennato, si furore atque amentia impulsus, da prendere l'iniziativa di una guerra, che cosa avevano essi da temere? Rilanciata l'ipotesi di guerra: che nessuno si faccia eccessive illusioni; avrebbe potuto anche accadere, sebbene Cesare non lo .ritenga probabile, che Ariovisto fosse incolto da dissennatezza o addirittura da follia. - Perchè essi disperavano del loro proprio valore e della prudenza di chi li comandava? Timori e catastrofiche previsioni rivelavano anche, ed era la nota più odiosa, sfiducia nel proconsole. - Nemici di tal fatta li aveva sperimentati la generazione dei padri


quando - da Caio Mario disfatti Teutoni e Cimbri - l'esercito fu giudicato degno di lode non meno del generale che lo aveva comandato. E chi credete che siano i Germani? Circa mezzo secolo addietro le grandi vittorie di Aquae Sextiae e dei Campi Raudii sono state frutto non solo del genio militare di un Mario, ma altrettanto - e ciò non esito a conclamarlo io stesso, di quel capitano nip<>te - della capacità degli eserciti romani. - Un'altra esperienza di Germani era stata fatta recentemente in Italia, nella rivolta servile, servili tumultu, nella quçile gli schiavi s'erano pur giovati dell'esperienza e della disciplina militare apprese dai Romani. Guerra che dimostrava l'importanza della tenacia: quegli schiavi, per un certo tempo sconsideratamente temuti mentre erano disarmati, inermes, più tardi quando, riusciti ad armarsi, avevano ottenuto anche dei successi, armatos ac victores, - erano stati battuti. Circa tre lustri prima, in Italia, a cagione delle leggende sul valore dei Germani, volontà incantate e per qualche tempo paralizzate di fronte alla rivolta delle masse di schiavi - in gran parte Germani e già ausiliari negli eserciti romani - capitanate dal gladiatore Spartaco. Ma il triennio di quell'aspra lotta non era un ricordo solo tramandato, come quello dei Cimbri e Teutoni: fra i presenti, vi potevano pur essere, anche se non molti, coloro che a quella guerra avevano partecipato. Che costoro di quel passato facessero testimonianza ai più giovani. - Questi Germani, del resto, sono pure quegli stessi con cui gli Elvez1 si erano spesso scontrati non solo in territorio proprio ma anche in quello germanico; e gli Elvezt hanno riportato su di essi più volte vittoria. Ebbene, ultimamente, gli Elvezi non hanno potuto tener testa all'esercito romano. Un sillogismo, solo però le premesse: i Germani inferiori agli Elvez1, gli Elvez1 inferiori ai Romani .. . omessa la deduzione e, con essa, ogni ottimismo. Che però, ora, gli ascoltatori facessero un passo avanti; cominciassero a fi ssare lo sguardo sul mostro germanico; a considerare con attenzione la stessa battaglia di Magetobriga, - citata da Diviziaco nel suo discorso - di cui i Galli sono ancora atterriti. - Se alcuni erano impressionati dalla sconfitta e dalla rotta patite dai Galli, costoro, informandosi meglio, avrebbero potuto scoprire che ( stanchi i Galli per la lunghezza della guerra) Ariovisto, dopo essersi rinchiuso per molti mesi in un campo circondato da~paludi senza dare all'avversario possibilità di attaccarlo, d'improvviso, av.eva assalito i Galli quando questi avevano ormai rinunciato a ogni speranza di battaglia e si trovavano disuniti; e li aveva, in tal modo, vinti: ma più per un piano ben calcolato, magis ratione et consilio, che per superiorità combattiva delle sue truppe, quam virtute. Sì, Ariovisto capace di un piano di guerra attuato., nel tempo, con risultato a lui favorevole. Chi poteva disconoscerlo? Ma che si riflettesse sulla testa che quel piano aveva ideato: una mentalità operativa barbarica, tendente al


71 temp0reggiamento fra ostacoli naturali perchè timorosa della battaglia quando presentasse qualche seria incognita. - Ma se tal piano aveva potuto servire contro gente barbara e inesperta, A riovisto neppur lui, ne ipsum quidem·, s'illudeva che potesse ingannare eserciti come i romani. Non dice: Ariovisto comprende bene che una tal tattica, con me, non attacca. Corregge il suo pensiero con una espressione che vivifica la dignità e la collaborazione di tutti: con eserciti come i nostri. Fu però l'ultima battuta conciliativa. - Coloro che nascondevano la lor paura sotto un pretesto com( quello del vettovagliamento e delle difficoltà dell'itinerario si comportavano da presuntuosi: mettendo in dubbio la capacità del generale, si ritenevano in grado di consigliargli ciò che dovesse fare. Erano tutte faccende che riguardavano soltanto lui: il grano lo rifornivano i Sequani, i Leuci, i Lin goni, e ce n'era di già maturo nei campi; in quanto all'itinerario, avrebbero giudicato essi stessi fra poco, ipsos brevi tempore iudicaturos. La frecciata più forte contro coloro, e non p0tevano essere che comandanti di grado elevato, - anche qualche Legato? - che propalavano argomentazioni di natura professionale. Li colpì in pieno, alla presenza ,di tutti: è la paura che vi fa parlare (ingiuria pericolosissima per chi la lancia: può suscitare, anzichè la remissione, il coraggio della ostinatezza). Il grano non sarebbe dunque venuto nè dalla Provincia nè dagli Edui, - nel qual caso la linea di rifornimento sarebbe risultata lunga e insicura ma ,da pop0Ii assai più vicini alla direttrice di marcia Besançon - Strasburgo : dai Sequani nel territorio stesso dove ora si trovava l'esercito, dai Lingoni sull'altipiano di Langres, dai Leuci nel territorio di Toul. Il che voleva anche dire che l'esercito, per portarsi sino ad Ariovisto, avrebbe attraversato territori, perlomeno temporaneamente, non nemici; che, in definitiva, qualche approccio politico aveva preceduto l'azione militare. Collaboratori i Sequani i Lingoni i Leuci; più a occidente, i « consanguinei » Edui; più a settentrione, quei Treveri che si erano affrettati a segnalare Nasua e Cimberio : un giro d'orizzonte politico di ampiezza sconcertante per quanti, fra gli ascoltatori, potevano capire. Per rammentare a presuntuosi e ignoranti la complessità delle sue attribuzioni e della sua opera, era stato costretto a far cenno alla questione dei rifornimenti; nessuna soddisfazione però circa le difficoltà naturali dell 'iti- , nerario: progetti di sua esclusiva e gelosa competenza, da tenersi, per ovvio motivo, segreti. Gli ansiosi avrebbero giudicato essi stessi durante la marcia, fra p0co. - Gli si diceva che i soldati non avrebbero obbedito agli ordini e non si sarebbero posti in marcia: ciò non lo turbava minimamente, nihil se ea re commoveri. Egli sapeva infeltti che quando un esercito si era ribellato al suo


generale lo at eua fatto o perchè a questi era t•enuta meno la fortuna per auer mal condotto un'impresa oppure perchè era stata prouata, la di lui disonestà per qualche cattiua azione da lui commessa. Ma la sua correttezza era dimostrata da tutta la sua uita, suam innocentiam perpetua vita, la sua buona stella dalla guerra contro gli Eftiezt. I promotori della rivolta non avrebbero potuto esimersi, ci pensassero bene, dal preparare serie giustificazioni al loro operato: quali? Escluse, nel generale, l'avidità nella ripartizione delle prede e l'incapacità professionale, una rivolta in terra straniera - fra genti nemiche: e chi non ne vedeva le conseguenze? - si presentava priva di fondamento. Integrità morale nell'amministrazione e provata capacità di comando: il proconsole, pasta in giusta e ferma luce se stesso, lanciò la sfida. - Avrebbe fatto subito ciò clze aveva intenzione di rimandare di alcuni giorni, e la notte di quello stesso giorno, al quarto cambio della guardia, aurebbe tolto il cp.mpo, proxi ma nocte: egli uoleua rompere ogni indugio per accertarsi subito se in loro ualesse più il sentimento del douere, pudor atque officium, o la paura, an timor. Non discussioni, compromessi, patteggiamenti: fra pache ore, l'ordine di togliere il campa doveva già essere eseguito. - Se, nonostante tutto, nessuno lo avesse seguito, egli sarebbe partito con la sola decima legione, cum sola decima legione, della quale non dubitava: di questa legione avrebbe fatto la sua coorte pretoria, sibique praetoriam cohortem . Dunque: prima di affid~si al discorso, egli era sicuro (come dubitarne?) della secessione della Decima, trovata a Ginevra un cinque mesi fa. - Egli prediligeva la decima legione poichè a11e11a nel suo valore fiducia illimitata. Conclamata la sua fiducia nella legione di Ginevra, il proconsole pose· termine a discorso e rapporto. Avrebbe fatto subito ciò che aveva intenzione di rimandare di alcuni giorni e la notte di quello stesso giorno, al quarto cambio della guardia, avrebbe tolto il campo: una volontà dispotica irrigiditasi e isolatasi che o stravince o va in perdizione. 1

Ma ora a favore del proconsole la~ra la perplessità degli amm1 provocata dalla secessione, data per certa, della Decima: un vuoto forse improvviso nella presunta sicurezza della comune solidarietà con cui i comandanti, la maggior parte se non tutti, si erano presentati al rapporto. Con orgoglio, dice: « Dopo questo discorso, si i:ide uno straordinario mutamento in tutti gli animi e rinacque rigogliosissimo lo spirito combattivo, sum maque alacritas et cupiditas belli >>.


73 Ma non si limita alla generica costatazione del comune mutamento degli animi: ne scandisce, con particolare insistenza, il concreto manifestarsi. La, decima legione, per prima, lo ringraziò a mezz.o dei tribuni di averla giudicata così favorevolmente e confermò di essere prontissima alla gue7a. Dichiarazione - sembrerebbe - immediata, fatta quando, tutti ancora 'riuniti, era vivo l'effetto del discorso. In seguito, tutte le altre legioni incaricarono i tribuni e i centurioni primipili di presentare a Cesare le debite scuse col dirgli: non aver esse mai esitato è temuto, nè essersi mai arrogato il diritto di discutere la condotta della guerra, attributo esclusivo del generale. Ciascuna di queste legioni non si limitò dunque, come la Decima, a inviare i suoi sei tribuni ma vi aggiunse i primipili, provenienti dalla gavetta e comandanti diretti di truppe, come a significare che l'attestato proveniva dal cuore stesso dei legionari. Cesare, accettate le loro scuse, eorum satisfactione accepta, ... Quasi sei cerimonie distinte: prima la Decima, pci, l'una dopo l'altra, le altre cinque legioni. Scanditi procedimenti e tempi della sottomissione. Sottomissione totale ed esplicita a chiusura ,di una crisi che era forse giunta . al _punto di impcrre, per 5<Iuilibrio disciplinare, la sospensione delle operazioni . . . . Il giorno dopo, al quarto cambio della guardia, all'alba, così come aveva annunziato nel discorso, si rimise in movimento, de quarta vigilia ut dixerat profectus est. I Germani, per lunga e ormai ricorrente tradizione, valorosi nonchè di straordinaria statura e ognora addestrati a combattere; Ariovisto uomo di buona testa e di grande energia (nella città di Vesonzione ci pctevano pur essere persone che lo attestassero con acuto giudizio); il paese che doveva percorrere l'esercito, tra Besançon e l'Alsazia meridionale, montuoso, in gran parte ricopero da immense e spesse selve, cosparso di stagni, inciso di valli fluvì ali lunghe e incassate; malsicura la cavalleria gallica e perciò non garantite l'esplorazione e la sicurezza; infine le stesse legioni - pcche per sì vasti pressanti progetti e sotto torchio da cinque mesi - non solo piuttosto spossate ma soprattutto come smarrite in luoghi sì diversi dalla pianura padana da cui cinque provenivano. Se una battaglia con Ariovisto fosse riuscita sfavorevole, ~ collaboratori Sequani, Lingoni Leuci, senza escludere Edui e Treveri, si sarebbero tramutati, questione di ore, in assassini dell'esercito romano sconfitto o anche solo non vincitore e nella necessità di ritirarsi nella lontana Provincia. Animi dunque sconvolti per buoni motivi (noi, oggi, solo con un non agevole sforzo di immaginazione pcssiamo in qualche modo far rivivere in


74 noi qualche po' della guerra di quei tempi: la gravezza dei movimenti, il quotidiano travaglio per le necessità elementari, l'angoscia del vuoto in regioni sconosciute e ostili; l'amarezza della sorte nella sconfitta, e la ferocia, soprattutto, del combattimento a braccio). Le legioni, lanciate quasi all'improvviso contro un ostacolo su cui potevano fracassarsi, avevano recalcitrato. Esse erano passate da un estremo all'altro e perchè il capo aveva avuto polso fermo e perchè, poste al bivio, avev~o pur paventato le conseguenze di una rivolta in terra straniera, abbandonato che avessero chi teneva in mano, quali che fossero, le fila di una situazione da lui stesso creata. Ma il mutamento degli animi, se offriva il vantaggio, certo grande, di rendere meno nera l'opinione che le legioni s'eran fatta dell'ostacolo, non modificava la reale consistenza delle cose: tutte le incognite in piedi, tali e quali, come prima. Concepita e m essa in esecuzione con ritmo affrettato, in una situazione politica fluida, - era Ariovisto che aveva tenuto e teneva i Galli col fiato sospeso, ossia, nell'intimo, diffidenti - questa impresa permaneva, e Cesare per primo ne era convinto, temeraria. Temerarietà posta in evidenza con l'episodio, appunto, della paura, descritto poi, a cose superate, con indulgenza faceta, sebbene non priva di qualche amaro sottinteso: tutti perplessi, anzi tutti contrari, tutti sul punto di rifiutare l'ostacolo. Onde, per contrasto, una più nitida verità: è lui, Cesare, solo lui, che ardisce porsi in un'impresa giudicata disperata anche da gente di testa e di ardire.

CESARE E ARIOVJSTO

ARIOVISTO AL BIVIO.

Diviziaco, - l'uomo in cui Cesare riponeva la massima fiducia - incaricato di studiare l'itinerario (incarico affidatogli prima o dopo le ruvid:: critiche?), consigliò un giro di circa ,settantacinque chilometri che consentiva la marcia dell'esercito per luoghi scoperti, locis apertis. L'esercito romano avrebbe dovuto portarsi da Besançon alla piana d' Alsazia per la via più diretta, percorrendo, che è quanto i legionari paventavano, la stretta valle del Doubs tutta dominata dai complessi montuosi e boscosi del Giura; su consiglio di Diviziaco avrebbe invece scansato, pur allungando il percorso, i luoghi più difficili; indi, per raggiungere l'Alsazia, superato Belfort, si sarebbe trovato in terreno che via via si risolve nella valle del Reno.


Il Doubs e la probabile variante - lungo l'Ognon proposta <la Diviziaco.

probabili luoghi d'incont ro dei due eserciti nella valle del Reno.

Cesare dice: « AL settimo giorno, septimo die, senza mai interrompere la marcia, fui informato dagli esploratori che le forze di Ariovisto distavano dalle romane non più di trentasei chilometri». Se si accetta l'ipotesi che l'esercito romano si sia poi fermato nella bassa Alsazia in quel di Epfig, la media giornaliera di marcia - da Besançon a Epfig circa duecento chilometri, ma occorre aggiungere il giro suggerito da


Diviziaco - fu di oltre trenta chilometri: sette giorni continui, senza alcuno di sosta, come abbiamo appena inteso. Se dunque l'esercito romano si fermò a Epfig, Ariovisto, ora a trentasei chilometri, trovavasi effettivamente poco a sud della zona dove oggi sorge Strasburgo, padrone di larga testa di ponte a occidente del Reno. Lecita pertanto la conferma che Ariovisto non aveva fatto alcun movimento per occupare Vesonzione. Ma se i Sequani, timore o ordine di Ari9visto, o di lor propria iniziativa, avessero apprestato a difesa Vesonzione, Cesare avrebbe dovuto far ricorso a operazioni ossidionali lunghe e sanguinose: l'occupazione così all'improvviso, senza cortese preavviso, dispensò dunque Cesare e Sequani da ogni imbarazzo. Nella guerra contro gli Elvez1, Cesare ha occupato, con rapida diversione di marcia, Bibracte, base logistica e pegno politico strappato agli Edui; in questa guerra, se guerra sarà, egli occupa, con rapida diversione, Besançon, base logistica e pegno politico strappato ai Sequani. Bibracte occupata perchè mancavano solo due giorni alla distribuzione del grano? Vesonzione occupata perchè Ariovisto era sul punto di occuparla lui? Spalle al sicuro e accettazione della battaglia, nel primo caso; spalle al sicuro e marcia ad Ariovisto, nel secondo: identico, in entrambi, il procedimento mentale. Predominante, assoluta, in entrambi, l'esigenza militare; eppertanto senza più importanza la risposta agli interrogativi.

Due occupazioni di capitali, nonchè la battaglia di Bibracte, sconcertanti per Ariovisto; il quale, da cinque mesi, - da fine marzo quando Cesare è giunto a Ginevra a questa fine di agosto - ha dovuto assistere impotente all'opera di questo proconsole uscito di sua iniziativa dalla Provincia e che, giorno per giorno, senza toccarlo direttamente, ha fatto rialzare la cresta . a tutti gli sconfitti di Magetobriga e ai Sequani stessi; e che ora gli è alle costole con sei legioni. Ariovisto, perciò al bivio: o far finta di nulla, ma possibile?, o intavolare le trattative poc'anzi respinte. Saputo dell'arrivo di Cesare, Ariovisto gli invia ambasciatori. Il colloquio già da voi richiesto - dissero gli ambasciatori - il nostro capo non ha ora alcuna difficoltà a concedervelo, dato che siete stato Voi ad avvicinarvi a lui; il nostro capo pensa.. quindi di poter aderire al vostro desiderio senza suo pericolo. , Ancora offensivo: accetta il colloquio perchè ora non teme alcun pericolo personale; ribadisce il sospetto che i Romani avrebbero voluto isolarlo per ucciderlo a tradimento. Cesare dice: « Non respinsi l'offerta. Giudicai. anzi indizio di resipi.scenza il fatto che Ariovisto offrisse spontaneamente ciò che prima mi aveva rifiutato. In considerazione poi dei grandi benefici che Ariovisto aveva rice-


77 vuto da me e dal Popolo Romano, cominciai veramente a sperare, magnamque in spem veniebat, che egli, conosciute meglio le mie richieste, sarebbe venuto a più miti consigli». Volontà di pace, dunque; e perchè è ognora lustro e non umiliazione la trattativa che tenti di allontanare la violenza; e perchè a Roma non credano che egli voglia la guerra a tutti i costi contro « re e amico »; e perchè le legioni si convincano della sua sincera intenzione di evitare lo scontro con i Germani. Dice: << Il colloquio fu fissato cinque giorni dopo, dies conloquio dictus est ex eo die quintus. Nell'attesa vi fu intenso scambio di messi ... ». Per la diffidenza di Ariovisto non dovè essere facile l'organizzazione dell'incontro. Una grossa difficoltà sorse infatti nei quattro giorni che lo precedettero. Ariovisto pose la condizione che Cesare non conducesse con sè al colloquio alcun fante: temeva di cadere in qualche insidia tesagli da Cesare stesso, ab eo (il suo sospetto non è dunque più generico). Dovevano venir tutti e due con sola cavalleria, uterque cum equitatu. O si accettava tal condizione o egli non sarebbe venuto. I cavalieri, montati, si vedono e si possono contare uno a uno, solo che il terreno, pianura o montagna, sia spoglio di alta vegetazione; assai mobili, piuttosto indipendenti dalle accidentalità topografiche, essi sono sempre pronti a sottrarsi, con un po' d'attenzione, a situazioni poco chiare. I fanti invece si perdono di vista ove sia minima piega o cespuglio e si sottraggono a valutazione numerica col vario giuoco delle formazioni e dello scaglionamento. Cesare dice: « Poichè nè volevo che questa difficoltà mandasse a monte il colloquio, nè mi sentivo d'altra parte di affidare la mia vita alla cavalleria gallica, pensai che la soluzione migliore fosse questa: togliere alla cavalleria gallica tutti i cavalli e farli montare dai soldati della decima legione, che godevano della mia massima fiducia, in modo d'avere una scorta sicura e affezionata se ci fosse stato bisogno di agire». Già; la cavalleria di Cesare, un quattromila cavalli, era tutta gallica; la condizione posta da Ariovisto impegnava perciò un punto delicato, il più debole, della situazione del generale romano. Sicchè a Cesare, posto improvvisamente nell'imbarazzo, per non mandare all'aria il colloquio, non rimase che ricorrere all'increscioso ripiego che abbiamo appena udito. Non potè infatti essere un bell 'atto togliere ai Galli i propri cavalli con motivi, tutt'al più, speciosi; nè potè riuscire gradita alle altre legioni sì clamorosa riconferma di .fiducia alla Decima; nè infine gli stessi legionari della Decima potevano tenerci, tutti, a tramutarsi di punto in bianco in cavalieri montati su destrieri, se non altro, sconosciuti. Ma il colloquio Cesare, purchè non comportasse perdita di tempo, lo voleva: un modo per vedere finalmente in faccia questo Ariovisto di cui tanto


si parlava; un modo, sapendo fare, per inasprirgli l'animo in contingenza che richiedeva la maggiore consideratezza. Fu cosl dunque che tre quattromilél. legionari della Decima - inqua<lrati certamente da cavalieri autentici - si camuffarono da Galli e montarono cavalli dai Galli prestati. N~ mancò in frangente sì tumultuoso (e anche forse esilarante se i cavalli di allora si innervosivano cambiando di mano) il frizzo del solito fante spiritoso, magari il più ignorante. Mentre avveniva il cambio, un legionario della Decima disse spiritosamente, non inridicule: Cesare fa più di quanto ha promesso: a Vesonzione ha detto che abrebbe fatto della Decima la sua guardia del corpo, la passa ora addirittura nella Cavalleria, ad equum rescribere. « Ad equum rescribere » significava passare nell'arma di cavalleria ma voleva anche dire essere innalzato alla classe economicamente più forte dello Stato, all'Ordine dei Cavalieri. (Eccolo, lui, lo scarpone, che già si specchia bell'e sistemato nell'Ordine dei Cavalieri). L'INCONTRO.

Planities erat magna et in ea tumulus terrenus satis grandis, in una grande pianura sorgeva una piccola altura abbastanza spaziosa. Questo luogo distava pressappoco ugualmente dagli accampamenti dei due eserciti. Su tale altura, come s'era convenuto, i due capi si abboccarono. Siamo nella grande piana di Alsazia; e in quanto all'altura, ipotesi accettabile la pone nei pressi di Rosheim, a sud - ovest ,di Strasburgo, ai piedi dei Vosgi. Cesare fece fermare a trecento metri circa dall'altura la legione che aveva condotto a cavallo. I cavalieri di Ariovisto si fermarono a ugual distanza. Ariovisto chiese - non sappiamo se durante le precedenti trattative o all'ultimo momento - che il colloquio avvenisse a cavallo, e ohe ciascuno dei due capi avesse al suo immediato seguito solo dieci cavalieri. · Sicchè undici cavalieri romani e altrettanti germanici si avviarono, da due opposte parti, verso la sommità dell'altura e quivi giunti si fermarono e fronteggiarono.

Parlò per primò Cesare : - Vi ricordo i benefici che avete rifevuto e da me e dal Senato: il Senato vi ha conferito il titolo di « re e amico », accompagnandolo con splendidi doni, rex amicus munera amplissime missa. Benefid, codesti, che sono ognora toccati a pochi e hanno ognora costituito per chi li ha ricevuti riconoscimento di 'grandi benemerenze: ma voi, pur non avendo nè titoli d'amicizia nè altra giusta ragione da far valere, li avete ott~nuti solo in grazia del favore e della liberalità mia e del Senato.


79 Esordio, quale che sia stato il tono con cui fu pronunciato, indisponente : chi credi di essere? su che fondi tanto compiacimento <li te stesso? - Dovete inoltre tener presente quante antiche e valide ragioni di amicizia legano i Romani agli &lui. Numerose e onorifiche, nel tempo, le deliberazioni del Senato a lor favore. Nè dovete dimenticare che gli Edui hanno avuto in ogni tempo e in tutta la Gallia posizione egemonica e ciò prima ancora che cercassero la nostra amicizia. Ed è costante politica del Popolo Romano ohe suoi alleati e amici non solo non debbano perder nulla di ciò che hanno, non modo sui nihil deper<lere, ma accrescere, mercè appunto il favore di Roma, il loro credito, la loro dignità, il loro onore, sed gratia <lignitate honore auctiores velit esse. Su tal premessa, chi potrà mai tollerare che sia tolto agli Edui ciò che essi hanno affidato all'amicizia del Popolo Romano? E Ariovisto già sa, sin dalla seconda ambasceria, che il proconsole, a cagione del noto decreto senatoriale, non può non sentirsi costretto alla protezione degli Edui. - Risottopongo perc-iò alla vostra attenzione le tre richieste già formulate dai miei ambasciatori: - dovete astenervi dal fei.r guerra agli Edui e loro alleati; - dovete restituire gli ostaggi; - se non potete rìmandare in patria nessuna parte dei Germani, dovete almeno impegnarvi che altri Germani non passino il Reno. Le tre condizioni che tendevano a far di Ariovisto un intruso. Ariovisto così rispose ... Cesare però anticipa, sulla risposta di Ariovisto, un suo personale giudizio conclusivo; dice: « Ariovisto poco rispose ai miei postulati e menò invece gran vanto dei suoi meriti, de suis virtutibus multa praedicavit ». Ascolteremo, allora, un Ariovisto inidoneo a valida argomentazione politica? Così dunque rispose Ariovisto: - Io ho passato il Reno non di mia znzzzattva ma perchè chiamato e pregato dai Galli, non sua sponte sed rogatum et arcessitum a Gallis. Non si può smentirlo: lo dichiara Diviziaco nel suo discorso. - Ho lasciato al di là del Reno patria e parenti non senza speranza di grandi ricompense e occupo in Gallia territori dai Galli stessi concessimi . .. Il terzo delle terre dei Sequani, come abbiamo appreso da DiviziacQ. Sarebbe però da intendere che Ariovisto ne godesse solo un reddito, senza materiale occupazione. - ... Sono in mia mano ostaggi datimi dai. Galli di loro volontà; riscuoto - così come vuole il diritto di guerra, iure belli, - il trìbuto che i vincitori usano imporre ai vinti. Un mercenario che si arroga il diritto di ricevere e tenere ostag!ri, nonchè di imporre e riscuotere tributi? Ma il fatto è che ora Ariovisto sembra che ritenga cambiata la sua posizione, morale e giuridica, nella Gallia.


80 - Non io ho fatto guerra ai Galli ma i Galli a me, non sese Gallis sed Gallos sibi bellum intulisse. Tutti i popoli della Gallia si mossero ad attaccarmi e mi si posero di fronte: ma io ho ributtato e mnto tutte le loro forze in una sola battaglia, uno proelio. Coalizione e conseguente disfatta di Magetobriga. Ariovisto dunque, dopo tali fatti, non si ritiene più mercenario ma nel rango dei vincitori <li guerre: con diritto, pertanto, a ostaggi e tributi. - Se i Galli vogliono ritentare la sorte delle armi, io sono pronto a combattere; se invece vogliono la pace, non è g~usto che rifiutino il tributo finora pagato con loro accettazione, sua voluntate. I rapporti con i suoi tributari, forse già tesi dall'apparizione di Cesare in Gallia, non gli consentivano più un accordo diretto, un qualsiasi accomodamento; onde l'aspro dilemma come se Cesare fosse l'intermediario: o continuano a pagare o la guerra. - L'amicizia del Popolo Romano mi dev'essere di lustro e d'aiuto, non di danno, sibi ornamento et praesidio non detrimento: con questa speranza l'ho chiesta. Se, a causa del Popolo Romano, devo rimettere i tributi e perdere i vassalli, rinuncerò ali'amicizia del Popolo Romano con lo stesso entusiasmo con cui l'ho desiderata. Ammette, sì, che è stato lui a sollecitare i titoli di « re e amico ))' che gli avrebbero legittimato - e che altro mai quei titoli potevano significare? le conquiste già fatte; ma non vede applicata, nel caso suo, la norma costante della politica di Roma di accrescere e non diminuire i beni degli amici. - Quanto al gran numero di Germani che faccio passare in Gallia, è per difendermi dai Galli non per attaccarli; n'è prova il fatto che qui non son venuto se non chiamato e che mai ho preso io l'iniziativa di guerra, limitandomi alla difesa. Il suo contegno gli sembra finora ineccepibile: è venuto in Gallia chiamato, non ha mai condotto guerra offensiva, è costretto dall'altrui ostilità a ingrossare le sue file. - Io sono venuto in Gallia prima del Popolo Romano: mai infatti prima d'ora un esercito del Popolo Romano è uscito dai confini della Provincia. Ariovisto sembra che tenti di far valere un suo diritto di precedenza appigliandosi al lungo disinteresse di Roma, circa mezzo secolo, per le faccénde inrerne della Gallia accennate da Diviziaco nell'esordio del suo discorso. In- altri termini: da che sono qui io, parecchi anni, e i contrasti fra me e i Galli non sono stati pochi, nessun proconsole s'è fatto vivo. - Che cosa volete da me? quid sibi vellet? perchè siete venuto nei miei · possedimenti? cur in suas possessiones veniret? Questa parte della Gallia è la mia Provincia così come quella - al Rodano - è la vostra. Pretese, si direbbe, non più del tutto istintive, sorrette da vasta visione politica, sia pure in barlume. Indubitabile, comunque, la già sicura contrapposizione realistica: queste sono terre mie, quelle sono terre vostre.


8r - Se 10 attaccassi i confini romani, voi, giustamente, vi opporreste; allo stesso modo, i Romani commettono un'ingiustizia, esse iniquos, venendo qui a impedire l'affermazione del mio diritto. Ariovisto a tu per tu con Roma. - Voi mi ricordate che gli Edui godono dell'appellativo di « fratelli »: ma io non sono così barbaro e così poco al corrente di faccende politiche, tam barbarum tam imperituro, da non sapere che nell'ultima rivolta degli Allobrogi contro Roma, appena tre anni or sono, i << fratelli » Edui non hanno aiutato i Romani; nè questi « fratelli » Edui sono stati aiutati dal Popolo Romano nelle lotte che hanno sostenuto finora con me e con i Sequani. E allora? chi ha montato, a Roma, la macchina a favore degli Edui? donde è esploso, all'improvviso, tutto questo romano affetto per gli Edui ? - lo devo sospettare che Voi, fingendovi amico, simulata amicitia, avete un esercito in Gallìa in quanto è vostra intenzione attaccar me, sui opprim endi causa. Cesare dunque fu patrocinatore delle sue richieste al Senato col nascosto scopo - questo ritiene Ariovisto - di abbonirlo sino al giorno, vicino, del proconsolato. - Se non vi allontanate conducendo via l'esercito da queste regioni, vi considererò non amico ma nemico, non pro amico sed hoste. Un'intimazione: ma Ariovisto riteneva (ciò che ora sentiremo è sorprendente) di avere ,buone ragioni per farla. - E se io vi uccidessi, farei cosa gradita a molti nobili, a molti autorevoli personaggi del Popolo Romano: essi stessi me lo hanno assicurato per mezzo di loro messi; favore e amicizia da tutti loro potrei guadagna,.mi con la vostra morte.

Gli « Idi di Marzo » annunziati quattordici anm pnma.

Destituite di fondamento, tutte o in gran parte, secondo Arìovisto, le pretese a nome del Senato: ritiene di aver di fronte e ostile non il Popolo Romano, ma, semplicemente, un proconsole. - Tuttavia, se voi vi allontanate e mi lasciate libero il possesso di questa Gallia, io vi ricompenserò largamente. Vi prometto anzi, qualunque guerra in Gallia voi vogliate fare, di condurvela io stesso senza alcuna vostra fatica e pericolo. Terminò così il suo dire. E può darsi che pensasse sul serio ad associarsi Cesare nella conquista di altre terre galliche. Ribattè Cesare ( che consumò - dice - molto fiato, multa ab Cesare dieta sunt, nel tentativo di persuadere Ariovisto che egli non poteva fare a meno di interessarsi della questione):

6. -

u.s.


- Non è mio uso nè del Popolo Romano abbandonare benemeriti alleati; nè posso ammettere che in Gallia un Ariovisto abbia più potere del Popolo Romano. La sorte degli Edui tutta affidata al Popolo Romano : si convinca Ariovisto che questo è il centro della questione, lo scoglio, quali che saranno le sue rinunzie, che deve fermarlo. - Alverni e Ruteni furono pur vinti da Quinto Fabio Massimo: ma il Popolo Romano perdonò loro: nè li ridusse a prot1incia nè impose loro tributo ... Un precedente di oltre sessant'anni (però proprio in quegli anni Roma si compensò con stabili conquiste sulle coste galliche mediterranee, primi impianti della Provincia). Da Quinto Fabio Massimo si tragga dunque esempio): vincere un popolo - e nessuno pone in dubbio la vittoria di Magetobriga - non significa soggiogarlo. - ... Se, · pertanto, si guarda al diritto di precedenza, l'ingerenza del Popolo Romano in Gallia è più cl,e legittima, populi romani iustissimum esse in Gallia imperium .. . Roma interessata alla Gallia quando Ariovisto non era ancora nato. - Se, infine, devo tener conto - e lo devo - del pensiero del Senato, la Gallia - cl,e il Senato ha voluto che ogni volta, pur vinta, conservasse le sue leggi - deve restar libera, liberam deberc esse Galliam.

Le quattro grandi parole che tutti, certo, attendevamo: liberarn debere esse Galliam. Non ad Ariovisto e neppure a Roma: la Gallia è dei Galli. Ma a questo punto, fosse o non fosse quello della conclusione, qualcosa avvenne che consigl iò o impose la sospensione del colloquio. A questo punto, Cesare fu avvertito che i cavalieri di Ariovisto si avvicinavano ali'altura, cavalcando in direzione della cavalleria romana (i legionari eran tutti, come sarebbe da supporre, a cavallo o parte a cavallo e parte, destriero alla mano, appiedati?) e lanciandole sassi e dardi. Ma se Ariovisto avesse avuto intenzione <li porre in atto quanto gli era stato chiesto da quei pochi o molti galantuomini di Roma non ne avrebbe dato, nel suo discorso, barbaro che fosse, alcun sospetto. Che vuol dire, allora, la minaccia della sua cavalleria? vero e proprio attacco - ma questo, invero, Cesare non lo dice - oppure eccessi di qualche pattuglia? Qualche alto ufficiale romano, - fra i dieci, probabilmente - dato l'aspro perdurare del colloquio, dovette a un certo punto paventare che la situazione precipitasse nella violenza; avendo pertanto notato, o sembrandogli, qualche sommovimento nella cavalleria barbarica,_- accompagnato da qualche sibilo <li sasso o di dardo - ne avvertì Cesare.


Che sarebbe successo (interrogativo che non si può eludere) se fosse avvenuto lo scontro? Cesare ,dice: « Interruppi, allora, il colloquio e mi ritrassi fra i miei, ordinando di non restituire al nemico neppure un colpo. Perchè, quantunque io non vedessi alcun pericolo in un combattimento fra la cavalleria e una sì scelta legione, non volevo che i Germani, ributtati, potessero accusarmi di averli attirati, col colloquio, in un agguato ». Sebbene, a dir vero, sia un po' difficile persuadersi come con le armi del tempo, tre quattromila cavalieri germanici - veri diavoli! ce lo <lirà presto Cesare stesso - lanciati alla carica su terreno pianeggiante per lo spazio di un seicento metri, qualche minuto di galoppo, avrebbero dato tempo alla Decima di appie<lare e schierarsi, chè solo appiedata e schierata la fanteria poteva prevalere sulla cavalleria; e se la Decima avesse accettato la pugna a cavallo, ci riesce propri<;> .difficile immaginarla - sia pure con legionari in qualche modo addestrati all'equitazione - ancora in sella al primo urto. La Decima a cavallo (meglio essa, questo sì, che la cavalleria gallica, in cui certo non mancava chi, volgendo le cose a male, avrebbe potuto pensarla come Dumnorige) dovè essere un ripiego a cui si potè ricorrere soprattutto contando sul candore dei barbari. Ripiego temerario; tanto che alla prima perturbazione (vera o inventata che fosse) il colloquio fu sospeso con l'ordine di incassare senza reagire. Dice: (< E quando fra i soldati si riseppe con quanta arroganza Ariovisto avesse vietato ai Romani tutta La Gallia e come i suoi cavalieri avessero aggredito i nostri, impetumque in nostros, in modo da costringermi a troncare il colloquio, l'esercito tutto si sentì preso da un nuovo e alacre ardore di combattere ». L'avvicinarsi dei cavaiieri germanici all'altura, propius tumulum accedere, quel loro cavalcare in direzione <lei Romani, ad nostros adequitare, - espressioni, come ognuno s'avvede, generiche - sono diventate ora, per i soldati, assalto, impetum. Di iniezioni di spirito combattivo non ve ne doveva però esser più bisogno. Le legioni come chiuse ormai e trasportate in un cerchio fatale: iniezioni più potenti dei Germani a trentasei chilometri e delle selve alle spalle? L'ULTIMA CARTA.

Ma due giorni dopo l'incontro, un'altra sorpresa. Ariovisto inviò a Cesare ambasciatori: egli desiderava riprendere con Cesare la discussione sulle questioni cominciate e non conclu.se; che Cesare o fissasse il giorno per un nuovo colloquio, oppure - se nuovo colloquio proprio non gradisse - gli invi-asse un suo Legato, e suis legatis aliquem. ll proconsole avrebbe potuto far a meno di disturbarsi lui in persona; bastava un suo rappresentante d'alto grado, qualificato per eventuali acéordi.


Un Ariovisto calato di tono, che sente il bisogno di rallentare, come può, la ruota veloce degli avvenimenti. Egli non s'era intromesso, un cinque mesi fa, - saremmo ora ai primi di settembre - nella questione elvetica, da lui forse ritenuta piuttosto estranea ai suoi interessi nella Gallia renana. Aveva lasciato fare; nella supposizione, probabilmente, che un conflitto armato fra Elvezi e Romani, a chiunque fosse toccata la vittoria, avrebbe reso inefficiente per qualche tempo e certamente per la stagione operativa in corso - l'esercito romano. Questi o simili o quali altri si voglia i motivi del suo indugio, certo è che gli avvenimenti avevano preso una piega ben diversa da quella che lui aveva potuto, comunque, supporre. E tre fatti, nel giro si può dire di qualche settimana, non poterono non sorprenderlo: l'invasione del territorio degli E<iui e l'occupazione di Bibracte (giugno); la disfatta totale degli Elvezi (giugno); il radunarsi presso Cesare, in Bibracte, dei rappresentanti di un gran numero o di un certo numero di popoli della Gallia, ivi compresi suoi tributari (luglio). Più specialmente la presenza presso Cesare del fuoruscito Diviziaco, suo capitai nemico, potè scoprirgli il nesso dei fatti accaduti .dal giorno in cui il proconsole era uscito dalla Provincia: Galli e Romani, da tempo tramando, più di quanto lui pur poteva sapere o supporre, s'erano accordati contro di lui. Dopo la battaglia di Bibracte - ma subito dopo: questione, si potrebbe dire, di ore - avrebbe potuto impadronirsi lui di Besançon, che pur era la capitale di quei Sequani che lo avevano chiamato d'oltre Reno. Ma o non ci aveva pensato o, se di qualche fondamento la notizia giunta a Cesare, ci aveva pensato tardi, oppure; com'è più probabile, non s'era affatto trovato nelle condizioni militari di poterlo fare. Un Ariovisto insomma - a fine luglio, dopo il Concilio di Bibractc preoccupato; e addirittura sbalordito, in seguito, dall'occupazione di Besançon senza che nessuno dei suoi Sequani avesse alzato un dito per opporvisi, e dall'avanzata, subito dopo, dell'esercito romano sino a trentasei chilometri dai suoi accampamenti. S'era tenuto su, durante il colloquio, con tutta la sua barbarica e germanica possanza (barbarum iracundum temerarium - ce lo ha descritto Diviziaco); ma ora, svaniti i fumi, la dura logica dei fatti lo aveva preso alla gola; tutti i Galli lo avevano abbandonato, tutti. Sequani, E<iui, Lingoni, Leuci, Treveri - i popoli più direttamente interessati alle cose della Gal1ia re.nana - non potevano non considerarlo un oppressore, ossia non potevano, anche lor malgrado, non considerare Cesare - la logica cruda, appunto, dei fatti - liberatore. Cesare dice: « Mi parve che ormai non ci fosse più nulla da dire; tanto più che due giorni prima i Germani non avevano saputo a,tenersi dal lanciar dardi contro i Romani. Inviargli un mio Legato giudicavo che fosse cosa


85 troppo pericolosa: era come metterlo alla mercè di gente barbara. Stimai dunque assai opportuno inviare Caio Valerio Procillo ( giovane di grandissimo merito ed educazione, il cui padre :._ Caio Valerio Caburo - aveva avuto dal generale Caio Valerio Fiacco, governatore della Provincia, circa mezzo secolo prima, la cittadinanza romana). Scelsi Procillo e per la sua serietà, e per la conoscenza che aveva della lingua gallica, et propter linguae gallicae scientiam, - lingua che Ariovisto per lunga pratica parlava già abbastanza bene - e infine perchè i Germani non potevano avere contro di lui, non romano, nessun motivo per fargli del male. A Procillo aggiunsi Marco Mezio, che era con Ariovisto in rapporti di ospitalità. J.j, incaricai di sentire ciò che diceva Ariovisto e di riferirmelo». Niente colloquio, niente plenipotenziario: ma Caio Valerio Procillo e Marco Mezio col mandato, solo, di sentire e riferire. Un Procillo, a onor del vero, che vantava due generazioni di cittadinanza romana (per cui, secondo consuetudine, lui e suo padre, come abbiamo appena notato, conservavano i prenomi del loro benefattore): ma non era un Legato; era - come Mezio, suo aggiunto - un Gallo romanizzato della Provincia. Ambasceria, quindi, fasulla: un affronto. Motivo per cui Procillo e Mezio come giunsero ad Ariovisto si ebbero accoglienza che non si aspettavano: quando Ariovisto se li vide davanti nell'accampamento gridò, conclamavit, in presenza di sue truppe: che cosa siete venuti a fare? a spiarmi? an speculandi causa? E mentre quelli si actcingevano a rispondere, impedì loro di profferir parola e li fece gettare in catene.

Un Ariovisto inasprito, livido; perchè la falsa ambasceria gli annunziava giunto il momento di scoprire l'ultima carta: l'esercito.

LA BÀTTA GLIA DI EPFIG MANOVRA DI ARIOVISTO.

Nello stesso giorno, - giorno sì amaro per Procillo e Mezio - Ariovisto si pose in movimento (trovavasi, come ricordiamo, a un trentasei chilometri dai Romani) e venne a porsi a circa nove chilometri dall'accampamento di Cesare, prendendo posizione ai piedi d'un monte. Lo scopo di tal avvicinamento non tardò a rivelarsi: il giorno dopo egli oltrepassò con le sue forze l'accampamento romano, e da questo si accampò a una distanza di circa tre chilometri con l'intento di tagliare i rifornimenti di grano e di altre vettovaglie, uti frumento commeatuque interclu<leret, che a Cesare venivano da Sequani ed Edui.


86 Sicchè, prima avevamo Ariovisto a nord, in quel di Strasburgo, e Cesare a sud, in quel di Epfig; ora, Cesare a nord e Ariovisto - con Cesare quasi a contatto: appena tre chilometri - a sud. Le vettovaglie dovevano dunque venire da Edui e Sequani; il che non escludeva che in seguito avrebbero potuto fornirle, così come ha detto Cesare nel suo discorso, popoli più vicini, quali i Lingoni e i Leuci. Ora come ora, però, la linea di rifornimento, proveniente da Besançon, si presentava (non avevano tutti i torti gli ipercritici) lunga e, a cagione delle selve, soggetta a insidie. Grossi convogli erano forse già giunti ma altri stavano per giungere : ecco perchè Ariovisto, lasciata la posizione di Strasburgo, dopo aver osato sfilare con tutta la sua gente davanti al nemico, s'era posto nelle condizioni di controllare, con potente cavalleria come ora sentiremo, tutta la zona terminale - gli accampamenti romani - degli itinerari logistici. Una manovra audace (la fiumana tumultuosa delle tribù germaniche - un sessantamila solo gli armati a piedi? - fu certo vista dall'accampamento romano: ma Cesare, sorpreso e impressionato ?, non l'attaccò); manovra, dunque, audace e, relativamente, rapida, ma che attesterebbe in Ariovisto il solo scopo, per intanto, di porre il nemico in crisi di vettovagliamento. Si creò, così, una situazione che, per cinque giorni consecutivi, dies continuos quinque, fu sempre la stessa: ogni giorno Cesare faceva uscire le sue truppe dagli accampamenti tenendole schierate a battaglia, e offrendo in tal modo ad Ariovisto, se questi lo avesse voluto, la possibilità di combattere: ma Ariovìsto, durante tutti i cinque giorni, tenne l'esercito nell'accampamento solo provocando ogni giorno scontri di cavalleria. Scontri favorevoli, lo si può affermare, ad Ariovisto perchè la cavalleria germanica era addestrata - e non era <la tanto la gallica - a questa tattica, genus hoc erat pugnace: seimila ca11alieri e seimila fanti fortissimi e velocissimi ( fanti che ciascun cavaliere si sceglieva per conto suo, nella massa dei/' esercito, per difesa personale), combattevano assieme. I cavalieri trovavano protezione, all'occorrenza, fra i fanti e i fanti, a lor volta, se la situazione diventava per i cavalieri critica, accorrevano; e cavaliere ferito caduto da cavallo proteggevano. Questi fanti erano divenuti, con l'esercizio, sì veloci che, se dovevano avanzar molto o ritirarsi con grande celerit'?i., aggrappati alle cri~iere dei cavalli, ne pareggiavano la corsa. Dunque: eserciti vicinissimi, a tre chilometri, ma situazione per cinque giorni, stazionaria, quasi Ariovisto fac~sse finta di non accorgersi che ogni mattina sei legioni si schieravano davanti al loro accampamento, rientrandovi a pomeriggio inoltrato.

Chi non sapeva che le legioni, una volta schierate su idonee posizioni, divenivano, nell'offesa come nella difesa, organismi bellici formidabili? Com-


prensibile, forse, ma non raggiungibile, per i barbari, quel giuoco serrato <li cooperazione fra uomo e uomo, manipolo e manipolo, coorte e coorte, legione e legione. Giuoco tutto sostenuto e vivificato dai centurioni, dal manipalare al primipilo, rotti al mestiere, rudi, amanti di lucrose ricompense ma dispotici nella ,disciplina e risoluti nella lotta e nel pericolo; da quegli alteri Legati, comandanti di una o più legioni, ognora restii ad appiedare e accorti a non farsi coinvolgere ,dalla mischia, ma che spiavano ogni sussulto del combattimento con cento occhi, instancabili e onnipresenti come fantasmi. E la barbarica invidia per la superiorità indiscussa dell'armamentq romano: quei legionari - tutti, dal primo all'ultimo - ben protetti sotto le valide piastre della corazza e dello scudo, dal duro cuoio delle gambiere, dall'elmo che proteggeva la testa e poco scopriva il collo; insidioso a ,distanza il pilo; di pronta efficienza, punta e taglio, il gladio; senza contare la potenza, numero e organizzazione, delle macchine da lancio.

Cesare dice: « Quando vidi che Ariovisto rimaneva fermo nei suoi accampamenti, non volendo che mi si continuassero a tagliare i rifornimenti . .. ». Per Ariovisto cinque prosperi giorni; effettiva la sua azione sulla zona term inale degli itinerari logistici: convogli dei Sequani ed Edui arrestati attaccati e depreda!i, si può ora affermare, dalla sua cavalleria. Ma al sesto giorno Ariovisto assistè a un grosso movimento dell'esercito romano; movimento d i cui può darsi che non comprendesse, sulle prime, lo scopo. CONTROMANOVRA DI CESARE.

Quando Cesare si fu reso conto che Ariovisto non intendeva accettar battaglia, non volendo che gli si continuassero a tagliare i rifornimenti, . . . pensò di scegliere una posizione favorevole di là da quella in cui s'erano fer mati i Germani, a meno di un chilometro da loro, e avanzò sino a essa con l'esercito in ordine di battaglia, su tre colonne. Sei giorni fa è stato Ariovisto che con una marcia ,di circa dodici chilometri ha oltrepassato i Romani; ora è Cesare che, lasciando simulatamente presidiato il suo accampamento, con una marcia di circa quattro chilometri, oltrepassa i Germani. I Romani marciarono su tre colonne, è da supporre, affiancate: attaccati d i fianco, le colonne avrebbero sostato e fatto fronte al nemico divenendo tre schiere. Quando l'esercito ebbe raggiunto la nuova posizione, Cesare ordinò alla prima e seconda schiera di restare in armi e alla terza di por mano a lavori di fortificazione per costruire colà un nuovo accampamento, o (per dirla d'ora


88 in avanti m termine più proprio giacchè per l'esercito romano il luogo di sosta anche temporanea era ognora fortificato e tenuto da presidio in armi) un nuovo «campo». Uno schieramento, fronte alle posizioni germaniche, su tre linee, di cui la terza, sui lavori, recuperabile subito in caso di necessità. Cesare dice: « La nuova posizione, hic locus, come s'è già detto, distava dal nemico meno di un chilometro». Ripetizione che sottolinea il valore della sua manovra: Ariovisto gli s'era posto a tre chilometri per intercettargli, a colpo sicuro, i rifornimenti; egli, a un chilometro, lo ha agganciato. Ariovisto potè dunque credere, a tutta prima, che si trattasse del solito invito a battaglia da nuove posizioni; ma anche quando fu informato, e non dovè passar molto, che quello schieramento copriva la costruzione di un campo sì vicino al suo, una spina che gli si stava conficcando nel fianco, non si sentì in grado, e forse non aveva neppure lo spazio di schieramento, di tentare la battaglia. Ricorse a una via di mezzo. Mandò sul posto circa sedicimila uomini armati alla leggera, ma con tutta la cavalleria - perciò oltre ventimila uomini - con lo scopo di intimorire i Romani e impedire la prosecuzione dei lavori. Compito, si dice oggi, di disturbo. Cesare dice: « Anche al sopraggiungere di tali forze, mantenni gli ordini dati: le due prime schiere dovevano respingere il nemico, la terza finire i lavori». La cavalleria di Ariovisto dovè girare tutt'intorno alla posizione romana e costatare che essa era sorvegliata e protetta da ogni parte: combattimento, a ogni modo, - sarebbe stato segn.;lato - non vi fu. Non sappiamo quanto durarono i lavori (eseguiti da tutte e sei le legioni a turno?); sembrerebbe, da quanto si rileva subito appresso, un giorno solo: le truppe romane erano allenatissime allo scavo della trincea perimetrale di un campo. Cesare, fortificato il campo, munitis castris, - ossia: compiuto o avviato lo scavo del fosso perimetrale, che era l'opera più lunga e pesante - lasciò _qui due legioni e parte delle forze ausiliarie e ricondusse le altre quattro legioni nel campo maggiore. A movimento compiuto, fu dunque- padrone di due campi: campo maggiore, castra maiora e campo minore', castra minora ; presidiato da quattro legioni il maggiore, da due il minore. L'accampamento germanico incastrato, sicchè, fra due campi romani assai vicini: tre chilometri da una parte, meno di uno dall'altra. Ma può anche darsi che l'interferenza delle posizioni romane sull'accampamento germanico non fosse così assoluta da non consentire ad Ariovisto,


dal punto del mero spazio, ciò che ora assolutamente gli sarebbe occorso: uscire dalla morsa della tenaglia, riacquistare libertà d'azione. Un qualsiasi movimento, però, dovè .o ra sembrargli impossibile soprattutto a cagione della gente che doveva trascinarsi dietro, donne vecchi bambini; alla difesa immediata <lella quale avrebbe dovuto condizionare e ridurre l'impiego .delle sue truppe, specialmente della cavalleria. Quella cavalleria che gli aveva reso prosperi cinque giorni ma che ora minacciato sì dappresso e in perpetuo allarme il suo stesso campo - non era più disponibile per imprese a distanza. Mutatasi in danno l'abile sua manovra che lo aveva portato dai Romani a tre chilometri: chè proprio in risposta a essa era sorto, impensabile, il campo mmore. Cesare dice: « Il giorno che seguì all'impianto del campo minore, proximo die, seguendo la consueta tattica, feci uscire le forze da ambedue i campi. Avanzai di poco dal campo maggiore e, operato lo schieramento, offrii ai nemici battaglia, pugnan<li potestatem ». Lo schieramento del campo maggiore, dopo la breve avanzata, venne a ~rsi a meno di tre chilometri dalle posizioni germaniche; quello <lel campo mmore neppur a uno. Dice: « Quando compresi che neppur allora, ne tum quidem, il nemico intendeva di uscire, verso mezzogiorno feci rientrare le truppe nei campi». Che significa l'espressione « neppur allora»? Ariovisto che non aveva accettato battaglia su un solo fronte doveva ora accettarla su due? Certo è che verso mezzogiorno, quando cioè le ore operative sono sino al tramonto ancora parecchie, Cesare ritenne - ·truppe affaticate dai lavori del giorno innanzi? - di poter smontare il dispositivo di battaglia perchè sicuro che Ariovisto non si sarebbe per quel giorno mosso. Ariovisto, invece, si mosse. Cesare dice: « Allora finalmente, tum demum, Ariovisto mandò parte delle sue truppe ad attaccare il cam.po mi:iore ». Superflua, si direbbe, anche l'espressione « allora finalmente », che farebbe quasi passare i:l prematuro rientro delle legioni come un abile adescamento all'attacco germanico del campo minore; cioè a un atto che ai Romani, come presto sarà agevole dedurre, non poteva convenire. Ariovisto fece compiere l'azione a solo parte delle truppe, tenendo così efficiente, contro eventuale reazione romana dal campo maggiore, il suo proprio accampamento; azione rapida e coraggiosa se si considera il poco tempo in cui fu concepita (sino a mezzogiorno non si sapeva se le truppe romane si sarebbero ritirate) e il poco spazio in cui fu attuata (fra il campo germanico e il campo minore - posto, certo, in luogo dominante - .meno di un chilometro).


Dice: « Si combattè violentemente da ambo le parti, acriter utrimque, sino a sera, usque ad vesperum. Al tramonto, solis occasu, Ariouisto - dopo considerevoli perdite da una parte e dal 'altra, multis et inlatis et acceptis vulneribus, - ritirò le sue truppe nell'accampamento ». Forti perdite da una parte e dall 'altra : multis et inlatis et acceptis vulneribus.

Le due legioni del cam po minore erano in difensiva, su luogo fortificato; i Germani invece (supponendo noi stessi all'attacco di campo romano, ci imbatteremmo pri ma nel « vallum », ossia nel fosso perimetrale, e poi, a immediato ridosso di q uesto, e con questo tutt'uno, nell'alto terrapieno l'agger - sui cui trovavan si, dietro apposite protezioni, i difensori); i Germani invece operavano offensivamente dal basso verso l'alto e attraverso terreno, al meno in prossi mità delle for tificazioni , scoperto; le armi del tempo consentivano tiro efficace sulle persone ma risultati nulli sulle opere e assai scarso su chi da queste protetto: uno squilibrio, insomma, fra difesa ed offesa (esclusa l'assurda ipotesi del campo romano su posizione dominata da alture vicinissime) a tutto vantaggio dei Romani. Se i Germani erano, com'è probabile, numericamente superiori, i Rom ani ne subirono certamente le conseguenze: ma le perdite degli attaccanti - anche perchè barbari alieni da form azioni rade e quindi ammassati nei ten tativi di passaggio del fosso - avrebbero dovuto essere, salvo circostanze difficili a immaginarsi , maggiori. E invece: forti perdite dall'una parte e dall'altra. Sottintesa, di sbieco, la parità, almeno la parità ; sebbene possa non soddisfare neppure la parità. Si combattè violentemente da ambo le parti si no a sera, acriter utrimque usque ad vesperum pugnatum est : espressione che non specifica se si trattò di combattimento in terreno, come oggi si dice, libero o fra contendenti separati da opere fortificatorie. Ci sarebbe dunque di che per supporre che il campo minore sia stato almeno in parte sopraffatto : i Germani avrebbero superato in qualche punto il vallum e solo al tramonto, dopo aspro combattimento nell'area interna del campo, si sarebbero di loro iniziativa, come poc'anzi abbiamo letto, ritirati . Le fortificazioni del cam po minore non potevano ancora aver raggiunto, questo è certo, una norm ale efficienza: potrebbe spiegarsi anche così il superam ento d i luogo fortificato da parte di barbari. ,< Forti perdite dal l'una parte e dall'altra 1> : riconosciuta in pieno la gravità del fatto; omesso qualsiasi cenno a particolari. Combattimento, a ogni modo, pesante, nel quale il generale romano, anche se tempestivamente informato, non potè dare ai suoi alcun aiuto sia


91 per la titubanza dovuta alla l'accampamento germanico diato si a perchè intercettate un campo e l'altro; o per

NoN

piena sorpresa - come escluderla? - sia perchè ben presidiato non si prestava ad attacco immeo intercettabili dalla cavalleria nemica le vie tra tutti questi motivi assieme e qualsivoglia altro.

PRni A DEL NOV ILUN IO.

Dice: « Chiesto ai prigionieri il moàvo per cui Ariovisto non si decidesse a battaglia, venni a sapere che presso i Germani era consuetudine che talune « madri di famiglia » matres familiae, con sortilegi e vaticini, sortibus et vaticinationibus, si pronunziassero se conveniva o meno dar battaglia. E nel caso presente esse avevano così profetato: non era destino che i Germani vincessero se avessero dato battaglia prima della luna nuova, ante novam lunam ». Questo seducente rilievo della costumanza barbarica (ma posto qui, proprio ora, non fa l'effetto di un diversivo alla sibillina frase, lasciata lì asciutta, delle perdite?) potrebbe attestare che il morale era basso intorno ad Ariovisto nei giorni che precedettero la battaglia risolutiva, ormai imminente. La profezia sarebbe d a porre ai prim i di settembre, dopo il colloquio di Cesare con Ariovisto, e il novilunio cadeva, quell'anno, il 18: quale favorevole m utamento di situazione si poteva sperare in una quindicina di giorni? Ma quelle << madri di famiglia » a cui era attribuita sì straor<linaria facoltà pur vivevano in mezzo alla lor gente; esterni, sì, i segni da cui esse traevano gli auspici, - correnti e rumori di fiumi, voli di uccelli, forme e colori di nubi, e via dicendo - m a di quei segni affidata tutta a loro l'interpretazione: pronostici pertanto uscenti da animi straordinariamente partecipi, proprio per l'ufficio profetico, della più riposta realtà delle cose. Forse, nell'accampamento, privazioni già estreme, ora che i Sequani potevano aver fatto into rno il vuoto; l'insonnia attiva e preoccupata di Ariovisto e di coloro che gli erano più vicini; la delusione degli stessi armati costretti <lal comportamento romano a non poter far subito valere la forza del numero sulla quale principalmente contavano. Forse anche le voci colà giunte sull'esercito romano: la sua saldezza difensiva e, preso che avesse il sopravvento, la sua ferocia anche sui non combattenti, come a Trévoux, come a Bibracte. N on è desti no che i Germani vincano prima del novilunio: quasi implorazione per un temporaneo sollievo; un nero vati0inio coperto da un consiglio di differimento. E Ariovisto avrebbe forse voluto fare a meno, per il momento, della battaglia; poteva non sentirsi, per il momento, sicuro ,d i sè: più che altro, vorremo dire, lo disorientava l' urgenza, insolita o a lui addirittura ignota, dei problemi che gli si paravano davanti, senza dargli respiro, da una settimana o poco più.


MA ACCETTÒ LA BATIAGLIA.

Cesare dice: « Il giorno dopo, lascìai in ciasauno dei due campi il presi,dio che ritenni sufficiente e disposi davanti al campo minore, in vista del nemico, tutti gli « alarii ». Inferiore com'ero per numero di truppe, rispetto al nemico, impiegai in tal modo quegli ausiliari per dissimulare tale inferiorità. lo, con l'esercito in triplice schiera, triplici instruct:a acie, avanzai sino al campo nemico». Siamo ai preliminari della battaglia risolutiva - da p0rsi a metà settembre - avvenuta dunque il giorno dopo l'attacco al campo minore.

Ma che cosa era avvenuto nella notte precedente, da quando, al tramonto, Ariovisto aveva ritirato dal campo minore le sue truppe, sino al momento, forse alle prime luci, in cui Cesare aveva dato inizio dal campo maggiore al movimento offensivo? In altri termini: come Cesare p0tè uscire dalla situazione in cui s'era posto dividendo temerariamente le sue forze (diremmo oggi con scandalo) in presenza del nemico, e p0nendo di questi a portata ,di mano una posizione non certo inespugnabile? Ariovisto sì felice tattico a mezzogiorno con la sorpresa alla debole p0sizione romana non era stato più tale al tramonto: al tramonto, abbandonata la contesa posizione, non pensò - le prove indirette ma sicure le abbiamo appena lette - a intercettare o a continuare a tener intercettate durante la notte, con la cavalleria, le comunicazioni fra i due campi romani. Cesare ebbe pertanto buon giuoco, e p0tè fare quanto, appunto, abbiamo appena sentito : affidò il campo minore a forze legionarie minime; fece organizzare davanti a tal campo gli ausiliari (Galli, in genere, della Provincia, detti « alarii >i perchè di norma posti, in coorti armate alla leggera, alle ali degli schieramenti di battaglia); pctè recuperare, e fu il colpo grosso, le due legioni. La mancata intercettazione durante la notte delle comunicazioni fra i due campi, pertanto, non si può non considerarla presupposto pr,incipalissimo all'intento offénsivo <li Cesare. Lo schieramento romano non è questa volta statico, a scopo di sfida, come per ben sei volte nei giorni pr~cédenti, bensì a forze riunite (la triplice schiera richiama senz'altro la disponibilità nel campo maggiore di tutte e sei le legioni) e in moto per portarsi, se non all'attacco, a distanza ,di attacco. Sotto un attacco romano a fondo, l'accampamento germanico sarebbe caduto: poche le probabilità contrarie; difficile per? che, nella situazione di allarme generale ormai creatasi, ciò potesse avvenire senza forti perdite per l'attaccante.


93 Cesare ci ha or ora palesato lo squilibrio numerico delle forze a favore dei Germani: e se l'espugnazione dell'accampamento gli fosse stata ritardata da resistenza accanita? se, per meglio dire, una volta iniziato l'attacco, necessitasse, mal grado gravi perdite, proseguirlo solo perchè il desistervi avrebbe senz'altro segnato - tutta la Gallia è alla finestra - la fine della sua impresa?

Decifrabile qualche po' anche la situazione <li Ariovisto: malgrado sei patenti sfide romane, "=gli non ha accettato la battaglia, subendone l'influsso negativo sul morale della sua gente; un Ariovisto, insomma, a cui la soluzione di attendere a piè fermo l'urto romano poteva riuscire - e sembra, in effetti, che questo fosse, per sei giorni, il suo pensiero - conveniente: ammesso poi che veramente Cesare si fosse deciso, ma c'è da dubitarne o addirittura da escluderlo, a prendere il toro per le corna, cioè ad attaccare il suo accampamento. Tuttavia, Ariovisto, malgrado il vaticinio del novilunio, malgrado la minaccia da due parti, si affi<lò - e la titubanza non fu certo lunga se lo scontro avvenne quel mattino stesso - alla soluzione di uscire dalle sue posizioni e accettar battaglia. A creare, quel mattino, una situazione di estremo attrito potè in gran parte contribuire proprio il fatto che il combattimento del giorno innanzi s'era risolto a favoce, e non poco, dei Germani. Eppertanto: da una parte Cesare il quale, ritenendo ormai compromesso il mantenimento del campo minore, - unica rèmora alla libertà d'azione del nemico sui suoi rifornimenti ---, tenta di costringere, ma forse senza troppe speranze, i Germani a uscire dalle loro posizioni; dall'altra, un Ariovisto che, preso sollievo dal recente successo, giuoca l'ultima carta.

Cesare dice: « Avanzai in triplice schiera dal campo maggiore sino al nemico: ... allora finalmente, tum demum, i Germani furono costretti a far uscire le truppe dall'accampamento, necessario Germani suas copias castris eduxerunt ... n. Ancora un « tum demum » , allora finalme11te, rinforzato da « necessario », necessariamente: ma anche con l'esercito romano sotto le difese, i Germani avrebbero benissimo potuto non lasciare le loro posizioni, non accettare la battaglia. GLI

SCHIERAMENTI.

Cesare dice: « Allora finalmente i Germani furono costretti a far uscire le truppe dall'accampamento, ... disponendo per popolo, generatim, a uguali intervalli, paribus intervallis, Arudi Marcomanni Treboci Vangioni Nemeti


94 Sedusi Sr•en, e circondando fianchi e tergo del loro schieramento con ogm sorta di carriaggi in modo che non restasse nessuna speranza di fuga». I Germani, forse protetti dalla cavalleria poi subito ritirata, ebbero quindi sufficiente tcm po e spazio per schierarsi di fronte ai Romani senza subire impedimento o molestie. Ancora udibile il clamore che accompagnò lo schieramento dei Germani: su quei carriaggi fecero salire le donne, eo mulieres imposuerunt; le quali, a braccia tese, passis manibus, piangendo, flentes, imploravano gli armati che si avviavano al combattimento, in proelium profìciscentes, di non lasciarle cadere in schiavitù dei Romani, ne se in servitutem Romanis traderent. Nessuna speranza di riscatto se la lor gente fosse stata ricacciata oltre Reno.

Da Cesare rilevate, come abbiamo notato, le caratteristiche essenziaL dello schieramento barbarico: una dislocazione frontale di sette massicci scagl:oni, quanti i popoli; e perciò schieramento che la divisione etnica da una parte infirmava - potendo non rispondere a necessità operativa - e dall'altra potenziava con l'emulazione. Anche notato che gli intervalli fra scaglione e scaglione erano uguali; e perciò uno schieramento uniforme, a cordone, senza profondità, che non rivelava un criterio operativo che appena superasse un <luro ma rigido giuoco di forza. Ben diversa . naturalmente, l'organizzazione - e ne abbiamo già fatto cenno per la battaglia di Bibracte - di un generico schieramento romano. La « triplice schiera n su sei legioni affiancate: ma ogni legione per profondità, nonchè per intervallo dalle altre, con una propria individualità operativa; e articolati ed elastici, per pwfondità intervalli e distanza, i tre man:poli che costituivano la coorte e le dieci coorti che costituivano la legione. La terza schiera - oggi la diremmo riserva immediata - alquanto distanziata dalle prime due per ottenerne, come appunto nella battaglia di Bibracte, una relativa mobilità e autonomia. A un siffatto schieramento - ma anche a ogni altro inquadramento, di marcia o d'adunata - davano vita, ne erano l'anima, le Insegne, signa, e i relativi alfieri o signiferi, sotto diretto comando dei centurioni di maggior grado. Per la legione era ,distintivo in cima a lunga asta l'aquila d'argento ad ali aperte, altre figure, in genere d'.animali, per la coorte e il manipolo. Una fu nzione tattica dunque capi tale, quella delle Insegne, per il controllo da posto adatto dello sviluppo della battaglia: rilevabile a occhio, mercè le Imegne, dove si avanzava e dove si era in sosta, dove, indice di crisi, si era ammassati e dove si arretrava o si era in ritirata, e la disfatta dell'unità quasi certa dove l'Insegna più non apparisse. Richiesti perciò in grado notevole l'abilità il coraggio l'abnegazione dei signiferi: era soprattutto con la mano-


95 vra dell'Insegna, tenuta visibile il più possibile a tutti, che centurioni e Legati davano gli ordini.

Cesare dice: « Misi a capo di ciascuna legione un Legato e il Questore, singulis legionibus singulos legatos et quaestorem praeficit, in modo che ciascun combattente li avesse testimoni del proprio valore, testes suae virtutis >>. Un inquadramento, sicchè, eccezionale. Il barbaro Ariovisto per ostacolare la fuga dei suoi ha Posto alle spalle e ai fianchi dello schieramento donne vecchi bambini sui carri; il generale romano - le ombre di Besançon proprio del tutto scomparse? - Pone a caPo di ciascuna legione (e non avendone disPonibili più di cinque ricorse, finanche, al Questore> alto ufficiale con funzioni amministrative) un Legato.

Lo scoNTRo. Cesare ,dice: << lo, dal!'ala destra del mio schieramento, poichè avevo notato che il nemico era poco solido proprio in corrispondenza di tale ala, attaccai battaglia». Lo schieramento romano era sempre costituito da un « centro » e due « ali », integrate in genere da larghe dislocazioni di << alarii » e da squadroni, « turmae », di cavalleria; e pare che fosse consuetudine che il comandante supremo prendesse il comando dell'ala destra. Ma qui significa, come abbiamo appena inteso, che Cesare attaccò violentemente l'ala nemica sinistra, più debole, nel tentativo, sopraffatta che l'avesse, di scardinare l'intero schieramento germanico. Due grandi schieramenti (azzardato qualsiasi calcolo: ognuno, tutto compreso, su almeno tre chilometri frontali e uno di profondità?) due grandi schieramenti che, fra le urla dei combattenti, specie dei barbari, e il clamore delle trombe ( « non è senza motivo ai fini di deprimere il nemico e animare le proprie truppe, che le trombe suonino d'ogni parte e i soldati gridino>> lo dice Cesare stesso nelle memorie della guerra civile), di mano in mano si avvicineranno sino alle prime dirette offese con le armi da gitto, immediato preludio alla mischia. Lo schieramento romano con le spalle a Epfig (o dove che fu) e fronte, approssimativamente, a oriente; il germanico, fronte al romano, ha alle spalle, si noti, un affluente del Reno, il fiume Ill, distante dai luoghi della battaglia circa sette chilometri. Non si può dire che ad attaccare siano stati per primi i Romani : .al segnale di battaglia, signo dato, i Romani avanzarono con fiero impeto contro i nemici, acriter in hostes impetum, ma, similmente, i Germani vennero avanti con tanta prontezza e rapidità, repente celeriterque, che non vi fu neppure


spazio per il lancio dei pili: si venne pertanto, abbandonati i pili, al corpo a corpo con i gladt. Ed è da presumere che i Germani avanzassero con grande rapidità proprio per rendere impossibile il micidiale tiro preparatorio, pili e altre armi, con cui i Romani tentavano di scompaginare l'ordinanza nemica prima del corpo a corpo. Non ci fu però sorpresa e indugio nei Romani, che subito ricorsero alle spade; edotti anch'essi che i barbari ponevano il massimo sforzo nel primo urto. Immediato e violento, dunque, lungo tutta la fronte, il corpo a corpo: ma i Germani, secondo la loro abituale tattica, fecero rapidamente falange, celeriter ex consuetudine sua phalange facta, e accettarono la lotta con le spade. Essi avevano avanzato - le truppe migliori naturalmente - con grande rapidità e quindi in ordinanze necessariamente alquanto sciolte; sono ora fermati, rapida che sia stata la trasformazione, dalla necessità di costituirsi in .fitte isole falangitiche, formazione di combattimento a essi connaturale. Cesare dice: « Vi furono parecchi soldati romani che balzarono sulle falangi e, strappando gli scudi, colpivano dall'alto». Si sarebbero arrampicati su quella specie di muri formati dagli alti scudi, - verticali e marginalmente sovrapposti - della prima riga delle falangi. E certamente la paura superata può fare, specie in guerra, miracoli; nè qui si vuol porre in dubbio la destrezza e il valore di gran numero di soldati romani. Ma dovè essere altrettanto per i Germani se uno storiografo di due secoli dopo racconta che essi erano stretti sì ,disperatamente l'uno all'altro che i morti vi restavano in piedi (e può darsi benissimo - se ne dicono, sempre, tante! - che questo o quello si sia arrampicato sugli scudi e che questo o quello, morto, sia rimasto in piedi). Mischia, a ogni modo, violenta e lunga in cui i Germani, inferiori per armamento e ammassati, poterono subire fortissime perdite. A un certo punto (anche qui , come per Bibracte, relazione magrissima: appena accennate le fasi principali) la situazione fu questa: mentre l'ala sinistra germanica attaccata da Cesare era ributtata e volta in fuga, l'ala destra premeva fortemente col peso del suo numero, multitudine suorum, su l'ala · · sinistra romana. Ma_ da quanto subito rilevere~o.. il successo romano non equivaleva al germamco. Situazione, in effetti, per i Romani, grave; e in un momento in cui Cesare, spintosi avanti con l'ala destra, non aveva il controllo generale della battaglia. Dice: « Il giovane Publio Crasso, comandante· della cavalleria, quando si accorse del pericolo della pressione germanica ~ poichè egli era più .libero


97 da impegni rispetto a coloro che si trovavano nella mischia - inviò in aiuto dei nostri, che stentavano a contenere l'attacco, la terza schiera, tertiam aciem subsidio misit ». I Romani ~ centro e ala sinistra - stentavano a contenere il massiccio attacco dei Germani: fu ,d unque per iniziativa del comandante della cavalleria - alle spalle, questa, dello schieramento - che la terza schiera di fanteria fu impiegata, in tempo, contro l'ala destra germanica. E ciò Publio Crasso ( « adulescens », sui trent'anni, figlio del noto triumviro: lo ritroveremo fra un anno) potè fare perchè meno o affatto preso da impegni « rispetto a coloro che si trovavano nella lotta » : un indizio, tal dichiarazione, che la terza schiera era stata lasciata, data l'incertezza delle cose, notevolmente indietro per costituire vera e propria riserva. Così si risollevarono le sorti della battaglia; tutti i nemici volsero le spalle, fuggendo senza fermarsi sino al Reno distante circa sette chilometri dal luogo della battaglia, ad flumen Rhenum milia passuum ex eo loco circiter quinque; ossia, come s'è già detto, sino all'Ill, che a un di presso tanto dista da Epfig (e un quattordici dal Reno). Sull'Ill, la strage: pochissimi Germani, perpauci, o, fidando nelle proprie forze, cercarono di passare il fiume a nuoto oppure si salvarono su canoe eh'erano riusciti a trovare. Tra questi Ariovisto, che, trovata una piccola imbarcazione legata alla riva, naviculam deligatam ad ripam, fuggì su quella. Esclusi quei pochissimi animosi e questi pochissimi fortunati, tutti gli altri, - centoventimila, secondo la denunzia <li Diviziaco, a cui si erano aggiunti ventimila Arudi -- tutti gli altri, reliquos omnes, inseguiti dalla cavalleria furono uccisi. La cavalleria germanica dovè essere anch'essa travolta, al fiume, sia dal krrore dei fuggiaschi sia dalla maggiore possibilità ch'essa aveva di guadare il fiume, sia dal rapido sopraggiungere delle legioni.

Seguono tre notizie, di cui le prime due di cronaca e la terza, di rilievo, che riguarda quel « vehementer commotus » che portò Cesare all'iniziativa della marcia contro Ariovisto e ch'è ancor vivo nelle nostre orecchie: le mogli di Ariovisto, ch'erano due, perirono nella fuga e di due sue figlie una fu uccisa e l'altra fatta prigioniera; Caio Valerio Procillo, quello dell'ambasceria fasulla, fu ritrovato in catene ma salvo ( il che a Cesare fece non meno piacere della stessa vittoria) e salvo altre sì il suo aggiunto Marco Me zio; gli Svevi - q uesta la notizia di rilievo - che erano venuti sul Reno, annunziata che fu la vittoria, cominciarono a ritornare nei loro paesi talmente infifiti, perterritos, che gli stessi popoli di riva destra presero a inseguirli, uccidendone gran numero (come fantasmi, illustri Senatori, si dileguarono cento comunità di Svevi al comando di Nasua e Cimberio!). 7. -

u.s.


(( UNA AESTATE ».

Dice: « At1endo portato a termine, in una sola stagione operatit1a, una aestate, due grandissime guerre, duobus maximis bellis confectis, condussi l'esercito fra i Sequani a prendere i quartieri d'int1erno un po' prima che la stagione lo imponesse. I.Asciai il comando a lAbieno e io partii per la Gallia Cisalpina a tenert1i le riunioni giurisdizionali ».

In una sola stagione operativa, una aestate, ha condotto due grandi guerre. In cinque mesi e mezzo e paco più, a considerare dagli Idi di aprile, giorno della rispasta negativa alle richieste degli Elvezt, a questo fine settembre. E' stata la riunione di sei legioni e il loro passaggio delle Alpi e del Rodano - il tutto in meno di tre mesi - a determinare il fallimento della migrazione elvetica; è stata la decisione di marciare al Reno quando era appena avvenuta la battaglia <li Bibracte a determinare dramma e disastro di Ariovisto. Il proconsole ha passato il Rodano, cioè è uscito dalla Provincia, circa a metà giugno: in tre mesi un esercito romano dal Rodano alla Saona, dalla Saona all'Ill e - Trévoux a sè - due grandi vittorie. Tutta la Gallia, amici e nemici, diffidenti e indifferenti, sorpresa. Ora il proconsole ritorna in Italia, oltre che per le consuete assemblee invernali nei territori del suo mandato, per non perdere contatto con la turbinosa palitica romana. A conclusione delle due campagne, ha il coraggio di notare, se non è detto per celia, che ha dato alle sue truppe i quartieri <l'inverno un pa' prima del necessario.

Eppure, nella Gallia transalpina, fuori Provincia, non ha ora altro <la fare, avendo egli stesso testè dichiarato che la Gallia dev'essere libera: liberam debere esse Galliam.


Cap. I I.

I B EL GI

(Anno 57 avanti Cristo)

UNA COALIZIONE O TTO LE LEGIONI.

Mentre Cesare era nella Cisalpina, gli giungevano frequenti voci, confermate da dispacci di Labieno, secondo le quali tutti i popoli belgi si stavano coalizzando contro il Popolo Romano e si scambiavano ostaggi. Perturbatori, a turno, della pace gallica: prima gli Elvezi alla ricerca di spazio vitale, poi Ariovisto con infondati diritti su terre a occidente del Reno, e ora, non sappiamo ancora perchè, i Belgi. Minaccia grave: perchè i Belgi, conglomerato ,di molti popoli, costituiscono la terza parte, tertiam esse partem, del grande paese che si chiama Gallia. Infatti, come tutti sappiamo a memoria: Gallia est omnis divisa in partes tres, la Gallia nel suo complesso è divisa in tre parti. Secondo Cesare così delimitate: l' Aquitanica, dai Pirenei alla Garonna; la Celtica, dalla Garonna a territori poco più a nord della Senna e della Marna; la Belgica, da Senna e Marna .alla Manica e al corso inferiore del Reno. Ma noi non abbiamo sinora incontrato che popoli celtici: Edui, Sequani, Treveri, Santoni, Lingoni, Leuci e intravisto, nel discorso di Diviziaco, gli Alverni; ma altri importanti popoli - grande è la Celtica - verranno di mano in mano alla ribalta. La minaccia belga è grave anche per un altro motivo: i Belgi, fra tutti i popoli della Gallia, sono i più valorosi. Valore guerriero che proveniva, se~ condo Cesare, da due condizioni: e perchè i Belgi erano i più lontani dalla civiltà e dai costumi raffinati della Provincia, - e i mercanti non giugevano che molto raramente sino a loro con quelle merci che infiacchiscono gli animi - e perchè, vicini ai Germani d'oltre Reno, erano con questi in continu/J guerra.


IOO

Popoli sobri, e d'indole guerriera ch'è sempre generosa: vale perciò la pena di sentire quali possono essere la solidità e l'ampiezza del loro pensiero politico contro Roma; che cosa abbiano da opporre al generale romano resosi benemerito di tutta la Gallia per avervi espulso proprio quei Germani con i quali essi sono in perpetuo dissidio.

I Belgi.

Le ragioni della coalizione contro Roma erano queste: I Belgi temevano che, appena ammansita tutta la Gallia celtica, l'esercito romano avrebbe marciato contro di loro .. Erano d'accordo, su questo punto,. con l'eduo Dumnorige: « nessuno si faccia illusioni: se gli Elvezt saranno ora vinti dai Romani, . .. eccetera >J. Proposizione, a onor del vero, smentita <lai fatti: vinti gli Elvezt, l'çsercito romano ha marciato contro Ariovisto, versando sangue suo a beneficio dei GaJli. I Belgi erano sollecitati alla guerra contro Roma . da non poche personalità galliche. Da coloro, in primo luogo, che così come non avevano voluto che


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i Germani restassero troppo a lungo nella Gallia così non tolleravano che un esercito del Popolo Romano vi svernasse e vi ponesse radici. Nonchè da coloro che, per mobilità e leggerezza d'animo, erano desiderosi di supremazie diverse da quelle esistenti. Insomma: da una parte nazionalisti a oltranza, diremmo oggi, permalosi: truppe romane, qual che sia il motivo, qual che sia il luogo, in casa nostra non ne vogliamo; dall'altra, i soliti frenetici per i quali, appena le faccende pubbliche accennano a una sistemazione un pc' duratura, il mondo d iventa uggioso: e gran parte dei Galli, Cesare ce lo dirà meglio in seguito, era fatta così. Infine: i Belgi erano sollecitati alla guerra da personalità le quali - poichè in Gallia i pubblici poteri erano di solito detenuti dai più forti e da chi poteva, per ricchezza, assoldar gente - temevano, sotto l'egida romana, di non poter continuare in tali abusi. Che i pcteri pubblici non siano in perpetua contesa sotto gli urti dell'intraprendenza di pachi è condizione anch'essa necessaria per la pace fra i Popoli. « Privato può più di magistrato » , ha detto amaramente il vergobreto Lisco. Cronico squilibrio di autorità che non era solo un male degli Edui: Cesare ci fa notare, e sottintende la sua preoccupazione, che era sventura comune a gran parte della Gallia. Sicchè, in conclusione: i Belgi nutrivano un geloso sentimento della loro indipendenza: sentimento, da che mondo è mondo, naturale, legittimo e rispettabile; i Belgi non erano insensibili alle voci di indipendenza che giungevano sino a loro da tante parti della Gallia : il sangue non è acqua, perciò naturale, legittima e rispettabile, anche questa sensibilità; fra i Belgi, infine, non pachi signoroni facevano notte e giorno a loro piacimento: e con ciò? ognuno in casa propria ha il diritto di fare quel che crede. Tutto giusto e lecito, pertanto, ciò che angustia e allarma i Belgi.

Ma un giusto e lecito che potrebbero non essere sì assoluti se consideriamo anche - ne abbiamo, del resto, l'obbligo - il punto di vista di Cesare. Il timore di perdere la propria indipendenza, sì; lo stare all'erta, sì; doverosi i tempestivi preparativi militari, sì; pclitica estera energica e all'occorrenza sdegnosa, sì; piena libertà nelle proprie faccende interne, sì; ma è altrettanto evi,dente che i Belgi, nello svolgimen to concreto della loro pclitica, hanno passato il segno. Su semplice sospetto che i Romani, ammansita la Celtica, avrebbero marciato contro di loro, essi hanno dato vita a una grande dichiarata coalizione antiromana. Coalizione che ha accettato e aperto intese con personalità della Celtica e fors'anche dell'Aquitania, come se nutrisse il propcsito di associare contro Roma tutti i popcli gallici. Nè si può dire che si tratti solo di proposito. Che può mai significare se non reciproca ·garanzia


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per intenti seri ed estremi, se non decisione di guerra, l'aperto scambio di ostaggi? Sicchè, fra qualche mese, in primavera, i coalìzzati avranno creato un esercito che potenzialmente si contrappone - e come escludere che passi all'offesa? - a quell'esercito romano che d'altro reo non è se non di aver condotto due faticose e sanguinose guerre a beneficio, anzitutto, dei Galli. Fatti, appena, di ieri: la guerra contro gli Elvezì conclamata un bene per tutta la Gallia dai rappresentanti di quasi tutti i popoli celtici convenuti a Bibracte; l'arresto e l'espulsione del flusso migratorio germanico, ritenuto inarrestabile e fatale, e dai Galli stessi invocato, oggi un fatto compiuto per opera delle armi romane.

Ma è naturale, e non dovrebbe suscitare in nessuno nessuna meraviglia, che Roma ha un suo interesse in tutto ciò: la Celtica - e finora solo della Celtica s'è trattato - è l'antemurale strategico della Provincia e quindi dell'Italia: e non è proprio la Celtica che è stata per franare dopo che Sequani e Alverni erano ricorsi, senza poi aver la forza di liberarsene, al mercenariato germanico? Un esercito affaticato da circa sei ininterrotti mesi .di operazioni non poteva essere subito ritirato - questo avrebbero voluto i Belgi? - nella Provincia; ha quindi ricevuto nè più nè meno che il trattamento che meritava: quartieri d'inverno vicini e un po' prima dell'inverno. Siete voi, ora, che avete creato una situazione difficile al prestigio del Popolo Romano: sotto codesta vostra minacciosa ingiunzione, come potrà quest'esercito essere subito e senz'altro ritirato?

Dice: « Turbato, commotus, du quelle notizie e da quei dispacci, arruolai nell'Italia settentrionale due nuove legioni, duas legiones novas, e ai primi. inizi della buona stagione le affidai al Legato Quinto Pedio perchè le conducesse nella Gallia transalpina. Io, appena cominciò a esserci abbondanza di pascoli, raggiunsi l'esercito ». Quinto Pedio, figlio d'una sorella di Cesare, dovè partire fra la fine di marzo e i primi di aprile: le operazioni di leva per le due legioni erano quindi già cominciate da qualche mese; Cesare dovè raggiungere i quartieri d'inverno presso i Sequani circa a metà maggio.

Le legioni, quando a Cesare fu conferito il proconsolato, erano quattro: un provvedimento d'iniziativa, a cagione degli Elvezi, le portò a sei; un provvedimento anche questo probabilmente d'iniziativa le porta ora, a cagione dei Belgi, a otto. In un anno, esercito proconsolare raddoppiato.


I REMI. Cesare ,dunque, approssimativamente a metà maggio, era nel paese dei Sequani - quartier generale, probabilmente, a Besartçon ~ con otto legioni. Ma la coalizione belga è davvero passata dalle intenzioni ai fatti? dalle intese politiche, con ostaggi, alla effettiva costituzione di un esercito? Dice: « (Ho diffidato, illustri senatori, finanche dei dispacci di Labieno) Affidai l'incarico ai Senoni e ad altri Galli confinanti coi Belgi di seguire ciò che avveniva presso i coalizzati e di informarmi>>. I Senoni, altro potente popolo celtico che in seguito farà parlar di sè, abitavano esteso territorio a sud della Sciampagna e a nord .della Borgogna; li ricorda l'antica regione del Senonais nonchè Sens, lor capitale col nome di Agedinco, all'incontro dei fiumi Yonne e Vaune e perciò, come Besançon, oppido forte per natura. Tali informatori, tutti, concordemente, gli riferirono che si trattava di fatti certi: si stavano raccogliendo truppe e, soprattutto, che l'esercito veniva concentrato in un sol luogo. Dice: « Pensai allora che non c'era da esitare e che bisognava marciare alla volta dei Belgi. Disposti i rifornimenti di vettovaglie, mi posi in marcia e, in circa quindici giorni, raggiunsi le frontiere dei Belgi». Ma marcia di avvicinamento alle frontiere non è, senz'altro, aggressione e guerra: può essere solo richiamo, sebbene rude il procedimento, a più miti consigli. E pronte e pacifiche conseguenze essa difatti produsse. Dice: « Essendo io colà giunto d'improvviso e più presto d'ogni aspettativa, i Remi, che sono i Belgi più vicini alla Celtica, mi inviarono i due primi cittadini del loro Stato, lccio e Andocumborio ... ». I Remi sono dunque il popolo belga che per primo viene incontro spontaneamente alle otto legioni: abitavano il paese a cavallo dell'alto e di gran parte del medio Aisne e i territori di Reims, che li ricorda nel nome, di Cha lons sur Marne, .dli Mézières. La inattesa marcia di Cesare, ripartita in quindici giorni, non fu pesante: un trecentoventi chilometri da Besançon, se colà le legioni, a Reims; ma, qualunque l'itinerario, dovremmo essere nell'ordine dei venti chilometri o poco più giornalieri. Se dunque i Remi inviano incontro a Cesare i loro primi cittadini non è già questo un indizio di sfaldamento della coalizione? Dissero Iccio e Andocumborio: - Il nostro popolo si pone, con tutto ciò che possiede, sotto la protezione e il dominio del Popolo Romano, se s'uaque omnia in fìdem atque potestatem populi romani. Il nostro popolo non ha partecipato al movimento degli altri Belgi nè contro il Popolo Romano ha


congiurato. Noi Remi siamo pronti a darvi ostaggi, a eseguire i vostri ordini, aprirvi i nostri oppidi e a fornirvi grano e ogni altro aiuto. Sottomissione incondizionata.

LE FORZE DELLA COALIZIONE.

Iccio e Andocumborio così continuarono: - Eccetto noi, tutti gli altri Belgi sono in armi, e i Germani che abitano al di qua del Reno si sono a loro uniti (vi sono Germani a occidente del Reno?): un così grande furore ha invaso tutti, tantumque eorum omnium furorem, che noi non abbiamo potuto trattenere dal partecipare alla coalizione i Suessioni, i quali sono nostri fratelli e consanguinei, aventi le nostre stesse consuetudini e le nostre stesse leggi, la stessa potestà militare, unum imperium, la stessa potestà civile, unumque magistratum ... Una crisi violenta sino alla secessione fra due papali vincolati da natura e leggi. I Suessioni (li ricorda Soissons: abitavano un tratto del territorio dell 'Aisne sino alla confluenza di questo nell 'Oise: l'antico Soissonais) non ne hanno voluto sapere del collaborazionismo dei Remi, più spinto dell'eduo, e sono passati con tutti gli altri Belgi fra i nemici dichiarati di Roma. Iccio e Andocumborio, espertissimi delle faccende belghe, erano in grado di rispandere con ampiezza e precisione alle questioni che volesse a loro porre una testa palitica romana; e perciò il proconsole, prima di prendere una qualsiasi decisione (il Senato tenga conto di questo cauto, coscienzioso, procedere), li trattenne presso di sè e li interrogò. Cesare, avendo chiesto a quei signori quali e quanto grandi fossero i popoli in armi e quale fosse la loro forza in guerra, venne a sapere, sic reperiebat ... Ma prima di rispondere alle specifiche richieste militari, Iccio e Ando~ cumborio fecero le seguenti, generali, dichiarazioni: - La maggior parte dei Belgi è originaria della Germania. Passato, in tempi antichi, il Reno, i Belgi hanno preso stanza dove ora trovansi richiamati dalla fertilità dei luoghi, scacciandovi i Galli. I Belgi dunque, a detta di due illustri personaggi belgi, secondo le cognizioni etniche del loro tempa (inesatte che risultino oggi), Galli puro sangue, nella maggior parte, non erano; e furono altresì usurpatori, un tempa, di suolo altrui. ·· ... I Belgi - sono sempre Iccio e Andocumborio che parlano - sono i soli che al tempo dei padri - allorchè tutta la Gallia era stata sconvolta hanno impedito a Teutoni e Cimbri di invadere il lor paese: e n'è derivato che, per il ricordo di quei successi, essi si attribuisco~o molta importanza e speciali talenti nelle cose militari, magnam auctoritatem magnosque spiritus in re militari.


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Quanto al numero di armati, - essi dissero - lo conosciamo esattamente perchè, congiunti come siamo ai popoli in armi per alleanze e parentele, sappiamo qual contingente ha promesso per questa gu.erra ciascun popolo nel Concilio generale dei Belgi, in communi Belgarum concilio. Dal Concilio sotto apparenze gratulatorie dei Celti, a Bibracte, emerse l'usurpatore Ariovisto; il Concilio, tenuto chi sa dove, dei Belgi - ma presenti in persona o in ispirito non rochi Celti ~ s'è pronunziato contro il liberatore Cesare. I più potenti fra i coalizzati per valore autorità e numero erano i Bellovaci. Essi potevano mettere in campo sino a centomila uomini: ne avevano però promessi sessantamila scelti e chiedevano per sè la direzione di tutta la guerra, totiusque belli imperium. Il territorio dei Bellovaci, - l'antico Beauvaisis - avente quasi al centro Beauvais, si estendeva tra Senna Somme e Oise. Seguivano i Suessioni, con i Remi confinanti, - e dai Remi, come abbiamo appena inteso, ora divisi - che possedevano il territorio più vasto e le terre più fertili. Naturalmente, sui Suessioni, kcio e Andocumborio Poterono dare altre imrortanti notizie. Al presente, re dei Suessioni era un certo Galba; e a costui tutti i coalizzati, di comune accordo, omnium voluntate, - a cagione delle sue doti di giustizia e prudenza - avevano affidato la direzione di tutta la guerra contro Roma. I coalizzati dunque, scontentando i Bellovaci, si erano accordati sul nome di Galba e perchè questi si fregiava di due virtù cardinali e, più verosimilmente, perchè i Suessioni rossedevano campi fertilissimi, ossia grandi quantitativi di viveri, che era quanto ora più occorreva. I Suessioni possedevano dodici oppidi - paese dunque, per il gran numero delle città fortificate, in più punti difendibile - e avevano promesso cinquantamila armati. Seguivano i Nervl: questi, i più lontani, - considerati i più fieri di tutti, maxime feri, ---, avevano anch'essi promesso cinquantamila armati. I Nerv1 abitavano l'allora selvaggio e selvoso paese fra Schelda e Sambra, sino ai territori a oriente di Anversa: territori di Tournay, Bavay, Cambrai. Sessantamila Bellovaci, più cinquantamila Suessioni, più cinquantamila Nervì : siamo a centosessantamila uomini (i Senatori osservino questo gran fiume che ha sollevato le acque a vista d'occhio). Seguivano PoPoli minori. Otto PoPoli, si potrebbe dire, · della Manica, dal corso inferiore della Mosa a quello della Senna: Menapt, Morini, Aduatuci, Viromandui, Atrebati (cinque popcli che faranno presto parlar di sè), Ambiani, Caleti, Veliocassi, con un totale di forze promesse pari a novantaseimila uo1:1ini.


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Quattro popoli, infine, - residenti nella immensa selva, allora, delle Ardenne - i quali con un sol nome si chiamano (eccoli!) Germani, qui uno nomine Germani appellantur: Eburoni (anche questi riappariranno), Condrttsi, Ceresì, Pemani, si calcolava che potessero forn ire un contingente pari a quarantamila uomini. Prendiamo fiato e riepiloghiamo: ai centosessantamila dei popoli maggiori si aggiungano i novantaseimila e i quarantamila dei minori e l'esercito belga apparirà nelle sue gigantesche proporzioni (i Senatori abbiano la compiacenza di tenere a mente, almeno, questo numero): duecentonovantaseimila armati. Mentre le forze combattenti di Cesare - otto legioni, cavalleria gallica, unità ausiliarie - possono raggiungere i cinquantam ila e, a essere larghi, i sessantamila uomini: un sesto un quinto delle belghe. Se dunque le forze promesse al Concilio belga, riunite, raggiungeranno anche una ridotta efficienza combattiva, l'esercito romano potrà essere - e si potrebbe dire che lo sarà certamente - sommerso, se non altro, dal numero. Cesare dice : « Incoraggiati ed elogiati lccio e Andocumborio con un discorso pieno di benevolenza, liberaliterque, ordinai che sì presentasse a me l'intero loro Senato e che mi fossero dati in ostaggio i figli dei più ragguardevoli cittadini». Voi stessi, signori, mi avete denunciato i gravi pericoli che mi minacciano: volete dunque che io non mi assicuri delle vostre promesse con un pegno consistente? Datemi in ostaggio i figli dei più ragguardevoli cittadini. L'occupazione del vostro territorio non basta: se esigenze di guerra mi costri ngessero a lasciarlo, chi mi garantirebbe la vostra fedeltà? Iccio e Andocumborio non dovettero battere ciglio a siffatta richiesta : tutti questi ordini furono da essi a pieno eseguiti, puntualmente, ad diem.

Ma la presentazione del Senato - forse a Reims - e le consegne dei giovani ostaggi furono le ultime battute di questa prima fase, pacifica, della questione belga.

GLI AVVENIMENTI SULL'AJSNE

LA

MISSIONE D1VIZ1ACO.

L'atto che segue - un colloquio, si direbbe a porte chiuse, in quel di Reims, fra il generale romano e l'eduo Diviziaco, quello dello storico discorso - è senz'altro provvedimento di guerra.


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Dice: « Con particolare impegno dimostrai ali'eduo Diviziaco quanto interessasse alla Romana Repubblica e alla salvezza di noi stessi che le forze nemiche fossero divise, in modo che non si dovesse ,combattere contemporaneamente con un sì grande numero di nemici. Questo poteva avvenire se forze edue fossero entrate nel paese dei Bellovaci e avessero cominciato a devastarne i campi. Date queste disposizioni, lo feci senz'altro partire>>. Diviziaco, dunque, non solo trovasi ancora presso l'esercito romano ma è ora da Cesare incaricato di condurre azione diversiva contro il popolo della coalizione più potente per valore autorità numero: quei Bellovaci a cui rimangono in paese quarantamila armati avendone alla coalizione promesso, su centomila all'occorrenza disponibili, sessantamila scelti. La devastazione dei campi sarebbe assunto poco guerriero se non fosse da considerare unitamente alla reazione del danneggiato: ma quali e quante erano le forze, in tal caso, di Diviziaco? Diviziaco, a ogni modo, alla testa di e<lue truppe, fanteria e cavalleria (poche, molto poche, niente di feroce: supposizioni che potranno avvalorarsi in seguito), si avviò verso il Beauvaisis da cui, quando egli vi giunse, erano certo partite dei Bellovaci le truppe scelte.

MAUCHAMP.

Ma dopo la sua partenza, quanti giorni non sappiamo, avvenne anche lo spostamento di tutte le forze romane, dalla zona dov'erano in sosta, al]'Aisne: spostamento breve perciò, e tutto in territorio dei Remi. Dice: « Quando vidi che tutte le forze dei Belgi dal luogo di radunata marciavano contro di me, e seppi dai miei esploratori e dalle notizie dei Remi che esse ormai più non erano lontane, neque iam longe abesse, mi affrettai a passare il fiume A isne che scorre ai margini del paese dei Remi e posi il campo sull'altra riva » . Le forze romane passarono sulla destra dell' Aisne, secondo buona ipotesi, a Berry au Bac, - da Reims distante neppure venti chilometri - e costrui rono colà un grande campo sulle alture di Mauchamp. Campo che merita attenzione sia per le caratteristiche naturali della zona in cui fu impiantato che per quelle conferitegli .dall'opera fortifìcatoria. Dice : « Il rovescio del mio campo era protetto dal fiume. Il paese alle mie spalle - cioè la gran parte del paese dei Remi - veniva a trovarsi protetto dai nemici, e i rifornimenti potevano giungermi, dai Remi e da altri popoli, senza pericolo. Sul fiume c'era un ponte: vi posi a guardia, sulla destra del fiume, un presidio e, sulla sinistra, il Legato Quinto Titurio Sabino


con sei coorti, in altera parte Q. Titurium Sabinum legatum cum sex cohortibus. Il campo feci fortificare con un terrapieno alto oltre tre metri e con un fosso profondo oltre cinque metri ».

Gli avvenimenti sull'Aisnc.

Tutto chiaro, nell'essenziale: il generale romano ha deciso di attendere da fermo, sulla destra Aisne, la grande moltitudine che - proveniente, pare, dal territorio di Soissons - si sta portando contro di lui; ha fatto pertanto costruire sulle alture di Mauchamp un grande campo, - un quadrato di un due chilometri, calcoleremmo, qi ·lato - attorno al quale il vallum ha terrapieno e fosso notevoli per altezza e profondità; s'è infine assicurato presidiando alle testate il ponte sì vicino al campo - il ritorno, all'occorrenza: sulla riva sinistra. Un concentramento di forze, in conclusione, be~ protetto nella sua sosta e in condizione di muovere - a seconda delle iniziative, ancora ignote, del suessione Galba, supremo capo dei coalizzati, - in tutte le direzioni.


f UMO E

FUOCHI DI BIVACCO •••

A circa dodici chilometri dal campo romano, c'era una città dei Remi a nome Bibracte. Le forze coalizzate belghe, interrompendo la marcia, la attaccarono con grande impeto. E per quel giorno la difesa resse a stento. Bibracte dei Remi sorgeva, destra Aisne, sul luogo della odierna Beaurieux o su una delle vicine alture; circa dodici chilometri perciò a occidente di Berry au Bac. Il sistema d'attacco a luogo fortificato, uguale per Galli e Belgi, è questo: circondano di truppe tutte le mura di un oppido e cominciano a lanciar proietti da tutte le parti; quando gli spalti sono rimasti spogli di difensori, fatta la testuggine, testudine facta, (procedimento anche romano, e lo ritroveremo: la protezione dal tiro dall'alto ottenuta - a mo', appunto, di guscio di testuggine ~ con gli scudi tenuti quasi orizzontali al di sopra delle teste e l'uno all'altro, coi margini, serrato o sovrapposto. La protezione sui fianchi assicurata allo stesso modo .dagli scudi tenuti verticali degli uomini delle file esterne); fatta dunque la testuggine, - o, per meglio dire - tante testuggini quanti i gruppi, certo molti, di assalitori - danno fuoco alle porte e cominciano a scalzare il muro. E il sistema, nel caso di Bibracte, andò, sino a un certo punto, benissimo, perchè, essendo grçmde la moltitudine dei lanciatori di sassi e frecce, nessuno poteva resistere sugli spalti. Ma avendo la notte interrotto l'attacco ... Anche questa volta, come per il campa minore di Epfig, i barbari non intercettarono le comunicazioni fra l'oppido, sino ad allora sì felicemente tenuto sotto pressione, e il campa romano: sicchè lccio, era lui che comandava l'oppido, uomo di nobili natali e di grande prestigio - portatore di pace. come ricordiamo, con Andocumborio - avvisa Cesare che, se non gli manda aiuti, non avrebbe potuto resistere più a lungo. E Cesare, nel cuore della notte, inviò a quei difensori buon nerbo di sceltissimi tiratori: reparti di fanteria leggera di Numidi, arcieri Cretesi, frombolieri delle Baleari, facendoli guidare dagli stessi messi di lccio. L'arrivo di tale aiuto, risollevando le speranze, infuse nei Remi un maggior ardore difensivo e, per la medesima ragione, tolse ai nemici - ossia, diremmo: la toglierà domattina, quando si imbatteranno in una reazione inattesa, maggiore del giorno innanzi - la speranza di impadronirsi dell'oppido.

Ma ecco che avvenne il mattino successivo: i barbari trattenutisi per poco, paulisper, nei pressi dell' oppido, mossero con tutte le loro forze verso il campo di Cesare ...


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Il mattino successivo i Belgi non attaccarono a fondo l 'oppido; non lo attaccarono, anzi, in nessun modo: ferm ativisi un paulisper, ripresero la loro strada. Galba aveva altro da fare, e con un'urgenza (la ravviseremo presto) che non ammetteva attenuazioni. Trepidanti come siamo per lo scontro, certo prossi mo, fra l'esercito romano e la furiosa coalizione belga, credevamo che lccio~ Beaurieux ne avrebbero segnato il preludio. Inoperosi, invece, restarono sugli spalti dell'antica Beaurieux arcieri, frombolieri, volteggiatori della Numidia, di Creta, delle Baleari e lo stesso Iccio, quel gran signore. I barbari , dunque, rimasti paco tempa nei pressi <lell'oppido, . . . depastati i campi dei Remi, bruciati tutti i villaggi e le case che poterono raggiungere, - a ferro e fuoco tutta la striscia del paese dei Remi sulla destra Aisne si mossero con tutte le loro forze verso il campo di Cesare . .. e posero i loro accampamenti - sulle alture di Juvincourt - a circa tre chilometri dal romano, su un fronte di più di dodici chilometri, per quanto si potepa congetturare dal fumo e dai fuochi di bivacco, ut fumo atque ignibus significabatur.

Fumo e fuochi di bivacco lungo sì estesa fronte che annunziano a1 Romani imminente l'attacco belga.

Cesare dice: « In un primo tempo, e per il gran numero dei nemici e per la loro superiore reputazione di valore, decisi di attendere a dar battaglia, provando però ogni giorno, con combattimenti di cavalleria, il valore del nemico e lo spirito combattiPo dei miei». Non osa, in un primo tempo, - trascorse, così, qualche giorno - usci~e con le fanterie dal campo, tanto gli sembra certo che il nemico accetterebbe senz'altro la sfida. Lo preoccupa l'efficienza della propria cavalleria; non tanto perchè compasta di Galli (certamente remunerati, come forse neppure se lo sognavano, col bottino degli Elvezì e dei Germani) quanto per il caso che essa possa dar segni di decisa inferiorità combattiva rispetto alla belga. Insufficiente la superiorità della cavalleria, e peggio se si tratta di inferiorità, resta compromesso un largo o anche solo sufficiente respiro operativo, cioè l'esplorazione lontana e vicina;··compromessi, in definitiva, la sicurezza in marcia, la -distensione nelle temporanee soste, la stessa sicurezza degli schieramenti <li battaglia. Dice: « Quando costatai che la mia cavalleria non era inferiore a quella del nemico . .. ». Non parla di superiorità, ma appena, se mai, di parità.


I I I

La fanteria belga aveva, come ben sappiamo, schiacciante superiorità numerica sulla romana e pari almeno, a giudicare da questi scontri, la cavalleria : situazione perciò per Cesare non lieta. Un piede in fallo, e anche solo di risultato incerto un grosso incontro fra le fanterie, e anche il rapporto fra le cavallerie si sarebbe mutato a favore dei Belgi. Situazione preoccupante. Dice, infatti: « Quando costatai che la mia cavalleria non era inferiore a quella del nemico, ... ordinai di scavare ai due fianchi della collina due fossati trasversali lunghi circa seicento metri, rinforzati alt'estremità da piccoli ridotti, castella, muniti di macchine da tiro, tormenta: tutto ciò feci perchè, una volta che avessi schierato a battaglia l'esercito sulla collina, i nemici, tanto superiori di numero, non potessero aggirare sui fianchi le mie truppe im pegnate in combattimento frontale >> . Rivela , dopo le prove non proprio incoraggianti con la cavalleria, la sua perplessità di fronte alle incognite che si celano dietro i dodici chilometri di fuochi di bivacco. E perciò, messa da parte ogni intenzione offensiva, fa chiudere l'accesso ai fianchi della collina anche con due robuste trincee; ognuna, diremmo oggi, sotto tiro d'infilata delle artiglierie piazzate negli appositi ridotti. Sicchè ora possiamo vedere con chiarezza più che sufficiente il colle di Mauchamp (non molto alto e terminante nella pianura verso il nemico con lieve declivio) dove i Romani, sulla parte più elevata, avevano costruito il campo : sul rovescio, esso colle era protetto <lall'Aisne; sulla fronte, nelle vicinanze stesse del campo, aveva terreno molto adatto per uno schieramento di battaglia; i suoi fianchi ~ ora tatticamente potenziati dal fosso perimetrale nonchè dai due fossati trasversali - erano entrambi scoscesi. Forte, dunque, a lavori finiti, ma non poterono non trascorrere parecchi giorni, la posizione romana sull'Aisne : un'autentica piazzaforte nel territorio dei Remi.

IL

FATTO n'ARME DI BERRY AU BAc.

Dice: « Terminati tali lavori, lasciai nel campo in eventuale riserva le due legioni appena reclutate, - quelle di Quinto Pedio - e schierai le altre sei sul terreno antistante al campo. E anche i nemici, usciti dagli accampamenti, si disposero in ordine di battaglia>> . Siamo dunque, qual che sia stato il giorno (metà luglio, circa?), alla battaglia. Però quel giorno avvenne quanto qui di seguito è descritto: Fra i due eserciti c'era una palude non molto estesa, palus non magna: la valle, allora paludosa, del fiume La Miette ; i Belgi attendevano che la pas-


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sassero per primi i Romani; i Romani, armi alla mano, si tenevano pronti per aggredire i nemici quando questi - se avessero preso loro l'iniziativa di passare la palude - si sarebbero trovati impacciati nel movimento, impeditos. Intanto, nello spazio fra i due schieramenti, inter duas acies, combattevano le cavallerie: scaramucce, chè il terreno era paludoso anche per i cavalli. Cesare, siccome nè gli uni nè gli altri prendevano l'iniziativa di cacciarsi nella palude, avendo avuto la meglio nel combattimento equestre, ritirò le sue truppe nel campo. Niente battaglia. Siamo anzi venuti a sapere che i Belgi, nella scelta dei loro accampamenti, malgrado il tanto furore e l'assoluta superiorità delle loro forze, non hanno disdegnato di porre fra sè e i Romani una palude.

Ma appena le sei legioni si furono ritirate nel campo, il nemico - a un di presso come a Epfig nel settembre scorso per il campo minore - si mosse. I nemici, invece, si diressero immediatamente verso l'Aisne, che scorreva, come s'è detto, dietro il campo romano. Trovati i guadi, tentarono di far passare sulla sinistra del fiume parte delle loro forze (parte: non quindi tutte e, come presto apparirà, neppur molte), con l'intento, se possibile, di espugnare il fortilizio affidato al Legato Quinto Titurio Sabino, e di tagliare il ponte, - era infatti l'unico posto attraverso il quale i Romani avrebbero potuto defluire rapidamente sulla sinistra A.isne - o, se non ci fossero riusciti, di devastare i campi dei Remi, essenziali per la condotta della guerra, e tagliar ai Romani, così, i rifornimenti. Dunque: . quel fiume Aisne che i Belgi non hanno passato a Beaurieux dodici chilometri lontano, tentano di passarlo ora sotto il naso del nemico: come si spiega? La reazione del generale romano fu, naturalmente, immediata. Cesare, informato da Titurio Sabino (questo Legato fra tre anni sarà il protagonista di una delle pagine più drammatiche di queste memorie), passa il ponte con tutta la cavalleria, con la fanteria leggera dei Numidi, con frombolieri e arcieri, e si dirige rapidamente - con sole truppe celeri e tiratori scelti; poche migliaia di uomini: sapeva dunque che erano poche le forze nemiche - là dove il passaggio del ne,:rzico - non in vista perciò dal campo - era stato segnalato. L'azione di forzamento era già in atto: il combattimento, in quei luoghi, fu pertanto aspro, acriter in eo loco pugnatum est. E ' qui descritto con tre rapidi tratti: le truppe romane avendo sorpreso i nemici al passaggio dei guadi, li uccisero in gran numero; coloro che con audacia incredibile tentavano di passare sui corpi dei caduti, furono respinti da una pioggia di proiet-


113 tifi;_~ primi che erano riusciti a passare, circondati dalla cavalleria, furono uccisi. T entativo fallito sul nascere. Uno scontro che vide impegnata delle forze belghe solo parte - anzi: solo la parte, audacissima, uscita dal fiume - e dell'esercito romano solo la cavalleria e taluni reparti di tiratori. ·

Ma l'urto decisivo fra le fanterie - la battaglia, che stiamo attendendo da un momento all'altro - non è forse indispensabile ai coalizzati che hanno messo su un grande e pesante esercito proprio per ottenere una rapida decisione del conflitto? Un grande esercito che finora ha fatto piuttosto Poco! una marcia di trasferimento indisturbata dalla località di radunata alle Posizioni dell 'Aisne; un tentativo, presto però abbandonato, di espugnazione del1'oppido Beaurieux; un guardingo schieramento di battaglia dietro palude; infine un tentativo, ma solo con parte delle forze, certo le scelte, di forzamento de1l'Aisne. La situazione dei Romani più si pregiudicherebbe se dovesse avvenire un nuovo tentativo di forzamento da Mauchamp lontano: ma tentativo in massa, con tutte le forze, su lunghissima fronte. L'esercito romano, in tal caso, sarebbe obbligato a uscire <lalla Posizione fortificata. Ne dovrebbe uscire nel caso che dovesse contrastare il passaggio sulla destra stessa dell'Aisne; ne dovrebbe uscire se volesse Porre fra sè e il nemico l'ostacolo del fiume, ricorrendo al ripiegamento, un'umiliazione, sulla sinistra Aisne. Senza superiorità assoluta di cavalleria, con un nemico numericamente assai superiore, essò correrebbe gravi rischi in una battaglia senza il campo alle spalle, in terreno libero.

Ma quali potevano essere gli intenti operativi del suessione Galba, supremo comandante della coalizione belga? Interrogativo, oltre che difficile, inutile; perchè il fatto che avvenne subito dopo il tentativo di forzamento a Berry au Bac superò di colpo, e di gran lunga, e gli iniziali intenti operativi, quali che fossero, di Galba e le preoccupazioni di Cesare. Un fatto sorprendente per noi, e imprevisto, lo dirà lui stesso, da Cesare.

« N ULLO CERTO ORDINE NEQUE IMPERIO » .

Il grande esercito belga, appena fallito il tentativo di forzamento del~ I' Aisne, come se nel suo seno fosse scoppiata una potentissima carica di tritolo; in poche ore si dissolse. 8. -

u.s.


La corsa clamorosa disordinata pazzesca, allora, di tutti contingenti , ognuno per conto suo, alla volta dei propri paesi. Cesare dice: « Quando i nemici videro svanire la speranza di impadronirsi dell' oppido nonchè quella di passare l' Aisne, e che i Romani non avanzavano per accettar battaglia su terreno sfavorevole e a loro cominciò a mancare il grano, atque ipsos res frumentaria deficere coepit, convocato un consiglio di guerra, concilio convocato, decisero che il miglior partito era che ognuno ritornasse al suo paese, e che tutti si tenessero pronti a correre in soccorso di coloro il cui territorio fosse stato dai Romani invaso. E così, combattendo nel proprio territorio anzichè nell'altrui, ciascuno avrebbe potuto giovarsi della riserva di grano del suo paese, domesticis copiis rei frumentariae. A far prendere questa decisione contribuì, fra le altre cause anche il fatto eh'era giunta la notizia dell'avvicinarsi di Diviziaco e dei suoi Edui alle terre dei Bellovaci; e non fu possibile persuadere costoro a trattenersi più a lungo senza andare in aiuto della propria gente ».

Il repentino scioglimento <lell'esercito belga è fatto dunque .dipendere da quattro cause, che qui richiamiamo nell'ordine posto da Cesare stesso: mancata espugnazione di Beaurieux; fallito tentativo di forzamento dell'Aisne; consistenza del!a posizione Mauchamp; incipiente crisi di vettovaglie; e infine, ma causa che appare solo concorrente, dai Bellovaci (i delusi nell'aspirazione alla direzione della guerra) che, scusa o buon motivo Diviziaco, propugnano il ritorno di ciascuno al proprio paese e vogliono essi, senz'altro, iniziarlo. Quattro le cause principali, fra le quali, ultima, la crisi delle vettovaglie. Causa che però, come ognuno ha notato, riappare a testa alta nella decisione conclusiva dei capi militari di ritornare ciascuno al proprio paese per giovarsi delle proprie riserve di grano. Sicchè, se alla crisi delle vettovaglie togliamo la sor<lina e la passiamo dal quarto al primo posto, essa, emettendo un suono più distinto, ci può rivelare un valore a cui tutte le altre cause, pur restando in piedi e valide, dovranno più o meno subordinarsi. Il grande esercito si sarebbe anzitutto dissolto (ma è proprio solo una ipotesi?) per scarsità di vettovaglie. I popoli belgi, nel loro tanto furore, avevano puntato sul fattore numero: ma quando dalle parole erano passati ai fatti, siccome numero significa bocche~ di numero s'erano quasi subito ammalati e di numero erano poi, rapidamente, periti. Essi si trovarono costretti - non previsti, quasi certamente, sì rapido sopraggiungere dell'esercito romano e la frana, ad<li~ittura totale, dei Remi - a cose mai fatte, di fronte a progetti più grandi di loro.


Il grano ogni contingente avrebbe potuto averlo dal proprio paese: ma p0chi lenti e inadeguati all'urgenza i mezzi di trasp0rto (che avevano richiesto un biennio di preparazione, e si trattava più di migrazione che di guerra, da parte degli Elvez1). La crisi delle vettovaglie potè forse cominciare sui luoghi stessi della grande adunata e aggravarsi durante la marcia. In Gal ba istinto e buon senso, se non altro, parlavano: come passare l'Aisne e avventurarsi nel paese <lei Remi col nemico stabilmente impiantato sulla ,destra del fiume? e quando sì grande moltitudine, già in disagio, fosse in territorio dei Remi, si sarebbe subito avuta la decisione o il nemico sarebbe rimasto dov'era, in condizioni di tenerlo separato del tutto, e non per breve tempo, dai propri paesi? Per l'aggravarsi della crisi delle vettovaglie, o perchè se ne faceva sempre più viva la preoccupazione, i capi belgi - tralasciata l'espugnazione dell'oppido ---.,. avrebbero dunque deciso <li portarsi subito a contatto del nemico per ottenere, forti del numero, la rapida, indispensabile, soluzione del conflitto. Ma la crisi <li vettovaglie, quando il grande esercito - postosi sulle alture di Juvincourt - fu di fronte alla botte di ferro di Mauchamp, s'era già tramutata (l'affermiamo perchè abbiamo sotto gli occhi un documento inoppugnabile che subito mostreremo) in crisi, in senso lato, disciplinare. Lo squilibrio fra i progetti operativi e le possibilità di vita rivelatesi insufficienti - nè da escludere, vere o presunte, <lifferenze di trattamento fra contingente e contingente - aprì il varco a palesi risentimenti di natura politica: alla diffidente rivalutazione cioè della condotta e degli scopi della guerra. La scelta della pasizione ,di Juvincourt dietro la palude non segna il passaggio da intenti ultraoffensivi a un atteggiamento di difesa e rinuncia? Tuttavia, sulle pasizioni di J uvincourt il tanto furore ancora respirava se le migliori truppe, tratte forse da ciascun contingente, poterono essere comandate all'operazione di forzamento. Fallito però quel tentativo, a Galba non sarebbe rimasto altro, e in tumultuose circostanze, che convocare, o accettare, il consiglio di guerra, che dichiarare o accettare la bancarotta.

Ecco ora il documento inoppugnabile che rivela la crisi belga in gran parte o del tutto indipendente dalle operazioni militari. Trentaquattro parole: Ea re consti tuta secunda vigilia magno cum strepitu ac tumultu castris egressi nullo certo ordine neque imperio cum sibi quisque primum itineris locum peteret et domum pervenire properaret fecerunt ut consimilis fugae profectio videretur: presa tal decisione, al secondo cambio dì guardia, -. alle nove circa di notte - uscirono dagli accampamenti


JI6 con grande rumore, tumultuando, senza più coesione e comando, ciascuno volendo essere il primo nella marcia per raggiungere il proprio paese; e fecero sì che la ritirata simigliasse a fuga. La trista grandiosità - che si potrebbe dire contenuta anche solo nelle seguenti cinque parole - degli eserciti, senza più anima, che si dissolvono: nullo certo ordine neque imperio, senza più coesione e comando. Solo lunghe privazioni e dissensi e rancori a lungo covati conducono a dissoluzioni sì repentine; oppure, ma non è questo il caso, gravi e prolungati dissanguamenti. Cesare <lice: « lo ebbi subito notizia della ritirata dai miei informatori, ma temendo un'insidia, insidias veritus, perchè non avevo ancora compreso, quod non<lum perspexerat, per qual ragione, qua de causa, si allontanassero, trattenni legioni e cavalleria nel campo». Confessa, apertamente, che non comprese subito per qual ragione si allontanassero ; lontano dal supporre la vera causa di quei tumultuosi echi, giunge, nientemeno, a sospettare un adescamento per fargli lanciare, di notte, cavalleria e legioni. La marea belga, procedendo dai luoghi <li radunata sino a Juvincourt, aveva sparso intorno a sè il terrore; la destra Aisne resa pertanto irrespirabile agli informatori dei Romani, anche se tutti Galli: sì che Cesare per molti giorni nulla o assai poco aveva saputo della crisi che travagliava, consumandolo rapi<lamente, l'esercito che aveva di fronte.

Dice: « All'alba, prima luce, confermata dagli esploratori la notizia che si trattava di ritirata, lanciai tutta la cavalleria, omnem equitatum, perchè costringesse la retroguardia nemica a rallentare. Della cavalleria, posi a capo i Legati Quinto Pedio e Lucio Aurunculeio Cotta. Al Legato Tito Labieno· ordinai di seguire con tre legioni». Inseguimento a fondo, e perciò affidato a tre Legati (Cotta lo ritroveremo fra tre anni nelle stesse circostanze di Titurio Sabino): le masse in fuga, agganciate e fermate dalla cavalleria, avrebbero subìto sia l'azione <li questa che l'azione - se avessero tentato una resistenza - delle sopraggiungenti tre legioni. Ma dovè attendere con ansia, nelle prime ore di quel giorno, le notizie sui risultati dell'inseguimento: il grande esercito solo in ritirata o in dissoluzione? Dissoluzione: non c'è dubbio; e l'inseguimento -, in direzione, sembra di Laon, per una quindicina e più di chilometri - la sta segnan<lo a sangue. I Romani attaccarono la retroguardia e inseguirono per molte miglia i nemici, uccidendone un gran numero.


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Una strage fu possibile perchè si verificò ciò che fatalm ente quasi sempre avviene in siffatte dissoluzioni: gli ultimi, una volta raggiunti e agganciati dalle avanguardie romane, si fermavano e sostenevano coraggiosamente l'attacco; ma coloro che erano più avanti nella ritirata, priores, sia perchè a loro sembrava di essere ormai fuori pericolo, abesse a periculo, sia perchè non ravvisavano più alcuna necessità di combattere nè erano trattenuti da alcuna disciplina, neque ulla necessitate neque imperio, appena udivano alle spalle clamore di combattimento, cercavano, tutti, salvezza nell'acceleramento della fu ga. Dice: « E così i nostri, senza alcun loro rischio, sine ullo periculo, ne uccisero tanti quanti permise la durata del giorno e al tramonto, secondo gli ordini, ut erat imperatum, desistettero dall'inseguimento e rientrarono nel campo».

A Mauchamp, la sera, il proconsole patè misurare quanto era avvenuto, improvvisamente, in ventiquattro ore : le forze romane uscivano intatte da una campagna prevista sanguinosissima; separatisi gli eserciti della coalizione, si spegnevano di colpo le speranze di indipendenza - centro il numero il valore il furore dei Belgi - di tutta la Gallia. Avevano separ.ato le loro forze i tre papoli della coalizione più potenti - Suessioni, Bellovaci, Nervi - sì che debellarli, ora, uno alla volta, non è più impresa disperata.

TRE RESE.

Il generale romano accolse e superò l'immensa fortuna (paralizzante, più spesso, dell'immensa sfortuna) senza perplessità e indugio. I fatti son qui che parlano. Il giorno dopo l'inseguimento, prima che i nemici si riprendessero dal terrore e dalla fuga, condusse l'esercito nel paese dei Suessioni che erano i più vicini ai Remi - e dei Remi, come ricordiamo, « fratelli e consanguinei>> - e, dopo lunga marcia, giunse sul/'oppido Novioduno. Novioduno dei Suessioni sorgeva nei pressi di Soissons, destra Aisne, nella zona, pare, di Pomrniers; dalle posizioni di Maucharnp a quell'oppido i Romani percorsero dunque una tappa di circa cinquanta chilometri, quasi il doppio di tappa normale. Cesare tentò senz'altro, a fine tappa, di prender l' oppido d'assalto perchè gli risultava privo di difensori: non riuscì però a espugnarlo, per quanto difeso da pochi, a cagione della larghezza del fossato e l'altezza delle mura.


118 Ma neppure l'indomani della faticosa marcia i Rom ani ebbero tregua : fortificato il campo, il generale romano fece dislocare le « vinee )> (le ritroveremo, all'opera, in memorabili occasioni) sotto le mura e preparare tutto ciò che era necessario per l'attacco. Un intero giorno impiegato da tre legioni per l'inseguimento; il giorno appresso la grande marcia e il tentativo di espugnazione dell'oppido; il terzo, impegnato -da ingenti lavori ossidionali: il mattino del quarto avrebbe dunque dovuto avvenire l'attacco a N ovioduno. Cesare dice: « Frattanto, nella notte che seguì ai lavori ossidionali, tutta la moltitudine in fuga degli armati Suessioni, om nis ex fuga multitudo, si raccolse in Novioduno, in oppidum convenit ». Il contingente dei Suessioni, incalzato dalla cavalleria romana, era stato certo costretto a un lungo giro per riprendere la direzione del proprio paese; masse di fuggiaschi erano q ui ndi riuscite a entrare a Novioduno, evidentemente non chiuso da blocco, solo nella notte precedente al predisposto attacco. Dice: << Condotti rapidamente i camminamenti sino alle mura, fatte colmate di terra e innalzate le torrz, i Galli di Novioduno, turbati dalla grandezza delle opere, che non avevano prima d'allora mai viste e udite, nonchè dalla rapidità di lavoro dei Romani, mi int iarono ambasciatori per trattare la resa ». Attribuisce la resa unicamente all'effetto dei suoi apprestamenti ossidionali, ponendo così in ombra la notizia - che pur, scrupolosamente, ci ha appena data - che erano appena affluiti in Novioduno gran parte se non tutti, e forse fra essi lo stesso Galba, gl i armati dei Suessioni in fuga da Juvincourt. La turba dei fuggiaschi avrebbe portato nell'oppido - il quale qualche giorno prima, con scarsa guarnigione, e forse ignaro di quanto era avvenuto a Juvincourt, pur non aveva chiesto la resa - l'ira e il subbuglio del] a fame;. ma vi aveva soprattutto portato la prova concreta che i popoli belgi avevano diviso, di fronte a Roma, le proprie sorti. La resa fu dunque nella logica delle cose, voluta dalla stessa separazione dei contingenti; chè ambigua e inconsistente era stata la decisione adottata dal consiglio di guerra di Juvincourt: una formula qualunque per salvare la faccia e uscire immediatamente da una situazione insostenibile. I Suessioni ,d unque inviarono messi a Cesare per la resa e - intercessori i « fratelli e consanguinei » Remi ottennero di essere risparmiati. Cesare, ricevuti in ostaggio i primi cittadini e due figli dello stesso re Galba, e avute tutte le armi che erano nell'oppido, accettò la resa e condusse l'esercito nel paese dei Bellovaci. Molti ostaggi e tutte le armi (ma a far meglio i conti restavano negli oppidi espugnati, superfluo ogni volta ricordarlo, commissari e amministratori romani). 1


Uno dei tre principali popoli della coalizione, quello più vicino a Mauchamp, è dunque caduto: è la volta, ora dei Bellovaci. Quei Bellovaci che della coali zione erano i più potenti per autorità valore e numero, che potevano mettere in campo sino a centomila uomini, che ne avevano promesso sessantamila scelti, che avevano invano chiesto per sè la direzione della guerra; quei Bellovaci contro cui era stato inviato Diviziaco per devastarne i campi. Dice: « I Bellovaci, essendosi concentrati con tutti i loro mezzi nel/'oppido di Bratuspanzio . .. » . Bratuspanzio sorgeva, pare, nell'area della città di Beauvais; e tra questa e il territorio di Soissons, dove Cesare aveva accettato la resa dei Suessioni, intercorrono circa cento chilometri. Allorchè dunque Cesare attinse le terre dei Bellovaci, apprese di un grande concentramento di forze e di beni in Bratuspanzio: oppido quindi di ampio perim etro, certamente ben fortificato. I Bellovaci avrebbero dunque deciso di continuare le ostilità, ostacolando, ~er intanto, con una resistenza a oltranza nell'oppido, la marcia dei Romani. Ma anche qui non avvenne proprio nulla. Tutto si svolse secondo la logica delle cose testè rilevate. Della resa dei ~ellovaci, spettacol are, Cesare ci ha lasciato due suggestivi brani della sua prosa e qualche linea di un altro discorso dell'eduo Diviziaco .

. . . E quando Cesare fu con l'esercito a circa otto chilometri da Bratuspanzio, tutti gli anz iani, omnes maiores natu, usciti dall' oppido, cominciarono a tendere le mani verso di lui e a fargli comprendere con le loro voci eh'essi venivano a mettersi completamente sotto la sua protezione e non avevano nessuna intenzione di prendere le armi contro il Popolo Romano ... . . . A llo stesso modo, quando Cesare fu vicino all'oppido per accamparvi l'esercito, fanciulli e donne, dalle mura, a braccia aperte, secondo il lor costume, implorarono dai Romani la pace, pueri muli eresque ex muro passis manibus suo more pacem ab Romanis petierunt. A favore dei Bellovaci parlò l'eduo Diviziaco (il quale, avvenuta la ritirata dei Belgi, aveva congedato le sue truppe - truppe ausiliarie, dunque, esclusivamente sue e di sconosciuta composizione e quantità - ed era ritornato a Cesare: ma nel territorio dei Bellovaci era entrato o vi si era solamente avvicinato ?) così dunque disse, a favore dei Bellovaci, Diviziaco: - In ogni tempo i Bellovaci sono stati amici e sotto protezione del popolo eduo. Essi, spinti dai loro capì - i quali avevano fatto loro credere che noi Ed ui, ridotà da Voi in schiavitù, sopportassimo ogni sorta di offese e angherie - avevano abbandonato l'amicizia del popolo eduo e deciso di far guerra al Popolo Ro-


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mano. Ma ora gli istigatori, comprendendo quale suentura avevano procurato al loro popolo, si erano rifugiati in Britannia, in Britanniam profugisse (in Britannia ?). Non dunque solo i Bel/ouaci, ma, a loro nome, noi Edui Vi chiediamo di usare uerso di loro generosa clemenza. Se ciò farete, Voi avrete accresciuto presso tutti i Belgi l'autorità di noi Edui, perchè noi siamo soliti ricorrere proprio all'aiuto dei Belgi, per truppe e ogni genere di rifornimenti, quando dobbiamo intraprendere una guérra. Quel Diviziaco dunque che avrebbe dovuto entrare da devastatore nelle terre dei Bellovaci apparteneva a un popolo .che da sempre, omni tempore, era stato amico e protettore dei Bellovaci. Il compito di devastazione di campi affidatogli non viene, così, ad assumere più significato di missione politica che di diversivo bellico? E ancora: quale fu l'azione segreta svolta da questo eduo nella secessione dei Remi prima e nella dissoluzione della coalizione poi?

Ma di Diviziaco non ascolteremo più alcun discorso; anzi di lui non sentiremo più neppure il nome, tranne che per pura incidenza, fra cinque anni, in un momento per Cesare nero. Preoccupato della barbarie germanica che passava il Reno, sconfortato dal perenne dissidio interno delle genti galliche, s'era rivolto a Roma: ma qual sarà il suo pensiero e il suo animo negli anni che seguiranno?

Cesare rispose che per riguardo a Diuiziaco e al popolo eduo aurebbe risparmiato i Bellovaci prendendoli sotto la sua protezione. E poichè i Bellouaci erano un popolo di grantle autorità fra i Belgi, nonchè superiore a tutti per numero, chiese loro (una bazzecola) seicento ostaggi. Non c'era tempo da perdere: appena furono consegnati gli ostaggi e tutte le armi della città, l'esercito romano passò dal territorio dei Bellouaci nel territorio degli Ambiani (da Beauvais ad Amiens, che gli Ambiani ricorda nel nome, circa sessanta chilometri). I quali Ambiam, popolo minore anzi trascurabile, si arresero subito, senza condizioni. Prima i Suessioni, poi i Bellovaci, infine gli Ambiani: tre rese precipitose, senza il minimo rumore. Ora è la volta dei Nerv1.

Ma contro i Nervi la fortuna di Cesare, che ha galoppato pancia a terra per circa diciassette mesi, correrà mortale pericolo.


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LA BATTAGLIA DELLA SAMBRA I NERVI. I Nervi confinavano con gli Ambiani. Dal territorio di Amiens - l'antica Samarobriva - si accedeva, fra Schelda (o Escaut) e Sambra, alle terre di quei Nerv1 che fra i popoli della coalizione, come ci hanno annunciato lccio e Andocumborio, erano i più fieri. Fierezza confermata da successive informazioni da Cesare assunte: i mercanti non potevano entrare nel loro paese; non permettevano l'importazione del vino e di altre cose voluttuarie perchè ritenevano che intorpidissero l'animo dei guerrieri; erano uomini, insomma, indomiti e di grande valore guerriero. E rimproveravano aspramente, ora, tutti gli altri Belgi di essersi arresi al Popolo Romano, facendo getto della tradizione di valore ereditata dai padri. Essi invece: neque legatos missuros n eque ullam condicionem pacis accepturos: non avrebbero inviato ambasciatori non avrebbero accettato alcuna condizione di pace.

Cesare, dopo tre giorni di marcia ·attraverso il lor territorio, venne a sapere da prigionieri che la Sambra, Sabin flumen, non distava dal suo campo più di quindici chilometri, e che tutti i Nerv1 si erano fermati al di là della Sambra per attendervi l'arrivo dei Romani. Essi si erano già uniti agli Atrebati e ai Viromandui - avendo persuaso questi due popoli a tentare con loro la fortuna della guerra - ed erano in attesa delle forze, già in marcia, degli Aduatuci. L 'esercito romano, dal territorio di Amiens, sarebbe giunto, dopo tre giorni di lunghe marce, - ma dovè trovare quasi ovunque il vuoto - nella zona di Bavay. Cesare venne inoltre a sapere che quei belligeranti avevano riunito le don ne e quanti per età non in condizioni di combattere in luoghi - si può congetturare alle foci della Schelda - dove le paludi non permettevano l'accesso a un esercito. In seguito a tali informazioni, egli inviò, da Bavay, esploratori e centurioni, exploratores centurionesque, sulle posizioni di riva sinistra della Sambra a scegliervi terreno adatto all'impianto di un campo, qui locum idoneum castris deligant. Precisa, così, che questa volta non fu lui ma ufficiali della media .gerarchia a scegliere la posizione del campo.


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Dunque: sulla sinistra Sambra, - in quel di Bavay ma presto in marcia per occupare idonea posizione vicino al fiume - i Romani: otto legioni e cavalleria rinforzata - ci verrà detto in un brutto momento - da contingente treviro; sulla destra Sambra, in quel di Hautmont, Nerv1 Atrebati Viromandui (gli Aduatuci non giungeranno in tempo per la battaglia): una forza, stando ai dati del Concilio, intorno ai settantacinquemila uomini. Tutte forze intatte quelle dei Nervi Viromandui e Atrebati: eserciti che non avevano partecipato alle operazioni sull 'Aisne; segno che contrasti fra i coalizzati erano emersi anche durante il Concilio.

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LUOGHI DELLA BATTAGLIA.

Parecchi Belgi, o altri Galli, arresisi, s'erano posti al servizio dei Romani, e con l'esercito romano marciavano. Qualcuno di costoro, - la cosa fu risaputa dopo, da prigionieri - notato in quei tre giorni della colonna romana l'ordine di marcia, raggiunse di notte i Nervz e dette loro le seguenti informazioni: che le legioni marciavano separate a cagione del gran numero di carriaggi e salmerie fra l'una e l'altra frapposto; che era facile, quando la legione di testa fosse arrivata sul luogo del campo - mentre le altre erano ancora distanti - attaccarla « sub sarcinis » , cioè prima che i legionari avessero deposto il consueto carico individuale - attaccarla, in altri termini, ancora in formazione di marcia; che, infine, una volta battuta, saccheggiando salmerie e carreggio, la legione di testa, qua pulsa impedimentisque direptis, sarebbe accaduto che le altre non avrebbero osato opporre resistenza. A tali informazioni dava qualche fondamento - cioè veniva incontro rendendoli allettanti - la seguente considerazione: che i Nervi sin dal tempo anticò, poco o nulla potendo in fatto di cavalleria - e neppur oggi se ne preoccupano, facendo consistere ogni lor forza nella fanteria - per poter più facilmente impedire alla cavalleria dei confinanti di venire a predare nel loro territorio, costruivano delle specie di siepi ( mozzati in vetta alberi giovani, li curvavano, costringendoli, su terreno cosparso di rovi e pruni, a estendere qui, in larghezza, la loro ramatura); siepi che divenivano, a guisa di muri, efficienti difese, nelle quali era difficile entrare e misurare a occhio il pericolo. Ostacoli, insomma, che rendevano difficili i passaggi agevoli e obbligati, limitando, con studiate ubicazioni, la visibilità. Cesare dice: « Poichè tali ostacoli· avrebbero rallentato la nostra marcia, i Nervz pensarono che non era da respingere il consiglio dei segreti informatori >> . L'itinerario da Bavay alla Sambra e le alture stesse di Neuf Mesnil erano dunque cosparsi di cotali siepi. Ma dalle informazioni di quei disertori (se proprio di disertori si trattava) ci è dato anche rilevare che in marcia lontano da nemico era norma che ogni


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legione portasse al segui to il proprio carreggio e le proprie salmerie; mentre il grosso bagaglio, protetto, trovavasi in coda alla colonna. E tale dovè essere il caso dei tre giorni di marcia dal territorio di Amiens a quello di Bavay quando Cesare sapeva di certo che il nemico era oltre $ambra ; nei quali giorni - se appena teniamo conto degli allungamenti provocati da piste e sentieri, ordinaria viabilità del tempo - la colonna di otto legioni assunse parecch i chi lometri di profondità. Qualora la marcia dei Romani da Bavay alle posizioni di riva si nistra della Sambra - zona di Neuf Mesnil - fosse continuata su un solo itinerario e con carreggi e sal merie decentrati, la legione di testa sarebbe giunta sulla Sambra quando la seconda era da essa piuttosto distante, e quella di coda ancora, probabilmente, a Bavay. La terza delle informazioni date dalle spie rileverebbe invece, a detta di quegli stranieri, un lato debole dell'esercito romano: quei legionari intrepidi nel meccanismo che potevasi dire scientifico delle legioni schierate, ]o potevano essere assai meno se costretti, qualora attaccati di sorpresa in marcia, al combatti mento spicciolo.

La configurazione del terreno che esploratori e centurioni avevano scelto per l'impianto del campo era la seguente: Un colle scendeva dalla sommità sino alla Sambra con declivio uguale: sono le alture a sud dell'abitato di Neuf Mesnil che dominano in quel punto - le quote maggiori sui 170 metri - la riva sinistra del fiume. Ma esploratori e centurioni scelsero, naturalmente, la posizione in funzione del nemico che si sapeva al di là del fiu me; ecco perciò la descrizione anche della posizione prospiciente le alture di Neuf Mesnil. Sorgeva sull'opposta riva, con uguale e contraria pendenza, un altro colle; questo però aveva, rispetto al precedente, due specifiche caratteristiche: - era spoglio di vegetazione nella parte bassa per una striscia alta, dalla Sambra, un trecento metri; - nella parte superiore, invece, era sì selvoso che non era facile vederci dentro: sono, come abbiamo già detto, le alture di Hautmont, allora ammantate di spessa ed estesissima selva, che dominavano in quel punto la destra della $ambra. Segue una prima valutazione militare della posizione nemica : i nemici si tenevano nascosti in quelle selve, intra eas si lvas in occulto sese, - ma non è detto se vicino m eno vicino o lontano dal fiume - mentre nella striscia di terreno scoperto, in aperto loco, lungo il fiume, secundum flumen, non si vedevano che p9chi posti di cavalleria, paucae stationes equitatum . Segue altro dato militare importante: la profon_dità della Sambra era di circa novanta centimetri - transitabile a guado, quindi - ; e ne anticipiamo altri due: era fiume larghissimo, latissimum , e con· altissime sponde, altissimas npas.


Bavay LA SITUAZIONE INIZIALE.

L'esercito romano si mise dunque in marcia (un giorno, quale che sia, di metà agosto) da Bavay alle posizioni di Neuf Mesnil : movimento che, se iniz_iato all'alba, si sarebbe potuto prevedere del tutto compmto circa a mezzogiorno. Cesare, mandata avanti la cavalleria, seguiva con tutte le fanterie . Ma il criterio e l'ordine di marcia, ratio ordoque agminis, fu diverso da quello che le spie avevano riferito ai Nervi. Dice: « Poichè mi avvicinavo al nemico, avevo messo in testa, secondo la mia consuetudine, sei legioni senza salmerie, sex legiones expeditas; dopo di esse marciavano t·iunite tutte le salmerie e il carreggio del!' esercito. Le due legioni ultime arruolate (quelle giunte con Q. Pedio) chiudevano l'intera colonna, totum agmen claudebant, ed erano incaricate della protezione delle salmerie e del carreggio ». Un provvedimento ordinario: la formazione della colonna - preceduta dalla cavalleria, non sappiamo però se tutta o parte - doveva in questo caso rispondere a esigenze operative, del tutto subordinando, anche per la brevità della marcia, le logistiche. Ma si può senz'altro affermare che tal formazione venne adottata per l'eventualità che il nemico fosse nascosto a brevissima distanza dal fiume? Anche se il nemico non fosse stato ritenuto vicinissimo, si sarebbe dovuto lo stesso r~correre a tal formazione per non gravare di ritardo inutile le legioni che dovevano, subito, impegnarsi nella costruzione del campo. Dice: « I nostri cavalieri, assieme a frombolieri e arcieri, passato il fiume, attaccarono combattimento con la cavalleria nemica ». Quei pochi posti di cavalleria nemica, « paucae stationes equitum » nella striscia scoperta delle alture di riva destra, reagirono, naturalmente, a quel passaggio e ne risultò combattimento. Ma ecco che l'interrogativo di poc'anzi si riaffaccia: era in Cesare presente anche l'eventualità che le fanterie nemiche fossero ammassate e occultate a brevissima distanza dal fiume? Si direbbe di sì, ora: la colonna della fanteria ha avuto l'organizzazione di marcia che sappiamo ed è stata preceduta dalla cavalleria; si aggiunge, ora,


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La battaglia della $ambra.

il passaggio del fiume - per una maggior sicurezza delle legioni presto m crisi per i lavori - da parte di un certo numero di truppe celeri. La situazione dell'esercito romano di buon mattino - le sei legioni, se partite da Bavay all'alba, poterono essere a Neuf Mesnil anche prima delle otto - sarebbe ora agevolmente rilevabile: truppe celeri già sulla riva destra del fiume, e quasi certamente in sopravvento sui pochi posti della cavalleria nemica; spoglia di vegetazione, e quindi del tutto visibile dalle posizioni di Neuf Mesnil, la parte inferiore delle alture di Hautmont; protette le alture di Neuf Mesnil sia dal fiume e la sua larghezza che da ripida scarpata.


Soddisfacenti garanzie di sicurezza, dunque, per la costruzione indisturbata di un grande campo.

" CASTRA MUN IRE COEPERUNT ..• » .

Dice: Mentre i cavalieri nemici, con alterno giuoco, si ritiravano nelle selve verso i loro e poi, sbucando dalle sefre, facevano di nuovo impeto contro i nostri, - nè i nostri osavano inseguirli, neque nostri cedentes insequi auderent, se non dove il terreno era del tutto scoperto - mentre dunque ciò avveniva, interim, le sei legioni giunte per prime, prese che furono le misure, dettero mano ai lavori di fortificazione del campo, castra munire coeperunt » . (1

Ma è periodo su cui occorre fermare l'attenzione: proiettata al rallentatore, la situazione romana prende tutt'altro colore e sapore. Vero che cavalieri arcieri frombolieri erano passati sulla destra della Sambra con intento aggressivo: ma la loro aggressività risultava ora stroncata dal reiterato contrattacco, rapido e impunito per il pronto rifugio nel bosco, dei cavalieri nemici; stroncata si no al punto che quei celeri « non osavano » oltrepassare la modesta striscia di terreno scoperto; sino a lasciare del tutto inesplorata, conseguentemente, la parte selvosa delle alture. Truppe celeri, in altri termini, impiegate per dare respiro e protezione a tutto un esercito fra poco in crisi per i lavori che non solo erano state arrestate dal giuoco difensivo del nemico ma erano costrette a tenersi, con un corso d'acqua alle spalle, su poco terreno scoperto e in contropendenza. L'esercito romano non aveva dunque davanti a sè una cavalleria esplorante su largo raggio ma, sem plicemente, una linea di avamposti, composta di cavalieri arcieri e frombolieri, i quali ---, come l'occhio poteva benissimo scorgere dalle alture di Neuf Mesnil ~ erano in condizioni precarie : aggrappati, non stabiliti, sulla destra del fiume. In tali, malferme, condizioni di sicurezza, le legioni, tutte e sei, ricevettero, come abbiamo appena inteso, l'ordine di rompere i ranghi e di procedere alla costruzione del campo. Il vasto declivio delle alture di Neuf .Mesnil presto divenuto un rumoroso cantiere dove migliaia di legionari, sp~rsi per ogni dove, e su terreno anche ostruito dalle speciali siepi, non ad altro furono intenti che alle varie incombenze richieste dalla costruzione del campo. Non c'è notizia (e informazioni del genere Cesare, come già abbiamo avvertito e meglio avvertiremo in analoghe circostanze, non le tralascia mai) che fosse stato disposto che almeno aliquote delle sei-legioni, coorti o anche manipoli, rimanessero in armi, pronte a ogni occorrenza.


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VIS IONE ALLUCINANTE.

Nerv1 Viromandui Atrebati poterono avvertire come non poterono avvertire, chi può più dirlo?, che la colonna romana non marciava con le legioni l'una dall'altra separate da salmerie e carreggio. Ma anche se i capi rimasero sorpresi dall'apparizione sulle opposte alture di forze di fanteria superiori alle previste, più nulla erano ora in grado di fare di fronte alla nuova situazione : avevano già posto in atto nella selva uno schieramento d'attacco, intra silvas aciem ordinesque constituerant, nel quale riponevano piena fiducia. Un rudimentale ma pesante meccanismo d'attacco nell'intrigo della selva ......, con una fronte, si può calcolare, di oltre tre chilometri - che non si prestava ad alcuna immediata trasformazione, e doveva ormai scattare a tempo e modo convenuti.

Quando i nemici occultati nella selva videro apparire i primi scaglioni di salmerie e carreggio, - era questo il momento convenuto fra loro per iniziare l'attacco, - improvvisamente, uscirono di corsa con tutte le loro forze e piombarono sui cavalieri romani. Cavalieri arcieri frombolieri - tutta la malferma linea di avamposti furono sgominati e respinti facilmente e la valanga nemica si riversò sul fiume con incredibile velocità. Visione allucinante: ut poene uno tempore et ad silvas et in flumine et iam in manibus nostris hostes viderentur: sì che quasi nel medesimo momento i nemici sembrò che fossero e sbucanti dalle selve e nel fiume e a contatto con i Romani. E neppure la ripida scarpata arrestò l'impeto: con la stessa velocità i nemici risalirono il colle opposto puntando sul campo romano, adverso colle ad castra, cioè sulle truppe occupate nei lavori di fortificazione. Dice: « Avrei dovuto fare "tutto" contemporaneamente, omnia uno tempore agenda erant ». Per non dire che non poteva far nulla: errate (e non di poco) le informazioni con cui era giunto sulla Sambra, egli non aveva in quel momento nelle mani nessuna leva di comando. Dice: « Bisognava esporre il vessillo che era il segnale con cui si dà l'allarme }> . Il vessillo rosso, segnalazione ottica di allarme, innalzato sul posto di comando del capo supremo in luogo visibile almeno ai comandanti in. sottordine : ma esisteva quella mattina un convenuto, e sia pur temporaneo, posto di comando che i comandanti dovessero tener d'occhio? Il vessillo forse c'era: mancava il posto di comando.


I

2.8

Dice: e< Si sarebbe dovuto dare l'allarme con le trombe, signum tuba dandum ». Mancava una predisposta rete di collegamento acustico (il suono delle trombe di allora era ben lontano dalla portata odierna) fra posto di comando, inesistente, e legioni; fra posto di comando e immediate retrovie da dove continuava ad affluire, ignara, la lunga colonna logistica. Dice: « Bisognava richiamare i soldati dal lavoro». Senza le forti scosse che può produrre un allarme dato dalle trombe, la reazione alla cruda sorpresa sarebbe stata · tenta, disordinata e tumultuosa. Dice: « Bisognava richiamare coloro che si erano un po' allontanati a raccogliere materiali per il terrapieno ». La maggior parte delle truppe era, certamente, sulle alture di Neuf Mesnil; ma l'idonea formazione di marcia della colonna romana aveva forse presentato anche il lato negativo: apparse in ritardo salmerie e carreggio, aveva sublto ritardo anche l'attacco nemico, sì che le legioni avevano avuto più tempo per disperdersi. Dice: « Bisognava schierare l'esercito, fare l' "esortazione", dare gli ordini». · Inattuabile il consueto procedimento tattico, radicato ed esclusivo nelle menti e negli animi, che pretendeva, anzitutto, lo schieramento; nè i comandanti avrebbero potuto trasmettere ai loro gregari le rapide e concitate parole dell' « esortazione» (la « cohortatio » : conteneva, anche, propiziatoria invocazione agli Dei: malaugurio la sua mancanza) con cui il capo supremo tutti associava a sè nell'imminenza del cimento; assenti le Insegne o apparenti dove e come possibile, non potevano che risultare compromessi il vincolo organico e l'accomunamento per la lotta. Dice: « La brevità del tempo e l'incalzare del nemico, et successus et incursus hostium, rendeva in gran parte impossibili queste cose ». Posto così in rilievo lo stato delle cose, sembra che si arrenda. Dice: « In tali difficoltà, due cose mi soccorrevano: l'iniziativa e la pratica dei soldati - che, resi esperti dalle battaglie precedenti, sapevano fare da loro stessi ciò che occorreva non meno bene che se fossero stati comandati e il fatto che io avevo dato ordine ai singoli Legati di non allontanarsi dai lavori e dalle legioni sotto il loro comando se non quando il campo fosse fortificato. E i Legati infatti, vicino e inca_lzante il nemico, già prendevano di loro iniziativa i provvedimenti del caso ». La violenza dei fatti gli aveva strappato dalle mani il bastone di comando, lasciandogli appena la speranza che soldati e Legati potessero, se non altro, guadagnar tempo. Egli allora, date - là dove trovavasi - e le disposizioni più necessarie, corse ad arringare i soldati dove il caso lo portò, quan:i in partem fors obtulit, e si venne a trovare presso la decima legione, et ad legionem decimam devenit. Proprio solo il caso lo avrebbe sospinto verso la legione più fidata?


Presso la Decima, comunque, la sua azione di comando tentò di riprender fiato. Esortati i soldati della Decima, con poche parole, a ricordarsi del valore sempre dimostrato, a non turbarsi e a sostenere l'impeto dei nemici, già ormai a tiro di pilo, dette il segnale della battaglia, proelii committendi signum dedit: potè qui, presso la Decima, sembrerebbe, far esporre il drappo rosso; far dar fiato a un certo numero di tube, tentando di stabilire un posto di comando. Indi, nel portarsi verso altri luoghi, per risollevare con la sua parola e presenza gli animi, si imbattè in soldati già impegnati nel combattimento, pugnantibus occurrit. Dovè avvicinarsi a quasi tutte le posizioni su cui erano impegnate o stavano per impegnarsi le legioni. E ciò che vide fu sconsolante. Neppure l'azione gerarchica in condizioni di affermarsi: attacco sì rapido e nemico sì deciso non avevano dato tempo di rivestire (vistose, sugli elmi e sulle corazze) le insegne dei gradi. Soldati coinvolti nella mischia senza neppure armamento difensivo: era mancato anche il tempo per mettere gli elmi e per trarre gli scudi dal_le custodie. Frammischiati i reparti: ciascuno, abbandonando il lavoro, si era fermato là dove lo aveva portato il caso aggregandosi alla prima Insegna che gli si era parata davanti senza perder tempo a cercare i compagni della propria unità. Lo spiegamento delle forze caotico: l'esercito aveva assunto uno schieramento più secondo la natura del terreno, il declivio delle alture, la necessità del momento, che come pretendevano criterio e pratica militari, rei militaris ratio atque ordo. Azioni slegate e confuse: le legioni, fra di loro lontane e senza collegamento, diversis legionibus, si opponevano al nemico ciascuna per conto proprio. Dice: « A cagione delle fittissime siepi che impedivano la vista, nè era possibile impiegare riserve a ragion veduta nè provvedere alle più urgenti necessità locali: impossibile l'azione e l'unità di comando, ab uno omnia imperia administrari. E così, in tanta difformità di circostanze, in tanta rerum iniquitate, gli eventi, affidati al caso, furono i più impensati». Parla di immediate riserve, sue o dei comandanti in sottordine: ma dove erano? Quanto erano ancora distanti le due legioni di reclute lasciate in coda alla lunga colonna di salmerie e carreggio?

Ancora avvertibile (supponendoci sulle alture di Neuf Mesnil , fronte all'abitato di Hautmont) lo sviluppo essenziale della battaglia.

9· -

u.s.


(( ALA SINISTRA )) •

I soldati della nona e decima legione che costituivano l'ala sinistra d elio schieramento, lanciati i pili, respinsero celermente dal colle verso il fiume gli Atrebati sfiatati dalla corsa e sfiniti dalle ferite, e inseguendoli alla spada ne uccisero gran numero al passaggio del fiume. Queste stesse due legioni passarono senza esitazione sulla destra Sambra, transire flumen non dubitaverunt, ma avanzarono su posizione sfavorevole, in locum iniquum, - sulla striscia scoperta e in contropendenza che sappiamo - ; esse pertanto furono costrette a riporre in fuga, con un secondo combattimento, i nemici, che avevano di nuovo fatto loro fronte e resistevano. L'ala sinistra - al comando, ci risulterà dopa, di Labieno - era dunque formata eta due legioni di veterani: la Nona tratta l'anno innanzi per la guerra elvetica dai quartieri di Aquileia e la Decima che ricordiamo stanziata a Ginevra. Contro queste due fortissime unità cqzzarono gli Atrebati. Ossia, a un dipresso : quindicimila Atrebati (di tanto, almeno, era il contingente promesso al concilio) contro due legioni che patevano raggiungere una forza complessiva di circa diecimila uomini. Superiorità numerica quasi nulla se si considera che le legioni erano in difensiva e su pasizioni che dominavano l'intero sviluppa dell'azione nemica. Già si comincia ad avvertire, così, lo squilibrio fra gli opposti schieramenti: ignota a Cesare la dislocazione dei contingenti nemici - e dove, soprattutto, fossero i Nervi che costituivano anche numericamente la compagine più temibile - Io spiegamento delle forze romane risultò con una si nistra assai forte contro una destra nemica che non era la massa d'urto principale. Cesare, al pronunciarsi dell'attacco, era subito corso verso la parte più forte del suo schieramento e vi aveva trovato Nona e Decima non ancora impegnate: gli Atrebati erano giunti sulle alture di N euf Mesnil sfiatati datla corsa e sfiniti dalle ferite; particolari che indicano assai ripida la scarpata sulla sinistra Sambra e riconfermano che, anche a cagione di ciò, la difesa romana era più forte a sinistra. In siffatte favorevoli condizioni, Labieno respinse l'attacco degli Atrebati e passò rapidamente al contrattacco infliggendo al nemico gravi perdite al passaggio del fiume. Ma occorre subito aggiungere: in siffatte condizioni - situazione disperata in cui l'istinto, se non altro, impaneva a tutte e sei le legioni di far tutt'un ininterrotto argine contro la impressionante ondata - Labieno passò la Sambra e si portò sulla nota striscia in contropendenza delle alture di Hautmont. E qui giunto, dopo aver stroncato un ritorno offensivo, continuò le operazioni contro gli Atrebati già battuti. Labieno, dunque, rinunciando a ritornare con tutte o parte delle forze sulle sue posizioni di Neuf Mesnil, privò lo schieramento romano di un forte pilastro.


(( CENTRO )) .

Parimenti, da un'altra parte, item alia in parte, - cioè al centro - due legioni, isolate, diversae duae legiones, - ossia staccate e indipendenti non solo fra loro ma anche rispetto all'ala sinistra e destra - l'Undicesima e l'Ottava, battuti i Viromandui, li avevano respinti dalle alture - anche questi erano giunti sulle alture di Neuf Mesnil - e ora combattevano proprio sulle rive del fiume, in ipsis fluminis ripis. L'Ottava, di veterani, tratta anch'essa da Aquileia e l'Undicesima una delle due reclutate nella Cisalpina circa quindici mesi prima. Contro l'Undicesima e l'Ottava, anch'esse sui diecimila uomini, vennero quindi a cozzare diecimila circa Viromandui (di tanto il contingente promesso al concilio) che costituivano centro dello schieramento offensivo. Ossia: contro il centro romano, anch'esso in complesso forte, venne a scontrarsi la parte numericamente più debole dello schieramento nemico.

UN

VUOTO .

Il dramma, ora, si svela in pieno: quattro legioni, costituenti « sinistra » e « centro», più forti, complessivan,ente, del nemico, hanno dappertutto contrattaccato; ma il maggior peso della battaglia, la massa dei Nerv1, - erano, come poi sentiremo, circa sessantamila -, è caduto sulle due legioni dell'ala destra. Situazione aggravata da quanto già sappiamo: Labieno, con le sue legioni, s'era portato sulla destra della Sambra e Undicesima e Ottava, discese dalle alture, erano strenuamente impegnate sulla riva del fiume. Cioè: la parte più alta delle posizioni di Neuf Mesnil, dov'era in costruzione il grande campo, è per due terzi - lo spazio tenuto da quattro legioni - sprovvista o quasi di difensori. Un vuoto alle spalle dell'ala sinistra e del centro.

(( ALA DESTRA )) •

Era costituita dalla Dodicesima, legio duodecima, e, a non grande intervallo, dalla Settima, et non magno ab ea intervallo septima. L'ala destra forte pertanto quanto il centro: una legione di veterani, la Dodicesima tratta da Aquileia, e una legione di soldati in maturazione, la Settima reclutata nella Cisalpina quindici mesi fa. Supponendoci fronte al nemico, la Dodicesima sarebbe dunque l'ala estrema, a destra, dello schieramento, - ed ha alla sua sinistra la Settima.


132 L 'AVANZATA DEI NERVI.

Da parte dei Nervi, non fu questione, lo si potrebbe affermare, di preordinata manovra; la loro ondata, potentissima, dove trovò vuoto avanzò. Essendo il campo romano - cioè la vasta area di terreno dove intanto giungevano, con la colonna logistica, armamento, materiali e viveri - rimasto quasi completamente scoperto sulla fronte e sulla sinistra, totis fere a fronte et ab sinistra parte nudatis castris (la sinistra doveva proteggerla Labieno e la fronte le legioni di centro), tutti i Nervi, in colonne serrate, - guidati da Boduognato, capo supremo della coalizione - si diressero verso quel luogo, ad eum locum contenderunt: una parte prese ad aggirare il fianco destro (dell'Undicesima e Ottava, legioni di centro), l'altra si diresse verso la sommità delle alture dove era per sorgere la parte posteriore - il lato decumàno - del campo in costruzione, summum castrorum locum petere coepit. Sicchè lo schieramento romano, già tumultuario e discontin uo, è ora spezzato in due dal cuneo avanzante, via via più forte, dei Nerv1.

IL

DISASTRO.

Nel medesimo tempo, eodem tempore, - ossia mentre l'ondata dei Nervi, penetrata nello schieramento, già attingeva il campo - quella cavalleria e quelle unità leggere che erano state respinte al primo urto - la malferma linea d'avam posti sorpresa ricacciata indietro e dispersa su tutta la fronte e che ora si stavano ritirando nel campo, si ritrovarono il nemico di fronte, e ripresero quindi la fuga in altre direzioni . .. Cavalieri arcieri frombolieri potevano ora considerarsi sbandati e perquti . . . . E i « caloni » (lasciamoli c.:on il. loro nome), et calones, i quali. dal ciglio delle alture, dalla parte della porta decumàna, avevano visto i Romani passare vincitori il fiume, nostros victores flumen transisse, e si erano quindi riversati in basso a far preda, quando, voltatisi indietro, si accorsero che il nemico era nel campo, si diedero a fuga precipitosa, praecipites fugae sese mandabant. I « caloni » dunque - centinaia di indigeni a immediato seguito delle legioni per il trasporto, a spalla o su salmerie, di materiali di più pronto impiego e per la prestazione in lavori di fatica - si erano goduta da posto elevato l'avanzata di Labieno con le sue due legioni. E, felici del successo, si erano poi subito lanciati sino al fiume a far fortuna: armi, cavalli, danaro, indumenti di morti e feriti. Al mutar della scena però praecipites, a rotta di collo, urlando e spargendosi per ogni dove, si erano dati alla fuga. Contemporaneo, più spaventoso, lo sfacelo attorno all'ingorgo di quadrupedi e carri sul ciglio e a immediato ridosso delle alture di Neuf Mesnil: contemporaneamente, simul, si levò l'alto clamore, clamor fremitusque orie-


batur, di coloro che sopraggiungevano con la colonna salmerie e carreggio e che atterriti fuggivano, perterriti ferebantur, chi da una parte chi dal!' altra. << Praecipites sese fugae mandabant », « clamor fremitusque oriebatur >>, « perterriti ferebantur » : più che parole sono suoni comprensibili in ogni lingua e tempo. E li comprese subito, appena sul ciglio delle alture, anche il contingente di cavalleria trevira a cui abbiamo già accennato. Turbati da tale spettacolo i cavalieri treviri ( la cavalleria trevira gode fra i Galli grande fama di valore e quel contingente era stato, dal popolo trevira, inviato in aiuto a Cesare), giudicando disperata la situazione dei Romani, desperatis nostris rebus, fecero una cosa molto semplice: volsero ai destrieri le briglie e ripresero la strada del loro paese. Ecco le cose che avevano turbato quei cavalieri (i quali è da supporre che avessero sino ad allora assolto solo compito di protezione della colonna logistica): il campo romano invaso da un gran numero di nemiçi, multitudine hostium castra compleri; le legioni premute e quasi circondate, legiones premi et paene circumventas teneri (la situazione doveva essersi aggravata anche al centro); « caloni », cavalieri, frombolieri, Numidi, dispersi e fuggenti in tutte le direzioni, calones equites funditores Numidas diversos dissipatosque in omnes partes fugere. I cavalieri treviri, sicchè, abbandonarono la nave quando già era paurosamente inclinata su un fianco. Essi portarono al loro paese la notizia che i Romani erano stati definitivamente battuti, Romanos pulsos superatosque, e che i nemici si erano impadroniti del campo e della colonna salmerie e carreggio. Ma ciò che essi dissero alle proprie autorità allorchè, dopo diversi giorni, giunsero nel loro paese, è il meno: lungo la strada, dovettero conclamare il « Romanos pulsos superatosque » a tutti i popoli di cui attraversavano il territorio, facendosi sentire anche dai sordi. La notizia della disfatta romana poteva dunque aver già spiccato il volo dal campo di battaglia. Disastro in effetti cominciato: problematica per non dire impossibile, nella frantumazione irreparabile dello schieramento, la resistenza; preclusa la possibilità, data l'invasione del campo, di un arretramento di raccolta; im~ssi?ili, per lo sbandamento della cavalleria e delle truppe leggere, rapide reazioni. DECISIONE ASSOLUTA E FATALE.

Dice: « Dopo aver arringato la Decima, ero passato all'ala destra, ad dextrum cornu ." .. ». Nel passare da un estremo all'altro dello schieramento, s'è reso .conto di tutta la situazione.


1

34

Questa, a un certo momento, la sua conclusione: la « sinistra», sulla destra Sambra, staccata ormai dallo schieramento; il « centro », pressato, sulle rive del .fiume, sulla fronte e alle spalle; le due legioni di reclute, per la frapposta colonna salmerie e carreggio, unità lontane e non recuperabili secondo il bisogno; invasa la zona del campo e già attinta dalla marea dei Nervì la stessa colonna salmerie e carreggio; - se dunque la ((destra » - Dodicesima e Settima - non riesce a costituire fermo e solido sbarramento, se è sommersa, tutto l'esercito è da considerarsi, in breve, perduto.

Passato all'ala destra, ad dextrum cornu profectus . . . quando vide che i suoi erano compressi dall'attacco nemico e i legionari della Dodicesima - essendo le Insegne della legione ammassate tutte in un sol punto, signisque in unum locum collatis, - e si erano l'uno all'altro addossati e si impacciavano vicendevolmente ... Insegne ammassate vuol dire Dodicesima senza più respiro operativo . . . . Quando vide che tutti i centurioni della quarta coorte erano stati uccisi e, caduto il signifero, era stata perduta di quella coorte l'Insegna, signiferoque interfecto signo amisso, e che delle altre coorti quasi tutti i centurioni erano feriti o uccisi, aut vulneratis aut occisis, e fra questi il primìpilo Publio Sestio Baculo, fortissimo guerriero, sfinito da numerose e gravi ferite, non era più in grado neppure di reggersi ... Le gravi perdite di centurioni preannunzio del decadimento, prossimo e definitivo, d'ogni impegno combattivo . . . . Quando vide che gli altri combattenti si erano perduti d'animo, reliquos esse tardiores, e che parecchi delle ultime righe abbandonavano il combattimento e si ponevano al riparo dal tiro delle frecce, desertos proelio excedere ac tela vitare, mentre i nemici non cessavano di avanzare, frontalmente, dal basso, e dall'incalzare su entrambi i fianchi, et ab utroque latere . . . Lo sbandamento che sta per divenire generale e l'aumento in tutti della sensibilità al sibilo dei proietti; ma il dato più forte è l'incalzare del nemico su entrambi i .fianchi, ab utroque latere. La Dodicesima stava per essere. inghiottita. Dice: « ... Quando vidi che la situazione era grave, rem esse in angusto, non avendo disponibile alcuna riserva, strappato lo scudo a un soldato delle ultime righe, . . . avanzai in prima linea, in primam ·aciem processit ... ». Fu costretto a prendersi lo scudo del primo soldato che gli si parò davanti perchè (particolare che rende visibile il suo dramma dal primo istante della sorpresa) perchè era giunto colà senza scudo, ipse sine scuto.

Passaggio del generalissimo in prima linea che qui significa dapprima sintetica comprensione di tutta la situazione e poi una decisione assoluta,


e anche fatale perchè ne preclude senza scampo ogni altra: tutto per tutto su quella trave pericolante, « la destra >>. (Al secondo posto, e anche più indietro, il coraggio del guerriero) .

. . . Si portò in pr ima linea e, chiamati per nome i centurioni della D odicesima, nominatim appellatis, ed esortati gli altri soldati . . . Gli capitò il comando diretto della Dodicesima come poteva capitargli di qualunque altra: era dunque nelle condizioni di riconoscere e poter chiamare per nome, almeno in parte, i centurioni di tutte le legioni ? . . . Ordinò di far avanzare le Insegne, signa inferre, e di allargare i ranghi dei manipoli, in modo che si potessero impiegare più agevolmente le spade . .. Di mano in mano che le Insegne fossero riuscite a in tervallarsi e distanziarsi fra di loro, sarebbe aumentata, con lo spazio, l'efficienza combattiva del singolo uomo e dei manipoli. Ma, anzitutto, un atto di riscossa: che le Insegne, già ammassate e ferme ---, e, evidentemente, arretrate - si spostassero in avanti, signa inferre, verso il nemico.

L'intervento di Cesare riaccese la speranza e il coraggio dei soldati: ciascuno desiderò fare del suo meglio in presenza del capo, anche in una situazione ormai disperata, eti am in ~xtremis suis rebus. Il che servì a smorzare un poco, paulum, l'impeto dei nemici.-

ARDUO COLLEGAMENTO.

Ma la resistenza della Dodicesima, anche se avesse avuto la possibilità, da stentata che era, di divenire più stabile e di protrarsi per qualche tempo, non sbarrava il passo al crollo generale: scoperta ai fianchi, come abbiamo appena inteso, essa avrebbe potuto essere in breve accerchiata, e forse già cominciava a esserlo. Un collegamento operativo fra Dodicesima e Settima: questo il secondo punto da superare. Cesare, vista la Settima, vicina, incalzata anch'essa dal nemico, diede disposizioni ai tribuni della Dodicesima perchè le due legioni a poco a poco si congiungessero, ut paulatim sese legiones coniungerent, e, con conversioni, fronteggiassero il nemico. L'effettivo, materiale, congiungimento avrebbe comportato riduzione della fronte: il contrario di ciò che occorreva. Dovè trattarsi di contatto o collegamento operativo : le legioni gradualmente si accostarono l'una all;altra, pur conservando un certo intervallo, e ciascuna, con conversioni di coorti, organizzò la protezione dei propri fianchi e delle proprie spalle: Dodicesima


136

e Settima, insomma, due grossi scogli vicini ma indipendenti. Operazioni fatte dirigere da tribuni, ufficiali senza comando òiretto, che oggi diremmo di collegamento. Compiute queste manovre, - di mano in mano che queste manovre, terto a stento, si compivano - avverti~asi la poss/bilità di un reciproco appoggio, e non temendosi più, specie alle spalle, l'accerchiamento, i soldati c&minciarono a resistere più fermamente e a reagire con più coraggio, audacius ac fortius ... Tenuta in vita, così, e rianimata, quando già prossima alla fine, l'ala destra.

(( TANTA COMMUTATIO ».

I Nervì avevano già invaso il campo e preso ad attaccare e saccheggiare, apportandovi gravi danni, la colonna logistica. · Indizi e prove di ciò ci sono già passati sotto gli occhi; giova però richiamarli: appena superato il fiume, i Nervì s'erano avviati verso il campo, e, dell'ondata avanzante, una parte aveva puntato del campo alla parte alta; esplicita la constatazione che il campo era rimasto quasi completamente scoperto al centro e sulla sinistra; e grave questa dichiarazione: si levò l'alto clamore di coloro che sopraggiungevano con la colonna salmerie e carreggio, e che atterriti fuggivano. Seguono, infine, due testimonianze oculari: i « caIoni » divenuti « praecipites » quando, voltatisi indietro, avevano visto nel campo il nemico, e i Treviri, impressionati da due fatti che inventare del tutto non si possono: invaso il campo dalla moltitudine nemica; i nem1c1 impadronitisi non solo del campo ma anche della colonna. Dunque: molte migliaia di N~rv1, - risucchiati, si potrebbe dire, dal vuoto - in frenetica azione di slegati combattimenti, di distruzione e di preda, trovavansi nel campo, trovavansi fuori del campo, trovavansi sulla sommità, e forse anche oltre, delle alture di Neuf Mesnil, allorquando, alle loro spalle, riprese vita e fiato l'ala destra dello schieramento romano. E' punto, codesto, da fissare per chi voglia qualche spiegazione del massacro dei Nervi che ci verrà in seguito segnalato, quasi a bruciapelo, per via indiretta.

I soldati dell'ala destra, dunque,·· sentendo la possibilità di un reciproco appoggio e diminuito il timore dell'accerchiamento, cominciarono a resistere più fermamente e a reagire con più coraggio ... Tenuta in vita e rianimata l'ala destra, la situazione, in qualche ora, diremmo prima del tramonto - si capovolse. . . . Frattanto, i soldati delle due legioni di retroguardia in difesa della


1 37

colonna logistica, informati della battaglia, avanzavano a passo di corsa, cursu incitato, e il nemico già li vedeva sulla sommità delle alture ... . . . Frattanto, Tito Labieno che s'era impadronito, oltre Sambra, dell'accampamento degli Atrebati, e dall'alto della posizione poteva vedere ciò che stava succedendo nel campo romano, mandò in aiuto la Decima, decimam legionem subsidio mittit ... Quel Tito Labieno che non aveva avvertito, chi sa per quali motivi, il pericolo dell'attacco su tutta la fronte e l'urto sì potente sull'ala destra, fu dunque pronto a intervenire non appena, dall'alto delle posizioni di Hautmont, potè rendersi conto della situazione . . . . E i soldati della Decima, avendo compreso dalla fuga dei cavalieri e dei « cafoni » (in fuga neppure un legionario?) quale fosse la situazione e il pericolo che sovrastava al campo alle legioni al capo stesso, furono anch'essi d' una celerità che non si sarebbe potuto pretendere maggiore. L 'arrivo dei rinforzi - tre legioni - capovolse la situazione al punto che, tanta rerum commutatio est facta ut ... E le conseguenze del capovolgimento, della tanta commutatio, furono per i Nervi di una gravità tragica. L'ala destra che via via si salda e, comunque, su doppio fronte, resiste; le due legioni del. centro, impegnate dai Viromandui sulle rive del fiume , che, minacciate alle spalle, non tardano a costituirsi anch'esse su doppia fronte; tre legioni libere e mobili -, la Decima e le due della retroguardia - che accorrono a moltiplicare prima la resistenza e poi la reazione dell'ala destra, senza contare che, quasi certamente, anche Labieno, con la Nona, riprese le sue posizioni di riva sinistra. La chiusura della falla fra « centro» e « ala destra» dello schieramento romano, al sopraggiungere dei rinforzi, potè avvenire da sè, per forza di cose e non per reciproche intese o ordini di chicchessia.

Sicchè, chiusasi la falla, i Nervi si sarebbero venuti a trovare separati. m due grandi masse: l'una interna, nella zona del campo romano e oltre, composta di orde abbacinate e disordinate dall'immediato bottino; l'altra esterna, fronte all'ala destra e al centro romani che si venivano via via rianimando e rafforzando.

Delle truppe romane anche coloro che sfiniti dalle ferite si erano gettati a terra ripresero a combattere appoggiandosi agli scudi. Ba_ldanzosi, ora, per effetto di « commutatio », gli sbandati: i caloni,. vedendo i nemic.i atterriti, affrontarono anche disarmati gli armati; e i cavalieri, per cancellare col


valore la vergogna della fuga, combatterono ovunque si trovarono, gareggiando con i soldati romani. I nemici , pur avendo perduto ogni speranza, non desistettero da un accanimento feroce (per aprire un varco alla massa interna?): ma i nemici, at hostes, pur a: endo perduto ogni speranza, mostrarono tanto valore che, caduti i primi, quelli che seguivano salivano sui cadaveri e continuavano a combattere; e quando questi a lor volta cadevano e i cadaveri si ammucchiavano, i superstiti, come da tumuli, ancora lanciavano proiettili contro i Romani e rilanciavano i giavellotti romani che riuscivano a recuperare. Scena biblica che chiude la battaglia della Sambra. 1

Dice: « Nessuna meraviglia che uomini di sì grande coraggio avessero osato passare un larghissimo fiume, latissimum flumen, salirne le ripide rive, altissimas ripas, accettare la lotta su posi.zione sfavorevolissima, ~ubire iniquissimum locum; cose tutte che, da difficilissime, aveva rese facili la loro forza d'animo, animi magnitudo ». Elogio che tende anche a dar maggior rilievo a] proprio successo: la consistenza militare dei Romani sorpresi in pieno. . E forse potrebbe anche voler sottintendere: ho fatto affidamento, voi dite eccessivo, su ostacoli passivi - striscia di terreno scoperto, fiume larghissimo, scoscese rive, posizione di Neuf Mesnil in contropendenza rispetto all'attacco - perchè imprevedibile in misura sì straordinaria il valore del nemico. Finita la battaglia, - e distrutto quasi il popolo e il nome dei Nervi gli anziani, maiores natu, posti, come s'è detto, con fanciulli e donne in mezzo alle paludi del/'estuario, appena ricevettero notizia della battaglia, - considerato che ormai i vincitori non avevano davanti a sè alcun ostacolo e i vinti nessuna sicurezza: victoribus nihil impeditum victis nihil tutum, - col consenso di tutti, inviarono messi a Cesare per arrendersi. Non proprio « quasi distrutti finanche nel nome » : li ritroveremo, non più protagonisti ma sempre assetati di vendetta, nei prossimi anni. Suessioni e Bellovaci, senza combattere, per ottenere migliori condizioni di pace, avevano trovato patrocinatori i Remi e Diviziaco: ma i Nerv1 si presentarono a Cesare solo con i dati della loro sciagura. I messi, rievocando la sventura del loro popolo, in commemoranda civitatis calamitate, dissero che da seicen,-to i senatori si erano ridotti a tre, di sessantamila combattenti appena cinquecento che potessero ancora impugnare un'arma, vix ad quingentos qui arma ferre possent. La notizia delle perdite ci giunge, così, per via indiretta posta in bocca ai Nervì stessi; e sono affatto taciute le perdite romane certo forti prima della « commutatio », che però non avrebbero, nel totale, retto al confronto.


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Dice: « Affinchè non sembrasse negata la mia clemenza a quegli sfortunati che imploravano misericordia, gli ambasciatori furono da me trattati con ogni riguardo. Stabilii che fossero lasciate ai Nervi le loro terre e le loro città, e feci ingiungere ai popoli confinanti di astenersi, essi e clienti, da ogni offesa e danno contro di loro».

Riguardi e concessioni che non disturbano, anzi assodan o, la conclusione politica: arresisi senza condizioni i Remi, dissoltasi la grande coalizione, arresisi i Suessioni, arresisi i Bellovaci, arbitra assoluta della nuova situazione ora creatasi nella Belgica con la rovina dei Nervi è Roma.

LA NOTTE DI NAMUR GLI

ADUATUCI.

Dice: « Gli Aduatuci che, come s'è detto, erano in marcia con tutte le loro forze in aiuto dei Nervi, quando seppero della battaglia, hac pugna nuntiata . .. ». Nessuna sosta anche dopo sì grave sforzo. E' la volta, subito, sebbene popolo fra i minori, degli Aduatuci. L'esercito romano da Neuf Mesnil si portò nel paese degli Aduatuci ridiscendendo la valle della Sambra sino alla confluenza con la Mosa: circa settanta chilometri. Ma anche gli Aduatuci, come i Nervi, nè si arresero nè perirono tremando, sebbene avvertissero già segnato, subito sapremo perchè, il loro destino.

Gli Aduatuci, che erano in marcia con tutte le loro forze in aiuto dei Nervi, quando dunque seppero della battaglia, ... ritornarono subito nel loro paese e, sgombrato tutte le cìttà e i luoghi fortificati, si ritirarono con ogni loro risorsa in un sol oppido, in unum oppidum, assai forte per natura, egregie natura munitum. Avrebbero concentrato le loro forze, nonchè, si direbbe, gran parte della popolazione civile, nel luogo ove oggi sorge la cittadella di Namur, alla confluenza, appunto, della Sambra con la Mosa. Ecco come quell'oppido, su imponente posizione, apparve a Cesare: era da tutte le parti circondato da rupi altissime e da balze a picco ed era a<:cessibile solo da un lato attraverso leggero pendio largo non più di sessanta metri. Un solo e stretto accesso, dunque; e tale accesso gli Aduatuci avevano sban-ato con un duplice altissimo muro, - due muri paralleli - e ora sulla sommità


di tali muri stavano collocando, per rovesciarli sull'attaccante, grandi pietre e, a mo' di aculei, travi appuntite. Anche i Bellovaci avevano fatto il vuoto nelle loro terre e s'erano concentrati nell'oppido Bratuspanzio: ma tutto ciò era poi servito solo a rendere più spettacolare la resa. Perchè non fanno altrettanto gli Aduatuci? Dice: « Erano gli Aduatuci discendenti dei Cimbri e dei Teutoni, ex Cimbris Teutonisque prognati, i quali nella loro marcia verso la Provincia e l'Italia, depositati sulla sinistra del Reno i bagagli che non potevano usare o portare con sè, vi avevano lasciato a guardia e difesa seimila dei loro, sex milia hominum reliquerunt. Questi seimila, dopo la disfatta della lor gente, premuti per molti anni dai confinanti, qua attaccando là difendendosi, erano riusciti finalmente a far pace con tutti, scegliendosi come sede il luogo dov' ora trovavansi ». La grande invasione di Cimbri e Teutoni aveva dunque lasciato un residuo di sè nella Belgica, attorno a un importante incrocio fluviale e a meno di duecento chilometri dal Reno; e quell'isola etnica in circa mezzo secolo s'era ingrandita, per demografico galoppo o per attrazione all'emigrazione spicciola d'oltre Reno, o l'uno e l'altro, sino a creare una popolazione, come presto rileveremo, che era di 57 mila anime solo la parte su cui Cesare potè mettere le mani; con una disponibilità, secondo la denuncia fatta al Concilio, di diciannovemila armati. Ma a che mirano queste informazioni sull'origine degli Aduatuci, sul loro numero iniziale, sulla pace con i confinanti faticosamente conquistata? Giunto l'esercito romano, gli Aduatuci, in un primo tempo, fecero frequenti sortite dalla fortezza provocando piccoli scontri; e solo in seguito, quando furono circondati da un vallo di circa cinque chilometri e da frequenti ridotte (probabilmente: tronconi di vallo, e gli intervalli sorvegliati dai presidi', mobili, delle ridotte), essi se ne stettero fermi nell'oppido. Ma neppure sotto la minaccia dell'assedio dettero segno di resa. Remi Suessioni Bellovaci Ambiani Nervi', malgrado leggende in contrario, sono Galli, e non da ieri il gran fiume li separa e oppone ai Germani; ma gli Aduatuci si sentonc, segnati in fronte: residuo di Cimbri e Teutoni: Germani. Il proposito, allora, di perire là dove si trovano piuttosto che ripassare, affamati e ormai da estranei, il Reno? Compiuti che furono i tronconi del vallo, - nonchè le ridotte e le piccole torri fisse di sorveglianza - i Romani iniziarono spedite opere ossidionali per un attaèco all'oppido dalla parte dell'unico stretto accesso. Gli Aduatuci quando dall'oppido videro che i Romani, spinti innanzi i camminamenti, costruito un terrapieno, cominciavanò da lontano a innalzare una torre, turrim procul constitu·i viderunt ...


I legionari, lo abbiamo già detto, erano tarchiati ma di bassa statura; ma ora apprendiamo che quel/,1, piccola statura tutti, in genere, i Galli, - ponendola in confronto con l'altezza dei loro corpi - solevano farla oggetto di scherno, brevitas nostra contemptui est. . . . Gli Aduatuci, dunque, quando videro che i Romani, a tanta distanza, si affannavano a costruire una tanta macchina, dall'alto del muro cominciarono a lanciare contro di essi motti di derisione: con quali mani o con quali forze, proprio voi, mezze cartucce, homines tantulae staturae, pensate di poter avvicinare a questo muro una torre tanto pesante? Ma lo scherno durò poco. Dice: « Quando però videro che la torre si moveva e si avvicinava alle mura, scossi da quello spettacolo nuovo e strano, mi inviarono messi per trattare la pace ». Pone in rilievo iI cedimento degli Aduatuci -, lo stesso per i Suessioni, a Novioduno -, come unicamente dovuto ai suoi apprestamenti ossidionali (dei quali, studioso com'era stato di poliorcetica greca, lo troveremo sempre orgoglioso). Nè, invero, potè mancare negli assediati lo sbigottimento per quel rapido affermarsi delle vinee e del terrapieno con la torre mobile (ritrovati complessi che altre occasioni ci consentiranno di vedere pienamente in opera). Ma negli Adua.tuci, quando il blocco dell'oppido fu completo e inesorabile, dovè prevalere una non esigua minoranza (supposizione che può trovare qualche fondamento nei fatti che seguono) disposta all'umiliazione pur di salvare all'intera comunità vita e pane. I messi degli Aduatuci così parlarono: Noi pensiamo che voi Romani fate la guerra con l'aiuto divino, ope divina, se siete capaci di muovere così rapidamente macchine di tanta imponenza; noi pertanto affidiamo al vostro potere le nostre persone e i nostri beni. Chiediamo una sola grazia, unum petere ac deprecari: se Voi, Cesare, ---, usando della vostra clemenza e mitezza, di cui abbiamo sentito parlare dagli altri - avete deciso di risparmiare gli Aduatuci, non ci togliete le armi. Abbiamo nemici e invidiosi del nostro valore quasi tutti i popoli confinanti, sicchè, consegnate le armi, non potremmo più da essi difenderci. Se saremo costretti a far questo, sarà meglio per noi sopportare qualunque sorte voglia infliggerci il Popolo Romano piuttosto che essere uccisi fra i tormenti da coloro fra i quali siamo ormai abituati a comandare. Avevano cominciato con un'incensata (gradita sino al punto che è stata qui registrata) finirono con una richiesta - per loro, certamente, giustificatissima - inaccettabile. Cesare infatti rispose che avrebbe risparmiato il loro popolo - per consueta clemenza sua non perchè lo meritasse - se esso si fosse arreso prima che l'ariete avesse inferto il primo colpo alle mura; ma che non si poteva parlare di resa senza consegna delle armi. Avrebbe fatto per loro ciò che aveva


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fatto per i Nervi: ordine ai confinanti dì non recare alcuna offesa a chi si è arreso al Popolo Romano. I messi ·ritornarono nell'oppido e riferirono al loro popolo, indi, ripartatisi al cospetto di Cesare, dichiararono: fare mo ogni cosa che vi piacerà di ordinarci. E gli effetti si videro subito: gettata dalle mura nel fossato che era davanti all'oppido una grande quantità di armi, - sì che i mucchi quasi attingevano l'altezza delle mura del/' oppido e del terrapieno romano - gli Aduatuci aprirono le porte: e per quel giorno mantennero contegno pacifico. Essi, tuttavia ( il che, naturalmente, venne alla luce dopo) delle loro armi avevano conservata e nascosta nell'oppido circa la terza parte. Aperte le porte, i Romani - quelli che dovevano provvedere e vigilare all'assolvimento delle imposizioni di resa - entrarono nell'oppido: non si accorsero della sottrazione di un terzo delle armi, ma dovettero ben avvertire e forse anche reagire - si spiega meglio, così, l'ordine di Cesare che ora leggeremo - all'acuta e generale freddezza verso di loro, che patè anche non essere scompagnata da assolute ripulse a richieste meno lecite o illecite. Covava odio - e su questo non v'è dubbio - in tutto l'oppido. Sull'imbrunire, sub vesperum, un ordine di Cesare: i soldati fossero fatti uscire dal/' oppido e le porte si richiudessero: portas claudi militesque ex oppido exire iussit, perchè d urante la notte gli abitanti non ricevessero dai soldati violenze: ne quam noctu oppidani ab militibus iniuriam acciperent. Durante il giorno, le richieste illecite avevano forse superato le lecite: ma non fu per motivi del genere, quale fosse la loro natura e intensità, che avvenne quello che ora sentiremo. Richiuse le parte e calata la notte, da tutto l'oppido l'odio esplose: gli Aduatuci, così come avevano premeditato ( il che si seppe dopo), ritenendo che a resa avvenuta i Romani o avrebbero allontanato i presidii o avrebbero almeno rallentata la sorveglianza, parte con le armi che avevano trattenute e nascoste, parte con scudi fatti di corteccia o di vimini o rivestiti alla meglio di pelli, al terzo turno di guardia,-, da mezzanotte alle due - fecero un'improvvisa sortita con tutte le loro forze dalla parte dove sembrava meno ardua l'ascesa alle fortificazioni romane. Puntarono, probabilmente, su un fianco o sul rovescio del terrapieno che, con la torre, era ormai a breve distanza dal duplice muro che sbarrava l'unico , accesso all'oppido. Ma i Romani non avevano rallentato la sorveglianza e funzionò egregiamente, diremmo oggi, la loro rete dei collegamenti ottici: rapidamente, secondo quanto era stato ordinato da Cesare, dati i segnali con i predisposti f uochi, ignibus significatione facta, - con torce accese dall'alto di ridotte i legionari accorsero sul luogo della lotta dalle vicine ridotte. I nemici combatterono violentemente - com'era da aspettarsi da combattenti valorosi, ut a viris fortibus, - in una situazione dispèrata, in extrema


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spe salutis, su terreno sfavorevole, iniquo loco, contro i Romani che lanciavano proietti al riparo del vallo e dall'alto delle torri, e non potendo, in definitiva, sperare altra salvezza che dal proprio valore. Quattromila furono uccisi: gli altri furono ricacciati nel!' oppido. Il giorno dopo, sfondate le porte ormai da nessuno più difese (nota sconsolata), e fatte entrare le truppe, Cesare mise all'asta tutto l'oppido: venduti e dispersi gli Aduatuci trovati nell'oppido e quanti, ovunque, caduti in mano romana. Dice: « Dai compratori mi fu denunziato il numero di cinquantatremila teste ».

CESARE, CESARE, CESARE ...

LA MISSIONE DI PUBLIO CRASSO.

Nessuna sosta. Nello stesso tempo, Publio Crasso ~ il quale con una legione, cum legione una, era stato inviato fra i Veneti, i Vene/li, gli Osismi, i C uriosoliti, gli Esubt, gli Aulerci, i Redoni, che sono popolazioni marittime (le ritroveremo fra poco) delle coste dell'Oceano, - informò Cesare che tutti quei popoli erano stati sottomessi al Popolo Romano, omnes eas civitates in dicionem potestatemque populi romani esse redactas. Anche se l'informazione giunse quando la faccenda degli Aduatuci s'era già risolta, è evidente che Publio Crasso - l'indimenticabile manovratore della terza schiera a Epfìg ~ era stato fatto partire da Neuf Mesnil subito dopo la battaglia. Ma fra la Sambra e l'estrema Normandia e Bretagna, sedi di quei popoli, intercorrono, solo in linea d'aria, parecchie centinaia di chilometri: come mai, allora, a sì breve tempo dalla battaglia della Sambra il miracolo della sottomissione completa, in dicionem potestatemque, di quei sette popoli? Probabilmente, - ma è supposizione che potrà trovare, a suo tempo, qualche fondamento - fu così : messi di quei popoli, non appena le radio di tutta la Gallia ebbero annunziato la resa dei Remi, dei Suessioni, dei Bellavaci e la disfatta dei Nerv1, andarono di mano in mano incontro a Publio Crasso in marcia verso la costa atlantica - giunse, come poi sapremo, nel1' Anjou - per porgere al rappresentante del Popolo Romano rispettoso ossequio a nome dei propri popoli. Omaggi e formali promesse : ma niente, forse, di concreto; e perciò - se fu così - esagerata e prematura l'informazione della « sottomissione completa » inviata a Cesare da Publio Crasso?


Ma è questione che riaffiorirà prestissimo: nell'inverno ormai prossimo. Da rilevare, intanto, che una legione è stata staccata e s'è allontanata, sola, per chilometri e chilometri, dall'esercito. « DIES QUINDECIM SUPPLICATIO ».

Dice: « Compiute quest.: campagne, e pacificata, così, tutta la Gallia, tanta fu l'impressione che n'ebbero i barbari, tanta huius belli ad barbaros opinio perlata est, che anche le popolazioni· d'oltre Reno mi mandarono ambasciatori promettendo di dare ostaggi e di eseguire i miei ordini, obsides daturos imperata facturos ». Cesare, Cesare, Cesare: tutte e tre le Gallie ne parlano e la sua fama è giunta oltre Reno. Le legazioni d'oltre Reno giunsero mentre egli stava partendo per l'Italia diretto all'Illirico, in Italiam Illyricumque: ordinò pertanto a quei signori di ritornare da lui all'inizio della buona stagione, inita proxima aestate.

Non c'era fretta ora. Grossa faccenda il Reno: l'espulsione di Ariovisto e la dispersione di gran parte degli Aduatuci l'hanno solo aperta.

Ma prima di partire per l'Italia prouuide ai quartieri invernali dislocando le legioni presso Carnuti, Andi, Turoni, in Carnutes, Andes, Turones, e presso popoli vicini ai luoghi dell'ultima guerra. Già dispone della Gallia a suo piacimento: l'anno scorso, l'onere di sei legioni - Q. Pedio giunse in primavera - toccò ai Sequani, direttamente interessati alla guerra contro Ariovisto ; quest'anno, le legioni sono otto e a quell'onere partecipano soprattutto tre popoli celtici (li ritroveremo) che con la guerra belgica non hanno avuto nulla a che fare. In seguito a tali avvenimenti . .. In sedici mesi, approssimativamente, Rodano Saona Loira per la migrazione elvetica, Doubs e Ill per Ariovistp, Aisne Sambra Mosa per i Belgi e ora, con la missione Crasso, in vista l'Atlantico .

. . . In seguito a tali avvenimenti, ... su relazione di Cesare, il Senato decretò quindici giorni di « supplicatio », dies quindecim supplicatio: onore che in tal misura non era stato sino ad allora tributato a nessuno. Le statue degli Dei portate fuori dei templi accolsero, per quindici giorni, pubblico e solenne ringraziamento.


PARTE SECONDA

ATLANTICO - RENO - BRITANNIA

IO. •

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Cap. Ili. - ATLANTICO (Anno 56 avanti Cristo)

L'AVVENTURA DI SERVIO GALEA ANCORA PROTESTA . . .

Ma non fu solo Publio Crasso che dopo la battaglia della Sambra ebbe l'onore di una missione autonoma con una sola legione; lo stesso - per impresa più modesta e non in connessione diretta con i più vasti progetti operativi che ora sentiremo - toccò al Legato Servio Sulpicio Galba.

Cesare, partendo per l'Italia, inviò Sert1io Sulpicio Galba con la dodicesima legione e parte della cavalleria fra Nantuati Veragri Seduni, il di cui paese si estende dai confini degli Allobrogi, il lago Lemano e il Rodano, sino alla sommità delle Alpi, ad summas Alpes. Con tale spedizione intendet1a far sì che il passaggio per quei luoghi alpestri - che i mercanti italiani non potevano percorrere senza grat1i rischi e onerosi pedaggi - fosse libero. Voleva aprire a stabile traffico commerciale e militare il valico del Gran San Bernardo. Dalla cittadella di Namur, infausta fortezza degli Aduatuci, - da dove, probabilmente, partì la Dodicesima - al Gran San Bernardo sono circa cinquecento chilometri in linea d'aria e circa ottocento sul terreno. Gli ottocento chilometri non potevano non richiedere una marcia, compreso qualche giorno di sosta, di circa quaranta giorni; e dopo quaranta giorni, considerando la partenza dal Belgio a metà settembre, nè le plaghe in cui la Dodicesima sarebbe venuta a trovarsi sarebbero state più quelle ubertose e percorribili del Belgio - ma l'alta e aspra montagna delle Alpi Pennine - nè la stagione, ormai autunnale, propizia a operazioni. Non v'è traccia dei motivi che indussero Cesare ad affidare l'i~presa proprio alla Dodicesima, legione fra le più provate nella battaglia della Sambra.


Dice: « A Galba diedi facoltà, se lo avesse ritenuto opportuno, di far svernare la legione in quei luoghi ». In altri termini: padronissimo Galba, una volta assolto il compito, di svernare fra quei monti o altrove. Ma il compito di « assicurare il passaggio per quelle Alpi » poteva da Galba essere assolto con una fugace apparizione, senza quel tanto di permanenza che gli consentisse di entrare in trattative, specie se non pacifiche, con le popolazioni ?

L 'avventura di Scrvio Galba.

Si cibò dunque la Dodicesima, e relativa aliquota di cavalleria, gli otto·cento circa chilometri di marcia e pervenne nell'alta valle del Rodano. Servio Galba, quivi giunto, dopo alcuni scontri a lui favorevoli e l'espugnazione di parecchi castelli, avendo ricevuto messi da ttme le parti, undique (non è vaga l'espressione « da tutte le parti » ?), e avendo ricevuto ostaggi, obsidibusque datis (da chi? presto sentiremo che tali ostaggi erano « abstractos », cioè ottenuti con imposizione), e avendo, così, fatta la pace, pace facta (con chi?) ...


Insomma, Servio Galba aveva fatto, appena giunto fra quei monti, il feroce: si era azzuffato con i primi indigeni che gli avevano opposto resistenza e aveva diroccato parecchie loro bicocche. Sicchè quelle tribù che si erano trovate sul cammino della legione, in prevalenza di Nantuati, sorprese dall'improvvisa apparizione della legione, e visto che il Legato era sì poco trattabile, si erano concessa una pausa: avevano inviato messi, dato ostaggi, promesso una tregua; il che è tutto ciò che di concreto si potrebbe dedurre dalle generiche espressioni appena lette. . . . Servio Galba, fatta la pace, decise di collocare due coorti nel paese dei Nantuati e di svernare egli stesso, con le altre coorti della sua legione, in Octod uro, villaggio dei Veragri, in vico Veragrorum qui-appellatur Octodurus. Si lasciò pertanto due coorti alle spalle - a Saint Maurice, pare: fra i Nantuati, i quali confinavano con popolo di nostra conoscenza, gli Allobrogi - e con le altre otto, e forse tutta la cavalleria, si spinse più a sud, sino a Octoduro, l'attuale Martigny. Servio Galba decise dunque - e come poteva farne a meno? - di fermarsi fra quei monti; ma per assicurarsi, all'occorrenza, la ritirata presso gli Allobrogi (con l'animo proprio tranquillo dunque non era) divise le poche sue forze. Ecco uno schizzo, a volo d'aereo, di Octoduro, progenitore di Martigny : qui vicus positus in valle non magna adiecta planitie altissimis montibus undique continetur, il villaggio, posto in fondo valle, con poco piano intorno, è tutto circondato da altissimi monti. Ora dunque in quella « non magna planitie >) - deprimenti, fra le nebbie autunnali e forse le prime nevi, gli altissimi monti - si svolse il piccolo dramma di cui fu protagonista quel signore della illustre gens Sulpicia che risponde al nome di Servio Sul picio Gal ba. Siccome Octoduro era diviso in due parti da un fiume, - dalla Drance che in quei pressi affluisce nel Rodano - Galba lasciò che in una (sulla destra della Drance) continuassero a svernare gli indigeni e l'altra (sulla sinistra del fiume: l 'attuale Martigny - Combe) fece sgombrare per accantonarvi le coorti. Accantonamento in fondo valle, su posizione, invero, sfavorevole. Ma doveva porsi, con l'inverno alle porte e senza viveri, in cima a un monte? la vita non gli si presentava già difficile in Octoduro? Octoduro egli fortificò - ossia, ci verrà presto detto, cominciò a fortificare - con vallo e fosso. Ma quando già p,arecchi giorni di accantonamento erano trascorsi (quanti ? saremmo già a novembre inoltrato ?) e quando già da tempo egli aveva dato ordine (a chi?) che il grano gli fosse consegnato a domicilio (non aveva dunque mezzi propri per ritirarlo), improvvisamente, fu avvertit9 dagli esploratori ...


Invece del grano, ecco che cosa gli annunziarono, un bel mattino, gli esploratori: che dal borgo sulla destra Drance tutti gli indigeni, nottetempo, si erano allontanati e che i monti sovrastanti erano occupati da una immensa moltitudine, a maxima multitudine, di Seduni e Veragri. In armi Seduni e Veragri (popolazioni dell'odierno Vallese, territorio di Sion): solo dunque i Nantuati avrebbero dato ostaggi e fatto pace. Cesare dice: « Le ragioni per cui i Galli s'erano improvvisamente indotti a riprendere la guerra e a sorprendere la legione erano più d'una. Prima di tutto disprezzavano la forza di una sola legione, e neppure completa perchè mancavano due coorti nonchè numerosi uomini distaccati per necessità di rifornimenti (proprio malagevole per Gal ba la via del sostentamento); poi pensavano che, data la sfavorevole posizione del nostro campo, quando essi si fossero precipitati da monte a valle e si fossero messi a lanciar proiettili, i nostri non avrebbero resistito neppure al primo attacco. Oltre a questo, spiaceva a essi che i loro figli fossero stati a loro strappati a titolo di ostaggi, liberos "abstractos" obsidum nomine, ed erano infine convinti che i Romani tentavano di occupare la sommità delle Alpi non solo per aver libero il passaggio ma con l'intenzione di ridurre in loro definitivo potere tutto il paese, per poi annetterlo alla vicina Provincia ». Non ragionavano male i montanari del Vallese; una volta che il passaggio per quelle Alpi fosse stato da loro concesso sotto imposizione di ostaggi che restava perchè la concessione si tramutasse in definitiva soggezione? Dunque: al giungere delle notizie portate dagli esploratori, Servio Galba, il quale non aveva ancora fatto completare i baraccamenti e le fortificazioni e non aveva provveduto sufficientemente al grano e al resto perchè, avvenuta la resa e consegnati gli ostaggi, pensava che non ci fosse più nessun timore di guerra, deditione facta obsidibusque acceptis nihil de bello timendum ... Servio Galba (sarà fra i congiurati degl'Idi di Marzo) sotto inchiesta: per eccessivo ottimismo sulla reale situazione politica; per insufficiente attività, qualunque fosse stato il suo pensiero sulla situazione politica, nell'organizzazione del campo in paese non amico. . . . Al giungere delle notizie portate dagli esploratori, Servio Galba, convocato immediatamente il consiglio di guerra, cominciò a domandar pareri, sententias exquirere coepit. Nel consiglio di guerra, i partecipanti, tribuni e centurioni anziani, do·vevano ascoltare, come ognora accade, d,!lla viva voce di chi li aveva convocati direttive ordini raccomandazioni ammonimenti che facessero al caso. Ma anche se il consiglio di guerra, richiesto da circostanze straordin arie, non corrispondeva al nostro normale «rapporto», è senz'altro da ammettere che il convocatore possa anche aver bisogno del parere dei convocati, e che nulla perda del suo prestigio a richiederlo. Alla condizione però, se ha buona educazione militare, che sia lui il primo a rivelare, sin dove possibile, i propri


progetti. Chè egli può, seduta stante, anche modificare, in tutto o in parte, i suoi pensieri e i suoi ordini; ma modificazioni che devono scaturire dalla discussione serrata di dati di fatto e non dagli ondeggiamenti della sua taciuta perchè malferma valutazione delle cose. Servio Galba cominciò, dunque, a chieder pareri. La situazione, al momento in cui tribuni e centurioni si raccolsero intorno a lui, forse alle prime luci del giorno, era nera: nel consiglio di guerra, al manifestarsi di un pericolo così grave e inaspettato, con tutte le alture ormai occupate da una moltitudine di nemici, le strade bloccate e quindi senza più speranza di aiuti e rifornimenti, davanti insomma a una situazione quasi disperata, prope iam desperata salute, si sentivano già ventilare propositi di questa fatta: abbandoniamo i bagagli e con una sortita cerchiamo subito salvezza per le strade donde siamo venuti! Tuttavia, la maggioranza degli intervenuti fu del parere che, senza ricorrere per ora a questo estremo partito, si attendesse intanto quale piega pigliassero gli eventi, e si difendesse il campo. Non sarebbe stato perciò Servio Galba a ordinare la difesa del campo. La sua volontà qui appare sballottata fra due opposte tendenze e alla fine rimorchiata da quella di maggioranza (il che, per un Legato, è nota odiosa). Poco dopo il consiglio, quando c'era stato appena il tempo per disporre la difesa secondo le decisioni prese, i nemici, a segnale convenuto, cominciarono a venir giù da tutte le parti, ex omnibus partibus, e a lanciare sassi e giavellotti contro il vallo. I Romani, da principio, nella pienezza delle forze, reagirono validamente e, dall'alto del vallo, non ci fu loro proiettile che andasse a vuoto. Nè la loro difesa fu rigida, ma mobile e tempestiva: quando qualche parte delle difese del campo, sguarnita di difensori, sembrava più minacciata, ivi essi accorrevano a rinforzarla. I Romani però erano in condizioni di inferiorità per il fatto che, prolungandosi la lotta, i nemici stanchi avevano modo di uscire dalla mischia sostituiti da uomini freschi, mentre essi, dato il loro piccolo numero (otto coorti : neppure quattromila uomini, compresi i cavalieri appiedati?), non potevano far nulla di tutto questo, e non solo non era concesso a chi era stanco di uscire dalla mischia, ma neppure al ferito era dato di lasciare il suo posto e ritirarsi. Si combatteva ormai da più di sei ore senza un attimo di tregua, iam amplius horis sex continenter, e ai Romani cominciavano a mancare non solo le forze ma anche le munizioni, mentre i nemici incalzavano con maggior vigore e, approfittando della stanchezza dei difensori, già cominciavano a rompere lo steccato del terrapieno e riempire il fossato; si era insomma già all'estremo, resque iam ad extremum casum, quando ... A questo punto, Servio Galba - che quel giorno aveva un po' smarrito, sembrerebbe, la nota fondamentale del soldato e del comandante -:-- appare ancora una volta rimorchiato dalla volontà e l'iniziativa dei suoi subordinati.


... Si era insomma già all'estremo, quando Publio Sextio Baculo (quel centurione primipilo che già vedemmo colpito da molte ferite nella battaglia della Sambra) e con lui Caio Voluseno tribuno, uomo di grande senno e valore (che presto ritroveremo) corrono a Galba e gli dimostrano che resta una sola speranza di salvezza, unam esse spem salutis: affidarsi al disperato tentativo di una sortita. Un contrattacco improvviso, energico, che si giovasse della sorpresa. Convocati allora i centurioni, Galba dà disposizioni perchè i soldati interrompano per un momento il combattimento, limitandosi a proteggersi dai colpi e cercando di riprendere fiato; poi, a segnale convenuto, erompano dal campo, ponendo ogni speranza di salvezza solo nel loro valore. I soldati eseguono l'ordine ricevuto: erompendo improvvisamente da tutte le porte, non lasciano a quei montanari il tempo di capire che cosa accada nè di riaversi dalla sorpresa. Così, invertita la situazione, circondano i nemici che più premevano - i quali erano ormai persuasi di poter conquistare il campo - e ne uccidono più della terza parte dei trentamila e più che si sapeva essere venuti all'attacco. Alla strage, l'inseguimento: mettono gli altri in precipitosa fuga, e non li lasciano fermare neppure sulle alture. E così, avendo sbaragliato e costretto ad abba"ndonare le armi tutte le forze del nemico, i Romani si ritirano nella linea fortificata del campo. Quale risultato su trentamila diecimila uccisi, per chi sa che sia, e solo ad armi bianche, combattimento e inseguimento in montagna! Padrone del Gran San Bernardo e di tutte le Pennine, dopo tanta strage, è ormai Servio Sulpicio Galba: e chi potrà più negargli viveri e ostaggi? Come un maragià può ora svernare in Octoduro Servio Sulpicio Gal ba: i Nantuati più amici di prima, Veragri e Seduni salassati. Giunto per Servio Sulpicio Galb.i il momento per fruttuose trattative con tutti e tre quei popoli al fine di assicurare ai mercanti italiani indisturbato transito. Ma invece degii ozi, delle trattative, di una pace da padrone, il giorno dopo quel combattimento, postero die, - il giorno dopo, capite: a tempo di primato per un vincitore - Servio Galba se la svignò. Dopo questa impresa, Galba, che non voleva correre altri rischi (e non li aveva tutti superati? c'erano o non c'erano sul terreno diecimila morti?), e ricordandosi che egli era venuto colà a svernare con altri scopi (scopi con"tiliabili con indisturbato soggiorno?) e ve4endo a qual punto lo avevano condotto circostanze impreviste (impreviste solo da lui?), indotto specialmente dalla penuria di grano. e di altre provviste (aveva salmerie in proprio o doveva colà procurarsele?), il giorno dopo, postero die, bruciati tutti gli edifizi di Octoduro (che soddisfazione), iniziò la marcia verso la Provincia e, senza trovar ostacoli o molestie da parte dei nemici (montanari senza strategiche fantasie), condusse incolume la legione (incolume nella ritirata : ma quanti


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legionari lasciati a Octoduro ?), fra i Nantuati, e di là fra gli Allobrogi dove svernò (fine dicembre, approssimativamente: l'impresa quindi apparterrebbe, assai più, all'anno trascorso). Dall'altro mondo però, Servio Galba, come Considio, sembra che ancora protesti: con una sola legione, quella zoppa Dodicesima, - a che mi servì in alta montagna la cavalleria? - quelle plaghe, niente mezzi di trasporto e montanari gelosi dei propri muli più che dei loro occhi ... Ma lasciamolo protestare (che farci, ormai, se la relazione che lo riguarda, che pur ha taluni tratti sì vivi, è fra le pagine - ne abbiamo avvertite e ne avvertiremo, qua e là, anche altre - non rielaborate, rimaste allo stato quasi di appunti?) e ritorniamo a Publio Crasso nell'Anjou, dove la questione di quei popoli atlantici che si sono arresi sì repentinamente s'è complicata.

UN'IMPROVVISA GUERRA

IL

PIANO DALLE CI NQUE FRECCE.

Dopo tali avvenimenti, - quelli culminanti con la battaglia della Sambra - mentre Cesat'e aveva tutte le ragioni per ritenere che la pace avrebbe allignato in Gallia, - e perciò, a inverno incominciato, era partito per conoscere la sua terza provincia, l'Illirico, - ecco che in Gallia scoppiò un'improvvisa guerra, subitum bellum. Questa la causa: t"l giovane Publio Crasso, con la settima legione (la Settima con la Dodicesima erano « ala destra», come ricordiamo, sulla Sambra) aveva posto i suoi quartieri d'inverno vicino all'Atlantico, nel paese degli A ndi; proximus mare Oceanum in Andibus, - ossia, come s'è detto, nell'Anjou, e probabilmente nel territorio dell'odierna Angers. Ma siccome in quei luoghi v'era penuria di grano, egli aveva inviato parecchi prefetti e tribuni, praefectos tribunosque militum complures, a farne incetta presso i popoli confinanti. Non dunque comuni appaltatori ma ufficiali qualificati - e non pochi, ma complures, - aveva a tal uopo impiegati Publio Crasso: « praefectus » era infatti appellativo, non grado, per ufficiale preposto a particolare comando o incarico operativo e il <e tribunus militum » ufficiale superiore dell'ordine equestre. Di taluni di essi ci è stato tramandato il nome: un Tito Terrasidio fu inviato fra gli Esubt, - che abitavano l'alta valle, sembra, dell'Orne nella Normandia; un Marco Trebio Gallo fra i Curiosoliti, - nella Bretagna: Còte du Nord e Golfo di Saint Brieuc; un Quinto Velanio con un Tito Silio fra i Veneti, in Venetos, - nella Bretagna: Morbihan.


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Si rimane però alquanto interdetti di fronte al provvedimento preso da Publio Crasso: per l'approvvigionamento di una sola legione tanto sparpagliamento di prefetti e tribuni? Fecero scoppiare la bomba i Veneti, popolo la cui autorità è grandissima - poi sentiremo perchè - su tutti i paesi del litorale: furono essi i primi a trattenere Si/io e V elanio, pensando che avrebbero potuto in tal modo riavere gli ostaggi dati a Publio Crasso, suos se obsides recuperaturos. Se dunque Publio Crasso aveva ricevuto anche ostaggi, vuol dire che quando Silio e Velanio s'erano recati pre~so i Veneti per dare all'offerta di ostaggi un significato concreto, - a spiegare in che consistesse e che com portasse l'alleanza con Roma - i Veneti non solo avevano cambiato umore ma s'erano indignati. Un finimondo: spinti dall'autorità dei Veneti, gli altri popoli ( impulsivi nelle loro decisioni, i Galli!, sunt Gallorum subita et repentina consilia) trattengono per lo stesso motivo Trehio e Terrasidio e, scambiatisi ambascerie, fanno, con l'intervento dei loro capi, una lega, impegnandosi a vicenda a non far nulla se non di comune accordo, nihil nisi communi consilio. Veneti Curiosoliti ed Esubt, così coalizzatisi, sollecitano anche gli altri popoli a preferire la libertà retaggio dei padri alla servitù dei Romani. Infine: persuase che furono, e rapidamente, tutte le genti del litorale, inviarono a Publio Crasso un'ambasceria collettiva: se voleva riavere i suoi ufficiali, restituisse gli ostaggi. Cesare dice: « Quando fui informato da Crasso di tali fatti, mi trovavo parecchio lontano: ordinai che, intanto, si costruissero sul fiume Loira, che sbocca nell'Oceano, in flumine Ligere quod influit in Oceanum, navi da guerra, naves longas, che si levassero dalla Provincia rematori, remiges ex provincia, e si raccogliessero, ovunque, marinai e piloti, nautas gubernatoresque. Ordini che ebbero rapida esecuzione: e io, appena la stagione lo permise, raggiunsi l'esercito >> . Lo raggiunse, si può calcolare, a maggio; chè in aprile trovavasi ancora in Italia, a Lucca, per la nota conferenza che, rinnovando il primo triumvirato, gli confermava per altri cinque anni il governatorato della Gallia e del1' alta Italia. Si annunziano, così, operazioni manttlme sull'Atlantico: una flotta è in costruzione nell'estuario della Loira, con l'aiuto di popoli atlantici - quelli che hanno subito accettato, come presto apparirà, la pace romana - nonchè di popoli marinari della stessa Provincia, soprattutto dei marsigliesi. Questi i motivi generali, - i particolari li sapremo a suo tempo - che inducevano Cesare ad accettar la nuova guerra: la coalizione di tanti popoli; ma soprattutto, in primis, zl timore che se avesse trascurato, in questa circostanza, la repressione, le altre genti avrebbero potuto credere lecito fare altrettanto.


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Le altre genti, reliquae nationes, Celti Belgi Aquitani: avverte, in tutto quell'immenso paese, la possibilità di rapidi accordi, l'inesistenza fra gente e gente di veri e propri muri divisòri. Altri due motivi oggi li diremmo di natura psicologica: egli comprendeva che quasi tutti i Galli amano le novità (gente, come oggi si dice, di cui non ci si può fidare: mutano opinione da un giorno all'altro), e che basta poco per eccitarli alla guerra ( allora le cose cambiano: siccome guerra è vigore e sacrifizio, non può essere indice di civile inconsistenza la loro instabilità); pere/tè, infine, comprendeva (segue magnifico aforisma: ma chi oggi lo porrebbe fra i motivi che sostengono il suo nemico?) che « tutti gli uomini, per natura, tendono alla libertà e odiano la servitù: omnes homines natura libertati studere et condicionem servitutis odisse ». Insomma: per tutte codeste ragioni, - grossa la coalizione, necessità di un esempio, infiammabile la natura dei Galli, connaturale all'uomo la libertà - Cesare pensò di dividere l'esercito e di distribuirlo su uno spazio assai vasto, ac latius distribuendum, prima che altri popoli partecipassero al movimento. Nacque così un audace piano operativo di cinque paragrafi.

Primo paragrafo: - il Legato Tito Labieno, con cavalleria, si porti fra i T reviri, che sono vicini al Reno. Sorvegli e tenga a freno i Remi e gli altri Belgi e respinga i Germani - che si dicevano chiamati in aiuto dai Belgi qualora tentino di forzare su imbarcazioni il passaggio del fiume. Secondo: - Publio Crasso si porti, con dodici coorti legionarie e grandi forze di cavalleria, in Aquitania. Impedisca che da quei popoli siano inviati aiuti alla Gallia e la coalizione nemica diventi troppo forte. Terzo: - il Legato Quinto Titurio Sabino si porti con tre legioni presso Venelli, Curiosoliti e Lexobt. Tenga impegnate le forze di quei popoli. Quarto: - il giovine Decimo Bruto si ponga a capo della flotta - e delle altre navi galliche fatte venire dai Pictoni (Poitou), dai Santoni (Saintonge) e dagli altri paesi costieri pacificati - e navighi << il più presto che può » per il paese dei Veneti. Quinto: - io, Caio Giulio Cesare, mi porterò, con le fanterie, fra i Veneti. Nella guerra contro gli Elvez1, contro Ariovisto, contro i Belgi, cioè sempre, l'esercito romano ha operato a forze riunite; e solo dopo la disfatta dei Nervì e al termine della stagione operativa, due spedizioni a legione isolata : Publio Crasso verso le coste atlantiche e Servio Sulpicio Galba nelle Pennine. Ma quest'anno l'audacia del proconsole sembra che non conosca limiti : cinque paragrafi, cinque frecce, un vastissimo decentramento: l'esercito frazionato in cinque parti, l'una dall'altra, e non di poco, lontana.


Il piano dalle cinque frecce.


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Sola cavalleria al Reno, molta cavalleria e poca fanteria per l'Aquitania, tre legioni per la Normandia occidentale e la Bretagna settentrionale. Ne consegue che più specialmente risultano presi di mira i Veneti, abitatori del Morbihan: contro di essi, infatti, marcerà Cesare col più delle fanterie e si dirigerà con la flotta, al più presto possibil~, cum primum possit, il giovane Decimo Brutò.

LABIENO, CRASSO, SABINO LABIENO E I TREVERI.

Il Legato T ito Labieno, con aliquota imprecisata di cavalleria, si portò fra i Treveri e vi assolse il suo compito. Ma per tutta questa campagna di lui non avremo più notizia: non trasgredirono ai patti i Remi (la resa integrale di Iccio e Andocumborio vi aveva forse suscitato interni dissensi e reazioni?), non si mossero gli altri Belgi, nè vi furono tentativi di passaggio del Reno da parte di Germani. In caso di grossa reazione, d'altronde, da lui, con sola cavalleria, poco o niente si sarebbe potuto pretendere. I Treveri, padroni del territorio a cavallo della Mosella sino al Reno, hanno in Gallia considerevole ufficio custodi diretti e indiretti come sono di importanti accessi dalla Germania al cuore della Gallia; e perciò non si può pensare che Labieno fosse stato colà inviato senza serio motivo. Ma proprio vero che questi Treveri - così come poterono apparirci al tempo della spontanea segnalazione delle cento comunità sveve di Nasua e Cimberio - sono amici di Roma? che pensare. di quel loro contingente di cavalleria che abbandonato il campo di battaglia di Neuf Mesnil lanciò ai quattro venti il « Romanos pulsos superatosque »? c'è accordo o pur no, nell'interno del paese, per una politica benevola, se non vogliamo ancor pa~lare di amicizia alleanza sottomissione, verso il Popolo Romano? Interrogativi che riceveranno risposta nei prossimi anni; quando potremo altresì dedurre che, a cominciare da questa missione, Labieno dovè divenire un esperto, come diciamo oggi, delle faccende trevire.

PUBLIO CRASSO E L'AQUITANIA.

La freccia per l'Aquitania è guidata da Publio Crasso, giovane di alto rango sociale, militarmente, specie dopo Epfig, ben quotato. E prova di maturità organizzativa egli la dà subito anche in questa ardua tmpresa: prima di passare la Garonna - ed entrare in quella vasta Aquita-


nia dove, circa tre lustri prima, nella guerra contro Sertorio, i Romani avevano subìto due rovesci - s'impose un tempo di arresto. Egli comprendeva (ma non passò molto e un po' se ne dimenticò) che bisognava essere molto cauti. Un tempo, perciò, d'arresto, più di un mese diremmo: provvide ad adeguato rifornimento di viveri; si procurò sul posto truppe ausiliarie di fanteria (la sua fanteria era della forza di solo una legione e due coorti, un seimila uomini) e di cavalleria (in aggiunta alla forte aliquota affidatagli da Cesare); rinsanguò i suoi «quadri » richiamando « nominatim », con precetto personale diremmo noi, molti valorosi veterani (centurioni, è da supporre) da Tolosa ~: da Narbona, le città della Provincia più vicine a quelle regioni. Ciò fatto, entrò in Aquitania - in giugno? - invadendo il paese dei Sonziati (nome che sopravvive nella città di Sos), in Sotiatium fines exercitum introduxit. I Sonziati, come seppero del suo arrivo, raccolte grandi forze di fanteria e cavalleria, - e nella cavalleria erano specialmente forti, - fecero cosa ai Romani sgraditissima: attaccarono la colonna di Publio Crasso in marcia, in itinere. Iniziarono l'attacco con la sola cavalleria, e quando i Romani, avendola respinta (forse con poca fatica: ma ora capiremo il perchè), si furono lanciati al suo inseguimento ... Avvenne, non c'è dubbio, un mezzo guaio. Mentre dunque la cavalleria romana era in pieno inseguimento, . . . i Sonziati, improvvisamente, scoprirono le loro fanterie insidiosamente nascoste in una valle: fanterie che riaccesero la battaglia e attaccarono i Romani disiectos, dispersi, cioè in lunghe formazioni di marcia. Si combattè a lungo e violentemente, sia perchè i Sonziati ritenevano che dal loro valore di confinari dipendesse la salvezza dell'intera Aquitania, sia perchè le truppe romane si comportarono, come ora sentiremo, egregiamente. Cesare dice : « I nostri volevano mostrare di che erano capaci sotto la guida di un sì giovane comandante, adulescentulo duce, lontani da me, sine imperatore, e dalle altre legioni. Sì che i nemici, scossi alla fine dalle perdite, volsero le spalle ». All'ordine del giorno solo il comportamento delle truppe: scansato, si direbbe, qualsiasi appunto al figlio di papà, Publio Crasso, per abuso di inseguimento. Ma una mentalità da « celere » a c.;:1po di questa temeraria e rapida spedizione - dalla Garonna quasi ai piedi dei Pirenei e ritorno: popoli ostili e poco più di quattro i mesi disponibili - ci voleva; una testa, sì, riflessiva: ma anche - altrimenti « celere » non si è in nessun'epoca - con un pizzico d'insania. Infatti Publio Crasso non ebbe, dopo quel combattimento, un attimo di arresto: si portò immediatamente all'attacco dell' oppido dei Sonziati stessi,


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- nel luogo, pare, dell'odierna Sos - e, avendovi trovato forte resistenza, pose in opera « vinee » e torri. Insomma (tralasciando qualche particolare, fra cui la sparata di un signorone del tempo, certo Adiatumno, e dei suoi fedelissimi detti « soldurii »): la maggior fortezza forse dell'intera Aquitania non tardò ad aprire le porte ai Romani. I Sonziati si arresero. Ma il pizzico d'insania continuò a fermentare. Ricevuto dai Sonziati armi e ostaggi, Publio Crasso passò nel paese dei Vocati (territorio, pare, fra Bordeaux e Arcachon) ·e Tarusati (territori, pare, di Dax e di Mont de Marsan). E qui la sua situazione divenne assai difficile. Estese pianure di argille e sabbie e lunghi boscosi ripiani solcati da intricata fitta rete fluviale: territorio pertanto difficile al con trollo con poche forze; estate torrida, fra luglio e agosto, propria del duna oceanico. E si aggiunga che erano interessati alla lotta anche popoli della Spagna citeriore, - della Cantabria - z quali inviarono agli Aquitani, su loro richiesta, aiuti d'ogni sorta e capi militari. Insomma, tutti i popoli di quelle regioni, Vocati e Tarusati in testa, al sopraggiungere di Publio Crasso, poterono coalizzarsi rapidamente, riunire gli eserciti e intraprendere la guerra con grande prestigio e con grandi forze. Ma neppure per essi era tutt'oro. Anzitutto: quei barbari erano turbati dal fatto che fossero bastati pochi giorni per conquistare (e qui il merito, non c'è dubbio, è tutto della intraprendenza di Publio Crasso) un oppido forte per natura e per opere; che cioè i Sonziati avessero scaricato un po' troppo prematuramente tutto il peso della guerra sulle loro spalle. Ma è il meno. La maggior sciagura, ascoltate, fu la concezione strategica che ribolliva dei loro generali nella testa. Contrassegno principale della situazione dei Romani: i loro rifornimenti - tratti con la violenza dalle risorse dei luoghi, evidentemente - diventavano sempre più difficili e il numero dei nemici aumentava ogni giorno. In quelle regioni erano però ancor vive e ammirate, dopo oltre tre lustri, azioni e leggende del sabino Sertorio (ultimo geniale capitano di Mario che per sette anni, in Spagna, aveva condotto guerra e guerriglia contro Roma); ammirate sino al punto che in questa occasione i coalizzati aquitani vollero scegliersi quali comandanti coloro che avevano fatto tutte le campagne di Quinto Sertorio (ahi: uomini anzianotti), e che pertanto avevano fama di grande esperienza di cose militari. Comandanti che si dettero a condurre la guerra, come risulta dalle tre seguenti direttive, con taluni metodi tattici romani, consuetudine Populi Romani: scelta accurata di posizioni idonee; dell'accampamento, con la fortificazione, ne fecero campo; conducevano azioni sulle retrovie dei Romani per tagliare loro i rifornimenti.


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Sicchè, quando Publio Crasso si rese conto di ciò .. . Le truppe di Publio Crasso erano troppo poco numerose per poterle dividere così come richiedeva l'azione nemica sulle retrovie; l'esercito aquitano, invece, a· cagione appunto del numero, aveva possibilità di movimento e teneva da padrone le strade, pur lasciando nel proprio campo forze sufficienti. Giorni, perciò, duri per Publio Crasso dopo che si fu portato dai Sonziati contro Vocati e Tarusati, - ossia dal territorio di Sos nel territorio, pare, dell'odierna città di Mont de Marsan, dove sembra che avesse posto, di fronte a quello nemico, il suo campo. Ritirarsi? aperto fallimento dell'impresa e pericoli estremi della ritirata: ma soluzione, alla fin fine, pur ammissibile; dar battaglia? soluzione, dato lo squilibrio delle forze, temeraria; nè ritirarsi nè attaccare? disastro certo. Cesare dice: « Quando Publio Crasso si fu reso conto della situazione, . . . giudicò che più non doveva indugiare a dar battaglia ». Si assunse la responsabilità di proporre ai suoi comandanti in sottordine la battaglia: portata la questione a un consiglio di guerra, quando comprese che tutti erano della stessa opinione, omnes idem sentire, - segno evidente che non erano possibili nè ritirata nè indugio - fissò la battaglia per l'indomani. Battaglia - chiamiamola di Mont de Marsan - che ebbe per i Romani esito alla fine positivo. Publio Crasso, pur impegnato con forti perdite nell'attacco frontale del nemico, che se ne era rimasto chiuso nel campo, non aveva interrotta l'esplorazione in grande intorno ai luoghi della battaglia: avvenne così che, a un certo punto, fu informato che sul rovescio del campo nemico vi era, a cagione della minor sorveglianza, un possibile accesso. Notizia quanto mai piena di speranze ed eccitante: aliquote di cavalleria e fanteria, con lungo giro, raggiunte le posizioni indicate senza essere in tempo avvistate, poterono attaccare il nemico alle spalle. Masse nemiche abbandonarono il campo in fuga: Publio Crasso le inseguì con la cavalleria per quelle vastissime pianure, apertissimis campis, sino a notte alta, non lasciandosene sfuggire che una quarta parte (facciamo, anche qui, un po' di tara?) dei cinquantamila che erano. La. maggior parte dell'Aquitania, pertanto, si arrese a Crasso e gli inviò spontaneamente ostaggi. Ma Cesare non sembra che il merito della vittoria voglia lasciarlo intero al genio tattico di Publio Crasso; gliene sottrae più della metà quando mette in luce quella che noi abbiamo chiamato la maggior sciagura dei coalizzati aquitani. I generali, aquitani o iberi che fossero, sebbene - e per il numero e per le antiche tradizioni di valore della lor gente (ma davvero?) e per la scarsezza numerica dei Romani - sebbene f assero persuasi di poter affrontare la battaglia senza correr rischi, ciò nondimeno stimavano partito più sicuro procedere per appostamenti sugli itinerari e tagliare ai Romani i rifornimenti,


e giungere così, con la fame del nemico anzichè con la battaglia, a una vittoria senza perdite: sine ullo vulnere. Nè si arrestava qui il pensiero di quegli esperti: che se poi i Romani, costretti dalla mancanza di viveri, avessero, invece di arrendersi, cominciato a ritirarsi, essi, al manifestarsi di cotale evenienza, avrebbero senz'altro aperto le cateratte alla tradizionale aggressività delle loro schiere: si proponevano insomma di attaccare i Romani in forma~ zione di marcia quando, appesantiti da convogli e bagagli, la loro efficienza combattiva sarebbe stata minore. Vittoria a buon mercato, senza perdite, senza, se ci tenessimo alla lettera, neppure una goccia di sangue: sine ullo vulnere. Tattica romana, strategia aquitanica. Sicchè, il giorno della predetta battaglia di Mont de Marsan, ali' alba, prima luce (Publio Crasso l'iniziativa dell'attacco l'aveva presa lui e per far più lunga la sua fronte, data la scarsezza delle forze, s'era disposto su duplice schiera, collocando gli ausiliarii, forse per minor fiducia, al centro), sicchèj dunque, il giorno della battaglia, all'alba, quei generali - approvato il piano strategico ora detto, - non avevano accettato la sfida di Publio Crasso e se ne erano stati fermi nel campo, sese castris tenebant. C'è dunque da calcolare la cautela dei generali nemici nel giuoco di Publio Crasso: chè altro è avere di fronte nemico mobile e aggressivo nonchè superiore in forze, altro è averlo fermo e chiuso in un campo. Se però è proprio vero che la maggior parte dei popoli aquitani - la relazione ne segnala, con Vocati e Tarusati, ben undici - si arresero sì precipitosamente (l'Aquitania, proprio tutta, si sottometterà a Roma fra un cinque anni: idillicamente, al solo apparire della persona di Cesare), se dunque si ebbe sì rapida frana, potremmo riesaminare anche da altri più sostanziali punti di vista (e qui i generali poco o niente possono fare) la vera origine della strategia del « sine ullo vulnere ». Il « raid » dell' « adulescentulus » diverrebbe però ancor più vivo e meritorio se poi volessimo avanzare la congettura che egli, vinti che ebbe i Sonziati, - in condizione, pertanto, di sorvegliare la sinistra della Garonna si sarebbe inoltrato nel sud di sua iniziativa, senza averne obbligo. Il paragrafo terzo del piano non gli affida infatti altro compito che quello di e< impedire che dai popoli aquitani giungano aiuti alla Gallia ribelle ». Ma di Publio Crasso non sentiremo più parlare: lascerà la vita in Mesopotamia fra due anni (proprio, sembra, per abuso di inseguimento), nel corso, di azioni equestri che precedettero la battaglia di Carre, al padre sì furn~sta.

TITURIO SABINO E LA NORMANDIA.

La terza freccia - rivolta alla Bretagna settentrionale :e alla Normandia - prende nome dal Legato Quinto Titurio·Sabino.

1 1. -

U,S.


Del quale sappiamo che l'anno scorso, nella guerra belgica, comandò . sei coorti sul rovescio della posizione romana dell' Aisne e che tempestivamente informò Cesare dell'inizio del passaggio del fiume da parte di truppe scelte dei coalizzati. - Ma quest'anno il suo comando è di gran lunga più difficile: con tre legioni - un quindicimila solo i legionari - deve portarsi in Normandia contro Venelli Curiosoliti Lexobì residenti sul golfo di Saint Malo, nel Cotentin e sulla baia della Senna. Egli infatti pervenne, dalla zona di sv<"rnamento, nel territorio dei Vene/li. Sarebbe cioè giunto, secondo accettabili ipotesi, alle porte del Cotentin, ponendo il campo nel territorio della città di Vire, ancor oggi importante nodo di comunicazioni. Era a capo dei Venelli un certo Viridovice, il quale, avendogli tutti 1 popoli in rivolta conferito il comando supremo, summam imperii, aveva messo su un esercito molto numeroso. Esercito animato da spirito guerriero piuttosto alto, a giudicare dal seguente episodio: pochi giorni dopo l'arrivo di Titurio Sabino, gli A ulerci Eburovici (il loro nome sopravvive in Evreux) e i Lexobi (in Lisieux), uccisi i loro senatori, senatu suo interfecto, perchè non volevano assumersi la responsabilità della guerra, quod auctores belli esse nolebant (c'è già dunque chi ritiene ineluttabili le affermazioni di Roma in Gallia), chiusero le porte dei loro oppidi, portas clauserunt, - cioè li abbandonarono, trasferendo chi sa dove le famiglie - e si unirono a Viridovice. Un sintomo di disperazione che, diremmo, non potè essere appreso con indifferenza da Titurio Sabino. Ma l'esercito di Viridovice s'era ingrossato anche per il concorso di un volontarismo, secondo Cesare, vituperevole: vi accorsero in gran numero da tutte le parti della Gallia uomini perduti e briganti, perditorum hominum latronumque, gente che - m a quel che segue era invero comune anche ai galantuomini - la speranza di preda e la passione per la guerra, spes praedandi studiumque bellandi, distoglievano dalla coltivazione dei campi e dal quotidiano lavoro. (Fenomeno piuttosto generale, il mercenariato guerresco dei Galli; causato forse anche dalle croniche condizioni di miseria, come poi sentiremo, della plebe). Sabino si teneva chiuso nel suo campo situato in luogo idoneo sotto ogni punto di vista . . . Buona, ottima, la scelta della posizione su cui egli aveva impiantato il campo: merito non disprezzabile. Sabino si teneva chiuso nel campo, .. . Viridovice invece - che s'era posto di fronte a lui a circa tre chilometri - ogni giorno faceva avanzare le sue truppe, offrendo al Legato la possibilità di venire a battaglia, pugnandi potestatem.


Ma Titurio Sabino duro: cioè fermo e chiuso nell'ottimo camp0. E la quotidiana giostra provocatoria di Viridovice dovè durare a lungo, dal principio alla fine della campagna: approssimativamente, dai primi di giugno agli ultimi di agosto. Sì cronico il contegno affatto difensivo di Sabino che questi non solo cominciò a essere disprezzato dai nemici, non soluni hostibus in contemptionem, ma voci di critica si udivano anche fra i suoi soldati, sed etiam nostrorum militum vocibus non nihil carperetur. Sabino insomma dava talmente l'impressione di aver paura, - paura, intendiamoci, di rischiare la battaglia - che i nemici ardivano di portarsi sino al fosso del suo campo, ad vallum castrorum hostes accedere. Venivano a sfotterlo, mili tarescamente dicendo, sotto i reticolati. Cesare dice: « In realtà, Sabino agiva in tal modo perchè, data la grande superiorità numerica del nemico, pensava che a un Legato non fosse lecito impegnarsi - soprattutto in assenza del comandante supremo - se non in terreno del tutto favorevole o presentandosi qualche fortunata occasione». N on fa grinza il pensiero di Titurio Sabino, ed è in perfetta armonia col paragrafo terzo, rileggiamolo, del piano: « Sabino si p0rti con tre legioni presso Venelli Curiosoliti Lexobì e tenga impegnate le forze di quei pop0li »; - compito che Sabino sta assolvendo egregiamente tenendo agganciate, a soli tre chilometri, le considerevoli forze nemiche. E allora, se le cose stanno così, e a porle esplicitamente così è Cesare stesso, che valore può avere la maldicenza di anonimi gregari? come mai, quel eh' è peggio, una maldicenza è stata fissata su papiro? Titurio Sabino però, quando presso i nemici si fu assodata la persuasione della sua paura, scelse fra i Galli delle truppe ausiliarie un uomo abile e astuto, idoneum et callidum, e lo persuase, con grandi premi e promesse, di passare al nemico, istruendolo su quel che doveva fare. L 'abile simulatore, giunto che fu presso i nemici in veste di disertore, mise anzitutto in evidenza la paura dei Romani, timorem Romanorum prop0nit ... I fatti, se ci aiutiamo con un po' di fantasia, p0terono svolgersi così: erano talmente impressionanti le cose che quel Gallo disse ai primi armati in cui si imbattè che esse si diffusero immediatamente fra le truppe, eccitandole, sì che il brav'uomo fu condotto in mezzo a una folla, come oracolo, alla presenza dei capi. L'inviato di Titurio, dunque, dop0 aver posto in evidenza la paura dei Romani, ... disse che i Veneti avevano messo lo stesso Cesare in critica situazione, ipse Caesar a Venetis prematur (notizia vera o falsa che le operazioni che sta svolgendo Cesare contro i Veneti sono in crisi? Ne saremo presto informati. Notiamo solo che Titurio Sabino qualche cosa non proprio allegra è venuto a sapere della situazione romana creatasi nel paese dei Veneti); il finto disertore dette infine per probabile che nella prossima notte, proxima


nocte, Titurio Sabino avrebbe fatto usczre di nascosto l'esercito dal campo per portarsi in aiuto di Cesare. Come ciò fu udito, si misero tutti a gridare, conclamant omnes, che non bisognava lasciarsi sfuggire sì propizia occasione, e che si dovesse subito marciare contro il campo romano.

Ma fu -proprio tal stratagemma, solo esso, a far esplodere, quasi di punto in bianco, sì risoluto proposito? Molte ragioni spingevano i Galli a marciare prontamente contro il campo romano: il contegno temporeggiatore di Titurio Sabino nei giorni precedenti; la conferma del timore di Sabino da parte di quel disertore; la mancanza di viveri, inopia cibariorum, perchè ai rifornimenti essi non avevano sufficientemente pensato; le speranze destate dalla guerra dei Veneti, spes Venetici belli (quali notizie erano giunte al loro orecchio sulla guerra, in atto, presso i Veneti?); e infine, filosofica considerazione di Cesare, perchè gli uomini, in genere, sono inclini a prender per vero ciò che desiderano, libenter id quod volunt credunt: Ma se l'inopia cibariorum, l'insufficienza barbarica all'organizzazione logistica la poniamo, come per i Belgi, al primo posto, in modo che tutti gli altri motivi a essa più o meno s'associno, lo stratagemma di Titurio non si annulla ma più ci avvicina, diremmo, alla realtà delle cose. L'unanime richiesta di procedere subito all'attacco del campo romano si imbattè però in una certa resistenza da parte dei capi responsabili: indotti da tutte queste ragioni, i richiedenti non lasciano allontanarsi dall'assemblea Viridovice e gli altri capi (i capi avevano dunque chiesto tempo per riflettere), prima di aver da essi ottenuto di prendere le armi e di marciare all'attacco. Emesso, o strappato, che fu l'ordine di attacco, lieti come di vittoria sicura, gli armati di Viridovice - dopo essersi provveduti di fascine e arbusti per riempire il fosso del vallo - mossero rapidamente ali' attacco del campo romano.

Campo che sorgeva su posizione elevata, con davanti un leggero déclivio lungo circa un miglio; declivio perciò invitante e traditore: i Galli lo affron-tarono di gran corsa, magno cursu, e giunsero in alto sfiatati, exanimati. Titurio Sabino parla, ora, e agisce: arringa i suoi e dà loro l'atteso segnale di attacco, cupientibus signum dat (pungente quel « cupientibus » : non altrettanto « cupiens » il generale?); Titurio Sabino è, ora, incontenibile: ordina una fulminea sortita da due porte, un contrattacco insomma a tanaglia. Avvenne clunqf!e che, per i vantaggi della posizion~, - e qui il merito di Titurio Sabino non si può nascondere - per l'inesperienza e la stanchezza degli attaccanti, per il valore e la pratica, nei soldati romani, dei precedf'nti


combattimenti, z nemici non sostennero neppure il primo urto, ne unum quidem impetum, e si diedero subito, statim, alla fuga. Non sostenuto neppure il primo urto, come sentite, e fuga istantanea: il grosso dell'esercito di Viridovice già fiaccato e dissolto dall' « inopia cibariorum »? giunsero sotto il vallum solo, e proprio tutti, i volontari? Vittoria insomma non strepitosa; anche se un modesto inseguimento inflisse ~i agli attaccanti in fuga, pochi o meno pochi che fossero, perdite, in proporzione, grosse.

Cesare dice: « Così, Sabino fu informato della battaglia navale nello stesso tempo, uno tempore, che io seppi della vittoria di Sabino e tutti quei popoli si arresero subito a Titurio >) . Che relazione ha la battaglia navale nell'Atlantico (ne avremo presto soddisfacente resoconto anche noi) con la resa di quei popoli a Sabino? il riferimento vuol forse suggerirci che la resa a Sabino non fu dovuta alla vittoria di costui ma soprattutto alla sconfitta, da quei popoli ritenuta impossibile, dei Veneti? Ma anche un altro motivo è posto a commento del patente successo politico di Titurio Sabino. Dice : « . .. e tutti q uei popoli si arresero subito a T iturio. Perchè, quanto lo spirito dei Galli è facile e pronto a iniziare con entusiasmo una guerra, ad bella suscipienda alàcer ac promptus animus, altrettanto debole e poco resistente ai rovesci è il loro carattere, mollis ac minime resistens ad calamitates ». Codesto però è fenomeno generale che pone, sì, in più giusta luce, non certo accrescendolo, il successo di Titurio Sabino: farebbe però altrettanto, per servirci solo dell'esempio più vicino, del successo di Publio Crasso. Nei Galli, dunque, « alacer ac promptus » l'animo, « mollis ac minime resistens >) il carattere. Ma è giudizio che sarà integrato e chiarito dagli avvenimenti futuri; per ora, a chiusura della campagna di Normandia, occorre chiedersi: attenendoci a quanto Cesare stesso ha detto, che possiamo concludere (per ricordarlo, in grave frangente, fra due anni) sulla personalità militare di Quinto Titurio Sabino? Non possiamo certo attribuirgli l'audacia di un Publio Crasso; la battaglia a lungo offertagli da Viridovice egli non l'ha accettata; ha solo contrattaccato quando s'è sentito sicurissimo di sè: sulla porta di casa, col campo, per ogni evenienza, a pochi metri dalle spalle. Ma il successo finale, condizionato quanto si sia, l'ha ottenuto: che forse i successi della prudenza non valgono quelli dell'audacia? Una campagna che Cesare stesso giudica positiva, sino a parlare di vittoria di Sabino, « Sabini victoria» . Espressione che però non annulla il sibilo


166 fermato sul disco e riudibile ancor oggi: il prolungarsi della « cunctatio >> oggetto di critica aoche da parte dei soldati romani .

I VENETI Cm soNo

I

VENETI.

Alla correlazione tra le frecce quarta e quinta abbiamo già accennato: Decimo Bruto con la flotta e Cesare con parte dell'esercito devono entrambi portarsi contro i Veneti, il popolo più importante della coalizione. Anzi, proprio per isolare, direttamente e indirettamente, i Veneti e rendere indisturbata la congiunta azione di Bruto e di Cesare, si sono avuti i contemporanei invii (qui riportati con qualche posposizione e solo nell'essenziale) di Labieno sul Reno, di Publio Crasso in Aquitania, di Titurio Sabino in Normandia. I Veneti hanno autorità grandissima su tutti i paesi del litorale sia perchè posseggono numeroso naviglio - col quale esercitano la navigazione sino in Brùannia - sia perclzè sono superiori a tutti gli altri per esperienza e pratica di marineria, scientia atque usu nauticarum rerum. Sicchè, - padroni come sono dei porti, pochi, esistenti in quel mare aperto e impetuoso - finiscono col far pagare un tributo a quasi tutti coloro che quel mare frequentano. Il maggior popolo marinaro, insomma, sia delle coste atlantiche propriamente dette che delle coste della Manica; de'tentore esso - e non i popoli della Normandia della Piccardia dell'Artois e delle Fiandre - del maggior traffico della Gallia con la Britannia. Paese di lande il veneto territorio; un litorale in perpetua lotta con l'oceano che lo ha capricciosamente lavorato e inciso: lunghe lingue di terra dall'erosione ridotte a isole isolotti scogli; ampie insenature tal volta sbarrate da banchi di sabbia solo superabili attraverso stretti canali; frastagliati estuari che si spingono profondamente nell'interno e nei quali quotidianamente sale e ridiscende potente marea. Cesare dice (dobbiamo portarci indietro, naturalmente, di un tre mesi, al suo ritorno dal! 'Italia): « I Veneti e con loro gli altri popoli della coalizione, saputo del mio arrivo e consci della gravità della colpa in cui erano incorsi per aver trattenuto e fatto prigionieri gli ambasciatori, legatos, - presso tutte le genti nome sacro e inviolato sempre, ad omnes nationes sanctum inviolatumque sempcr, - si danno a preparare la guerra come lo richiedeva la gravità del pericolo e soprattutto a potenziare la loro marineria ». Prefetti e tribuni inviati da Publio Crasso a incettar grano chiamati, ora, « legati », ossia persone, ambasciatori o che altro di simile, politicamente rappresentative.


Veneti e alleati ( sicura e concreta, sentiremo, la lor concezione della guerra che stavano per intraprendere) facevano molto affidamento sulla particolare natura della regione: gli itinerari terrestri interrotti da lagune; la navigazione difficile per chi non conoscesse i luoghi e per la rarità dei porti; nè, infine, era possibile a forze romane di una certa entità trattenersi a lungo, per mancanza di grano, nel loro paese.

L'Europa occidentale secondo Cesare e Strabone.

Ma se anche tutto fosse andato in modo diverso dal previsto, - e questo era l'argomento principe dei Veneti - essi molto potevano per mare, se plurimum navibus posse, mentre ben poco vi potevano i Romani. I Romani non conoscevano bassifondi porti isole di quelle acque dove dovevano pur condurre la guerra: altro è infatti la navigazione in un mare chiuso, come il Mediterraneo, altro è nell'immenso e pericoloso Oceano, in vastissimo atque apertissimo Oceano. Postisi, così, su questa strada, essi fortificarono i loro oppidi, ivi raccogliendo provviste di grano, e riunirono quante più navi poterono nella Venezia, naves in Venetiam quam plurimas, sapendo che qui Cesare avrebbe iniziato la guerra.


Movimento di popoli, poi, estesissimo: i Veneti si assicurano l'alleanza di popolazioni limitrofe - Osismi Namneti Diablinti - nonchè di lontane e lontanissime popolazioni della Manica, fra cui Morini e Menapz (che faranno presto parlar di sè). E fanno anche venir aiuti dalla Britannia, la quale trovasi di fronte a quelle regioni, contra eas regiones posita est (la geografia del tempo considerava i Pirenei orientati da nord a sud; tutto perciò spostato: le coste occidentali della Gallia ritenute parallele alle coste meridionali della Britannia). Cesare dice: « Vi erano, sì, le difficoltà che ho dette ma erano anche molte le ragioni che a quella guerra mi spingevano .. . ». Alle ragioni già rilevate - grossa la coalizione, necessità di un esempio, infiammabile la natura dei Galli, connaturale all'uomo la libertà - bisogna ora aggiungere: l'offesa fatta trattenendo Cavalieri romani, - essendo i tribuni dell'ordine equestre - ; la ribellione dopo la resa, rebellio post_ deditionem; la defezione dopo la consegna degli ostaggi, defectio datis obsidibus. Le due ultime ragioni si ridurrebbero a una se la defezione dopo gli ostaggi, dopo cioè pegno che com porta fra le parti fiduciosa distensione, non costituisse tradimento. Ben sette dunque le ragioni che spingevano Cesare alla guerra. Sebbene esse perdano, tutt'e sette, parecchio del loro valore determinativo se poste di fronte - e come non porle? - ai maggiori dati d'impianto di questa guerra: la missione affidata a Publio Crasso subito dopo la battaglia della Sambra, l'invio di militari qualificati presso quasi tutti i popoli atlantici, l'ordine inviato dall'Italia per l'allestimento di naviglio da guerra, le cinque temerarie frecce di un piano sì prontamente posto in atto. Tutti dati, l'uno correlativo all'altro, che rivelano un assai ampio disegno strategico, nè improvvisato nè improvvisabile. LUNGA E INUTILE FATICA.

Nel momento in cui Cesare - contemporaneamente o quasi a Labieno a Publio Crasso a Titurio Sabino - lasciò i luoghi di svernamento per il Morbihan, tre delle otto legioni dovevano essere con lui (tre erano con Titurio Sabino e una forza pari a una legione e due coorti con Publio Crasso); non resterebbero perciò che otto coorti sulle navi di Decimo Bruto: sebbene qui non sia questione nè di numero nè di- unità organiche ma di tiratori scelti e soprattutto di legionari, ovunque tratti, di qualche esperienza marinara. Quale che sia stato l'itinerario da Cesare seguìto per portarsi dalla zona di svernamento nel paese dei Veneti, può ritenersi quasi certo - gli indizi topografici, sentiremo, non mancano - che egli giunse e si fermò su uno dei tratti costieri più difficili del Morbihan: nel territorio dell'odierna città di Vannes.


Il Golfo del Morbihan - quasi lago: vi si accede dalla Baia di Quiberon per strettissimo canale - appare, nel suo sviluppo costiero, tutto un estroso intaglio di baie e cale profonde e contorte e, su tutta la sua area, un intrico di isole scogli e banchi di sabbia; vero e proprio labirinto in cui l'Atlantico sembra che s'inoltri a fatica. I Veneti avrebbero colà raccolto - ipotesi, più che accettabile, in accordo con quella di Vannes - le loro forze: quella specie di laguna ben si prestava al loro intento di sfuggire a operazioni di terra.

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Baia di Quiberon - Morbihan - Saint Gildas.

Alle caratteristiche del Golfo del Morbihan risponde in pieno il quadro seguente : quasi tutti gli oppidi erano situati sull'estrema punta di angusti promontori, posita in extremis lingulis promunturiisque, in modo che nè era possibile accedervi per terra, neque pedìbus, durante i periodi di alta marea, nè per mare, neque navibus, perchè, col riflusso, minuente aestu, le navi andavano a finire nelle secche. All'alta marea seguiva la bassa, regolarmente, ogni dodici ore, horarum duodecim spatio: ogni ventiquattro ore pertanto lentissimo e quasi inavvertito crescere e decrescere delle acque: e così, sia l'alta che la bassa marea erano ostacolo a regolare attacco degli oppidi. Al culmine dell'alta marea, a stretto abbraccio delle acque, gli sparsi oppidi pur potevano presentare non sgradite parvenze; ma la bassa marea,


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ponendo a nudo gli angusti e brulli promontori, li mostrava, quali erano, rudimentali fortilizi di rozza gente di mare. C'è traccia sicura del travaglio durissimo a cui Cesare sottopose subito, appena colà giunto (primi di giugno, forse), le truppe di cui disponeva; questa: e se qualche volta si riusciva - con dighe di terra e pietre portate all'altezza delle mura - ad allontanare il mare e creare un passaggio, ecco che gli abitanti del/' oppido minacciato - a mal partito per l'imponenza dei lavori e disperanti della lor sorte - facevano approdare un gran numero delle tante navi che possede,,ano, imbarcavano tutte le loro cose, sua deportabant omnia, e si ritiravano nei più vicini oppidi, in proxima oppida. Scacciati da un oppido, riprendevano a resistere nelle stesse condizioni naturali in un altro. Nemico inafferrabile. Pertanto, ben tre legioni, costrette a estenuante lavoro in acqua, si trovarono impotenti a ottenere una qualche soddisfazione su un pur meschino nemico: ogni oppido con pena raggiunto e conquistato si rivelava vuoto di persone e di beni. Situazione di giorno in giorno più pesante, che durò gran parte della stagione operativa; - da giugno, forse, a fine agosto. Cesare dice: « / nemici continuarono con questa tattica gran parte del/' estate, tanto più agevolmente in quanto le nostre navi erano trattenute da tempeste, e grandissime ( in un mare vasto e aperto con grandi movimenti di marea e nessun porto o quasi) erano le difficoltà della navigaàone, summaque diffìcultas navigandi » . Forse contava che l'apparizione della flotta di Decimo Bruto avrebbe seguìto presto il suo arrivo in quel di Vannes. Dice: « Dopo che parecchi oppidi furono espugnati, quando compresi che sì gran fatica era inutile, frustra tantum laborem , - l'impossessarsi di oppidi non impediva la fuga del nemico, nè in altro modo potevasi a questo nuocere - presi la decisione di aspettare la flotta, statuit exspectandam classem ». Che quel nemico fosse afferrabile solo con le navi lo potè dunque dire 5010 la dura esperienza di tre mesi di lavoro di dighe.

Ma Decimo Bruto giungerà in tempo, ossia a stagione ancora proplZla, per ottenere con le navi ciò che non s'è potuto con le dighe? L a flotta dei Veneti e coalizzati - sulla quale, come abbiamo testè inteso, principalmente quei popoli fanno affidam"ento - farà entrare la flotta romana nella Baia di Quiberon e le consentirà indisturbate operazioni di oppido in oppi do? Il tragitto che doveva compiere la flotta romana, ·dall'estuario della Loira alla Baia di Quiberon, non era invero lungo; ma - a parte che l'appronta-


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mento del naviglio Potè richiedere più tempo del previsto - è soprattutto da considerare che le « naves longae » o da guerra, a remi e bassi gli scafi, potevano navigare fuori estuario solo in condizioni di mare favorevoli.

Invece : le navi dei Veneti e coalizzati erano costruite e armate coi seguenti criteri: - le carene alquanto più piatte delle carene mediterranee, allo scopo di superare meglio i bassifondi durante il riflusso della marea; - prore e poppe idonee, per altezza e fattura, a sostenere la grandezza delle onde nella tempesta; - gli scafi interamente di quercia, in modo da poter resistere a qualsiasi violenza delle onde; - le strutture interne inteste di spessi tavoloni inchiavardati con caviglie di ferro grosse un pollice; - le àncore assicurate a catene di ferro invece che a funi. Ecco, infine, in che consisteva il « motore »: pelli speciali, lavorate molto sottili, invece di vele, pelles pro velis; - e ciò sia per mancanza di lino o ignoranza del suo uso sia perchè, più verosimilmente, non ritenevano le vele di lino atte a sufficienza nè alle tempeste e ai venti dell'Atlantico, tantas tempestates Oceani tantosque ìmpetus ventorum, nè a sospingere navi tanto pesanti. In caso di scontro fra le due flotte, unico vantaggio romano era la velocità dovuta al lavoro dei remi, celeritate et pulsu remorum. Tutto il resto era a favore delle navi venete, meglio adatte a quei mari tempestosi: data la loro robustezza, le navi romane nè potevano danneggiarle col rostro, nè, data l'altezza, sviluppare un proficuo tiro dal basso, nè, sempre a cagione dell'altezza, facilmente agganciarle con lancio di arpioni. Inefficaci gli speronamenti, ridotta l'efficacia del tiro, difficoltoso l'abbordaggio: ai Romani non restava che la maggiore mobilità. Ma anche questa condizionatissima allo stato metereologico: accadeva che le navi venete, quando il vento cominciava a infuriare, potevano affidarsi a esso e resistere agevolmente alla tempesta; esse inoltre avevano la possibilità - larga e piatta la carena - di fermarsi senza troppi pericoli sui bassifondi, nè a bassa marea - robusti com'erano gli scafi - potevano gran che temere dall'urto contro rocce e scogli: tutti pericoli che alle navi romane potevano riuscire fatali. Naviglio atlantico, quello dei Veneti e coalizzati, nel più completo significato del termine; naviglio mercantile idoneo a grossi trasporti ma che in questa occasione era stato attrezzato anche per la guerra.

LA BATTAGLIA NAVALE DI SAINT GILDAS.

Finalmente, la flotta di Decimo Bruto raggiunse Cesare (ultimi di agosto?).


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Appena essa fu scorta dal nemico, circa duecentoventi navi venete e alleate, attrezzate e armate di tutto punto, paratissimae atque omni genere armorum ornatissimae, uscite dal porto, vennero a schierarsi di fronte alle nav1 romane. Saremmo - ipotesi, ripetiamo, più che accettabile - all'imbocco della Baia di Quiberon: le duecentoventi navi sarebbero uscite dall'estuario del fiume Auray e lo schieramento delle due flotte, e in definitiva la battaglia, sarebbe avvenuto nelle acque di Saint Gildas. Veneti e collegati avevano dunque già deciso di impegnarsi a fondo non appena la flotta romana fosse apparsa nelle acque del Morbihan: erano del tutto sicuri di ,sè.

La battaglia avvenne alla presenza di Cesare e di tutto l'esercito, in conspectu Caesaris atque omnis exercitus. Le tre legioni trovavansi quindi nella penisola di Rhuis; ma è lecito immaginare che anche i Veneti, dai più alti oppidi, parteciparono, occhi e cuore, all'avvenimento. Si può dar per certa una crisi iniziale della flotta romana: nè Decimo Bruto, comandante della flotta, nè tribuni e centurioni che erano a capo delle singole navi avevano chiaro in mente ciò che si dovesse fare, quale tattica adottare. Essi sapevano che col rostro - insufficiente la forza d'urto della « nave lunga » contro la massiccia nave avversaria - non e'era niente da fare, rostro noceri non posse; che, sebbene essi avessero innalzato sulle proprie navi torri per tiratori - una a poppa e una a prua, probabilmente l'altezza delle poppe delle navi barbare, altitudo puppium, superava quelle torri, di modo ·che - ripetizione che meglio rivela la gravità del fatto · dal basso non era facile colpire i bersagli, mentre i proiettili dei Galli cade· vano con maggiore efficacia. I Romani, invero, avevano predisposto uno strumento che, per quanto rudimentale, si rivelò a essi prezioso; ma ora che ne vedremo l'impiego non sarà difficile desumere che il suo rendimento non potè essere efficace subito. Lo potè quando le navi romane presero confidenza, e non solamente contatto, con le navi nemiche: laboriosi approcci, audaci e nel contempo sfuggenti, a quegl'imponenti e forti scafi che potevano respingerle e affondarle col semplice urto. Certa, dunque, una crisi iniziale·: quasi certo, verrebbe di dire, che le prime ore della battaglia siano state ai Romani affatto sfavorevoli. Una sola cosa - ecco il prezioso strumento - predisposta dai Romani fu loro di grande utilità: falci affilatissime, falces praeacutae, - di forma non dissimile a quelle che si adoperavano contro le mura - fissate in cima a · lunghe pertiche. Di un arnese di largo uso ossidionale - quando falce vera e propna


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per recidere steccati e quando specie di uncino per strappar pietre da mura già squassate - era stata fatta (ma non si dovè trattare di ritrovato inventato in questa circostanza) un'arma offensiva marittima. L'unica sostanziale debolezza delle navi venete, come abbiamo già avvertito, era il « motore »: le vele, e solo le vele, ne consentivano il movimento, non esistendo in esse, neppure potenziale, una qualsiasi organizzazione rematoria. Riusciti che si fosse, in qualunque modo, a interrompere l'azione delle vele, quelle navi divenivano all'istante, per immobilità, vulnerabilissime. E perciò a un certo punto della battaglia la tattica delle falci dovè cominciar a dare qualche positivo risultato. Le veloci « navi lunghe » - in giostra attorno alle lente navi venete fecero l'occhio alla preda: sbucavano da esse lunghissime pertiche che, superando l'alta fiancata della nave avversaria, prendevano sotto l'azione della falce le funi con cui le antenne, portatrici delle vele, erano legate agli alberi maestri. Se quindi la falce recideva le funi, antenne e vele precipitavano. T attica difficile e rischiosa: chè, se la buona riuscita tardava, la nave romana così compromessa subiva più a lungo gli effetti del tiro dall'alto. A guidare le pertiche per portare le falci al punto giusto provvedeva l'occhio e il braccio dei marinai, o legionari che fossero, a recidere le funi, l'impulso dei remi: allorchè con le falci si riusciva ad afferrare e tirare le funi, queste, per effetto del forte avvio dato coi remi alla nave, navigio remis incitato, - e quindi alla pertica saldamente tenuta all'altra estremità - si rompevano, funes praerumpebantur. Recise le funi, cadevano di conseguenza le antenne: e siccome tutte le speranze, per le navi galliche, erano riposte sulla manovra delle vele, omnis spes in velis armamentisque, tolta questa possibilità, le navi diventavano all'istante inutili. Una volta interdetta l'azione delle vele, il resto della lotta era questione di coraggio: e in questo i Romani riuscivano tanto più facilmente superiori in quanto si combatteva sotto gli" occhi di Cesare (visti, dalle navi, attendamenti e vessilli del quartier generale) e di tutto l'esercito: non c'era perciò azione di qualche rilievo che potesse rimanere nascosta. Tutti i colli e le alture donde si vedeva da vicino il mare, unde erat propinquus despectus in mare, erano infatti occupati dal 'esercito.

I Veneti erano tanto sicuri di sè che si impegnarono alla costa troppo vicino, rinunciando all'enorme vantaggio sul nemico che a essi proveniva da altezza e dislocamento delle lor navi in caso che fosse sopraggiunta, anche non forte, una mareggiata; forse non poterono fare diversamente: ma la cosa si risolse tutta a vantaggio dei Romani che, mareggiata o sfavorevole combattimento, avrebbero potuto sempre tenersi in condizione di riparare nelle numerose e sì vicine insenature e ricevere protezione dalle forze di terra.


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La tattica delle falci cominciò, di ora in ora, ad affermarsi: abbattute le . antenne, due o tre navi lunghe circondavano la nave nemica ridotta all'immobilità e i soldati si lanciavano energicamente all'abbordaggio. Quando i barbari si resero conto di tal tattica, avendo già perduto parecchie navi e non trovando alcun rimedio da opporre, nullum auxilium, - dovettero far invano appello ai loro istinti di navigatori millenari - tentarono di salvar:i con la ritirata. Se.bi van(: le conseguenze di aver preso l'iniziativa della battaglia senza immediata necessità - con la fine della buona stagione Cesare avrebbe certo :as.:1.:ito quelle zone - e, soprattutto, senza piena consapevolezza della relazione - a essi, come abbiamo inteso, pur nota - fra l'Oceano e la limitata potenza, se dalle coste si fosse alquanto allontanato, del naviglio romano. Ma la salvezza, ora, potevano conseguirla col rientrare nel Golfo del Morbihan doppiando punta Novalo o anche rifugiandosi in una delle tante insenature settentrionali della Baia di Quiberon: colossi fra pigmei, la velocità stessa della rotta, appena un po' favorevole il vento, avrebbe reso impossibile la continuazione della tattica delle falci.

Però a questo punto le navi venete furono colpite, non si può dire diversamente, da crudele fato. E già esse avevano manovrato per allontanarsi col favore del vento, quando sopraggiunse una così assoluta bonaccia, tanta subito malacia ac tranquillitas, che non si poterono più muovere. Cesare dice: « Circostanza questa che moltissimo valse a risolvere la situazione ». Coraggiosa e positiva la tattica delle falci e, dopo le prime incertezze, ognora m prevalenza l'aggressività degli equipaggi romani: e su ciò non vi sarebbe alcun dubbio; ma potrebb'essere altrettanto fuori dubbio che senza la « tanta malacia ac tranquillitas » non si sarebbe avuta la disfatta della flotta veneta. Tal circostanza, dunque, moltissimo valse a risolvere la situazione ... perchè le navi romane attaccarono le navi nemiche espugnandole a una a una - con abbordaggio o, se resistevano, dandole alle fiamme - e soltanto pochissime, perpaucae, col favore della notte, raggiunsero un rifugio. Battaglia lunga, un dieci ore: si combattè dalle nove circa sino al tramonto.

MON I TO PESANTE.

Cor. la battaglia navale ebbe fine la guerra dei Veneti e di tutte le genti costiere.


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Veneti e alleati avevano in quei luoghi giuocato tutto per tutto : avevano colà raccolto tutta la loro gioventù, tutti gli uomini anche anziani, di qualche esperienza e dignità, tutte le navi ovunque disponibili. Sicchè, perdute le navi, i superstiti non avevano nè dove rifugiarsi - i profughi, più specialmente, del territorio di Vannes e della penisola di Rhuis - nè come difendere i loro oppidi. Dovettero perciò porsi subito sulla strada della resa incondizionata. Sottomisero se stessi e tutti i loro beni a Cesare, se suaque omnia Caesari dcdiderunt. Dice: « Decisi di punirli severamente perch,è i barbari osseruassero per l'avvenire il diritto degli ambasciatori, ius legatorum. Pertanto: feci uccidere per intero il Senato, omni senatu necato, e vendere gli altri ali' asta». Non vendita in massa come per gli Aduatuci, c'è chi opina, ma solo di persone di più elevata condizione e valore. Si aggiunge però, questa volta, la soppressione indiscriminata dei responsabili della cosa pubblica. Tutta la Gallia, dal giorno che il proconsole ha passato il Rodano, - un ventisette mesi fa - sotto terrore: le stragi di Trévoux, di Montmort, di Epfig, di Neuf Mesnil, e ovunque scie rosse, lunghe chilometri, degli inseguimenti di cavalleria. Ma l' « omni senatu necato » è monito pesante, d'ora innanzi, per chiunque è al governo di un popolo. FORESTA E TEMPESTA.

Dice: « Sebbene la buona stagione fosse quasi finita, tuttauia, poichè, · sottomessa tutta la Gallia, soltanto M arini e Menapt erano ancora in armi e non mi aveuano mai mandato messi di pace, stimando che la campagna contro questi popoli potesse risolversi in breue tempo, condussi l'esercito nel loro paese». Freccia numero sei? Una nuova impresa, comunque, allo spirare dell 'estate, ossia a fine settembre; e siccome dal Morbihan al territorio di Boulogne - dove sembra che avesse inizio il territorio dei Morini - intercorrono circa seicento chilometri, Cesare giunse in Piccardia nel la seconda metà di ottobre; avrebbe cioè intrapreso una campagna - certamente per errate informazioni - che si mostra già compromessa in partenza, anche solo per la stagione. Nè si può dire quali e quante forze portasse con sè: forse le tre legioni del ~orbihan e le tre di Titurio Sabino che poterono a lui unirsi durante la marcia. Ma i Morini (chè i Menap1, fra Schelda e Mosa, dovè subito rin unciare a raggiungerli) si misero a condurre la guerra con ben diversa tattica dagli


altri Galli, longe alia ratione. Avendo essi costatato che i maggiori popoli erano stati battuti e disfatti per essere ricorsi alla battaglia in campo aperto, si radunarono con tutti i loro beni nelle foreste e fra le paludi che coprivano senza interruzione vaste estensioni del loro territorio. Fecero, impressionante sempre, il vuoto; e i Romani ne risentirono, subito, gli effetti: quando Cesare raggiunse le prime zone selvose dette subito inizio alla fortificazione di un campo - uno stabile centro logistico, probabilmente - senza che il nemico si facesse vivo; ma, mentre i soldati erano sparsi sui lavori, il nemico uscì improvvisamente da tutte le parti della selva attaccandoli. I Romani, prese rapidamente le armi, li respinsero nelle selve uccidendone parecchi: ma, spintisi troppo lontano, e in terreno più intricato, perdettero alcuni dei loro. La sorpresa dovè però essere più dura di quanto qui non appaia se giudichiamo dalla tattica che i Romani, dopo di essa, furono costretti ad adottare: nei giorni successivi, Cesare cominciò a far tagliare gli alberi, e, per evitare sorprese sui fianchi a soldati senza sospetto o senz'armi - più specialmente, diremmo, ai convogli e relativo personale degli ordinari servizi - faceva collocare i tronchi sui due lati, su tracciato in direzione del nemico, a mo' di trincea, pro vallo. A destra e a sinistra dell'itinerario, due muri, quasi lungo camminamento di approccio: procedimento lentissimo, di estrema circospezione, che potrebbe anche spiegarsi col timore che incutevano, di per sè, quelle immense foreste quasi ancora vergini. In pochi giorni fu abbattuto con incredibile celerità un gran tratto di selva; e i Romani avevano già raggiunto il bestiame e i primi bagagli del nemico, che continuava la ritirata nei fitti boschi, allorchè scoppiarono temporali così forti che dovettero interrompere il lavoro poichè, dato il persistere delle piogge, non era più posJ:bile la permanenza sotto le tende, sub pellibus. Foresta e tempesta: la freccia numero sei, spuntatasi, è costretta a invertire la rotta. Dice: « Feci devastare tutti i loro campi e incendiare villaggi ed edifici ».

Ma siamo ormai ad autunno inoltrato: ali'esercito furono assegnati quartieri d 'inverno presso gli Aulerci e i Lexovt - territori, come abbiamo già detto, di Evreux e Lisieux - nonchè presso altri popoli - quali non è detto - che avevano fatto quesfultima guerra. Tito Labieno al Reno, Publio Crasso in Aquitania, Titurio Sabino in Normandia, Cesare e Decimo Bruto nella Bretagna; e infine questa minaccia sì dappresso ai Morini in Piccardia. Una grande e violenta ricognizione strategica - appena vigilata alle spalle, sul Reno, - ha portato le forze romane nei territori più importanti della costa atlantica·: dai Pirenei, si può dire, alla Manica.


Cap. IV. - RENO (Anno 55 avanti Cristo)

USIPETI E TENCTERI U N 'ALTRA MIGRAZIONE.

Nell'inverno che seguì le operazioni atlantiche, - era l'anno del consolato di Gneo Pompeo e Marco Crasso --- gli Usipeti e i Tencteri, popoli germanici, Usipetes Germani et item T enctheri, in grande moltitudine, passarono il Reno non lontano dalla foce. Passaggio che sarebbe avvenuto (mese di gennaio, approssimativamente) in quel di Klev, a sud - est di Nimega. Causa della migrazione fu che gli Svevi da parecchi anni li premevano senza tregua con la guerra, impedendo loro la coltivazione dei campi. Erano svevi, probabilmente, Ariovisto e la sua gente; sveve le cento, più o meno reali, comunità di Nasua e Cimberio; svevi, ora, gli indiretti propulsori di questa grossa migrazione.

Ma chi sono, secondo Cesare, gli Svevi? Un titolo, anzitutto, che venti secoli fa invidiabile era certamente: gli Svevi sono senza paragone il popolo più grande e più bellicoso di tutte le genti germaniche.

Una famiglia di popoli, quasi al centro del continente europeo, che ci vorranno circa tre secoli prima che <liscopra e distenda le sue numerose .e potenti articolazioni nel mon<lo romano. Si dice che abbiano cento cantoni, da ciascuno dei quali traggono ogni anno mille armati per far guerra fuori confine. Tutta la loro organizzazione civile era, del resto, di tipo guerriero: quelli che rimangono in paese prot)vedono al sostentamento di se stessi e degli armati; però, nell'anno successivo, 12. -

u.s.


sono essi che danno il cambio ai compagni in armi. In tal modo, non s'in.terrom pe nè la coltivazione delle terre nè l'arte e la pratica della guerra. Severe le loro leggi contro qualsiasi forma di « proprietà » : non esistono presso di loro terre di proprietà privata, privati ac separati agri apud eos nihil est, e non si può rimanere nello stesso luogo per coltivarlo più di un anno. Comune a tutte le genti germaniche l'avversione alla proprietà; e di ciò numerose le ragioni addotte (frutto, evidentemente, di non pacifiche esperienze sociali): chi più ha più vuole, e l'agricoltore diventa facilmente ingordo di terra; e perciò: non vogliono eccessivi in grandi menti di proprietà e che quindi i più potenti possano cacciare dalla terra i più umili. Chi si crea comodità di vita è poi refrattario a lasciare il luogo dove se le è create, e impigrisce; e perciò: non vogliono che si edifichi con troppa cura per difendersi da freddo e caldo. La stabilità favorisce, con l'esuberanza della produzione e con gli scambi, la circolazione della moneta; ed essi temono il denaro: che non sorga la cupidigia del danaro, ne oriatur pecuniae cupiditas, madre di fazioni e discordie. Sicchè, concludendo: quando la proprietà terriera è strettamente commisurata alle braccia che la lavorano, quando l'instabilità dell'agricoltore non consente che un terreno diventi gran ~he migliore di un altro, quando è battuto in breccia il desiderio di confortevole e magari vistosa abitazione, quando è tolto di mezzo l'accumulo di danaro, quali rivendicazioni proletarie si possono ancora avanzare? E infatti: essi vogliono che la plebe rimanga tranquilla, vedendo ciascuno che i suoi beni sono uguali a quelli dei più potenti. E così, per avversione alla proprietà privata, tardavano il progredire dell'agricoltura quando da loro non lontano questa era già primo fondamento di sviluppo civile e la guerra stessa più traeva motivo da conquista e difesa di suolo coltivato: gente, si direbbè, dalla terra istintivamente disancorata come presentisse il suo futuro. Della terra, del resto, non troppo avevano bisogno: più che di grano, si cibano di latte e di carne e si dedicano molto alla caccia. Individuabili, secondo Cesare, anche le cause dell'alta statura che tanto aveva preoccupato i legionari a Besançon: la caccia, il genere di nutrimento, il quotidiano moto, la libertà di vita ( sin da fanciulli non sono abituati ad alcun dovere o disciplina, e nulla, assolutamente, fanno contro volontà), un tal genere di vita aumenta le loro forze, e foggia uomini di straordinaria grandezza. Visti da vicino fanno ancora un po' impressione: con l'abitudine, sono giunti al punto che, nonostante il clima freddissimo, non hanno altro vestito che pelli e anche queste sì scarse che la maggior parte del corpo rimane scoperta.

Mercati magrissimi alle altrui esportazioni : per~ettono, sì, l'accesso ai mercanti, ma più per vendere il proprio bottino di guerra che per bisogno di


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importazioni. Assolutamente proibita l'introduzione del vino, bevanda che, secondo loro, rende gli uomini effeminati e meno resistenti alle fatiche . E persino i cavalli ( passione dei Galli: li comprano a qualsiasi prezzo), anche se li importano non li adoprano, e con quotidiano esercizio rendono invece d'una straordinaria resistenza cavalli piccoli e deformi nati nel loro paese. Ma ecco un dato militare concreto - non del tutto nuovo per noi che ricordiamo i seimila cavalieri di Ariovisto - che Cesare, assetato com'era di buona cavalleria, dovè considerare con particolare attenzione: nelle battaglie equestri, gli Svevi spesso saltano giù da cavallo e combattono a piedi: i cavalli sono ammaestrati a restare nello stesso posto dove t cavalieri li lasciano, sì che, al bisogno, questi possono rapidamente ritrovarli. Montano a pelo: considerano vergognosa debolezza usar selle, e perciò anche in pochi affrontano qualsiasi numero di cavalieri che sella adoperi. Politica estera spiccia, violenta, e meglio si direbbe nessun a politica: gll Svevi credono che per un popolo la gloria più grande sia quella di avere t utt'intorno a sè quanto più possibile terre abbandonate, maximam esse laudem quam latissime a suis fini bus vacare agros; viso feroce, insomma, coi confinanti anzichè tentativi, almeno, di sopportabile convivenza: essi ritengono che un tal vuoto possa meglio d'ogni altra cosa dimostrare che un gran numero di popoli non sono in grado di resistere alla loro forza . Quale, per tutte le genti germaniche, la maggior lode? Avere attorno a il sè deserto, circum se solitudines. Qual maggior segno di possanza? Che nessuno osi restare vicino a essi, quemquam prope consistere. In qual infallibile modo provvedere alla propria sicurezza? Eliminando il timore, col vuoto, di improvvise incursioni, repentinae incursionis timore sublato. Si dice pertanto che da una parte del territorio degli Svevi - a oriente i campi siano abbandonati per circa novecento chilometri. L'esagerazione è evidente nel « circa novecento chilometri » ; ma, ·quanti che in realtà fossero i chilometri, anche soli novanta, essa sembra che dia maggior risalto alla notizia che segue. Dall'altra parte, - a occidente, verso il Reno - gli Svevi confinano con gli V bt, succedunt Ubii, che costituiscono popolo potente e florido quanto lo permettono le condizioni della Germania, e sono un po' più civili, paulo humaniores, degli altri della loro razza sia perchè toccano il Reno, Rhenum attingunt, - abitavano il territorio a nord di Colonia - sia perchè hanno frequenti rapporti con. mercanti e, data la vicinanza, st sono abituati ai costumi dei Galli. Ovunque il vuoto o l'assenza di contrasto, dunque, tranne, a occidente, la diga degli Ubii.


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Gli Svet'Ì, dopo essersi misuratl con gli U bii in guerra parecchie volte, - senza però riuscire a scacciare dal proprio paese popolo sì grande e importante - li hanno resi tributari, diminuendoli, molto, di forza e prestigio. Dall'imposizione del tributo all'aggiogamento il passo è breve: anche a occidente dunque il vulcano svevo fa sentire i suoi effetti.

E ora si aggiunga, riprendendo il filo principale del discorso, la parte che agli Svevi è spettata nella migra"zione degli Usipeti e Tencteri.

UN

FELICE STRATAGEMMA.

Nelle stesse condizioni degli Ub, vennero a trovarsi Usi peti e Tencteri: resistettero per molti anni all'incalzare degli Svec i ma alla fine, cacciati dalle loro terre, dopo aver t·agato tre anni per molti luoghi della Germania, triennium vagati, giunsero al Reno. 1

Usipeti e Tencteri al Reno.

E lo passarono, come abbiamo appena inteso, non lontano dal mare. Non si sa quale fosse il paese donde furono scacciati nè i luoghi della Germania - probabilmente la Westfalia - per i quali, ospiti certamente non graditi, vagarono per tre anni; ma, comunque, a un ·certo momento, essi si diressero verso il basso Reno e invasero proprio quelle terre che Cesare, a


I

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cagione di foresta e tempesta, non aveva potuto raggiungere con la fugace freccia numero sei. Infatti: le terre alle foci del Reno erano abitate dai Menap1 che avevano campi edifizi villaggi su entrambe le rive del fiume. Tutte le terre dell'ultimo tratto del Reno - da Wesel, approssimativamente - erano dei Menapì, sebbene per paludi e foreste solo in parte abitabili.

All'annunzio dell'avanzata degli Usipeti e Tencteri, i Menapi, spaventati dal sopraggiungere di tanta moltitudine, posero fra sè ed essa l'ostacolo del fiume: abbandonarono tutte le loro residenze di riva destra e, presidiata la riva sinistra, si dettero a impedire di qui il passaggio ai Germani. Situazione che però non durò a lungo: Usipeti e Ten cteri, dopo aver tutto tentato, - non potevano passare nè con la forza, per mancanza di navi, nè di sorpresa, per la vigilanza dei difensori - ricorsero, per loro somma sciagura!, a un felice stratagemma. Finsero di far ritorno ai propri paesi; ma, dopo essersi allontanati per una marcia di tre giorni, ritornarono su quella riva destra donde erano partiti; e vi ritornarono in modo fulmineo: rifacendo in una sola notte, una nocte, con la cavalleria, equitatu, - e, si potrebbe aggiungere, con quanta più gente montata poterono - tutta la strada. Sorpresero, così, i Menapi di riva destra, i quali, non dubitando di nulla, appena avuta certezza dell'allontanamento dei Germani, erano ritornati senza timore nelle loro abitazioni d'oltre Reno. I Menap1 di riva destra furono uccisi; ma la stessa sorte toccò a quelli dell'altra riva : gli aggressori, impadronitisi delle imbarcazioni, questa volta esistenti, passarono il fiume prima che quelli di riva sinistra avessero sentore dell'accaduto. Usipeti e Tencteri, via via occupate tutte le sedi dei Menap1, si nutrirono per il resto dell'inverno con le provviste dei vinti, se eorum copiis aluerunt. Usipeti e Tencteri erano - e su questo forse potremo, anche in seguito, trovarci tutti d'accordo - semplicemente affamati.

hfPREVISTA E SERIA ~(1:,,/ACCIA.

V si peti e Tencteri avevano lasciato il lor paese in massa, - anche vecchi donne bambini - e passato il Reno in numero (anticipiamo il dato) di quattrocentotrentamila, numero capitum quadringentorum et triginta milia :· migrazione, anche solo numericamente, più imponente di quella di Ariovisto e degli Elvezt


Sicchè, tutte e tre le Gallie vennero subito a sapere, per radio, che circa mezzo milione di Germani erano a occidente del Reno. Cesare (che s'era portato, come al solito, in Italia, sebbene questa volta non l'abbia segnalato) dice : « Informato di questi avvenimenti, temendo la debolezza di carattere dei Galli, infirmitatem Gallorum, - facili a prender decisioni e amanti, in genere, di novità - pensai che non ci fosse da fidarsi di loro ».

Dei Galli non c'è da fidarsi. La viva tendenza, nei Galli, allo scambio delle idee, la comunicativa briosa e pronta: fenomeno anche dovuto al loro ambiente geografico agevolmente percorribile quasi in ogni senso, sì favorevole all'incontro. I Galli hanno l'abitudine di costringere i viaggiatori a fermarsi anche contro voglia, interrogandoli su ciò che ognuno di essi abbia comunque potuto udire e sapere. Quasi festoso strepito negli abitati all'apparizione di mercanti: negli oppidi, la folla circonda i mercanti e li costringe a dire da quali regioni vengano e quali nuove ne portino. Sulla base, poi, di tali informazioni, prendono spesso decisioni gravissime, per poi, naturalmente, pentirsene subito dopo, dato che si fidano di dicerie senza fondamento, e la maggior parte degli interrogati - gioviali viaggiatori e mercanti del buon tempo antico - rispondono inventando ciò che ai postulanti può far più piacere, ad voluntatem eorum. Anche sempre pronti, questi Galli, a lanciare l'edizione straordinaria; a disturbare, - sì, con la radio - il silenzio dei campi e la pace d'ogni più piccola comunità rurale, come ce lo attesta (giova anticiparlo) il suono del seguente inciso: ubi guae maior atque inl ustrior incidit res clamore per agros pagosque significant hunc alii deinceps excipiunt et proximis tradunt: quan.do qualche fatto importante o comunque notet,ole accade, a gran voce, per campi e villaggi, lo annunziano: questa t'oce altri subito raccolgono e ai vicini trasmettono.

Dice: « Conoscendo queste abitudini, per non trovarmi di fronte a una guerra di maggior gravità, partii per raggiungere l'esercito più presto del solito ». Dovè raggiungerlo ai primi di marzo; suo quartier generale, si congettura, Amiens, quella Samarobriva o « ponte sulla Samara >, che adduceva, come ricordiamo, nel territorio dei Nervt Colà giunto, venne a sapere che quel che sospettava era at'venuto: parecchi popoli gallici avevano inviato a quei Germani ambascerie, invitandoli ad avanzare ad occidente del Reno e dicendosi pronti aiutarli in tutto ciò che avessero cl11esto.

ad


Felice inizio di m1graz1one per Usipeti e Tencteri: imprevista e seria minaccia per Cesare. Ma quali popoli hanno inviato am bascerie? la generica espressione « parecchi popoli » non potrebbe celare, a miglior giustificazione di quanto accadrà, un 'invenzione? Interrogativi, da che mondo è mondo, di scarsa o nessuna imPortanza : ambascerie numerose numerosissime le avrebbe presto o meno presto richiamate la promettente indole e potenzialità guerriera degli Usi peti e Tencteri : fortissima la cavalleria, di cui il primo squillo ci è giunto con gli Svevi, - ma presto verrà il resto - e parecchie mi gliaia, potremmo calcolarne si no a quarantamila, gli armati a piedi. Al giungere di Cesare presso l'esercito, Usipeti e T encteri, incoraggiati dalle promesse loro fatte, avevano già esteso il campo delle loro scorrerie ed erano giunti nel territorio degli Eburoni e dei Condrusi clienti dei Treveri. Con spinte ricognizioni di cavalleria, allo scopo di procacciarsi viveri, avevano risal ito la Mosa, sino al territorio - se attinsero i Condrusi - di Liegi. Dice : << Convocati 1 capi della Gallia, principibus Galliae evocatis, ritenni di non dir loro nulla di quello che avevo saputo, limitandomi a blandirli e tranquillizzarli» . Abilità dissimulatrice ed equilibrio politico di fron te agli autori, ora in sua presenza, di ambascerie clandestine.

Ma il « principibus Galliae evocatis » è fatto importante di per sè. Il proconsole si attribuisce la faco ltà - è la prima volta che lo segnala di ordinare la riunione presso di sè delle autorità della Gallia. Siamo ormai lontani - tre anni : appena vinti gli Elvezt e incombente Ariovisto - dal libero concilio di Bibracte: questa volta le autorità galliche si riu niscono su invito di straniero. Molte cose sono cambiate in Gallia da quel Concilio. Quasi dappertutto, ora, - anche in quella Gallia, ancora molta, che non s'è ancora a noi svelata - ove permanenti e ove in temPoranee missioni (e qua e là, sia pur fugacemente, ci appariran no), residenti, ricevitori, esperti commerciali, o come altro si voglia chiamarli : i residenti per suggerire ai magistrati gallici gli indirizzi della Politica interna e con i vicini; i ricevitori per la riscossione dei tributi; gli esperti per gli scambi commerciali, pubblici e privati , fra G allia e Italia.

Dice : « Convocati i capi della Gallia, . .. ordinai loro i contingenti di cavalleria e annunciai la mia intenzione di far guerra ai Germani, bellum cum Germanis gerere consrituit. In di: provveduto ai rifornimenti di grano e scelti


e inquadrati i contingenti di cavalleria, iniziai la marcia verso i luoghi dove, secondo le informazioni, si trovavano i Germani>>. Otto legioni e la cavalleria rinforzata lasciarono - forse a metà aprile la Normandia, dove avevano svernato, e si avviarono al Reno per raggiungere, approssimativamente, il territorio a sud di Nimega. Una marcia perlomeno di venti giorni.

LA

CO~DIZIONE FONDAMENTALE.

Cesare era a pochi giorni di marcia da Usipeti e Tencteri quando gli giunse di costoro un'ambasceria. Queste le dichiarazioni degli ambasciatori: - Noi Germani non intendiamo di prendere iniziativa di guerra contro il Popolo Romano, neque priores Populo Romano bellum inferre: tuttavia, se provocati, non rifiuteremo la lotta. Perchè 'juesto è l'imperativo tradizionale della gente germanica: contro aggressore difendersi e non implorar pace, resistere neque deprecari ... Non è premessa provocatoria; è premessa - date le circostanze: il pane per quattrocentotrentamila bocche - che imposta con fermezza una grave questione. - ... Aggiungiamo però che ci troviamo qui contro ogni nostra intenzione perchè cacciati dal nostro paese. Se, pertanto, i Romani desiderano restare con noi in buona relazione, noi possiamo divenire utili loro amici, posse iis utiles esse amicos ... Venutisi a trovare, non di loro volontà, di fronte a un esercito romano, preferivano offrire i loro servigi ai Romani e non - sembrerebbe sottinteso a quei popoli gallici che già ne avevano fatto o ne facessero richiesta. - ... Possiamo divenire utili vostri amici: basterà che ci siano assegnate delle terre, oppure che ci sia lasciato il possesso di quelle che abbiamo conquistate con le armi ... Anch'essi, come l'elvetico Divicone, piegavano il capo: sarebbero andati ove avesse ordinato il generale romano; e gli offrivano, come Ariovisto, la loro opera guerriera. Ma vollero, in ultimo, alzar la voce. - ... Noi siamo inferiori ai soli Svevi ( ai quali, invero, non possono tener testa neppure gli dei immortali): degli altri popoli non ve n'ha alcuno sulla terra che noi non siamo capaci di vincere. Conclusione che però poteva essere anch'essa nella logica dei fatti: in qual modo, se non con l'apologia degli Svevi, potevano spiegare la loro trista condizione presente? Senonchè, proprio con questa conclusione, essi, i~avvertitamente, ponevano meglio in rilievo - sebbene chi li ascoltava non ne avesse affatto bisogno - il punto centrale, e fatale, della questione. Fu come se avessero detto:


se decidi la guerra, e pur ammesso che tu vinca, ricordati che devi logorare - se poco o molto, lo vedremo - le legioni che hai portato in Gallia per altri scopi.

Tutti i possibili aspetti di questa faccenda vanno ben fissati: chè, proprio per il modo con cui essa fu risolta, Catone, come si sa per altre vie, propose al Senato di consegnare Cesare ai Germani: Cesare, a giudlzio del secondo Catone, criminale di guerra.

Cesare dice: « Risposi nel modo che mi parve più opportuno, ma questa la conclusione: nessun accordo possibile fra me e voi finchè rimarrete nella Gallia, sibi nullam cum his am'.citiam esse posse si in Gallia remanerent ». Usi peti e Tencteri, pertanto, fra due fatalità inconciliabili: le necessità di vita, immediate, di una grossa comunità; la condiz:one romana che i Germani bandisce da suolo gallico. Ma anche Cesare in imbarazzo: quella migrazione che poteva essere incentivo di perturbazioni in Gallia non si poteva negare che per intanto a nul1'altro rispondesse che a bisogno di pane. Perciò la sua risposta non si fermò alla dura condizione; dopo pungente aforisma - rivalsa po'lemica all'alterigia guerriera di quei messi - e dopo una costatazione, vera o meno, di fatto, si chiuse con una proposta che poteva sembrare positiva: - Non è giusto (questo l'aforisma) che chi non può difendere il proprio paese invada l'altrui: d'altra parte (la costatazione di fatto), in Gallia non ci sono tante terre libere da potersi concedere, senza danneggiare altri, a una così grande moltitudine. Se volete (questa la positiva proposta), potete stabilirvi nel paes,: degli V bii, in Ubiorum fini bus considere. Messi degli U bii si trovano presso di me ( per lamentarsi delle offese degli Svevi e per chiedere il mio aiuto): darò ordini in tal senso agli UM, hoc se Ubiis imperaturum. Proposta che pertanto ribadisce la fondamentale condizione: Usi peti e Tencteri devono ripassare il Reno, e subito, chè Cesare stesso provvederà a dar ordini agli Ubii.

FERMATI, CESARE!

Gli ambasciatori dichiararono che avrebbero ciò riferito ai loro e che, presa una decisione, allo spirare di tre giorni sarebbero ritornati. Tre giorni, perciò, di tregua, consenziente Cesare. Ma non finì con tal accordo questo abboccamento. Prima di allontanarsi, quei signori fecero a Cesare la seguente richiesta:


186 che frattanto non portasse le sue truppe a essi più vicino, ne propius se castra moveret. Pensavano di poter vincolare alla propna volontà o necessità l'esercito romano, chiedendo che restasse fermo là dove si trovava tre giorni, sino al loro ritorno: Cesare rispose che neppure questo poteva concedere. Dice: « Sapet'o infatti che parecchi giorni prima avevano mandato oltre Mosa gran parte della loro cavalleria a predare e a raccogliere grano . . . La moltitudine degli Usipeti e Tencteri, fermatasi nel paese dei Menapi, viveva ora, a circa tre m esi dal passaggio del Reno, di razzie a largo raggio, giovandosi di una cavalleria, come presto avvertiremo, di eccezionale aggressività. Dice: « ... Perciò pensavo, che essi attendessero il ritorno di quei loro cavalieri e che per questo motit 0 volessero frapporre indugi». Vero meno vero o falso che i Germani tentassero di coprire con simulazioni il vero motivo della richiesta finale avanzata dai loro ambasciatori? Interrogativo che non si può fare a meno di porre; ma che ha scarsa importanza (anche, forse, nell'epoca atomica) : nel pieno diritto dei Germani e si potrebbe dire un dovere, qualsiasi simulazione sino al momento che le loro forze fossero di nuovo riunite; nel pieno diritto di Cesare, e si potrebbe dire un dovere, il sospettare quelle simulazioni a cui nelle stesse circostanze avrebbe fatto ricorso lui stesso, e chiunque. Interrogativo invece capitale - come quello che sino alla conclusione di questo avvenimento imporrà alla nostra attenzione l'eterna peculiarità dell'esigenza militare - è quest'altro: quante potevano essere le probabilità che Usipeti e T encteri ubbidissero all'ingiunzione di ripassare pacificamente il Reno? Anche se contraria una sola, questa già sufficiente a porre il generale rç>mano sulla strada, irrefutabile, del sillogismo militare. Questo: motivo di preoccupazione il ritorno di « gran parte » della cavalleria nemica; la soluzione del conflitto da ricercarsi pertanto, pochissimi i giorni disponibili, prima di quel ritorno; la necessità, in conclusione, di avvicinarsi agli accampamenti germanici al più presto e il più possibile per prevenirvi quella cavalleria. Ma le probabilità contrarie erano più d'una, e quasi certamente tutte: onde nel generale romano la convinzione che Usipeti e Tencteri, affamati, non avrebbero ripassato il Reno se non con la forza. Tre giorni di immobilità chiedevano dunque all'esercito romano quegli ambasciatori: e Cesare rispose che neppure questo poteva concedere. Proseguì pertanto la m arcia. 1

Ed era giunto a non più di diciotto chilometri dal nemico allorchè gli ambasciatori germanici, secondo gli accordi, - allo spirare dei tre giorni -


fecero ritorno e, venuti in sua presenza durante la marcia, in itinere, - non avrebbero neppure atteso la fine della tappa - lo pregarono insistentemente, magnopere orabant, di non avanzare oltre, ne longius progrederetur. Fermati, Cesare! (Le due cupe sempiterne parole impetrative, quale che ne sia la seconda). · La richiesta a freddo di tre giorni addietro divenuta preghiera: magnopere orabant. Segno - i fatti che seguono non possono che confermarlo - che la proposta di Cesare aveva trovato, nelle discussioni collettive di quelle genti, tutt'altro che favorevole accoglienza. Usi peti e T encteri, spossati da tre anni di vita randagia, votati ora a tutto: e guerra e morte, piuttosto che riprendere le strade della fame. E siccome Cesare non aderì, neppure questa volta, alla loro richiesta, quegli ambasciatori ne fecero subito un'altra, estrema: gli chiesero di dar ordine ai cavalieri che precedevano la colonna - all'avanguardia - di astenersi dal combattere ... Richiesta che rivela forte turbamento di animi: gli ambasciatori paventavano lo spontaneo accendersi della lotta qualora la cavalleria romana fosse giunta molto vicino all'indignazione o addirittura al furore che essi sapevano di aver lasciato negli accampamenti dopo la discussione della proposta di Cesare. Quei signori, certo fra i maggiorenti dei loro popoli, chiedendo a Cesare misure di prudenza che sarebbe toccato a loro di imporre alla propria gente, mostravano di non dominare più la situazione interna, resisi ormai sgraditi, per aver consigliato prudenza, alla passione popolare inasprita dal riaffacciarsi degli stenti. Essi, dunque, dopo aver chiesto, nientemeno, che si fermasse l'avanguardia, - e in quale altro modo, se non fermandosi, la cavalleria romana avrebbe potuto esser sicura di evitare il combattimento? - così continuarono: Autorizzaci a inviare agli Ubii ambasciatori nostri. Se capi e Senato degli V bii ci daranno giurate garanzie, noi dichiariamo che accetteremo la tua proposta. Ma per far ciò ci devi concedere altri tre giorni di tregua, tridui spatium. Richiesta naturale e giusta: la complessa questione del trasferimento di circa mezzo milione di bocche in terra altrui pretendeva anche e, soprattutto, di essere trattata dalle parti interessate direttamente. (Solo si può osservare - senza possibile spiegazione - che tre soli giorni di tregua - la capitale degli Ubii pare che fosse dove oggi sorge Colonia - erano assolutamente insufficienti al bisogno). Ma la richiesta di trattativa diretta poteva anche voler dire: la tua proposta è priva di valore. Non vediamo perchè, su tuo ordine (e che conti tu oltre Reno?), gli Ubt dovrebbero regalarci parte delle loro terre. E anche se essi, per farti cosa grata, ti risponderanno positivamente con vaghe promesse,


188 che avverrà quando mezzo milione di persone affamate giungerà sul posto? · Se dunque tu ritieni concreta la tua proposta, non potrai rifiutarti di attendere l'esito delle trattative dirette. Cesare dice: « lo pensavo che tutto questo tendesse sempre allo stesso scopo: guadagnare altri tre giorni in attesa che ritornasse la cavalleria». Senz'altro così, può darsi, questa volta. Il sillogismo militare è uguale per tutti: a Cesare, lecito, sin dal primo momento, non fermarsi; ai Germani, - più specialmente ora che meglio appare la nessuna consistenza della proposta romana - lecita la finzione.

(( NIHIL SPATI! ».

Cesare dunque - ritenendo che il motivo della trattativa diretta con gli Ubt simulasse l'attesa della cavalleria - così rispose agli ambasciatori: Oggi non avanzerò più di sei chilometri e allo scopo di rifornirmi di acqua, aquationis causa. Ritornate da me domani nel maggior numero possibile, quam frequentissimi, perchè io possa prendere in esame le vostre riclueste. Un'avanzata per quel' giorno di soli sei chilometri e non per altro scopo che il raggiungimento di pozzi; una seria discussione, l'indomani, in cui i capi germanici - anche tutti, se vogliono - possono avanzare le loro proposte. Gli ambasciatori qualche cosa hanno dunque pur ottenuto; ed è anche congetturabile che il contegno di Cesare in questa occasione sia stato promettente. Dice: « Intanto, inviai l'ordine ai prefetti, che erano in avanguardia con tutta la cavalleria, di non far provncare il nemico a combattimento, e, se attaccati, di restare in difensiva sino a quando io non avessi serrato sotto con le fanterie. · La cavalleria doveva astenersi dall'attaccare per venir incontro alla richiesta degli ambasciatori. E inoltre, fatto distensivo di per sè, la riunione plenaria, domani, presso Cesare. Ai Germani, domani, potrebbe anche essere concessa, con adeguate garanzie, almeno una dilazione.

Ma domani non è oggi. Oggi, cioè il giorno stesso del colloquio con gli ambasciatori, quando questi avevano appena superato, nel ritornarsene, l'avanguardia romana, avvenne che le cavallerie avversarie - le fanterie romane avevano avanzato di sei chilometri e s'era quindi ridotta a dodici la lor _distanza dagli accampa· menti germanici - vennero a contatto. E avvenne quel che gli ambasciatori temevano.


I nemici, appena scorsero i cavalieri romani che erano cinquemila, erat quinque milium numerus, mentre essi non erano più di ottocento, non arnplius octingentos (perchè gli altri - ma lo sappiamo bene - erano ancora oltre Mosa a raccoglier grano e non erano ancor tornati), i nemici dunque, appena scorsero i cavalieri romani, li caricarono e rapidamente li scompigliarono. Senza alcun sospetto erano i cavalieri romani perchè gli ambasciatori s'erano da Cesare allontanati poco prima, paulo ante, e avevano chiesto tregua per quel giorno. La situazione, di mano in mano, si aggravò. I cavalieri germanici - poichè quelli romani, ripresisi, avevano di nuovo opposto resistenza - scesero, secondo lor tattica, da cavallo e, colpendo i cavaili dal basso e gettando a terra gran numero di cavalieri, misero in fuga gli altri e li sgominarono a tal segno, in fugam ita perterritos, da non farli desistere dalla fuga (ottocento contro cinquemila!) se non quando furono in vista della colonna delle fanterie. I caduti da parte romana furono settantaquattro e, tra essi, un certo Pisane, aquitano, di grande famiglia ( il cui avo aveva regnato sul suo popolo ed era stato dal Senato insignito del titolo di « amico del Popolo Romano »). Pisone, dunque, essendo accorso in aiuto di suo fratello circondato e messo a mal partito dal nemico, fu lui stesso, ferito il suo cavallo, gettato a terra: ma resistette, sin che potè, coraggiosamente. Circondato e ferito più volte, alla fine cadde; e il fratello, che era ormai in salvo fuori della mischia, quando da lontano lo vide cadere, si lanciò a briglia sciolta in mezzo ai nemici e fu a sua volta ucciso. Il che si ascolta, certamente, con rispetto, sebbene non cancelli i due numeri: ottocento e cinquemila. Episodio di valore sfortunato, quello di Pisone e suo fratello, che accrebbe nel generale romano l'indignazione per l'attacco sferrato « senza alcun sospetto » da parte romana: per l'attacco, in parole povere, proditorio. Dice: << Dopo questo scontro, pensai che non fosse più il caso di ascoltare ambasciatori, neque legatos audiendos, nè di discutere proposte, neque cond:ciones accipien<las, da gente che aveva chiesto tregua per poi iniziare, a tradimento, per dolum atque insidias, le ostilità».

Può però anche darsi (dobbiamo pensarle, per obiettività, tutte) che i cinquemila, vistisi in tanti di fronte agli ottocento, avessero proprio essi, anche per iniziativa di un capopattuglia, attaccato per primi - priorità sempre difficili a stabilirsi, anche a un'ora dai fatti - o che l'ampio spiegamento dei cinquemila non avesse ricevuto in ogni sua articolazione (può avvenire ancor oggi con la radio) l'ordine di tenersi in difensiva; nè, infine, si saprebbe su quali basi congetturare che i capi germanici, se anche per loro non si trattò di iniziativa dal basso, potessero aver interesse di intimorire Cesare e far preci pi tare la situazione quando non avevano ancora riunita tutta la cavalleria.


Dice: (< Giudicai che sarebbe stato il colmo della pazzia, summae de. mentiae esse, aspettare che il nemico si accrescesse di nuove forze col ritorno della cavalleria ... ». << Il colmo della pazzia » : espressione forte. Il pensiero che lo aveva allarmato sin dal principio era il ritorno della cavalleria; la spina che lo punge dopo lo scontro equestre (gonfiato? se tanto m 'ha dato tanto, figuratevi che sarebbe avvenuto con la cavalleria riunita) è la maggiore efficienza che deriverà anche alla fanteria germanica dal ritorno della cavalleria. Dice: « •. . e, conoscendo la impressionabilità dei Galli, et cognita Gallorum infìrmitate, avvertivo quanto prestigio avessero presso di em già acquistato V sipeti e Tencteri con quel solo scontro equestre, uno proelio. Ritenni dunque che non si dovesse concedere ai Galli neppure un minuto, nihil spatii, per prendere qualche decisione ». Neppure un minuto, nihil spatii, ai Galli altro non significa che neppure un minuto, nihil spatii, a Usipeti e T encteri. Del resto, lo scontro equestre ha reso impossibile - il che dovrebb'essere ormai evidente anche ai Germani - la conferenza di domani.

«

f AVOREVOLISSIMA

OCCASIONE».

Dice: « Presa tal decisione, - quando già avet 0 preso accordi con i Legati e col Questore per non differire neppure di un giorno la battaglia sopraggiunse una favorevolissima occasione, opportunissime res accidit ... ». Chiama a testimoni (a che scopo, altrimenti, la segnalazione di un ordinario procedimento?) i Legati e il più alto funzionario amministrativo dell'esercito, il Questore, per porre bene in evidenza che la decisione di attaccare, e subito, gli accampamenti germanici era stata da lui già presa parecchie ore prima, anzi il giorno prima della « favorevolissima occasione». Sembra che dica: gli avvenimenti di domani devono considerarsi non creati, come può credere Catone, bensì solo sollecitati e secondati - molto, moltissimo, questo sì; nel modo e nella misura che vorrete: e sarò io stesso a farvelo rilevare - dalla « favorevolissima occasione ,,. Il mattino del giorno che seguì allo scontro equestre, i Germani, in gran numero, frequentes, - con tutti i loro capi e gli anziani, omnibus principibus maioribusque natu, - si presentarono · a Cesare nel campo. Si presentarono, secondo Cesare, con le stesse intenzioni di tradimento e di inganno, eadem et perfidia et sìmulatione: sia per scusarsi, così dicevano, d'aver essi attaccato il giorno prima, ( contrariamente al convenuto e a quanto essi stessi avevano chiesto) sia per ottenere con inganno, - se loro riuscisse · qualche tregua. E se questo lor tentativo non riusciva? 1


Al primo abboccamento, cinque giorni or sono, l'esercito romano era dai Germani parecchio lontano; al secondo, diciotto chilometri : ma questa volta è addirittura a dodici e, cessato che sarà il colloquio, i Romani potretbero giungere sugli accampamenti - un'aspra e definitiva rottura con Cesare, dopo lo scontro di ieri, è pur possibile - con una marcia di due ore. I capi germanici, in una tale eventualità, non avrebbero tempo per disporre le loro forze a battaglia; a meno che essi, da simulatori coerenti, - e questo, ora, dovremo accertare - non si siano presentati dopo aver tutto approntato, sino allo schieramento delle truppe !llle spalle, e lasciato chi dovevasi ai posti di coman do. Dice: « Lieto che costoro si fossero a me offerti, ordinai che fossero trattenuti, illos retineri iussit ». Prigionieri, di colpo, - ecco la « favorevolissima occasione» - tutti i maggiori capi e i più autorevoli vegliardi degli Usipeti e Tencteri.

Cesare, fatte uscire dal campo tutte le truppe, - alla cavalleria, che riteneva di basso morale per il recente scontro, ordinò di porsi a tergo dello schieramento della fanteria - costituita la triplice schiera, avendo rapidamente percorso - con l'esercito così schierato - i dodici chilometri .. . Fu sotto gli accampamenti germanici - dove proprio nessuna predisposizione di difesa e .di allarme era stata adottata - quasi all'improvviso: raggiunse i Germani prima che questi si accorgessero di quel che stava avvenendo. I Germani, sconvolti da quell'improvviso concorso di circostanze - e il rapido arrivo dei Romani, e l'assenza dei capi, et discessu suorum, e il fatto che ormai non hanno più tempo per una qualsiasi decisione e neppure per armarsi, da tali circostanze sconvolti, cadono nello scompiglio. Non sanno se affrontare il nemico portando le forze fuori degli accampamenti, se tenersi alla difesa sul posto, se affidarsi alla fuga: le tre tendenze solite in ogni tempo a manifestarsi contemporaneamente, per iniziativa di questo o di quello, e a intralciarsi a vicenda. Mentre lo sbigottimento dei Germani si palesava con tumulto e confusione, fremitu et concursu, i soldati romani, eccitati dal tradimento del giorno prima, irruppero negli accampamenti. Irruppero negli accampamenti baldanzosi e adoprarono subito le spade - questo vuol forse dire la circonlocuzione - senza attardarsi a far prigiomen. Negli accampamenti, - da figurarceli su vastissima area, preda non certo afferrabile subito e facilmente - quei Germani che ebbero il tempo di prender le armi fecero per poco resistenza all'avanzata romana, battendosi fra carri e bagagli ... Resistenze sporadiche ma disperate che potev.ano pregiudicare la coesione dello schieramento romano.


Quei Germani, dunque, che ebbero il tempo di prender le armi fecero per poco » resistenza all'avanzata romana, battendosi fra carri e bagagli .. . ma la rimanente moltitudine di fanciulli e donne, reliqua multitudo puerorum .mulierumque, cominciò a fuggire da ogni pf4rte, passim fugere coepit ... La resistenza fra carri e bagagli era o poteva divenir tale da provocare pericolose e incontrollabili frantumazioni e dispersioni nello schieramento degli attaccanti? il « per poco» sta a indicare di quella resistenza l'onginaria scarsa entità oppure - ma per il motivo che ora subito sentiremo - la breve durata? A questo punto della situazione, - nell'interno degli accampamenti, resistenze che potrebbero prender consistenza, la moltitudine di fanciulli e donne in caotica fuga all'esterno - intervenne Cesare (sei parole d'un bagliore sinistro): ... ad quos consectandos Caesar eq uitatum misit: Cesare inviò la cavalleria all'inseguimento della moltitudine di fanciulli e donne. I Germani che si battevano fra carri e bagagli quando udirono alle spalle l'urlo dei congiunti, post tergum clamore audito, e quando ne videro fa strage, cum suos interfici viderent, gettate le armi e abbandonate le Insegne, armis abiectis signisque militaribus relictis, - Insegne in opera significherebbe resistenze già di qualche respiro - si riversarono fuori degli accampamenti, se ex castris eiecerunt ... Nessuna più notizia degli ottocento terribili cavalieri: sorpresa assoluta, tremenda. Si riversarono fuori degli accampamenti . . . e, giuntt alla confluenza della Mosa col Reno, quando ormai già disperavano di poter continuare nella fuga, reliqua fuga desperata, e quando già gran numero ne era stato ucciso ... Uno spietato inseguimento di parecchie ore dal territorio ad ovest di Klev - se s'accetta questa vaga ipotesi - alla confluenza della Mosa col Reno (o, più precisamente, della Mosa con una diramazione del Reno: il Waal). Quando già gran numero era stato ucciso, ... i superstiti si lanciarono nel fiume, reliqui se in flumen praecipitaverunt, e qui, atque ibi, da paura da stanchezza dalla forza della corrente sopraffatti, perirono, timore lassitudine vi fluminis oppressi perierunt. Finì più tristamente di quella degli Elvezi la migrazione degli Usipeti e Tencteri. Le truppe romane rientrarono nel campo senza neppure un morto, ad unum omnes incolumes, e con pochissimi feriti, liberate dallo spavento di una grossa guerra. <<

Incubo svanito. Tutta qui la preoccupazione del generale romano, sin dalle prime notizie giuntegli in Italia: che quella migrazione - che accettare, assolutamente, non poteva - gli dovesse, in perdite di legionari, costar cara.


1 93

Dice: « A coloro che avevo "trattenuti" diedi facoltà di partirsene: ma essi - temendo crudeli vendette dei Galli a cui avevano devastato i campi dichiararono di voler restare presso di me. Li considerai - invece che prigionieri e quindi schiavi ;_ liberi, his libertatem concessit ». Quei capi e quei vecchi, che pur avevano ancora nell'orecchio le pro.messe delle clandestine ambascerie, non avrebbero ora trovato, in tutta la Gallia - le radio già urlano dappertutto - nessuna pietà.

IL PASSAGGIO DEL RENO

LA

DECISIONE.

Risolta la questione degli Usipeti e Tencteri, Cesare decise di passare il Reno, statuit sibi Rhenum esse transeundum, per molte ragioni; principalissima questa: « volevo che i Germani - che tanto facilmente si riversavano nella Gallia - cominciassero a temere per la loro stessa sicurezza e comprendessero che anche l'esercito del Popolo Romano poteva e osava passare il Reno, et posse et audere Rhenum transire». Tre anni fa, subito dopo il discorso di Diviziaco, aveva detto: « che i Germani si abituassero a poco a poco a passare il Reno e che ne venisse in Gallia gran numero lo consideravo un pericolo per il Popolo Romano; non avendo io alcun dubbio che quella gente barbara e feroce, una volta occupata tutta la Gallia, avrebbe invaso la Provincia, e di qui avrebbe marciato verso l'Italia ... ». Ha ottenuto, in soli tre anni, l'inclusione violenta nell'orbita romana, anche se per ora sommaria, di tutto il mondo gallico; e ora, mentre tutti i Galli tacciono come stupiti e paralizzati, ecco che manifesta il proposito di minacciare direttamente il mondo germanico. Dice: « Si aggiunga il fatto che quella parte della cavalleria degli Usipeti e Tencteri che aveva passato la Mosa per predare e raccoglier grano, dopo la rotta della sua gente, s'era ritirata oltre Reno, nel paese dei Sugambri, e s'era a questi unita. Avendo io inviato messi ai Sugambri per chieJer la consegna di coloro che avevano fatto guerra a me e alla Gallia, ne ebbi questa risposta: il dominio del Popolo Romano termina al Reno, populi romani imperium Rhenum finire. Se tu non ritieni giusto che i Germani passino in Gallia senza tuo assenso perchè pretendi di avere qualche autorità o potere a oriente del Reno?». Tre anni fa Ariovisto gli aveva detto faccia a faccia: perchè sei venuto nei miei possedimenti? questa parte della Gallia è la mia Provincia, così come quella - al Rodano - è la vostra, provinciam suam hanc esse Galliam sicut illam nòstram. Ma ecco ora i Sugambri - abitavano i territori della Rhur e della Lippe - pronunciare, spontanea sanzione all'evidenza, un rozzo ma 13. -

u.s.


1 94

sicuro riconoscimento politico: il dominio del Popolo Romano termina al Reno, populi romani imperium Rhenum finire. Fu dopo la disfatta dei Nervì che, come ricordiamo, parecchie popolazioni d'oltre Reno - non ci fu detto quali - inviarono messi a Cesare promettendo ostaggi e obbedienza. Ma poi non ne abbiamo saputo più nulla; tranne, poco fa, in tormentosa congiuntura rer Usipeti e Tencteri, la segnalazione della presenza presso il quartier generale romano di messi degli Ubt Cesare, infatti, dice: « Solo gli U bz fra i transrenani mi avevano inviato messi per trattative di pace mediante ostaggi . .. ». Solo dunque Ubì, amici, e Sugambri, nemici, - fra loro confinanti nel territorio a nord di Colonia - sono di scena ora, nel momento in cui Cesare decide di passare il Reno. La richiesti di aiuto degli Ubì contro gli Svevi era divenuta frattanto incalzante: Se non puoi venire in persona - dicevano a Cesare i loro inviati perchè impedito da affari di Stato, basterà che tu faccia passare il Reno a un esercito: ciò varrà a sostenerci nel presente e a infonderci speranza per l' avvenire. Dopo la disfatta di Ariovisto e quella recente di Usipeti e Tencteri, il nome e la fama del tuo esercito, anche presso le più lontane genti germaniche, ad ultimas Germanorum nationes, sono così grandi che quando sarà noto che siamo amici del Popolo Romano solo questo titolo varrà a farci rispettare. Ti promettiamo gran numero di imbarcazioni per trasportare l'esercito. Ma il passaggio del Reno su imbarcazioni Cesare non lo riteneva nè abbastanza sicuro dal punto di vista militare, neque satis tutum esse, nè conforme alla dignità sua e del Popolo Romano. E perciò, quantunque vedesse la grandissima difficoltà, summa difficultas, di costruire un ponte - e per la larghezza e per la rapidità e per la profondità del fiume, propter latitudinern rapiditatem altitudinemque, - pensava tuttavia che o bisognava affrontare qualsiasi ostacolo per costruirlo o rinunciare all'impresa. O il ponte o nulla; un passaggio del Reno conforme alla « dignità sua e del Popolo Romano »; espressioni che richiamano l'importanza dell'evento che sta per compiersi.

IL

PONTE.

Il passaggio sarebbe avvenuto - secondo l'ipotesi più accettata - nel territorio a sud di Colonia; come quello dove sussisteva, fra l'altro, la condizione della sponda opposta tenuta da gente amica, gli Ubì. Grandissime dunque, e fra loro contrastanti, le difficoltà per la costruzione del ponte: la rapidità della corrente imponeva solidissime le strutture di base, la distanza fra le sponde ne pretendeva considerevole la lunghezza, la profondità dell'acqua di eccezionale consistenza i sostegni.


Elementi strutturali del ponte sul Reno.


Ponte militare non su natanti - la violenza della corrente lo avrebbe, . così lungo, spezzato - ma su sostegni fissi, cavalletti a due gambe, di particolare fattura. Cia.,cuna gamba del cavalletto - e, in definitiva, ciascun pilone - era costituita da due robusti pali (ognuno di rispettabile diametro: circa quarantacinque centimetri) uniti fra loro da trauerse che li tenevano l'un dall'altro interuallati circa sessanta centimetri; sì che ogni pilone veniva ad assumere forma di massiccia e rozza scala, la quale, dando sfogo fra i piuoli al passaggio dell'acqua, diveniva in effetti più stabile di un sostegno con pali l'uno a!l 'altro serrato. La lunghezza dei due pali (appuntiti da piedi per l'interramento) variava a seconda di quanto era profondo il fiume: pali dunque anche altissimi e pesantissimi, costruiti con tronchi delle primitive foreste di quei luoghi. Il pilone, costruito in cantiere, era poi, su natanti, trasportato al posto di collocazione: con appositi congegni - collocati su natanti appaiati - esso veniva calato sul fondo e conficcato nella terra a colpi di battipalo; ma conficcato - e qui cominciavano le maggiori difficoltà - non verticalmente, come in genere s'usava, ma inclinato in rapporto, ora vedremo perchè, alla corrente. Infatti ciascun pilone non veniva piantato isolatamente ma fronte ad altro da esso distante - distanza sul fondo del fiume - circa dodici metri. Pertanto, riferendoci alla direzione della corrente: a ogni pilone a monte corrispondeva quello a valle; e si teneva inclinato « secondo corrente » quello a monte e inclinato « contro corrente » quello a valle. Una grossa trave (incastrata fra gli staggi e il piuolo superiore, se ancora ci affidiamo al paragone della scala) univa ciascuna coppia di piloni: sopra di queste duplici coppie di travi si poggiavano travi spesse un sessanta centimetri (un'incastratura: chè di sessanta centimetri era, come abbiamo inteso; anche l'intervallo fra i due pali) e /un ghe quanto la distanza dell'un pilone dall'altro (la distanza dei due piloni, fuori dell'acqua, si può calcolare un cinque metri). Descrizione che rivela, appunto, un imponente cavalletto fissato nel fiume: in acqua gran parte delle due lunghe e robuste gambe e fuori acqua la testata con la grossa trave portante. Sicchè, se ci supponiamo sul punto del gittamento, fronte alla riva opposta, vedremmo del ponte la struttura di base: lunga fila di cavalletti, l'uno all'altro parallelo, sino al punto terminale. Visione che si può completare rile~ando che la parte di un ponte che noi chiamiamo « campata » sembrerebbe qui costituita da due cavalletti consecutivi, uniti da grossi e lunghi tronchi trasversalmente collocati sulle travi portanti. Su tali tronchi trasversali era impostata - è un rapido cenno alla pavimentazione - un'intelaiatura di legno coperta di tavole e graticci.


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-

Tutta l'opera doveva rispondere a questo criterio generale: fisso e stabile, a tutta prova, il cavalletto; ma tutto il resto, a mo' di costruzione antisismica, alquanto elastico. Fu difficile perciò assicurare, senza rigidità, la trave portante a ciascun cavalletto, nonchè i tronchi trasversali <li campata alle travi portanti, nonchè la giunzione stessa dell'una campata all'altra. Chiodi e caviglie metalliche non avrebl:,ero, in genere, risposto allo scopo; si dovè perciò ricorrere, come a sistema più idoneo a sostenere il continuo tormento a cui la corrente sottoponeva l'opera, a speciali legature di corda, a tiranti: serrate queste travi e saldamente legate in due sensi opposti (la connessione delle travi portanti ai cavalletti fu, in effetti, il lavoro più importante e delicato), risultava tale la robustezza della costruzione che, per legge fisica, quanto più cresceva la forza della corrente tanto più le strutture risultavano avvinte. Speciali opere, infine, di rinforzo e di protezione, rispettivamente a valle e a monte dell'opera: a valle, pali obliqui fissati sul fondo e congiunti a tutto il resto della costruzione - più specialmente a rinforzo dei piloni - erano destinati ad aumentare la resistenza del ponte alla forza della corrente; a monte, speciali palizzate erano infisse a breve distanza dal ponte, - anche qui a protezione soprattutto dei piloni - in modo che se i barbari, per danneggiare l'opera, avessero abbandonato alla corrente tronchi d'albero o, cariche di sassi, imbarcazioni, l'urto ne fosse attutito e il ponte non ne subisse danno. C'è chi calcola - sull'ipotesi del gittamento fra Bonn e Coblenza, <love il fi ume ha oggi una larghezza di circa quattrocentocinquanta metri con profondità media di tre - che le campate, ognuna supposta su due cavalletti, fossero ben cinquantasei, ciascuna di circa otto metri; ivi comprese « le spalle » del ponte, le campate cioè di raccordo con entrambe le sponde. Fu, a ogni modo,. un ponte lungo circa mezzo chilometro, con gran numero di campate; e con una carreggiata che si può valutare larga un quattro metri. Un'eco però s'avverte, in codeste notizie, pur poche e incomplete, dell'affannata ricerca e lavorazione dell'enorme e speciale materiale occorrente, della faticosa collocazione dei piloni, dell'ardua realizzazione del procedimento che abbiamo chiamato antisismico. Un'opera da tecnici provetti - progettista e preposti all'esecuzione e da mano d'opera, non poca, specializzata. Finito il lavoro in dieci giorni, diebus decem omni opere effecto, a cominciare da quello in cui s'era cominciato a portare il materiale sul posto ... E' segnalato, a titolo di merito evidentemente, il tempo che occorse per la compiutezza dell'opera; ma se dieci giorni furono pochissimi o soltanto pochi non si può più dire: ignote quali fossero duemila anni fa larghezza rapidità e profondità del fiume nel punto di gittamento, nonchè la natura


dell~ sponde, l'entità concreta di questo famoso ponte non è più oggi rilevabile. N'è rimasta, suggestiva, l'ombra. Finito dunque il lavoro in dieci giorni . .. - e fortificata e presidiata l'opera su entrambe le sponde - l'esercito fu fatto passare, exercitus traducitur. Non frazionato e su imbarcazioni a prestito ma ininterrotta colonna l'esercito romano varcò, la prima volta, il Reno.

LATESTA

DI PONTE.

Cesare non si fermò nel territorio degli Ubi, (se passò il Reno a sud di Colonia) ma proseguì, destra Reno, verso il nord, diretto al paese dei Sugambri. D urante la marcia vengono a lui messi di parecchi popoli - non nominati: forse solo modeste comunità spaventate dall'approssimarsi del grande esercito - a chiedergli pace e amicizia: egli risponde con benevolenza, liberaliter, e comanda loro di condurgli ostaggi. « Liberaliter » :_ a garanzia però delle spalle, sin che dura la marcia, gli ostaggi ci vogliono. Ma giunto che fu nella Rhur, paese dei Sugambri, gli si offerse lo stesso spettacolo dell'anno innanzi nel territorio dei Morini: non c'era anima viva.

I probabili luoghi del passaggio del Reno.


I Sugambri, preparati alla fuga sin dall'inizio della costruzione del ponte, erano usciti - per consiglio dei superstiti Usipeti e Tencteri - dal loro territorio portando con sè tutto quello che avevano, e s'erano rifugiati nel profondo dei boschi. Vuotati gli oppidi, i villaggi, ogni specie di ricov~ro agreste, asportato il bestiame, solo lasciato sulle spighe perchè immaturo - siamo, approssimativamente, alla fine di maggio - il grano. Ma legioni e cavalleria poterono subito trasformarsi in mano d'opera atta a lasciare nei Sugambri durevole ricordo: Cesare, trattenutosi in quelle terre pochi giorni, paucos dies, dopo aver fatto incendiare tutti i villaggi ed edifici e fatto tagliare il frumento, tornò indietro: si ritirò nel paese degli U bt. Dice : << Mi ritirai presso gli Ubt ... e promisi a questi il mio aiuto nel caso fossero stati premuti dagli Svevi».

In quanto alle ripercussioni della sua impresa sugli Svevi, - su quell'informe e ribollente conglomerato etnico a lui noto con tal nome - Cesare, dagli stessi U bt, venne a sapere quanto appresso: gli Svevi, dopo aver avuto notizia della costruzione del ponte dai loro esploratori, riunito secondo il loro costume il concilio, avevano mandato messi da ogni parte: che si sgombrassero gli oppidi, che si nascondessero nelle selve figli mogli tutti i beni, che tutti gli idonei alle armi si riunissero in un sol luogo: qui si sarebbe aspettato l'arrivo dei Romani, qui si sarebbe combattuto. Si contrassero su se stessi come fiera per il lancio, concentrando le loro forze in un sol luogo, scelto all'incirca al centro delle regioni da essi abitate: sul Meno, pare, nella bassa Franconia. Notizie che non dovettero produrre alcun turbamento nel generale romano, nè lasciarlo perplesso sul da farsi. Dice: « Avute queste informazioni, avendo raggiunto tutti gli scopi per cui avevo passato il Reno, - incutere timore ai Germani, vendicarmi dei Sugambri, liberare gli U bt dalla pressione sveva :__ e avendo ormai trascorso oltre Reno diciotto giorni, diebus decem et octo consumptis, e parendomi da ciò aver ritratto sufficiente prestigio e concreti vantaggi, ritornai in Gallia e feci tagliare il ponte » . D'ora innanzi, chi tocca gli Ub1 tocca Roma; non è minaccia da lontano: è patto concluso nella terra stessa degli Uhi dopo che un esercito romano ha passato il Reno. La prima testa di ponte romana a oriente del Reno, per ora solo politica, - ma quanto vorrà passare e diverrà militare? - si è, così, costituita._


Cap. V - BRITANNIA (Continua anno 55 avanti Cristo)

LA PRIMA SPEDIZIONE

EsERCITO E FLOTTA SULLA MANICA.

Sebbene dell'estate non rimanesse ormai che poco e per quanto in quelle regioni (la Gallia è tutta volta a settentrione) l'inverno sia precoce, Cesare decise di partir subito alla volta della Britannia, in Britanniam profìcisci, poichè di qui, in quasi tutte le guerre galliche, erano venuti aiuti ai suoi nemici. La stagione operativa inoltrata non gli avrebbe consentito di condurre colà una vera e propria campagna; ma sarebbe stato per lui di grande vantaggio se almeno fosse riuscito a metter piede nell'isola, conoscerne genti contrade porti vie d'accesso: tutte notizie dai Galli quasi ignorate. Si può calcolare che l'esercito romano ripassò il Reno verso fine giugno; e perciò - anche tenuto conto dc!!'autunno precoce per cui lo stesso settembre poteva presentarsi non tutto favorevole - i mesi disponibili per ope· razioni di guerra erano due e p~ù. Ma, evidentemente, Cesare calcolava che almeno un mese - e tanto, a un di presso, ne occorse - lo avrebbe speso per la preparazione dell'impresa; e che pertanto, sbarcato che fosse in Britannia, non avrebbe qui potuto disporre che solo del tempo sufficiente per una ricognizione dell'isola non lontano dalle coste. Dice : « Partii con tutto l'esercito per il paese dei M orini, da dove il tragitto per la Britannia era il più breve, brevissimus in Britanniam traiectus ». Il tragitto più breve è in quel di Calais; ma egli si diresse, secondo valida ipotesi, a Boulogne, come al luogo che allora meglio offriva le condizioni logistiche, porto e immediato retroterra, per un notevole concentramento di naviglio e di truppe. Dalla zona dove sarebbe avveuuto il passaggio dd Reno - tra Bonn e Coblenza - a Boulogne sono circa quattrocento chilometri: l'esercito roma-


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no sarebbe perciò giunto sulla Manica - una marcia di oltre due settimane nella seconda metà di luglio. Dice: « Ordinai che navi si riunissero colà - nel porto di Boulogne da tutte le regioni confinanti, nonchè la flotta dell'anno innanzi per la guerra contro i Veneti ». Ordine che comportava (lo costateremo l'anno venturo) lunga e laboriosa esecuzione e che perciò fu certamente dato parecchio prima del passaggio del Reno.

La prima spedizione in Britannia.

La prima difficoltà fu l'ignoranza pressochè assoluta della Britannia da parte dei Galli; per i quali la traversata della Manica era impresa ancora d'eccezione: non c'è nessuno, eccettuati i mercanti, praeter mercatores, che si arrischi in quella terra; e anche i mercanti non ne conoscono che la costa, e la sola parte rivolta verso la Gallia. Cesare, convocati presso di lui, ovunque potè, mercanti, non riuscì a sapere quale fosse la grandezza dell'isola, quali e quanto numerosi i suoi popoli, i loro usi di guerra, le loro istituzioni, e quali i porti capaci di accogliere una flotta di grandi navi.


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O che tali richieste fossero difficilucce, allora, per gente di commercio, o che i mercanti temessero ingerenze italiane nei loro faticosi traffici con l'isola o perchè non volessero tradire i Britanni, anch'essi Celti (e, come poi sapremo, possessori primi del verbo religioso comune a tutta la Gallia), fatto sta che Cesare dovette affidarsi esclusivamente ai suoi mezzi, procedendo per gradi; e, per prima cosa, tentar di sapere con qualche esattezza quali fossero i luoghi delle coste britanniche più vicini a. Boulogne idonei a offrir rifugio anche a grosse navi di tipo mercantile per il trasporto di truppe e materiali. Dice: « Per raccogliere queste informazioni prima di tentare l'impresa, mandai innanzi su nave da guerra Caio Voluseno, da me ritenuto persona adatta a tal missione. Lo incaricai di fare le esplorazioni necessarie e di ritornare al più presto». Il tribuno Caio Voluseno (lo abbiamo incontrato a Octoduro, accanto a Gal ba, in grave frangente), con l'aiuto certamente di nocchieri gallici, dovè riconoscere molto da vicino - senza però sbarcare, come presto ci sarà detto - le coste fra Dover e Deal, dove si presume che facessero capo le abituali rotte da Boulogne per la Britannia. APPARE CoMMIO.

Frattanto, conosciuto il progetto della spedizione e giuntane nottzta, attraverso i mercanti, ai Britanni, da parecchi popoli dell'isola vennero a Cesare messi, promettendo di dare ostaggi e di prestare obbedienza all'impero del Popolo Romano, atque imperio obtemperare. Messi, come poi meglio risulterà, di comunità costiere più esposte all'invasione. Rese anonime, come quelle d'oltre Reno; che però danno al proconsole l'occasione di lanciare, prima di giungere di persona sull'obiettivo, un magico « liberaliter » : Cesare lt ascolta, fa loro generose promesse, liberaliter pollicitus, li esorta a permanere in siffatte buone intenzioni e li riman-· da in patria con un pegno di fiducia .. . Dice: « Li rimandai in patria ... insieme con Commio ». Commio era un re con appena un biennio di anzianità: lo aveva fatto re degli Atrebati lo stesso Cesare, quando questo popolo era stato da lui vinto. Re per decreto repubblicano; e in un paese, tutta la Gallia, dove le monarchie non sono più gradite e di esse altro non abbiamo finora incontrato, qua e là, che vago ricordo nelle persone di pretendenti. Gli Atrebati li conosciamo: le loro· forze si scontrarono con la forte ala sinistra romana, due anni fa, a Neuf Mesnil, subito ricacciate oltre Sambra da Labieno. L'atrebate Commio (farà parlare di sè in seguito), monarca senza regali ascendenze, era però molto stimato da Cesare: per il suo valore e il suo senno, per la fedeltà alla di lui persona, per il prestigio che godeva in quelle regioni, auctoritas in his regionibus.


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Ti invito - queste direttive furono certo impartite a Commio da Cesare personalmente - a recarti presso quanti più popoli britannici puoi, di esortarli ad affidarsi al Popolo Romano, di annunziar loro che presto io giungerò colà, segue celeriter eo venturum nuntiet. Ma Commio dovè uscire dal colloquio grattandosi il capo: non l'avvento di messia ma di esercito romano doveva egli annunziare ai popoli della Britannia. A ogni modo: le delegazioni di quei popoli - assieme a Commio regalmente equipaggiato: solo di destrieri ne portava dietro, come poi sentiremo, circa trenta - si rimbarcarono per l'isola dopo aver ricevuto presso l'esercito romano un trattamento che possiamo senz'altro supporre molto amichevole.

IL

CORPO DI SPEDIZIONE.

Il tribuno Caio Voluseno, esplorati quei luoghi, - come poteva farlo uno che non osava uscir dalla nave per non cader in balìa dei barbari - ritornò dopo cinque giorni e riferì a Cesare ciò che aveva visto.

Intanto nel porto di Boulogne - porto Izio, secondo l'antico nome fervevano i preparativi navali. E Boulogne era, come abbiamo testè inteso, nel territorio di quei Morini che 1'anno scorso se la cavarono con la strage degli alberi e la distruzione, per il sopraggiunto maltempo non troppa, di campi e ahitazioni. Mentre dunque in porto lzio ferveva la preparazione navale, vennero a Cesare ambasciatori della maggior parte delle comunità dei Marini per scusarsi della loro condotta nel passato: siamo barbari, essi dissero, e come tali, mal pratici dì consuetudini come le vostre, siamo giunti a far guerra al Popolo Romano. Ingoiando amaro, si riconoscevano aggressori; nè forse potevano altrimenti ora che tutte le forze romane si trovavano nel loro territorio. Cesare pensò che la cosa giungesse molto opportuna, perchè non voleva lasciarsi nemici alle spalle, nè aveva modo, a stagione operativa inoltrata, di condurre una guerra in quei difficili territori; nè infine giudicava che operazioni di sì secondaria importanza fossero da anteporre all'impresa in Britannia. Impose perciò un gran numero dì ostaggi e, avutili, accettò la resa. Dice: « Raccolte e riunite circa ottanta navi onerarie - numero che ritenevo sufficiente al trasporto dì due legioni, ad duas legiones - assegnai le rimanenti navi lunghe al Questore, ai Legati, ai prefetti ». Sbarcheranno quindi nell'isola due sole legioni su otto. Una forza approssimativa di diecimila uomini: un centotrenta per ogni oneraria.


Le navi lunghe o da guerra, al comando di Legati e prefetti, cost1tu1. ranno la « potenza di fuoco » della flotta: trasporteranno, in condizioni di poter essere impiegate subito, dalla nave stessa, - ci risulterà fra poco macchine da lancio e aliquote di arcieri e frombolieri. (Che c'entra il Questore? tanta la speranza o certezza di grosso bottino da far ritenere indispensabile la presenza del rappresentante dell'erario?). Dice: « Avevo inoltre diciotto onerarie che erano trattenute dal vento a circa dodici chilometri, impossibilitate a raggiungere il porto: queste le assegnai alla cavalleria, has equitibus distribuit ». Un contrattempo: la cavalleria, per imbarcarsi dovrà portarsi un dodici chilometri a nord di_Boulogne; - ad Arnbleteuse, secondo buona ipotesi. Anche di cavalleria, perciò, sbarcherà nell'isola un'aliquota modesta: c'è chi calcola ogni oneraria capace di un venticinque quadrupedi, il che porterebbe a una forza complessiva di circa cinquecento cavalli.

Il resto dell'esercito affidò ai Legati Quinto Titurio Sabino e Lucio Aurunculeio Cotta perchè lo conducessero contro i Menapt e contro quelle tribù di Morini che non gli avevano inviato ambasciatori. Ordinò infine al Legato Publio Sulpicio Rufo di presidiare il porto d'imbarco con le forze che ritenesse sufficienti. Sicure le spalle, non c'era nessun motivo che il resto dell'esercito - almeno cinque legioni se Sulpicio Rufo tratterrà forze pari a una legione, più il grosso della cavalleria - restasse inoperoso per tutto il tempo dell'impresa, anche se prevedibilmente breve: la prosecuzione, perciò, della campagna contro i Menapt sospesa l'anno innanzi e non potuta condurre quest'anno (s'era già sul posto per Usipeti e Tencteri) a cagione del passaggio del Reno. Poderosa colonna al comando di due Legati: a fianco di Titurio Sabino (e chi può averlo dimenticato dopo le voci del nemico e dei soldati sul sub conto, da Cesare raccolte e tramandate?) è stato infatti messo (alla pari? in sottordine? con particolari attribuzioni?) quel Lucio Aurunculeio Cotta che con Quinto Pedio, due anni or sono, fu lanciato con la cavalleria al fruttuoso inseguimento dell'esercito della coalizione belga dissoltosi sull'Aisne.

Il quadro della situazione militare romana alla vigilia della traversata - la preparazione si può considerare tompiuta verso la fine di agosto - è dunque chiaro: dovrebbe essere già in marcia - da Boulogne i Menap1 sono molto lontani - la colonna comandata da Titurio Sabino e Aurunculeio Cotta; due legioni stanno per imbarcarsi su circa ottanta onerarie; diciotto onerarie imbarcheranno, ad Ambleteuse, un modesto contingente, ma certo scelto, di cavalieri; numeroso il naviglio da guerra a protezione delle onerarie ; presidiato, e sotto il comando di un Legato, il porto di Boulogne.


E favorevoli condizioni politiche accompagnano la grossa e ardua ricognizione: davanti, già in Britannia, c'è Commio che deve portare la sua regale persona presso quanti più popoli può; a Boulogne, le spalle sono assicurate dal gran numero di ostaggi dei Morini. Ma più indietro ancora - e questo soprattutto conta - la Gallia intera è come frastornata dal susseguirsi senza respiro di tre notizie: la strage degli Usipeti e Tencteri, lo spettacolare passaggio del Reno, il progetto del trasporto nientemeno di un esercito in Britannia. Levate però che saranno le ancore e preso il largo, bisognerà fare i conti, non si sfugge, con la Manica: infìda e perfida, più o meno sempre. Anche solo una tempesta, di quelle improvvise e feroci frequenti in tutte le stagioni, potrebbe portare a una disperata dispersione o addirittura al naufragio l'intera flotta. E che se ne dice, a Roma, di quest'altra impresa? Roma da più di tre anni nel fragore dei successi di Cesare: Elvezi, Ariovisto, Belgi, popoli atlantici, Usipeti e Tencteri, Reno. Si odono violente proteste: iniziiative e ambizioni personali! fieri colpi all'autorità del Senato! è lo sfacelo dello Stato! C'è chi, non meno violentemente, ribatte: è un genio militare! ha portato l'impero al Reno! è il difensore della democrazia! Ma ora l'annunzio di questa impresa oltremare, opposte che siano le opinioni politiche, pare che tenga gli animi sospesi: si dice - voci diffuse, insistenti, di plebei e aristocratici, di ignoranti e di dotti - che la Britannia contenga grandi ricchezze: finanche oro. SEI ORE SULLE ANCORE.

Prima di imbarcarsi, Cesare aveva ordinato al prescelto contingente di cavalleria di trasferir.si (un'ora appena di marcia) all'altro porto (Ambleteuse), di imbarcarsi e di seguirlo: ma quei cavalieri eseguirono l'ordine - per difficoltà, forse, nel caricamento dei quadrupedi - con un po' di ritardo, paulo tardius. Incerti di sempre; vuol dire che le diciotto onerarie faranno la traversata non all'immediato seguito della flotta. Dice: « Presi questi provvedimenti, approfittando di un tempo favorevole alla navigazione, circa a mezzanotte, salpai, tertia fere vigilia solvit ». Saremmo agli ultimi di agosto, fra il 24 e il 27. Il primo scaglione di navi, quello dove trovavasi Cesare - probabilmente tutto di navi lunghe - navigò dalla mezzanotte sino alle nove circa del mattino (no:ve ore di bec,cheggio rollio ondate: la Manica è quella che è.).


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Cesare - giunto con le prime navi sotto le coste della Britannia verso le nove del mattino - vide tutte le alture occupate da forze nemiche, in omnibus collibus copias armatas. La navigazione dall'alba alle nove (ma anche gran parte di quella notturna, come avremo modo di argomentare l'anno venturo, nella seconda spedizione) non pctè sfuggire alle vedette di Dover, sì che le forze britanniche, già. i? ~uei luoghi, ebbero tempo più che sufficiente per occupare tutte le pcs1z1om. La località di sbarco, già per sua natura difficile, era resa addirittura proibitiva dalla presenza del nemico: di quel luogo la natura era tale e il mare così stretto fra i monti - le e,:te frastagliate e cupe scogliere di D over clze tutta la striscia della spiaggia poteva essere, dall'alto, battuta dai proiettili. Cesare puntava su una sorpresa almeno relativa. Partito col primo scaglione del convoglio, - una specie di avanguardia, che forse sperava di integrare presto con la cavalleria - contava di prender subito terra in qualche tratto incustodito per imbastirvi una sommaria testa di sbarco : ma restò deluso,_ tanto assoluto il dominio delle posizioni e ininterrotta la presenza del nemico. Dice : « Costatata l'assoluta inidoneità del luogo allo sbarco, aspettai sul/'ancora, in ancoris, le altre navi sino ali' ora nona ». Se dunque il convoglio potè di nuovo tutto riunirsi solo a pcmeriggio inoltrato, - l'ora nona è fra le tre e le quattro - siccome è da escludere, se ne cercherebbe invano un motivo, che esso fosse partito da Boulogne a scaglioni successivi, vuol dire che s'era scom paginato durante la navigazione per la difficoltà delle onerarie, munite solo di vela, a seguire la rotta. Le ultime onerarie, e quindi gli ultimi legionari, giunsero pertanto davanti a Dover dopc ore quindici di montagne russe. Quale pctesse essere la preoccupazione di Cesare in attesa, sei ore, sull~ ancore è evidente: la riunione del convoglio avrebbe pctuto avvenire tardi, al tramonto o anche di notte, sì da frustrare, per quel giorno, qualsiasi propcsito operativo. Il pensiero che si dovè far strada nell'animo di tutti, comandanti e gregari, di mano in mano che le ore passavano, è lecito supporlo: che allo sbarco in quello stesso giorno, e per la natura delle posizioni e per l'onnipresenza ~el ne1:11ico e per la dispcnibilità sempre minore delle ore di luce, bisognava nnunc1are. Dice: « Durante la sosta, convoca{Legati e tribuni e comunicai loro ciò che avevo saputo da Voluseno e quello che volevo che fosse fatto ... ». Tenne rappcrto, a bordo, a Legati e tribuni, che in gran parte erano imbarcati, come ricordiamo, su navi lunghe. Dice: « Comunicai loro ciò che volevo che fosse fatto, ... raccomandando che, conformemente alle esigenze militari specialmente della guerra sul


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mare ove le situazioni variano rapidamente, tutto fosse da loro eseguito a comando e con immediatezza, ad nutum et ad tempus ». Espressioni, come ognuno avverte, generiche : non v'è niente di ciò che ha riferito Voluseno nè di ciò che egli vuole che sia fatto.

Ma la nota principale di quel rapp0rto dovè essere una sua presa di p0sizione contro la quasi generale depressione, apparente o meno, degli animi; l'imp0sizione - diremmo violenta - della sua volon tà a Legati e tribuni: ritornare a Boulogne neppure a pensarlo; pazzia un'altra notte affidati alle ancore sulla Manica; nessuno quindi si illuda che io abbia rinunciato a sbarcare in Britannia oggi stesso.

SITUAZIONE NUOVA .

Dice: << Licenziati Legati e tribuni, approfittando del vento e del mare favorevoli, dato il .segnale e levate le ancore, mi allontanai da quel luogo per circa sette miglia e feci ancorare le navi davanti a una spiaggia piana e aperta, aperto ac plano litore » . L'intero convoglio dunque - su indicazione certamente di Voluseno si p0rtò a oltre dieci chilometri più a nord di Dover : davanti alla spiaggia di Walmer (o a quella di Deal o fra Walmer e Deal: supposizioni tutte accettabili). Prima dell'aereo e del radar, una tal manovra si sarebbe condotta con la sparizione della flotta in alto mare e la sua riapparizione di sorpresa davanti a Walmer. Ma quelle navi non ·p0terono che condurla a mo' <li piccolo cabotaggio, a breve distanza dalla costa e in vista del nemico. Sicchè, i barbari, compresa l'intenzione dei Romani ... I barbari dovettero stentare a credere che i Romani, dop0 molte ore di sosta e quando il giorno si avviava alla fine, tendessero a un'altra località di sbarco. Si mostrarono però preparati anche a questo; e reagirono rapidamente: i barbari, compresa l'intenzione dei Romani, ... inviarono avanti cavalleria e «carri», praemisso equitatu et essedariis, - e di «carri » specialmente si servivano nella battaglia - a cui fecero seguire il resto delle forze, tenendosi così in condizioni di opporsi allo sbarco dei Romani. Sicchè mentre i Romani navigavano alla volta di Walmer, i Britanni avanzavano nella stessa direzione lungo la costa. Il grosso convoglio romano, vento in poppa e mare favorevole, non era certo troppo lento: ma cavalleria e «carri» britannici ben riuscivano a fiancheggiarlo e a non concedergli, tragitto durante, spiaggia libera. Le forze britanniche, già ferme e sicure sulle alture di Dover, tutte in movimento, ora, trascinate dall'iniziativa, ineluttabile, della flotta romana.


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Situazione nuova. La quale però non crea nulla di risolutivo per i Romani. Perchè se la flotta mosse, come mosse, da Dover fra le tre e le quattro del pomeriggio, percorrendo poi sette miglia, essa non potè fermarsi davanti a Walmer che qualche ora prima del buio - quattro, a dir molto - e quando già a W almer erano giunte cavalleria e « carri » nemici. Al momento dunque in cui le operazioni non sono neppur cominciate, il tempo disponibile per lo sbarco, prima che sopraggiunga l'oscurità, è assai poco.

«

SUMMA DIFFICULTAS

».

Davanti a Walmer, le operazioni di sbarco - il cm 1mz10 non poteva essere differito neppure di un minuto - subirono serio intoppo. Cesare dice: « Per le ragioni che ora dirò, lo sbarco apparve estremamente complicato, ob has causas summa diffìcultas ». Questa la complicazione principale: le navi onerarie, a cagione della loro mole - peso e relativa immersione - non poterono ancorarsi se non al largo. Un « al largo» che si può anche valutare modesto, dalla spiaggia forse meno ,di cento metri; ma pur tale che dette il batticuore a coloro che dovevano prender terra. I legionari, essendo a loro sconosciuti i luoghi (il legionario, cioè, colpito da questo infame dubbio: una volta in acqua, potrò ricacciar fuori la testa?), con le mani impedite (scudo e gladio, una volta fatto il salto, occorreva adoprarli subito), rinchiusi nell'armatura e da questa appesantiti (elmo corazza pili gambiere) ... I legionari dunque, in siffatte condizioni (e stomaco in subbuglio per lè montagne russe), dovevano fare contemporaneamente tre cose: il salto dalle navi, et de navibus desiliendum, reggersi in piedi e avanzare fra le onde, et in fluctibus consistendum, e combattere cql nemico, et cum hostibus pugnandum . .. Il tuffo a salame, intanto: qui il groppo. Ben altra invece era (cioè sarà, allorquando i legionari li vedremo in acqua) la condizione dei Britanni: ... costoro, o all'asciutto o avanzando di poco nel 'acqua, con le membra non ..appesantite, espertissimi dei bassifondi, lanciavano con sicurezza i proiettili e spingevano contro i Romani i loro cavalli ali'immersione esercitati. Giù, giù! coraggio! urlavano, intransigenti, i centurioni (è una supposizione): ma l'esempio (questo è certo) nessuno lo dava. Grande strepito di voci dall'imponente schieraménto, fronte a Walmer, delle ottanta onerarie - affiancate, si direbbe; e l'una dall'altra non poco


intervallata, più che per lo spazio occorrente allo sbarco, per ridurre i permanenti pericoli di collisione -; grande strepito di voci: ma nessuno, proprio nessuno che si lanciasse per primo nelle onde (spumeggianti e rugghianti: la Manica è quella che è). Cesare, faceto, dice: « Non mostravano lo stesso alacre impegno a loro solito nelle battaglie di terraferma». Il sondaggio dell'altezza dell'acqua poteva essere fatto da esperti di nuoto, a corpo libero: ma non v'è traccia di tal espediente. Sbigottiti, perterriti, erano dunque i Romani per queste circostanze - un'incognita il tuffo, arcigne le onde, nemico lì sotto baldanzoso - ; essi che a siffatto genere di lotta erano del tutto inesperti, omnino imperiti. Salto da natante sotto tiro nemico: sorte amara. Già è difficile ottenerlo sotto granate che pur snano lì lì per centrare il natante (se morire devo, meglio coi piedi sulle tavole), ma a quei tempi - al riparo, sulle navi, dalle frecce non c'era da sforzarsi per la scelta.

LA MANOVRA DELLE NAVI LUNGHE.

Cesare dice: « Appena ebbi rilevato una tal situazione, ordinai che le navi lunghe - di aspetto più inusitato per i barbari e di più pronta manovra - si distaccassero un poco dalle onerarie, paulum removeri ab onerariis navibus, e a forza di remi, et remis incitari, si portassero sul fianco destro del nemico, e poi, mettendo in azione fionde archi baliste, fu ndis sagittis tormentis, lo facessero arretrare». Le navi lunghe, solo a remi, sarebbe da escludere che si trovassero sulla stessa linea delle onerarie o fra queste comunque inserite: non sarebbe occorso, in tal caso, uno speciale sforzo per le poche decine di metri che dovevano avvicinarle alla spiaggia. Le espressioni « ordinò che si distaccassero un poco e procedessero a forza di remi » potrebbero perciò significare la manovra che doveva portarle sulla destra, ad latus apertura (il lato, diciamo così, « chiuso » era il sinistro protetto dallo scudo), dello schieramento nemico. Le navi lunghe, quelle attrezzate ad artiglieria, dislocate e riunite a ridosso delle onerarie, si sarebbero da queste distaccate ancor più, indietreggiando, e poi, con rapido movimento, avrebbero doppiato l'ala sinistra della lung~ linea delle onerarie, inserendosi, così, in fila, fra le onerarie e la costa. E qui si sarebbero dislocate, isolate o a gruppi, sulla fronte di combattimento, - lunga circa due chilometri, valuteremmo - dandosi a bersagliare il nemico dov'era più fitto. Questo provvedimento riuscì di grande vantaggio ai Romani, perchè i nemici - turbati dall'aspetto delle navi lunghe e dal loro sl rapido moto a remi nonchè dalle macchine da lancio a essi sconosciute, - si fermarono e, per quanto di poco, indietreggiarono.

14. -

u.s.


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La improvvisa e veloce apparizione delle navi lunghe, biremi e triremi, dalla sagoma guerriera malnota o ignota; la manovrabilità di ciascuna di esse, essendo parécchio minore l'immersione rispetto alle onerarie, a poca distanza dalla spiaggia; l'efficacia del tiro a cui non era dato di reagire adeguatamente essendo tiratori e rematori in qualche modo protetti; tutto questo fece effetto sui Britanni in acqua - e non pochi dovettero lasciarvi la pelle - i quali pertanto, almeno nei punti dov'erano più avanzati, furono costretti ad arretrare. Un respiro per i legionari sulle onerarie. Perchè ora, dalle onerarie, quelle almeno più protette dalle navi lunghe, i coraggiosi dovranno sbucare a decine. Ma non ne fu nulla. D ice : « Perdurando l'indugio dei legionari a cagione soprattutto della profondità del mare, l'alfiere della decima legione si lanciò dalla nave e cominciò ad avanzare con l'Aquila verso il nemico» . Di coraggiosi ne uscì, ma dopa un certo tempo, - e non si può proprio giurare che non vi abbiano influito perentorie pressioni di comandanti uno solo. Colui che portava l'Aquila della decima legione, invocati gli Dei che il suo atto avesse esito felice per la legione, gridò: saltate giù, compagni, desilite commilitones, se non volete abbandonare quest'Aquila ai nemici! lo certo farò il mio dovere verso la Repubblica e verso il Capitano. Ciò detto a gran voce, si lanciò dalla nave e cominciò ad avanzare con l'Aquila verso il nemico. Cioè, e questo è quanto ai legionari interessava : la testa dell'alfiere, dopo il salto, rivenne fuori (quel valoroso qualche passo in avanti, Aquila in pugno, comincia a farlo: vivo è). Allora i legionari, - quelli sulla oneraria dell'alfiere - a vicenda esortatisi a non incorrere in tanta vergogna, saltarono tutti giù dalla nave. E anche quelli che erano sulle navi vicine, veduto il loro esempio, li seguirono e cominciarono ad avvicinarsi al nemico. Esempio richiamando esempio, venne cioè il momento che una folla di guerrieri fu in mare; e cominciò convulsamente a spostarsi, dove più dove meno, verso la spiaggia. Ma siamo tutt'altro che alla soluzione. Cesare dice: « Si combattè da tutte e due le parti, aspramente, ab utrisque acriter ». Sfavorevolissima la situazione dei · Romani . .Ogni legionario, saltando chi da una nave chi dall'altra, s'era aggregato alla prima Insegna in cui s'era imbattuto. Caotico lo sbarco, tutto il resto è facile immaginarlo: arduo tenersi in piedi fermi; non c'era da pensare a schieramento; difficile far comunque massa al seguito di Insegne. · Grande confusione, insomma, regnava fra t Romani.


2Il

I nemici invece (e qui il confronto è al suo posto), conoscendo tutti i bassifondi (gente però più marinara dei Ro~ani), i nemici dunque, a mano a mano che dalla spiaggia vedevano i legionari uscire alla spicciolata dalle navi, spronati i cavalli, li assaltavano mentre erano in· crisi; circondavano in forze i piccoli gruppi mentre altri lanciavano proiettili sul fianco destro, scoperto, dell'intero schieramento. L'azione dei cavalli in acqua, richiedeva, evidentemente, una certa disponibilità di spazio alquanto sicuro dal tiro o dal sopraggiungere delle navi lunghe: queste, dunque, - pur esse limitate nei movimenti dal pericolo di dare in secca - non erano tanto numerose da poter tenere sotto tiro o minaccia tutta la fronte. L'intervento delle navi attrezzate per il tiro era stato, sì, di grande vantaggio ai Romani: ma solo per ottenere dalle truppe, e non subito, il salto dalle navi. Ora però quella folla di guerrieri, variamente ammassata su lunga fron!e, non riusciva ad avvicinarsi alla spiaggia quanto necessario per adoprare - busto, almeno, fuori acqua - le armi; ora però non dovevano essere pochi coloro che trovatisi al riparo delle navi lunghe non intendevano più esporsi; non dovevano essere pochi - a che, altrimenti, tutto ciò che c'è stato detto sulla reazione nemica e quel « pugnatum est acriter »? - i feriti che retrocedevano atterriti e coloro che sparivano fra i flutti. RITROVATO RISOLUTIVO.

Dice : « Appena mi resi conto delle cose, ordinai che fossero riempite di legionari le scialuppe delle navi lunghe, scaphas Iongarum navium, nonchè i battelli esploratori, speculatoria navigia, e via via li inviai in aiuto là dove vedevo che la situazione era più critica. Siamo all'impiego, oggi diremmo, di mezzi anfibi. Un ritrovato risolutivo che ancor sorprende anche per la rapidità dell'esecuzione: scarso o quasi nullo il pescaggio delle scialuppe e dei battelli esploratori, i legionari in essi imbarcati poterono raggiungere la spiaggia anche dando in secca, e qui costituire, a isole, la prima imbastitura della testa di sbarco. I Romani, non appena quei legionari di punta presero terra, - dopo di che si ebbe la rapida affluenza presso di loro di tutti gli altri - attaccarono il nemico e lo posero in fuga. Poco però, e meglio sì direbbe niente, l'inseguimento: chè i cavalieri (i ci nquecento, o quanti erano, di A.mbleteuse) non avevano potuto mantenere la rotta e attingere l'isola. Dove sono allora finite le diciotto onerarie partite con solo un po' di ritardo, paulo tardi us? Dice: « Ciò solamente - una tempestiva disponibilità di cavalleria mancò alla mia solita fortuna! ».


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Espressione che non si direbbe proprio tutta di modestia: uno di quei toni scuri, anzi, per più rilievo dei chiari, ora che ci ha fatto vedere di che è stato capace di fronte alle sei ore di ritardo e di fronte all'imprevisto delle onerarie costrette al largo. Una qualsiasi altra pur energica volontà avrebbe potuto concludere, dopo sì lungo ritardo e l'intoppo delle onerarie, che fosse da abbandonare, per quel giorno, ogni proposito offensivo; e lo stesso buon senso avrebbe potuto ritener fra due mali - quale impegno combattivo si poteva sperare da gente affaticata e spaurita ? - male minore quello di un'altra notte sulla Manica. Onerarie e navi lunghe, e poi navi lunghe attrezzate ad artiglieria, e poi, assieme a scialuppe in dotazione alle navi da guerra, scapha longarum navium, i piccoli e veloci battelli esploratori, speculatoria navigia: una marineria. improvvisata un anno fa (improvvisata per modo di dire: nella Provincia i marsigliesi, lo abbiamo già accennato, eran in queste cose maestri) che ha ora rivelato le sue articolazioni, mosse, certamente, da ingegnosi collegamenti ottici. INFAUSTO PLENILUNIO.

I Britanni, vinti in battaglia (non avevano potuto impedire, questo sì, e non fu certo poco, lo sbarco), non appena si furono rimessi dalla fuga (fuga tutt'altro che lunga e disastrosa), subito inviarono a Cesare messi di pace: ti promettiamo ostaggi, eseguiremo i tuoi ordini. E in mezzo a questi messi, c'era Commìo, Commius venit. Non proprio tutto regale il suo aspetto, questa volta; perchè i Britanni, appena egli aveva posto piede sulla loro terra, lo avevano acciuffato: appena sbarcato dalla nave, mentre si accingeva ( in veste quasi quasi - se non fosse stato un barbaro - di ambasciatore, oratoris modo) a esporre loro il messaggio dì Cesare, lo avevano catturato e posto in prigione. Ma ora, dopo il fatto d'arme, lo restituit•ano. Non regale, il suo aspetto; neppure però, vorremmo dire, di patito, come « in prigione», in vincula, potrebbe far supporre: ma è faccenda sulla quale dovremo tornare fra un anno. I messi, nel domandar pace, dettero la colpa di quel misfatto alla folla, culpam in multitudinem coniecerunt, chiedendo che le fosse perdonata l'ignoranza. Cesare - espressa che ebbe la sua deplorazione per aver essi mandato ambasciatori di pace sul continente di loro iniziativa, ultro, mentre poi gli avevano fatto guerra senza motivo - dichiarò che perdonava alla loro ignoranza e chiese ostaggi. Le ambascerie sul continente non te le inviammo per invitarti a venire nell'isola; anzi, a esser sinceri, proprio opposto era il nostro intento ...


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Ma tal pensiero quei messi contennero: degli ostaggi, parte riuscirono a consegnarli subito, il resto (la crema?) dissero che li avrebbero consegnati fra pochi giorni per la maggior distanza dei luoghi da cui dovevano farli venire. E frattanto - segno migliore di pace non v'è mai - ordinarono ai propri armati di ritornare al lavoro dei campi. Prove di pace, anzi, di ora in ora più promettenti: d'ogni parte convennero capi per raccomandare a Cesare se stessi e i loro popoli. Cesare dice: << Confermata in questo modo la pace, - consegna di parte degli ostaggi, smobilitazione intorno alla testa di sbarco, visite di principes avvenne che quattro giorni dopo il nostro arrivo in Britannia, post diem quartum quam est in Britanniam ventum ... ». Dopo quattro giorni di distensione - il campo, al sicuro su una delle alture, si congettura, dove oggi sorge Walmer, - e di rinata fiducia nella vita dopo l'avventura dello sbarco . . .

Eppure, quel quarto giorno era stato dapprima propizio al contingente di cavalleria di Ambleteuse: le diciotto onerarie salparono infatti da quel porto - il « paulo tardius » diventato, pazienza, quattro giorni - favorite da un leggero vento ... E la navigazione - sino, poniamo, alle quattro di notte - fu anch'essa tanto propizia che quelle navi, vicine ormai alla Britannia, già si vedevano dal campo ... Ma la Manica è la Manica: già esse si vedevano dal campo, ... quando sorse una tempesta così violenta, tanta tempestas subito coorta est, che nessuna potè mantenere la rotta: alcune, le più fortunate, furono respinte al luogo donde erano partite, altre con grave pericolo furono trascinate verso ponente, sulle coste della parte più bassa dell'isola; ma anche queste - avevano gettato, sì, le ancore ma si trovarono subito sotto minaccia di sommersione - dovettero, in sì avversa notte, riprendere il largo e la rotta per il continente. Scomparsa definì ti vamente, così, la speranza dell'apporto della cavalleria: del solo mezzo idoneo a esplorazioni non vicine e a ricognizioni che richiedessero una qualche rapidità. Appesantito, di conseguenza, per le due legioni, l'onere della propria sicurezza specialmente nel movimento. Ma non è finito. Caso volle che quella stessa notte cadesse il plenilunio, accidit ut esset luna piena: il momento cioè - il che i Romani non sapevano - in cui nel[' Oceano si producono le maree più alte, aestus maximos. La violenta tempesta s'era dunque quella notte scatenata mentre l'alta marea raggiungeva, così come a ogni plenilunio, le punte più alte. Naturalmente: tempesta e marea fuori ordinanza, in un congiunte, contro le diciotto onerarie; tempesta e marea fuori ordinanza, in un congiunte, contro la flotta romana raccolta sulle coste di W almer.


E diciamo raccolta e non ancorata perchè sulle ancore erano solo le onerarie mentre le navi da guerra erano state tirate in secco. E così, contemporaneamente, uno tempore, l'alta marea - concitata dalla tempesta - at1eva riempito le navi lunghe - che Cesare avet1a pur fatto tirare in secco: ma, evidentemente non abbastanza lontano dalla riva - e la tempesta sbatteva le onerarie legate alle ancore senza che i marinai at1essero la possibilità di manovrarle o di parare ai danni in qualsiasi altro modo, ulla facultas aut administrandi aut auxiliandi ... Diventa niente, qui, a Walmer, la sparizione delle diciotto onerarie con la cavalleria: qui, sfasciatesi parecchie onerarie, ed essendo ormai le altre ( perduto il sartiame le ancore il resto dell'attrezzatura) ridotte impotenti alla navigazione, ad navigandum inutiles ... Spettacolo che, dato il plenilunio, si vedeva come di giorno dal campo. Cesare dice: « Un grande turbamento, nè poteva essere altrimenti, invase l'intero esercito, magna totius exercitus perturbatio facta est» . Turbato soprattutto lui: non v'erano altre navi, neque naves erant aliae, per riportare in continente le due legioni; assoluta mancanza del necessario materiale per le riparazioni; tutti sapevano, dovendosi svernare in Gallia, che non s'era provveduto in quei luoghi al frumento per l'inverno. Un grande turbamento, magna perturbatio (minaccioso di rivolta, come si sa per altre vie), in tutti, alle prime luci del quinto giorno. E ciò che i Romani vedevano dal campo lo vedevano anche i Britanni. Lo vedevano quei capi britannici che venuti a Cesare per raccomandarsi eran o alloggiati poco fuori del cam po romano. Dovevano essere quegli stessi che avevano, poco più di un mese prim a, mandato ambascerie sul continente e che, cinque giorni fa, ancor erano apa testa dei loro armati a Dover e a W almer. Informati di tali fatti, - saputo e visto ciò che era accaduto nella notte essi si scambiarono le loro idee; e non poterono che trovarsi d'accordo su ciò che era evidente: i Romani mancavano di cavalleria, di naviglio, di frumento, equites et naves et frumentum Romanis deesse. Inoltre: dalla piccolezza del campo quei signori t1alutavano scarso il numero delle truppe (un po' sbagliavano: il campo sembrava più stretto perchè Cesare at1eva trasportato le due legioni senza bagagli: lo stretto necessario di salmerie e forse niente carreggio). L a conclusione di quei rapidi scambi di idee fu, naturalmente, questa : riaccendere nel paese. la rivolta, tagliare ai Romani i viveri, protrarre la lotta sino all'inverno. E tu~to ciò, questo riaccendersi della guerra, p~r un grande fine: una volta i Romani vinti o impossibilitati a ritornare in Gallia, nessun altro in avvenire sarebbe passato in Britannia a portarvi la guerra.


Detto facto: quei capi, ricostituita la coalizione, cominciarono alla spicciolat~ a squagliarsi dal campo e a chiamare nascostamente i loro armati dai campi. Cesare dice: « Sebbene non fossi stato ancora infarmato dei loro piani, tuttavia, e da quanto era avvenuto alla flotta e dal fatto che avevano interrotto fa consegna degli ostaggi, sospettai quel che sarebbe çzvvenuto ».

Neque naves erant aliae: non v'erano altre navi. Le ottanta onerarie strettamente commisurate al trasporto di due legioni, eppertanto assenza, a Walmer, di onerarie di riserva; e assenza, grossa aggravante, nei porti della Gallia settentrionale di un certo numero di onerarie già riunite o in breve riunibili per una pur prevedibile estrema necessità. Più specialmente qui, insomma, nella mancanza di tal riserva, a Walmer come a Boulogne, la temerarietà dell'impresa. Le forze, poche, di fanteria, senza respiro operativo ora che è venuta a mancare la cavalleria; alla quale erano state assegnate le onerarie di Ambleteuse, ossia non sotto diretto controllo di Cesare proprio il carico più delicato. Poche le provviste di viveri al seguito, sì da dover quasi subito far affidamento, come ora sentiremo, sulle irrisorie risorse che si possono trarre, con la lentezza e insicurezza di sole truppe a piedi, dai luoghi più vicini alla testa di sbarco. Uno solo il dato positivo: la stabilità assoluta, per un certo numero di giorni, della testa di sbarco. Difficile per non dire impossibile che le due legioni - qualora in difensiva o impiegate per reazioni alla necessità difensiva non contrastanti - potessero essere sopraffatte dal nemico, anche se numericamente assai superiore. Nel campo di Walmer, comunque, a cagione dell'infausto plenilunio, non si potevano che prevedere giorni amari, nelle prime ore del mattino del quinto giorno dallo sbarco.

Ma placatasi la tempesta e decresciuta la marea si potè costatare - forse prima di sera di quello stesso quinto giorno - che la fortuna, anche questa volta, aveva avuto per Cesare un occhio di riguardo. Su ottanta onerarie solo dodici erano da considerare perdute; tutte le altre potevano essere, quale e quanta si voglia la fatica, riparate. Ridotta perciò ma non compromessa la capacità complessiva del naviglio da trasporto. Dice: « Sospettando ciò che sarebbe avvenuto in seguito alla riaccesa ostilità di quelle genti, ... presi, per ogni evenienza, le precauzioni necessarie: feci portare ogni giorno, cotidie, dalle campagne grano nel campo . .. ». L'immediata razzia del grano esistente in eventuali depositi delle vici-


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nanze non fu tale da assicurare un futuro sia pur breve, e perciò il rifornimento giorno per giorno. Dice: « Mentre dunque provvedevo giornalmente al grano, . . . mi servivo del legname e del bronzo delle navi più gravemente danneggiate per riparare le altre; e quanto a tale scopo fu necessario lo jeci anche venire dal continente. E così, con lavoro intensissimo dei soldati, considerando perdute dodici navi, duodecim navibus amissis, feci sì che le altre fossero in condizione di tenere soddisfacentemente il mare». Per la riparazione delle navi sarà perciò speso tutto il tempo che va dal plenilunio al reimbarco: un due settimane, come presto ci sarà dato di calcolare. Due settimane però m cui i Romani non poterono rinchiudersi nella testa di sbarco. Parte delle forze potè rimanere negli improvvisati cantieri, ma non poche dovevano portarsi, ogni giorno, al di là della testa di sbarco alla ricerca del cibo, si direbbe, per l'indomani; oltre, s'intende, le forze a presidio della testa di sbarco e, che è lo stesso, del campo. Vita faticosa, giorni magri e stentati: senza, tuttavia, alcunchè di cruento. Una specie di tregua, ingrata che fosse, durante la quale potè anche avvenire che nell'animo dei legionari la preoccupazibne numero uno, quella delle navi, scacciasse in buona parte il timore dei Britanni.

L'« ESSEDUM ». Mentre si compivano tali operazioni, - quotidiana sortita per il grano, quotidiano travaglio per la riparazione delle navi - un mattino, essendo stata inviata la solita legione - toccava alla Settima - a raccogliere grano ... La Settima si potè recare al lavoro fors' anche cantan<lo, . . . non c'era stato infatti, sino a quel momento, sospetto di ostilità, ulla belli suspicione, poichè una parte degli indigeni la si vedeva ancora al lavoro nei campi e una parte frequentava - il solito commercio spicciolo degli agricoltori coi soldati - persino il campo romano .. . Mentre si compivano dunque tali operazioni, dopo alquanti giorni, brusco richiamo: le guardie alle porte comunicarono a Cesare che nella direzione in cui era andata la Settima si vedeva più polvere del solito. A tal notizia, istantaneamente, Cesare dette i seguenti ordini: le coorti di guardia alle porte senz'altro mi seguano in direzione della Settima; due coorti assumano la guardia del campo; tutto il resto delle truppe si armi e al più presto mi raggiunga. La macchina scattò con prontezza: le quattro coorti delle quattro porte in immediato movimento con Cesare; le porte temporaneamente incustodite e poi tenute dalla metà della normale forza; tutta la Decima meno le due coorti di guardia, sul luogo dd bisogno nel più breve tempo possibile.


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Cesare, avanzatosi di poco dal campo, - i fatti che seguono sembra che siano avvenuti fra Deal e Worth - si rese conto della situazione: i legionari della Settima, premuti dal nemico, resistevano a stento; sulla legione, ammassat~, i _proiettìli giungevano - premessa all'accerchiamento - da tutte le direzioni. La Settima era caduta in un agguato, favorito dalla seguente circostanza: essendosi mietuto il frumento in tutte le contrade vicine tranne che in una, i Britanni, pensando che i Romani qui sarebbero venuti, si erano nascosti durante la notte nelle circostanti selve. Erano piombati addosso ai soldati sparpagliati che, deposte le armi, attendevano alla mietitura, uccidendone alcuni e portando in tutti gli altri, che non riuscivano a ordinarsi per combattere, lo spavento. Contemporaneamente, con la cavalleria, equitatu, e con i «carri», atque essedis, li avevano accerchiati. La Settima subì la sorpresa perchè non aveva preso, come si dice oggi, le misure di sicurezza - come farebbe supporre la « ulla belli suspicio » oppure perchè queste furono rapidamente superate dagli speciali mezzi celeri del nemico ? In questa circostanza fa la prima apparizione, dopo che ci era stato solo annunziato, il britannico carro armato, essedum, di cui il tipo più comune sembra che fosse a due ruote, due cavalli, con un auriga e un armato di frecce (ma non sono da escludere, ne riparleremo, tipi più complessi). I Britanni dunque, con cavalleria e « carri », avevano accerchiato la Settima. Senonchè, a questo punto, Cesare interrompe il racconto del fatto d'arme e detta una pagina - stile militare quasi odierno - sull'impiego dell' « essedum » (che l'anno venturo, sarà fra i maggiori protagonisti - ma sempre dopo la Manica, s'intende - della seconda spedizione). Ecco come combattono dai << carri » : Primo, dapprima, ossia nell'azione preliminare all'attacco: scorazzano e volteggiano all'impazzata, per omnes partes perequitant, lanciando nel contempo dardi, et tela coniciunt, sì che col solo spavento destato dalla foga dei cavalli, ipso terrore equorum, e dallo strepito delle ruote, strepitu rotarum, ottengono il più delle volte lo scompiglio delle file nemiche. Nell'azione contro cavalleria: non appena i « carri » riescono a insinuarsi fra gli squadtoni avversari, i « carristi» - tranne il guidatore - saltano giù dai « carri » e combattono a piedi. Nel corso del combattimento, i guidatori, mentre i «carristi » stanno combattendo a piedi, escono a poco a poco dalla mischia, aurigae paolatim ex proelio excedunt, e dispongono i «carri» in modo, ita currus conlocantt che i «carristi», se premuti dal numero dei nemici, possano essere rapidamente raccolti, ad suos receptum habeant.


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Così facendo, si giovano nel combattimento della mobilità dei cavalieri per l'azione di sorpresa - e della stabilità dei fanti - per l'azione di forza - : mobilitatem equitum stabilitatem peditum. Due azioni tanto più efficaci (quali che siano state sono e saranno le armi) quanto più l'una ali'al tra immediata. Sorprendente la manovrabilità del singolo « carro » : i guidatori, con intensissimo addestramento quotidiano arrivano a tanto, che possono padroneggiare t destrieri anche se lanciati su balze a forte pendio o in terreni rotti, frenandoli e giostrandoli rapidamente. Altrettanto sorprendente l'addestramento dei « carristi»: durante la corsa dei carri, con rapidità scimmiesca, citissime, si trasferiscono, lungo il timone, dal «carro» sul giogo dei cavalli, e qui sono capaci di mantenersi per combattere, e dal giogo ritornare con altrettanta rapidità sul <<carro».

Ma ritorniamo all'agguato alla Settima. Ai legionari della Settima, in tal situazione e turbati dalla sconosciuta tattica, giunse proprio al momento giusto l'aiuto di Cesare: all'arrivo di questi, i nemici si fermarono ed essi ripresero animo. I Britanni desistettero dall'attacco, si può dire, istantaneamente. Dice: « Ciò ottenuto, giudicai che non era il caso che io prendessi l'iniziativa dell'attacco; non mi mossi perciò dalle posizioni che occupavo e, dopo poco tempo, brevi tempore intermisso, ricondussi le legioni ai campo ». Indispensabile, è evidente, un rigido contegno difensivo: non altro lo preoccupava, proprio non altro, che il riattraversamento al più presto della Manica. Ottenutasi senza combattimento la salvezza della Settima, salvo le perdite della sorpresa, le due legioni, indisturbate, hanno potuto prima far sosta di sfida e poi ritornare, indisturbate, ossia senza inseguimento, al campo: segno quasi certo che cavalleria e « carri » nemici erano numericamente assai modesti. Truppe celeri (lo vedremo meglio l'anno venturo) scelte ma poche. Durante questi avvenimenti che avevano impegnato tutte le truppe romane, si fece il vuoto intorno alla testa di sbarco: quegli abitanti che erano rimasti nelle campagne - e taluni> ricordiamo, commerciavano nel campo romano - si allontanarono. Sopravvennero per parecchi giorni di seguito continue intemperie, continuas tempestates, che sospesero ogni attività combattiva. AFFRETTATO REIMBARCO.

Prima del reimbarco, però, nuovo sussulto. Frattanto, - sin da quando i rapi britannici s'erano allontanati dal campo romano, se non prima - i barbari mandarono messi da tutte le parti, i


quali misero in rilievo lo scarso numero dei Romani e l'occasione che si offriva per una grande preda - migliaia e migliaia di buone armi: quale attrattiva - e per liberarsi dai Romani per sempre, in perpetuum sui liberandi facultas, solo che si fosse riusciti a scacciarli dal campo. Tutti argomenti ineccepibili. In questo modo, riunito rapidamente un gran numero di armati a piedi e cavalieri, i Britanni mossero verso il campo romano. Una grande eterogenea moltitudine, proveniente da più parti, armata alla meglio, in marcia come per sommossa. Ai Romani dovrebbe convenire attenderla fermi nel campo, da dove potrebbero infliggerle gravi perdite se oserà l'approccio al vallo. Cesare dice: « Per quanto prevedessi che se i nemici fossero stati battut; sarebbe avvenuto ciò clze era successo nei giorni precedenti, - sin dallo sbarco, invero - che cioè si sarebbero posti in salvo con la loro peculiare rapidità, tuttavia ( servendomi anche di circa trenta cavalli che Com mio aveva portati al suo sèguito), feci uscire le legioni e le schierai davanti al campo, legiones in acie pro castris » . Sarebbe insomma uscito dal campo per motivo di prestigio (ma quello vero lo rileveremo presto). Due legioni schierate e protette alle spalle dal campo, e, inframmezzate alle coorti o alle ali, la potenza subdola e micidiale degli arcieri, dei frombolieri, delle macchine da lancio. Sicchè, accesosi il combattimento, i nemici non poterono sostenere a lungo la pressione dei Romani e volsero le spalle. Furono inseguiti di corsa quanto lo permisero le forze; sì che i Romani ne uccisero parecchi (andateli a contare) e poi, dati alle fiamme in lungo e in largo tutti i caseggiati, rientrarono al campo. Nello stesso giorno del combattimento, eodem die, dai nemici vennero a Cesare messi di pace. Gente, evidentemente, che non valutava a pieno l'effettivo valore, a suo vantaggio, della Manica (l'anno venturo non sarà così), non prevedendo che a poche ore dal combattimento neppur un romano, come per incanto, si sarebbe più trovato su suolo britannico. Messi di pace dai nemici, legati ab hostibus de pace: inviati da chi? (In quattro anni la prima volta che non ci è apparso alcun popolo nominativamente segnalato). Dice: « A quei messi imposi il doppio degli ostaggi rispetto al numero chiesto prima: ma ordinai di consegnarmeli nel continente, eosque in continentem adduci, perchè, avvicinandosi l'equinozio, propinqua die aequinoctii, - con navi riparate alla meglio, infìrmis navibus, - non volevo affrqntare i pericoli di una navigazione autunnale». I messi furono ascoltati, come si dice, in piedi, a operazioni di reimbarco, diremmo, già quasi compiute. Il che rivelerebbe il motivo militare delle le-


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gioni schierate fuori del campo: quel pur modesto nemico, se si fosse accorto del reimbarco in atto, avrebbe potuto dar fastidio e divenir finanche preoccupante con una sua duratura pressione sul vallo. Dice: « Profittando del tempo favorevole, poco dopo la mezzanotte, feci salpare la flotta». L'equinozio autunnale - 26 settembre - dava inizio a una stagione meno propizia alla navigazione; ma Cesare temeva anche il plenilunio - in quell'anno, verso il 14 settembre - nonchè la luna nuova (e su tali dati è stata attendibilmente calcolata la durata, un diciotto giorni, dell'impresa: dal 25 agosto al 12 settembre). Salpò nelle primissime ore, secondo questi calcoli, del 13 settembre e raggiunse Boulogne e approdi vicini dopo un nove dieci ore di navigazione. Tutte le navi toccarono incolumi il continente, ma due onerarie non poterono raggiungere gli approdi delle altre e furono spinte, scherzi dell'alta marea, un po' più a sud (contro la spiaggia di Portel, pare, circa cinque chilometri da Boulogne). Da queste due onerarie sbarcarono circa trecento soldati (un centocinquanta uomini per nave, mentre alla partenza - ottanta e non sessantotto le onerarie - se ne poterono calcolare centotrenta); questi trecento (in condizioni, come tutti gli altri, da far pietà ai sassi) andarono incontro, per parte dei Morini ribelli, a una (qui omessa) avventura ... 1 Legati Titurio Sabino e Lucio Cotta, che avevano condotto le legioni nel paese dei Menapt (lo si pone, fondatamente, in dubbio, data la distanza da Boulogne: dovettero se mai attingere gli estremi nord orientali del paese dei Morini), dopo aver distrutto campi tagliato frumento bruciato edifizi, - e solo questo poterono fare: chè i M enap1 s'erano tutti ritirati in fittissime selve - ritornarono a Cesare. Sicchè ai primi di ottobre, approssimativamente, tutto l'esercito si ritrovò in quel di Boulogne e Cesare potè stabilire gli alloggiamenti invernali di tutte le legioni nel paese dei Belgi. Uno svernamento non troppo lontano dal mare, attorno ad Amiens, quasi certamente, e vicino - sapremo presto perchè - a grandi fiumi. Qui, presso i quartieri d'inverno, soltanto due popoli della Britannia, duae omnino civitates, mandarono ostaggi (probabilmente, due popoli che temevano rappresaglie su ostaggi di particolar valore già consegnati): gli altri non se ne curarono, reliquae neglexerunt. Ma di ciò nessuna meraviglia ora che ci è stato fatto capire come andarono le cose. · Irrisorio il numero degli ostaggi e (a detta di un illustre contemporaneo) nulle le prede, se non un certo numero di schiavi.

Che se ne disse a Roma? Il pubblico ringraziamento agli Dei vi assunse, questa volta, proporzioni


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davvero vaste: terminata la campagna, il Senato, in seguito a relazione di Cesare, decretò una « supplicatio » di venti giorni. Cinque in più che per i Belgi. E' che questa impresa in una terra quasi ancora avvolta nel mito colpiva la fantasia, anche quella non popolare, più dei successi su popoli del continente più o meno, anche se solo di nome, conosciuti.

LA NUOVA ONERARIA.

Cesare, prima di partire per l'Italia, il che era solito fare ogni anno, quotannis (e quell'anno che non lo potrà, brutto segno), diede ordine ai Legati, ai quali aveva affidato le legioni, di costruire- durante l'inverno il maggior numero possibile di navi e di riparare le vecchie. Manifestò subito, in tal modo, l'intenzione di una seconda spedizione in Britannia. Indicò quali dovessero essere di tali navi - delle nuove e, ove possibile, delle vecchie - le dimensioni e la forma. La preparazione della seconda spedizione doveva giovarsi delle esperienze marinare della prima. Da Boulogne a Dover solo le navi lunghe, a remi, avevano avuto una regolare navigazione; le onerarie galliche, a vela, avevano invece subìto forte ritardo. E fu la diversa altezza di immersione dei tre tipi di natanti che condizionò, davanti a Walmer, le operazioni di sbarco: le onerarie complicandole, le navi lunghe favorendole in parte, e solo scialuppe e battelli del tutto risolvendole. Su tali esperienze Cesare fissò dunque il nuovo tipo di oneraria. Per rendere più agevoli le operazioni dì carico e scarico e del tirare in secco, le nuove onerarie dovevano essere un po' più basse di quelle in uso nel Mediterraneo. Più basse non solo delle galliche - molto alte, come sappiamo dalla flotta dei Veneti - ma anche delle mediterranee: un forte avvio insomma, con la diminuzione del peso dello scafo, alla riduzione dell'immersione. Poichè Cesare aveva notato che le onde in quei luoghi erano meno grandi delle mediterranee a motivo (ma questo motivo, c'è chi l'afferma con competenza, non è esatto) del flusso e riflusso della marea. Comunque: anche una oneraria di minore altezza poteva, secondo Cesare, reggere all'onda atlantica. La minore altezza delle fiancate, con la conseguente riduzione del pescaggio per l'avvicinamento a riva, favoriva la « celeritas onerandi », carico e scarico. E favoriva anche la sicurezza della nave in porto. Chè un porto valeva allora quasi esclusivamente per il suo condizionamento naturale, profondità e altezza dell'insenatura; e quindi, allorchè insufficiente tal condizionamento, le navi, per sottrarle a ma;eggiate e tempeste, erano tirate in secco.


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Le nuove onerarie dovevano anche essere un po' più larghe di quelle in uso in altri mari, allo scopo di contenere più materiale e maggior numero di quadrupedi. Il trasporto dei quadrupedi, difficoltoso sempre, richiedeva spazio suffi. ciente nonchè specifiche attrezzature e laboriosi accorgimenti soprattutto a causa del forte beccheggio, anche in normale navigazione, di quei natanti; - e la scarsa idoneità, a tal riguardo, dell'oneraria gallica avrebbe provocato, come abbiamo supposto, quel poco iniziale ritardo, poi complicatosi, di Ambleteuse. Infine: Cesare ordinò che le nuove onerarie fossero a vele e a remi; l'azione dei remi essendo molto facilitata dalla minore altezza della nave. Un'oneraria dunque a vela e a un ordine, tenuto in potenza, di remi: avrebbe così ricevuto qualche ausilio controvento, nel mantenimento della rotta e soprattutto la possibilità di modesti movimenti anche in bonaccia. Il materiale occorrente per tali lavori - sparto per le gomene, metallo per ancore e altri armamenti - Cesare ordinò che fosse fatto venire dalla Spagna. Fu così impostat-a - cantiere principale, come si sa per altra via, l'imboccatura della Senna - la nuova oneraria.

LA SECONDA SPEDIZIONE (Anno 54 avan ti Cristo)

I TREVERI TRE CAPI D'ACCUSA.

Risolta la questione dei Pirusti e chiuse, nella Cisalpina, le riunioni giurisdizionali, Cesare ritornò presso l'esercito. Appena qui giunto, fece il giro di tutti i quartieri d'inverno e costatò ... I Pirusti (tribù quasi selvagge che abitavano, pare, a nord dell'Albania) avevano danneggiato con incursioni alcune popolazioni dell'Illirico, sua terza provincia. Egli aveva dunque compiuto un lungo giro: sistemate le legioni nei quartieri invernali del Belgio, s'era portato nella Cisalpina e di qui nell'Illirico, facendo poi ritorno, dopo nuova sosta nella Cisalpina, nel Belgio. Si calcola che rimase lontano dall'esercito un sette mesi, da fine ottobre a fine maggio. Le costatazioni fatte durante il giro nei quartieri d'inverno gli furono motivo di soddisfazione: mercè un impegno davvero straordinario da parte delle truppe, e malgrado la penuria di tutto, erano state allestite circa seicento onerarie del nuovo tipo e ventotto navi lunghe.


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Alle navi onerarie nuovo tipo è da aggiungere quanto potè essere salvato delle vecchie e alle ventotto lunghe quelle della guerra veneta. Un sette mesi di proficuo lavoro: Cesare costatò che non mancava gran che perchè quelle navi potessero, in pochi giorni, prendere il mare. Dice: « Dopo aver lodato i soldati e coloro che avevano diretto l'opera, esposi il mio piano, e intanto ordinai che tutte le navi si riunissero in Porto !zio, omnes ad Portum ltium » . Porto lzio è, come sappiamo, Boulogne; anche la seconda spedizione partirà dunque da Boulogne, perchè da qui Cesare sapeva potersi fare la traversata più agevole - sino a Capo Gris Nez s'è a portata della costa - con un tragitto (da Boulogne a Dover) di circa trenta miglia. Nei giorni, pertanto, che seguirono alla visita di Cesare, le navi, onerarie e lunghe, di mano in mano che venivano completate, erano, a gruppi, avviate a Porto lzio; trasferimento che richiese personale di governo e truppe di protezione: per tali operazioni, Cesare lasciò le forze che gli parvero necessarie. Lasciò, reliquit: perchè mentre le navi si riuniranno a Porto Izio, - e tempo ne occorre, dall'imboccatura della Senna e da dov'altro - egli deve risolvere, altrove, una grossa questione politica.

Dice: « lo, con quattro legioni senza grosso bagaglio e ottocento cavalieri, partii per il paese dei Treveri ». Parte con forze di fanteria non poche e per il lontano territorio della Mosella, paese dei Treveri. Inattesa variante, quasi contrattempo, ora che l'ordine per la radunata a Porto lzio ha posto in primo pi ano la complessa e pressante organizzazione della seconda spedizione in Britannia. I Treveri furono spantanei amici del Popolo Romano quando denunciarono la pressione sul Reno di Nasua e Cimberio; un loro contingente di cavalleria però, l'anno appresso, nel pieno sviluppo della battaglia della Sambra, abbandonò il campo conclamando il « pulsos superatosque ». Ma il timor panico del contingente di cavalleria potè non essere determinato da subdolo intento politico; tant'è vero che l'anno appresso, quello dell'impresa atlantica, Labieno, con sola cavalleria, potè liberamente soggiornare e scorazzare in territorio treviro. Nell'anno testè decorso, infine, - l'anno degli Usipeti e Tencteri, del passaggio del Reno, della ricognizione in Britannia - dei Treveri nessuna notizia. Solo ora, mentre Cesare marcia alla lor volta, veniamo a sapere che su di essi gravano tre capi d'accusa. Primo: i Treveri nè partecipavano ai conci/ii, neque ad concilia veniebant . ..


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Se ciò costituisce accusa, vuol dire che il proconsole, da tempo, - un indizio lo rilevammo l'anno scorso nel <e principibus Galliae convocatis » si è assunto il diritto, su tutti i popoli della Gallia, di indire concilii, e che, di conseguenza, per i Treveri come per tutti gli altri, è ormai obbligo la partecipazione a tali assemblee. Secondo: ... nè obbedivano agli ordini, neque imperio parebant ... Un qualsiasi motivo potrebbe tentar di giustificare, una volta due tre, il mancato intervento a un concilio: ma per gli cc ordini>> non c'è giustificazione che tenga. Una qualsivoglia questione, non potuta discutere e conciliare in assemblea per l'assenza del rappresentante del popolo interessato, l'Amministrazione romana era costretta a risolverla, unilateralmente, con l' « ordine ». e< Ordine » per il versamento dei tributi, fissi o saltuari, pecuniari o in merci; e< ordine>> per l'onere del mantenimento di truppe romane in sosta o di passaggio; « ordine » per la richiesta, ordinaria o straordinaria, di contingenti di cavalleria o di fanteria, di quadrupedi, carriaggi, personale di servitù; e< ordine» per la costruzione di piste o di strade militari; e via dicendo. « Non ubbidivano agli ordini »: una vasta e capillare organizzazione tributaria su tutta la Gallia - e qui riappare il Questore e l'imponenza delle sue attribuzioni - segnalata con concisa espressione militare. Terzo capo d'accusa: ... si diceva che sollecitassero l'aiuto dei Germani d'oltre Reno, Germanosque Transrhenanos sollicitare dicebantur. Solo un sospetto, per ora, ma sì grave che non consente indugio: dev'essere subito e da vicino esaminato. Che peso hanno in Gallia i Treveri? E' il popolo di gran lunga il più forte in cavalleria di tutta la Gallia ed ha grandi forze di fanteria. Ma il suo connotato principale ?: il geografico: esso popolo tocca il Reno, haec civitas Rhenumque tangit. E chi tocca Reno tocca Cesare. Tutta la Gallia ormai sa che il proconsole intraprenderà a giorni la seconda spedizione in Britannia, alla quale parteciperanno, dato il numero di navi, grandi forze; tutta la Gallia sa dunque che quando Cesare avrà lasciato Boulogne le forze romane in Gallia non potranno essere molte. Che la seconda spedizione in Britannia debba risolversi bene o benissimo . può darsi che i Galli lo presentano, suggestionati da quattro anni di continue vittorie romane. Quattro anni, a dir vero, non proprio del tutto oppressivi: infrenato il tristo fenomeno del cc privato può più di magistrato », - Cesare non riconosce che poteri legalmente costituiti o che tali egli reputa - i ceti ricchi e conservatori si possono ora meglio difendere dalla demagogia e faziosità, nel loro stesso seno, di aristocratici avventurieri. Una certa stabilità sociale, in-


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somma, per un miglior destino di quel proletariato miserabile, la plebe, che in Gallia, come a suo tempo sentiremo, è sullo stesso piano degli schiavi. Non c'è dunque da meravigliarsi se fra i Galli ve ne siano non pochi, ormai apertamente solidali con Cesare, che possono giungere a desiderare c_he la seconda spedizione in Britannia si risolva per i Romani bene o beni~s1mo. Ma si potrebbe anche risolvere, ed è tutt'altro che impossibile, così e così, riportando il generale romano sul continente meno forte di quando ne è partito; si potrebbe anche risolvere, e perchè no, male o malissimo, riportando il ge.nerale sul continente, soprattutto se s'incapriccia la Manica, assai malconc10. Al così e così, tutta o gran parte della Gallia sul chi vive, meno dispos~, almeno, a eseguire gli « ordini »; al male o malissimo, nessun dubbio per nessuno : l'incendio, la rivolta generale. In siffatta situazione, in siffatto stato d'animo, nascosto ma vivo in ogni dove, il peso politico dei Treveri diviene considerevole. Una buona carta per tutti. Significativo quel loro contegno scontroso senz'essere ostile verso i voleri del proconsole; in caso di generale rivolta, potrebb'essere determinante la loro disponibilità di cavalleria, deficienza più sensibile dell'esercito romano; prezioso quel loro possesso di una delle maggiori porte della Gallia sul Reno, quella di Coblenza, .per un eventuale aiuto, in caso estremo, dei Germani.

Senonchè, i Treveri se ne stavano sicuri di sè ora che Cesare era seri~mente impegnato per la grande impresa che doveva aver inizio da un portò sì lontano dalle loro terre. Il nodo dei loro rapporti con Cesare sarebbe un giorno venuto al pettin~, non c'era da dubitarne: ma essi non potevano mai prevedere il sopraggiungere di quattro legioni così all'improvviso, alla vigilia, diamine, della partenza per la Britannia. I Treveri, perciò, quando seppero di Cesare in marcia verso la Mosella, subirono la sorpresa. E al soffio di forte sorpresa, le più nascoste crepe di uno Stato, e peggio se evidenti, si allargano e ne m inacciano il crollo. Cesare dice: « In quel paese, due capi si contendevano il potere, duo de principatu inter se contendebant: lnduziomaro e Cingetorige, Indutiomarus et Cingetorix ». Una grossa crepa pertanto si allargò. Cingetorige, appena seppe dell'arrivo di Cesare con le legioni, venne a questi incontro e gli disse: Sono qui per assicurar Vi che io e tutti coloro che da me dipendono, se suosque omnes, assolveremo in avvenire i nostri obblighi (avrebbero ottemperato, insomma, agli «ordini»), nè verremo meno all'ami15 . • U.S.


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etzza verso il Popolo Romano. Eccovi intanto un ragguaglio di ciò che sta avvenendo nel mio paese. Si pose, insomma, a completa disposizione del proconsole. lnduziomaro invece (costui era suocero, come poi sentiremo, di Cingetorige), appena saputo del sopraggiungere delle legioni, aveva dato inizio alla mobilitazione, bellum parare instituit: aveva cominciato a raccogliere cavalleria e fanteria, e quanti non in grado dz prestar opera guernera aveva raccolti e nascosti nella selva delle Ardenne ( la quale sz estende, con grandiosa vastità, ingenti magnitudine, attraverso le terre dei Treveri, dal fiume Reno alle frontiere dei Remi) . Induziomaro e popolo che si approntano alla guerra; collaborazionista invece immediato, sino a farsi incontro a Cesare, Cingetorige. Situazione che però, nei giorni seguenti, - di mano in mano che le quattro legiom progredìvano nella marcia - subì sostanziale mutamento. Parecchi capz treveri, spintz da rapporti di amicizia con Cingetorige, e intimiditi da_ll'arrivo del/'esercito romano, si presentarono a Cesare . .. I poteri pubblici del popolo treviro erano però tutti o in gran parte, e legalmente, nelle rnani di Induziomaro. Sicchè quei capi, presentatisi a Cesare, . . . non avendo facoltà di trattare con lui di cose di Stato, cominciarono a interessarlo dei loro fatti privatz ... Induziomaro, già scosso da quel precipitare inatteso di eventi, più lo fu dalla sì pronta ed esplicita adesione di quei principes al trad:mento del genero; nè forse avvertiva di poter trarre dalla preparazione alla guerra, appena avviata, motivo di fiducia . . . . lnduziomaro allora, temendo di essere abbandonato da tutti, inviò messi a Cesare. Mutamento di situazione, come dicevamo, sostanziale: chè ora suocero e genero, i due potentati del paese, ~i affidano entrambi, e si può dire in concorrenza, a Cesare. Così dissero a Cesare i messi di Induziomaro: Se il nostro capo non ha voluto lasciar la sua gente e recarsi da Voi, ciò devesi al suo intento di mantener meglio l'ordine nel paese, impedendo che, per la partenza di tutta la nobiltà, la plebe ignorante si abbandoni ad eccessi. Il paese è dunque in potere del nostro capo, in sua potestate; e il nostro capo, se Voi lo permettete, verrebbe qui nel vostro campo ad affidar Vi le fortune sue e della sua gente. Cesare dice: « Sebbene comprendessi l'artifizio di quel discorso e le vere ragioni che costringevano lnduziomaro ad abbandonare il suo piano, tuttavia, per non consumare la buona stagione fra i Treveri ora che tutto era pronto per la spedizione in Britannia, ordinai che lnduziomaro venisse da me con duecento ostaggi ». Duecento ostaggi sono molti se si considera che dovevano essere di alto livello sociale o politico. Il numero però è il meno.


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Quando Induziomaro ebbe condotto gli ostaggi, fra i quali il figlio, in iis filio, e tutti i suoi parenti, propinquisque eius omnibus, che Cesare aveva richiesti nominativamente, quos nominatim evocaverat ... La lista consegnata a quei messi conteneva dunque il nome - suggerito da chi? - dei parenti più prossimi di Induziomaro, fra cui, certo capolista, il suo figlio maschio unico. Cesare intendeva ridurre Induziomaro all'immobilità assoluta: la richiesta dei figli maschi sarebbe stata totale se altri ce ne fossero stati (l'espressicne « in iis filio propinquisque eius omnibus» pretenderebbe l'ifotesi del figlio maschio unico). Quando, dunque, Induziomaro ebbe condotto gli ostaggi, fra cui il figlio e tutti i suoi parenti, ... CesçJ,re ebbe per lui parole di conforto, consolatus lndutiomarum, esortandolo a mantenersi fedele alla linea politica ora assunta. Il « consolatus » - term:ne di sentimento eccezionale in Cesare - svelerebbe la non raffrenata commozione di Induziomaro al cospetto di Cesare; l'angoscia di quest'uomo (piuttosto anziano, se suocero di Cingetorige) _costretto a lasciare nel campo romano l'unico figlio o, comunque, un figlio. Buon risultato, certamente, i Treveri non ostili; meglio però sarebbe stato invitarli o costringerli all'amicizia e alla collaborazione. Dice: « Ciò non pertanto, nihilo tamen setius, convocati presso di me i capi dei Treveri, li guadagnai uno per uno alla causa di Cingetorige, singillatim Cingetorigi coRciliavit, sia perchè sentivo di doverlo di Cingetorige alle personali capacità, sia perchè ritenevo che fosse nel mio interesse aumentare il più possibile l'autorità fra i suoi di un uomo che avevo visto così ben disposto verso di me ». Da quanto tempo Cingetorige tramava con Cesare se questi, se lo ha visto ora per la prima volta, lo ritiene meritevole di appoggio anche per i suoi meriti personali? L'espressione nihilo tamen setius, ciò non pertanto, sembra che stenti a collegare due cose opposte, o che tali a prima vista potrebbero sembrare: un contegno comprensivo, forse finanche affettuoso, con Induziomaro; la convocazione uno a uno, si.ngillatim, che è quanto dire per vie nascoste, dei capi treveri per guadagnarli alla causa di Cingetorige. Induziomaro - che pur aveva assolto a tutte le imposizioni del generale romano - si offese profondamente di questa diminuzione del proprio prestigio fra i suoi. Nemico di Roma già lo era: arse più che mai di odio per quest'affronto, multo gravius hoc dolore exarsit. Cesare avrebbe potuto trattenere anche lui in ostaggio, senza bisogno di sforzo per trovarne il motivo. Ma si guardò bene da simile violenza: il . popolo trevira, da quanto sinora s'è potuto dedurre e meglio si dedurrà in seguito, era tutto, meno alcune fazioni dell'aristocrazia, con Induziomaro. Sistemate così le cose, Cesare raggiunse Porto !zio con le legioni.


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Siamo, approssimativamente, alla fine di giugno: tutta questa faccenda - solo assopita: avrà, presto, drammatici sviluppi - sarebbe durata un mese o poco più e si sarebbe svolta a1 confini del paese dei Treveri; nel territorio, approssimativamente, di Arlon, ipotesi che porterebbe a un settecento i chilometri percorsi, andata e ritorno, dalle quattro legioni e ottocento cavalieri.

DUMNORIGE ODIAVA CESARE E ROMANI .

Cesare in quel di Boulogne venne a sapere che sessanta onerarie costruite dai Meldi (abitavano fra Marna e Senna - li ricorda la città di Meaux e pertanto in comunicazione fluviale con la Manica), respinte dalla tempesta, non avevano potuto - dall'estuario della Senna a Porto lzio - mantenere la rotta ed erano ritornate al punto di partenza: ma tutte le altre trovò pronte per la navigazione, paratas ad navigandum, e fornite di tutto quanto era stato stabilito. Nel porto di Boulogne spettacolo grandioso: le navi (anticipiamo il dato) erano più di ottocento, amplius octingentae. Le onerarie potevano essere un seicentoventi; le navi lunghe, con le ultime ventotto, anche un centinaio: in tutto, dunque, più di settecento quelle d'uso militare. Perchè sono da aggiungere, un cent:naio quindi, navi mercantili vere e proprie fatte costruire da privati per interesse personale, sui quisque commodi (che significa qu~sta notazione a mezza bocca? questa intrusione, per meglio dire, di natura commerciale?). Le ottocento e più navi, ormeggiate a riva per facilitare le operazioni di carico, dovevan coprire gran tratto del pur ampio arco del porto, e intenso doveva essere il traffico tra porto e campo; campo la cui area è da misurare a chilometri: otto legioni e tutto il resto: una città. Cesare dice: « Sul posto convennero anche la cavalleria di tutta la Gallia - quattromila cavalieri - nonchè i principes di tutti i popoli, principesque ex omnibus civitatibus ». Quattromila cavalli sono, per i tempi, gran numero: non tuttavia esorbitante. Ogni paese, in emulazione con gli altri, potè quindi offrire quanto di meglio avesse in fatto di cavalieri quadrupedi armi equipaggiamenti: la migliore gioventù deWaristocrazia, il fior fiore della cavalleria gallica. I capi, principes: le più alte cariche pubbliche nonchè personaggi per censo e clientele più noti e influenti. E anche questi, ·così come voleva il fastoso costume gallico, specialmente guerriero, con sèguitì armi vestimenti adeguati al prestigio del proprio popolo e casato.


Ma la partecipazione all'impresa di codesti capi o principes che dir si voglia, per pittoresca che fosse e voglia renderla la fantasia, assume subito un significato politico serio e grave.

Dice: « Avevo deciso di lasciare in Gallia solo i pochissimi capi, perpaucos, di provata fedeltà e di portare con me gli altri, quali ostaggi, obsidum loco, perchè temevo una rivolta in Gallia durante la mia assenza ». Di provata fedeltà, alle spalle, non ne vedeva che pochissimi, perpaucos. Costretto, perciò, al sequestro delle persone: su invito che coprisse l'ingiunzione, dovevano seguirlo in Britannia i capi, di gran lunga i più, da lui ritenuti infidi o che appena gliene suscitassero il sospetto. E la pos:zione di costoro segnala senza circonlocuzioni: in qualità di ostaggi: obsidum loco. Un atto di violenza per poi ottenerne una sicurezza, se ci si pensa, molto relativa: nessuno a questo mondo è insostituibile, e se l'impresa gli si risolveva male o malissimo il posto di quei capi sarebbe stato subito preso da altri divenuti più risoluti anche per quell'affronto. Comunque: l'impresa sta per iniziarsi tra quel sequestro di persone inteso a conseguire una sicurezza alle spalle solo temporanea e la convinzione o speranza - su fondamenti nessuno fermissimo e qualcuno assai malfermo - che fra quel sequestro e il momento in cui l'impresa potrà dirsi compiuta non ci sarà in Gallia posto per una forza contraria che possa inserirvisi e affermarsi. Non v'è traccia che qualcuno di quei principes abbia opposto all'invito rifiuto o resistenza. E può anche darsi che parecchi di essi, i non disposti a eroici furori, vi aderissero con qualche segreto sollieyo: la partecipazione da spettatore all'impresa male di gran lunga minore degli scomodi di una rivolta. A Boulogne, sicchè, i Galli, capi e gregari, ebbero modo di ammirare la strapotenza organizzativa, terrestre e marittima, dei Romani, e i Romani di compiacersi del portamento vivace e bizzarro, sì diverso dal loro, dei Galli. Vi si stabilì, fors'anche, uno di quei momenti di cordialità guerriera che possono talvolta e per qualche tempo sussistere fra stranieri malgrado diversi o avversi, e comunque ancor latenti, presupposti politici.

Ma uno c'era fra i principes che tutto quel fervore di opere riguardava (e qui ogni fantasia è nel vero) con occhio freddo e animo ostile. Lo conosciamo: è Dumnorige, principe eduo, fratello minore del gran collaborazionista Diviziaco; è colui che quattro anni or sono ci sembrò di poter sicuramente individuare come l'autore della profezia riferita a Cesare dal vergobreto Lisco: Nessuno si faccia illusioni: vinti gli Elvezi, i Romani priveranno della libertà gli Edui e tutta la Gallia.


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Anche Dumnorige era allora consapevole e preoccupato dei due mali che, l'uno richiamando e complicando l'altro, affliggevano la Gallia: il permanere degli implacabili dissidi interni e la pressione migratoria dei Germani. Ma Dumnorige - in contrasto con suo fratello che s'era rivolto a Roma aveva puntato le sue speranze su un futuro aiuto degli Elvez1, allorquando questi fossero riusciti a prendere stabile dimora nel Saintonge. Aveva cioè aderito al patto Orgetorige; la progettata federazione di tre regni - eduo sequano elvetico - la quale avrebbe dovuto opporsi, una volta affermata la sua supremazia politica su tutti gli altri popoli della Gallia, al pericolo germanico nonchè al pericolo dell'avanzata di Roma dalla Provincia che la stessa profezia di Dumnorige mostra altrettanto avvertito e più certo. Tali i progetti di Dumnorige; improvvisamente contrastati dal rapido declino della fortuna di Orgetorige. E tre anni dopo quel patto, quando gli Elvezì, da Dumnorige favoriti, avevano potuto finalmente muoversi, Roma aveva fatto sentire, perentoria, la sua voce: secondo un suo proconsole, le due questioni, migrazione germanica e m igrazione elvetica, non potevansi, anche per Roma, considerare disgiunte. Dumnorige perciò costretto a scegliere fra l'amicizia con gli Elvezt e l'aiuto di Roma col sacrificio degli Elvez1; fra il suo progetto, che tendeva a un fine non vicino e l'opinione generale che vedeva in un esercito romano, apparso oltre Rodano quasi per incanto, la salvezza immediata della Celtica. Un Dumnorige, al tempo della guerra elvetica, amico degli Elvez1 e comandante di cavalleria al servizio di Cesare contro gli Elvez1; al servizio di Cesare, e oppositore aperto, - e, a detta di Lisco, anche spia - nello stesso campo romano, della politica filoromana della maggioranza dei suoi connazionali. Il ragguaglio sulla vita privata e pubblica di Dumnorige lasciatoci da Cesare a suo tempo (e che omettemmo), comincia con una nota favorevole: uomo di grandissima audacia, summa audacia. Segue una pennelbta che dà al personagg:o sfondo: era in gran favore presso la plebe per le sue liberalità. E gli si riconosce una disposizione politica che Cesare non poteva, proprio lui, considerare negativa: era bramoso di rinnovamenti. Audace, munificente, niente affatto retrivo: un Dumnorige, sino a qui, grad:to. Poi però le tinte si oscurano. Un dato di fatto pesante: Dumnorige da parecchi anni aveva in appalto a basso prezzo, parvo pretio, le. dogane e tutte le altre imposte degli Edui, giacchè quando alle aste concorreva lui, nessuno osava a lui contrapporsi nel/'offerta, ilio licente contra liceri audeat nemo: detentore, dungue, col peso dell'alta posizione sociale di profitti spettanti al pubblico erario. Con questi sistemi, aveva accresciuto il suo patrimonio privato e s'era procurato grandi mezzi per le largizioni: il grande favore presso la plebe era in fondo alimentato da pubblico danaro. Manteneva a sue spese, suo sumptu, un gran numero di cavalieri che gli costituivano guardia del corpo: una potenza auto-


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noma, visibile all'occhio, quasi regale. La, sua grande influenza si estendeva non solo neL suo paese ma anche presso i popoli confinanti: a lui favorevole dunque anche la stima fredda e calcolatrice degli stranieri. In virtù di questo suo potere, - fuori confine si faceva assegnamento sulla sua futura fortuna s'era potuto giovare di una lunga catena di matrimoni politici: aveva collocato la madre fra i Biturigi (popolo celtico che ritroveremo fra tre anni in procellose circostanze) dandola in moglie a un uomo molto nobile e_potente di quel paese; aveva preso moglie dagli Elvezt, la figlia di Orgetorige; inoltre : una sua sorella per parte di madre (che madre: sarebbe stata, fra i Biturigi, al marito numero tre), e altre sue parenti apeva dato in nozze in altri paesi. Per quel legame ài parentela - marito, ossia, di nobildonna elvetica D umnorige era portato a favorire gli Elvezz, - interessi familiari offuscavano perc:ò in lui la visione del bene pubblico - ma egli odiava anche per conto suo Cesare e Romani, odisse etiam suo nomine Caesarem et Romanos. Parentela con gli Elvezì ma anche odio per Cesare e Roma: non tutto dunque privato interesse; e li odiava perchè con il loro arrivo la sua potenza era diminuita e il fratello Diviziaco era ritornato alla popolarità e agli onori di un tempo. Non c'è scampo, allora: anche l'odio per Cesare e per Roma conseguenza di offeso interesse privato. Dumnorige pensava che se le cose andavano male per i Romani, egli aveva buonissime speranze di ottenere il regno con l'aiuto degli Elvezf: sotto t'impero del Popolo Romano invece doveva rinunciare non soltanto al regno (Cesare, repubblicano, non creava o restaurava monarchie. E Commio? Una eccezione) ma anche al pubblico favore di cui godeva. Sicchè, concludendo, s'era posto su strada tutt'altro che comoda l'affarista Dumnorige: lungo e complesso il procedimento che doveva portarlo, con armi galliche e non straniere, al trono; e contro corrente, sino a vedersi diminuito il pubblico favore, nel suo stesso paese. Ragguaglio, ripetiamo, di quattro anni fa, quando Dumnorige ci apparve la prima volta su denunzia del vergobreto Lisco.

Cesare dice: « Fra i capi che dovevano seguirmi in Britannia c'era Dumnorige, eduo, personaggio di cui ho già parlato. Lui per primo, in primis, avevo deciso di portare con me perchè lo conoscevo avido di novità, avido di potere, di grande animo, di grande autorità fra i Galli, magnae inter Gallos auctoritatis ». Un Dumnorige, dopo quattro anni, più vivo di prima. Avido di novità, di potere, coraggioso; qualità già importanti, a cui però si aggiungeva, superandole, la di lui grande autorità non « inter suos » ma « inter Gallos »: non solo fra gli Edui ma in tutta la Celtica. E tutt'altro che sconosciuto, potremmo aggiungere, nelle altre due Gallie e nella stessa Provincia.


Uomo, certamente, di rilievo; sebbene non si possa dire che cosa egli abbia fatto, dopo la guerra elvetica, in questi quattro anni in cui è pur rimasto fra i suoi. S'è comportato da avversario sd~gnosamente rinchiusosi, poniamo, nelle sue terre? da ipocrita collaborazionista quelle volte che non ha potuto farne a meno? Un proietto, inesploso, diremmo, sebbene tenuto d'occhio, su luoghi di traffico.

Dumnorige riteneva se stesso pedina importantissima nel giuoco politico dell'intera Gallia e riteneva che tale lo considerasse anche Cesare. Il quale, infatti, dice: e< Ai motivi or detti si aggiunga questo: che in un concilio degli Edui aveva affermato che fosse mia intenzione dargli il regno del suo popolo, regnum civitatis ... ». Ci par di sentire le parole con cui Dumnorige dovè esprimersi nel concilio: signori, chi più di me interessato a una politica filoromana se Cesare mi ha fatto sapere che è disposto a conferirmi titolo e potere di re degli Edui? Eppure . .. Pubblica affermazione che creava un forte imbarazzo fra Cesare e quegli Edui che costituivano pilastro alla politica romana in tutte e tre le Gallie. Le monarch:e in Gallia, ripetiamo, non erano ormai che sgradito ricordo; e perciò: mal sopportavano gli Edui la dichiarazione di Dumnorige, pur non osando (state a sentire) mandar messi a Cesare per ricusare o deprecare tale eventualità ( neppure il coraggio di fiatare: tanto godevano di indi pendenza; · tanto temevano - e come si fa a non sospettarlo? - che quell'affermazione non fosse infondata). Tal fatto Cesare venne a sapere dai suoi ospiti, ex suis hospitibus Caesar cognoverat, da qualcuno cioè di quei capi portati dietro quali ostaggi: .fu quindi da lui saputo quando era in atto o appena avvenuta l'adunata dei principes in quel di Boulogne e Dumnorige era qui giunto o stava per giungere. Ci par di sentire le parole con cui Cesare accolse l'informazione : è pazzo! e che potere ho io di ingerirmi nelle faccende interne degli Edui, amici e consanguinei del Popolo Romano?

Che l'affermazione di Dumnorige fosse destituita di buoni fondamenti o addirittura falsa, lo si può anche pensare: potè essere una illazione su frasi di rispetto e considerazione pronunciate da Cesare e a Dumnorige giunte, magari ampliate, per vie indirette. Ma neppure si può escludere che Cesare gli avesse lanciato da lontano, nascondendo poi la mano, qualche vaga o meno vaga promessa: Dumnorige potenziale correttivo contro eventuali tentennamenti della politica edua (come mai di Diviziaco non si sente più parlare?) e, acuendosi l'incertezza della situazione generale (non siamo, già ora, al se-


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questro delle persone?), un uomo - di gran forza d'animo, di grande autorità nel suo paese e fuori - a cui poter affidare il pilastro eduo. Se la dichiarazione di Dumnorige era frutto di invenzione o di illazione, c'era, per Cesare, di che infastidirsi: ma non poi tanto. Il buon rapporto di quattro anni fra lui e le autorità edue avrebbe presto o meno presto smentito le dicerie e fugato le ombre. Se ne dicono, sempre, tante; specie quando un popolo ha « alacer ac promptus animus », ossia fantasia infiammabile e, come abbiamo inteso dall'inciso incantatore, libertà di radio. E poi (la risposta all'interrogativo che segue ci verrà incontro da sè, a suo tempo): possibile che potesse trovar credito la voce della creazione di una sì grossa monarchia sul solo esempio di quella di Commio nella modestissima comunità, fra le più barbare, degli Atrebati? Che se, invece, la dichiarazione rispondeva a verità di cui esistesse anche solo qualche indizio, l'offesa a Cesare diveniva grave, a sangue: Dumnorige, per dirla come si conviene, avrebbe sputato, in pubblico, sul buon piatto che Cesare - non del tutto cautamente se l'indizio esisteva - gli aveva offerto.

Quando Dumnorige giunse nel campo romano diremmo che non sapesse che la sua dichiarazione fosse uscita dal concilio e giunta dove non doveva. Dovette avvertire i segni della grav:tà della sua situazione o per fredda accoglienza da parte di Cesare o per indiscrezione di personalità galliche del quartier generale romano. Eccolo, comunque, nella stessa ambigua posizione di quattro anni fa: amico, e ci dirà presto il perchè, dei Britanni e comandante del contingente di cavalleria edua contro i Britanni; aderente all'invito di Cesare e, pur ospite nel campo romano, antiromano irriducibile. Cesare dice: « In un primo tempo egli cominciò a tempestarmi dì istanze per essere lasciato in Gallia: e perchè, non essendo abituato a navigare, temeva il mare, e perchè diceva di essere afflitto da scrupoli religiosi ». Dumnorige tentò dunque di squagliarsela con estrema correttezza. Cesare avrà così risposto a chi intercedeva per lui: comprendo la particolare sensibilità alla navigazione di Sua Nobiltà (Dumnorige era fra i più grandi signori della Celtica: volete che non godesse di un qualsiasi barocco titolo?): ma per viaggio così breve non posso privarmi di un comandante come lui. Conosco e rispetto il suo sentimento religioso, e ben so che la Britannia è venerata culla della vostra religione; ma la guerra è la guerra, e se per un tal motivo dispenso lui, per lo stesso motivo dovrei dispensare chiunqu' altro ... Dice : « Quando Dumnorige vide che il permesso di restare in Gallia gli era decisamente negato .. . >> . A questo punto, dopo tali dinieghi, cominciò la condotta nervosa, o per meglio dire l'ossessione, di Dumnorige.


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Quando Dumnorige vide che il permesso di restare in Gallia gli era decisamente negato, ... perduta ogni speranza di spuntarla, cominciò a far pressioni sui capi della Gallia; a chiamarli a uno a uno, esortandoli a rimanere nel continente; a spaventarli addirittura, metu terr:tare. Diceva loro: non senza motivo la Gallia viene spogliata di tutta la sua nobiltà; questo è l'intento di Cesare, id esse consilium Caesaris: quelli che non ha osato uccidere al cospetto della Gallia, li ucciderà, tutti, quando li avrà condotti in Britannia, hos omnes in Britanniam traductos necaret. Come però poteva egli pensare che trovasse credito sì tremendo sospetto? Oppure: quali fatti riteneva che potessero rendere tal sospetto passabile? Nè mancavano capi a cui Dumnorige, o per identità di vedute o per rapporto di dipendenza e di interessi, potesse chiedere e pretendere aperta e concreta adesione al suo punto di vista: ad altri egli giurava e faceva giurare che avrebbero preso di comune accordo le misure che fossero ritenute alla Gallia utili. Una vera e propria cospirazione ebbe dunque inizio nel campo romano. Cesare dice: « Queste cose, da parecchi, a compluribus, mi venivano riferite». Quattro anni fa, ad accusar Dumnorige fu il vergobreto in persona: ma allora molti erano gli aperti sostenitori dell'alleanza con Roma; questa volta, la denunzia è anonima: da parecchi, a com pluribus (da chi? ma chi mai è capace di pescarli nei gorghi del doppio giuoco ?). Dice: « Messo al corrente della cosa, qua re cognita, data l'importanza che attribuivo al popolo eduo, mz proponevo di frenare e distogliere Dumnorige dai suoi tentativi con qualunque mezzo potessi . .. ». Allusione a un'azione, per rispetto agli Edui, su Dumnorige preventiva; anche se alquanto m eno garbata di quella di quattro anni or sono, risoltasi, ·dopo il pateùo incontro con Diviziaco, in un ammonimento.

Dice: « ... Ma poichè vedevo che la sua pazzia, eius amentiam, ognora cresceva, longius progredì, pensai che fosse necessario impedirgli che nuocesse e a me e allo Stato ». L'intento di un'azione preventiva sarebbe stato insomma abbandonato di fronte alla pazzia, di giorno in giorno in aumento, di quel signore; sarebbero state necessarie quindi, a un certo punto, misure a difesa della propria persona (era da temere anche un attentato?) e degli interessi di Roma. Poichè sempre più avanti la di lui pazzia avanzare vedeva ... In effetti, solo un pazzo a galoppo poteva pensare di accendere la rivolta o sia pure un aperto dissenso nello stesso campo rom·ano. L'ipotesi della pazzia filerebbe veloce e indisturbata sino in fondo se però non dovesse fare i conti con due segnalazioni che non abbiamo certo dimen-


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ticato: Dumnorige fra i primi, in primis, Cesare aveva deciso di portare con sè; Dumnorige di grande autorità fra i Galli, magnae inter Gallos auctoritatis: il potere nocivo di D lllmnorige, insomma, rilevato e valutato - e perchè non dir temuto? - già da tempo, dai giorni, si potrebbe ben dire, del mancato invio del grano da parte delle autorità edue rimaste a Bibracte. La pazzia avrebbe perciò colpito proprio il sequestrato capolista, proprio l'anticollaborazionista di maggior peso nella Celtica, proprio colui che ha svelato quali fossero, secondo lui, le riposte intenzioni romane nelle faccende interne degli Edui.

La durata della cospirazione di Dumnorige nel campo romano non fu breve: le forze destinate alla spedizione dovettero sostare in quel di Boulogne per circa venticinque giorni perchè la navigazione era impedita dal vento Coro che soffia (da nord ovest) in quelle regioni per la maggior parte del!'anno. Perciò più di tre settimane di nascosto duello - ma sino a che punto nascosto? quanti indubbi segni, oltre i segreti conciliaboli, lo rendevano agli altri capi patente? - fra Cesare e Dumnorige. Cesare dice: « Pertanto - durante quella sosta di circa venticinque giorni - svolgevo opera, dabat operam, intesa a tener sulla buona strada Dumnorige, senza tuttavia, nihilo tamen setius, trascurare di tenermi al corrente di tutto ciò che egli faceva». Il « dabat operam » significa tutta la buona volontà per trattenerlo su sì brutta china - lo fece consigliare da autorevoli intermediari? lo chiamò a colloquio presso di sè? - ma quel che segue (anche qui, come per Induziomaro, fa da avversativo il « nihilo tamen setius >>) ma quel che segue - quel tenersi al corrente di tutto ciò che Dumnorige fa - non sappiamo se solo integrò, o sopravvanzò e di quanto, la volontà di ridurlo alla ragione con mezzi conciliativi. Ed è qui, forse, la chiave, ormai perduta, dell'indagine: se Dumnorige venne nel campo romano con l'intento di cospirare (sotto gli occhi di Cesare? fra gli artigli di otto legioni? L'ipotesi della pazzia, in tal caso, trionferebbe) oppure se la cospirazione gli fu provocata e acuita - fino a generargli nel1' animo il presentimento di una triste sorte che in Britannia poteva attenderlo - dalla vigilanza offensiva che lo attanagliò (per fargli ringoiare, di fronte a tutti, lo sputo sul buon piatto?) sin dal suo primo apparire nel campo (vigilato speciale, del resto, già lo era da quattro anni: dopo l'ammonimento, Cesare, come ricordiamo, gli pose vicino persone incaricate di riferirgli quel che facesse e con chi parlasse). Una vigilanza intesa a scoprire, si direbbe, di quell'inquieto ogni pensiero, omnia eius consilia, e lunga oltre tre settimane.


· LIBERO UOMO! DI LIBERO POPOLO!

Dice: « Finalmente, approfittando di un tempo adatto alla navigazione, ordinai l'imbarco della fanteria e della cavalleria». L'impresa trevira terminata, secondo quanto abbiamo supposto, alla fine di giugno, e poi un venticinque giorni di forzata sosta a Boulogne: saremmo, ora, a oltre metà luglio.

Ma proprio nel momento dell'imbarco, nell'affaccendamento impegnativo di un'operazione sì delicata, il proietto che abbiamo dato per inesploso su vie di traffico scoppiò. Mentre l'attenzione di tutti era rivolta alle operazioni di imbarco, Dumnorige, con la cavalleria edua, cum equitibus Haeduorum, senza che Cesare potesse prevederlo, insciente Caesare, - era un momento di crisi generale in cui non potevansi impedire che ciascun contingente si presentasse all'imbarco riunito - Dumnorige dunque con la cavalleria edua si allontanò dal campo diretto verso il suo paese. A tal notizia, qua re nuntiata, ... Una risata generale: questo, almeno oggi, il primo effetto delle fughe celebri. Ma che maestro! I più, anche senza volerlo, solidali col fuggiasco. A tal notizia, ... Cesare, sospesa la partenza, - non solo sospende la partenza ma sente il bisogno di aggiungere: e messa in seconda linea ogni altra cosa, atque omnibus rebus postpositis, - sospesa dunque la partenza, lanciò gran parte della cavalleria a inseguirlo, magnam partem equitatus ad eum insequendum mittit. Dice: « Pensavo che non potevo aspettarmi nulla di buono, durante I.a mia assenza, da chi mi era divenuto ribelle sotto gli occhi>>. Temeva la polveriera che si lasciava alle spalle e riteneva Dumnorige l'unico, sul momento, che potesse appiccarvi il fuoco. Gli ordini da lui dati al comandante della cavalleria lanciata all'inseguimento sono precisi: intendo che mi sia qui ricondotto; ove opponga resistenza o, comunque, non obbedisca, sia ucciso: si vim faciat neque pareat interfici iubet. Dumnorige doveva sparire dalla circolazione alla prima, purchè giustifìcabilissima, occasione; Dumnorige éolto ora in flagrante rivolta se non vogliamo dire diserzione; e perciò: se si oppone e comunque si opponga all'atto um~liante che dovrà intanto segnare il crollo del suo personale prestigio, sia UCCISO.

Ma mentre il comandante romano galoppa con là sentenza di morte già firmata, ci ritornano all'orecchio quattro parole: Dumnorix cum equitibus Haeduorum. Cioè, dopo tanto affannarsi, egli era fuggito con la sola cavai-


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leria edua: non era riuscito a trascinarsi nessuno di quei principes pur a Cesare infidi, neppure quelli a sè vincolati da giuramento. Fu raggiunto da quella « gran parte » della cavalleria romana il giorno stesso della fuga? Fra le due cavallerie non s'impegnò alcun combattimento: questo appare certo. Il comandante romano dovè quindi aver ottenuto, com'era del resto suo dovere, di parlamentare con Dumnorige da amico, sì che un certo numero di Romani s.i potè spingere pacificamente sino alla di lui persona; e il colloquio si protrasse, forse anche cortese, sino a quando un deciso rifiuto obbligò il comandante romano a scoprire le carte. Invitato infatti a ritornare, Dumnorige comincia a opporsi e impugna la spada, resistere ac se manu defendere, a invocare la fedeltà dei suoi, suorumque fidem implorare coepit ... Grida più volte, saepe clamitans: liberum se liberaeque esse civitatis, son libero uomo! di libero popolo! I cavalieri roman·i - così come era stato ordinato, ut erat imperatum, ne circondano la persona e lo uccidono, circumsistunt hominem atque interficiunt.

Gli altri comandanti della cavalleria edua, ora che il Principe era a terra esanime, temerono ,le conseguenze su se stessi e sul loro popolo di una loro reazione o, ammesso che ne avessero la possibilità, di un'ulteriore fuga. Onde questa rapida e dimessa chiusura: ma i cavalie,:i edui ritornano tutti a Cesare, ad Caesarem omnes revertun tur.

L O SPAZIO E' TEMPO

LA

TRAVERSATA.

Chiuso l'episodio, Cesare lasciò Labieno nel continente con tre legioni e duemila cavalli, incaricandolo: di presidiare il porto; di provvedere ai rifornimenti di grano; di sorvegliare ciò che avveniva in Gallia e di prendere lui le decisioni che le circostanze potessero richiedere. Egli, con cinque legioni, cum quinque legionibus, e un numero di cavalieri pari a quello lasciato in continente, salpò, al tramonto, per la Britannia. Per la prima spedizione, furono lasciati in continente due blocchi di forze: il presidio di Porto lzio e la colonna contro Morini e Menap1; questa volta un blocco solo: tre legioni e cavalleria ferme e accentrate nelle mani di Labieno; al quale è stata data facoltà di agire, ove la situazione in Gallia lo richiedesse, d'iniziativa. · Sbarcheranno dunque nell'isola cinque legioni e duemila cavalli.


La seconda spedizione

in

Britannia.

Se potessero valere i calcoli congetturati per la prima spedizione, si avrebbero impegnate circa duecento onerarie per il trasporto delle cinque legioni - una forza complessiva da venti a··venticinquemila legionari - e un'ottantina per la cavalleria. Ma nessuna traccia è rilevabile circa il resto delle forze e dei mezzi imbarcati: arcieri e· frombolieri, ciurme, carpentieri, carri, quadrupedi, materiali bellici, viveri, foraggi, conducenti, servi, e via dicendo; tutto ciò che poterono richiedere, con l'esperienza dell'anno scorso, i progetti operativi questa volta più complessi.


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Ad solis occasum naves solvit et lenì Africo provectus media circiter nocte vento intermisso cursum non tenmt et longius delatus aestu orta luce sub sinistra Britanniam relictam conspexit : al tramonto salpò, spinto da leggero Affrico; ma verso mezzanotte, caduto il vento, non riuscì a mantenere la rotta, sì che, portato lontano dalla corrente, vzde, all'alba, che aveva lasciato la Britannia sulla sinistra. Il grande convoglio - suddiviso, probabilmente, in grossi scaglioni, ognuno guidato da un certo numero di navi lunghe - salpò da Porto !zio, secondo l'ipotesi prevalente, al tramonto del 20 luglio: più di un mese prima rispetto alla presunta data di partenza della prima spediz:one. E nella notte fra il 20 e il 21, per circa quattro ore, dal tramonto a mezzanotte, come abbiamo appena inteso, le navi furono sospinte da un leggero e favorevole vento di sud ovest, che Cesare chiama Affrico; ma per circa altrettanto, da mezzanotte all'alba, subirono la corrente deviatrice prodotta dal montare della marea. Sicchè solo all'alba, al riflusso della marea che rese pressochè favorevole la corrente, - ma anche perchè le coste della Britannia, visibili, poterono fare da bussola - fu possibile riguadagnare la rotta. Dice: « Allora, quando la Britannia fu in vista, seguendo la corrente prodotta dal riflusso, mi diressi a forza di remi, remis contendit, verso quella parte dell'isola dove nell'estate precedente avevo sperimentato tutte le condizioni favorevoli allo sbarco». Lo sbarco avverrà dunque di nuovo a W almer (o a Deal o fra W almer e Deal o, come altri vogliono, in località più a nord di Dea!, in quel di Sandwich). La corrente prodotta dal riflusso della marea non era tale che il grande convoglio - una volta effettuata la conversione a sinistra - si potesse affidare solamente a essa per raggiungere Walmer: e perciò la navigaz:one, dall'alba in poi, fu laboriosa; e la rotta mantenuta, come ci è stato appena detto, a forza di remi. Con la nuova oneraria fu questa volta possibile l'ausilio dell'organizzazione rematoria: in questa occasione si dimostrò la grande bravura dei soldati che, con pesanti navi da trasporto, remando ininterrottamente, non intermisso remigandi labore, pareggiarono la velocità delle navi lunghe. La coesione del convoglio si potè ottenere - ora ch'era aumentata, con i remi, la velocità delle onerarie - con lieve riduzione della velocità delle navi lunghe. La Britannia fu raggiunta da tutte le navi circa a mezzogiorno, meridiano fere tempore. Circa sedici ore di navigazione. Poco meno del tempo impiegato, nella prima spedizione: però, questa volta, sino a Walmer e a convoglio riunito. L'approdo segnò meglio la differenza fra le due spedizioni: nella prima, onerarie incantate al largo; questa volta, le onerarie, tutte, metro più metro meno, accostate a riva.


Svanito perciò l'incubo, in chi lo aveva patito e in chi ne aveva sentito solo parlare, del tuffo. E come se tal fortuna non bastasse, lungo tutta la chilometrica spiaggia di sbarco, e sin dove l'occhio poteva giungere, uno spettacolo che guerriero in mare più consolante non potrebbe desiderare: spiaggia deserta. Del nemico, in quei luoghi, nessuna traccia. Cesare seppe poi da prigionieri che grosse forze nemiche erano colà con{)enute; ma spaventate dal contemporaneo apparire di tante navi, multitudine navium perterritae, si erano allontanate dalla spiaggia e nascoste sulle alture. Nè potevano fare, sembrerebbe, diversamente : solo cinquecento navi, delle ottocento e più, che si fossero disposte in linea davanti alla spiaggia avrebbero assunto una fronte di circa otto chilometri (calcolo stretto: larghezza media del natante un cinque metri, più una decina di intervallo anticollisione tra l'uno e l'altro). Dove avrebbero trovato le forze i Britanni, specie cavalleria e « carri », per adottare la stessa tattica dell'anno innanzi? E li colpì anche lo spettacolo notturno del convoglio avanzante; non potendosi fare a meno di supporre che sì gran numero di navi, costrette a stretta vicinanza, e perciò in continuo pericolo di collisione, non navigassero, ognuna, con un segnale luminoso bene in vista (resina in combustione, o altro materiale, in vasi di metallo o coccio). In piena notte, le vedette britanniche delle alture poterono vedere e contare quelle luci: cento trecento cinquecento . . . Sì che le forze furono ritirate, se non era già deciso, più indietro.

NESSUNA DISTENSIONE.

Circa a mezzogiorno, il grande convoglio si trovò dunque al completo davanti alla spiaggia di sbarco. . Sbarcato l'esercito e occupata una posizione adatta al campo, - operazioni che non poterono non protrarsi sino a notte inoltrata - Cesare, appena seppe da prigionieri dove si erano fermate le forze nemiche, lasciate sulla costa, a presidio delle navi, dieci coorti e trecento cavalieri, si diresse, al terzo cambio della guardia, - fra mezzanotte e le tre - verso il nemico. Nessuna distensione. Si pose in marcia, con quasi tutto l'esercito, - la forza di quattro legioni e millesettecento cavalli - più vicino alla mezzanotte che alle tre se, come ora si sentirà, percorse diciotto chilometri di notte. Dice: « Non ave{)o gran che da temere per le navi perchè le lascia{)O al/'ancora davanti a spiaggia sabbiosa e piana, e il comando del presidio delle navi lo avevo affidato a Quinto Atrio >>. Anche l'anno scorso, la spiaggia era dell'istessa natura di questa, probabile anzi che fosse proprio la stessa; sebbene allora le onerarie erano ancorate al largo mentre ora lo sono vicino alla spiaggia, quasi a portat~ di mano.


Ma se la Manica s'incapriccia, sino a che punto tal differenza potrebbe giovare? Comunque: Cesare, appena sbarcato e appena saputo dov'era il nemico, prese senz'altro la decisione di rinunziare alle <e subdnctiones », le lunghe e pesanti operazioni per tirare in secco la flotta. Anche impiegando a tal uopo tutte le legioni avrebbe ritardato la marcia perlomeno due giorni; e anche di più, se il campo s'era dovuto impiantare, com'è quasi certo, su qualche zona elevata non vicina alla costa, e fosse perciò occorso trasportarvi le navi e chiudervele nel perimetro. Che la flotta rimanga dove si trova e si confidi in Nettuno. L'anno scorso, dopo gli sconforti del tuffo, senza contare quelli del plenilunio, il pensiero di agganciare subito il nemico - il che, si sa, è la prima regola della guerra - cedette subito il passo, ammutolito, alla Manica; ma questa volta esso ha preso il sopravvento di furia, nel cuore della notte. Cesare, dopo aver marciato durante la notte, per circa diciotto chilometri, giunse in vista - all'alba, evidentemente - di forze nemiche. Forze nemiche che si spinsero, con cavalleria e <e carri», sino a un fiume, e, da posizioni più elevate, accesero il combattimento, impedendo ai Romani il procedere. Il fiume - stando al dato di diciotto chilometri e a seconda se la partenza avvenne da Walmer o da Deal - potrebb'essere tanto la Piccola quanto la Grande Stour. Incontro avvenuto, comunque, a sud di Canterbury. I Britanni, respinti dalla cavalleria romana, si ritirarono nelle selve ... Sìcchè ora la cavalleria non serve più; e l'avanzata della fanteria attraverso la selva è faccenda seria, quasi quanto il passaggio d'un fiume. I Britanni si erano ritirati nelle selve, ... occupando una posizione egregiamente fortificata per natura e per arte - fortilizio, a quel che sembrava, impiantato già da tempo, in occasione di lotte interne - : e infatti tutti gli accessi vi erano preclusi da «abbattute ». Tutto sta, ora, che almeno un discreto numero di forze nemiche si sia effettivamente colà fermato con l'intenzione di accettar combattimento da fermo. Ma quanti fossero i Britanni colà fermatisi non lo si potè accertar subito perchè essi frecciavano i Romani standosene disseminati e occultati nella boscaglia, impedendo agli attaccanti di accedere nelle loro difese. Tiro subdolo ed efficace. Fu perciò necessario ricorrere al procedimento tattico della «testuggine» , che nell'esercito romano (un che di simile adottavano, come sappiamo, anche i barbari) doveva essere consueto e di rapidissima attuazione nelle operazioni ossidionali. Ma i legionari della Settima, - forse in prima schiera solo la Settima fatta la testuggine, testudine facta, - più testuggini, a gruppi - riuscirono, così protetti, a costruire un « agger » (qui, anzichè di terra, di tronchi d'al-

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bero) sino all'altezza e a contatto delle difese avversarie, sì che penetrarono zn quel fortilizio, snidarono il nemico dalla boscaglia, - nessuna resistenza, quindi - non subendo che perdite di pochi feriti. Promettente inizio, in complesso, se il nemico s'è fatto vivo. Dice: « Vietai un impegnativo inseguimento dei fuggiaschi sia perchè non conoscevo la natura dei luoghi e perchè, passata la maggior parte del giorno, volevo che restasse il tempo per la fortificazione del campo ». Le restanti ore di luce gli dovevano servire per la fortificazione del campo o meglio per riordinare prima di notte, ristabilendone coesione e collegamento, le considerevoli forze - un ventimila uomini, solo combattenti di fanteria - che avevano sino ad allora operato su terreni boscosi, rotti, sconosciuti. Quel tanto di sosta, non di più, necessario appena al respiro. Dice: « La mattina del giorno dopo, inviai tre colonne di fanteria e cavalleria, all'inseguimento del nemico in ritirata». Tre colonne leggere, seguite dalle restanti forze. Colonne che avevano già alquanto avanzato ed erano ormai in vista della retroguardia del nemico (nemico che vale la pena vedere da vicino, sia pure di sfuggita: tutti i Britanni si tingono con una speciale pianta erbacea - il guado - che dà loro colore turchiniccio e perciò in battaglia appaiono di più orrido aspetto. La chioma se la lasciano crescere ma radono ogni altra parte del corpo tranne, appunto, il capo e il labbro superiore: volto turchiniccio, prolisse chiome, baffoni spioventi); dunque: le tre colonne avevano alquanto avanzato ed erano già in vista di retroguardie nemiche, quando . . .

« IPSE AD NAVES REVERTITUR ».

Le operazioni sembrava che approdassero ad alcunchè di positivo, quando . .. giunsero a Cesare cavalieri mandati da Quinto Atrio ad annunziare che, nella notte precedente, sorta una violentissima tempesta, maxima coorta tempestate, quasi tutte le navi erano state strappate dal lido e sbattute contro la costa, perchè nè ancore nè funi avevano potuto resistere, nè ciurme e piloti avevano potuto tener testa alla forza della corrente; che insomma da quello sconquasso di navi erano derivati gravi danni, magnum esse incommodum. Avute queste notizie, Cesare ordina che legioni e cavalleria interr-0mpano l'inseguimento e si fermino. Che rimangano tutti, organizzato un campo, dove a un di presso si trovano: nessun atto che possa sembrare al nemico turbamento e ritirata. Ipse ad naves revertitur, egli ritorna alle navi. Quattro belle parole che però ci richiamano al suo .ottimismo per le navi all'ancora davanti a spiaggia sabbiosa e piana e sotto il comando, non si scherza, di Quinto Atrio.


Tornò alle navi e costatò di persona all'incirca vero quanto gli era stato comunicato dai cavalieri e dal dispaccio: perdute circa quaranta navi - e sino a qui, passi - e le altre si potevano riattare con grande fatica, magno negotio. Ossia si potevano riattare spendendo tempo prezioso al progetto operativo in atto che sul tempo è - come presto ben costateremo - esclusivamente fondato. Ricominciò pertanto, sulla spiaggia di Walmer o di dove che sia, ma in cantiere assai più vasto, il travaglio che aveva seguito l'anno scorso all'infausto plenilunio. Cesare chiamò dalle legioni operai adatti, altri facendone venire dal continente; e scrisse a Labieno di far preparare dalle legioni che aveva con sè il più gran numero possibile di navi. Inoltre (dichiarazione a denti stretti), quantunque l'operazione richiedesse molto lavoro e fatica, prese il provvedimento - quello, .finalmente, risolutivo, commodissimum, - di far tirare in secco tutte le navi e di riunirle al campo con una sola linea fortificata, una munitione. Tirate in secco le navi e ben fortificato il campo, vi lasciò lo stesso presidio di prima: la forza di una legione e trecento cavalieri. Ritornò, in.fine, donde era partito: alle legioni. Dice: « In questi lavori impiegai circa dieci giorni senza che i soldati riposassero neppur~ la notte ,, . Invece di quattro o cinque, di giorni, stante la complicazione della tempesta, se ne sono perduri quasi dieci.

CASSIVELLAUNO E TAMIGI.

Cesare, ritornato presso l'esercito, - in quel di Canterbury, quasi certamente - trovò che in quei luoghi erano affluite da ogni parte maggiori forze nemiche e che dai Britanni, di comune accordo, erano stati conferiti a Cassivellauno, permissa Cassivellauno (è il primo britanno che ci appare col nome), i pieni poteri per la condotta della guerra. Concentramento di forze e unità di comando possono voler dire che il nemico ha intenzione di impegnarsi: e più il suo esercito sarà numeroso più la battaglia, se si riuscirà a combinarla, sarà decisiva. Cesare venne inoltre a sapere che il confine fra le terre di Cassivellauno e le terre delle popolazioni costiere era segnato da un fiume chiamato Tamigi, flumen quod appellatur Tamesis, distanìe dal mare circa centoventi chilometri. Nominativamente segnalato il maggior .fiume della Britannia e valutata, approssimativa che sia, la sua distanza dalle coste di sbarco.


Ma quest'ultima notizia è meno buona della precedente. Perchè se Cassivellauno intendesse restare nel suo proprio territorio, i Romani saranno costretti, ai fini di un risultato degno di sì grande spedizione, a portar la guerra oltre Tamigi. Complicazione non indifferente, e per la perdita di tempo e per le difficoltà dei rifornimenti. Notizia che diviene poi quasi nera se integrata da quest'altra: prima di allora, gli altri popoli erano stati continuamente in guerra con Cassivellauno, - guerre, proprio, senza interruzione, continentia bella, - ma ora, spinti dall'arrivo dei Romani, a lui avevano affidato la suprema direzione della guerra. C'è di solito più da sperare che il peso della guerra provochi discordia e separazione fra genti unite da pur lunghe alleanze che fra accaniti nemici risolutisi all'unione per calcolate necessità; e perciò questa coalizione britannica, col suo centro politico e militare così lontano, ha tutto l'aspetto dell'atto politico serio, maturatosi dopo le esperienze della prima invasione. Cesare, ritornato alle legioni, aveva subito ripreso la marcia al nemico, partendo, si congettura, dalla Grande Stour. Saremmo ai primi di agosto. Cavalleria e « carri » nemici, equites essedariique, combatterono violentemente, acriter, con la cavalleria romana durante la marcia, in itinere; ma i cavalieri romani, ovunque superiori, respinsero gli avversari nelle selve e sulle alture. Solo che, avendone uccisi parecchi, inseguirono con troppa foga, cupidius, e subirono alcune perdite. Inciso però nebuloso: si riferisce a un determinato fatto d' arme oppure vuol dire che, per un certo numero di giorni, la cavalleria romana non subì arresti, pur essendo da ammettere che ogni qualvolta l'inseguimento fu « cupidius », troppo a fondo, essa non ne uscì indenne? Ma le nebbie cominceranno a diradarsi, subito.

Perchè quel che avvenne alcun tempo dopo la ripresa della marcia ci fa passare quasi bruscamente da una valutazione in complesso ai Romani favorevole a un'altra che lo è meno. Assai meno. I nemici, dopo un certo tempo, - un certo numero di giorni in cui non s'eran fatti vivi - mentre i Romani non se l'aspettavano, imprudentibus nostris, ed erano occupati nei lavori di fortificazione del campo, - il fatto potrebb'essere avvenuto in ore pomeridiane, a fine tappa ·- irruppero improvvisamente dalle selve e, attaccate le forze dislocate a guardia del campo, accesero duro combattimento.


Attaccato, si stenta a crederlo, il campo. Avendo Cesare mandato in aiuto due scelte coorti (circa mille uomm1: i primi, forse, nell'improvvisa contingenza, disponibili), e po.ichè queste si schierarono con brevissimo intervallo fra di loro (si schierarono, per confusione e timore, ammassate, cioè male), i Britanni, dopo aver atterrito quelle truppe con la lor tattica a esse nuova - la turbinosa azione preliminare al1' attacco che sappiamo - si lanciarono temerariamente in mezzo a loro, riuscendo poi a ritirarsi senza perdite, seque inde incolumes receperunt (dove incolumes starebbe a dire che le due coorti, investite, divennero due branchi di fuggiaschi se dei nemici, sotto il naso, non riuscirono a beccarne neppur uno). Quante le perdite romane? Cesare dice: « In quel giorno cadde il tribuno militare Quinto Laberio Duro». E se c'è chi ritiene che cadde solo Quinto Laberio Duro, meglio così. Mandate di rinforzo molte altre coorti, - forse un invio spicciolo, di mano in mano che le unità si approntavano - i nemici furono respinti. Episodio che più lo si considera più appare grave. Il nemico era dunque nelle condizioni di controllare la marcia delle forze romane sino al punto di operare una sorpresa proprio sul luogo della costruzione del campo, ossia del loro massimo concentramento. E perchè mai la cavalleria romana non risulta impegnata nè nella sicurezza del campo in costruzione nè durante lo stesso combattimento?

« lNTELLECTUM

EST • • .

».

Cesare dice.: « Dal complesso di questo combattimento, svoltosi davanti al campo e sotto gli occhi di tutti, sub oculis omnium, si comprese, intellectum est ... ». Ciò che si comprese ha, punto per punto, capitale rilievo. . Si comprese che ... i Romani, - la fanteria - a cagione della pesantezza dell'armatura, - che non permetteva loro nè di inseguire il nemico quando cedeva nè di combattere isolati fuori dei ranghi - erano poco adatti a un avversario di tal genere, minus aptos ad huius generis hostem. Le legioni combattevano inquadrate, bersaglio visibile e consistente, il nemico combatteva sparso e mobile. Si comprese che . .. i cavalieri romani andavano incontro a gravi rischi nel combattimento perchè i nemici di solito cedevano anche per finta e quando erano riusciti ad attirarli anche di poco lontano dalle legioni, saltavano giù dai «carri», ex essedis, e combattevano a piedi ponendoli in condizioni di inferiorità. I combattimenti equestri, insomma, si svolgevano in modo che per i Romani era pericoloso tanto il retrocedere quanto l'inseguire ..


Dov'è più la superiorità, ovunque, <e omnibus partibus», dei primissimi giorni? quell'inseguire « cupidius » con Poche perdite? E a ciò si aggiungeva che i nemici non combattevano mai riuniti, nunquam conferti, ma sparsi e a grandi intervalli, sed rari magnisque intervallis, e avevano forze scaglionate in profondità, stationesque dispùsitas; sì che, gli uni subentrando agli altri, truppe fresche sostituivano le provate. E che cosa vorrà mai Poter dire, dove tende, un siffatto scaglionamento in profondità? Questo, dunque, è quanto si comprese, intellectum est, doPo un certo numero di giorni dalla ripresa della marcia; esperienze culminate nella sorpresa avvenuta davanti al camPo, pro castris, e - si noti: potremo, in seguito, non ritenerlo solo un modo di dire - sotto gli occhi di tutti, sub oculis ommum. M.a appena ventiquattr'ore dopo sì forte sorpresa, i Romani si ebbero, senza che invero la cercassero, una specie di rivincita. Il giorno appresso, i nemici si tennero lontani dal campo, sulle alture, non mostrandosi che a piccoli gruppi, e attaccando i cavalieri romani con minor vigore del giorno innanzi. Mattinata, in complesso, calma. I Britanni non avevano più sorprese da fare ora che la cavalleria avversaria era sul chi vive: toccava ai Romani, se intendevano continuare la marcia, di riaccendere la lotta. Ma a mezzogiorno, avendo Cesare mandato a foraggiare, pabulandi causa, tre legioni e tutta la cavalleria (quando la cavalleria c'è, è. sempre segnalata), sotto il comando del Legato Caio Trebonio . .. Il <e pabulandi causa » non meraviglia dovendosi presumere che per i foraggi si facesse affidamento, diremmo esclusivo, sulle risorse locali. Dunque: anche questa volta, ... i nemici piombarono improvvisamente! repente, da tutte le parti, sui foraggiatori, sino al punto di non fermarsi che alle Insegne e alle legioni, ab signis legionibusque. Tutto lascia suppùrre che i Britanni non scelsero il momento giusto per l'attacco: si imbatterono nelle legioni (l'espressione « signa legionesque » può senz'altro significare legioni incolonnate) non anC'.)ra sparpagliate, o solo in minima parte, sui lavori. La reazione fu questa volta immediata: le legioni lanciatesi con vigore all'attacco, li respinsero, e non cessarono di inseguirli .. . Le tre legioni, che forse di mano iri mano si affiancarono, Poterono aver buon giuoco contro nemico sparso su ampia fronte. Li respinsero e non cessarono di inseguirli, ... sino a quando i cavalieri romani, - gran parte della cavalleria doveva trovarsi, all'inizio dell'attacco, dietro le legioni - confidando di poter essere prontamente appoggiati, dato che avevano dietro di sè le legioni (la combattività della cavalleria condizionata dunque al sostegno non immediato ma immediatissimo della fanteria),


misero i nemici in fuga precipitosa e, avendone uccisi un gran numero, non diedero loro il tempo di riunirsi, di fermarsi e di saltar giù dai « carri». Cesare dice: « In seguito a tal rotta, quanti erano accorsi da ogni parte in aiuto del nemico, subito si allontanarono ». Fanteria e cavalleria romane avrebbero conseguito sì favorevole risultato contro forze « accorse da ogni parte in aiuto », cioè raccogliticce, cioè richiamate dal successo, contro il campo, del giorno innanzi? Ma ecco, a chiusura della rivincita - quale ne fosse il valore - un'amara costatazione: . : . ma, dopo di allora, i nemici non combatterono più contro di noi con imponenti forze. Nè con forze imponenti nè con forze meno imponenti. Tutt'altra piega hanno preso, ora, le cose. Sono ora apparsi al generale romano problemi un anno fa imprevedibili: il combattimento, a esempio, tipo guerriglia, che avrebbe richiesto diverso armamento e addestramento di almeno parte della fanteria. Oppure problemi che pur s'erano presentati ma l'esperienza reale non era stata tale da farne misurare tutt'intera la portata: la tattica dei « carri>>, specialmente; a superare la quale - e come, se non con larghissimi aggiramenti? - sarebbe occorso cavalleria almeno tripla dell'attuale. I Britanni non sono più quelli dell'anno scorso, che si portarono all'attacco del campo in folla, confidando nel numero. Tutto è cambiato da allora: sulla spiaggia, allo sbarco, scena vuota; due premeditate resistenze - sul corso d'acqua e nel fortilizio silvestre - subito cessate; poi i successivi sbalzi indietro, combattendo, di cavalleria e « carri » e la pronta reazione castigatrice, quando l'inseguimento si faceva più audace; e infine, frapposto un certo tempo di assenza ingannatrice, la sorpresa violenta sul campo. Fra i Britanni c'è dunque una mente coordinatrice? qualcuno che ha fatto accettare un suo piano prima che avvenisse lo sbarco? una volontà che ora, in piena lotta, riesce a imporsi a tutti, o quasi, giorno per giorno? L'esercito romano è fra due nemici fra loro correlativi: l'incubo della Manica che, a parte i capricci, gli limita la permanenza nell'isola a neppure due mesi, sino all'equinozio di settembre, e ora siamo già in agosto; l'altro, i Britanni, che potrebbero far trascorrere i due mesi in ritirata, senza accettar battaglia. Due nemici a cui non si può non aggiungerne un terzo, che, se possibile, più li aggrava: la situazione politica nella Gallia. Se il barbaro Cassivellauno afferra tali correlazioni, non potrà e non vorrà che ritirarsi: sino al Tamigi, oltre Tamigi, combattendo o minacciando chilometro dietro chilometro.


Lo spazio è tempo. Quel che di Cassivellauno si può intanto affermare è che non s'è lasciato attrarre dalla sfinge delle guerre di coalizione: dalla ricerca a ogni costo di un iniziale successo che incoraggiasse gli alleati e consolidasse il suo personale prestigio. Se solo intento di C:issivellauno è la ritirata, a Cesare che decidesse di inseguirlo occorrerebbe riportare su di lui un notevole successo senza però pregiudicare il suo ritorno in continente prima dell'equinozio di settembre. Tutto, insomma, nei limiti, relativamente assai stretti, di una quarantina di giorni, quanti, a un di presso, potevano esserne rimasti dopo gli ultimi fatti d'arme. Che se invece Cesare, rinunciando all'inseguimento, decidesse di far ritorno, pur senza fretta, alla Manica, tutta questa spedizione apparirebbe, a lui per primo, un fallimento anche se tentasse di coprirlo con operazioni di lustra (incendi, saccheggi, razzie: la Britannia è di popolazione assai fitta, assai dense le popolazioni, assai numeroso il bestiame) con operazioni dunque di lustra nei territori finora attraversati o contro altre non lontane popolaz1om. Ma fu dilemma, se vi fu, che ebbe rapida soluzione.

AL TAMIGI

IL

PASSAGGIO.

Dice: « Avvertito che ebbi quale fosse il piano del nemico, condussi l'esercito al Tamigi, verso il paese di Cassivellauno, ad flumen Tamesim in fines Cassivellauni ». E neppure fu in imbarazzo per la scelta dell'itinerario dai luoghi dove erano avvenuti ì due ultimi fatti d'arme (zona di Westerham?) al Tamigi; chè il Tamigi si poteva passare a guado in una sola località, e anche qui a stento. Giunto che fu nella località del guado, - a Brentford, secondo la congettura più accettata, nell'odierna area di Londra - Cesare rilevò che la riva opposta era occupata da grandi forze nemiche già schierate ( ed era anche munita da pali appuntiti infissi tanto a. riva quanto sott'acqua). Sicchè: con intento difensivo, grandi forze britanniche sulla riva sinistra del fiume, schierate e protette da difese accessorie; quattro legioni e cavalleria sulla riva destra con intento offensivo. Siamo a un'operazione di forzamento di corso d'acqua? passato che sarà il fiume, se le difese su questo saranno strenue, avremo se non battaglia almeno un inseguimento di quelli memorabili?


A Brentford però non risulta che da parte romana vi sia stato indugio per la preparazione del passaggio: attestamento delle legioni al fiume e sondaggi dei guadi non dovettero presentare, con l'ausilio di guide indigene, particolari difficoltà. Cesare, mandata avanti la cavalleria, praemisso equitatu, ordinò che le legioni seguissero immediatamente, confestim legiones subsequi iussit .. . Espressione generica che non ci aiuta a farci un'idea neppure approssimativa di quale possa essere stato l'impianto di un'operazione di tanta difficoltà (se schierato e attivo il nemico) e vastità (date le molte migliaia di uomini che vi partecipavano). Sarebbe da escludere un'azione autonoma della cavalleria, sia che questa precedesse, anche di poco, la fanteria sia che fosse ripartita alle ali delle legioni. La cavalleria, passata che comunque fosse sulla sponda opposta, - passaggio in cui le grandi forze nemiche schierate, magnas copias instructas, l'avrebbero duramente provata - non si sarebbe poi potuta impegnare col nemico senza la quasi certezza - ma chi poteva dargliela in anticipo? che la celerità di guado della fanteria non l'avrebbe privata di immediato sostegno. Resterebbe in piedi la supposizione (che trova anche sostegno nel « confestim », nel!'ordine cioè che le legioni seguissero « immediatamente ») che alla cavalleria fosse stato assegnato il compito, più modesto ma nella contingenza più utile, di. precedere lungo tutta la fronte - via via indicando l'altezza dei guadi - il laborioso avanzare della fanteria, sino a che questa avesse almeno superato il filone del fiume. Ma anche in tal caso, come evitare grosse perdite se le grandi forze del nemico erano schierate, e anche protette da difese accessorie, sulla riva opposta? Cesare, mandata dunque avanti la cavalleria, ordinò che le legioni la seguissero immediatamenté, .. . ma i legionari avanzarono con tale velocità e con tale slancio, ea celeritate atque eo impetu, quantunque non avessero che la testa fuori dell'acqua, capite solo, che i nemici, non potendo sostenere l' impeto delle legioni e della cavalleria, impetum legionum atque equitum, abbandonata la riva, si posero in ritirata (e traduciamo pure fuga), ac se fugae mandarent. Ma che significa « non poter sostenere l'impeto » ? si combattè o non si combattè?

Non si combattè (indubitabile). Cavalleria e fanteria sarebbero giunte sulla riva opposta quando il nemico, sotto minaccia d'aggiramento su un'ala o su entrambe, - e se Cesare aveva avuto modo di porre in un'unica schiera tutt'e quattro le legioni ciò si può benissimo congetturare - aveva già abbandonato le posizioni.


Nel volgere di poche ore, a ogni modo, l'esercito romano si trovò sulla riva sinistra del Tamigi e in marcia verso il nord, mentre Cassivellauno aveva ripreso a indietreggiare.

PASSO LENTO E FATICOSO.

Cesare dice: « Cassivellauno, lasciata, come sopra ho riferito, ogni speranza di battaglia campale, omni deposita spe contentionis ... >>. Ne verrebbe fuori, accettando alla lettera codesta espressione, un Cassivellauno deluso; quando invece non ci è risultato alcun suo atto che riveli in lui l'intento di risolvere il conflitto con una battaglia. Cassivellauno, dunque, deposta ogni speranza di battaglia campale, ... licenziato il grosso delle sue truppe, e non conservando che quattromila circa «carristi », milibus circiter quattuor essedariorum ... Truppe poche, pochissime: ma veloci e combattive. C'è chi congettura (forse affidandosi alle monete: ma potrebbero essere figure simboliche) che su ogni e< carro » ci fossero, oltre il pilota, due carristi o anche uno solo; nei quali casi Cassivellauno avrebbe raggiunto la disponibilità, rispettivamente, di duemila e quattromila « carri ». Un tal veicolo (due o quattro le ruote, di robusta fattura, tirato da quadrupedi di specifica agilità e addestramento, di non facile formazione il pilota) per solo uno o due tiratori? sì scarsa, diremmo oggi, la potenza di fuoco del singolo carro? Quei carri, temibili per il loro saltuario e repentino impiego a piccoli gruppi o anche isolati, c'è chi più verosimilmente suppone che portassero, ciascuno, più tiratori ; nel caso nostro, supponendone anche solo quattro, attribuiremmo a Cassivellauno la disponibilità - ed è tutt'altro che poco di un migliaio di carri.

Ma subito dopo la segnalazione del provvedimento adottato da Cassivellauno - truppe pochissime ma veloci e combattive - Cesare denunzia, ormai a chiare note, che il suo passo operativo è divenuto lento e faticoso ( denunzia che però a noi sembra che si riferisca anche alla marcia prima di giungere al Tamigi).

Cassivellauno aveva licenziato la più gran parte delle truppe, non conservando che circa quattromila carristi ... e con questi sorvegliava le marce dei Romani, tenendosi un po' fuori della loro strada, col nascondersi in terreni boscosi e di difficile accesso ... Non più, dunque, successive resistenze ove il terreno offrisse qualche


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appiglio e neppure il vuoto: ma la sorveglianza ininterrotta, l'incubo, - sulla fronte sui fianchi alle spalle - del contatto invisibile . . . . e nelle zone dove sapeva che i Romani sarebbero passati, bestiame e uomini faceva sgomberare dai campi nei boschi, pecora atque homines in silvas ... La scomparsa, deprimente, di ogni segno di pacifica attività; sottratti e posti in salvo i beni mobili; sfrattata la popolazione. . . . e quando la cavalleria romana, per predare e devastare, si lanciava un po' più lontano per le campagne, Cassivellauno faceva uscire fuori dei boschi, da tutte le vie e i sentieri, i suoi ca"i e l'attaccava con grave pericolo, togliendole, con questa paura, libertà di movimento, hoc metu latius vagari prohibebat ... Paralizzata l'iniziativa della cavalleria e in marcia contro nemico inafferrabile la fanteria . . . . Cesare costretto a non lasciare che la cavalleria si allontanasse troppo dalla colonna delle legioni . .. La marcia sospettosa, tarda, avvilente che vede procedere l'una a ridosso dell'altra, quasi alla stessa andatura, cavalleria e fanteria . . . . sicchè si poteva recar danno al nemico con devastazioni e incendi ma per quel tanto che la fatica della marcia ciò rendeva possibile alla fanteria legionaria. Non gravi danni, cioè; e soprattutto, mortificata in queste faticose prestazioni la forza di quattro legioni.

Ben cinque le legioni trasportate in Britannia: ma per combattere contro chi? L'immanente minaccia dei carri - sulla fronte sui fianchi alle spalle non le rende piuttosto un peso ora che i millesettecento cavalieri - molto pochi: e quante finora le perdite? - non ad altro possono essere impegnati che a dar loro qualche protezione durante la marcia? Di stravincere, ormai, non se ne parli neppure; basterebbe, appena, e anche solo formalmente, vincere: ma come? Di positivo c'è questo: che l'esercito romano non può subire sconfitta. Le legioni, un peso sotto l'aspetto appena considerato, riappaiono garanzia di ferro sotto quest'altro: che esse avanzino si fermino si ritirino, Cassivellauno non è in grado (nè, invero, ci pensa) di affrontarle.

Intanto i principes di quasi tutta la Gallia seguono passo a passo le operazioni. Seguono e, naturalmente, pensano; curiosi di vedere - essi gli infidi, i sequestrati - se sarà Cassivellauno a piegare il capo o il generale romano a vantarsi - tutto qui? - di non aver perduto.


LA

CARTA MANDUBRACIO.

Frattanto, mentre cioè la marcia romana procedeva a nord del Tamigi, - nella maniera però che sappiamo - i Trinobanti mandano a Cesare ambasciatori promettendo di arrendersi e di eseguire i suoi ordini. E i Trinobanti (abitavano la contea d'Essex e parte di quella di Suffolk, con capitale, f~rse? Londinium) erano, o poco mancava, il popolo più forte di quelle regtont. Inatteso e grosso successo politico. Ma eccone la spiegazione. Ai Trinobanti apparteneva il giovane Mandubracio, il quale era venuto sul continente, in Gallia, - nell'intervallo, certamente, fra le due spedizioni - a porsi sotto la protezione di Cesare. E a Cesare aveva narrato la sua triste vicenda: suo padre, che aveva regnato sui Trinobanti, era stato ucciso da Cassivellauno; ed egli stesso era appena riuscito a sottrarsi alla morte con la fuga. Cesare dunque, appena passato il Tamigi, avrà fatto sapere ai Trinobanti che Mandubracio era presso di lui, protetto dalle legioni. La fazione del re ucciso - o perchè forte o perchè tale la facesse diventare la vicinanza delle legioni - avrà allora rialzato il capo e cambiato indirizzo alla politica estera. Gli ambasciatori, infatti, chiesero 'a Cesare di proteggere Mandubracio dalla violenza di Cassivellauno e di restituirlo al suo popolo perchè assumesse tutti i poteri. Buona questa carta che Cesare, inaspettatamente, ha scoperto; e che ora stiamo a vedere come giuocherà. Coi guanti fu trattato il popolo di Mandubracio: Cesare comandò ugli ambasciatori quaranta ostaggi (soio quaranta), grano per l'esercito, frumentumque exercitui (richiesta di cui non potè fare a meno? viene il dubbio che i Romani, lontani dalla base un duecento chilometri già fossero in fastidi logistici), e restituì (prima ancora di ricevere ostaggi e grano) Mandubracio. Ma i Trinobanti, a onor del vero, eseguirono gli ordini di gran carriera, imperata celeriter fecerunt: consegnarono ostaggi e grano. Cesare dice: « Avendo io difeso con ogni impegno i Trinobanti contro qualsiasi offesa dei soldati . .. ». Il che potrebbe voler significare: nessuna operazione militare, la benchè minima devastazione di campi e distruzione di edifizi, nessuna offesa a privati, avendo io fatto compiere nel territorio dei Trinobanti ... Scansata, così, l'aperta dichiarazione che ormai gli occorreva un contegno distensivo e, all'occorrenza, anche remissivo. Dunque: avendo egli difeso con ogni impegno i T rinobanti dalle offese dei soldati, ... i Cenimagni i Segontìaci gli Ancàliti i Bibroci i Cassi (piccole


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popolazioni attorno ai Trinobanti e forse di questi clienti) mandano messi a Cesare per arrendersi. Contegno amichevole e nessuna spoliazione nel territorio delle genti a nord del Tamigi. Perchè dell'entità guerriera dei due seguenti fatti - avvenuti dopo la restituzione di Mandubracio - è facile rendersi conto. Cesare fu da quei popoli informato che non lontano dal luogo dov'egli si trovava c'era una fortezza di Cassivellauno difesa da boschi e paludi, dove s'era raccolto un numero abbastanza grande di uomini e di bestiame. I Britanni chiamano fortezza un luogo boscoso di difficile accesso, fortificato con vallo e fossa, dove usano ritirarsi di fronte a incursioni nemiche : quella ora indicata a Cesare - nella zona, pare, di Saint Albans - era dunque una fortezza silvestre simile a quella della Stour che richiese il procedimento tattico a testuggine. Ma tutto fu, questa volta, propizio e breve: Cesare a quella fortezza - tutta roba di Cassivellauno, niente dei T rinobanti e compagni - si dirige con le legioni; trova il luogo egregiamente munito per natura e per opere; decide, tuttavia, di attaccarlo da due parti; ma i nemici non resistettero che per poco all'impeto dei Romani, svignandosela dalla parte opposta della fortezza; conclusione:· i Romani vi trovarono un gran numero di bestiame e molti fuggiaschi furono da essi catturati o uccisi. Nessun combattimento, ma razzìa di bestiame e schiavi. Mentre in questi luoghi si svolgono tali avvenimenti .. . L'altro episodio lo si ebbe alle spalle dell'esercito romano sulle coste del Canzio, l'attuale Kent (fra i Britanni i più civili sono gli abitanti del Canzio ... , di costumi non molto diversi dai gallici); e lo si ebbe, precisamente, attorno al campo rom ano che conteneva, ancora in riparazione, l'intera flotta. Mentre dunque si stanno compiendo le operazioni che porteranno all'espugnazione della « fortezza di Cassivellauno » ... Cassivellauno manda messi nella regione del Canzio ai quattro re che quivi comandavano, ordinando di raccogliere tutte le loro forze e di attaccare di sorpresa il campo navale, castra navalia, tentando di espugnarlo. Un colpo che se riusciva anche in parte avrebbe lasciato Cesare senza fiato. Ma fallì; l'impresa si risolse in una scaramuccia dalla quale si direbbe che le dieci coorti e i trecento cavalieri di Quinto Atrio non riportarono neppure una testa rotta: quando i Britanni giunsero davanti al campo, i Romani, fatta una sortita, - se fecero la sortita è perchè furono subito sicuri di sè uccisero molti nemici, catturarono un capo di nobile rango, e rientrarono nel campo incolumi, incolumes.


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R IAPPARE CoMMIO.

Cesare dice: « Cassivellauno, alla notizia di tal fatto d' arme, scosso da tutte le perdite che aveva avuto, dalle devastazioni del paese, vastatis finibus, e soprattutto dalla defezione dei popoli, mi manda messi per la resa servendosi dell'atrebate Commio, legatos per Atrebatem Commium de deditione ad Caesarem mittit ... ll.

Se Cassivellauno non avesse afferrato la correlazione fra la sua ritirata e gli stretti margini di tempo gravanti, a cagione della Manica, sul suo nemico, perchè si sarebbe affidato, sin dal primo momento, alla tattica temporeggiatrice che ha imposto ad alcuni popoli, dalle coste del Kent al Tamigi, forti sacrifizi ? E come mai, allora, questa sua resa in una situazione - così come l'abbiamo appresa dalla bocca stessa di Cesare - per lui non certo disastrosa anche se pesante? E da dove è rispuntato fuori l'atrebate Commio? era costui presso Cesare -0 in missione politica avanzata? e che significa fatto nuovo, unico - che i messi di Cassivellauno invece che direttamente a Cesare si sono prima recati presso Commio ? Un Cassivellauno sì prostrato da aver bisogno d'una clemenza che solo Commio potesse ottenergli? ma questo da dove risulta? L'espressione « legatos per Atrebatem Commium de deditione ad Caesarem mittit l> potrebbe significare che Commio, per una qualsiasi contingenza, fortuita o meno, - e anche perchè personalmente conosciuto durante la sua breve prigionia da alcuni capi e da Cassivellauno stesso - sia stato il primo a incontrarsi e ricevere gli ambasciatori, che poi accompagnò, con benevolo patrocinio, alla presenza di Cesare. Prestazione certamente distint::i, troppo però modesta per una tal onorifica citazione nella relazione, scala uno a tre milioni, di Cesare. Ma potrebbe anche voler dire che Cesare non ha potuto passar sotto silenzio la collaborazione politica datagli da Commio anche quest'anno, e perchè importante e perchè nota a tutti o a molti; e che pertanto, non potendo egli far a meno di dar a Commio ciò che era di Commio, ha dovuto concedere a un barbaro l'onore della citazione in quel che noi oggi diremmo bollettino finale. Fra le eminenti qualità di Comniio segnalate da Cesare l'anno scorso, c'era - accanto al yalore, al senno, alla fedeltà - il prestigio, auctoritas, di cui questo barbaro godeva in quelle regioni, in his regionibus. Nel territorio cioè degli Atrebati e popoli finitimi nonchè nella vasta regione litoranea dei Marini, popolo che Cesare, come ora sentiremo, ha gi_à posto o porrà sotto la di lui sovranità.


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Il prestigio di Commio si affermava dunque, più specialmente, nel retroterra di Boulogne e di Calais, e forse in gran parte della Gallia belgica; ed è da supporre - essendo queste le regioni più vicine alla Britannia meridionale - che Commio fosse personaggio conosciuto, e non poco, anche oltre Manica, sino alle genti del Tamigi. Se Commio non avesse avuto in Britannia relazioni di qualche reale o presunta solidità, più che buone speranze insomma di creare almeno nel Kent una situazione politica di qualche utilità a Roma, Cesare non gli avrebbe l'anno scorso affidato l'ardua missione politica che sappiamo. Commio non solo aveva fatto l'uomo di punta, - su quella spiaggia a cui il tribuno Voluseno non se l'era sentita neppure di attraccare - ma dalla missione, superato il quarto d'ora dello sbarco, era uscito pur vivo. E si può anche congetturare, come cosa ognora normale, che durante il mese e più in cui Commio fu prigioniero nell'isola - cattività benevola, a giudicare anche dalla scrupolosa restituzione dei trenta cavalli - non saranno mancati abboccamenti politici fra lui e i capi britannici, non escluso Cassivellauno, più interessati a sentire dalla sua viva voce quali pretese potesse avanzare Roma sulla Britannia. Del resto, se Commio non lo si considera personaggio tutt'altro che sconosciuto nel mondo britannico, così come rimane senza buon fondamento la missione diplomatica dell'anno scorso, altrettanto, e soprattutto, non si potrebbe spiegare la richiesta di mediazione a lui rivolta quest'anno da Cassivellauno. Egli era amico sincero ma temporaneo di Cesare, amico invece per la pelle dei Britanni (aiutandosi con qualche altra fonte, si viene a sapere che un giorno, prossimo, si rifugierà in Britannia per sfuggire ai Romani, e in Britannia, divenuto monarca, - che si vuole di più? - finirà i suoi giorni). Doveva essere un uomo politico di eccezionale abilità: fra due anni, allorchè si ribellerà a Roma, - e i coalizzati di gran parte della Gallia lo porranno fra i capi dell'esercito - neppure allora, in gravissime circostanze, Cesare disconoscerà l'opera da lui svolta in Britannia. Dirà: « Negli anni precedenti, m'ero servito in Britannia dell'opera fedele e utile, opera fideli atque utili, di Commio. E per queste sue benemerenze, quibus pro meritis, avevo concesso l'immunità al suo popolo, al quale avevo anche consentito di governarsi secondo le proprie consf,fetudini e leggi; e sotto sovranità sua avevo posto i Morini ». . Esonerati dunque gli Atrebati dal tributo non a Roma ma ai popoli di cui fossero clienti; la non ingerenza della legislazione romana nella vita dello stato atrebate; facoltà a Commio, a titolo forse personale, di riscuotere qualc~e speciale tributo dai Morini assoggettati e di far da padrone, ove gli rius:1sse, su quelli ancora ribelli: tre grossi bocconi, a occhio e croce. Una posizione di vantaggio, quasi eccezionale.


E non una parola di biasimo per la defezione; che Cesare anzi s1 spiegherà sino a giustificarla e nobilitarla: « era - ci dirà a suo tempo - così grande in tutti il desiderio di riconquistare la libertà che non valsero a trattenere nè Commio nè altri i benefici ricevuti e i rapporti di amicizia>>. Se dunque Commio è apparso sul bollettino finale, lo si deve alla sua opera in Britannia giudicata « fedele e utile »: due chiare parole pronunciate in momento non sospetto, quando Commio era già acerrimo nemico. La sua dunque non sarebbe stata una mediazione che potrebbe passare per uno di quei servigi militari o diplomatici, ripetiamo, pressochè ordinari, ognora destinati a non apparire in rapidi resoconti; ma collaborazione di rilievo, al vertice, negli ingranaggi più delicati, per vie scoperte o coperte, nota a tutti o a più d'uno: tale, comunque, da non poter essere taciuta perchè rilevante nella soluzione dell'evento.

Supposto discorso di Cesare a Commio allorchè, superato il Tamigi, la situazione generale si mostrò deserta di soddisfacenti vie d'uscita, tesa com'era tra i suoi inesorabili estremi: Manica e tattica temporeggiatrice; così dunque avrebbe parlato Cesare a Commio: - A me la Britannia non interessa gran che. Potevo anche non venirci: la Manica è ostacolo che separa a sufficienza la sorte di quest'isola dalla Gallia. Ma ormai ci sono e devo portare le cose a conclusione. Se non bastano due campagne ne farò una terza, formidabile, sino a sbarcare qui tutta la cavalleria del continente. A Roma quest'impresa è seguita con grande interesse, sin troppo rispetto ai vantaggi che se ne potrebbero trarre. Ma per me, ripeto, essa ha una importanza relativa. Sarei anche disposto a finire tutto oggi stesso: un rapido accordo che dia a me, v~ncitore, quel tanto che mi spetta e a Cassivellauno sicurezza per l'avvemre. Supposto discorso di Commio (il quale vedeva e capiva anche lui le conseguenze della tattica temporeggiatrice) ad amici di Cassivellauno (che anche fra i Trinobanti non potevano mancare): - Mi sembra che il vostro capo protragga la guerra inutilmente. Il generale romano si duole degli aiuti da voi dati nel passato ai ribelli della Gallia; ma se si potrà garantirgli che ciò non si ripeterà nel futuro, sarà eliminato il maggior motivo di attrito. Voi intendete continuare la guerra sino a che l'esercito romano è sul vostro suolo e siete decisi a non compiere nessun atto, neppur formale, di sottomissione. A qual fine? Ne avete misurato le conseguenze? Cesare non intende occupare permanentemente nessuna parte della Britannia; e se ne andrà così com'è venuto. Ha troppo da fare in Gallia. Ma se anche quest'anno a un accordo non si viene, ritornerà l'anno venturo; e con ben altre forze e con ben altri intenti; non essendo uomo, anche per il suo prestigio di fronte a Roma, da lasciare le cose a mezzo. E' invece disposto alla comprensione e al rispetto del diritto altrui, come l'hanno dimostrato le recenti sottomissioni. Un vostro


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atto di omaggio, a me sembra, varrebbe a fargli lasciare definitivamente, e da amico, - senza procedere, notate bene, a nessun'altra distruzione sull'itinerario di ritorno - la Britannia. Naturalmente: al punto in cui sono oggi le cose, se vogliamo una pace duratura, qualche garanzia bisogna pur dargliela. Ma saranno sacrifìzi lievi, quasi insignificanti di fronte alle sciagure di una terza e definitiva invasione. Questo il mio pensiero di amico della Britannia. E il vostro capo, qualora voglia porsi sulla via di un accordo onorevole, potrà disporre di me. Il tempo però stringe; ciò che potrei ottenere oggi non sarebbe più possibile, persistendo la sua ostilità, domani. -

IL

RITORNO .

Cesare dice: « Cassivellauno, alla notizia dell'esito del fatto d'arme nel Canzio, scosso da tutte le perdite che aveva avute, dalle devastazioni del paese e soprattutto dalla defezione dei popoli, mi manda messi per la resa servendosi dell'atrebate Commio ... E io, che avevo stabilito di svernare nel continente in vista di improvvisi rivolgimenti in Gallia, propter repentinos Galliac motus, vedendo ormai che la buona stagione era già avanzata e che sarebbe stato facile al nemico temporeggiare sino alla fine, ordinai che mi si inviassero ostaggi e stabilii il tributo annuale che la Britannia avrebbe dovuto pagare al Popolo Romano. Proibii formalmente, interdicit atque imperat, a Cassivellauno di molestare Mandubracto e Trinobanti ». Gallia insicura, stagione operativa al termine, facilità per il nemico di portar le cose in lungo: rapide e sicure riconferme che la fine della campagna si associa alla supposizione del compromesso, di cui Commio fu mediatore eccezionale se non vogliamo dire l'artefice. Appena però fatte tali ammissioni, l'orgoglio di Cesare sembra che alzi la voce, come di chi abbia vinto e stravinto (consapevole, in ogni modo, che la sua impresa navale potesse considerarsi fra le memorabili del mondo romano): ha ordinato ostaggi, imposto tributi, diffidato. E non v'è dubbio che ostaggi ne ebbe: sebbene non dica quanti e di qual pregio; ma ciò che ne fu poi, quando egli lasciò l'isola, dei tributi e dell'ammonizione nessuno può più dire. Fuochi fatui, quasi certamente.

Dice: « Ricevuti gli ostaggi, ricondussi l'esercito sulla costa, ove trovai le navi riparate». C'è chi calcola, accettabilmente, che il ritorno dell'esercito dalle zone a nord del Tamigi sino al campo navale di Walmer sia durato una quindicina di giorni, fra il 24 agosto e il IO settembre. Ma l'imbarco non avvenne questa volta a esercito riunito: ossia la flotta 17. - U.S.


non salpò in un unico convoglio, sia pure suddiviso in scaglioni destinati a navigare a contatto ottico l'uno dell'altro. Dice: « Rimesse le navi in mare, poichè avevo gran numero di prigionieri e per la tempesta erano andate perdute parecchie navi, decisi di trasportare l'esercito in due convogli, duobus commeatibus ». Che forse le navi perdute o non riparabili, quando si venne al dunque, in cantiere, risultarono parecchio più di quaranta? Decise, comunque, di fare due convogli : un certo numero di navi, trasportato che avesse a Boulogne un primo scaglione, doveva ritornare a W almer dove era rimasto lui con un secondo scaglione non sappiamo di qual entità. Calcolando per il convoglio del primo scaglione due notti consecutive di navigazione, - una per l'andata e la seguente per il ritorno - il trasporto dell'intero esercito avrebbe potuto anche compiersi nel giro di tre giorni. Ma ne occorsero parecchi di più, chè il ritorno delle navi del primo scaglione fu atteso invano. Dice: « A ccadde così che, mentre di un sì gran numero di navi e con tante traversate, neppure una si perdesse, nè quest'anno nè l'anno prima, di quelle che portavano soldati ... Anche nel traffico logistico, e doveva essere stato intenso, fra continente e isola durante entrambe le spedizioni, nessun naufragio di nave con carico umano (o, perlomeno, con carico di soldati romani). . . . delle navi invece che mi dovevano essere dal continente rimandate vuote dopo che avevano sbarcato il primo scaglione, ben poche, perpaucae, riuscirono ad approdare: le altre furono quasi tutte respinte indietro ». Ma fu l'ultimo capriccio, sebbene anche questo indulgente, della Manica. Dopo aver atteso invano quelle :iavi per qualche tempo, egli, per evitare che con l'avvicinarsi dell'equinozio la stagione gli impedisse di navigare, dea cise di restringere ancor più i soldati sulle navi - una compressione, si direbbe, poco pietosa - e, approfittando di un mare calmissimo, summa tranquillitate consecuta, alle nove circa di sera salpò, toccando terra all'alba con tutte le navi incolumi. Saremmo oltre la metà di settembre. C'è chi calcola il 22; prima, in ogni modo, del temuto equinozio, che quell'anno cadeva il 26.

La prima spedizione era durata un venti g10rm, questa circa due mesi.


PARTE TERZA

" FREME LA GALLIA ... ,,



Cap. VI. - AMBIORIGE (Continua anno 54 avanti Cristo~

OTTO LEGIONI OTTO PRESIDII S1cc1TÀ E REGICIDIO.

Tirata in secco la flotta e chiuso il concilio dei Galli a Samarobriva, il concilio annuale, a fine d'ogni stagione operativa, per quest:oni Fevalentemente amministrative - Cesare fu costretto, coactus est, a fissare gli alloggiamenti invernali in modo diverso dag!i anni precedenti e distribuire le legioni tra un maggior numero di popoli. Un più largo decentramento invernale dovuto al fatto che quell'anno in Gallia, per la generale siccità, propter siccitates, era stato scarso il raccolto ciel frumel'to. Finora l'esercito ha svernato o quasi riunito o a grossi blocchi o comunque in aree non sì vaste da impedire ai presidii reciproco soccorso; quest'anno, invece. l'esigenza logistica è anteposta, ora vedremo in qual misura, al consueto criterio di sicurezza. Non sappiamo quale umore i principes della Gallia, anche i non sequestrati, poterono portare nel Concilio di Amiens. Sotterraneo scontento per le imprese in Britannia a spese, anch'esse, della Gallia? animi turbati dal fantasma di Dumnorige? le solite lamentele per la gravezza dell'onere quando più legioni svernavano a carico di un solo o di ristretto numero di popoli? Forse, ciascuno esagerando sulla scarsezza del proprio raccolto, tentarono di riversare l'uno sull'altro il peso, che non era poi fatto di solo grano, delle guarnigioni romane. Ma anche se esagerazione vi fu, argomenti e prove dovettero essere tali che Cesare fu costretto, coactus est, a prenderne atto e a decidere in conseguenza. Distribuì le otto legioni (la cavalleria - quella che non veniva rinviata ai propri paesi in consueto congedo invernale - suddivise, sembrerebbe, in aliquote di varia entità, al seguito di ciascuna legione) distribuì dunque le otto legioni in otto presidii che noi qui indicheremo col nome del rispettivo i:omandante:


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Approssimativa dislocazione degli otto presidii.

- Presidio Caio Fabio: una legione l'affidò al Legato Caio Fabio con l'incarico di condurla nel paese dei Morini. Truppe che avrebbero preso stanza nella zona di Saint Pol (I); · - Presidio Quinto Cicerone: un'altra legione al Legato Quinto Cice- · rone per il paese dei Nervi. Zona di Charleroi (2); - Presidio L ucio Roscio: una terza a Lucio Roscio per il paese degli Esubii. In Normandia : zona di Sées (3); - Presidio Tito Labieno: a una quarta legione, ai comando del Legato Tito Labieno, ordinò di svernare fra i Remi, al confine dei Treveri. Zon~ • di Mouzon (4). Tre legioni collocò nel paese dei Belgi: - Presidio Marco Crasso (fratello di Publio il « celere » di~tintosi ad Epfig e in Aquitania) : una legione. Zona di Froissy (5); - Presidio L. Munazio Planco : una legione. Zona di Soissons (6); - Presidio Caio Trebonto: una legione. Zona ·di Amiens (7).


In Amiens, ossia Samarobriva, - e questo potremmo accoglierlo per certo - risiedeva Cesare e, diremmo oggi, il quartier generale dell'esercito. Siamo, così, all'ottavo e ultimo presidio. - Presidio Quinto Titurio Sabino: una legione - quasi reclute: era delle ultime arruolate oltre Po - e cinque coorti (tratte, quasi certamente, da cinque legioni di anziani), le inviò nel paese degli Eburoni, che per la massima parte abitano fra Mosa e Reno, inter Mosam ac Rhenum, e che erano sotto il governo di A mbiorige e Catuvolco. A capo di queste truppe (raggiungevano la forza di una legione e mezza, più, come poi apparirà, un'aliquota di cavalleria) pose i Legati Quinto Titurio Sabino e Lucio Aurunculeio Cotta. Truppe che si sarebbero stabilite a occidente della Mosa, nella zona di Tongres, nord - ovest di Liegi (8). E' questo l'unico presidio che ha due comandanti di pari rango, due Legati, gli stessi che l'anno scorso, durante la prima spedizione in Britannia, comandarono la forte colonna che doveva portarsi contro i Menapì: Quinto Titurio Sabino, che già conosciamo si può dire da vicino, e Lucio Aurunculeio Cotta, di cui abbiamo sentito parlare una sol volta nell'inseguimento dell'esercito in dissoluzione della coalizione belga.

Quattro presidii - Fabio, Trebonio, Crasso, Planco, - che possono in breve portarsi reciproco soccorso, dislocati come sono a distanze non eccessive l'uno dall'altro. E Cesare, inoltre, - supposto ad Amiens col presidio Trebonio - è nelle condizioni di poter riunire le quattro legioni, metà dell'esercito. in due tre giorni e muoverle in qualunque direzione. Il problema logistico è perciò qui risolto senza offesa alla sicurezza. A occidente, invece, in Normandia, predomina incontrastata l'esigenza logistica: il presidio Roscio è lontano, in linea d'aria, circa centottanta chilometri dal presidio Trebonio, vale a dire da Amiens; distanza che tradotta in percorrenza effettiva comporterebbe almeno una settimana di normali marce consecutive. Più complicata è la situazione a oriente, dove soprattutto ci occorre fermare l'attenzione. A oriente, i tre presidii - Cicerone, Labieno, Sabino - sono molto distanti dalle quattro legioni che formano il nucleo centrale, e sono anche notevolmente distanti fra loro: da Labieno a Cicerone, oltre ottanta chilometri; altrettanto da Cicerone a Sabino; oltre centodieci da Sabino a Labieno: e calcoli, tutti, in linea d'aria. Parecchi giorni di marcia, perciò, nel caso che qualcuno di questi tre presidii volesse ripiegare sul nucleo centrale o l'uno sull'altro. Il presidio più lontano dal quartier generale dell'esercito, cioè da Amiens, è quello di Titurio Sabino, supposto in quel di Tongres: oltre duecentotrenta chilometri in linea d'aria.


Sicchè anche qui a oriente, come a occidente, predomina incontrastata l'esigenza logistica. Cesare dice: « Distribuite a questo modo le legioni, ritenni di aver ben rimediato alla deficienza di grano ». Un decentramento che assicura l'ottimo approvvigionamento, e con una certa larghezza, a ciascun presidio; che dispensa quasi del tutto la Celtica, che aveva solo il presidio Roscio, dall'onere invernale; che rende meno gravoso, suddiviso com'è in sette presidii, il peso venuto a cadere tutto sulle spalle della Belgica. Dice: « ... Del resto, i quartieri d'inverno di tutte le legioni - tranne quella che Lucio Roscio dovepa condurre in regione completamente pacificata e quieta, pacatissimam et quietissimam, - erano contenuti in cento miglia ». Cento miglia romane: circa centocinquanta chilometri. Escluso pertanto il presidio supposto a Sées, il dato potrebbe significare che i sette presidii erano contenuti in un perimetro dal raggio di centocinquanta chilometri: fra i presidii più lontani, pertanto, agli estremi del diametro, poteva intercorrere la distanza massima, sul terreno, di circa trecento chilometri; potrebbe significare che i sette presidii, per quanto largamente disseminati, erano lontani l'uno dall'altro, al massimo, centocinquanta chilometri; potrebbe significare ... Quali che siano le interpretazioni, l'espressione « milibus passuum centum continebantur », erano contenuti in cento miglia, non è più, oggi, chiara. Poca chiarezza che ha fatto sospettar Cesare a corto di argomenti per giustificare di essersi questa volta fatto prendere un po' troppo la mano da considerazioni di natura politica a danno della ragione militare. · Perchè dispersione, senza dubbio, vi fu; rilevabile anche se, anzichè a città (tutte e otto, s'intende, ipotetiche), ci riferiamo alle regioni ove risiedevano i sei popoli nominati: dalla Normandia degli Esubii al paese di Calais dei Morini; dalle contrade belgiche della Somme, dell'Oise, dell'Aisne, alle Ardenne; dalla Sambra dei Nervi alla Mosa degli Eburoni. Più dispersione di così? Cesare non avrebbe dunque trovato di meglio che una frase sibillina per allontanare da sè, almeno in parte, la responsabilità della sciagura che sta per abbattersi su una parte dell'esercito? Potrebbe anche darsi che fosse così; se però si riuscisse a dimostrare - ma non ci sembra che si possa - che ·la causa diretta, determinante, della sciagura sia stata la dispersione dei presidii.

D ice: « Intanto decisi di trattenermi in Gallia sino a quando non apessi saputo le legioni giunte a destinazione e compiuta la fortificazione dei campi, legiones collocatas munitaque hiberna » .


Decise di non partire per l'Italia sino a quando le legioni non avessero superato la crisi di sì vasto e contemporaneo movimento. Solo se attaccate in marcia, isolatamente, le legioni avrebbero potuto correre serio pericolo; ma protette dalle forticazioni del campo, nessuna forza esisteva in Gallia che potesse, salvo gli arcani del caso, sopraffarle rapidamente con attacco o assedio. Solo uno dunque il punto debole: la crisi, per diversi giorni, del movimento. Superata tal crisi, non c'era più nulla da temere; se così, in faccende specialmente di guerra, si può mai dire.

La crisi però del movimento avrebbe trattenuto Cesare in Amiens sino alla sua risoluzione, solo temporaneamente; fu invece un regicidio, non sappiamo se e quanto sospettato, che lo distolse del tutto dal lasciare la Gallia e portarsi in Italia, come al solito, per tutta la stagione invernale. C'era fra i Carnuti un uomo di alti natali, a nome Tasgezio, i cui maggiori - il padre il nonno il bisnonno o quale altro più lontano avo? avevano regnato sul loro popolo. Cesare dice : « A costui avevo ridato il posto dei suoi antenati ». Un altro re per decreto repubblicano. Gli aveva r:dato il posto dei suoi avi per il suo valore e per la devozione a lui, e, soprattuttQ, per l'opera preziosa da quel signore prestatagli in tutte le guerre: l'innalzamento di quest'uomo al trono non segnava dunque riparazione a legittimismo offeso - come il richiamo ai suoi alti natali avrebbe potuto anche far credere - bensì riconoscimento di lunghe benemerenze collaborazionistiche. E T asgezio era già nel terzo anno di regno (perciò salito al trono, come Commio, dopo la guerra belgica), allorchè i suoi avversari personali, inimici, - che collaborazionisti certo non erano - anche con l'aperta approvazione di molti di quel popolo - uno scoppio d'anticollaborazionismo alla luce del sole? - lo accisero. Il fatto è annunziato a Cesare. Il quale dice: « Poichè temevo che, per il gran numero delle persone compromesse, tutto il popolo, da esse istigato, si ribellasse, ordinai a Lucio Munazio Planco di partire subito dal Belgio, con la sua legione, per il paese dei Carnuti e quivi svernare. Munazio Planco doveva inviarmi, arrestandoli, tutti coloro che gli risultassero implicati nell'uccisione di Tasgezio ». In questa circostanza, ci voleva un militare energico che fosse nel contempo un politico: e il Legato Lucio Munazio Planco (fra dieci anni sarà Console) fu il prescelto. Una variante, perciò, al quadro della dislocazione dei presidii: la legione di Munazio Planco da Soissons (6) si porterà nella ·città principale, è da supporre, dei Carnuti: a Orléans, l'antica Cénabo.


266 Sicchè il nucleo centrale delle forze più prontamente riunibili si ridurrà a tre legioni. I Carnuti: grande popolo celtico della Loira, fra Blois e Sully, nonchè delle vecchie regioni francesi della Beauce e del Perche, giungente alla Senna in quel di Mantes. Il territorio dei Carnuti (notizie che non possiamo non anticipare tanto ci sembrano indisgiungibili dal caso Tasgezio) era considerato il centro geografico di tutta la Gallia, quae regio totius Galliae media habetur. Il cuore, diremmo meglio, di tutta la Gallia: chè proprio colà, nelle terre dei Carnuti, in un certo periodo dell'anno, i Druidi si riunivano in luogo consacrato, in loco consecrato, dove, da ogni parte della Gallia, undique, convenivano tutti coloro che, dovendo risolvere qualche loro grossa contesa, si affidavano al giudizio e obbedivano alle decisioni di quei sacerdoti. Fra i Carnuti, dunque, la città santa dei Galli e il consesso annuale delle più alte potestà religiose, alle quali potevano essere rivolte, superando i poteri civili dei singoli popoli, supreme istanze giudiziarie. Sintomo inquietante, perciò, che il regicidio, questo affronto personale a Cesare, sia avvenuto proprio fra i Carnuti; e più inquietante il fatto che Cesare avesse imposto un re proprio ai Carnuti. Il potere religioso dei Druidi, dapprima favorevole (Diviziaco era druida), gli è ora ostile? Dice: « Frattanto fui informato da tutti coloro a cui avevo affidato le legioni che erano state raggiunte le località degli alloggiamenti invernali e che i campi erano stati fortificati ». Ma a causa del regicidio, ripeti amo, da Amiens non si mosse. Il che, sebbene attraverso lunghe e convuhe complicazioni, sarà la sua salvezza.

TONGRES

« TUM SUO MORE CONCLAMAVERUNT •.. ».

Circa quindici giorni dopo l'arrivo delle legioni nei quartieri cl'inverno (le più lontane vi giunsero forse ai primi di ottobre) scoppiò un'improvvisa rivolta per opera di Ambiorige e Catuvolco. Si ribellarono dlUlque i due re degli Eburoni, presso i quali trovasi il presidio di Titurio Sabino e Aurunculeio Cotta che ci è sembrato il più lontano dal quartier generale di Amiens; e pertanto il più avanzato, si aggiunga, rispetto al Reno, che dista da Tongres un centinaio di· chilometri. Gli Eburoni erano un popolo germano - celtico con sede sulle due rive


della Mosa - zone di Tongres e di Verviers - e giungevano, pare, sino al Reno di Colonia. Le prime notizie su di loro le avemmo tre anni or sono dagli ambasciatori dei Remi, i quali riferirono a Cesare che essi appartenevano a un complesso di popoli minori ancora denominati Germani. Dopo gli Aduatuci, s'è dunque ribellato a Roma ancora un popolo tutt'ora chiamato germanico dagli stessi Galli.

Ambiorige e Catuvolco, dopo che s'erano presentati, sul confine del loro regno, a Sabino e Cotta, e dopo che avevano fatto portare il grano negli alloggiamenti romani ..... Compirono due atti che certamente crearono distensione e fiducia verso di loro nei comandanti romani: i Legati si ebbero il be·nvenuto al confine da due re anche se di rustica progenie e la consegna dello stabilito quantitativo di grano quasi contemporaneamente all'arrivo delle truppe. Un due settimane perciò di pace autunnale in cui i Romani ebbero modo, con larghezza, di fortificare il campo e in cui radio Tongres avrebbe potuto lanciare ogni giorno a radio Amiens il classico « niente di nuovo ».

Senonchè, dopo circa due settimane, Ambiorige e Catuvolco, spinti da messaggi del trevir.o Induziomaro, Indutiomari Treveri nuntiis impulsi ... Rivolta che perciò non è fatto isolato: proviene da un'intesa con un altro popolo renano, i Treveri, con gli Eburoni confinante; proviene da quell'Induziomaro che arde di odio contro Roma ora che ha dovuto a Cesare dare in ostaggio suo fig_lio, e suo genero Cingetorige, da Cesare protetto, tende a togliergli favore e potere nel suo stesso paese. Ambiorige e Catuvolco spinti da Induziomaro, ... sollevarono il loro popolo e subitamente sopraffatti i « lignatores » - le corvé romane sparse nei boschi per la raccolta di legname per i vari usi - marciarono con grandi forze contro il campo romano. Ma avendo i Romani rapidamente preso le armi e occupato gli spalti, e avendo i cavalieri spagnuoli (Cesare racimolava cavalleria ovunque potesse), con una sortita da una porta, riportato la meglio in uno scontro equestre con l'avversario, gli Eburoni, considerata fallita l'impresa, desistettero dall'attacco. Per qual motivo Ambiorige e Catuvolco tentarono il colpo quindici giorni dopo l'arrivo della guarnigione, quando il campo era già in piena efficienza? un'attesa per associarsi simultaneamente alla ribellione di altri popoli? Gli Eburoni, comunque, subito dopo il fallito attacco, forse a solo qualche ora, si rifecero vivi. Poi, secondo consuetudine gallica, alzarono alte grida, tum suo more conclamaverunt ... Voci sorsero qua e là intorno al campo romano chiedenti qualche cosa.


Romani, ascoltate! Qualcuno venga fuori a parlamentare! Abbiamo qualche cosa di importante da dire nell'interesse nostro e vostro! Non siamo vostri nemici: abbiamo fiducia di attutire, con un abboccamento, i nostri dissensi! Richieste rumorose, fatte a nome di uno dei due re, come fra poco risulterà. I Legati Titurio Sabino e Aurunculeio Cotta - non sappiamo se concordemente o per sopravvento di volontà o dì autorità dell'uno sull'altro - dettero ascolto a quelle voci; aderirono all'invito. Si mandano a parlamentare un Caio Arpineio, cavaliere romano e amico di Titurio Sabino, familìaris Q. Titurii, e un certo Quinto Giunio, spagnuolo, - un romanizzato, evidentemente - che aveva già avuto occasione, per incarico di Cesare, missu Caesaris, di andare più volte da Ambiorige. Si mandano cioè a parlamentare due civili invece che due militari; di cui uno, il più importante, romano, ma probabilmente solo uomo d'affari, e l'altro, interFete e intermediario, prov:nciale. Che i due Legati ritenessero quella barbarica richiesta di natura meramente amministrativa, una delle solite beghe degli indigeni? Ma quale ne fosse la natura, colpisce, e non si può passare senza contestazione, quel loro invio di parlamentari, anche se non di militare qualificazione, sì immediato o, per meglio dire, sì di fretta. L'attacco al campo - proditorio, dopo le regali accoglienze al confine - c'era pur stato, e i lignatores, carne viva dell'esercito anche se aus:Iiarii o servi, errno pur stati accoppati. Due Legati usciti vincitori dal recente fatto d'arme e comandanti di campo per gli Eburoni inespugnabile sono proprio loro che, su 2nonime voci , inviano parlamentari invece di pretendere che il nemico li invii a loro. Negli offesi e più forti un non raffrenato desiderio di ascoltare la parola dell'offensore. Ecco quel che disse re Ambiorige giunto che fu presso i parlament~ri (era dunque a pochi passi dal campo, e certo animatore lui del coro che abbiamo appena ascoltato): - Io riconosco che sono gran debitore di Cesare per i benefici che da lui ho ricevuti. Devo infatti a Cesare se sono stato liberato dal tributo che da tempo pagavo ai miei confinanti Aduatuci; devo a Cesare se mi sono stati resi mio figlio e un figlio di mio fratello, et filius et fratris filius, che, consegnati agli Aduatuci come ostaggi, furono da questi tenuti in servitù e catene. Allora perchè - mi direte - hai compiuto atti ostili contro Cesare? In quanto all'attacco al vostro campo, nè per iniziativa nè per volontà mia ho fatto ciò: io ho dovt!tO subire la volontà del mio popolo, sed coactu civitatis. Questo infatti il sistema di governo che vige presso di noi: quanta è l'autorità mia sul popolo, altrettanta è l'autorità del popolo su di me. E per il mio popolo, poi, la cagione che lo ha spinto alla guerra è stata questa: esso non ha potuto esimersi di fronte a una rivolta m bitanea dei Galli, quod repentinae Gallorum coniurationi resistere non potuerit. E che ciò sia vero ve lo dimostra all'evidenza la pochezza della mia potenza; non sono un inesperto


sino al punto di illudermi di poter vincere il Popolo Romano con le sole mie forze. Si tratta invece di un piano comune alla Gallia intera, sed esse Galliae commune consilium: e proprio oggi è il giorno stabilito per l'attacco a tutti i quartieri invernali di Cesare, omnibus hibernis oppugnandis hunc esse dictum diem, in modo che nessuna legione possa aiutare l'altra. Sono certo della vostra comprensione in questa delicata faccenda: non è facile a Galli dire di no a Galli, non facile Gallos Gallis negare potuisse, specialmente quando appare che il progetto in atto sia inteso a riconquistarci, a tutti, la libertà, de recuperanda communi libertate. E perciò, ora che ho adempiuto i miei doveri verso i Galli, - con l'attacco, stamane, al vostro campo - posso pensare ai miei obblighi di riconoscenza verso Cesare: avverto e supplico Titurio, monere orare Titurium, per i rapporti di ospitalità che ci legano, pro hospitio, di provvedere alla salvezza sua e dei suoi soldati, suae ac militum saluti. Un gran numero di Germani è stato assoldato e ha passato il Reno, magnam manum Germanorum Rhenum transisse: moltitudine che sarà qui fra due giorni, biduo. Sta a voi ora decidere - prima che i popoli confi;anti ne abbiano sentore - se far uscire le vostre forze dal campo e condurle presso Cicerone o condurle presso l.Abieno ( il primo è lontano da voi una settantina di chilometri, il secondo, poco più). Prometto e garantisco con giuramento, iure iurando confìrmare, libero e sicuro il passaggio attraverso il territorio del mio paese, tutum iter. E così facendo avrò soddisfatto all'interesse del mio popolo che sarà lib'1ato dal peso degli alloggiamenti e mostrato la mia riconoscenza a Cesare. · Ciò detto, Ambiorige si allontanò. Secondo re Ambiorige, appena il tempo, e poco, - se però i confinanti non se ne accorgono e se le forze romane riescono a unirsi in tempo a un altro presidio - per scansare una sciagura. Discorso poco allegro: m a con logica aperta e diritta, da galantuomo.

cc MAGNAQUE EXISTIT CONTROVERSIA».

Arpineio e Giunio, i due parlamentari, riferirono ai Legati - m a è Titurio, come abbiamo notato, che Ambiorige considera comandante del presidio - quello che avevano udito. I Legati, turbati (entrambi, si noti) da sì subitaneo mutamento di cose, illi repentina re perturbati, pensarono che, quantunque tali notizie venissero da nemici non erano da trascurarsi, non neglegenda; tanto più essendo quasi inconcepibile che un popolo debole e senza prestigio, come gli Eburoni, civitatem ignobilem atque humilem, avesse osato far guerra di sua iniziativa al Popolo Romano. L'intensità del turbamento potè anche dipendere dal loro stato d'animo al momento in cui erano giunti a Tongres; dall'idea cioè che si erano for-


mata della reale situazione politica in Gallia. Quali notizie o dicerie avevano direttamente raccolte. dai diversi popoli durante la lunga marcia? paventavano possibile e imminente una rivolta generale? come sopportavano la soluzione logistica che aveva addossato a loro la responsabilità del presidio più avanzato rispetto al Reno ? Pertanto, a cagione del turbamento da cui erano stati presi, i Legati portano la questione in consiglio, ad consilium rem deferunt ... Una convocazione che, stante la presunta o reale situazione, - e stante il numero e la qualità, come ora sentiremo, dei partecipanti - veniva ad assumere tutti i caratteri del consiglio di guerra, che è provvedimento, sempre, di per sè allarmante. I Legati dunque portano la questione in consiglio, .. . dove però sorge fra loro due grave contrasto, magnaque inter eos existit controversia.

La convocazione del consiglio potrebbe del tutto attribuirsi all'intento dei due Legati di associare meglio a sè il pensiero e l'animo dei maggiori comandanti in una situazione che avrebbe potuto precipitare a distanza di ore; potrebbe significare la ricerca di un compromesso, essendosi il contrasto fra Titurio e Cotta, ancora cortese ma irriducibile, manifestato subito; potrebbe infine significare che nessuno dei due Legati godeva - per età per grado per anzianità per prestigio - di una ben definita autorità sul collega. Tre anni or sono, ci fu un altro memorabile consiglio di guerra tenuto dal Legato Servio Galba a Martigny; questo di T iturio e Cotta avviene però in una situazione opposta a quella di Galba. A Martigny, quel mattino, tutte le circostanti e sovrastanti alture apparvero occupate da nemici , ma qui i nemici dove sono?°

({ ARDERE GALLIAM . .. )).

Il Legato Cotta e parecchi tribuni e centurioni più anziani espressero, nel consiglio, le seguenti opinioni. Che non si dovesse prendere alcuna decisione affrettata e tantomeno abbandonare il campo senza ordine di Cesare, neque ex hibernis iniussu Caesaris discedendum. Che già allo stato attuale delle fortificazioni si sarebbe potuto resistere a qualsiasi numero di Germani. Ne avevano già la prova: s'era resistito validamente al primo ·attacco del nemico, infliggendogli gravi perdite. Che le provpiste di grano non destavano preoccupazioni, e intanto, - prima che si esaurissero le esistenti - e dai vicini presidii e da Cesare sarebbero venuti aiuti. Infine: che ci poteva essere di più sconsiderato e riprovevole, quid esset levius aut turpius, che prendere una decisione di tanta importanza su parere di nemico, auctore hoste?


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Il richiamo agli ordini di Cesare e, più specialmente, quest'ultimo punto che insinuava troppa arrendevolezza ad Ambiorige offendevano, evidentemente, la sensibilità militare di coloro che già si erano dichiarati sostenitori dell'abbandono di Tongres. Contro tali opinioni, - espresse da Cotta e da quanti altri la pensavano come lui - rispose gridando Titurio, Titurius clarrùtabat: - Sarà troppo tardi per agire allorquando le forze nemiche, con l'arrivo dei Germani, adiunctis Germanis, si saranno accresciute e ai presidii a noi vicini sarà toccata qualche sciagura! Il tempo a nostra disposizione per una decisione è breve, brevem consulendi esse occasionem. lo ritengo Cesare già partito per l'Italia, Caesarem arbitrari profectum in Italiam: altrimenti - con Cesare in Gallia? - nè i Carnuti avrebbero preso l'iniziativa di uccidere Tasgezio nè gli Eburoni sarebbero venuti all'attacco del campo con tanto disprezzo di noi, tanta contemptione ..... Disobbedienza agli ordini? attesa di ordini? Ispiratevi piuttosto al coraggio dell'iniziativa là dove, come in questo caso, il tempo stringe e il capa è assente. - ... lo non bado a ciò che suggerisce il nemico, ma ai fatti, non hostem auctorem sed rem spectare. Ed ecco i fatti : il Reno è vicino, subesse Rhenum, e i Germani sono inaspriti per la morte del loro Ariovisto, magno esse Germanis dolori Ariovisti mortem (veniamo così a sapere che Ariovisto ha sopravvissuto un quattro anni al disastro di Epfig), e per le nostre precedenti vittorie su di essi. E la Gallia? Freme la Gallia, ardere Galliam, per essere stata ridotta dopo tante umiliazioni, tot contumeliis acceptis, sotto il potere del Popolo Romano, privata ormai della gloria militare di un tempo. Infine, che le cose stiano come a me sembrano basti a dimostrarlo questo argomento: chi di noi potrebbe credere che Ambiorige, se non fosse stato sicuro del fatto suo, sine certa re, si sarebbe deciso a un passo simile? ..... Colpisce la dichiarazione che la Gallia non ne può più per le tante angherie subìte, tot contumeliis acceptis: parole gravi in bocca a un Legato. Le avrebbe pronunciate, in pubblico, se le avesse ritenute solo frutto di sua personale opinione? - ... Ciò che io propongo - abbandono immediato di Tongres per unirci al presidio più vicino - offre in ogni caso sicurezza. Se la situazione non è grave, - e riteniate infondati i fatti che ho addotti - ebbene, raggiungeremo senza alcun pericolo, felicemente, la legione più vicina; se, invece, la Gallia intera è d'accordo con i Germani, in tal caso, la nostra salvezza è nelL'immediato trasferimento, unam esse in celeritate positam salutem. La proposta di Cotta e degli altri dissenzienti quali prospettive presenta? Se non un pericolo immediato, - perchè può anche darsi che il nemico non ci salti addosso così presto - se non dunque un pericolo immediato, l'assoluta certezza però di un lungo assedio e della fame, at certe longinqua obsidione fames esset timenda. -


Titurio e Cotta, due ufficiali dello stesso rango e grado; ma che appaiono due mentalità assai differenti: due uomini, si direbbe, di diverso livello intellettuale e fors'anche sociale. Cotta, - la cui opinione fa tutt't·no con quella dei centurioni - restìo a trasgredire un ordine, orgoglioso di fronte ai capi indigeni che ritiene senz'altro nemici, sembrerebbe il << troupier » di tutti i tempi. I suoi argomenti sono dello stampo di sempre, regolamentari: efficienza della fortezza, consistenza dei viveri, cooperazione fra un presidio e l'altro. intervento immancabile del comando superiore. Prevalentemente politiche invece, e di respiro più ampio, le argomentaz~oni di Titurio Sabino. Per costui la Gallia è in aperto dissidio con Cesare, donde il riflusso dei Germani, il regicidio, la temerità degli Eburoni. La sua conclusione scaturisce dunque da un più complesso ordine di cose rispetto a quello, che poteva sembrare alquanto inerte, di Cotta.

Dopo la discussione di ambedue le proposte, siccome Cotta e i centurioni più anziani tenevano duro, acriter, sulla loro, Sabino disse, ma alzando la voce, et id clariore voce, per essere udito da gran parte dei soldati, ut magna pars militum exaudiret ... Consiglio di guerra senza garanzie di segretezza; la truppa magari affollata poco lontana dai disputanti e partecipe, anche se muta, del pro e contro. Titurio alzò la voce. Forse perchè contrariato dal trovarsi in palese minoranza; forse anche perchè esasperato dall'accanita contraddizione là dove invece il suo ascendente sui presenti, presunto o effettivo, si aspettava, anche :· fra i contrasti, rispettosa acquiescenza. Gridò dunque Titurio Sabino: - Abbiatela vinta, se così volete, vincite si ita vultis ! fra voi, ex vobis, non sono proprio io, neque is sum, colui che più si spaventa della morte! qui gravissime mortis periculo terrear. Ma costoro (additando i soldati) sapranno giudicare!, hi sapient; e chiederanno conto a te (additando Aurunculeio Cotta) della sventura che potrà capitarci. Se tu lo volessi, si per te liceat (importante: nessuno dei due aveva dunque sicura autorità sull'altro), costoro (ancora i soldati) uniti fra due giorni (riteneva accettabili le distanze di Cicerone e Labieno segnalate da Ambiorige), ai compagni dei vicini presidii, sosterrebbero insieme la sorte della guerra e non sarebbero costretti a morire qui di ferro o di fame, aut ferro aut fame, in disperato isolamento, lontano dagli altri!, reiecti et relegati longe ab ceteris. La prima uscita è, perlomeno, stridula; un'esibizione di personale coraggio che sottintende qualche giudizio negativo sul coraggio di altri: fra voi, non sono proprio io, ex vobis neque is sum ... La seconda è inammissibile: un Legato che espone un suo pari grado, e comunque un comandante, al giudizio dei soldati, da lui atterriti eccitati e incitati con una sinistra profezia.


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Un'inquietudine, un presentimento di sciagura, la cui ongme non era forse chiara neppure a lui stesso, si agitava nell'animo e nel sangue di T iturio Sabino se trascese sino a tal segno. Perchè tanto squilibrio? provocatore Cotta, che aveva già fatto contro di lui le insinuazioni che sappiamo? oppure perchè eccessivamente scosso dall'inatteso attacco di poche ore innanzi? Oppure : quali gravi cose - che Cesare non dice - Titurio sapeva della situazione Politica generale? I convenuti allora si alzano, prendono in mezzo i due Legati e li esortano a non voler rendere irreparabile la situazione, ne rem in summum periculum deducant, con un loro ostinato dissenso. La situazione, ora come ora, non presentava nulla di grave. Sia che rimanessero sia che partissero, il necessario era che tutti fossero d'accordo; nel dissenso invece non vedevano alcuna via di salvezza, in dissensione nullam salutem. Non fu però possibile smorzare subito la tensione degli animi, acquietare i due maggiori contendenti, venire a una decisione : la discussione si protrasse sino a mezzanotte, ad mediam noctem. E a mezzanotte, finalmente, tandem, Aurunculeio Cotta, ma sconvolto, permotus, si arrende: prevale la proposta di Sabino, superat sententia Sabini. E finalmente, a mezzanotte, si diramano, diremmo oggi, gli ordini per la partenza: si fa annunziare che all'alba sarebbero partiti, prima luce ituros. Il resto della notte è passato in veglia . ....

Non sarebbero stati dati buoni ordini, sia pure relativamente al pochissimo tempo disPonibile, circa i materiali da Portar al seguito o da abbandonare. Ne sarebbe stato lasciato arbitro, in parte almeno, il singolo soldato: il resto della notte è passato in veglia, .. . essendo il singolo soldato, quisque miles, impegnato alla scelta di quanto potesse portare con sè, quid secum Portare, e di quanto delle attrezzature per l'inverno, quid ex instrumento hièernorum, dovesse abbandonare. Cesare dice: « Si fece di tutto, omnia excogitar.tur, per cacciarsi r.el pericolo, e il pericolo è ora accresciuto con la spossa:ezza prodotta nei soldati · · dalla veglia»:

Una volta superata la crisi del contemporaneo movimento, i presidii dovevano restare là dov'erano. Otto punti fermi, otto scogli insormontabili, per distanti che fossero fra loro: tutta qui la chiave di volta di quel largo decentramento imposto da carestia. Ma ecco che ora un presidio si muove di sua iniziativa; e si muove quando i Galli già sanno dove si sono fermate le altre legioni e che ognuna s'è fissata al suolo con la evidente pacifica intenzione di svernare. 18. - U.S.


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Dice: « All'alba, prima luce, persuasi che il consiglio di Ambionge era stato dato non da nemico ma da grandissimo amico, non ab hoste sed ab homine amicissimo, partono in colonna lunghissima, longissimo agmine, trasportandosi al seguito il massimo dei bagagli, maximisque impedimentis ». Colonna lunghissima, massimo di bagagli: termini militari preoccupanti, sempre.

La tensione degli animi e la conseguente rilassatezza anche fisica, specialmente nei maggiori comandanti, avevano fatto trascurare l'esame delle modalità di quell'urgente trasferimento. Salmerie e carreggio, più specialmente, risultarono organizzati come potevano esserlo dalla disparata iniziativa dei minori comandanti, se non proprio dei soldati. Le quindici coorti probabilmente incolonnate un po' distanti l'una dall'altra per rendere la marcia snodata e agevole, giacchè preoccupazioni operative che richiedessero un incolonnamento serrato non esistevano; il pesante treno, Poi, dei carri e quadrupedi parte riunito e parte suddiviso in aliquote, sì che ogni coorte o gruppo di coorti avesse al seguito il proprio bagaglio (ipotesi che meglio si potranno avvalorare fra poco). Non marcia, insomma, in paese alleato o amico, il che già avrebbe richiesto qualche rigore di organizzazione: ma ordinaria marcia di trasferimento come nel proprio paese fra popolazioni insospettabili, su itinerari dov'è superflua ogni preventiva ricognizione o informazione. Ma ci è già venuto incontro, come ognuno ha avvertito, l'argomento essenziale: si posero in marcia « persuasi che il consiglio fosse stato dato non da nemico ma da grandissimo amico ». Si deve alla convinzione di attraversare il territorio degli Eburoni in assoluta sicurezza, garantita dalla parola d'onore di un re, se a nessuno de_i comandanti di maggior grado, per agitati e stanchi che fossero, venne il sospetto che bisognasse intraprendere e condurre la marcia in assetto di prudenza, se non proprio di allarme. Ma nel consiglio di guerra, Aurunculeio Cotta, e con lui parecchi tribuni e centurioni di maggior anzianità, non avevano avanzato la proposizione che nulla fosse da ritenere più sconsiderato e riprovevole che prendere una decisione di tanta importanza su parere del nemico, auctore hoste? Donde Titurio Sabino, che al parere del nemico più degli altri mostra di attenersi, apparirebbe debole uomo di comando. Ma ad Aurunculeio Cotta, ora che sappiamo com<: le truppe del presidio si posero in mar.eia, si potrebbe ribattere che egli, pur convinto di marciare in paese nemico, non impegnò tutta la propria autorità - non poca se Titurio non potè decidere l'abbandono di Tongres senza il suo assenso - per pretendere un'organizzazione della marcia rispondente a tal convinzione. E vorremmo escludere (morirà da buon soldato fra poche ore) che il suo risen-


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timento verso Titurio dopo la decisione lo avesse fatto scivolare (macchie del genere non sono rare in duri temperamenti di militari tipici) in un contegno del tutto passivo e indifferen te. Ma Cotta - sembra evidente - avrebbe qualificato Ambiorige « nemico» a solo scopo polem ico, perchè tal generica q ualifica s'associava alla propria tesi e rintuzzava, non senza puntura, quella degli avversari: senza però specifica e fattiva convinzione. Cesare, pur rilevando Titurio come assertore primo dell'abbandono di Tongres, non ha infatti finora pronunciato alcun giudizio sulle persone dei due Legati. Impersonale quel « si fece di tutto per cacciarsi nel pericolo »; impersonale quel « persuasi che il consiglio era stato dato non da un nemico, ... » : due espressioni che pongono sotto accusa entrambi. Il consiglio di guerra si era protratto a lungo in piena libertà di parola ; ed era terminato a mezzanotte non per imposizione di chi si sia ma perchè solo a quell'.ora aveva .finalmente prevalso l'opinione di Sabino. Il risultato sostanziale di quel consiglio potrebbe quindi così presentarsi: un certo numero di convinti (e fra questi stia pure, per primo, Titurio) che Ambiorige fosse un amico e altri che fosse persona degna, almeno, di credito; della opposizione (ivi compreso Cotta, che però alla fine pur si arrese all'opinione di Sabino), nessuno che proponesse di intraprendere la marcia con particolari misure di sicurezza per sfiducia, o anche solo generica diffidenza, nel consiglio e nella parola d'onore del re degli Eburoni. Nè possiamo del tutto dimenticare i due parlamentari, il Cavalier Arpineio amico di Titurio Sabino e lo spagnuolo Quinto Giunio che presso Ambiorige era stato più volte in missione, per incarico, si noti, di Cesare: chi meglio di costoro avrebbe potuto dare un giudizio sulla garanzia, morale e politica, offerta da Ambiorige? Se richiesti - ma può darsi che non fossero stati neppure richiesti - avranno detto e ripetuto (impossibile supporre il contrario o diversamente): un galantuomo, a Cesare devoto. Un consiglio di guerra che non indugiò affatto, diremmo, sulla fidatezza di Ambiorige, tutto inteso come fu a sciogliere il nodo se fosse il caso o no di procedere a un trasferimento di presidio sì fastidioso a causa del1'urgenza. Perchè la radice di questo avvenimento potrebbe piuttosto rinvenirsi, lo abbiamo già accennato, nello stato d'animo dei partecipanti al consiglio prima ancora che giungessero le notizie di Ambiorige. Cioè: in tutti o quasi i comandanti romani, la preesistente trepidazione dovuta alla quasi certezza che la rivolta generale della Gallia fosse non solo fatale ma anche imminente. se non addirittura in atto. Inquietudine aumentata di mano in mano che q uelle truppe si erano inoltrate e isolate nelle selvose e selvagge regioni della media Mosa; sino a divenire apprensione, ansia, e forse anche latente terrore, all'attacco, inconcepibile più che inatteso, degli Eburoni e al febbrile dilemma scaturito dalla relazione dei due parlamentari.


Ambiorige, più caso forse che arte, avrebbe dunque informato Titurio · di cosa che questi, e con lui altri, già prevedeva; avrebbe confermato ciò che già era nel giudizio o nel tormentoso presentimento - e in Titurio, probabile, più che in Cotta - di entrambi i Legati. Senza tal preesistente stato d'animo, informazioni e tanto più consigli di straniero è quasi impossibile che sarebbero passati insospettati; ferma invece tal condizione, un Ambiorige che gratificò di un estremo favore il suo ospite, ora che improvvisamente era costretto -suo malgrado a considerarlo nemico, passava senz'altro come degno di fiducia.

E rimane in piedi, poi, e ben fermo, questo interrogativo: perchè delle otto aliquote in cui era stato diviso l'esercito questa di Tongres aveva due comandanti pari grado, di cui non si comprende chi avesse sull'altro netta supremazia? Cesare non dà a questo proposito alcuna spiegazione, sebbene il suo stesso, e sì vivido, racconto del disgustoso alterco, e delle conseguenze che ora ne deriveranno, gliene facesse obbligo. Suppcrre che a cagione delle voci di soldati corse in Normandia due anni or sono, Cotta fosse stato posto a puntello di Titurio perchè questi era o sembrava di paca decisione, sarebbe pensare a soluzione infelice: un rimedio che fiaccava ancor più il prestigio di Titurio e poneva in nefasta posizione di reciproca diffidenza Cotta e Titurio. E pci, proprio un comandante che ha bisogno di puntello destinato al presidio più lontano e al comando di quindici coorti di cui solo cinque di anziani? Direttiva di ferro quella che gli otto presidii dovessero costituire otto punti fermi, otto insormontabili scogli, su un'area quasi un terzo dell'intera Gallia: però le teste dei comandanti, che avrebbero dovuto essere anch'esse otto, erano nove.

« lN MAGNAM CONVALLEM . . . ».

Ma i nemici, quando dal notturno trambusto e dalla veglia compresero che era stata decisa la partenza, si appostarono da due parti, collocatis insidiis bipertito, - su posizione favorevole e nascosta in mezzo alle selve - e aspettarono, a circa tre chilometri dal campo, l'arrivo dei Romani . . ... Non si sa se i Romani fossero diretti al presidio Cicerone presso i Nerv1 o al presidio Labieno presso .i Remi. Più accreditata l'_i potesi Labieno; anche perchè presso Labieno a disastro avvenuto approdò, come sentiremo, uno sparuto numero di superstiti.


L'agguato era stato predisposto, come abbiamo appena sentito, in due punti; luoghi, evidentemente, di passaggio obbligato, quale che fosse la direzione di marcia di chi usciva dal campo. . . . I nemici aspettarono l'arrivo dei Romani; e quando la più gran parte della colonna fu discesa in una grande valle, in magnam convallem ... E' la valle del fiume Geer, - se i fatti avvennero in quel di Tongres affluente di sinistra della Mosa. . . . e quando la più gran parte della colonna fu discesa in una grande valle, essi, improvvisamente, apparvero dall'una parte e dall'altra di essa, ex utraque parte, e cominciarono a premere la retroguardia e a impedire all' avanguardia di rimontare la valle, prohibere ascensu; accesero insomma la battaglia in luogo sfavorevolissimo per i Romani, iniquissimo nostris loco. In un primo tempa, dunque, solo attacchi alla retroguardia e all'avanguardia; nulla ai fianchi della colonna. Segno che la· valle era piuttosto profonda e non c'era da temere che i Romani patessero agevolmente risalirne - più selvosi, forse, che ripidi - i fianchi. Il che pone in tutta evidenza questo: che solo quando il sibilo delle frecce si accrebbe e divenne insistente i comandanti romani avvertirono che il luogo dove si trovavano era sfavorevolissimo. Tutta la colonna - avanguardia, grosso, retroguardia - s'era per intero sprofondata nella « magnam convallem » senza via via tenersi assicurato, o sulla fronte o a tergo o su un fianco, uno sbocco. Marciava dunque senza alcuna preoccupazione per la propria sicurezza. Cesare (va però notato che parla su testimonianza di superstiti) segna a dito, ora, il Legato Titurio Sabino. Dice: « Allora finalmente Titurio, come quei che non aveva provveduto a nulla, qui nihil ante providisset, si dette agitato a correre da tutte le parti, trepidare et concursare, e a schierare le coorti; ma anche questo faceva con incertezza, timide, come se già disperasse di tutto: ciò che suole spesso accadere a coloro che sono. costretti, inaspettatamente, a prendere una decisione sul fatto, in ipso negotio >> . Menzogne, nient'altro che menzogne, e il consiglio e la parola d'onore di re Ambiorige? Titurio Sabino dovette stentare a crederlo; ma quando lo sviluppa del combattimento gli ebbe fugata l'ultima speranza, disperò di tutto e di se stesso. Cesare, rilevate l'imprudenza e l'insufficiente reattività di Titurio Sabino, passa ad Aurunculeio Cotta. Dice: « Ma Cotta - come colui che aveva pensato che durante la marcia potesse avvenir questo, haec posse in itinere accidere, e non s'era fatto, per questo motivo, sostenitore della partenza - ma Cotta nulla tralasciò per la salvezza comune, esplicando i doveri del comandante nel radunare ed esortare i soldati e i doveri del soldato nel combattere, et imperatoris et militis officia praestabat >> .


Ma se Cotta « aveva pensato che durante la marcia potesse avvenir questo » - il che, sì esplicitamente specificato, sentiamo solo ora - che ne fu di tal suo pensiero alla vista del « longissimo agmine m aximisque impedimentis » ?, ossia, meglio: al momento in cui, arreso che si fu alla proposta di Sabino, bisognava pur pensare ali' organizzazione della marcia? Interrogativo che si aggr'ava e non poco, se Cotta - e anche questo, così esplicitamente specificato, lo abbiamo sentito solo ora - ostacolò la proposta di Sabino proprio « per tal motivo » cioè proprio per il motivo che la marcia presentasse dei pericoli. Bisognerebbe allora ammettere, un assurdo, che Titurio avesse rifiutato e tenuto in nessun conto - malgrado la testimonianza dei partecipanti al consiglio di guerra - l'esplicito suggerimento o la lecita pretesa di prudenza, per la marcia, avanzati da Cotta.

(( CLAMORE ET FLETU . . . )) .

Il tiro nem ico, dapprima sulla retroguardia e avanguardia, dovette, di mano in m ano, estendersi tutt'intorno alla lunghissima colonna, sì che la situazione rom ana in breve si aggravò. I due L egati, non potendo, data la lunghezza della colonna, essere dappertutto e prendere in ogni punto le disposizioni necessarie, fecero dar ordine (questa volta, dunque, d'accordo), di abbandonare salmerie e carreggio, ut impedimenta relinquerent, e di costituirsi in cerchio, atque in orbem consisterent. E fu certamente trovato e indicato quel tanto di spazio dove una legione, cinq ue coorti, e l'aliquota di cavalleria (in tutto, sette ottomila combattenti?) potessero disporsi in cerchio : senza però racchiudervi salmerie e carreggio., abbandonando cioè (più si affonda l'immaginazione in quei tempi e luoghi più si avverte di tale abbandono la iattura) i mezzi di vita. Cesare dice: « Una tal manovra, sebbene non sia in casi del genere da riprendere, in questa circostanza riuscì dannosa, incommode accidit: nei Romani diminuì la fiducia, spem minuit, nei nemici accrebbe la combattività, ad pugnam alacriores effecit, perchè vi vedevano una prova di paura e disperazione ». Però il concentramento degli uomini, comunque configurato quel terreno, poteva compiersi con una certa rapidità; ma lento, e forse impossibile, il concentramento di più aliquote di salmerie e carreggio. Sarebbe del tutto da escludere che salmerie e carreggio marciassero in coda alla colonna con una propria scorta armata per una eventuale difesa autonoma (è l'organizzazione, tutta operativa, che Cesare adottò, come ricor. diamo, prim2 della battaglia della Sambra). In tal caso, non sarebbe stato difficile, e anzi quasi immediato, l'ammassamento per la costituzione del


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cerchio; e alle prime battute del combattimento considerevoli forze avrebbero Potuto proiettarsi in avanti, sull'avanguardia, per superare lo sbocco della valle e guadagnare qualche altura. Nell'iPotesi delle salmerie e carreggio al centro della colonna, si sarebbe avuto un buon nerbo di forze prontamente impiegabili sia in testa che in coda alla colonna; la possibilità cioè di non ricorrere, o di procrastinarla, alla trista decisione dell'abbandono delle impedimenta. La terza iPotesi - e altre non ve ne sono - quella delle coorti o di gruppi di coorti con i propri bagagli al seguito, meglio o del tutto si accorda con quanto ora sentiremo. Ed è quella che spiega l'impossibilità per i due Legati di esplicare proficua azione di comando, la quale sarebbe stata invece agevole a coorti quasi tutte riunite o suddivise, se al centro le impedimenta, in due aliquote. Dice: « Inoltre accadde - ed era inevitabile che accadesse - che dappertutto ì soldati si allontanassero dalle Insegne lanciandosi sui bagagli a cercarvi e a prendere quanto ciascuno avesse di più caro, carissima, e che echeggiassero ovunque grida e pianti, clamore et fletu omnia complerentur ». La solita nota cesariana pulita di fronte a crude realtà. Ognuno, sì, alla ricerca dei « carissima », cioè del proprio peculio e di oggetti di valore, i trasportabili, toccatigli per bottino: ma potè anche trattarsi di ondate con confuso discernimento del mio e del tuo. Dettero fuoco alla miccia i bagagli a portata quasi di mano; ma il terrore esplose per l'impotenza di fronte al nemico che frecciava d all'alto e protetto dalla selva, nonchè per lo sgomento pur rimasto in fondo agli animi dalle valutazioni torbide e pessimistiche (su fantasmi!) emerse nel consiglio di guerra e rapidamente divulgatesi. E perciò, a un certo punto e per un certo tempo, con grida e pianti, clamore et fletu, il frenetico scomporsi, sotto gli occhi del nemico, di gran parte della lunghissima colonna. Eppure, se i barbari fossero stati attratti dalla preda così come i legionari lo erano stati dai « carissima », proprio l'abbandono delle salmerie e del carreggio avrebbe potuto offrire ai Romani una via di salvezza. Quei franamenti psicologici di sempre che tutto sta che comincino: allucinati dalla straordinaria visione di decine di quadrupedi e carri carichi e abbandonati (che valore, a quei tempi, nonchè le armi anche un sol sacco di frumento e un sol capo di vestiario!), i barbari, una volta discesi nella valle, avrebbero potuto qui, intorno ai bagagli , essere massacrati dal tiro romano, del loro assai più pronto ed efficace. Cesare dice: « At barbaris consilium non defuit, ma i barbari non perdettero la testa ». I capi dei barbari infatti, duces eorum, fecero bandire lungo tutto lo schieramento, tota acie: che nessuno si muova dal suo posto! Portaordini o persone di autorità, ansanti, dappertutto : vostra è la preda!, illorum esse prae-


dam. Tutto è vostro ciò che i Romani lasceranno! Unico vostro pensiero la vittoria! Il miracolo avvenne: i barbari rimasero sulle posizioni dominanti. Dice: « I Romani, quantunque abbandonati dal comandante e dalla Fortuna, ab duce et a Fortuna, riponevano ogni speranza di salvezza nel loro valore, e . .. ». A parte la fortuna - questa volta, evidentemente, nemica ai Romani e a parte anche il valore dei soldati (sotto l'incubo, qualora si fossero arresi , di essere tutti sgozzati), a parte dunque fortuna e valore, che significa che i Romani << erano stati abbandonati dal comandante » ? Espressione generica per dire « da chi comandava » - cioè entrambi i Legati che avevano sbagliato la mossa iniziale con la disperata manovra del cerchio senza i bagagli - oppure per richiamare, ancora, la depressione morale di Titurio Sabino? I Romani riponevano ogni speranza di salvezza nel loro valore, e ... ogni qualvolta una coorte avanzava, da quella parte cadeva un gran numero di nemici, ab ea parte magnus numerus hostium cadebat ... Costituito alla meglio il grande cerchio, i Romani cominciarono a difendersi, oggi diremmo, a colpi di coorte: dove l'orda nemica si faceva più dappresso, là una coorte si staccava dal cerchio e contrattaccava a sangue. La belva, accerchiata, che balza e azzanna chiunque le si avvicini; procedimento tattico certo pesante per i Romani, ma che, qualora si fosse protratto, avrebbe fiaccato lo spirito offensivo degli Eburoni, i quali, così combattendo, venivano a rinunciare alla quasi incolumità loro garantita dai recessi delle posizioni selvose e dal tiro romano dal basso . . . . Accortosi del danno di tal procedimento, re Ambiorige (s'è già abbastanza svelata la personalità di quest'uomo) fa dar ordine: che il tiro si esegua da lontano, ut procul tela coniciant; che nessuno si avvicini troppo ailo schieramento romano; che dove i Romani avanzano, si ceda, e dove invece si riti~ rano, si inseguano. Siamo in grado (ma questo è pensiero di Cesare anche se posto in bocca ad Ambiorige) di infliggere al nemico notevoli perdite data la leggerezza del nostro armamento e il quotidiano addestramento, levitate armorum et cotidiana exercitatione. Barbari un po' speciali questi Eburoni. Si trattengono dal saltare sulla preda a portata di mano; sono in grado di eseguire immediate direttive tattiche intese a neutralizzare gli effetti della difesa elastica che i Romani conducono a col pi di coorte; provengono ·da addestramento quotidiano: dov'è più la barbarie? Tali direttive furono dalle truppe degli Eburoni scrupolosamente, diligentissime, eseguite: là dove una coorte si staccava dal cerchio e avanzava, i nemici si ritiravano con estrema rapidità, velocissime. Sicchè l'attacco romano - dal basso verso l'alto, allo scoperto, su obiettivo incerto perchè nascosto dalla selva - diveniva redditizio al nemico.


Quando una coorte si staccava dal cerchio e avanzava, era inevitabile che lasciasse vuoto lo spazio da essa occupato nello schieramento e che esponesse al tiro nemico - ora che era isolata - il fianco non protetto dallo scudo ..... Vuoto inevitabile e vulnerabilità del fianco destro: costatazioni che acquisteranno subito specifico significato. Perchè . .. quando i soldati della coorte attaccante cominciavano a retrocedere sulle posizioni di partenza, - quando cioè, esaurita la puntata offensiva, volevano rioccupare il loro Posto - erano circondati sia da coloro che avevano ceduto alla loro avanzata che da coloro che erano rimasti (sul fianco destro) a essi vicini. Attaccati, nel retrocedere, dal ritorno offensivo dei fuggiaschi e da nugoli di tiratori sul fianco; e anche, probabilmente, alle spalle se i vuoti nello schieramento, in quella disperata situazione, non Potevano essere vigilati. Le coorti romane - o, piuttosto, improvvisati e caotici aggruppamenti venivano insomma attaccate alla spicciolata ogni volta che - per dar respiro alla massa in cerchio ma tutta sotto bersaglio - tentavano di guadagnar spazio, e Possibilmente qualche altura, senza troppo staccarsi dallo schieramento. La belva è, per gli Eburoni, nella fossa, e i suoi balzi, disperati e spaventosi che siano, non possono più superarne le pareti. I romani, sino a quando non sopraggiunse il collasso, essendo loro sempre più micidiale l'inerzia, dovettero attaccare il più che Poterono, disordinati che fossero i loro sforz~: se poi volevano restar fermi sulla posizione, nè potevano esplicare il loro valore - contro chi? __,, nè, ammassati come erano, conferti, potevano evitare i colpi lanciati da un numero così grande di nemici, ab tanta multitudine (t1..1tti gli Eburoni, anche gli storpi, erano ora sul camPo di battaglia: questo si può dar per certo). Cesare dice: « Tuttavia, malgrado tutte le contrarietà, malgrado Le gravi perdite, i Romani resistevano; e, per quanto avessero passato combattendo gran parte del giorno dall'alba alle due pomeridiane, a prima luce ad horam octavam, nulla commettevano che fosse indegno di loro». Ecco un Tito Balvenzio, l'anno avanti promosso primìpilo, uomo coraggioso e di grande prestigio, con entrambi i femori trapassati da un giavellotto. Ecco un Quinto L ucanio, ufficiale dello stesso grado del precedente, che cade combattendo coraggiosamente mentre corre in aiuto del figlio circondato. Ecco lo stesso Legato Lucio Cotta, mentre eccita ovunque coorti e manipoli, ferito da una fionda in pieno volto, in adversum os fonda vulneratur ». E' l'epicedio ( attutisce « grida e pianti » testè uditi). Perchè, forse, proprio alle due Pomeridiane, - doPo circa nove ore di combattimento - e col ferimento di Aurunculeio -Cotta, dovè aver inizio il tracollo.


« Iussus

ARMA ABJICERE .. •

».

Scosso da tutto questo, Quinto Titurio Sabino, avendo scorto da lontano Ambiorige che incitava i suoi, gli invia il suo interprete, Gneo Pompeo, a chiedergli che risparmi lui e i soldati, ut sibi militibusque parcat ... (formula d'uso, sembrerebbe, per significare « la salvezza di tutti ») . L'invio di Gneo Pompeo ad Ambiorige fu atto tutto dovuto, questa volta, a Titurio Sabino. Ma per preminenza gerarchica o per lo stato di Cotta dopo la ferita? Ambiorige, così richiesto, rispose: se Titurio Sabino vuol parlarmi può farlo, si velit secum colloqui licere: spero di poter ottenere dalla moltitudine che i soldati romani siano risparmiati. Quanto a Titurio, nessuno lo toccherà: glielo garantisco io con la mla parola, suam fidem. Sicchè ancora una volta, a poco più di ventiquattro ore, Titurio Sabino è sotto l'influsso della parola d'onore di Ambiorige. Ambiorige non poteva tenersi come prigionieri i trofei viventi del suo tradimento, del suo cinico stratagemma : per farne che?; Ambiorige aveva già mancato di parola quando aveva offerto ai Romani il salvacondotto per le sue terre; Ambiorige rispondeva ora a G neo Pom peo in termini ambigui: tutto questo T iturio Sabino ben capiva. E T iturio soprattutto sapeva che quale più acceso sostenitore dell'abbandono di Tongres, qualunque fosse stata la piega che l'evento, ormai già tristo, potesse prendere, la sua reputazione militare ne sarebbe uscita distrutta. Tuttavia, egli non rinunziò al proposito di chiedere la resa (per aver salva la propria vita o tentativo per evitare, debole che fosse la speranza, l'eccidio totale dei suoi soldati?). Ma ebbe bisogno, sino all'ultimo (corresponsabilità inscindibile o, questa volta, solo atto di rispetto?), di Aurunculeio Cotta: a Cotta ferito Titurio propose, se lo credeva, di uscire dalla mischia e di portarsi insieme a lui a parlamentare con Ambiorige, et cum Ambiorige una conloquantur (la ferita di Cotta era dunque tale da consentire ciò): sperava di poter ottenere da lui la salvezza di comandanti e soldati. Ma Cotta rispose che non si sarebbe mai recato da « nemico armato», se ad armatum hostem iturum negat (formula d' uso, che ritroveremo), e non si lasciò smuovere (Titurio aveva forse insistito) dal suo proposito. Allora Titurio Sabino - sebbene !'-assenza di Cotta alle trattative potesse del tutto compromettere, ammesso che vi fosse, qualche probabilità di successo - decise di compiere il passo da solo. Egli ordina ai tribuni e ai centurioni anziani che aveva in quel momento intorno a sè di seguirlo, se sequi iubet, e, quando è vicino ad Ambiorige, inv~tato a gettare le armi, iussus arma abjicere (Cesare registra anche questo umiliante particolare), obbedisce, imperatum facit, e ordina ai suoi di fare altrettanto, ut idem faciant imperat . . .


... Mentre però trattano fra di loro la resa, - e Ambiorige artatamente tira in lungo il discorso - i nemici a poco a poco circondano Titurio e lo uccidono, paulatim circumventus interficitur.

(( VrcTORIAM CONCLAMANT •.• )) .

Allora (in seguito all'iniziativa di resa e conseguente ucc1S1one di Titurio? ma i Romani erano già, dopo nove ore, allo stremo), allora i nemici gridan o, secondo lor costume, vittoria e, con un ululato, victoriam conclamant atque ululatum tollunt, fanno impeto sui Romani scompigliandoli. E qui, combattendo, Lucio Cotta trovò la morte assieme alla massima parte dei soldati, cum maxima parte militum. Altro breve epicedio: alcuni riuscirono a raggiungere il campo donde erano usciti (fra questi, l'alfiere Lucio Petrosidio che, premuto da una folla di nemici, lancia l'Aquila al di là del vallo e cade coraggiosamente combattendo davanti al campo) . Essi resistettero qui, davanti al campo, a gran fatica sino a notte; ma durante la notte, perduta ogni speranza di salvarsi, si uccisero, tutti, ad unum omnes se ipsi interficiunt. Solo pochi, pauci, sfuggiti alla strage, raggiunsero per vie sconosciute attraverso le selve, incertis itineribus per silvas, il campo del Legato Quinto Labieno, e a questi raccontarono ciò che era avvenuto.

Tutto questo avvenimento - dall'inatteso attacco degli Eburoni al campo alle ultime resistenze romane nella « magnam convallem >> - potè svolgersi in circa trentasei ore.

CHARLEROI

CENTOVENTI TORRI.

Ambiorige, imbaldanzito da questa vittoria, hac victoria sublatus, parte immediatamente con la cavalleria per il paese degli Aduatuci, che confinavano col suo regno. Ordina alle sue truppe a piedi di affrettarsi a seguirlo ed egli non si ferma nè di giorno nè di notte. Messi gli Aduatuci al corrente degli avvenimenti e sollevatili, - quegli Aduatuci che tre anni fa, dopo i fatti di Namur, furono in gran numero venduti all'asta, - il giorno dopo giunge nel paese dei Nervi e li esorta a non lasciar passare l'occasione di liberarsi per sempre, sui in perpetuum liberandi, e vendicarsi delle offese rice-


vute dai Romani. Due i Legati uccisi, gran parte della guarnigione distrutta. Occorre ora sorprendere la legione di Cicerone e annientarla: son qui per darvi aiuto. Con tal discorso persuade facilmente i Neru1. I quali pertanto mandano subito messi a tutti i popoli dipendenti da loro, raccolgono quanti più armati possono, e piombano sul campo di Cicerone, al quale non era giunta ancora la notizia della morte di Titurio. Affluirono intorno al campo di Quinto Cicerone - supposto nella zona di <?harleroi - gli armati dei Nerv1 e lor clienti, degli Aduatuci, degli Eburom. E anche qui accadde che parecchi lignatores fossero tagliati fuori dall'improvviso arrivo della cavalleria. L'attacco dovè aver inizio appena i ribelli furono in buon numero, qualche giorno dopo il disastro di Tongres (che c'è chi pone al 21 ottobre): compiuto l'accerchiamento del campo, Eburoni Nervt Aduatuci e loro soci e clienti iniziarono l'attacco alla legione con grandi forze. Ma anche a Charleroi, come a Tongres, i Romani riuscirono ad armarsi rapidamente e a occupare in tempo gli spalti del vallo. Qui però si resistè, quel giorno, a malapena, aegre: i ribelli ponevano ogni speranza nella rapidità della loro azione, omnem spem in celeritate, pensando che, dopo questo successo, la soppressione di un secondo presidio romano, avrebbero conseguito vittoria definitiva, in perpetuum victores. Il Legato Quinto Cicerone (fratello dell'oratore e uomo di penna anche lui) pensò subito a Cesare, sicuro - e sarebbe interessante sapere donde tal sicurezza potesse venirgli - che Cesare non fos se partito per l'Italia e si trovasse ancora in Amiens: immediatamente da Cicerone viene inviato un messaggio a Cesare, promettendo grandi premi a chi fosse riuscito a recapitarlo. Ma essendo bloccate tutte le strade, obsessis omnibus viis, i messi furono presi. Cesare dice: « Durante la notte, col materiale da fortificazione già raccolto, sono innalzate con rapidità da non credere ben centoventi torri, turres admodum centum et viginti, e si porta a termine tutto ciò che alle opere di difesa potesse ancora mancare ». Più che vere e proprie torri, diremmo che fu allestito, in quella prima notte, un gran numero di alte impalcature a pochi metri l'una dall'altra sì che il nemico fosse sotto tiro quanto .più lontano possibile dal fosso perimetrale. Centoventi torri in una notte!, è come un profondo sospiro di sollievo : a Tongres, l'alba che seguì l'inattesa ostilità ha illuminato un infelice esodo, qui, a Charleroi, un campo irto di torri. Il giorno dopo i nemici, raccolte forze molto .maggiori, attaccano il campo e riempiono il fosso, fossam complent. I Romani resistono ancora a stento, come il giorno prima; e lo stesso avviene anche nei giorni successivi.


Alte note di abnegazione nel campo romano: in nessun momento della notte si interrompe il lavoro: non sì lasciano riposare nè malati nè feriti. Tutto quello che è necessario per la difesa del giorno successivo si prepara nella notte. Ossia, munizionamento pesante impiegabile dagli spalti: gran quantità di pali appuntiti col fuoco e di giavellotti murali; impalcature rudimentali che diventano, con la costruzione di altri piani e di pareti protettive, vere e proprie torri: si muniscono di tavolati le torri; aumento di stabilità alle opere fortifìcatorie più esposte: merli e parapetti vengono rafforzati con graticci. La nota, infine, più alta: lo stesso Cicerone, benchè in precarie condizioni di salute, cum tenuissima valetudine esset, non si concedeva riposo neppure di notte, sino al punto che gli veniva imposto dì risparmiarsi dallo spontaneo intervento e dalle preghiere dei soldati. L'attacco di sorpresa del primo giorno non era riuscito; nè riuscirono gli attacchi dei giorni seguenti quando le forze ribelli furono tutte o quasi in posto. Campo romano, come legione schierata, osso troppo duro per i barbari.

Allora - dopo alcuni giorni di vani tentativi - comandanti e principi dei N erv1 che avevano modo di arrivare sino a Cicerone e qualche rapporto di amicizia con lui, causamque amicitiae, gli chiedono un colloquio. Tanto è accordato. E nel colloquio quei comandanti e principi ripeterono le stesse cose che Ambiorige aveva fatto dire a Titurio: tutta la Gallia era in armi, omnem esse in armis Galliam, i Germani avevano passato il Reno, Germanos Rhenum transisse, tutti i presidii compreso quellÒ di Cesare erano stati attaccati. Annunziano anche la morte di Titurio Sabino e, per acquistarsi fede, mostrano Ambiorige, Ambiorigem ostentant (che non era certo nel campo con i principes: fu additato, è da supporre, dall'alto d'una torre). Dissero inoltre quei parlamentari: Siete in errore se sperate qualche aiuto da chi ormai ha da pensare solo ai fatti propri. Tuttavia, noi siamo ben disposti verso Cicerone e il Popolo Romano, ai quali nulla ricusiamo se non il peso degli alloggiamenti invèrnali, nihil nisi hiberna. Noi non vogliamo che la consuetudine di svernare nel nostro territorio prenda radice: ecco tutto. Voi, per conto nostro, potete uscire in piena sicurezza dagli alloggiamenti e andare senza pericolo, sine metu, in qualunque direzione vogliate. Cicerone non rispose che una sola cosa: il Popolo Romano non usa accettare condizioni da nemico armato, non esse consuetudinem Populi Romani accipere ab hoste armato condicionem. Se deponete le armi, potrete contare sul mio a,iuto e mandar messi a Cesare: io spero che Cesare, nella sua giustizia, vi concederà ciò che chiedete. Delusi nella lor speranza, i Nervi .. .


L'ASSEDIO.

D elusi dall'esito negaùvo dell'ambasceria, i Nervi posero mano a un procedimento tattico che si potrebbe dire del tutto inconsueto all'indole gallica: circondano il campo romano con un'opera campale il cui fosso era largo circa quattro metri e il terrapieno alto circa tre. Sicchè ora i Romani non potevano più far conto su improvvise sortite che valessero ad alleggerire almeno in qualche punto la pressione nemica: anch'essi, ora, sarebbero stati arrestati da largo fosso e relativo terrapieno. I barbari avevano imparato questi lavori vuoi dal contatto con gli stessi Romani negli anni precedenti (in prestazioni di manovalanza), vuoi perchè avevano prigionieri dell'esercito romano (Galli, probabilmente, già nelle truppe ausiliarie) che li istruivano. Erano poveri gli armati dei Nervi e dei loro alleati: non possedendo quasi del tutto attrezzi di ferro atti alla bisogna, erano costretti a tagliare le zolle con le spade e a portare la terra con le mani e i mantelli. Cesare dice: « Da questo lavoro si potè vedere quanto fosse grande il numero dei nemici: in meno di tre ore, essi avevano finito tutto all'ingiro una linea fortificata di circa cinque chilometri di sviluppo ». Una sì lunga linea, supposta alquanto vicina all'avversaria, comporterebbe un campo romano di perimetro anch'esso notevole (circa tre chilometri? una forza complessiva combattente di un cinquemila uomini?). L'assedio al campo romano, ormai infrangibile a cagione della linea fortificata e presidiata da gran numero di nemici, ebbe così inizio nello stesso giorno in cui capi e principi dei Nerv1 erano ritornati delusi dall'ambasceria. E nei giorni seguenti quel sistematico lavoro ossidionale - in tre ore, il fosso perimetrale non potè che essere quasi solo tracciato - continuò: i nemici cominciarono anche a preparare torri proporzionate all'altezza del terrapieno romano nonchè falci murali che potessero impiegare protetti; il tutto sempre secondo l'insegnamento dei prigionieri. Giova anticipare, anzi, l'impressione che proverà Cesare quando vedrà con i propri occhi - al giungere, dopo le vicende che sentiremo, a Charleroi quei lavori: institutas turres testudines muniùonesque hostium admiratur: mi meravigliai al vedere le torri nonchè il complesso apparato fortificatorio dei nemici.

Al settimo giornq dell'assedio, septimo oppugnationis die, ... Prima dunque parecchi tentativi, in giorni diversi, di espugnazione del campo, poi il colloquio e infine i primi sei giorni di a~sedio. Al settimo giorno dell'assedio, ... essendosi levato un grandissimo v, nto, i nemici, con le fionde si dettero a scagliare contro i baraccamenti del cr mpo


romano, m casas, proietti accesi ( composti di argilla bituminosa) e dardi roventi ..... I proietti incendiari avrebbero conseguito il loro effetto anche senza vento, ma favoriti dal vento infierirono su alloggiamenti, uffici, scuderie, magazzini, depositi di frumento, fienili, tettoie e capanni - tutte o quasi costruzioni in legno, che i Romani avevano coperte, all'uso del paese, di strame . . . . Le costruzioni presero subito fuoco e per la forza del vento l'incendio si estese a tutto il campo ..... Q uando fumo e fiamme si sprigionarono dal campo romano, i nemici con altissime grida, maximo clamore, come se la vittoria fosse ormai certa, cominciarono ad avvicinare torri - avevano dunque costruito anche torri mobili - e apparati protettivi per l'approccio al terrapieno e a salire con scale il vallo romano; segno che in qualche punto, avendo neutralizzato la difesa sul terrapieno, potevano permanere nel fosso. Il presidio romano si trovò pertanto fra due nemici l'uno più feroce del!' altro, fi amme e assaltatori. Le fiamme c'era speranza di domarle, cedere agli assaltatori morte certa. Fu così grande il valore e la presenza di spirito dei soldati che, quantunque d'ogni parte fossero incalzati dall'incendio e fossero sotto una pioggia di dardi, - e comprendessero che il bagaglio della legione nonchè le loro personali fortune, i « carissima », se ne andavano in fiamme, omnia impedimenta atque omnes fortunas conflagrare, - non solo non ci. fu nessuno che abbandonasse il suo posto sul vallo, ma, si può dire, nessuno volse il capo in_dietro, e continuarono tutti a combattere col più grande coraggio e accanimento. Cesare dice: « Quel settimo giorno fu di gran lunga il più critico per i Romani, longe gravissimus ». Sì, il giorno per i Romani più pesante; ma anche il giorno in cui il nemico più compromise, anche se non lo avvertì subito, le probabilità di un suo successo. Dice: « Ma questo almeno ne fu il risultato: che proprio in quel giorno i nemici ebbero le maggiori perdite in feriti e morti, e ciò perchè si erano troppo ammassati sotto il vallo e gli ultimi non consentivano ai più avanzati di retrocedere ». Barbari incapaci, questa volta, di azione tattica scompagnata dalla calca e dall 'eccitazione della calca. (Ma davvero a Tongres ebbe peso, anzichè l'assoluta prostrazione romana, la maturità tattica degli Eburoni ?). Tatticamente padroni di sè, invece, i Romani, come mostrerebbe il seguente episodio: decresciuta un po' l'intensità dell'incendio, in un momento in cui una torre nemica era stata portata innanzi sino a toccare il terrapieno, - il che era già l'inizio della penetrazione nel campo - tutt'intera una coorte arretrò creando un temerario vuoto: ma il nemico - che, evidentemente, avrebbe definitivamente infranto la resistenza di quella coorte se essa si fòsse


288 fermata sugli spalti - temè, si supporrebbe, l'insidia di quel vuoto e non si fece attrarre. Al momento giusto, pertanto, si ebbe il ria/flusso della coorte sulla sua posizione e la torre fu incendiata. Ma a questo punto un'interruzione (che oggi, a duemila anni, è piuttosto faceta). V'erano nella legione di Cicerone due uomini di eccezionale valore, fortissimi viri .....

. . . . . Due centurioni, l'uno a nome Tito Pullone e l'altro Lucio Voreno, Pullo et Vorenus. Due valorosi in particolare situazione di carriera: erano entrambi già vicini ai primi ordini. Prossimi cioè ai gradi più elevati che la qualifica di centurione via via comportava: chè l'avanzamento da centurione semplice a centurione primìpilo pare che fosse parecchio lungo e laborioso. Oggi potremo dire (per brevità, senza intento di paragone fra i procedimenti di carriera): erano due ufficiali anziani sul << quadro d'avanzamento ». Pullone e Voreno, insomma, entrambi affetti da « primipilite » acuta (ma non son morbi, come suol credersi, solo militari). Essi erano in perpetuo contrasto fra di loro ..... E perchè mai se la comune trepidazione li conciliava allo scambio, almeno, di un sorriso? Semplice: non esisteva allora un organico che stabilisse, per tutto l'esercito, il numero dei centurioni nei vari gradi, per cui Pullone e Voreno potessero contare sulla promozione non appena le vacanze nel nuovo grado si fossero fatte in una qualsiasi legione dell'impero romano. L'organico era allora ristrettissimo, crudele: per legione. E il posto vacante nel caso nostro, uno solo: aut Pullo aut Vorenus. Le vacanze, inoltre, erano poste · a concorso, annualmente, su benemerenze spiccatamente guerriere. Promozioni, insomma, tutte a scelta comparativa sul campo, se vogliamo dirlo in termini odierni. Erano in perpetuo contrasto fra di loro ... su chi dovesse essere il prescelto, e tutti gli anni, omnibusque annis, da tempo dunque, con grande animosità, si contendevano la precedenza ali' alto posto. E a Charleroi, in quel campo sì pressato da tutte le parti, fra le tante sciagure che rendevano precaria anche· l'esistenza e s'eran appena viste « omn~s fortunas conflagrare», il centurione Pullone non dimenticò la promoz10ne. Pullone adunque, mentre sugli spalti si combatteva accanitamente, gridò: perchè indugi, o Voreno?, quid dubitas Vorene? qual luogo aspetti per dar prova del tuo valore? Questo è il giorno che deciderà dei nostri contrasti!, hic dies iudicabit.


Ciò detto, il centurione Tito Pullone avanza oltre la linea, extra munitiones, e si lancia là dove sembragli il nemico più fitto. Lo sfidato, il centurione V oreno (però non è detto se anche 1ui d'altro non bramoso), non rimase neppur lui al di qua del vallo, ma, temendo il giudizio di tutti, seguì lo sfidante. E a questo punto - ossia, ambedue i promovendi nell'arringo - incominciò la giostra. Pullone, lo sfidante, giunto a una certa distanza dal nemico, lancia un giavellotto e passa da parte a parte uno dei tanti che gli correvano incontro. Ci scappÒ, da quell'unico colPo, il morto: i nemici proteggono con gli scudi il trafitto che cade esanime (ma se esanime a che la protezione?), e si danno a scaricare tutte le loro frecce contro Pullone, impedendogli di avanzare. Lo inchiodano sul posto. Due proiettili colpiscono frattanto Pullone, l'uno generoso l'altro meno: Pullone ha lo scudo trafitto (colpo generoso) e un verrettone gli si conficca nella bandoliera. Dello scherzo che fece questo secondo proiettile non è Possibile doPo venti secoli descrivere minutamente gli effetti; sta di fatto che il colpo rimosse la bandoliera - da cui pendeva il gladio dalla sua normale Posizione: questo accidente sposta il fodero del gladio, avertit vaginam. Sicchè Pullone, quando portò la destra al posto regolamentare per estrarre il gladio, subì - in un'operazione che avrebbe dovuto essere istantanea anche perchè i Romani Portavano la spada a destra - un certo ritardo : l'accidente rallenta la mano destra, dextram moratur manum, a colui, Pullone, che si sforzava di sguainare il gladio. Allora i nemici sono addosso a Pullone così intralciato. Ma ecco a questo punto Voreno, lo sfidato: Voreno, il rivale, inimicus, viene in aiuto di Pullone, succurrit illi, per aiutarlo, sebbene una sola « sul quadro» la vacanza, a trarsi da quel travaglio. Immediatamente, tutta la moltitudine dei nemici lascia Pullone e si volge contro Voreno; rapida e totale conversione dovuta al fatto che quella moltitudine riteneva che Pullone, trafitto da verrettone, fosse stato ucciso, illum arbitrabantur occisum (disteso dunque per terra, nell'immobilità della morte, Tito Pullone). Voreno combatte corpo a corpo con .la spada: uccide un nemico (è il secondo morto dei nemici), e gli altri riesce ad allontanare un poco. Combatte insomma con tutte le sue forze (per dar a Pullone onorata sePoltura ?) : ma mentre incalza i nemici con troppa foga, inciampa in una buca e cade. E sarebbe certamente perito se Pullone non avesse fatto il morto per finta: a sua volta Pullone, rursus Pullo, porta aiuto a Voreno che è stato circondato. Conclusione: ambedue incolumi, ambo incolumes, dopo aver ucciso molti nemici, compluribus interfectis (contati sul terreno due), rientrano nelle linee fra la generale ammirazione, summa cum laude.

19. -

u.s.


La, fortuna aveva voluto che, nell'alterna vicenda della gara e del combattimento, i due avversari si fossero reciprocamente di aiuto e di salvezza e non si potesse dire quale dei due superasse l'altro in valore. Neppure quest'anno, sembrerebbe, nessuno dei due « promosso ».

La, pressione degli assedianti diventava ogni giorno più angosciosa e pesante, soprattutto perchè, fuori combattimento per ferite gran parte dei soldati, i difensori s'erano ridotti a pochi. E quanto più la situazione diveniva difficile tanto più numerosi erano inviati a Cesare, con invocazioni di aiuto, lettere e messi. Ma quali speranze si potevano nutrire che tali messi giungessero a destinazione? Alcuni di essi, - quelli che venivano scoperti nella zona stessa delle operazioni - presi dai nemici, erano uccisi fra i tormenti, cum cruciatu, sotto gli occhi dei soldati romani, in conspectu nostrorum militum. I vuoti dei feriti - e non pochi, certamente, i morti - avevano indebolito la difesa sul vallo; i danni dell'incendio non potevano non aver inciso sulle riserve di viveri e di foraggi ; e nessuna possibilità di chiedere e di ricevere aiuto. Si sta maturando la fine « aut ferro aut fame >> che Titurio prevedeva per Tongres?

« UNICA SALVEZZA LA RAPIDITÀ>>

« ... 0M NEM DUBITATIONEM EXPULIT ».

C'era nel campo di Cicerone un nervio, a nome Verticone, di buoni natali, il quale, sin dal primo momento dell'assedio, era passato a Cicerone, e gli si era poi mostrato di un'assoluta fedeltà (anche fra i Nervi i collaborazionisti!). Questo signore, con promesse di libertà e di grossi premi, persuase un suo servo a portare una lettera a Cesare. Il servo legò la lettera a un dardo - la occultò, così, come meglio potè e, Gallo tra i Galli, Gallus inter Gallos, passò in mezzo agli assedianti senza suscitare alcun sospetto; - e giunse a Cesare. E' dunque per l'abilità di un tal uomo che Cesare viene a sapere della critica situazione di Cicerone e della sua legione. Viene a sapere da questo messaggio - l'unico giuntagli - della situazione di Cicerone: ma, quasi certamente, nulla della sorte di Titurio Sabino. E dal disastro di T ongres sono trascorse più di due settimane; doven-


dosi ai calcoli precedenti aggiungere che il servo partì da Charleroi dopo l'incendio, cioè almeno sette giorni dopo l'inizio dell'assedio, e che dovè impiegare più di due giorni, se trovò un cavallo, per giungere a Cesare. Dice: « Ricevuto il messaggio circa alle quattro pomeridiane, acceptis litteris hora circiter undecima diei ... ». Segnata l'ora dell'arrivo del messaggio tanto lo impressionano le notizie in esso contenute, e anche temute ; tanto avverte che d'ora innanzi gli è prezioso il minuto. Egli pertanto dispose che si ponessero in movimento per unirsi a lui e marciare alla volta di Charleroi le seguenti quattro legioni (disposizioni che ci riportano al quadro della dislocazione invernale dei presidii): legione Crasso (che era a F roissy), legione T rebonio (con 1ui ad Amiens), legione Fabio (a Saint Pol), legione Labieno (a Mouzon). Questi gli ordini : Cesare, ricevuto il messaggio alle quattro pomeridiane, .. . subito inviò un messo a Marco Crasso, che era distante un trentasette chilometri (da Froissy ad Amiens circa quaranta chilometri), ordinandogli di partire a mezzanotte con la legione e di raggiungerlo rapidamente. (E Marco Crasso eseguì puntualmente: uscì dal campo - aveva ricevuto l'ordine fra le sette e le otto di sera - con lo stesso latore dell'ordine). Contemporaneamente all'ordine inviato a Crasso, un altro messo egli inviò a Caio Fabio - a Saint Pol - perchè conducesse la legione nel paese degli Atrebati, per il quale sapeva che egli stesso sarebbe passato, e scrisse a Labieno - a Mouzon, a guardia dei Treveri - di portarsi con la legione, se poteva farlo senza pregiudizio della situazione generale, nel paese dei Nervi, ad fines Nerviorum. Dice: « Il resto dell'esercito, che era un po' più lontano, pensai che non fosse il caso di aspettarlo. Raccolsi circa quattrocento cavalieri dagli alloggiamenti invernali più vicini». Ma erano solo quattro, ripetiamo, le legioni disponibili; chè, delle altre quattro, la legione Cicerone era la colpita, la legione Planco era stata inviata presso i Carnuti, la J,egione Roscio era in Normandia, nonchè le quindici coorti di Titurio e Cotta (ahi!), erano tutte troppo lontane per metterle in marcia, nella presente situazione, isolate.

Seguiamo ora l'effettivo movimento di Cesare servendoci di fittizia cronologia, supponendo cioè che il dispaccio di Cicerone sia giunto alle quattro pomeridiane del dieci novembre. Dice: « Circa alle nove, - undici novembre - fui informato, da staffette, dell'arrivo di Crasso. Avanzai, quel giorno, circa trenta chilometri». Si mosse dunque da Amiens, con la legione Trebonio, non quando Crasso giunse in quella città ma quando di Crasso gli fu annunziato imminente l'arrivo.


Dice: « A Crasso, con una legione, affidai il comando di Samarobriva, Samarobrivae praeficit, perchè qui lasciavo il grosso bagaglio dell'esercito, impedimenta exercitus, gli ostaggi dei popoli, obsides civitatum, gli archivi, litteras publicas, tutte le riserve invernali di grano, frumentumque omne ». Sicchè, fermata in Samarobriva la legione Crasso, le legioni disponibili ora non sono che tre. Si suppone che Cesare, dopo quei trenta chilometri, abbia sostato in quel di Albert, e che, quindi, si sia incontrato con la legione Fabio fra Bapaume e Cambrai il mattino del terzo giorno di marcia - 13 novembre-: Fabio, secondo gli ordini, non si fece aspettar molto (ma un po', sì), e Cesare lo incontrò con la legione durante la marcia. A tre giorni dunque dal messaggio di Cicerone, le legioni riunite sotto il comando di Cesare e in marcia su Charleroi sono due: ma domani si saprà che Labieno è a esse vicinissimo. La sorpresa, invece, dolorosa. Labieno aveva saputo - dai superstiti - dell'uccisione di Sabino e dell'eccidio delle coorti, e poichè i Treveri erano venuti contro di lui con tutte le loro forze, egli temeva che l'abbandono del campo potesse dare l'impressione d'una fuga; c'era anzi di più: temeva di non poter resistere a un attacco dei nemici, hostium impetum sustinere non posset, specialmente ora che erano imbaldanziti, come gli constava, dalla recente vittoria. Labieno, in sostanza, non s'era mosso da Mouzon e aveva inviato a Cesare un dispaccio in cui era detto: quanto fosse pericoloso far uscire la legione dal campo; ciò che era avvenuto presso gli Eburoni; che tutta la fanteria e cavalleria dei Treveri erano dal suo campo ferme a soli cinque chilometri, tria milia passuum.

Cesare perciò sarebbe venuto a sapere dell'effettiva entità del disastro di Tongres molto dopo ch'era avvenuto, e a quattro giorni, perlomeno, dal messaggio di Cicerone.

Una legione e mezza distrutta: tutta la Gallia ormai lo sa; una legione lontanissima, in Normandia; una legione presso i Carnuti: e i Carnuti, ucciso Tasgezio, sono potenzialmente in rivolta; un a legione, a Charleroi, in agonia; una legione sta per essere attaccata dalle forze di Induziomaro, e Labieno « teme di non poter sostenere l'attacco»; una legione immobilizzata dalla base logistica di Amiens. A disposizione di Cesare pertanto solo due legioni, con una forza complessiva, comè ora sentiremo, di settemila uomini, la forza neppure di una legione e mezza.


Dice: « Approvai la decisione di Labieno e quantunque delle tre legioni su cui avevo contato fossi ridotto a due, confidai che la salvezza di tutti non dipendesse che dalla rapidità, unum auxilium in celeritate ».

A grandi tappe, egli giunse nel paese dei Nervz. Dalla zona di Cambrai - dove, approssimativamente, aveva 1mz10 il paese dei Nervi - a Cha!leroi, sono, per vie ordinarie odierne, circa cento chilometri. Nel paese dei Nervz - in quel di Cambrai o dove che sia - egli venne a sapere da prigionieri quel che stava avvenendo presso Cicerone e quanto la situazione fosse grave. Da Cambrai a Charleroi, ripetiamo, poco più di cento chilometri: non bastano, comunque ci si sforzi, se appena si vuol conservare un qualche respiro operativo, due giorni di marcia. Occorreva pertanto che Quinto Cicerone resistesse, anche col fiato mozzo, più di due giorni. Cesare, allora, - cioè dopo le informazioni dei prigionieri e quando era ancora in quel di Cambrai - persuade con grandi premi uno dei cavalieri galli a portare una lettera a Cicerone; e la scrive in greco, graecis litteris (oppure, lingua latina e lettere greche), perchè i nemici, intercettandola così cifrata, non venissero a conoscenza delle sue intenzioni. Nella lettera era detto che Cesare con le legioni sarebbe presto arrivato, celeriter adfore: che Cicerone, pertanto, perseverasse nella sua coraggiosa condotta. Poteva non essere difficile, come per il servo di Verticone, fare il « Gallus inter Gallos »; ma ora, a Charleroi, era un assurdo, anche fra le tenebre più fitte, attraversare un fosso sotto vigilanza degli assedianti e un altro, quello di Cicerone, sotto vigilanza degli assediati. Al latore della lettera, sicchè, venne suggerito di lanciare oltre il vallo romano uno speciale giavellotto leggero: una « tragula », col dispaccio di Cesare legato alla correggia (la correggia, avvolta attorno l'asta, a cui era fissata per un capo, consentiva di imprimere al proiettile movimento rotatorio atto ad aumentarne, altezza e gittata, la traiettoria). Ciò che si prevedeva avvenne: il Gallo, temendo il pericolo, lanciò, così come gli era stato suggerito, la «tragula». La quale superò, lancio non comune, fosso e spalti romani ... . . . Ma caso volle che si conficcasse nel legno d'una torre, ad turrirn adhaesit, e lì rimanesse due giorni non vista dagli assediati. La « tragula » due giorni inerte e Cicerone ignaro se un suo messaggio fosse mai giunto a Cesare.


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.Ma al terzo giorno, la «tragula» è vista da un soldato, a quodam milite, strappata e portata a Cicerone, il quale, letto lo scritto, lo comunica alle truppe suscitando in tutti la più grande gioia, maximaque omnes laetitia adficit. E dopo il messaggio - notte, forse, dal 17 al 18 novembre - la commozione, addirittura, di chi ritrova la vita: tum fumi incendiorum procul videbantur quae res omnem dubitationem adventus legionum expulit: già si vedevano da lontano fumi di incendi: e questo tolse ogni dubbio sull'arrivo delle legioni. I Galli, conosciuta la situazione per mezzo dei loro esploratori, - non potendo, dispersi su cinque chilometri di circuito, accettare due fronti abbandonano l'assedio, obsidionem relinquunt, e si avviano con tutte le loro forze verso Cesare . .. I Galli erano circa sessantamila ... Ma ora, venuta a mancare la concreta e statica attrattiva del campo romano, in quanti erano rimasti? I Galli, circa sessantamila, si avviarono verso Cesare, il quale disponeva di una forza di appena settemila uomini, vix hominum milium septem. E Cesare sarebbe stato costretto, per giungere a Charleroi, di aprirsi il passo fra forze nemiche comunque assai superiori se non gli fosse giunta in tempo, circa a mezzanotte, circiter media nocte, una comunicazione di Cicerone in cui era detto che i nemici, dal suo campo allontanatisi, erano diretti in massa contro di lui, hostes ab se discessisse omnemque ad eum multitudinem convertisse. Fine cioè dell'assedio. L' « unum auxilium in celeritate », unica salvezza la celerità, ha costretto i nemici all'abbandono del campo di Charleroi a un soffio dal successo.

Notizia che Cesare fece subito partecipare ai suoi esortandoli a disporsi alla pugna. Ma l'angoscia, ora, - appena letto il tempestivo prezioso dispaccio di Cicerone - poteva ben dirsi cessata. Cesare, il giorno dopo, ali' alba, ripresa la marcia e avanzato per circa sei chilometri, scorse una moltitudine di nemici che trovavasi al di là di una valle e di un torrente. Dice: « Sarebbe stato troppo pericoloso con le poche forze che avevo a disposizione, com battere su posizione a me sfavorevole. E poichè sapevo che Cicerone era ormai liberato dall'assedio, obsidione liberatum Ciceronem sciebat, ritenni di poter rallentare con animo tranquillo, aequo animo, la rapida marcia ...


(Tanto tranquillo il suo animo dell'ormai sicuro accesso a Charleroi che omettiamo gli espedienti a cui ricorse per infliggere qualche perdita a quanto era rimasto delle moltitudini nemiche).

Giunto che fu nel campo di Cicerone, e fatta riunire al suo cospetto la legione, constata che non c'era un soldato su dieci che non fosse stato ferito. E da questo e da tutto il resto potè meglio valutare con quanto pericolo e con quanto valore fosse stata condotta la resistenza. Elogiò come si meritava Cicerone e la legione; chiamò a uno a uno i centurioni e i tribuni, centuriones singillatim tribunosque militum appellat, che, secondo le informazioni di Cicerone, s'erano distinti nella lotta. Da prigionieri - evidentemente qualche eburone appena catturato è informato con più precisi particolari del caso toccato a Sabino e Cotta: la spina che l'affliggeva. Ma forse questo inciso è qui solo per prepararci alla esplicita definitiva condanna (che in vero non ci aspettavamo più: otto i presi dii ma perchè nove le teste ?) del Legato Quinto Titurio Sabino. Il giorno dopo a quello del suo ingresso nel campo, Cesare, fatta grande adunata, narrò ciò che era avvenuto a Tongres . Così consolò e. rincuorò le truppe: la sciagura - dovuta alla colpevole leggerezza di un Legato, culpa et temeritate legati, - non deve abbattervi; tanto più che per bontà degli Dei Immortali e per il vostro valore, l'affronto è stato vendicato: nè ai nemici una lunga allegrezza, hostibus diutina laetitia, nè a voi troppo lungo dolore, ipsis longior dolor.

Ma da quasi un mese, dall'annunzio del disastro di T ongres, le radio di tutta la Gallia sono in emissione notte e giorno, generando spasmodica alternativa di speranza e di sconforto in migliaia e migliaia di ascoltatori: disastro o liberazione di Charleroi? Più trepidanti e angustiati di tutti i collaborazionisti dichiarati, quelli a oltranza, fra gli Edui e fra i Remi specialmente : i primi a essere schiacciati, se Charleroi cadeva, dalla rivolta generale. E così si spiega l'esultanza dei Remi appena Cesare fu entrato nel campo di Charleroi: intanto, per mezzo dei Remi, la notizia della vittoria di Cesare giunge con incredibile celerità a Labieno, - a Mouzon - il quale distava circa novanta chilometri dal campo di Cicerone. Dice: « Ero giunto a Charleroi dopo le tre pomeridiane e già prima della mezzanotte, ante mediam noctem, - in meno di nove ore - alle porte del campo di Labieno si levava alto clamore: e con quel clamore i Remi


annunziavano a Labieno la vittoria e gli esprimevano le loro felicitazioni, significatio victoriae gratulatioque ». Contemparaneamente: giunta fra i Treveri la notizia del successo romano, lnduziomaro, che aveva deciso di attaccare il giorno dopo il campo di Labieno, - da cui distava, come questi ci ha fatto sapere, appena cinque chilometri - si allontanò durante la notte e ricondusse le truppe nel proprio paese.

Quanti dei papali che avevano aderito a nascosti progetti di contemporanea rivolta si sono mossi? Eburoni, Aduatuci, Nervt: e non altri. I Carnuti si sono limitati al regicidio e il trevira Induziomaro, colui che _avrebbe sospinto Ambiorige al proditorio attacco della guarnigione romana, non ha attaccato il presidio Labieno (il che - non si può far a meno di pensarlo - poteva essere proprio quanto sarebbe occorso per porre Cesare a un bivio fatale: a Charleroi o a Mouzon ?).

In seguito a questi fatti, Cesare modificò, e non di poco, la dislocazione invernale dei presidii. Rinviò il Legato Fabio, con la legione, nei suoi alloggiamenti invernali : ricostituito, così, il presidio fra i Marini, a Saint Pol. Egli, Cesare, stabilì di svernare con tre legioni distribuite in tre diversi campi, trinis hibernis, intorno a Samarobriva, circum Samarobrivam: la base di Amiens aveva già la legione del Questore Crasso, chiamata d'urgenza da Froissy; ora a essa si aggiungono, condotte da Cesare, la legione Cicerone e quella Trebonio. · Sicchè il quadro rimane così modificato: scomparso il presidio Titurio Sabino; ritirato il presidio Cicerone; non ricostituito il presidio Crasso a Froissy. Diminuito il numero dei presidii e più riunita la massa di manovra, sebbene compasta di tre legioni a effettivi ridottissimi. Un concentramento, comunque, di forze; al quale è alquanto vicina la legione Fabio, a Saint Pol, ma lontan~ le legioni Labieno, Planco, Roscio.

Dice: « Essendovi tanti minacciosi moti in Gallia, tanti motus, decisi di rimanere tutto l'inverno presso l'esercito. L'avevano trattenuto in Gallia prima la lenta dislocazione invernale e poi - traversia risoltasi, dicemmo, in fortuna - l'uccisione di Tasgezio.


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Dice: « Diffusasi la notizia sulla sciagura e la morte di Titurio Sabino, quasi tutti, omnes fere, i popoli della Gallia spedivano messaggi e ambascerie in ogni dove, in omnes partes. Ognuno voleva essere al corrente di quello che decidessero gli altri e da dove dovesse aver inizio la guerra, unde initium belli fìeret; e conciliaboli notturni si tenevano in luoghi deserti, nocturnaque in locis desertis concilia ». Sì, motivo non trascurabile di rivolta il disastro di Tongres. Ma il sequestro dei capi per la spedizione in Britannia, e la morte a spada levata di Dumnorige, e i deludenti risultati della spedizione in Britannia, e la Gallia che « freme per le tante umiliazioni ricevute», come ha detto Titurio Sabino? Collaborazionismo da una parte, e gollismo, finora taciturno e nascosto, dall'altra; e fra l'uno e l'altro, anzi nell'uno e nell'altro, il doppio giuoco: ecco il perchè del « nocturnaque in locis desertis concilia )> (l'illusione, almeno, che in tenebre e deserto a doppio giuoco si sfugga). Dice: « Quasi non ci fu in tutto l'inverno un momento in cui fossi tranquillo, ullum tempus sine sollicitudine, e non ricevessi qualche notizia di disegni sediziosi dei Galli».

Del disastro di Tongres si ebbe anche una ripercussione lontana: grandi forze di popoli gallici detti Aremorici, quae Aremoricae appellantur (« Are mori», in celtico, << presso il mare)>. Popoli dunque della Bretagna e della Normandia, assoggettati più di due anni or sono col piano « dalle cinque frecce» e che all'atto della dislocazione invernale si ritenevano, come ricordiamo, del tutto pacificati e quieti), grandi forze dunque degli Aremorici s'erano riunite per attaccare il presidio Roscio, - a Sées - ed erano già a circa dodici chilometri dal campo quando, giunta la notizia della vittoria di Cesare, la liberazione di Charleroi, s'erano ritirati dando l'impressione più di una fuga che di una partenza. Ma ricompariranno, in più grave momento.


Cap. VII. - INDUZIOMARO (Continua anno 54 av-anti Cristo)

LABJENO « COGJTABAT »

NoN UBBIDIRONO 1 SENONI.

Ecco infatti chi delle vittorie romane comincia a infischiarsene. Dice: « Chiamati presso di me i capi di ciascun popolo, ora spaventandoli col dire che sapevo quanto stava avvenendo, ora cercando di persuaderli, riuscii a tenere a freno gran parte della Gallia. Tuttavia, i Senoni, Senones, uno dei primi popoli per forza e autorità fra i Galli, civitas in primis firma et magnae inter Gallos auctoritatis ... >) . Ricchi abitatori di parte delle ubertose terre della Ch:impagne e della Borgogna, come già sappiamo da quando ci apparvero, fugacemente, tre anni or sono, allorchè Cesare li incaricò di informarlo su quanto avveniva presso i Belgi. · I Senoni dunque ... tentarono di uccidere - su deliberazione presa da pubblico potere, publico consilio, - Cavarino, che Cesare aveva fatto loro re, regem constituerat. Ma quanti monarchi ha seminato il repubblicano Cesare? Prima Commio, felicemente ancor regnante; pai Tasgezio, di cui è ancor vivo il compianto; e ora Cavarino. (Che pensare, allora, della dichiarazione che è costata la vita a Dumnorige ?). Questo Cavarino, di democratico nome, vantava alta progenie: re erano stati i suoi antenati, e re era suo fratello al momento in cui Cesare, cinque anni fa, era venuto in Gallia. · Ma al momento in cui Cesare lo elevò al trono - e i meriti collaborazionistici non patevano, evidentemente, mancargli - Cavarino godeva di consenso papalare? I Carnuti avevano consumato il regicidio da rivoluzionari, con complotto segreto, e il Legato Planco dovrebb'essere ancora là alla ricerca dei respansabili dell'uccisione di T asgezio; ma i Senoni - e che significa se per un caso, come ora sentiremo, il loro atto è riuscito incruento? - hanno agito con


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sfrontatezza, mediante organo costituzionale, publico consilio, - e quale se non il Senato? - anche se in seduta segreta. I fatti si svolsero così: i Senoni avevano deciso di uccidere Cavarino; ma costui, avuto sentore della cosa, - la sua sorte era stata dunque decisa in segreto - era fuggito. Inseguìto sino ai confini, ma non acciuffato, era stato dichiarato deposto dal trono e bandito dal paese. Subito dopo però, a onor del vero, i Senoni mandarono messi a Cesare per giustificarsi: lungi da noi l'intento di arrecar offesa a Voi e al Popolo Romano; della deposizione ed espulsione di Cavarino, menzogna che volessimo ucciderlo!, il motivo è da ricercarsi ... Ma se la giustific azione fosse stata valida, Cesare non avrebbe dato l'ordine che ora sen tiremo; se i Senoni avessero avuto la coscienza pulita, forse, chi sa, all'ordine di Cesare, per scomodo che fosse, non avrebbero trasgredito. Dunque: i Senoni inviarono ambasciatori per giustificarsi, ... ma, avendo ricevuto ordine che tutto il Senato si presentasse a Cesare, omnem ad se senatum, non ubbidirono, <lieto audientes non fuerunt. Si ricordarono della fine del Senato dei Veneti, due anni prima? T emevano di pagare anche per T asgezio, dato che i Carnuti eran protetti da scudo sacerdotale? Fecero, comunque, i sordi: <lieto audientes non fuerunt. Dice : « Il fatto che s'era trovato chi prendesse l'iniziativa di fare la guerra - un Ambiorige ! un eburone ! - ebbe presso quegli uomini barbari tanta importanza, tantum valuit, e portò tali cambiamenti nei propositi di tutti, che quasi non ci fu nessun popolo che non mi fosse sospetto, nulla fere civitas non suspecta nobis. Fecero eccezione gli Edui e i Remi, che io tenni sempre in grande onore, praecipuo semper honore; i primi per l'antica e costante fedeltà al Popolo Romano, i secondi per i loro recenti meriti durante la guerra gallica ». Non più ammirata e tollerante ora la Gallia ma volto di giorno in giorno più scuro. Dice (è lui questa volta che parla, come raramente, in prima persona) : « E io non so, haud scio, se di tal mutamento sia da meravigliarsi: era fatto naturale - a parte tutti gli altri motivi - che un popolo con fama di superiorità su ogni altro per valore guerriero ora acerbamente si dolesse di esser tanto decaduto, tantum se deperdidisse, da sopportare l'impero del Popolo Romano». Le stesse parole, quasi, di Titurio Sabino nel consiglio di guerra. Edui e Remi invece di nulla dolevansi, chè da Cesare erano ognora tenuti in palma di mano, praecipuo semper honore. E quale popolo gallico potrebbe oggi uscire dal suo guscio senza i _buoni uffici presso il procon sole degli Edui nella Celtica e dei Remi nella Belgica? Gli Edui non avevano osato protestare, è vero, alla dichiarazione di D uranorige che Cesare gli avesse offerto il trono ; e nella stessa soggezione dovevano


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trovarsi i Remi. Ma il « praecipuo semper honore » non era, neppur allora, fatto di niente: sino a che punto, in virtù sua, Edui e Remi potevano e prepotevano sugli altri popoli gallici? a sollievo di Edui e Remi , quanto maggior tributo all'erario romano usciva da altrui tasche? Comunque: zitti e fermi, anzi amici, Edui e Remi, la situazione generale, minacciosa che sia, è per il momento dominabile.

A patto che non si rimandi a domani ciò che si può e si deve far oggi.

IL CONCILIO ARMATO.

Ecco infatti subito riemergere la questione dei Treveri o, che è lo stesso. di Induziomaro, istigatore di Ambiorige. La caratteristica geografica dei Treveri, da Cesare rilevata e fissata, e quasi si direbbe scoperta, resta però ferma: haec civitas Rhenum tangit, questo popolo tocca Reno. E se dunque tocca Reno, il suo capo, lnduziomaro o chi si sia, dovrà ognora rendersi responsabile dell'alternativa che da tal caratteristica, senza mezzi termini, discende: o con Roma o contro Roma. Responsabile, per ora, è Induziomaro, solo lui. Suo genero Cingetorige, malgrado l'appoggio dei nobili e l'azione insinuatrice di Cesare, non è riuscito a soppiantarlo; abbiamo anzi la certezza, dagli eventi che seguono, che dopo gli incontri di giugno col generale romano Cingetorige, lui i familiari e un certo numero di nobili che l'avevano seguito, non abbia più fatto ritorno nel proprio paese. Treveri e lnduziomaro, dura1tte tutto l'inverno, non avevano cessato di mandar messi oltre Reno, sollecitare i popoli, prometter danaro; e si servivano di questo non proprio infondato argomento: distrutta gran parte del[' esercito romano, non ne era rima.;to ormai che poco. Ma i Germani fecero, quella volta, saggia politica: lnduziomaro non riuscì a persuadere nessun loro popolo a passare il Reno. Gli rispondevano: la testa ce la siamo già rotta due volte, se bis expertos: con la guerra di Ariovisto e con la migrazione dei Tencteri, Ariovisti bello et Tenctherorum transitu; non ce la sentiamo di correre altri rischi. lnduziomaro. allora, deluso nella. speranza dell'aiuto germanico, hac spe lapsus ...

Non potendo più nulla a oriente, Induziomaro si volse a occidente, intensificando in questa direzione l'opera sua. Agì con energia e coraggio, guidato da una visione di cose, come subito costateremo, piuttosto ampia.


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Deluso nella speranza dell'aiuto germanico, ... non cessò per questo dal raccoglier truppe (e sino a qui niente di straordinario), a esercitarle (e questo, per barbari, non è mai poco), a procurarsi cavalli dai popoli confinanti (i Treveri erano già i più potenti per cavalleria di tutta la Gallia: qui però si trattava di superare i Romani che avevano un po' dappertutto potere di requisizione). Ma l'azione sua più notevole fu questa: cominciò ad attirare a sè, con grandi premi, esuli e condannati, exules damnatosque, di tutta la Gallia. I condannati, naturalmente, per motivi politici; e i « grandi premi» poterono anche ridursi a offerte di ospitalità in terra trèvira. Con questi mezzi, - preparazione militare e patrocinio del fuoruscitismo ....., lnduziomaro s'era procurato in Gallia tanta autorità che da ogni parte accorrevano a lui ambascerie, undique ad eum legationes, che chiedevan~ .-:- in affari di Stato e in questioni private - il suo favore e la sua amicizia. Induziomaro dunque, per comportarsi come si comporta, vuol dire che nel suo paese è senza opposizioni di rilievo, assoluto padrone. Pertanto: quando si avvide che s'accorreva a lui ormai anche spontaneamente, ultro ad se veniri ... Un momento politico particolarmente a lui favorevole: da una parte, Senoni e Carnuti non potevano non sentirsi spinti alla rivolta dalla coscienza del delitto commesso (l'uccisione di Tasgezio, la deposizione di Cavarino, la mancata presentazione del Senato); dall'altra (in guerra nessuna forza, quale che ne sia l'entità, è mai da trascurare) Nervi e Aduatuci preparavano la guerra ai Romani: non avevano insomma deposto l, armi tutte le genti che s'eran dovute ritirare da Charleroi proprio mentre stavano per cogliere la vittoria. Induziomaro, dunque, quando si avvide di quello spontaneo concorso verso di lui e si fu reso conto della politica a cui Senoni Carnuti Nervi Aduatuci era giocoforza che si ispirassero, ... e comprese che se avesse iniziato la marcia fuori delle sue terre non gli sarebbero mancate forze di volontari, indisse il Concilio armato, armatum concilium indicit. La mobilitazione. Il concilio armato segna, secondo il costume dei Galli, l'inizio della guerra, est initium belli, e, per legge comune, tutti i giovani in età adatta vi convengono armati, omnes puberes armati. Nè mancava la clausola barbarica: chi arriva l'ultimo è ucciso fra i tormenti alla presenza della moltitudine. In quel concilio, Induziomaro dichiara nemico suo genero Cingetorige, Cingetorigem generum suum, capo dell'opposta fazione, e mette all'asta i suoi beni.


Cesare, a questo punto, dice: « Quel Cingetorige che, passato, come ho già detto, dalla mia parte, non s'era da me più distaccato, ab eo non discessisse ». Cingetorige s'era rifugiato presso Cesare in Amiens o presso Labieno in Mouzon? Cesare non lo dice; ma la risposta saremo presto in condizione dt darla noi. Pronunciate tali condanne, lnduziomaro annunzia nel concilio che egli era stato chiamato dai Senoni, dai Carnuti e da parecchi altri popoli della Gallia, e che sarebbe andato nel loro paese attraverso il territorio dei Remi, di cui avrebbe devastato le terre; e, prima di far questo, avrebbe attaccato il campo di Labieno, castra Labieni oppugnaturum. Aveva quindi dato ordini m conseguenza. Prima dunque soppressione del presidio di Labieno, a Mouzon, poi devastazione del territorio dei collaborazionisti Remi, riunione infine, nel cuore della Gallia, delle forze armate dei Treveri a quelle dei Senoni Carnuti Nervi Aduatuci, e quanti altri popoli si fossero aggiunti.

I

FATII 01

MouzoN.

Siamo ritornati, sicchè, alla situazione che precedette la liberazione di Charleroi: Induziomaro trovasi ora col suo esercito nei pressi del campo romano; - campo situato, come qualche esperto dei luoghi opina, sul Mont de Brune, a un tre chilometri da Mouzon. Cesare dice: « Labieno, che si trovava in un campo molto forte per posizione e per opere, non aveva alcun timore per sè e per la legione; egli solo pe'!sava, cogitabat, a non lasciarsi sfuggire nessuna occasione favorevole per agire». Dall'alto di Mont de Brune che mai dunque cogitabat Labieno per risolvere - con la massima economia, s'intende - quest'altra dura situazione? Labieno, saputo da Cingetorige e suoi parenti, a Cingetorige atque eius propinquis, del discorso che lnduziomaro aveva tenuto nel concilio ... Cingetorige e i suoi parenti si trovavano dunque dentro o molto vicmo al campo romano. E Cingetorige aveva subito saputo del discorso del suocero mediante i fili che lo univano ai ~ingetoriani in paese. Labieno, dunque, venuto a conoscenza, per mezzo di Cingetorige e parenti, del discorso di Induziomaro, . . . manda messi ai popoli confinanti e chiama cavalieri da tutte le parti fissando il giorno della loro presentazione. Ma che potrannÒ fare sia pure centinaia di cavalieri, quasi raccogliticci, contro la numerosa e potente cavalleria trevira? Si aggiunga che Induziomaro, chiuso il concilio, aveva marciato subito alla volta del campo romano, sì che Labieno non aveva fatto in tempo - come


avremo presto modo di accertare - ad avere la richiesta cavalleria quando le sue comunicazioni erano ancor libere. Frattanto, quasi ogni giorno, prope cotidie, Induziomaro, con tutta la sua cavalleria - tutta : e impressionante non solo per il numero - scorazzava sotto il campo sia a scopo di ricognizione del luogo sia per entrare in colloquio coi Romani e atterrirli. Ma non erano solo parole: tutti i cavalieri facevano dì solito anche lancio di frecce oltre le difese romane. Quasi ogni giorno perciò, e per un numero imprecisabile di giorni, - saremmo in dicembre? - la stessa solfa provocatoria. Contro la quale Labieno adottò lo stesso stratagemma di Titurio Sabino in Normandia: tratteneva i suoi entro il campo e accresceva in tutti i modi possibili l'impressione che i Romani avessero paura, timorisque opinionem. Ma Induziomaro doveva essere uomo di aperto animo, semplice e impulsivo (se ci sbagliamo, pazienza): mentalità da «celere», poco atta a procedimenti lenti e metodici sia di guerra che di politica. Mentre egli si avvicinava al campo romano con disprezzo di giorno in giorno maggiore, cum maiore in dies. contemptione .. . Sprezzante del nemico e perciò, come suole avvenire, progressivamente noncurante, anche senza avvedersene, della propria vita; vita, però, che egli sapeva (con sicurezza: beato lui) quanto fosse ultravigilata dalla fedeltà dei suoi comandanti e soldati. Sicchè Labieno quando vide che Induziomaro e i suoi cavalieri gli scorazzavano da padroni sotto gli occhi, nè più si attendevano reazione, pose in opera questo piano: in una sol notte, nocte una, fatti entrare nel campo i cavalieri, intromissis equitibus, che s'era ,dato cura di chiamare dai popoli confinanti, tenne chiusi e guardati dentro il campo tutti i suoi, e con tanto rigore che l'operazione - cioè la rapida e segreta introduzione dei cavalieri nel campo - in nessun modo poteva svelarsi o essere riferita ai Treveri. Fermati nel campo tutti, i Treveri nulla potevano venir a sapere di quel1' acquisto di cavalleria da parte di Labieno nel volgere, come avete inteso, di una sol notte, nocte una. E se anche uno solo dei popoli confinanti non avesse tenuto il segreto sulla richiesta romana di cavalleria? e se qualche agente di quelli incaricati di radunar cavalieri d'ogni parte, undique, non avesse saputo lavorare con somma circospezione? e se i cavalieri stessi non avessero saputo compiere sotto mentite spoglie il viaggio dai loro paesi a Mont de Brune per quivi trovarsi in giorno stabilito? Interrogativi che potrebbero continuare quanto più quell'operazione si tentasse di vederla nella sua esecuzione. Operazione complessa che non si può far a meno di pensare preparata e guidata da mano, in quei luoghi, potente: Labieno o Cingetorige? cavalleria di finitimi o della nobiltà cingetoriana?


Frattanto, Induziomaro, secondo la sua abitudine quott'diana, ex cons~etudine cotidiana, si avvicina al campo e passa lì la maggior parte del giorno. Siamo, così, al giorno finale della. vicenda, all'epilogo; pochi giorni dopo, probabilmente, l'entrata dei cavalieri. E anche in questo giorno tutto si svolge come nei precedenti: i cavalieri treveri fanno lancio di frecce, provocando i Romani con grandi ingiurie, magna cum contumelia verborum; e i Romani, come al solito, non reagiscono: sì che i Treveri, non avendo avuto dagli auversari alcuna risposta, quando ne hanno abbastanza, sul far della sera, sub vesperum, si allontanano. Ma si allontanano alfuso, naturalmente, barbarico: sparsi e, più che in disordine, sbandati, dispersi ac dissipati. Fu a questo punto, verso sera, sub vesperum, - e perciò quando la visibilità s'è ridotta e diviene più scarsa di minuto in minuto - fu a questo punto, verso sera, che due porte del campo romano si spalancarono: improvvisamente, Labieno lancia fuori da due porte tutta la cavalleria, omnem equitatum. Ordini precisi: spaventati e messi in fuga i nemici, tutti tentassero di raggiungere la persona di lnduziomaro, unum omnes petant Indutiomarum, e nessuno si curasse di colpire altri prima di aver visto lnduziomaro ucciso, illum interfectum. Perchè Labieno non voleva che Induziomaro - per un qualsiasi indugio o sviamento degli aggressori - profittasse di una pur fuggevole occasione per sfuggire. Grandi premi, naturalmente, Labieno aveva promesso a chi avesse ucciso lnduziomaro, e dietro la cavalleria, si ~a come si comincia ma non come si finisce, aueva inviato in appoggio alcune coorti.

I cavalieri lanciati a capo fitto dalle due porte per il declivio di Mont de Brune potevano ben prevedere che il nemico sarebbe rimasto seriamente colpito da sì dura sorpresa « sub vesperum »: e questo infatti avvenne. Ma l'interrogativo che meglio ci porta nel cuore dell'operazione sarebbe questo: a gran galoppo, senza perdere un attimo, perchè quell'attimo poteva tutto pregiudicare, con visibilità in costante diminuzione e perciò in strettissimi margini di tempo, quei cavalieri, una parte almeno, come avrebbero potuto sperare di colpire Induziomaro se non a.vessero saputo, e non tanto approssimativamente, dove questi poteva trovarsi e non avessero conosciuto la sua figura fisica come quella, si può dire, del proprio padre?

Cesare dice: « La fortuna asseconda il disegno dell'uomo, comprobat hominis consilium Fortuna ... ». Non può far a meno di chiamare in campo la fortuna.


La fortuna, dunque, asseconda il disegno dell'uomo, ... per cui, non mirando tutti che a uno solo, lnduziomaro sorpreso proprio mentre attraversava a guado un fiume, - l'Ourthe, pare - fu ucciso e la sua testa portata nel campo romano, caputque eius refertur in castra. I cavalieri, ritornando al campo, inseguono e uccidono - ora che erano più sbandati che mai - i nemici che possono, quos possunt consectantur atque occidunt.

Ma non si chiude qui la questione trevira; anche se la fine di Induziomaro può farcela ormai ritenere alla conclusione assai vicina. Si riaprirà fra quattro cinque mesi, l'anno prossimo, e dalla soluzione definitiva di essa ci appariranno meno misteriose ie circostanze detla morte di Induziornaro.

Dice: << A tal notizia, Eburoni e Nervi sciolsero tutte le forze che avevano radunate; e, dopo questo fatto ebbi un po' più tranquilla la Gallia, pauloque quietiorem Galliam ». La rivolta generale della Gallia - anima delle segrete intese, ora è evidente, Carnuti Treveri Senoni - può considerarsi fallita: non 6 sono mossi Edui e Remi ; liberazione di Charleroi e morte di Induziomaro hanno distrutto i promettenti effetti dell'uccisione di Tasgezio, del disastro di Tongres, della deposizione di Cavarino.

Ha termine così il quinto anno di guerra. Anno gravido di importanti avvenimenti - la scissione interna dei Treveri, la sparizione di Dumnorige, la grande spedizione in Britannia3 il disastro di Tongres, la resistenza di Charleroi, la marcia lampo del proconsole; - anno che però ha anche avuto molesto inizio con Dumnorige perito a spada levata e mQlesta fine con la testa di Induziomaro staccata dal collo.

20. -

U.S.


Cap. Vili. - ACCON E (Anno 53 avanti Cristo)

RAPIDE MA MODERATE REAZIONI

DIECI LE LEGIONI.

Dice: « Aspettandomi, per parecchi motivi, più vasta insurrezione, maiorem motum, stabilii - incaricandone tre Legati - di levar truppe ... Nella Cisalpina, naturalmente ; dov'egli poteva agire anche d'iniziativa. Sarebbe però da supporre che ordini preparatori alle operazioni di leva, allora lunghe, li avesse inviati anche prima della spedizione in Britannia quando la carenza di forze, dopo più di tre anni di guerra, non poteva già non avvertirsi. Dice: « ... Nel contempo: chiesi al proconsole Gneo Pompeo - rimasto per ragioni di Stato nei pressi di Roma con poteri militari, cum imperio, - di chiamare alle armi e inviarmi le reclute - della stessa Cisalpina a cui egli, quand'era Console, aveva fatto prestar giuramento>~ . D ue anni prima, il Senato aveva dato facoltà, poi non revocata, ai Consoli Pompeo e Crasso di levar truppe ovunque lo richiedesse necessità di Stato ; la richiesta di Cesare tendeva dunque a ottenere la pronta disponibilità anche di q uel certo numero di reclute che nella Cisalpina erano ancora a disposizione dell'autorità centrale. D ice: « Ciò feci ritenendo che avrebbe avuto una grande influenza sul/' opinione dei Galli anche per l'avvenire il vedere che le possibilità dell' Italia erano così grandi, tantas Italiae fàcultates, che, appena subìta un'avversità di guerra, non solo potevasi a essa in breve tempo riparare ma anche portare in campo forze maggiori. E avendo Pompeo, e nell'interesse dello Stato e per amicizia alla mia persona, aderito a quanto gli avevo chiesto, ed essendosi rapidamente conclusa la chiamata fatta dai Legati, prima che spirasse l'inverno furono formate e a me condotte tre legioni: il doppio delle coorti perdute con Quinto Titurio. La rapidità del!' operazione e la ricchezza dei mezzi mostrò alla Gallia quanto potesse l'organiz zazione e la potenza del Popolo Romano ».


Se le cinque coorti date al presidio di Tongres, in aggiunta alla legione organica, provenivano da legioni diverse, l'esercito romano, dopo il disastro, s'era ridotto da otto a sette legioni, di cui cinque mancanti di una coorte. L'afflusso delle nuove forze dovè essere tale, oltre le tre nuove legioni, da ridonare a tutte normalità di effettivi. Rinforzi che giunsero in Gallia - ad Amiens, diremmo - prima che spirasse l'inverno; non prima, probabilmente, di marzo, tenuto conto del trasferimento dalla pianura padana alla Gallia settentrionale. Le legioni agli inizi della primavera furono dunque dieci: una forza complessiva, si può calcolare, intorno ai cinquantamila uomini; di cui però parte non poca di reclute.

Ma intanto dai Treveri ancora respinto Cingetorige e venuti alla ribalta parenti di Induziomaro chi sa di qual grado perchè i più prossimi erano stati consegnati, come ricordiamo, con i duecento ostaggi. Punto e a capo, perciò: i nuovi padroni dei Treveri non desistono dal sollecitare i Germani più vicini promettendo denaro. Ai rifiuti non si arrendono: non potendo persuadere i più vicini, tentano i più lontani; e qui, trovati favorevoli parecchi popoli, si legano a questi con giuramento, garantendo con ostaggi il pagamento del denaro promesso. Ma ecco il punto per Cesare anche offensivo: essi a sè associano l' eburone Ambiorige con tanto di trattato, Ambiorigem sibi societate et foedere adiungunt. Cesare, informato di questi fatti, vedendo che da tutte le parti, si preparava la guerra, che i Nervt gli Aduatuci i Menapt - e insieme a essi tutti i Germani al di qua del Reno - erano in armi, che i Senoni non ubbidivano ali'ordine di presentarsi e avevano scambi di idee con i Carnuti e altri popoli confinanti . .. Solo per poco, dopo l'uccisione di Induziomaro, la Gallia gli era sembrata alquanto più tranquilla; presto dovè convincersi che i propositi ostili erano, ovunque, tutt'altro che spenti.

I NERVI. Dice: « Informato di tali fatti, . ~ . giudicai che quest'anno dovevo iniziare più presto del consueto le operazioni: e così, senza aspettare la fine della cattiva stagione, riunite le quattro legioni più vicine, marciai improvvisamente contro il paese dei N erv1 ... ». Dei popoli in fermento or ora nominati, i Nervi erano i meno lont~i: un'ottantina di chilometri da Amiens, e sullo stesso itinerario delle recenti operazioni di soccorso.


Saremmo in febbraio, quando i rinforzi dall'Italia non erano ancor giunti; e perciò le quattro legioni furono le tre di Amiens e quella di Saint Poi; unità che sappiamo quel ch'hanno patito sino a ieri: unica legione «fresca» quella di Marco Crasso, tutte le altre stanche e povere di effettivi, e al lumicino quella di Cicerone. I Nerv1 erano naturalmente ben lontani dal sospetto che Cesare, dopo le prove sostenute nell'inverno non ancor finito, piombasse loro addosso. Cesare, pertanto, ... prima che essi potessero radunarsi o fuggire, catturata una gran quantità di bestiame e di uomini (fu, forse, proprio la segnalazione di una grande e sicura razzia di bestiame il movente di questa sì prematura interruzione del riposo invernale), bestiame e uomini che furono concessi in bottino ai soldati (il bestiame lo acquistava la stessa amministrazione romana), e devastati i campi, costrinse i Nervi ad arrendersi e a dargli ostaggi. Rapidamente liquidata questa partita, ricondusse le legioni nei campi invernali. Incursione rapida, in tutto forse una diecina di giorni.

I

SENONI.

Dice: « Al principio della primavera, convocai - secondo, ormai, la regola da me stabilita - il Concilio dei Galli; e siccome tutti vi intervennero tranne Senoni Carnuti e Treveri, praeter Senones Carnutes Treverosque, considerai questa assenza atto di ribellione e dichiarazione di guerra; e perchè apparisse chiaro che io ponevo tutto in seconda linea di fronte a tal fatto, trasferii il Concilio a Lutezia dei Parisii, Luteciam Parisiorum ». Da Amiens, dove quasi certame!l.te il concilio era stato dapprima convocato, a Parigi poco meno di centocinquanta chilometri. I Parisii erano con i Senoni confinanti (una generazione prima, Ratrum memoria, costituivano un solo Stato): da Parigi, risalendo le valli Senna e Yonne, si giunge, poco più di cento chilometri, a Sens, ossia ad Agedinco, il maggior oppido dei Senoni, che d'ora innanzi acquisterà per i Romani grande importanza, I principes riuniti ad Amiens, - forse gli stessi « sequestrati » che un sei mesi prima avevano partecipato al Concilio della siccità - nel trasferirsi •a Lutezia, non dovettero fare uno sforz<? per capire che ora, dopo i Nerv1, toccava ai Senoni render conto del loro operato: deposizione di Cavarino, mancata presentazione del Senato, intese di guerra con i Carnuti. I Parisii, però, nulla patirono, salvo gli incomodi dell'ospitalità, da parte dell'esercito romano così inaspettatamente giunto nelle loro terre: essi sembrava che fossero rimasti estranei al complotto contro Cavarino. Ma a Lutezia il Concilio, anche questa volta, fu aperto e subito rinviato: Cesare, dalla tribuna, pro suggestu, annunziato quanto aveva stabilito di fare,


partì - quel giorno stesso - per il paese dei Senoni, ove giunse dopo aver marciato a grandi tappe. Nel territorio dei Senoni, la situazione potè sembrare ai Romani poco allegra: Accone, il quale era stato l'istigatore del complotto contro Cavarino, princeps eius consilii~ appena informato dell'arrivo di Cesare, ordinò che le pop_olazioni si riunissero negli oppidi, iubet in oppida multitudinem convenire ... E chi è questo Accone munito di poteri smo a far fuori Cavarino e a ordinare la resistenza di oppido in oppido, ossia la guerra? Nessuna risposta, per ora: questa volta, a differenza, si può dire, di tutte le altre, solo un nome nudo e crudo: Accone, Acco. Ma i Senoni non sono nè i rozzi Aduatuci od Eburoni nè i bellicosi Nervi nè i germano.fili Treveri. Prima che la direttiva di Accone, già in corso, potesse essere eseguita, si venne a sapere che i Romani erano già - effetto delle grandi tappe - in territorio senone. Nulla da fare, allora: i Senoni sono costretti a rinunciare al loro piano e a inviar messi a Cesare per domandar grazia, ricorrendo alla mediazione degli Edui, adeunt per Haeduos, - i quali, invero, da lungo tempo, antiquitus, erano i protettori del loro paese. Dice: « Data l'intercessione degli Edui, perdonai e accettai le giustificazioni, considerando che alle operazioni belliche imminenti e non alle inchieste dovevo dedicare la buona stagione. Comandai loro cento ostaggi, che detti a custodire agli Edui ». Trattamento di favore su tutta la linea: la sosta a Lutezia, quasi preavviso perchè il buon senso potesse prevalere; rinvio a dopo le operazioni estive dell'inchiesta sulla deposizione di Cavarino, in cui è primo responsabile Accone; i cento ostaggi, in.fine, non in campo di concentramento ma affidati agli amici Edui. Accone, però, non riuscì a fuggire; non sappiamo se perchè non volle o per avverse circostanze o perchè quelli che potevano aiutarlo temessero di prenderne il posto. Lo ritroveremo perciò fra un sei mesi, nel suo paese, a disposizione di Cesare.

I CARNUTI. Dice: « Là dove mi trovavo, giunsero anche messi e ostaggi dei Carnuti che erano ricorsi all'intercessione dei Remi, deprecatoribus Remis: ebbero la stessa risposta ».


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Trattamento di favore, anche questa volta, su tutta la linea: rinvio del processo per l'uccisione di Tasgezio (è riuscito a trovare i responsabili Lucio Munazio Planco ?) ; un certo numero di ostaggi, però non ci è detto quanti, affidati agli amici Remi. Dopo di che il Concilio potè essere riaperto e portato a termine - in Lutezia, diremmo, dove i principes erano stati forse lasciati in attesa poco più d'una settimana - : Cesare chiuse il concilio ordinando a ciascun popolo contingenti di cavalleria. DuE GRoss1 OB1Err1v1.

Pacificata questa parte della Gallia, Cesare rivolse tutto il suo animo e tutta la sua mente, et mente et animo, alla guerra contro i Treveri e Ambiorige. Rivolse animo e mente alla Gallia del medio Reno, dove i Treveri stavano per aprire - come già, lustri addietro, i Sequani _, le porte ai Germani. L'altro suo obiettivo è Ambiorige, il vincitore di Tongres. Se si riuscirà ad acciuffarlo vivo, la sua testa, staccata solennemente dal collo, sarà ammonimento all'intera Gallia. Apprendiamo inoltre, qtlasi per inciso, ma è particolare che poi ci apparirà d'una certa importanza, che lo spodestato e fuggiasco Cavarino s'era rifugiato presso le legioni. Dice: « Ordinai a Cavarino di seguirmi col contingente di cavalleria fornitomi dai Senoni per evitare che o dalla sua sete di vendetta o dall'odio che si era meritato, aut ex eo quod meruerat odio, nascesse qualche agitazione popolare». Il tentativo di regicidio presso i Senoni era stato provocato dunque anche da malgoverno. Il che, ricordiamolo, dovrà alleggerire le imputazioni a carico di Accone. Animo e mente, dunque, a due dei popoli, Treveri ed Eburoni, che del Reno devono a Cesare garantire, contro i Germani, la guardia. Quei Germani da non pochi popoli gallici valutati solo utile e transitorio mercenariato e perciò preferibili alla morsa romana che nulla più lascia di quel che afferra. Valutazione, invero, ognora respinta dai migliori uomini della Gallia, in testa Diviziaco; ma, tant'è: essa, così come molti anni or sono per Alverni e Sequani, ancora costituisce per i Treveri, e forse segretamente chi sa per quanti altri, risorsa militare contro Roma.

Dice: « Siccome ritenevo per certo, pro explorato, che Ambiorige non avrebbe dato battaglia, presi a esaminare quali altre possibilità gli restassero ». Neanche a supporlo che Ambiorige progettasse di scontrarsi con l'esercito romano in campo aperto.


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Quali dunque altre possibilità gli restavano per sottrarsi alla feroce ricerca che di lui sarebbe stata fatta? Idoneo rifugio il territorio dei vicini Menap1: ma lo allontanava, segregandolo fra paludi e boschi, da ogni tempestiva attività palitica. Sicurezza assoluta oltre Reno: ma fra gente estranea, con la perdita d'ogni patere. Fra i Treveri, sì, è ancora dominante l'ombra di Induziomaro: ma come scansare le reti invisibili di Cingetorige?

I

MENAPI.

Dice: « Con gli Eburoni confinavano i Menapt, difesi da una cintura di paludi e di boschi, i quali soli di tutta la Gallia, qui uni ex Gallia, non mi avevano mai inviato messi di pace. Sapevo che Ambiorige aveva con i Menapl legami di ospitalità; come pure sapevo che egli, attraverso i Treveri, aveva stretto rapporti con i Germani. Pensai dunque di doverlo prima privare di questi aiuti e poi attaccarlo direttamente. E ciò per evitare che, ridotto alla disperazione, o si nascondesse fra i Menapt o si unisse ai Germani». Farà, allora, un lungo giro, per Menap1 e per Treveri, invece di marciar subito, direttamente, sugli Eburoni?

Dice: << Regolate tali questioni, - riguardanti Senoni e Carnuti inviai a Labieno, presso i Treveri, il grosso bagaglio di tutto l'esercito, totius exercitus impedimenta, e gli inviai anche due legioni, duasque ad euro legiones: io, con cinque legioni alleggerite di impedimenta, mi posi in marcia per il paese dei Menapl ». Se parte con cinque legioni alleggerite, vuol dire che le operazioni contro i Menap1 avranno carattere di rapida incursione. Però assai più richiama l'attenzione il trasferimento del grosso bagaglio da Amiens a Mouzon; provvedimento logistico che starebbe a indicare che tutto l'esercito, presto o meno presto, dovrà riunirsi nei luoghi dove ora trovasi Labieno. Un concentramento di dieci legioni (ormai ritirate, evidentemente, la legione Planco dai Carnuti e la legione Roscio dalla Normandia) solo per i Treveri?

La marcia da Lutezia sino ai Menap1 fu piuttosto lunga. Da Lutezia a Saint Omer, - nella zona di quest'ultima località si congettura che avesse inizio l'incursione - circa duecentocinquanta chilometri: un nove giorni di marcia. Quando però le cinque legioni colà giunsero, trovarono che i Menapi avevano adottato la stessa tattica dei Morini tre anni or sono: nessun rag-


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gruppamento di forze, ma, fidando nelle difese naturali, s'erano rifugiati tra selve e paludi, portando seco tutto quello che possedevano. Cesare divise allora le sue forze in tre parti per l'invasione di quel territorio da tre diversi punti. Costruiti rapidamente dei ponti, - le truppe, cioè, passarono corsi d'acqua e luoghi paludosi con ponti di circostanza e passerelle - si procedè in quel paese da tre parti, tre colonne, incendiando edifizi e villaggi e catturando gran numero di bestiame e di uomini. I Menap1 sono quindi costretti a mandar messi per chiedergli pace (rese di popolazioni più esposte al flagello). Egli, ricevuti gli ostaggi, dichiara che avrebbe messo i Menapt nel numero dei suoi nemici (e quando mai li aveva considerati amici?), se nel lor territorio avessero accolto Ambiorige o anche suoi ambasciatori. Regolate, cosi, le cose, lascia Commio atrebate (chi si rivede) con cavalleria a sorvegliare i Menap1 (per sorvegliare i Menapì o per non portarsi dietro, là dove ora sentiremo che è diretto, quest'uomo sì abile anche fuori Gallia?), lascia dunque Commio presso i Menapì e parte per il paese dei Treveri. L'azione contro i Menapi, perciò, rapida e senza particolari rilievi; probabilmente, come per i Nervì, ne fu scopo precipuo, nell'incertezza del òomani, una grossa razzia di bestiame. Dovè compiersi in un tre settimane: saremmo ai primi di maggio.

La partenza per il paese dei Treveri sta però solo a indicare la sua direzione di marcia non un obiettivo. Perchè la faccenda dei Treveri l'aveva continuata a condurre, e la portò finalmente a soluzione, con uno stratagemma, prima che giungesse Cesare, l'esperto in questioni trevire, ossia il Legato Tito Labieno.

Lo STRATAGEMMA

DI

LABIENo.

Dopo poco più di quattro mesi dalla morte di Induziomaro - se questi perì in dicembre - i Treveri si rifecero vivi: mentre Cesare era impegnato presso i Menapl, i Treveri, raccolte grandi forze di fanteria e cavalleria, si preparavano ad attaccare Labieno e quell'unica legione che aveva svernato ai loro confini. Le truppe trevire dunque, appena pronte, si diressero a Mont de Brune, in quel di Mouzon. Pervenute però da Labieno a non più di due giorni, vennero a sapere che a questi erano giunte le due legioni mandate da Cesare. Interruppero allora la marcia: accampatesi a poco più di venti chilometri dal campo romano. esse decidono di aspettare gli aiuti dei Germani.


E ' la terza volta, ,cosl, che i Treveri si pongono in epica attesa nei pressi di Mouzon : la prima, mentre Cesare correva al soccorso di Cicerone; la seconda con le quotidiane evoluzioni della cavalleria condotta da Induziomaro; la terza, ora, ma a venti chilometri. l.Abieno, - ora a capo di tre legioni - conosciuto il piano dei nemici, sperando che per la loro imprudenza, gli si presentasse qualche occasione di combattere, lasciate cinque coorti a guardia del bagaglio, parte dal campo con una forza di due legioni e mezza e gran numero di cavalieri e prende posizione a un chilometro e mezzo dal nemico. L'indugio delle forze trevire in attesa dei Germani avrebbe potuto protrarsi chi sa quanto, mentre a una più sollecita soluzione si sarebbe potuto venire con gli eserciti molto vicini. Labieno, insomma, allontanandosi un diciotto chilometri dalle sue forti posizioni e ponendosi sl vicino al nemico, lasciava il certo per l'incerto. Fra l.Abieno e i nemici, sulle nuove posizioni, c'era un fiume - il Semois, pare, affluente della Mosa - di difficile passaggio, difficili transitu, e con rive scoscese, ripisque praeruptis: ma Labieno nè lui aveva intenzione, naturalmente, di attraversarlo nè pensava, naturalmente, che lo avrebbero attraversato i nemici. E allora? Nei Treveri, fr~ttanto, cresceva ogni giorno la speranza di ricevere aiuti: l'arrivo, da un giorno all'altro, degli invincibili. Labieno, allora, di fronte a codesta speranza ch'ogni giorno ingrandiva e che pur sarebbe divenuta realtà, chiamò a rapporto, oggi diremmo, i suoi comandanti. Mise in opera, appunto, lo « stratagemma ».

Parlò, in quel rapporto, apertamente, alzando la voce in modo da essere udito da chiunque fosse vicino: Giacchè - egli disse - i Germani si danno per vicini, io non comprometterò la mia fortuna nè quella dell'esercito: domani, perciò, all'alba, mi allontanerò da questi luoghi. Discorso subito riferito ai nemici, celeriter ad hostes, perchè in così gran numero di cavalieri Galli era naturale che parecchi fossero portati a favorire gli interessi gallici (e se, per dispetto della sorte, nessuno questa volta avesse . .. ?) n'f.ento Ma Labieno era talmente sicuro di sè che dalle parole passò senz'altro ai fatti. Convocati di notte tribuni e centurioni, comunica il suo piano; e per accrescere nel nemico l'impressione che i Romani avessero paura dà ordine di togliere il campo con rumore e precipitazione contrariamente all'usanza degli eserciti romani. Rende così la partenza somigliante a una fuga. E anche


questo, data la vicinanza fra i due campi, i nemici vengono a sapere prima dell'alba, ante lucem, dai propri esploratori, per exploratores. Prima dell'alba: vuol dunque dire che nel campo romano tutta la notte arsero fuochi di bivacco per fingere un'agitata veglia e forse si levarono minacciosi clamori come di truppe in sedizione. E perciò, ecco quel che avvenne all'alba: la retroguardia della colonna romana era appena uscita dal campo, quando i Galli incoraggiandosi fra loro a non lasciarsi sfuggire dalle mani l'agognata preda, si dettero a gridare: è troppo lungo aspettare l'aiuto dei Germani ora che i Romani sono stati presi dalla paura! Non è dignitoso che noi con tante forze non osiamo assalire un pugno d'uomini che per di più è in fuga e impacciato dai bagagli! Conclusione: i Tre veri non esitarono a passare il fiume e ad attaccare battaglia in terreno sfavorevole. Ce ne vuole però di tempo, proviamoci, perchè anche poche m igliaia di uomini passino un fiume « difficili transitu » e « ripisque praeruptis »: in quanti passarono? Dopo il nervosismo della veglia, i Treveri vennero, comunque, alla risoluzione, repentina e caotica, di passare il fiume. Labieno, che queste cose prevedeva (Treveri cioè abbacinati e risucchiati dal suo stratagemma), per attirare i nemici, tutti, al di qua del fiume, proseguiva tranquillamente - sì, tranquillamente: placide, - nella finta ritirata. E a un certo punto, mandati un po' avanti i bagagli e fatti/i collocare su un'altura, rivoltosi ai suoi, disse: Avete, o soldati, l'occasione che agognavate: il nemico è a vostra portata in terreno difficile e sfavorevole. Mostrate anche sotto i miei ordini quel valore, eandem virtutem, che avete tante volte dimostrato al vostro comandante in capo: immaginate che egli, il comandante in capo, Cesare, sia qui presente, illum adesse, f veda con i propri occhi tutto ciò che qui accade! T aie la « cohortatio » di Labieno. Il quale, ciò detto, fa far fronte al nemico, signa ad hostem converti, e assumere formazione di combattimento; pochi squadroni distacca a presidio dei bagagli, disponendo sui fianchi il resto della cavalleria. Siamo alla battaglia. I Romani, improvvisamente levato clamore di guerra, fanno preparatorio lancio di giavellotti contro il nemico ... Ma essi, i nemici, illi, quando inaspettatamente si videro venir incontro coloro che avevano creduto che fuggissero (ma chi li aveva montati? chi aveva fatto loro credere che, proprio, fuggissero?) non poterono sostenere l'assalto e, al primo contatto, primo concursu, posti in fuga (se la squagliarono alla sola vista dello schieramento avanzante), cercarono rifugio nelle vicine selve. Labieno mandò a inseguirli la cavalleria - lo avrebbe potuto se i Treveri avessero portato al di qua del fiume almeno una buona parte della loro? e ne uccise (andateli a contare) gran numero, facendo molti prigionieri.


Pochi giorni dopo, egli ricevè in suo potere il paese: perchè i Germani, che stavano venendo in aiuto (sì, stavano venendo), giunta al loro orecchio la fuga dei Treveri, ritornarono alle loro terre; e i parenti di lnduziomaro, autori della rivolta, ai Germani accompagnatisi, lasciarono il paese.

Ma nella conclusione delle conclusioni ecco che Cesare fa apparire chi deve : a Cingetorige che sin dall'inizio, come è stato detto, era rimasto fedele, fu data la suprema magistratura e relativi poteri, principatus atque imperium.

I Treveri sotto torchio da quando Cesare aggravò la scissione fra Induziomaro e parte o gran parte della nobiltà capitanata da Cingetorige. Un anno di sacrifizi in cui erano fallite le speranze di una rivolta di tutta la Gallia ed era perito lo stesso Induziomaro. Che avevano promesso Induziomaro e i suoi parenti? L'aiuto germanico, di là da venire. Ma, ammesso che fosse venuto, e nella misura adeguata al bisogno, esso pur presentava i pericoli del rimedio peggiore del male po~hè nessuno poteva aver dimenticato che cinque anni prima - e a capo dello Stato, quasi certamente, lo stesso Induziomaro - non s'era esitato nella scelta fra Cesare e Ariovisto. Che cosa, invece, aveva promesso e tutt'ora prometteva Cingetorige? S'erano sottomessi a Roma, dopo tutto con non indecorosi patti, i maggiori popoli della Gallia: non c'era dunque, sottomettendosi, di che vergognarsi. Questione trevira, comunque, definitivamente risolta, e con la massima economia.

Più però si considerano i due ultimi resoconti della trevira faccenda, sia quello del « cogitabat » che questo dello « stratagemma », entram bi redatti, ci scommetteremmo, dallo stesso Labieno (Cesare li avrebbe solo sigillati, il primo con « la fortuna » e il secondo con la conclusione delle conclusioni), più si avverte che è stato Cingetorige - affiancato, questo sì, da Labieno che ha lavorato bene durante tutto un anno, pervenendo alla soluzione non appena (accoppato che fu, « sub vesperum », il suocero) le legioni, a Mouzon, da una si son potute portare a tre.

IL SECONOO PASSAGGIO DEL R ENO.

Quando dal paese dei Menapt Cesare giunse in quello dei Treveri, decise di passare il Reno per due ragioni: la prima, che i Germani avevan·o mandato aiuti ai Treveri contro di lui; la seconda, non voleva che Ambiorige trovasse asilo presso i Germani.


Passaggio, però, già deciso ai primi di aprile quando il grosso bagaglio di tutto l'esercito fu trasportato - ora se ne vede il perchè - da Amiens ai luoghi dove trovavasi Labieno. Dalle Fiandre, dove s'erano svolte le operazioni contro i Menap1, alla Mosa, e da qui al territorio della Mosella, paese dei Treveri, una lunga marcia e, data la quasi primordialità di gran parte dei territori da attraversare, faticosa. Non meno di cinquecento chilometri, quale che sia stato, fra i tanti congetturabili, l'effettivo itinerario. Un movimento che potè durare, se si considera qualche sosta, una ventina di giorni (si sarebbe compiuto, pertanto, fra fine maggio e primi di giugno). Dice: « Presa tal decisione, iniziai la costruzione del ponte un po' più a monte, paulo supra, del luogo dove avevo fatto passare l'esercito la prima volta». Se si accetta il primo passaggio in quel di Colonia, il secondo gittamento del ponte, poco più a monte, sarebbe avvenuto in quel di Bonn. Il primo ponte fu costruito, come ricordiamo, in dieci giorni; questo, sembra, in minor tempo: dato il sistema di rostruzione già adottato, e l'impegno dei soldati, il lavoro fu compiuto in pochi giorni. Cesare - lasciato un forte presidio (la forza, forse, di una legione) fra i Treveri nelle vicinanze del ponte per premunirsi contro improvvisa rivolta (Cingetorige non poteva ancor essere del tutto padrone del paese) - · fa passare al di là del fiume tutta la fanteria e la cavalleria. L'esercito romano sfocia, così, anche questa volta, nel paese degli Ub1. Quegli Uhi premuti vessati ma non ancor domati dagli Svevi e che per primi fra i popoli d'oltre Reno, dopo la disfatta dei Nervi, inviarono a Cesare ostaggi: un popolo insomma che di sua iniziativa tende a dissociarsi dal mondo germanico e che nell'oltre Reno già sembra che costituisca per Roma testa di ponte, sia pure, per intanto, solo politica. Cesare aveva però dubitato, durante la rivolta di Induzìomaro, della lealtà degli Ub1: la loro condotta gli era sembrata poco chiara. Ma ecco che gli Ubt, appena egli ebbe passato il Reno, gli inviano messi per giustificarsi e informarlo che il loro popolo non ha inviato aiuto ai Treveri nè è venuto meno ai suoi impegni . .. Dicono quei messi: Vi preghiamo e scongiuriamo di risparmiarci. Non avvenga che, per preconcetto risentimento contro i Germani, gli innocenti paghino per i colpevoli, ne communi ·odio Germanorum innocentes pro nocentibus poenas pendant (avvertita l'indiscriminata diffidenza: l'avversione, diremmo oggi, razziale). Se volete altri ostaggi, ve li daremo. Cesare, condotta un'inchiesta, viene in effetti a sapere che gli aiuti ai Treveri sono stati inviati dagli Svevi, e perciò accoglie la giustificazione degli U b1 e s'informa - ha intenti offensivi? - delle vie' d'accesso al paese degli Svevi, aditus viasque in Suebos.


Ma le prime notizie sugli Svevi, subito giunte, arrestarono ( se ci fosse stato: ma non c'era nè poteva esserci) ogni proposito offensivo: dopo pochi giorni, Cesare viene a sapere dagli U bi che gli Svevi raccoglievano tutte le loro forze in un sol luogo e intimavano a tutti i popoli da loro dipendenti di inviare aiuti di fanteria e cavalleria. Nessun popolo che inviasse ambasciatori per confidare a Roma il proprio dissenso dalla generale ostilità. Dice: « Saputo questo, provvidi ai rifornimenti di grano, scelsi un luogo adatto al campo, detti ordini agli U bi di portare dai campi negli oppidi il bestiame e tutto quello che possedevano». Intenti, dunque, del tutto difensivi. Dice: « Speravo così facendo che gli Svevi, uomini barbari e inesperti, potessero essere indotti dalla mancanza di viveri a combattere anche in condizioni sfavorevoli». Gli Svevi avrebbero dovuto prima invadere il paese degli Ubt e poi, costretti, qui, dalla farne, porsi all'attacco di oppidi o dello stesso campo romano: le sole circostanze in cui sarebbe stato possibile attirarli a battaglia in condizioni sfavorevoli (una fantasia, come ognuno avverte). Cesare incarica altresì gli U bt di inviare numerosi esploratori nel paese degli Svevi per informarsi su quel che questi facevano. Gli U bt esegu.ono gli ordini, e dopo pochi giorni così lo informano: tutti gli Svevi, appena giunta la notizia dell'arrivo dell'esercito romano, si erano ritirati con tutte le forze loro e degli alleati nella parte più lontana del paese. Che colà dove si stavano radunando era una selva di smisurata estensione chiamata Bacenide, silvam esse ibi infinita magnitudine quae appellatur Bac.enis (dall'alto Weser, pare, all'alto Oder). Selva che si spingeva molto addentro nell'interno e difendeva, a mo' di muro naturale, i Cherusci (residenti fra Weser ed Elba) dagli Svevi e gli Svevi dai Cherusci; - - all'inizio di una tal srlva dunque (a sud dei monti della Turingia, pare), gli Svevi avevano deciso di aspettare l'arrivo dei Romani. Come dopo il primo passaggio, la fiera s'è contratta su se stes.sa. Dice: « Quando seppi dagli esploratori degli U b1 che gli Svevi si erano ritirati nella selva, temendo che mi venisse a mancare il grano, - perchè in genere i Germani, come ho già detto, sono assai poco dediti ali'agricoltura decisi dt non avanzare ulteriormente. Ma per non togliere completamente ai barbari la paura di un mio ritorno, - ed evitare, nel contempo, che i loro aiuti alla Gallia passassero impunemente - appena l'esercito ebbe ripassato il fiume, feci tagliare per circa sessanta metri la parte del ponte che toccava kl sponda degli U bt, e all'altra estremità, sulla sponda gallica, feci erigere una torre di quattro piani. Qui lasciai di presidi<> dodici coorti, facendo saldamente fortificare tutta la posizione, della quale affidai il comando al giovane Caio Volcacio Tullio» .


E così, dopo una permanenza oltre Reno che si calcola un po' meno di un mese (saremmo, perciò, ai primi di luglio), l'esercito romano ritornò su suolo gallico. Sulla sponda dei Treveri sarà lasciato un campo presidiato da una forza pari a una legione e due coorti, munito di torre osservatorio; e resterà in piedi la maggior parte del ponte, - tagliato solo un settimo se si calcola quattro cinquecento metri la lunghezza totale - . Indice teso contro l'ignoto mondo germanico (che sussulterà forte fra poco più di quarant'anni: furono i Cherusci a distruggere le legioni di Varo). Non altro che rapide, e tutt'altro che feroci, reazioni nei pnmi sei mesi di quest'anno, da febbraio a luglio. Un'incursione fra i Nervi a scopo, preminentemente, di razzia; il concilio in Lutezia conclusosi con uno scapaccione, ma non forte, ai Senoni e un altro ancora men forte - il lor territorio non è stato invaso - ai Carnuti; risolta, con Induziomaro già passato nel mondo dei più, la questione trevira; un'incursione fra i Menapi, anche qui per razzie; secondo passaggio del Reno assai più per intimorire i Galli che i Germani.

GALLI E GERMANI FRA DUE GORGHI.

Cesare dice: « Giunti a questo punto, ad hunc locum perventum, non ci sembra fuor di luogo dare un'idea dei costumi della Gallia e della Ger-

mania, e delle differenze fra i due popoli». Ma qual è questo « punto » in cui le pagine che ora leggeremo, quasi pausa diversiva, vengono a inserirsi? Si potrebbe rispondere: un Cesare, ora, fra due gorghi; da una parte, la Gallia di giorno in giorno più minacciosa di rivolta; dall'altra, come ci dicono altre fonti, la caotica situazione politica in Roma. E fra qualche mese a Roma si combatterà per le strade e in Gallia un vento non inatteso ma di insospettata violenza investirà l'edificio in costruzione.

I

GALLI.

In Gallia, non soltanto in ogni popolo e in ogni paese e frazione ma anche quasi in ogni casa, paene in singulis domibus, vi sono delle fazioni . Per ogni questione d'interesse appena comune, il contrasto delle opinioni, l'appassionata discussione, l'alterco, sin fra le pareti domestiche.


A capo di esse fazioni, gli uomini considerati di maggior prestigio; al parere e alla decisione dei quali si rimette la decisione di qualsiasi affare.

Faziosità a oltranza; ma anche la comune tendenza, meno male, a riconoscere l'autorità di qualcuno. Sembra che così si sia fatto - tanti capi quante le fazioni - sin dagli antichi tempi per questo motivo: n e quis ex plebe contra potentiorem auxilii egeret, il plebeo non resti indifeso contro il potente. Democrazia perciò attiva. Nessun capo infatti permette che i suoi clienti siano oppressi o sopraffatti, e se fa altrimenti, se insomma dà un colpo al cerchio e uno alla botte, perde fra i suoi qualsiasi autorità. Questo stesso sistema - questo perpetuo e generale contrasto di opinioni - è uguale in tutta quanta la Gallia; una Gallia, perciò, ovunque e sempre scissa : tutti" i popoli della Gallia sono divisi in due partiti, omnes civitates in partes divisae sunt duas. Neppure giovava la parentela: Dumnorige contro Diviziaco, Cingetorige contro Induziomaro. Eppure, le condizioni del proletariato ~ malgrado l'immortale principio che l'umile non deve restare indifeso davanti al potente - erano tutt'altro che buone. In tutta la Gallia solo due sono le classi di persone che contano e valgono qualche cosa; una è costituita dai Druidi, alterum est Druidum, l'altra dai Cavalieri, alterum Equitum. Ecco infatti, mal grado i battaglieri capi di fazione, il punto nero: la plebe è messa quasi sullo stesso piano degli schiavi e da sè non osa nulla e non partecipa ad alcuna decisione. Gravi fenomeni, inoltre, di depressione economica: la maggior parte della gente del popolo, premuta o dai debiti o dalla gravezza dei tributi o dalle sopraffazioni dei più potenti, si dà in servitù ai nobili, i quali vengono così ad assumere su di essa gli stessi diritti del padrone sullo schiavo.

Facciamo sfilare per primi i Cavalieri, cioè la nobiltà nella sua maggior funzione ed espressione, la guerriera. Nota squillante, bellicosa, quasi preludio alla chanson: i Cavalieri, quando si presenta una qualunque occasione di guerra, accorrono tutti, omnes in bello versantur: e quanto uno è più potente e per parentele e per sostanze tanto maggior numero di gente stipendiata e di clienti ha al suo seguito. Qualità e quantità del sèguito: in ciò l'unica forma di prestigio e di potenza che riconoscano.

Ci riappare Dumnorige sempre circondato da gran numero di cavalieri mantenuti a sue spese; ci riappare la cavalleria della seconda spedizione in Britannia, che abbiamo immaginata sì brillante.


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Cesare dice: « Prima del mio arrivo in Gallia, l'occasione ai Cavalieri di far guerra soleva avvenire quasi ogni anno, sia che prendessero essi l'iniziativa di scorrerie sia che da scorrerie dovessero difendersi». Un mondo di gelosie e di turbolenze fra regione e regione, contrada e contrada, oppido e oppido, che col mio arrivo, sembra che dica, si andò di mano in mano placando. Tutto in codeste poche linee il discorso sui Cavalieri.

Più lungo e complesso quello sui Druidi. Tutto il popolo gallico è oltremodo religioso, natio est omnis Gallorum admodum dedita religionibus. Premessa che ci farà meglio rilevare l'importanza di quanto ora ascolteremo. Anche i Druidi facevano quanto hanno fatto fanno e faranno i sacerdoti di tutti i tempi e di tutti i luoghi: attendono alle funzioni sacre, curano i sacrifizi pubblici e privati, risolvono dubbi di carattere religioso. E anch'essi avevano scuole aperte e affollate: accorre a loro per imparare un gran numero di giovani. Sert0nchè, da templi seminari scuole, l'autorità dei Druidi penetrava nei gangli più importanti e delicati dell'organizzazione civile della Gallia. I Druidi sono grandemente onorati dai Galli. Sol perchè pii sacerdoti e dotti maestri? Anche per questo. Ma, soprattutto, perchè sono essi che decidono su quasi tutte le controversie pubbliche e private, fere de omnibus controversiis publicis privatisque. Sacerdoti, perciò, con potere giudìziario: se è stato commesso un misfatto, si facinus, se avviene omicidio, si caedes, se in controversia eredità o confini, si de hereditate si de fìnibus controversia, sono loro che risolvono, stabilt:11do risarcimenti e pene. Nè sembra che avessero bisogno, per l'esecuzione delle loro sentenze, della forza armata del potere civile; essi ne possedevano una strapotente e invisibile: si quis aut privatus aut populus eorum decreto non stetit sacrificiis interdicunt: se privato o popolo - finanche popolo - non sta alle loro decisioni, lo interdicono dai sacrifici.. Lo scomunicano. La scomunica è presso i Galli la pena più grave, poena est grav1ss1ma: gli scomunicati sono messi nel numero degli empi e degli scellerati, tutti s'allontanano da loro, ne sfuggono l'incontro e la conversazione perchè l'impuro contatto non porti maleficio; agli scomunicati, infine, neque ius neque honos, nè si rende giustizia nè si concedono onori. Tutti i Druidi ubbidiscono a un unico capo, che detiene fra essi l'autorità suprema. Un Califfo, tanto per dargli un nome. Venendo costui a morte, gli succede il Druida che fra gli altri emerge


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per dignità; e se i pari merito sono più d'uno, si disputano il seggio col voto dei Druidi e non raramente (duellando fra di loro gli stessi califfabili, secondo qualche dotto del nostro tempo) con le armi .. I Druidi godevano di tre benefici apprezzabili ancor oggi: hanno facoltà - per consuetudine se non per legge - di non partecipare alla guerra; non pagano le tasse come gli altri; sono dispensati dal servizio militare e da ogni altra prestazione. Sicchè, allettati da tanta pacchia, tantis excitati praemiis, molti giovani vanno per vocazione a imparar da loro e - in caso, diremmo, di gusto al sacerdozio non tanto forte - vi sono mandati da genitori e parenti. Parecchi, così, restano presso scuole druidiche per vent'anni. L'intero ciclo degh studi lo compivano, è da presumere, coloro che erano avviati ad alte cariche giudiziarie e al califfato. I più, dopo men lunghi tirocini, ritornavano ai loro paesi, dove esercitavano le più elevate professioni, specialmente mediche, e costituivano, come abbiamo appena inteso, la parte scelta della società. Druida, a esempio, era Diviziaco, che pur abbiamo visto politico militante e in missione, a capo di forze militari, verso il paese dei Bellovaci. Parte del sapere, nelle scuole druidiche, veniva fermato nelle teste dei discenti dall'espressione sintetica e orecchiabile del verso : si dice che vi imparino un grande numero di versi. Del programma degli studi, piuttosto complessi, ci son rimasti i titoli delle materie fondamentali: Astrologia: corpi celesti e loro moto, de sideribus atque eorum motu; Fisiografia: grandezza della Terra e distribuzione delle terre e dei mari, de mundi ac terrarum magnitudine; Scienze naturali : rostanza delle cose, de rerum natura; Teologia: la Divinità e i suoi poteri, de deorum immortalium vi ac potestate. Niente libri dispense e neppure appunti; tutt.o affidato, versi o non versi, alla memoria: i Druidi non credono lecito affidare alla scrittura quello che insegnano; e in quasi tutto il resto, nei rapporti tanto pubblici che privati, si servono - ma i maggiori dotti dovevano certamente conoscere anche la lingua - dell'alfabeto greco. Riservatezza però non estranea, come sappiamo, anche ai sacerdoti romani. Cesare dice: ,< Io penso che tal consuetudine abbia due scopi: che i loro insegnamenti non diventino di dominio pubblico, e che i discepoli fidando nella scrittura non trascurino l'esercizio della memoria. Perchè accade in genere ai più che, quando ci sia l'aiuto dello scritto, si metta meno sforzo nell'apprendere e si lasci indebolire la memoria». lnfrenare, diremmo oggi, le malcongegnate divulgazioni nonchè l'abuso dei libri quando giunga l'età in cui occorra conquistarsi la propria personalità più specialmente con le proprie forze. 2 1. ·

u.s.


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Naturalmente, problema centrale del druidismo quello ch'è tale per tutte le religioni: la sorte riservata all'individuo umano dopo il terreno soggiorno. Fulcro dell'insegnamento dei Druidi è che le anime non muoiono, non interire animas, ma passano dopo la morte da un corpo all'altro, ab aliis ad alios. Trasmigrazione da corpo materiale a corpo materiale. Prestigiosa metempsicosi, comunque: i Druidi pensavano che tal credenza, facendo vincere il timore della morte, rendesse più coraggiosi. In un certo periodo dell'anno - notizia già rilevata per l'uccisione di re Tasgezio - nel territorio dei Carnuti, che è considerato il centro, il cuore, di tutta la Gallia, guae regio totius Galliae media habetur, i Druidi si radunano in luogo consacrato (pare nelle foreste di Autricum, poi Civitas Carnutum: Chartres), dove convergono tutti coloro che, dovendo risolvere qualche loro contesa, contese però grosse, da suprema assise, si affidano e ubbidiscono (embrionalmente già in atto l'unità politica della Gallia) alle decisioni di quei sacerdoti. L'insieme di norme e di dottrine druidiche - notizia già in parte apparsa fra i motivi addotti da Dumnorige per sottrarsi alla spedizione in Britannia - si crede che abbia avuto origine in Britannia - nell'isola, sembra, Anglesey - e di là sia passato in Gallia. Popolo dunque molto religioso: e per questo i Galli affetti da gravi malattie o esposti ai pericoli di una battaglia immolano, quali vittime, degli uomini o, addirittura, fanno voto di immolare se stessi, e si servono per questi sacrifizi del ministero dei Druidi. Il druidismo, dunque, che con la metempsicosi pur rendeva meno angoscioso il pensiero della morte, molto gravava sulla vita terrena degli uomini con la ferocia di un siffatto culto. Dei immaginati con volto truce: perchè pensano che la potenza degli dei immortali non si possa placare se non offrendo loro per una vita umana un'altra vita d'uomo. E sacrifizi di tal genere usano fare anche - evidentemente, per calamità e castighi collettivi - pubbli'camente. Alcuni popoli hanno enormi fantocci, immani magnitudine simulacra, con membra conteste di vimini: li riempiono di uomini vivi e, appiccatovi il fuoco, quegli uomini fanno morire fra le fiamme . C'era però, aspettate, il correttivo: pensano che il supplizio di coloro che sono stati sorpresi in un furto in una rapina o altra colpa (da condannare perciò a morte), sia più grato agli dei immortali; e solo quando manca (ma possibile?) un tal genere di vittime, arrivano, anche, a supplizi di innocenti. Altro segno di religiosità erano i sacri tumuli, cataste cioè di oggetti di preda bellica dai Galli votati al loro Marte. A costui, quando hanno stabilito di combattere, offrono in genere tutto quello che prenderanno in guerra: e, si noti, a guerra finita, mantengono scrupolosamente il voto. Grandi tumuli, visibili da lontano, religiosamente riguardati: presso molti popoli, si possono


vedere, in luoghi consacrati, dei tumuli eretti con tali offerte; ed è raro che qualcuno, non rispettando questo rito, osi o tener nascosto quel che ha preso in guerra o prendere quel che è stato da altri offerto: colpa per la quale è fissata la morte fra i tormenti. I popoli gallici dovevano apparire a Cesare ancora immersi, sotto taluni aspetti, in caligini primordiali; popoli, potremmo dire, ancora lunari; essi infatti, come il più delle genti antichissime, ancora regolavano il loro calendario sulla luna: contano il tempo non a giorni ma a notti, non numero dierum sed noctium, e calcolano natalizi e l'inizio dei mesi e degli anni facendo seguire il giorno alla notte.

Il cedimento in pubblico, anche da parte di un padre, a sentimento affett:lvo poteva apparire debolezza: considerano una vergo>(na che un figlio ancor fanciullo stia in pubblico vicino al padre. Doveva essere inconcepibile, salvo forse per illustri vegliardi, che a riunioni per affari pubblici potesse p.artecipare uomo disarmato o alle armi non valido: i padri non permettono ai loro figli di presentarsi a essi in pubblico se non quando abbiano raggiunto l'età che li renda atti alle fatiche della milizia. Alta dunque e rigida la figura del capo famiglia. Prosaiche, invece, le premesse al matrimonio: il patto nuziale gravato da fredde valutazioni di danaro o del suo equivalente. E lo stesso matrimonio considerato un'associazione più che altro e~onomic~ fra due famiglie per la conservazione d'un capitale, danaro terre o altro. I fidanzati, viri, prelevano dai propri beni quanto in dote dalle fidanzate ricevono, e le due doti uniscono, quantas pecunias acceperunt tantas cum dotibus comunicant. Due doti dichiarate dello stesso valore da regolare stima. E delle due doti, una volta stretto il nodo, capitale unico: tutto questo danaro, o quel che altro fosse, viene amministrato unitamente e la rendita aggiunta al capitale. Nè alla morte di un coniuge - ecco il punto - il capitale si frantumava: chi dei due sopravviverà, sarà quello che riceverà la parte di tutti e due con i frutti accumulatisi nel tempo. L'eredità veniva dopo la morte di entrambi i genitori. Vivo il capo famiglia, per maggiorenni o adulti che fossero i figli, l'unità familiare era conservata : i mariti hanno sulle mogli come sui figli diritto di vita e di morte. Dicono però i dotti del nostro tempo che la donna gallica, contrariamente a quanto si potrebbe pensare per la sua totale subordinazione al marito, era elemento particolarmente significante, uno zucchero, nell'alto come nel basso ceto della società. Vedovo e vedova a pari diritto, comunque : al sopravvivente integrale eredità delle doti accresciuta dei frutti.


Quando pèrò si trattava di una gran dama patevano non essere tutte rose: quando muore un capo famiglia di più illustre casato, - eredità grossa, dunque - i parenti del morto si riuniscono e, se c'è qualche sospetto sulla morte, aprono un'inchiesta (con la stessa procedura che si adopera per i servi, ossia servendosi anche della tortura) contro la moglie, che, se riconosciuta colpevole, viene bruciata dopo essere stata sottoposta a ogni sorta di tormenti. Al capa Hmiglia il di;itto di vita e di morte anche sulla moglie; sulle spalle della vedova rimasta ricca e non del vèdovo l'inchiesta in caso di sospetti: due segni della patestà maschile assoluta in quell'istituto familiare. Avremmo preferito sapere, come di avvenimenti di solito allegri, delle cerimonie che accompagnavano il rito nuziale; Cesare ci parla invece dei funerali: i funerali, relativamente al grado di civiltà dei Galli, sono magnifici e sontuosi, funera magnifica et sumptuosa. La religione stessa pateva spingere a desiderare solenni esequie; chè era un avviarsi, chi sa, a più felice continuazione del mestiere o arte finora esercitati, era la speranza di rinforncarsi, in più be~igne spoglie, delle delusioni dell'attuale esperimento terreno. Onoranze spettacolose: e tutto quello che pensano sia stato caro ai morti, compresi gli animali, gettano nel fuoco. Non ancora dimenticati i tempi in cui un rito funebre degno del nome, per personaggi d'alto lignaggio, richiedeva che schiavi e clienti al morto cari si bruciassero con lui. La cremazione al tempo di Cesare era in Gallia usanza generale, succeduta all'inumazione di tempi più antichi.

L'indole dei Galli, specialmente celtici, un po' ora la conosciamo nel suo concreto e più comune manife!:tarsi: sempre avidi di edizioni straordinarie, sempre _in cerca di mercanti di passaggio, perpetui disturbatori, col trasmettersi a voce le notizie, della pace di campi e villaggi. Gente, perciò~ simpatica quanto si voglia ma anche pericolosa: perchè - come già ci è stato accennato - spesso s'è visto che uomini impulsivi e inesperti, temerarios atque imperitos, spaventati da false dicerie, vengono spinti ad atti inconsulti e a decisioni, per la comunità, gravissime. Ragione per cui i popoli che sono ritenuti meglio governati hanno stabilito per legge,.habent legibus sanctum ... Quattro articoli. . Il primo: chiunque da popoli confinanti o da voce pubblica viene in possesso di notizie di pubblico interesse deve riferirle a un magistrato; il secondo: a nessun altro, se non all'autorità dall'articolo precedente specificata, dette notizie devono -essere comunicate; il terzo: i magistrati tengano nascosto, di tali notizie, quel che credono e comunichino_ al popolo quanto delle notizie sembra loro opportuno; il quarto: non è lecito parlare di affari di stato se non in legali adunanze, de re publica nisi per concilium loqui non conceditur.


32 5 Non mancava dunque qualche ottima repubblica in cui cittadini e magistrati erano in grado, come noi oggi, di distinguere e separare l'interesse privato dal pubblico.

I G ERMANI. Sono di costumi molto differenti. Prima differenza, fondamentale: scarso, nei Germani, almeno apparentemente, il senso religioso: non hanno sacerdoti che attendono alle cose sacre nè danno troppa importanza ai sacrifici. Dov'è la vivida ed esuberante fantasia religiosa dei Galli? I Germani considerano Dei soltanto quelli che veqono, eos solos quos cernunt, e da cui ricevono, manifestamente, aiuto, ossia il Sole il Fuoco la Luna: di altri Dei non hanno neppur sentito parlare. Poco o nullo il mistico raccoglimento e taritomeno ascetica meditazione: la loro vita passa tutta nella caccia e negli esercizi militari, in venationibus atque in studiis rei militaris; e si allenano, sin da piccoli, alle fatiche più dure. Un consorzio umano in cui il rapporto sociale è inaridito dalla concezione utilitaristica deHa divinità e vi è finanche aduggiata la gioconda brevità della fanciullezza. Ma ecco che, contro ogni aspettativa, dal suono aspro di tali premesse si leva una nota quasi solenne: qui diutissime impuberes permanserunt maximam inter suos ferunt laudem: fra loro, quelli che più a lungo si serbano casti godono grandissima stima. Segue, è vero, una presunzione empirica che un po' offusca il valore di sì alto enunciato: pensano che ciò accresca la statura e rinforzi il corpo e i muscoli. Ma è per breve momento; la nota diviene anzi più distinta: ìntra annum vicesimum feminae notitiam habuisse in turpissimis habent rebus, conoscere donna prima di vent'anni è considerata una delle cose più turpi. Eppertanto, il consorzio fra i due sessi non subisce infingimenti, cuius rei nulla est occultatio; si lavano promiscuamente nei fiumi e si coprono con pelli o piccole fasce ai reni, lasciando nuda gran parte del corpo. Poca inclinazione all'agricoltura; refrattarietà al benestare e alla ricchezza per conservare integra l'attitudine alla guerra; ritenuta la lode più grande, per un popolo, avere attorno a sè il deserto, circum se solitudines: tutte notizie che anticipammo tre anni fa, a proposito degli Svevi e del primo passaggio del Reno. Ringhiosi e mordaci sui confini; ma di elevata socialità, ospiti tutto cuore, in privato: non credono lecito offendere un ospite, hospitem violare fas non putant; anzi: difendono da qualsiasi offesa o violenza, considerandolo sacro, chi viene a loro per qualsiasi ragione, ab iniuria prohibent sanctos habent;


ospitalità a piene mani: tutti aprono agli ospiti le loro case e li fanno partecipare alla loro mensa. Ma appena fuori la porta di casa, all'estero per meglio dire, neppure il furto è reato: le rapine non sono considerate infamanti quando avvengono fuori dei confini del proprio paese, extra fìnes: perchè in tal caso, a giudizio loro, esse servono a tenere in esercizio - ai fini della guerra, naturalmente la gioventù e a vincere la pigrizia. Nè indulgevano con se stessi nell'ordinamento costituzionale; l'assolutismo che dominava la loro vita di pace - erano magistrati e capi che disponevano, d'anno in anno, delle terre da concedere in coltivazione - lo facevano divenire, in periodo di guerra, tirannide-: quando un popolo fa guerra, sia che attacchi sia che si difenda, si scelgono dei magistrati a cui si conferiscono il comando di quella guerra e il diritto di vita e di morte. Uomini di parola: quando in pubblica adunanza un capo si offre guida a un'impresa, invitando a dichiararsi chi voglia seguirlo, quelli che approvano l'uomo e le sue intenzioni si alzano in piedi, consurgunt, promettendo il loro aiuto, e sono applauditi dalla moltitudine; però quelli che poi non mantengono le promesse sono considerati disertori e traditori, e nessuno presta loro più fede. Il discorso sui Germani continua con notizia sulla selva Ercinia e su tre caratteristici esemplari della sua fauna (note immaginose e leggere, espresse con stupore quasi primitivo). « La selva Ercinia è larga nove giorni di rapida marcia. Quanto è lunga? Non vi è nessuno nella Germania a noi conosciuta che possa dire di essere arrivato al suo termine anche dopo sessanta giorni di marcia. Nè v'è nessuno che abbia saputo da altri dove la sua lunghezza vada a finire. La selva Ercinia non si può diversamente determinare perchè i Germani non conoscono altro sistema di misura se non le giornate di marcia. Viandante che con la sua penosa marcia e le sue inappagate richieste fa umana anche la selva. « C'è il bue dalla figura di cervo. Esso ha in mezzo alla fronte , tra le orecchie, un unico corno che alla sommità si ramifica abbondantemente come una palma. La femmina è uguale al maschio: altrettanto cornuta>>. Si tratta, evidentemente, della renna; oggi ritiratasi sotto latitudini più fredde. I corni della renna sono due e certamente erano due anche allora : ma a Cesare qualche informatore di fantasia avrà riferito che era uno solo e solenne come palma. « Ci sono altresì i cosiddetti alci. Per figura e pelo variegato somigliano ai caproni sebbene di questi un po' più grandi. Mùtile hanno le corna. Le loro gambe sono senza giunture


e articolazioni. E come riposano? Per riposarsi non si accovacciano. E se cadono? Se per qualche ragione cadono, non possono più nè alzarsi nè sollevarsi. Gli alberi fanno pertanto loro da letto; agli alberi si appoggiano, e così, alquanto reclinate, riposano, paulum modo reclipatae quietem capiunt. Quando i cacciatori scoprono, dalle orme, il luogo dove esse sono solite ritirarsi, in quei luoghi scalzano alle radici o tagliano tutti gli alberi, ma in modo che ·i tronchi restino ancora in piedi e apparentemente stabili. Sicchè, quando, secondo abitudine, le alci si poggiano a tali alberi, questi cedono ed esse cadono ». Si tratta del « cervus alces » ? Non si sa. (Una trasfigurazione poetica, c'è chi dice, della vita dell'uomo). « La terza specie degli animali ercinici è quella degli uri - si tratta del « bos primigenius », oggi scomparso. - Poco meno grandi degli elefanti: aspetto, colore e figura di toro. Grande forza e grande velocità: nè risparmiano, una volta avvistati, l'uomo e le altre bestie. I cacciatori li catturano e li uccidono facendo.li cadere in buche proditoriamente allestite. I giovani germani si esercitano con grande passione in questa caccia, che serve loro di allenamento, e quelli che ne hanno uccisi di più ne presentano in pubblico le corna, riscuotendone grande ammirazione. Gli uri non si addomesticano neppure se presi da piccoli. Le grandi corna, forma e specie, molto differiscono da quelle dei nostri buoi: i Germani cercano con passione le corna degli uri per rivestirne i labbri di argento e servirsene come calici nei più sontuosi banchetti, in amplissimis epulis pro poculis utuntur ».

UN

CONFRONTO.

La pausa termina con l'immagine dei corni orlati d'argento in sontuosi banchetti; ma forse val meglio chiuderla, lieve la posposizione, col confronto che segue. Dice: « Ma i Germani, ora, continuano a vivere come prima, poveri, bisognosi, rassegnati al medesimo vitto e durezza di vita; i Galli, invece, data la vicinanza delle nostre province e il commercio marittimo, godono di abbondanze e comodità n . Il che però non segnala a onore e gloria dei Galli. Ne trae anzi spunto per rilevare che nell'animo dei Galli s'è insinuato, nei confronti dei Germani, una fatale rinunzia. Dice: « I Galli si sono a poco a poco abituati a essere vinti dai Germani e, battuti in parecchie battaglie, hanno essi stessi rinunciato a paragonarsi con loro,>.

Una supenore civiltà, la gallica : accusava, però, debolezza di gambe


ADUATUCA PER UN

« PAULISPER ».

Due, come ricordiamo, i grossi obiettivi di quest'anno a cui Cesare aveva rivolto tutta la sua mente e tutto il suo animo, totus et mente et animo: T reveri ed Eburoni. Sicchè, definitivamente risolta la questione trevira (prima col « cogitabat » e poi con lo « stratagemma » di Labieno), non rimane ora che l'eburone Ambiorige, autore dei fatti di Tongres nonchè anima dell'attacco e dell'assedio del camPo di Charleroi.

Ma non sono obiettivo anch'esso importante, e forse più, i Senoni, poPolo fra i primi per forza e autorità fra i Galli, civitas in primis inter Gallos? Certamente. E il loro Accone, Acco, non è stato dimenticato: riapparirà e disparirà a conclusione di quest'anno appena per qualche secondo ma come illuminato da cupo lamPo· Dice: « Lasciato il comando del presidio sul Reno al giovane Caio Voicacio T ullio, partii - le messi già cominciavano a maturare - per la guerra contro Ambiorige, e mandai innanzi Lucio Minucio Basilo con tutta la cavalleria, L. Minucium Basilum cum omni equitatu praemittit ... ». Il grano in quelle regioni matura a estate inoltrata: saremmo pertanto - la sosta sulla sinistra Reno non Potè essere che breve - a metà luglio. Del presidio sul Reno non avremo più notizia: ma si può dar per certo, data la piega dei prossimi avvenimenti, che, demoliti il resto del ponte e la torre, fu presto ritirato. L'esercito, preceduto da tutta la cavalleria (calcoleremmo un quattromila cavalli) deve dunque ora portarsi dalla zona del gittamento del Ponte, supposta nei pressi di Bonn, nel paese degli Eburoni; paese che aveva quasi per centro, come presto ci sarà confermato, proprio il luogo dove avevano posto i quartieri d'inverno Titurio Sabino e Aurnnculeio Cotta. Da Bonn a Tongres circa centocinquanta chilometri. Marcia da compiersi, quasi tutta, attraverso la selva delle Ardenne, per Arduennam silvam, che è la maggiore d_i tutta la Gallia, dalle rive del Reno al paese dei Nervi, a ripis Rheni ad Nervios: l'imponente foresta che ci è stata già segnalata l'anno scorso quando Induziomaro, all'avvicinarsi di Cesare, vi PoSe in salvo -la roPolazione civile. Ma il punto imPortante dell'ordine di Cesate a Basilo non è l'attraversamento della selva delle Ardenne.


Se si calcola, su cen tocinquanta chilometri, un a marcia giornaliera - attraverso terreno boscoso montuoso rotto da paludi e corsi d'acqua - di soli venti chilometri per la fanteria e di soli quaranta per la cavalleria, la distanza fra cavalleria e legioni, già notevole dopo la prima tappa, diventerà di sessanta chilometri dopo la terza. Ma la media giornaliera della cavalleria fu certo parecchio maggiore. Appare insomma che, a differenza di quanto sinora è avvenuto, - tranne che per l'inseguimento, quattro anni or sono, alle forze in dissolvimento ddla coalizione belga - nessuna immediata interdipendenza tattica esisterà, all'inizio di queste operazioni, fra fanteria e cavalleria. Dice: « Mandai innanzi Lucio Minucio Basilo con tutta la cavalleria ... nella speranza che potesse trar profitto dalla rapidità della marcia o da altra favorevole occasione. Gli prescrissi di proibire i fuochi nelle soste per non dar da lontano segno del suo arrivo. Lo assicurai che lo avrei subito seguìto ». Basi/o esegue gli ordini: Basilus ut imperatum est facit. Ossia (non si tratta, vedremo, di espressione convenzionale): Basilo giovane certamente di sangue caldo come Publio Crasso che operò in Aquitania tre anni fa - organizzò e condusse la spedizione ben interpretando il volere del generale. Basi/o, compiuta celermente la marcia, - potè benissimo trovarsi in territorio eburone il mattino del terzo giorno dalla partenza - sorprese molti eburoni che lavoravano senza alcun sospetto nei campi, in agris inopinantes. La spensierata alacrità della mietitura interrotta, su vaste zone, da nugoli improvvisi e spietati di cavalleria romana. E in breve, dopo pochi o men pochi risoluti sondaggi, Basilo raggiunse il suo primo scopo: su indicazione degli inopinantes, punta sulla località (presso Liegi, pare) dove si diceva che Ambiorige si trovasse con pochi cavalieri, quo in loco cum paucis equìtibus esse dicebatur. E Ambiorige, in effetti, là trovavasi.

Ma il colpo non riuscì per un paulisper, un pelo. Cesare dice : « Come in tutte le cose della vita così nelle imprese milttari molto può la fortuna. Fu certamente dovuto a un caso straordinario che Basi/o potesse piombare su Ambiorige, sorprendendolo per di più impreparato, e che tutti coloro che erano assieme al re si fossero trovata addosso la cavalleria romana prima di averne avuto benchè minimo sentore; ma altrettanto fu caso straordinario che Ambiorige - quando già gli era stata tolta ogni possibilità di organizzare intorno a sè una difesa, omni militari instrumento erepto, e già gli erano stati catturati cocchi e cavalli, - fu caso dunque altrettanto straordinario che Ambiorige, così ridotto, riuscisse a sfuggire alla morte» . Due fortune uguali e contrarie: Ambiorige salvo.


I fatti si svolsero così: poichè la casa era circondata da bosco ( come lo sono in genere le case dei Galli, che per sfuggire ai calori estivi spesso ricercano silvarum atque fluminum propinquitates, luoghi vicini a boschi e fiumi), i compagni e amici di Ambiorige, della piccola rozza corte, poterono per un poco, paulisper, in stretto accesso, trattenere i cavalieri romani; ma mentre così si combatteva, uno di quella corte riuscì a far montare il re su un cavallo. Le selve, poi, protessero il fuggiasco. Cesare dice: « E' dubbio, dubium est, se Ambiorige non abbia radunato le sue forze perchè il suo intento non era di venire a battaglia o non le abbia radunate per mancanza di tempo dato l'improvviso arrivo della cavalleria che egli riteneva subito seguìta dalle legioni. Certo però è che, inviati messi per le campagne, ordinò che ognuno provvedesse a se stesso, sibi quemque consulere ». Che Ambiorige non progettasse di riunir forze per venire a battaglia ce lo ha detto Cesare stesso prima del passaggio del Reno: ritenevo per certo, pro explorato, che Ambiorige non avrebbe dato battaglia. Perchè ora dal « pro explorato )) al « dubium est )>? Ad Ambiorige si potrebbe addebitare un certo indugio n~ll'ordinare al suo popolo di fare il vuoto appena l'esercito romano era ritornato al di qua del Reno se non si pensasse quanto egli dovesse sentirsi trattenuto dalla necessità di mandare avanti, il più possibile, la mietitura. Fu sor preso in pieno, questo sì, dal fatto che mai più supponeva un temerario vuoto di giorni fra la cavalleria, ognora affrontabile quand'è sola e in terreni boscosi e paludosi , e l'implacabile azione delle legioni. Certo perciò dell'immediato sopraggiungere, dopo la cavalleria, delle legioni, Ambiorige, inviati messi per le campagne, ordinò che ognuno provvedesse a se stesso. Si salvi chi può. Ma quanto ora sentiremo fu effetto del si salvi · chi può oppure della cavalleria di Basilo nei giorni - tre, se non quattro - in cui essa rimase sola e arbitra in territorio eburone? Parte della popolazione scampò nelle foreste delle Ardenne, parte in località di fitte paludi; coloro che erano vicini al mare trovarono scampo in luoghi costieri che sogliono divenire isole al!' alta marea; molti, usciti dalle loro terre, affidarono se stessi e quanto delle loro cose erano riusciti a trasportare a genti del tutto s~onosciute. Catuvolco, re d'una metà del paese degli Eburoni (lo abbiamo incontrato con Ambiorige circa nove mesi fa per le accoglienze, sulla porta di casa, a Titurio e Cotta), il quale aveva fatto causa comune con Ambiorige, - ma ormai, carico d'anni, non più in condizioni di sopportare fatiche di


33 1 guerra o di fuga - dopo aver maledetto in tutti i modi l'ideatore della rivolta Ambiorige, omnibus precibus detestatus, si uccise col iasso. I tre, sempiterni, obiettivi di guerra, che solo l'atomica ha reso del tutto indiscriminabili: le cose, il bestiame, gli individui umani. Ma impiegare la cavalleria per distruggere o solo danneggiare le cose - edifizi piante strumenti di lavoro depositi di viveri, e via dicendo - è come fermarla, paralizzarla : vi è affatto inadatta; il bestiame massacrato - la cavalleria trascinarselo dietro vivo non può - è certo grave danno, ma che genera più rancore e isolate reazioni che atterrite e generali fughe. A giudicare perciò da quanto abbiamo appena letto, su quale dei tre obiettivi Lucio Minucio Basilo avrebbe fatto, secondo gl i ordini, del suo meglio?

Ripercussione, a distanza, di tali fatti : Segni e Condrusi - popoli aneli'essi di stirpe germanica e fra i Germani, in Gallia annoverati, risiedenti tra Eburoni e Treveri, - inviarono a Cesare ambasciatori. Noi ti preghiamo - gli dissero questi inviati, che lo raggiunsero probabilmente ancora in marcia - di non mettere sullo stesso piano tutti i Germani che abitano al di qua del Reno (lo stesso accorato argomento degli Ub1): noi non abbiamo mai pensato alla guerra e nessun aiuto abbiamo dato ad Ambiorige. Iniziativa opportuna; perchè Cesare, dopo aver appurato da prigionieri che ciò rispondeva a verità, ordinò che Segni e Condrusi gli dovessero solo consegnare gli Eburoni che si fossero rifugiati presso di loro (imposizione odiosa, fra popoli sì affini). Se ciò avessero fatto (e più di qualche cosa dovettero poi mostrare di aver fatto), non avrebbe invaso le loro terre. (( FRA SETIE GIORNI )) ,

Sopraggiunsero le legioni. Cesare divise le truppe in tre parti, in tres partes, e raccolse in Aduatuca i bagagli di tutte le legioni, impedimenta omnium legionum Aduatucam contulit. Dice: « Aduatuca è il nome di una piccola fortezza, castelli nomen est, - quasi nel mezzo del territorio degli Eburoni - ed è il luogo dove Titurio e Aurunculeio s'erano fermati a svernare. Fra i motivi per cui avevo scelto quel luogo c'era quello che le fortificazioni dell'anno precedente erano ancora intatte, sì che ora ne sarebbe stata alleggerita la fatica ai soldati. A presidio dei bagagli lasciai la Quattordicesima - una delle tre legioni di reclute testè venute dall'Italia - e a capo della legione e del campo posi Quinto T ullio Cicerone, al quale assegnai duecento cavalieri ». Quinto Cicerone, il risoluto difensore del campo di Charleroi ; e in quanto al campo di Aduatuca, ce lo fa vivo il ricordo del diverbio fr-: Titurio e Cotta.


33 2 Nei pressi di Aduatuca dunque quasi al centro del territorio eburone, le truppe, divise in tre parti, - ciascuna con una propria aliquota di cavalleria, come poi risulterà - furono presto poste in marcia in tre diverse direzioni. Prima colonna: ordinò a Tito Labieno di partire con tre legioni in direzione del mare, battendo il territorio eburone che confina con i Menapt. Seconda colonna: inviò Caio Trebonio, con ugual numero di legioni, a devastare la regione degli Eburoni prossima agli Aduatuci. Terza colonna : egli, con le altre tre legioni (ecco che con la Quattordicesima in Aduatuca, risultano presenti tutt'e dieci) decide di dirigersi verso il fiume Schelda, ad Scheldam, che confluisce nella Mosa, in Mosam (vi confluiva, pare, a quei tempi ma non direttamente) e di raggiungere l'estremità delle Ardenne, dove gli dicevano che si fosse rifugiato Ambiorige con pochi cavalieri. Brevissima la sosta in quel di Aduatuca: a che scopo, altrimenti , il lancio della cavalleria se la fanteria non ne profitta subito? Le formiche, terrorizzate, si sono, sì, disperse in ogni dove, ma il legionario può ancora scovarle e schiacciarle prima che parte di esse abbia modo di porsi del tutto al sicuro. Le direzioni di marcia delle tre colonne sono segnate da dati topografici insufficienti, come ognuno avverte, a una loro soddisfacente individuazione: mare, confine fra Eburoni e Aduatuci, estremità delle Ardenne. Potremmo solo dire, approssimativamente: la colonna Labieno era diretta a nord; la colonna Cesare a nord - ovest; la colonna Trebonio a ovest o leggermente a sud - ovest. Sicchè, - su tali approssimazioni - supponendo il territorio eburone racchiuso in un cerchio, centro Aduatuca, avremmo che solo il quadrante fra ovest e nord è percorso da tre raggi, ossia dalle tre direttrici ora dette; il resto del!' area, per tre quarti, è vuoto. In pratica, perciò, la base logistica di Aduatuca riceverà protezione lontana, che è quanto dire riparo da grosse sorprese, solo in quel quadrante che rappresenta la zona attraversata dalle tre colonne, ognuna con la rispettiva cavalleria in esplorazione; tutto l'altro territorio che la circonda resterà inesplorato. Dice: « Partendo, annunciai che sarei ritornato in Aduatuca fra sette giorni, post diem septimum sese reversurum, perchè sapevo che quello era il giorno in cui toccava la distribuzione ·del grano, deberi frumentum, alla Quattordicesima. Pregai i comandanti. delle altre due colonne, Labieno e Trebonio, di ritornare anch'essi per quel giorno in Aduatuca - se però potevano farlo senza pregiudizio della situazione generale - in modo da poter scambiare nuovamente con loro le mie idee e, esaminata la condotta del nemico, riprendere se mai le operazioni con altre direttive ». Se Labieno e Trebonio sono in qualche modo vincolati ai sette giorni e se Cesare stesso dà per certo il suo ritorno al settimo giorno, tutt'e tre le colonne non potranno portarsi a grande distanza da Aduatuca. Nè, infatti,


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Adua tuca.

ai comandanti è dato di dimenticare che anche il ritorno, rapido che voglia farsi, richiederà tempo, nè dai soldati - i quali non dovevano solo marciare ma soprattutto devastare e razziare - si potrà pretendere una tappa giornaliera superiore ai venti chilometri, e forse anche non poco minore. Sette giorni, comunque, in cui il legionario schiaccerà, a una a una, le sbandate e fuggiasche formiche, già sicure di essere uscite salve dal cataclisma; sette giorni in cui i tre comandanti di colonna raccoglieranno i frutti del1'azione della cavalleria di Basilo. Questa era infatti la situazione, impressionante, del paese che le tre colonne dovevano percorrere: nessuna milizia costìtuita, non città fortificata, non aggruppamento d'armati pronto a difendersi: ma una moltitudine dispersa da tutte le parti, in omnes partes dispersa multitudo. Doue una valle


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nascosta, un luogo boscoso, una palude di difficile accesso, offrivano a ciascuno una speranza di difesa o di salvezza, lì si fermavano. Un paese in decomposizione dove devastazione razzia strage potranno compiersi senza eccessive preoccupazioni.

Ma subito, e diremmo contro ogni prev1s1one, le cose s1 complicarono.

Questi luoghi - valli recondite, fitte selve, paludi inaccessibili - erano conosciuti solo dalla gente del posto ed era perciò necessaria una grande prudenza, magnamque diligentiam ... Le legioni, sconosciuti i luoghi, marciavano nel buio. Ma perchè grande prudenza, magnam diligentiam, se agli atterriti Eburoni conveniva di trattenere anche il fiato pur di non far avvertire la lor presenza? Dice: « Bisognava procedere con grande prudenza ... non già perchè occorresse difendere l'esercito nel suo complesso - nessun pericolo collettivo poteva infatti provenirci da gente atterrita e dispersa - ma per assicurare la vita dei soldati isolati ». Prudenza e circospezione, cioè, per i drappelli che le varie necessità · operative e logistiche obbligavano a staccarsi dalle colonne; e perciò niente, in fondo, di straordinario : la solita solfa delle avanzate in paese ostile. Ma la verità non tarda a svelarsi. Dice: << Problema - questo delle misure prudenziali per gli individui isolati o per i drappelli - che finiva col riguardare tutto l'esercito, quae tamen res ad salutem exercitus pertinebat ... ». Nessun pericolo a tutto l'esercito da parte di gente atterrita e dispersa, · i pericoli però in cui incorrevano drappelli e soldati isolati, per opera di gente atterrita e dispersa, pur riguardavano tutto l'esercito: una contraddizione? Ma è la prima ammissione di una situazione fattasi tutto a un tratto imbarazzante. Nessun pericolo a tutto l'esercito quale avrebbe potuto provenire da forze nemiche più o meno organizzate: ma pur tuttavia in ogni dove un . pericolo, presente quanto impalpabile, che impone all'azione delle tre colonne un orientamento del tutto diverso .dal prestabilito. Dice: « Finiva col riguardare tutto l'esercito . . . perchè l'esca del bottino attirava molti lontano ... ». La spensierata impunità del primo giorno, o forse solo delle prime ore, cominciò, presto, a costar cara: neppur l'ombra, sicchè, di facili fortune. Dice: « Finiva col riguardare tutto l'esercito ... perchè i boschi, con t loro sentieri incerti e nascosti, impedivano la marcia a unità serrate ».


335 Aumento, per tutti, di fatiche, occorrendo tenere sotto vigilanza e protezione i tratti più scabrosi degli itinerari nonchè i fianchi delle colonne nonchè l'infinità, in marcia o in sosta, dei servizi spiccioli. Dice: « Se si voleva condurre a termine l'impresa di estirpare quella razza di uomini scellerati, stirpemque hominum sceleratorum ... ». Popolo residuo germanico in terra gallica e autore, con procedimento sleale, della strage di Tongres. Dice dunque: « Se si voleva condurre a termine l'impresa, .. . sarebbe occorso frazionare le forze inviando reparti in più direzioni; se in(lece si voleva tenere le unità riunite, - come era nelle norme e consuetudini dell'esercito romano - la natura dei luoghi offriva vantaggio ai barbari, e non mancavano fra questi gli audaci che tendevano agguati e accerchiavano gli elementi isolati ». Per conseguire positivi effetti, sarebbe occorsa la suddivisione di ciascuna colonna in robusti e numerosi distaccamenti, sì che il terreno fosse ovunque battuto: ma ciò, nell'intrigo di valli selve paludi, era impossibile a chi non conoscesse i luoghi; senza contare che tali procedimenti tattici non erano nelle consuetudini, nell'indole anzi, dei Romani. Ma più grave era che non si presentava agevole neanche l'avanzata a unità riunite poichè non mancavano audaci raggruppamenti nemici che, con agguati, addentavano dove potevano. I pericoli, pertanto, degli allungamenti, dei vuoti, degli intoppi delle salmerie, propri delle marce nei boschi; e qui erano selve quasi vergini. Gli Eburoni, costretti, autore Basilo, a sbandarsi, riapparsi dunque - insospettata l'immediatezza e la veemenza - con la guerriglia. La quale dovè lasciare, a tutta prima, più d'un segno cruento. Dice infatti: « Date queste difficoltà, si prendevano tutte le precauzioni possibili, preferendo lasciar sfuggire qualche occasione di nuocere al nemico - anche se gli animi di tutti ardevano dal desiderio della vendetta - piuttosto che apportargli danni che costassero a noi perdite di uomini ». Tre poderose colonne, sconfortate dalla fallita speranza di bottino facile, costrette a procedere difendendosi anzichè offendendo. E passi quando l'avversario è un leone, chè essendo il leone re della foresta c'è pure di che inorgoglirsi e vantarsi, appena in salvo, della propria fuga; ma punture di formiche, se eccedono, possono provocare scatti di rabbia e ostinazioni crudeli.

A PPELLO AL VICINATO.

Scatto di rabbia, se non vogliamo dirlo appello al brigantaggio, è infatti la nota che segue. Dice: « Mandai messi ai popoli confinanti, tutti invitandoli, con la spe-


ranza della preda, spe praedae, a partecipare allo sterminio degli Eburoni, ad diripiendos Eburones ... ». Menapt, Nervt, Aduatuci, Segni e Condrusi, alleati e parenti degli Eburoni, dovevano ora, su quell'invito, tramutarsi in massacratori e razziatori. Dice finanche: « Li invitai .. . perchè preferivo che nelle selve, invece dei legionari, andassero ad arrischiare la vita i Galli, e perchè contavo con una immensa invasione, di cancellare la razza e finanche il nome, stirps ac nomen, di un popolo colpevole di un così grande delitto ». Sibila l'odio. E gente infatti accorse subito, in gran numero, da ogni parte, magnus undique numerus celeriter. Il buon vicinato entrò dunque nel territorio eburone in folla, magnus numerus, da tutt'e quattro i punti cardinali, undique, motorizzato, celeriter. Sebbene, ci sembra, dovè essere instancabile a razziare ma a uccidere, che è quanto ci voleva per servir Cesare a dovere, dovè esserlo assai meno.

S 'AVVICINAVA IL SETTIMO GIORNO ...

Mentre ciò si svolgeva in tutto il territorio degli Eburoni, - nelle zone percorse dalle tre colonne e nelle zone invase dai vicini - e già si avvicinava il settimo giorno, diesque adpetebat septimus, in cui Cesare aveva stabilito di tornare in Aduatuca dov'erano i bagagli e la Quattordicesima ...

A questo punto, ha inizio un singolare e grave episodio per il quale può forse essere utile tener presente la nostra figurazione del territorio eburone suddiviso in quadranti. Dic<:: << Qui si potè vedere quale influenza abbia la fortuna in guerra,· quantum in bello Fortuna possit, e la varietà dei suoi casi». Uno di quei casi, in effetti, in cui non si può fare a meno di dire che il diavolo vi mise la coda.

D UEMILA FURFANTI.

Dice: « Sbandati e atterriti i nemici, dissipatis ac perterntls hostibus, nessun raggruppamento di forze esisteva, manus erat nulla, che potesse dare la minima preoccupazione, parvam causam timoris ». Una ripetizione, come ben avvertiamo. Ma meditata. Sembra che voglia dire: la vostra napoleonica suddivisione in quadranti tende a porre in risalto, col solito senno di poi, che in gran parte del territorio· attorno ad Aduatuca non era stata presa alcuna misura di sicurezza, anche solo esplorativa, che


337 garantisse quella base da grosse sorprese: ma Aduatuca avrebbe potuto restare anche scoperta del tutto, assicurata éom'era dalle sue difese dirette, fortificazioni e truppe che la presidiavano. Ma ecco l'insospettabile sorpresa, la coda del diavolo. Ai Germani oltre Reno giunse la notizia che gli Eburoni erano condannati allo sterminio, e, per di più, che tutti i confinanti erano chiamati alla preda, omnes ad praedam. La notizia giunse così anche ai Sugambri, anch'essi confinanti, al Reno, con gli Eburoni. Quei Sugambri che due anni or sono dettero ricetto ai superstiti Usipeti e Tencteri e il cui territorio fu in parte da Cesare percorso e devastato dopo il primo passaggio del Reno. I Sugambri raccolgono duemila cavalieri, passano il Reno su navi e zattere a un quaranta chilometri un po' più a valle del luogo dove Cesare aveva costruito il ponte e lasciato il presidio (passarono in quel di Colonia, dunque) e superano i confini degli Eburoni, impadronendosi di gran quantità di bestiame. Allettati dalla preda, s'internano nel paese: uomini cresciuti nella guerra e nelle rapine, in bello latrociniisque natos, non li trattiene nè la palude nè la selva, non palus non silvae. Fecero assai più, senza dubbio, può ognora accadere, questi duemila furfanti che le tre mastodontiche colonne. Quei duemila chiedono a indigeni catturati dove sia Cesare e vengono a sapere eh'egli era lontano e s'era portato dietro tutto l'esercito, omnemque exercitum discessisse ... Barbari che fossero, ebbero un tempo di arresto: si orientarono. Sicchè nulla toglie al loro merito la notizia che segue . . . . Ma un indigeno da essi catturato disse: perchè vi perdete dietro questa nostra misera ed esigua preda voi che avete la possibilità di fare grossa fortuna, quibus licet esse fortunatissimos? In tre ore potete raggiungere Aduatuca: colà l'esercito romano tiene tutte le sue ricchezze, omnes suas fortunas; le truppe del presidio sono così poche che non bastano neppure a occupare tutto il muro e nessuno osa uscire fuori del campo, neque quisquam egredi extra munitiones audeat ... Una normale cavalcata di tre ore significa che i duemila Sugambri pote,. vano trovarsi un quaranta chilometri da Aduatuca; dopo che già ne avevano percorso una settantina - razziando però e azzuffandosi, e perciò a velocità ridotta - dal Reno di Colonia . . . . Balenata tal speranza, i Germani nascondono la preda già fatta e si dirigono verso A duatuca, guidati da quello stesso indigeno che aveva dato le informazioni. Indigeno che ha anche detto che dei Romani in Aduatuca nessuno osa - e non è un complimento - uscire dalla ridotta.

22, •

u.s.


L'invito alla preda, passato il Reno, era dunque giunto anche ai Sugambri. Questi avevano raccolto duemila cavalieri e, in possesso di un certo numero di natanti, avevano traghettato, anche ricorrendo a più viaggi, se stessi e i quadrupedi; invaso il territorio degli Eburoni, essi avevano poi speso una certa quantità di tempo, pur percorrendo settanta e più chilometri, nel far bottino pesante e lento quale il bestiame; essi infine - come presto apprenderemo - giunsero addosso a Quinto Cicerone proprio in quel settimo giorno in cui Cesare avrebbe dovuto già essere alla base o farvi ritorno. I Sugambri, insomma, ebbero sette giorni per fare quanto è descritto nel nostro riepilogo, portandosi, per oltre cento chilometri, dalla lor sede oltre Reno, in quel di Aduatuca. Sette giorni ? Ma Cesare aveva deciso l'invito ai confinanti dopo che aveva lasciato Aduatuca e dopo che aveva costatato che allo stato delle cose, stante l'organizzazione delle sue forze inadatta alla bisogna, non avrebbe potuto raggiungere rapidamente il risultato voluto. Decisione dunque presa dopo il manifestarsi, e in un certo modo l'affermarsi, della guerriglia: due tre quattro giorni, quanti volete, dalla partenza da Aduatuca. E se pure, sforzando, si voglia porre la decisione al cadere del terzo giorno, la notizia non potè giungere oltre Reno, sforzando anche qui, che al quarto. Da sette giorni bisogna detrarne quattro. Tutta la serie di atti, in pratica complessi, da noi riepilogati, i Sugambri l'avrebbero perciò compiuta, senza preavviso e preparazione, in meno di tre giorni. Troppa grazia. Può farsi strada perciò l'ipotesi che la colonna volante dei razziatori germanici fosse già in territorio eburone quando le legioni giunsero ad Aduatuca; entrata, diremmo, prima dei g:1Joppi di Basilo. Ma che i duemila fossero in territorio eburone prima o dopo le legioni. non ha valore determinante ai fini dell'avvenimento a cui ora assisteremo: altre circostanze lo caratterizzano meglio o quasi del tutto.

IL

DUBBIO DI QUINTO CICERONE.

Quinto Cicerone non aveva alla sua dipendenza, nella ridotta di Aduatuca,- solamente la Quattordicesima, un,ità di reclute, e duecento cavalieri: aveva anche - e li vedremo presto uscire dall'ombra ~ una vera moltitudine di personale addetto ai servizi, magna multitudo calonum, nonchè molti ammalati, feriti e convalescenti, complures aegri. E forse a lui stesso era stato dato un tal comando da retrovia perchè, come ci fu detto a Charleroi, non buone le sue condizioni di salute. Saremmo in agosto: piena estate, comunque. E perciò festa della natura fuori della ridotta: confortevoli ombre in boschi secolari, corsi d'acqua a


339 refrigerio delle membra, messi e frutta giunte a maturazione e non raccolte, l'illusion che mai non cessa di trovar, spostandosi, le cose più desiate ... Briciolo di lirismo per avvicinarci qualche po' allo stato psicologico dei Romani in Aduatuca. Tanto più che quella ridotta, costruita in autunno per lo svernamento di quindici coorti e poca cavalleria, cioè per truppe in complesso omogenee, era stata ora, in piena calura estiva, intasata di tutto l'infinito ingombrante carreggio e di tutte le infinite onerose e afrose salmerie esuberanti alle operazioni in corso, - e figuratevi l'infinito brulicame ronzante dei caloni - più una legione, più duecento cavalieri, più un certo numero, ma pochi non dovevano essere, di gente che avrebbe avuto bisogno di un assetto che oggi si direbbe ospedaliero o da convalescenziario. Quinto Cicerone .che, secondo gli ordini di Cesare, praeceptis Caesaris (Cesare dunque, per aver dato l'ordine che ora leggiamo proprio tranquillo, come testè ha detto, non era), in tutti i giorni precedenti aveva tenuto rigorosamente, summa diligentia, i soldati consegnati nel campo e non aveva permesso che neppure l'ultimo servo si avventurasse fuori delle fortificazioni, nel settimo giorno, septimo die ... Settimo giorno: quello in cui Cesare avrebbe dovuto già trovarsi, o giungere, alla base per distribuire il grano alla Quattordicesima. Quinto Cicerone, dunque, e per obbligo e per zelo, aveva fatto per alcuni giorni il rigoroso, e nelle condizioni più antipatiche che si possano immaginare: imponendo a tutti la clausura, quando intorno tutto taceva, tutto richiamava pace, non un sibilo uno solo di freccia. Nel settimo però, ... diffidando, diffidens, che Cesare sarebbe stato puntuale sia perchè (particolare importante) aveva sentito che s'era spinto molto lontano, longius progressum, sia perchè non gli giungeva alcuna notizia del suo ritorno ... Ha dunque diffidato di Cesare al sorgere dello stesso settimo giorno, come se un appuntamento di guerra non avesse valore solo orientativo. Dubitando che Cesare sarebbe stato puntuale . . . e nello stesso tempo scosso dalle proteste, simul permotus vocibus, di quanti dicevano che con la sua pignoleria si sentivano quasi degli assediati, illius patientiam paene obsessionem appellabant, dal momento che non era lecito uscire dal campo .. . Al dubbio, Quinto Cicerone, fu dunque anche spinto; e forse gli occorse uno sforzo, tirarla coi denti, per giungere al settimo giorno, tanto in quel recinto dovettero subito appesantirsi per tutti le condizioni di vita. E quasi certamente, è la nota dolente di sempre, più avrà inasprito gli animi l'insufficienza di acqua, ora che anche un gran numero di quadrupedi era a carico dei pozzi e delle cisterne della ridotta. . Ma da chi più specialmente poterono venire le proteste contro la « patlentiam » di Cicerone se escludiamo, anche se non del tutto, le reclute della Quattordicesima nonchè gli ausiliarì galli di cavalleria nonchè i caloni, tutta gente senza voce in capitolo? Restano i centurioni, o ufficiali che dir si voglia,


della Quattordicesima; restano, soprattutto, i << complures aegri », i molti legionari, ufficiali e non ufficiali, indisponibili per motivi di salute. Ammalati, feriti, convalescenti, rispettabilissime persone che però, staccate dall'ingranaggio gerarchico della propria unità, si sentono - forse anche allora alquanto e spesso del tutto dispensate dagli obblighi della più comune disciplina. I feriti specialmente, se la ferita ha lasciato l'uso della favella. Un imberbe, ferito, è all'istante anziano coi baffi, un anziano coi baffi, guerriero mitico: hanno provato tutto, sanno tutto, prevedono tutto, danzano sulle più squisite trascendenze strategiche; tutto epico quando c'erano loro, tutto meno che mediocre ora che loro, purtroppo, non ci passono essere. Comunque: dobbiamo riconoscere che aveva sotto di sè personale eterogeneo, questa volta, Quinto Cicerone; ambiente da retrovia, ben diverso da quello, un nove mesi or sono, di Charleroi. Cicerone, pertanto, dubitoso del ritorno di Cesare, scosso dalle proteste, ... pensò che non r/ era alcun pericolo a far uscire i soldati per un raggio di circa cinque chilometri, in milibus passuum tribus, in un paese dove i nemici erano stati dispersi e quasi distrutti, dispersis ac paene deletis, da nove legioni e numerosissima cavalleria ... E che sono cinque chilometri? All'alba dunque, o quando che fu, di quel memorabile settimo giorno, Quinto Cicerone ... mandò cinque coorti, quinque cohortes, a raccogliere frumento, frumentatum, - non dunque a diporto - nei campi più vicini, campi che solo un colLe, unus omnino collis, separava dalla fortezza; e siccome le legioni avevano lasciato nella ridotta parecchi ammalati, com plures aegri, circa trecènto di questi, i guariti, riuniti in un unico reparto vengono mandati insieme con le coorti, circiter trecenti sub vexillo una mittuntur. Inoltre: ottenuto il permesso, facta potestate (espressione superflua se non valesse a ribadire che anche la moltitudine di cui ora sentiremo fu aggregata . alla colonna con tanto di autorizzazione di Quinto Cicerone), ottenuto dunque il permesso, li segue una moltitudine di caloni, magna m ultitudo calonum, con gran quantità di quei quadrupedi da soma eh'erano stati lasciati nel campo. Impellente necessità di viveri e foraggi o situazione temporaneamente rimediabile con una stretta di cinghia? Nel primo caso, bisognerebbe pensare che se nel settimo giorno il grano, portato da Cesare o da chi si sia, non fosse giunto, da tutte le scorte di viveri nel presidio non c'era di che sfamare, almeno per ventiquattr'ore, la Quattordicesima. I potesi estrema; ma che pur resta in piedi dato che nella rei azione non siamo riusciti a trovare l'informazione, esplicita o implicita, che Quinto Cicerone fosse nelle condizioni di poter attendere qualche altro giorno. Di concreto, a tal riguardo, non c'è che la dichiarazione che Cesare ci ha tenuto a fare nel momento in cui lasciava Aduatuca, e che giova riascoltare:


34 1 « Sapevo che quello era il giorno in cui bisognava distribuire il grano alla Quattordicesima ». Uscirono dunque dalla ridotta, e passiamo anche dire allegramente, cinque coorti, ossia mezza legione, più un reparto di circa trecento legionari anziani, più una lunga fila di caloni e salmerie; il tutto sotto scorta, come presto ci risulterà, di cavalleria, quanta non sappiamo. Spensierata e allegra la colonna; distensione di animi, se non beata pigrizia, nell'interno della fortezza, fattasi tutt'a un tratto larga e silenziosa. Oggi, almeno, sarebbe così.

TUTTO IL CAMPO IN TUMULTO.

Senonchè, caso vuole che proprio in quel momento sopraggiungano i cavalieri germani, hoc ipso tempore et casu Germani equites interveniunt, i quali, immediatamente, con la stessa foga con cui erano arrivati . .. No, no: non si scontrarono con la colonna; e sarebbe stato per i Romani gran beneficio se ciò fosse avvenuto vicino alla ridotta. Avvenne invece che i duemila, con la stessa foga con cui erano arrivati, senza affatto avvertire la colonna appena uscita ... tentarono di irrompere nella ridotta dalla porta decumana ... La colonna dei- mietitori era dunque lontana e forse già sui luoghi di mietitura. Sicchè, per un certo tempo, coloro che erano usciti dalla ridotta, sia per il divisorio colle fra ridotta e luoghi di mietitura sia perchè affaccendati su grato suolo, nulla avvertirono di quella complicazione. I duemila tentarono di irrompere dalla por ta decumana ... e siccome da quella parte c'erano dei boschi, non furono visti prima che si fossero avvicinati al campo. Tanto che i mercatores, - gli indigeni del piccolo commercio con i soldati - accampati all'esterno, a ridosso del vallo, non ebbero neppure il tempo di ritirarsi: furono cioè senz'altro accoppati, come i lignatores di Tongres e di. Charleroi. I legionari nella ridotta, inopinantes, senza alcun sospetto, - essendo la cosa davvero inimmaginabile - si spaventarono, perturbantur: e la coorte di guardia alla decumana resistè a stento al primo urto. Senza interrompere l'attacco alla decumana, i nemici si sparsero tutt'intorno per cercare un'entrata. I legionari con difficoltà difesero le porte. E meno male che i punti attaccabili non potevano essere altro che le quattro porte, ognora presidiate: chè la posizione stessa dove la ridotta sorgeva - merito, questo, di Tihtrio Sabino - e per elevatezza e per fortificazione rendeva inaccessibili a quegli improvvisati assaltatori gli altri luoghi. Tutto il campo è in tumulto, totis trepidatur castris. E' un incrociarsi di richieste per sapere la causa di quel subbuglio.


34 2 Ma qui la scena è interrotta da un brusco apprezzamento di Cesare: non si pensa a far prendere posizione alle Insegne nè dove gli uomini dovessero accorrere: nessuno manifestò energia di comando e dette ordini con l'im mediatezza ch 'era necessaria (maggior bersaglio, evidente, è il fratello di Marco T ullio). Cht grida - gli emotivi - che il campo è già preso; chi pretende - i catastrofici - che i barbari siano giunti dopo aver annientiito l'esercito e il suo capo (qualche non lieta notizia era dunq ue giunta circa le punture delle formiche) ; subentra - i superstiziosi - l'incubo della iettatura: i più, plerique, pensano a qualche triste fatalità gravante sul luogo e rievocano, sino all'allucinazione, an te oculos ponunt, la sciagura di Cotta e Titurio, periti - secondo il racconto, all'ingrosso, dei soldati - in quella stessa ridotta, in eodem castello. Per un periodo di tempo che non si può precisare, sicchè, combatterono, o comunque subirono pressione nemica, solo le truppe dei quattro corpi di guardia: quattro coorti, se una per porta. Cinque coorti uscite e quattro alle porte: una sola coorte restava dunque per gli spalti; per quei tratti che special mente avevano dominio di tiro sugl i accessi alle porte. E si può senz'altro porre in rilievo che ai SugamLri, superata che avessero una porta, ben poca resistenza poteva essere opposta, da infermi convalescenti reclute, nell'interno della ridotta. Di fronte a questo sbigottimento generale, i barbari - poca o nessuna reazione avvertendo dagli spalti - si confermano nel 'opinione che dentro non vi sia alcun presidio, nullum intus praesidium. Uniche resistenze, dunque, quelle alle porte: tentano perciò di sfondare, e si esortano a non lasciarsi scappare dalle mani una sì grande fortuna. Se il campo romano cadrà o, per meglio dire, se il campo romano dovesse essere sottoposto ai danni e alle distruzioni dei mezzi in esso raccolti - quadrupedi carri armamento officine parchi uffici archivi, e via dicendo - ; se dunque i Sugambri penetreranno in quel recinto, il meno che ai Romani potrà accadere è una paralisi operativa di qualche mese (e da cosa nasce cosa). Giova perciò, a questo punto, richiamare un dato capitale dell'impianto operativo di questa campagna: l'unica base logistica dell'esercito era affidata a duecento cavalieri e una legione di reclute. Fra i malati lasciati ad Aduatuca (Cesare, quando vuol attenuare l'impressione di fatti sgraditi, accende sempre, come abbiamo notato, un variopinto fumogeno) c'era Publio Sestio Baculo, del quale /è fatta menzione nel racconto delle battaglie precedenti. Costui era già stato centurione del più alto grado agli ordini di Cesare .. .


343 Doveva essere, ora, nella pos1z1one di « revocatus », richiamato, con qualche particolare incarico. Quattro anni or sono, come ricordiamo, durante la battaglia della Sambra, Cesare lo ha scorto « ferito da numerose e gravi ferite, e non più in grado di reggersi », e appena qualche mese dopo era stato uno dei maggiori protagonisti nell'ardua difesa di Octoduro: « Si era già all'estremo quando P. Sestio Baculo e con lui il tribuno Caio Voluseno corrono a Galba e gli dimostrano ... » . . . . Sestio Baculo era già al quinto giorno che non toccava cibo. Preoccupato della salvezza sua e di tutti (non s'era, per caso, posto anche lui contro la « patientiam » di Cicerone?), esce senza armi dal suo alloggio. Vede che i nemici incalzano e valuta l'estrema gravità della situazione, in summo esse rem discrimine (sta per essere invasa e distrutta la base logistica delle tre colonne in operazione : Cesare ce lo fa vedere con gli occhi di Baculo). Prende le armi dai più vicini e si pianta sulla porta (il limitare di quella porta già dunq ue ai nemici accessibile perchè vuoto di difensori). I centurioni della coorte di guardia lo seguono: e così, tutt'insieme, resistono per un poco. Sestio Baculo, infine, gravemente ferito , sviene: a stento riescono a salvarlo l'uno passandolo all'altro. In questo frattempo, gli altri riprendono animo, sino al punto che osano fermarsi sulle opere e danno l'impressione, perbacco, di difensori. Di Quinto Cicerone - ma che gli era successo? - neppur una parola. Però Aduatuca non si salvò per opera delle truppe del presidio: l'intervento di Baculo servì solo, se mai, a guadagnar tempo; si salvò alle dure condizioni che ora sentiremo, per opera, ancora, del caso.

RITORNA LA COLONNA.

Intanto, finita la raccolta del frum ento, i componenti della colonna - ecco riapparire, di ritorno, l'allegra colon na di cui quasi ci eravamo dimenticati - odono da lontano le grida, clamorem exaudiunt. I cavalieri a essa di scorta, allora, corrono innanzi e si rendono conto di quanto la situazione sia critica, quanto sit res in periculo. La colonna, appena tali notizie si propagarono, fu invasa da un panico maggiore di quello che aveva sgominato comandanti e gregari nel campo; una più nera costernazione: qui, infatti, non c'era alcuna fortificazione che potesse servire da riparo agli sbigottiti, nulla munitio quae perterritos recipiat. Di unità omogenee non c'erano che le cinque coorti (ma Quinto Cicerone le aveva poste sotto unico comandante? c'è da dubitarne tanto egli riteneva impossibile un im piego di combattimento) e i duecento cavalieri (ma Q uinto Cicerone li aveva inviati tutti? Ci sarebbe da pensare che ne avesse inviati, per collegamento più che altro, solo parte); tutto il resto, « anziani » (armati, sembra) e caloni (disarmati, sembra), non aveva sostanziale coesione.


344 Ma le cinque coorti, pur omogenee, eran di reclute: quei soldati, arruolati da poco (un cinque sei mesi), d'insufficiente istruzione militare (oggi, in mancanza di meglio, si e< fa fuoco » : ma allora?), guardano al tribuno (investito del comando sia pur solo nominale, di tutta la colonna? ma da quanto ora sentiremo, non si direbbe) e ai centurioni, aspettando i loro ordini. Che aspettino pure. Gli anziani, i comandanti - quelli, appunto, che più e subito avvertono le conseguenze di certe situazioni - hanno perduto la testa: nessuno è così forte da non essere turbato dalla sorpresa, nemo est tam fortis ... Animi ancora esaltati dai racconti che avevano seguìto l'eccidio di Sabino e Cotta: la fantasia vedeva ovunque catastrofi. Ma int~nto, per questa fortuita tempestività del ritorno della colonna, il campa è salvo: i duemila vedono da lontano le Insegne e desistono dal/'attacco, oppugnatione desistunt. Anzi: i duemila, in un primo momento, credono che sian di ritorno le legioni, che gli indigeni pur avevano date per lontane.

LA SOLUZIONE

DEI VETERANI.

Timore però di breve durata: i duemila, posta in non cale l'esiguità delle forze della colonna (non era poi tanto esigua : forse più di duemila uomini solo le cinque coorti), la attaccano da tutte le parti. Da tutte le parti, ex omnibus partibus, e quindi anche da tergo. . Sicchè i primi a esplodere furono, naturalmente, i caloni con i muli, che non potremmo fare a meno di suppc:-re, essendo esigenza di sempre in marce ordinarie, in coda alla colonna. Il tumulto, allora, di centinaia di caloni in cerca di salvezza là dove l'istinto li spinge: i caloni, per incitare i muli alla corsa, urlavano; i muli, eccitati, calciavano o se abbandonati si sbandavano all'impazzata . I cafoni corrono su un'altura vicina, in proximum tumul um; e sono proprio essi i primi, vuoi per l'attrattiva della gran quantità di quadrupedi vuoi per il tumulto, a costituire obiettivo per il nemico : scacciati rapidamente • da quell'altura, celeri ter deiecti ... Posti in fuga da quella pasizione che era sembrata la salvezza, l'istinto li chiamò verso il luogo dove spuntavano le Insegne, ossia verso quelle povere reclute che, pur s.e schierate, aspettavano, mute almeno, gli ordini dei comandanti; piombarono addosso alle reclute, a esse frammischiandosi e portandovi il loro terrore. Scacciati rapidamente, adunque, da quell'altura, ... puntano sulle Insegne e si cacciano fra i manipoli, in signa rnanipulosque, e questo accresce lo scompiglio dei soldati già turbati per conto proprio.


345 Tuttavia, in quel marasma, a un certo punto, fra alcuni comandanti e, chi si sia dei tre aggruppamenti - anziani, coorti, caloni - un certo scambio di vedute, rapido e agitato che fosse, ci dovè essere. Affiorarono due soluzioni. Alcuni, data la vicinanza del campo, propongono di assumere formazione a cuneo e aprirsi rapidamente un varco: anche se una parte, circondata, fosse caduta, il resto, pensano, avrebbe potuto salvarsi. Tutti uniti nell'arduo ma breve trapasso dalle posizioni dove trovavansi alla ridotta; la sorte, dopo che tutti avessero fatto il possibile per aiutarsi a vicenda, avrebbe deciso della vita e della morte di ognuno. Bisognava far subito massa, la più compatta possibile; un cuneo, cioè, estemporaneo, condotto dai trecento anziani (se fossero stati senza armi Cesare, come poc'anzi per Sesto Baculo, l'avrebbe detto) e da quanti altri, gente di fegato, potesse comunque prestarsi. Ma la colonna, sorpresa mentre marciava in assoluta sicurezza e perciò con i tre aggruppamenti (in testa, sembrerebbe, i trecento anziani) l'uno dall'altro distante non poco e forse parecchio - al che è da aggiungere il fra mmischiamento la dispersione il disordine provocati dai caloni - ma la colonna, c'è da chiedersi, era nelle condizioni di far subito massa, operazione, come tutte le cose militari, sì semplice a pensarsi e così connaturale, in questo caso, all'istinto di salvezza di ognuno? A ltri - e siamo alla seconda soluzione - vorrebbero occupare un'altura, alii ut in iugo consistant, e qui affrontare, tutti insieme, omnes, la stessa sorte. U na colonna in pericolo che possa, anche a fatica, serrare le distanze, sino a divenire torrente in piena, sfocia senz'altro nella soluzione del cuneo; è cuneo, salvo i rapidi adattamenti del caso, di per sè: e chi, in tal situazione, potrebbe mai pensare ad arrestare il movimento anzichè affrettarlo? Se dunque affiorò per parte di alcuni anche una soluzione che potremmo chiamare statica, se la soluzione del tutto dinamica creò dubbio e forse opp<>sizione, vuol dire che la colonna non era nelle condizioni per far massa subito; potrebbe voler d ire che essa, tutta o parte, era in stato di accentuata dispersione. Il cuneo può salvare, sì, gli audaci, i destri, e tutti i fortunati che potranno immediatamente giovarsene: ma quanti altri si lascerà dietro, destinati, senza remissione, alla strage? - questo avranno pensato i comandanti veri, quelli che in primo luogo non dimenticavano l'inefficienza combattiva di cinque coorti e poi neppure l'inevitabile abbandono di gran numero di quadrupedi che si sarebbe verificato in quella specie di si salvi chi può. Ecco però, a questo punto, riapparire, e con importanza determinante agli effetti della decisione (del tribuno che era con le reclute più nessuna traccia), i veterani. Quei trecento che, come s'è detto, erano partiti dalla ridotta costituiti in reparto, sotto il comando - possiamo ora aggiungere - di un Cavaliere Romano (chi è ? come si trova qui ?) a nome Caio Trebonio.


I veterani non approvano la seconda soluzione, hoc veteres non probant milites; essi pertanto (dal detto al fatto, subito: erano in testa alla colonna e i più vicini alla ridotta ?), esortatisi a vicenda, sotto il comando del Cavaliere Romano Caio Trebonio, duce Caio Trebonio cquite romano, passano di forza (ossia di corsa) attraverso i nemici e raggiungono la ridotta incolumi sino all'ultimo uomo, incolumesque ad unum omnes (il Cavaliere Caio Trebonio aveva fiutato, in un attimo, l'affare : ne ppure un contuso). Caloni e cavalieri, seguendo gli anziani col medesimo impeto, riescono, per merito di quei soldati, a salvarsi. I cavalieri dovevano essere pochi, altrimenti avrebbero svolto azione, in qualche modo, autonoma; in quanto ai caloni, dire che si salvarono, anche se tutti , non appaga: quanti quadrupedi abbandonarono alla lor sorte ?

At ii qui in iugo constiterant: ma quelli che erano rimasti sul 'altura ... Su un'altura - quella, probabilmente, proposta per la riunione di tutti -c'erano, ferme, le cinque coorti di reclute. Ma q uelli che erano rimasti sull'altura, ... non avendo nessuna esperienza militare, non riuscirono 11è a mantenere il piano adottato di difendersi da posizione elevata (fare il cerchio? il cerchio senza reazione di truppe ::iddestrate, non è, come a Tongres, eccidio sicuro? volete che il Cavaliere Trebonio e anziani non avessero valutato - non c'era altro, se s'accettava la soluzione statica - il cerchio?), nè riuscirono dunque a mantenere il piano di difendersi da posizione elevata nè poterono imitare l'energia e la celerità che avevano visto giovare agli altri. Le cinque c-0orti (il tribuno aveva fatto anche lui l'anziano?), pertanto, si mossero: ma avendo tentato di raggiungere la ridotta, - forse tentarono il tragitto più breve, per fatalità il m eno idoneo - andarono a finire in un avvallamento, su posizione sfavorevole, iniquum in locum. Avvenne pertanto ciò che doveva avvenire. I centurioni ... Un particolare (il fumogeno): la Quattordicesima aveva un certo numero di ufficiali ancora in quella specie di ebrezza pugnace che di solito infondono (nei più generosi) le promozioni appena conseguite. I centurioni, dunque, alcuni dei quali, nel trasferimento da altre legioni a questa di nuova costituzione, erano stati, per i loro meriti guerrieri, promossi di grado, ex ìnferioribus ordinibus in superiores, non volendo compromettere la loro fama, caddero combattendo con grande valore. Una parte dei soldati - quelli che riuscirono a farsi strada in mezzo ai nemici - raggiunse incolume il campo, contro ogni speranza, praeter spem (già : le cinque ;·oorti erano state date senz'altro per spacciate dal Cavalier Trebonio) ; una parte (quanti? lo sapremo dopo: troppa soddisfazione per i Sugambri dirlo or:i), circondata dai barbari, fu uccisa.


347 Tutto dovè compiersi in poco tempc, appena qualche ora; se si fossero manifestate accanite resistenze, ci sarebbero state, come al solito, puntualmente segnalate, sia pure con un avverbio. I Germani, disperando di poter espugnare il campo perchè vedevano che i Romani avevano ormai occupato gli spalti, nostros iam in munitionibus, si ritirarono al di là del Reno con la preda depositata nei boschi allorchè, su indicazione dell'indigeno, s'erano diretti ad Aduatuca. E la preda fatta alla colonna? quanti quadrupedi, quante armi, quanto altro materiale di valore? Si ritirarono saturi di bottino, senza disappunto, diremmo, per gli spalti occupati: era già troppe ciò che dovevano portarsi dietro. QUASI PA'ZZI . •.

Ma nella ridotta, iettata (c'è poco da sorridere), anche dopo l'allontanamento dei Sugambri, la paura era così grande, tantus fuit terror, che, quella notte, - la notte fra il settimo e l'ottavo giorno - essendo giunto al campo Caio Voluseno mandato innanzi con la cavalleria, non riuscì a far credere che Cesare era ormai vicino con l'esercito incolume. Il terrore aveva preso talmente tutti gli animi che, quasi pazzi, paene alienata mente, dicevano che, distrutte tutte le truppe, soltanto la cavalleria era riuscita a salvarsi con la fuga e affermavano che con l'esercito incolume i Germani non avrebbero attaccato il campo. Quasi pazzi : anche l'aspetto e il tono dei cavalieri di Voi useno, dei reduci dalla guerriglia, ci viene il dubbio che non fosse allegro. L'arrivo di Cesare mise fine a quel panico. Sì; ma quanto tempo trascorse dall'arrivo di Voluseno all'arrivo di Cesare ? Il tribuno Voluseno (lo trovammo in audace ricognizione, due anni or sono, delle coste britanniche), comandante d'una aliquota di cavalleria, entrò dunque in Aduatuca ia notte che seguì l'infausto giorno. E se anche vi entrò qualche ora dopo la mezzanotte, pcssiamo ben dire che Cesare ha riparato così come ha potuto al mancato appuntamento : non potendo arrivar lui, ha spedito in tempc chi annunziasse imminente il suo ritorno. Ma quanto tempo intercorse dall'arrivo di Voluseno all'arrivo delle tre legioni? Se il tempo di una tappa a piedi, poche ore, Cesare sarebbe giunto in Aduatuca l'ottavo giorno : ritardo trascurabile, anche nel caso di disperata penuria di viveri. Se invece Voluseno fu inviato per attenuare negli animi gli effetti depressivi - chè certo non era lui che portava il grano - di un ritardo che si


pre~edeva di più giorni; se, perciò, fra l'arrivo della cavalleria e l'arrivo delle legioni intercorsero più giorni, - tre quattro cinque: chi può più dirlo? diventerebbe fondata l'apprensione di Cicerone che Cesare non potesse essere puntuale perchè s'era spinto lontano e che quindi non bisognasse persistere - se assoluta la necessità di viveri - nell'inerzia. Dice : « Ritornato che fui in Aduatuca, non ignorando certo quello che può capitare in guerra, una cosa soia deplorai: che le coorti fossero state distolte dal loro compito di guardia e di difesa della base. Non si sarebbe dovuto lasciare neppure il più piccolo margine al caso. Giudicai, tuttavia, che la sfortuna aveva avuto gran parte nell'improvviso arrivo dei nemici, multum Fortunam potuisse; ma molto più, multo amplius, aveva potuto la buona fortuna nell'allontanare i barbari dal vallo e dalle porte del campo» . T utti si potevano impiegare nella colonna di mietitori tranne le reclute (ma se ci fosse stato il minimo sospetto di insicurezza non sarebbero stati impiegati nè reclute nè anziani nè caloni). Quinto Cicerone, chiamato in causa per i suoi dubbi e per la sua decisione del settimo giorno (ma la coda del diavolo che ha posto in evidenza sicurezza e approvvigionamento di Aduatuca non chiama solo lui), non è più nominato. Dice : « In tutto questo, la cosa più strana era che i Germani, passato il Reno per devastare il paese di Ambiorige, erano capitati al campo dei Romani portando ad Ambiorige il più grande aiuto che questi potesse desiderare, optatissimum Ambiorigi beneficium » . Un modo elegante per non dire '< un gran danno a me 11.

IL

FAKTASMA AMBIORIGE.

Ma la caccia ad Ambiorige e al suo disperso popolo non è finita. Cesare partì nuovamente da Aduatuca per devastare il paese nemico dopo aver raccolto nelle popolazioni finitime un gran numero di cat alieri che spinse in tutte le direzioni, in omnes partes. Questa volta l'esercito (quante e quali forze sono state, ora, lasciate in Aduatuca ?), anche se articolato in colonne, dovè marciare, per quali itinerari • non sappiamo, quasi riunito. Vedemmo, intorno a tre colonne l'una indipendente dall'altra, gli effetti della guerriglia; vedremo, ora, che saprà fare questo mastodontico rullo compressore tutto circondato - procede dunque sicuro - da bande a cavallo (predoni di mestiere: ma Cesare questa volta non li chiama così) affrettatamente raccolte. Tutti i villaggi e tutti gli edifici che venivano visii erano incendiati; il bestiame si sgozzava; si faceva preda in tutti i luoghi; il frumento non solo 1


349 era consumato da una così grande moltitudine di animali e di uomini ma era stato abbattuto dalla stagione e dalle piogge: sino al punto che chi era riuscito a nascondersi, poi, anche lontano l'esercito romano, avrebbe dovuto perire per mancanza d'ogni cosa, rerum omnium inopia. Dai galoppi di Basilo, il terrore; dalla distruzione delle cose e degli animali promana angoscioso silenzio.

E Ambiorige? E spesso si giunse a tal punto, data la numerosa cavalleria che batteva quei luoghi in ogni senso, che si catturassero degli indigeni i quali dicevano di aver allora allora visto A mbiorige in fuga e sostenessero poi, come allucinati, di vederlo ancora ... Caccia frenetica. . . . di modo che - ognora risorgendo la speranza di catturarlo e ognora ricominciando quell'interminabile fatica - coloro che sapevano di far cosa a Cesare sommamente grata, con la passione quasi vincevano la natura ... Ma tutto fu invano. . . . e sempre sembrò che l'agognato fine non fosse conseguito che per poco. Sicchè di Ambiorige non ci è rimasto che questo sbiadito cortometraggio: Ambiorige si sottraeva in nascondigli o nei boschi delle alture, latebris aut saltibus, e col favore della notte, noctu occultatus, si trasferiva di luogo in luogo, alias regiones partesque, senz'altra scorta che quella di quattro cavalieri, non maiore equitum praesidio quam quattuor, ai quali soli, quibus solis (lnduziomaro non la pensò così), osava affidare la sua vita, vitam suam committere audebat. Dice: « Devastate in tal modo quelle contrade, - non avendo perduto che due coorti, duarum cohortium damno, - ... ». Solo ora, dopo la descrizione del castigo inflitto agli Eburoni, veniamo a sapere delle perdite inflitte dai Sugambri alla colonna dei mietitori: due coorti, un mille uomini. In circa dieci mesi, e solo in quel di Tongres, sparite quasi per intero, con quelle di Titurio Sabino, diciassette coorti.

IL PROCESSO DI REIMS (( MORE MAIORUM )) •

Devastate le terre degli Eburoni, Cesare ricondusse l'esercito a Durocortoro dei Remi, Durocortorum Remorum, a Reims, fra i fedelissimi Remi (da


Tongres, per Sedan, circa trecento chilometri: un dodici giorni' di marcia) e qui, convocato l'annuale Concilio della Gallia - come l'anno scorso, ad Amiens, di ritorno dalla Britannia - aprì l'inchiesta sulla congiura dei Senoni e dei Carnuti. Il ciclo della reazione punitiva sta dunque per chiudersi: prima i Treveri, poi gli Eburoni , e ora - ma qui si tratta di popoli senza impurità germaniche - Senoni e Carnuti. Prima, come ricordiamo, si erano ribellati i Carnuti, uccidendo, infausta premessa al disastro di Tongres, il re collaborazionista Tasgezio; poi, a distanza di un paio di mesi, dopo Charleroi, si erano ribellati i Senoni, che avevano depasto il collaborazionista Cavarino. D ell'inchiesta condotta dal Legato Munazio Planco fra i Carnuti non abbiamo saputo nulla; dei Senoni ricordiamo che avevano pur inviato a Cesare ambasciatori per giustificare la levata di scudi contro Cavarino, ma che poi, ricevuto ordine di far presentare tutto il Senato, avevano fatto i sordi. Tasgezio fu ucciso ma Cavarino è ancor vivo e vegeto: circostanza, sebbene più dovuta al caso che all'intenzione, che alleggerirebbe l'imputazione ai Senoni; ai quali Senoni andrebbe anche riconosciuto di essersi ribellati dopo i Carnuti, e si potrebbe dire sull'esempio di questi: ma vantaggio alquanto ridotto dalla considerazione che la loro rivolta è avvenuta dopo Charleroi, quasi a disprezzo della vittoria romana. Ostaggio numero uno il senone Accone. Accone, istigatore del complotto contro Cavarino, princeps eius consilii; Accone forse riluttante all'invio conciliativo a Cesare degli ambasciatori perchè geloso della, indi pendenza del proprio paese; Accone, che respinse con sdegno, qui potremmo essere nel vero, l'umiliazione della presentazione a Cesare del Senato; Accone, infine, che, all'approssimarsi dell'esercito romano, dette segno di irriducibile ostilità ordinando che le popolazioni si riunissero · negli oppidi. Sì, Accone istigatore del complotto contro Cavarino: ma chi era Cavarino? Il noto provvedimento di Cesare dice tutto: Cesare, al momento di lasciare il paese dei Senoni per il Reno, ordinò a Cavarino di seguirlo per evitare che o dalla sua sete di vendetta o dall'odio che si era meritato, aut ex quod meruerat odio, nascesse qualche agitazione popolare. Cavarino una . parte almeno dell'odio se l'era dunque meritata per personale eccesso di potere, e Cesare stesso rinunzia a ripresentarlo come monarca.

Siamo, comunque, all a resa dei conti, nella capitale dei fedelissimi Remi, presenti tutt'e dieci le legioni: una selva di armati. I rappresentanti di tutta la Gallia, qui convenuti per l'annuale concilio, avranno l'onore di assistere alla celebrazione del processo.


35 1 Senonchè, fermo restando che dovè trattarsi proprio di un gran processo che i capi della Gallia p0terono seguire e commentare col più vivo interesse, per noi, dop0 venti secoli, non ne è rimasto che una segnalazione d'eccessiva brevità. E diciamo pure (volutamente, vorremmo anche affermare) lacunosa. Dice: « Aprii l'inchiesta sulla congiura dei Senoni e dei Carnuti ... e, inflitta la pena più grave ad Accone che era stato l'iniziatore del complotto, lo feci giustiziare secondo il costume dei maggiori, more maiorum ». Apprenderemo poi, dai Galli stessi, che cosa significa la pena di morte « secondo il costume dei maggiori » . Dice: « Parecchi, temendo il giudizio, fuggirono: furono interdetti dell'acqua e del fuoco, aqua atque igni, ossia banditi, in contumacia, dal paese >) . Ma a quali popoli appartenevano codesti « parecchi )) ? Perchè della pena inflitta ai possessori di luoghi santi, i Carnuti, uccisori di T asgezio, nessuna traccia.

DISLOCAZIONE D'ATTESA.

Saremmo in ottobre: otto mesi dunque di marce affannose da quando ha avuto inizio, non ancor spirato l'inverno, la reazione per i fatti di T ongres e di Charleroi. Gravi danni inferti a Nervi Menapi Eburoni, popoli però non di pura essenza gallica. La soluzione della faccenda trevira è stata ottenuta precipuamente per via p0litica; e nient'altro che un rinnovato ammonimento a tutta la Gallia contro il mito germanico il secondo passaggio del Reno. Otto mesi insomma che, se non fosse or ora caduta la testa di Accone, si sarebbero anche p0tuti dire pazienti e rispettosi verso i pop0li celtici, malgrado la sfida sprezzante di un regicidio e di una detronizzazione. L'anno scorso, magro il raccolto per siccità, ampio decentramento invernale: sei presidii; quest'anno, magro o grasso il raccolto, dislocazione tutta p0litica e operativa: tre presidii. Dislocazione assai semplice, che non presenta nessuna delle complicazioni dell'anno scorso: rivelerà però la sua imp0rtanza fra p0chi mesi, all'inizio della settima stagione operativa. Due legioni al confine dei Treveri; due fra i Lingoni; le altre sei ad Agedinco, nel territorio dei Senoni. Il grosso delle forze, sei legioni, è dunque a Sens, nel paese di Accone; ma è, soprattutto, al centro quasi della Gallia celtica, in regione idonea a rapido movimento in tutte le direzioni. Risulta molto distante .da Sens il presidio presso i Treveri, quasi certamente ancora a Mouzon e sul monte de Brune: ma è presidio, questa volta,


35 2 forte di due legioni; indispensabile, d'altronde, per rafforzare Cingetorige sul trono di Induziomaro. I Lingoni ci apparvero quasi sei anni or sono, quando aderirono prontamente all'ingiunzione di Cesare di non aiutare in nessun modo gli Elv~zt sfuggiti alla b;:ittaglia di Bibracte. Abitavano, come pure sappiamo, l'arido al ti piano di Langres: popolo povero, che non ha mai fatto nè farà parlare di sè. Dunque: arcisicuro, sei legioni, il presidio a Sens; sicuro quello presso i Treveri; in particolare posizione operativa il presidio presso i Lingoni - probabilmente a Langres - avendo esso, a oriente, il solco della Saona e poi quello del Rodano che adducono alla Provincia e all'Italia. Gli approvvigionamenti di grano, che l'anno scorso erano stati commessi alla fiducia delle popolazioni ospiti, furono questa volta eseguiti e distribuiti subito a ciascun presidio. Dice: « Provveduto al frumento, partii, come abitualmente, per l'Italia a tenervi le assemblee giurisdizionali».

E' stato assente dall'Italia un po' a lungo, un diciotto mesi. Lascia in Gallia una dislocazione accentrata, d'attesa: pronto, l'esercito, contro i Galli, ma anche messo in condizione, si può dire, di voltare le spalle alla Gallia e prendere le vie della Provincia e dell'Italia.


PARTE QUARTA

LA RIVOLTA DI VERCINOETORIGE



Cap. IX. - CÉN AB O (Anno 52 avanti Cristo)

CHI SARÀ IL PRIMO?

L'ECC IDIO DI CÉNABO.

Cesare dice: « In Italia, appresi dell'uccisione di Publio Clodio ». Spariti così, nell'anno appena finito, due poten ti cesariani: nell'estate, il triumviro Marco Licinio Crasso soppresso dai Parti dopo la disfatta di Carre; a dicembre, questo Publio Clodio, tribuno della plebe e aspirante al consolato, perito nei pressi di Roma in uno scontro con le bande dei conservatori. Il lungo e accanito contrasto fra il partito popolare e l'aristocratico, tramutatosi in guerra civile, ha in Roma quasi paralizzato ogni legale potere; e Cesare ben sa che il Senato gli è in gran parte ostile e che la sparizione di un uomo senza scrupoli come Clodio nonchè dell'esercito e della potenza finanziaria di un Crasso - che rimane del triumvirato? - rafforzeranno ancor più il potere di Pompeo. Tuttavia, proprio per gli eccessi della lotta civile, il Senato fu costretto a ordinare che tutti i cittadini « iuniores » - quelli con obblighi militari, da 17 a 46 anni - fossero chiamati alla « coniuratio », sottoposti cioè, con procedimenti d'urgenza, a reclutamento e richiamo. Alle armi dunque tutti gli « iuniores » d'Italia, omnes iuniores ltaliae. Sebbene sembri, da quel ch'è rimasto delle cronache del tempo, che si sia trattato solo di richiami parziali. Sicchè Cesare - che già, come ricordiamo, aveva ridonato efficienza numerica al suo esercito in Gallia - si giovò anche di questa occasione per predisporre un altro aumento di forze a suo vantaggio: appena informato della deliberazione del Senato, iniziò le operazioni di leva in tutta la Cisalpina. Tutto legale o quasi, in nome dello Stato; sebbene lo Stato sia ora quasi solo la persona di Pompeo, divenuto, con ambigua formula, « console senza collega».


Malgrado però tal indiretto beneficio, a Cesare non sfuggiva la sostanza della situazione; che cioè, in quel momento, al di là delle intenzioni di Pompeo o di chiunque altro, sovrastava su tutto, ed era anche istanza generale, l'esigenza della restaurazione dell'autorità dello Stato; che si infrenassero, fra l'altro, proprio quelle iniziative personali, specie proconsolari, in virtù delle quali egli stesso si trovava ora nelle mani dieci legioni e, quarta colossale provincia, tutta la Gallia.

Dice: « Le notizie dei disordini di Roma arrivarono rapidamente nella Gallia transalpina. 1 Galli poi vi aggiunsero le loro fantasie e i loro commenti e andavano propalando che io ero trattenuto dalle agitazioni di Roma, urbano motu, e che, data la gravità dei contrasti, in tantis dissensionibus, non potevo tornare in Gallia presso l' eserèito ». Non tutte fantasie: senza l'opera pacificatrice, sia pur temporanea, di Pompeo, egli non avrebbe potuto riprendere così presto la via della Gallia; la riprese infatti a neppure due mesi, come ora sentiremo, dall'uccisione di Clodio e in pieno inverno. Dice: « Approfittando di questa occasione, i Galli, che già prima mal sopportavano il dominio del Popolo Romano, cominciarono a fare più liberamente e audacemente progetti di guerra». Audacia di propositi che dovette avere dissimulato inizio nello stesso concilio di Reims, a ottobre dell'anno scorso, con i primi commenti alla condanna di Accone. Ma poi, appena partito Cesare, dappertutto adunanze clandestine: indette riunioni fra di loro, in luoghi boscosi e remoti, i capi della Gallia, principes Galliae ... Molte serie cose sono per dirsi i principes nelle riunioni che ritengono segretissime . . . . Deplorano la morte di Accone: costui era stato soppresso, in pubblico, « more maiorum » ossia con lo stesso procedimento in uso a Roma per il traditore e il disertore. A ognuno di noi, essi si dicono, potrebbe capitare la stessa sorte: la Gallia è dunque già soggetta - Accone ne sarebbe aperto precedente - alle leggi romane? Compiangono le comuni sventure, miserantur communem Galliae fortunam. La Gallia è oppressa, tutta: ove non sono le legioni sono le esose esattorie, le dispotiche intendenze militari, l'avidità dei mercanti italiani, l'opportunismo .e l'arroganza dei collaborazionisti. I capi della Gallia ricercano, promettendo aiuti e ricompense d'ogni genere, coloro che diano inizio alla guerra, qui belli initium faciant, e, col rischio della propria testa, sui capitis periculo, riconquistino alla Gallia la libertà. Chi dunque aspira a essere il primo alla riscossa? chi, per meglio dire, -è disposto, per la libertà, a rischiare la testa?


357 Non tralasciano di considerare il punto essenziale dell'impresa a cm s1 accingono: dicono che è anzitutto necessario tagliare la comunicazione fra Cesare e il suo esercito prima che si sappia dei loro segreti complotti. Prender tempo; che i propositi diventino sicure alleanze e concrete disponibilità di forze militari. L'intento di tener separato Cesare dall'esercito il più a lungo possibile era facilmente raggiungibile, id esse facile, perchè nè le legioni, assente il comandante in capo, oserebbero uscire dai quartieri invernali nè il comandante in capo potrebbe senza forze - e da dove le avrebbe prese nella misura e con l'urgenza commisurata al bisogno di una lunga marcia in paese divenuto ostile ? - raggiungere l'esercito. Del resto, quale sia per essere l'avvenire, - questa la proposizione conclusiva dei principes - è preferibile morire combattendo che rinunciare a recuperare, retaggio degli avi, l'antica gloria militare e la libertà, veterem belli gloriam libertatemque (espressione che abbiamo più volte incontrata: inscindibili, che tempi, libertà ed efficienza guerriera). Clandestine adunanze in più punti della Celtica: ma dove avvenne l'adunanza principale, l'atto solenne a cui ora assisteremo? Discussi vivamente questi progetti, si fanno avanti i Carnuti e dichiarano : noi non recusiamo nessun pericolo per la salvezza comune e promettiamo di farci noi gli iniziatori della guerra, principesque bellum facturos. Furono coraggiosi, ben sapendo che il grosso delle forze romane, sei legioni, era ad Agèdinco, meno di cento chilometri dai loro confini. I popoli finora resisi degni di menzione « sui capitis periculo » - battaglie strenuamente sostenute con grossi sacrifici collettivi - sono stati: fra i Belgi, i Nerv1; fra gli Armoricani o Atlantici, i Veneti; fra i popoli ancora detti Germani, gli Aduatuci e soprattutto gli Eburoni. Ed ecco ora, campioni dei Celti, i Carnuti. I Carnuti ponevano agli altri popoli una sola condizione; una di quelle però molto facili a proclamarsi prima d'ogni guerra e altrettanto difficili a rispettarsi quando la guerra fa sentire il suo peso: chiedono che - non potendo per il momento garantirsi reciprocamente con ostaggi, il che avrebbe svelato i loro piani - tutti giurino solennemente sulle Insegne Militari raccolte in fascio, conlatis militaribus signis, che, una volta iniziata la guerra, gli altri non li abbandoneranno. · E il giuramento intorno alle Insegne Militari raccolte in fascio è nel costume gallico il rito più impegnativo, more eorum gravissima caerimonia. Giuramento che forse avvenne in qualche silvestre santuario di Chartres, città santa della Gallia, dove potevano trovarsi vecchie bandiere di guerra; ma quale che sia stato il luogo, possiamo esser certi che alla ·cerimonia presenziarono, consacrandola, i Druidi. Cerimonia, comunque, di grande significato, tanto che Cesare indulge a qualche dato di cronaca: allora, fra grandi lodi ai Carnuti, tutti i presenti


prestano giuramento e, fissato il giorno in cui doveva aver inizio l'azione, l'assemblea si scioglie. Siamo, quasi certamente, verso metà novembre dell'anno già spirato, anche se la notizia dell'avvenimento giunse a Cesare dopo l'uccisione di Clodio. L'inizio della rivolta - con i fatti che ora subito sentiremo - sarebbe dunque da porsi un paio di mesi dopo la fine di Accone.

Quando giunse il giorno fissato, i Carnuti, a un segnale convenuto, corrono a Cénabo, Cenabum signo dato concurrunt, e uccidono i cittadini romani che colà risiedevano per ragioni di commercio, saccheggiando i loro beni. Dove « signo dato » e « concurrunt » indicherebbero contemporanea l'azione dei cospiratori, preparata per maggior segretezza fuori dell'oppido. E dovette essere grosso eccidio, compiuto all'alba, oriente sole, perchè nessuno sfuggisse alla morte. Cénabo, Orléans, maggior oppido dei Carnuti, anche allora centro commerciale notevole, era sede di intendenza militare: fra le vittime infatti Caio Fufio Cita nobile Cavaliere romano, che, per incarico di Cesare, presiedeva - naturalmente circondato da numeroso personale civile, specialmente incettatori, e fornito di adeguati fondi monetari - ai rifornimenti di grano. L'impresa fu guidata - Cesare sente il bisogno di farcelo sapere da persone spregiudicate che non avevano nulla da perdere. Sporca quanto si sia la fedina penale di Cotuato e Conconnetodumno (così si chiamavano quei capi), il colpo fu rumoroso ed ebbe ben maggiori effetti di quello compiuto or è circa un anno dagli stessi Carnuti con l'assassinio di re Tasgezio: la notizia dell'eccidio di Cénabo arrivò rapidamente a tutti i popoli della Gallia, celeriter ad omnes GalliJe civitates. Si diffuse con grande rapidità; ed è proprio in questa occasione che Cesare ha dettato l'inciso già da noi rilevato per metter subito in luce la natura comunicativa dei Galli: « i Galli, quando qualche fatto importante o comunque notevole accade, a gran voce, per campi e villaggi, lo annunziano: questa voce altri subito raccolgono e ai vicini trasmettono ». La notizia dei fatti di Orléans potè rapidamente diffondersi per tutta la Gallia con un predisposto collegamento di voci, di banditore in banditore, e. di fuochi , di torre in torre; sistemi allora anche d'uso se non normale neppure eccezionale. Avvenne così che, di .mano in mano che giunsero frasi e segnali convenuti, i principes del giuramento poterono rendere di pubblico dominio ai propri popoli ciò che essi soli sapevano: la natura e l'entità dell 'impresa compiuta dai Carnuti.


359

VERCINGETORIGE < AD EUM DEFERTUR IMPERIUM ».

I fatti avvenuti a Cénabo all'alba, oriente sole, si sapevano già avanti la fine della prima vigilia - circa alle otto di sera - nel paese degli Alverni, in finibus Arvernorum, a una distanza di circa duecento quaranta chilometri. La notizia impiegò dunque da Orléans un quindici ore per giungere nel territorio .dell'attuale dipartimento Puy de Dome. L'Alvernia: remote contrade di alti vulcani morti, puys selvosi e a lungo nevosi, su cui i Galli vedevano altari di divinità e che riguardavano come luoghi di memorie e predestinazioni. Appare così un altro popolo celtico, che abbiamo sentito nominare una sol volta sei anni fa, nell'esordio dello storico discorso di Diviziaco: « Un tempo in Gallia esistevano due sole associazioni di popoli: di una erano a capo gli Edui, dell'altra gli Alverni ... ». In Alvernia, Vercingetorige, figlio di Celti/lo, Alverno, Vercingetorix Celtilli fi.lius Arvernus, giovane di grandissima autorità, summae potentiae adulescens, convocati i suoi clienti, facilmente li infiamma. Vercingetorige era, nel significato romano, « adulescens » : un trent'anni; ma forse anche più giovane. E la grande autorità gli poteva in gran parte provenire dal padre. Infatti Celti/lo, suo padre, aveva goduto di un grande ascendente in tutta la Gallia, principatum Gallìae totius, - nessuna magistratura, sembra: ma il prestigio di primo principe fra tutti i principi della Gallia - ; proprio però per tal motivo, poichè la sua ambizione era di divenir re, dal suo stesso popolo era stato ucciso. Avrebbe voluto, sembra, riaffermare l'egemonia dell'Alvernia su gran parte della Gallia, ricostituendo la grande monarchia alvernate dissoltasi, un settanta anni prima di questi fatti, con la sconfitta per opera dei Romani di un suo re, Bituito. Il padre di Vercingetorige, dunque, risuscitatore di glorioso passato, caduto nel suo proprio sangue a pochi passi dal trono, era noto a tutta la Gallia, e ancora c'era chi lo ricordava vivo. In Alvernia, appena note le intenzioni del figlio di Celtillo, si corre alle armi, ad arma concurritur. A Orléans, colpo di mano notturno e anche predatorio: qui gente con palesi propositi; alla testa dei Carnuti, due avventurieri: qui un giovane « summ ae potentiae » .



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La notizia che ora i Galli devono trasmettersi di campo in campo e di villaggio in villaggio è contrassegnata da un nome a tutti noto, e può essere brevissima: il figlio di Celtillo s'è ribellato a Roma.

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Ma in simili frangenti c'è sempre chi ritiene di avere più ferma che altri la testa sul collo; chi ragiona, come si dice, concreto. In Gergovia, maggior oppido degli Alverni, - in quel di Clermont Ferrand - dove questi fatti avvengono, l'aristocrazia, o perchè collaborazionista o perchè sa che alla resa dei conti con Roma, differito che ne sia il giorno, nessuno sfugge, stima pazzeschi gli intenti di Vercingetorige: Gobannitione, suo zio, e tutti gli altri capi, persuasi che non si dovesse correre quel rischio, gli si oppongono; lo espellono anzi dall' oppido. Ma Vercingetorige non desiste dai suoi propositi e fa leva nelle campagne di gente povera e perduta, delectum egentium ac perditorum. Con questo primo nucleo di forze, - diseredati, malcontenti, canaglia - Vercingetorige percorre il territorio del!' Alvernia e trae dalla sua tutti i conterranei a cui si presenta, esortandoli a impugnare le armi per la comune libertà, communis libertatis causa. Le file del ribelle rapidamente si ingrossano: raccolte grandi forze, egli ritorna a Gergovia ed ~

La rivolta di Vercingetorige.


espelle dall'Alvernia i suoi avversari che poco prima avevano espulso lui dall' oppido. Risorge l'ombra insanguinata del padre; ciò che al padre era stato negato è concesso al figlio: Vercingetorige è acclamato dai suoi re degli Alverni, rex ab suis appellatur. E agisce, subito, da re: invia ambasciate in tutte le direzioni: che nessuno venga meno ai patti giurati sulle Insegne Militari. Associa a sè rapidamente: dall'alta e media Senna, i Senoni, Senones, nonchè i loro confinanti Parisii, Parisios; dal Poitou, a sud della Loira inferiore, i Fittoni, Pictones; dal lontano territorio di Chaors, sul Lot, i Cadurci, Cadurcos; dal territorio di Tours, media Loira, i Turoni, Turones; dal territorio di Lava! e di Le Mans, gli A ulerci, Aulercos; dal territorio a sud della Loira, attuale Limousins, i Lemovici, Lemovices; dal territorio di Angers, gli Andi, Andes; nonchè tutti gli altri popoli che toccano l'Oceano. Per consenso generale, si affida a Vercingetorige il comando supremo, ad eum defertur imperium. Quasi miracolo in paese di fazioni: la somma direzione della rivolta a uno solo. Vercingetorige, avuto tal potere, immediatamente ne dispone. Comanda ostaggi a tutti i popoli che si erano subito a lui associati. Tutto a viso scoperto: fugate le apprensioni e le pavidità che avevano suggerito il segreto giuramento sulle Insegne. Ordina che sia condotto a lui rapidamente un determinato contingente di soldati e stabilisce quante armi doveva fornirgli ciascun paese e dentro quale termine. Un Dumnorige o un Induziomaro si sarebbero affidati a contrattazioni e accordi: qui due ordini. Provvede con particolare cura alla cavalleriQ, in primis equitatui studet. E' il punto militare più delicato della situazione che si sta maturando: numerosa ed efficiente la cavalleria di Vercingetorige, poca e di scarto - la Gallia se dà all'uno non dà all'altro - quella di Cesare. Così dunque dispose, Vercingetorige, dei poteri appena conferitigli.

Ma ora, in tanta gravità iniziale di cose, il titolo di « figlio di Celtillo » non g!i è più sufficiente: i popoli della Gallia, di mano in mano che si porranno al tremendo bivio, pretenderanno che c~nda stretto conto della sua personale capacità colui che li comanda. Chi è Vercingetorige? Cesare (lo conosceva, c'è chi opina, di persona) dice: « Vercingetorige a una somma attività, summae diligentiae, accoppia somma severità di comando, summam imperii severitatem. Non tollera l'irresoluteÈza: i dubbiosi comprime con la gravità dei supplizi. Per una colpa grave, dà morte col fuoco e tormenti d'ogni genere; per colpa minore, rimanda a casa con le orecchie


mozze o con un occhio di meno: questi mutilati servano d'esempio, atterrendo gli altri con la gravità della pena subìta >> . Sicchè, al << summae potentiae adulescens » si sono ora aggiunti il « summa diligentia » e il « summa imperii severitas »: i superlativi sono tre. Di grande prestigio per riflesso del padre: ma instancabile e di grande energia di comando per propria natura il figlio di Celtillo. Cesare dice: « Vercingetorige, con questi efferati sistemi, raccolto rapidamente un esercito, his suppliciis celeriter coacto exercitu ... ». Ma chi ha potuto e potrà mai raccogliere eserciti vivi e vitali con efferati sistemi? Nè Cesare potrebbe porsi in contraddizione con quanto egli stesso ha finora detto su questo primo manifestarsi spontaneo della rivolta; egli, così dicendo, ha piuttosto rilevato che alla rapidità di una prima raccolta e organizzazione dell'esercito molto influì la mano dura di Vercingetorige. Chè, in effetti, - da quanto in seguito si potrebbe congetturare con qualche approssimazione - V ercingetorige già in dicembre aveva a sua disposizione parte dell'esercito quando Cesare - a Ravenna - aveva appena appreso dell'eccidio di Cénabo.

Si sono dunque associati a Vercingetorige immediatamente, senza riserve, un gran numero di popoli atlantici e preatlantici nonchè Senoni, Parisii, Carnuti, e altri che via via appariranno.

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P IANO INIZIALE DELLA RIVOLTA.

Vercingetorige, raccolto rapidamente un esercito, . . . manda il cadurco Lutterio - uomo di straordinario ardimento - con parte delle truppe verso il paese dei Ruteni, ed egli si dirige verso il paese dei Biturigi. Due frecce: una, di Lutterio, dal territorio dei Cadurchi - poniamo da Cahors - in direzione sud - est; l'altra, di Vercingetorige, dal territorio degli Alverni - da Gergovia, oggi Clermont Ferrand - in direzione nord - ovest. Due punte - una verso la Gallia meridionale, i Ruteni, l'altra verso la Gallia centrale, i Biturigi - che svelano a sufficienza il vasto piano iniziale di Vercingetorige. I Ruteni, - che abitavano un territorio oggi quasi tutto nel dipartimento dell'Aveyron - al momento in cui avvenivano questi fatti, erano tagliati in due: la parte minore - a sud del Tam, affluente della Garonna - già incorporata nella Provincia e l'altra ancora libera. Division~ artificiosa e perciò motivo di malcontento. I Biturigi, residenti nell'ampio e fertile Berry, - dipartimenti Cher e Indre - figuravano fra i popoli più potenti della Gallia celtica. La loro politica era però ·strettamente legata a quella degli Edui, dei quali erano « in


fide», cioè clienti - l'interdipendenza economica fra i due paesi è peraltro confermata all'evidenza dalle vie fluviali - e con i quali confinavano sulla Loira, dal territorio a est di Orléans, approssimativamente, a Nevers. Se dunque Vercingetorige marcia verso i Biturigi, marcia, senza dubbio, verso gli Edui; e marcia da liberatore o da invasore a seconda. naturalmente, di ciò che a tal proposito pensano e i Biturigi e gli Edui. Provincia e Edui: i due maggiori pilastri dell'edificio di Cesare in Gallia. Di efficacia quasi solo virtuale, finora, la Provincia, m a sostegno effettivo e validissimo, da sei anni, - quella politica di Diviziaco e del vergobreto Lisco che è costata Ja vita all'oppositore Dumnorige - gli Edui . . La freccia di Lutterio doveva tentare di crear fastidi a Cesare nella Provincia, facendo leva sui Ruteni; la freccia di Vercingetorige doveva tentare di intorbidare a Cesare il rapporto con gli Edui , facendo leva sui Biturigi. O per istinto o per ragionamento o l'uno e l'altro, tale fu il piano iniziale di Vercingetorige; tale, possiamo anche dire, la vastità delle sue iniziali intenzioni. UN

MIN UETIO POLITICO.

Lasciamo da parte> per breve momento, i Ruteni e vediamo come risolvono la loro difficile situazione i Biturigi, che sono clienti degli Edui e in buoni rapporti con Cesare. I Biturigi, ali'avvicinarsi di Vercingetorige, mandano messi agli Edui chiedendo aiuti per poter più facilmente resistere alle forze nemiche. Tutto chiaro: Vercingetorige da essi ritenuto senz'altro nemico e gli Edui giudicati patroni rispettabili che subito offriranno, a fatti, la loro solidarietà; ossia subito e apertamente riveleranno a tutta la Gallia, in attesa, i loro intenti. Collaborazionisti sicuri e rettilinei i Biturigi, collaborazionisti altrettanto sicuri, e se possibile più, gli Edui: questi, per consiglio dei Legati che Cesare aveva lasciati presso l'esercito, - a Sens e a Langres, come ricordiamo mandano in aiuto dei Biturigi edue truppe di cavalleria e fanteria. Appena la situazione divenne tesa, i Legati dovettero precipitarsi a Bibracte per sapere, consigliare, comandare: non possiamo quindi dire - nè lo saprà dire Cesare - quanto Paiuto ai Biturigi sia stato spontaneo.

Ma ecco quel che avviene quando i rinforzi edui giungono sulla Loira, ossia al confine con i Biturigi. I rinforzi, gitmti al fiume Loira, dopo essersi fermati pochi giorni senza osare di passare il fiume, neque flumen tran sire ausi, - cioè senza entrare nel paese dei Biturigi - ritornano in patria, riferendo ài Legati che erano ritornati per timore di un tradimento dei Biturigi, giacchè erano stati in/or-


mati che, se avessero passato la Loira, Biturigi da una parte e Alverni, ossia l'esercito di Vercingetorige, dall'altra li avrebbero circondati. Ma davvero? Sta di fatto che i Biturigi, non· appena i rinforzi edui si furono allontanati, si unirono, subito, agli Alverni. I Biturigi, all'appropinquarsi di Vercingetorige, si _scaricano sugli Edui; gli Edui_, inviando i rinforzi, assolvono al loro dovere di collaborazionisti; il comandante del rinforzo eduo sottrae, doverosamente, le sue truppe a una strage; i Biturigi, privi dell'aiuto eduo e, soprattutto, colpiti da sospetto calunnioso, si sentono costretti a passare a Vercingetorige. Minuetto danzato alla perfezione. Gli Edui, inferto il pugno, hanno nascosto la mano. Cesare tenta di attenuare la beffa; dice: « Se i rinforzi edui ritornarono in patria per la ragio.ne addotta ai Legati o per tradimento non si può dire con sicurezza, non videtur pro certo esse ponendum, dato che mi mancano informazioni in proposito ».

Ma la conseguenza del minuetto diremmo che appare assai più grave sotto quest'altro aspetto: l'atteggiamento ambiguo degli Edui - nè rivolta nè conferma di collaborazione - quanta incertezza porterà nell'azione di Vercingetorige?

IL BALZO UNICO APPRODO: LA PROVINCIA.

Cesare, avute in Italia questé notizie, - le segnalazioni delle due frecce in movimento gli sarebbero giunte, secondo qualche dotto calcolo, ai primi di febbraio - vedendo che a Roma, per merito di Gneo Pompeo, la situazione era migliorata, partì per la Gallia transalpina. Da Ravenna - o da quale che fosse località della pianura padana - partì per la Provincia, unico approdo ora sicuro.

D ice: « Giunto colà, mi trovai di fronte al grave problema del modo con cui raggiungere l'esercito. Perchè, se facevo venire le legioni nella Provincia, capivo che sarebbero state costrette a combattere, me assente, durante la ritirata; se mi recavo io presso l'esercito, avvertivo che non potevo affidare la mia vita neppure ai popoli che in quel momento sembravano tranquilli, ne iis quidem qui quieti viderentur ».


E' la difficoltà su cui facevano affidamento i principes nelle clandestine riunioni. Ma è, soprattutto, l'esplicita dichiarazione che pone in luce lo stato delle cose in Gallia più di tutte le notizie finora dateci : non aveva più di chi fidarsi, neppure dei popoli che sembravano tranquilli.

LA

FRECCIA LUTTERIO.

Il cadurco Lutterio, ch'era stato mandato fra i Ruteni, guadagna quel popolo agli Alverni. Aderiscono alla rivolta, come era da aspettarsi, i Ruteni fuori Provincia. Dopo questo primo successo, Lutterio attinge i Nitiobrogi (territorio del basso Lot, affluente della Garonna) e i Gabali (territorio del Gévandau, alte valli del Lot e del Tam): entrambi questi popoli aderiscono alla rivolta e danno ostaggi. Alle truppe dei Cadurchi si sono ora unite quelle dei Ruteni, dei Nitiobrogi, dei Gabali, tutti popoli confinanti con la Provincia. Sì che Lutterio, raccolte grandi forze, si dimostra, qual era, uomo di grandissima audacia: si avvia a invadere, direzione Narbona, la Provincia, - nella quale, naturalmente, non tutti erano felici o rassegnati sudditi del Popolo Romano. Informato di questo, Cesare (dovette quasi sentire, per prima cosa, l'eco della risata degli amici di Roma: ma che grand'uomo! è partito per conquistare il mondo e perde la Provincia!) pensò che era da porsi in seconda linea ogni altro problema: egli doveva, subito, portarsi a Narbona.

A Narbona pervenuto, rinfrancò i paurosi - il collaborazionismo atterrito anche solo dalle voci di un'invasione - e dette suhito esecuzione a· due ordini di provvedimenti militari. Dispose presidi nei paesi confinanti con i nemici: nei Ruteni della Provincia; nei Volei Arecomià, stanziati a oriente del basso Rodano, territorio di Nimes, che confinavano con i ribel1i Gabali; nei T olosati, territorio di Tolosa, che confinavano con i ribelli Nitiobrogi; e, naturalmente, attorno a N arbona, circumque Narbonem. Ordinò, in secondo luogo, a una parte delle truppe provinciali, - milizie stanziali o presidiarie, di regola in.amovibili - e ai rinforzi che aveva portato dall'Italia, cioè quanti più « iuniores » aveva potuto, di concentrarsi presso gli Elvz, in Helvios. Ma questo secondo provvedimento - che pur va fissato sulla carta non può essere in relazione con la freccia Lutter:io: gli Elv1, assai lontani da Narbona, abitano le pendici orientali, nientemeno, delle Cevenne.


Lutterio, quando la Narbonense ebbe assunto tal particolare assetto difensivo, - egli non s'era dunque trovato nelle condizioni di invadere subito la Provincia ~ dapprima si arrestò e poi si allontanò. Cesare dice: « Si allontanò perchè giudicò pericoloso avventurarsi fra i nostri presidi». Le difficoltà militari poterono però non essere la causa più diretta di quella ritirata. I Galli calcolavano che Cesare, data la situazione a Roma, non sarebbe affatto tornato quell'anno presso l'esercito; o, tutt'al più, vi sarebbe tornato più tardi degli altri anni. Ritorno che invece, sia pur limitato alla Narbonense, era avvenuto con ben due mesi, almeno, di anticipo; sì che Lutterio s'era visto strappare dalle mani la carta su cui più contava: che, assente il proconsole e perdurando a Roma la crisi politica, grossi moti di rivolta sarebbero scoppiati nella Narbonense appena egli fosse apparso. La freccia Lutterio dobbiamo considerarla, a ogni modo, sparita.

LE CEVENNE.

Cesare dice: « Allontanatosi Lutterio, partii per il paese degli Elvi, i quali toccano il paete degli Alverni ». Ma fra Elv1 e Alverni un ostacolo serio: Mons Cevenna, la catena delle Cevenne. Il Vivarais, dove abitava il piccolo popolo degli Elv1, è di quella catena il versante più alto, superiore ai mille metri, eppertanto, data la stagione, tutto sotto neve.

Invadere l' Alvernia, attraverso le Cevenne, m pieno inverno?

La scalata delle Cevenne fu intrapresa da Cesare con poche migliaia di uomini e, per quel che sentiremo, in gran parte cavalleria, per la valle, probabilmente, dell 'Ardèche: il passaggio sarebbe avvenuto a Col du Pal, nella zona fra la sorgente dell' Allier e quella della Loira. Ecco il racconto dell'impresa (ventotto le parole latine): quantunque nella catena delle Cevenne il transìto, in quella dura stagione, fosse impedito dall'altezza della neve, etsi Mons Cevenna durissimo tempore anni altissima nive iter impediebat, Cesare, facendo scavare la neve per due metri di profondità, tamen discussa nive in altitudinem pedum sex, riuscì ad aprirsi una strada con grandissimo travaglio dei soldati, atque ita viis patefactis summo militum labore, ~ fatica improba per più giorni l'apertura del cammina-


mento, di troncone in troncone, che consentisse il transito specialmente ai quadrupedi - e raggiunse il territorio degli Alverni, ad fines Arvernorum pervenit. Gli Alverni, quando i R~mani irruppero nella conca di Le Puy, furono colti « inopinantes » nel torpore invernale delle case: rimangono gli Alverni sorpresi di quell'a"ivo perchè si credevano difesi dalle Cevenne come da un muro, ut muro, e in quella stagione neppure i singoli erano mai. riusciti ad attraversarle. Cesare dice: « Ordinai ai cavalieri di estendere le scorrerie quanto più lontano potessero, quam latissime, e di apportare ai nemici il maggior panico possibile, maximum terrorem ». Cavalleria, pazzi galoppi, terrore: motivi che conosciamo da sei anni. Per gli Eburoni furono immediato rifugio, come ricordiamo, boschi paludi rive dell'Oceano; ma contro gli Alverni della conca di Le Puy congiurano le balze nevose che la serrano tutt'intorno.

« Pu:CIBUS PERMOTUS ..• ».

Rapidamente, celeriter, per pubblico rumore e per corrieri, Vercingetorige è informato di questi avvenimenti . .. Vercingetorige doveva trovarsi in quel di Bourges, allora Avarico, oltre duecento chilometri dalla conca di Le Puy: ma siccome tutto in Gallia è r~pid?, la notizia dell'invasione potè giungergli anche nel giro di due tre g1orn1. Colpisce invece la seguente scena e i suoi effetti: ... e tutti gli Alverni, sbigottiti, perterriti omnes Arverni, - ossia i messi inviati nel Berry _dai principi Alverni - circondano Vercingetorige, implorandolo di pensare alla loro sorte, circumsistunt atque obsecrant ut suis fortunis consulat, e di non lasciarli saccheggiare dai nemici, dato che ora tutto il peso della guerra grava su di loro. E Vercingetorige, scosso dalle loro preghiere, precibus permotus, - avrebbe stentato dunque ad aderire - toglie il campo dai Biturigi e si dirige verso il paese degli Alverni. La freccia Lutterio è scomparsa; la freccia Vercingetorige, con rapida inversione, ritorna donde era partita.

Vercingetorige non è accorso con solo una parte delle sue forze , ma s'è mosso, lui in testa, con tutto l'esercito. Sicuro che Cesare volesse condurre in Alvernia grosse operazioni ? dubitava della volontà di resistenza dei suoi? prevalse in lui l'affetto per la sua terra?


« NoN PIÙ DI TRE GIORNI».

Se però l'affrettato e totale ritorno di Vercingetorige può in qualche modo spiegarsi, non ahrettanto può farsi per la puntata romana in Alvernia condotta da Cesare in persona e con forze che non gli consentono, assoluta~ mente, d'affrontare Vercingetorige. Cesare ha in q uest-0 momento bisogno di libertà d'azione e, al più presto, di quante più possibili forze che lo scortino, per la via più breve, sino alle legioni: ogni diversivo - e questa puntata è un diversivo - non può che allontanarlo dallo scopo principale e più urgente.

Ma una piccola notizia che sta per esserci segnalata, appena un mc1so, chiarirà, vividamente, ciò che ci sembra oscuro.

Cesare, appena giunto nella Provincia, non aveva dato mano solo ai due provvedimenti militari che abbiamo segnalati sebbene a tre: aveva rinfor.: zato, con appositi presidii, i confini; aveva concentrato presso i lontani Elvi parte delle truppe provinciali; aveva inviato - ma ci viene detto solo ora ~ un certo numero di cavalieri (qualche centinaio?) ancor più lontano: a Vienne, oppido degli Allobrogi, sinistra Rodano, sul confine della Provincia. Dice: « Dopo essermi trattenuto due giorni nel territorio degli Alverni, - prevedevo che Vercingetorige sarebbe stato costretto a quel ritorno - mi allontanai dall'esercito facendo correr la voce che andavo a raccogliere rinforzi di cavalleria; e lasciai a capo di quelle truppe il giovane Bruto con l'incarico di continuare a far agire la cavalleria in tutte le direzioni per la mag~ giore estensione possibile: io avrei fatto tutto il possibile, feci anche dire, per non restar lontano dal campo più di tre giorni, ne longius triduo ». Massimo fra tre giorni, nessun dubbio, sarò di ritorno con i rinforzi. Presi questi provvedimenti, a tappe quanto più lunghe possibili, - e senza che neppure la sua scorta sapesse il suo intento, suis inopinantibus, raggiunse Vienne, Viennam pervenit, e da qui, trovate quelle forze fresche di cavalleria che vi aveva inviate molti giorni prima, cavalcando giorno e notte, neque diurno neque nocturno itinere intermisso, attraverso il paese degli Edui - in modo da prevenirli con la celerità, anche se avessero avuto intenzione di qualche complotto contro di lui - cavalcando dunque giorno e notte attraverso il paese degli Edui, si diresse verso il paese dei Lingoni, in Lingones contendit, dove svernavano due legioni, ubi duae legiones hiema."' bant. Qui giunto . .. Dalla conca di Le Puy a Vienne circa cento chilometri e circa trecento da Vienne a Langres: percorso che potè compiere, sforzando, in poco più di quattro giorni. 24. -

u.s.


37° Presso i Lingoni, dov'erano due legioni, ha dunque riafferrato, con un balzo, l'esercito: a circa un mese dalla partenza da. Ravenna. Che Vercingetorige marci pure con tutto l'esercito verso l'Alvernia; non vi troverà neppure Bruto (il comandante della flotta a Saint Gildas), il quale - possiamo ben supporre - non appena l'esercito gallico si sarà allontanato dai popoli dove le fiamme della rivolta trovano il maggior alimento, ritornerà nella Provincia col piccolo esercito di truppe stanziali e di « iuniores » cisalpini.

«

OPPIDUM DIRIPIT ATQUE INCENDIT »

TRISTA REALTÀ.

Cesare, appena giunto presso i Lingoni, invia ordini alle altre legioni e tutte le raduna in un sol luogo, prima che gli Alverni - ossia Vercingetorige in marcia - potessero aver notizia del suo arrivo.

Eppure la totale riunione delle forze, avvenuta probabilmente a Sens, dove erano già sei legioni, non potè essere molto rapida se le due legioni di Mouzon che ricordiamo a guardia dei Treveri dovettero prima ricevere l'ordine di movimento e poi percorrere, d'inverno, oltre duecentocinquanta chilometri. Ma l'affermazione della pronta riunione delle legioni, tutt'e dieci, dà risalto all'impotenza di Vercingeto1ige, ormai lontano, di fronte a quell'indisturbato concentramento. L'anticipato e brusco ritorno di Cesare ebbe soprattutto il potere - e fu effetto politico fra i più decisivi di tutta questa grande vicenda - di arrestare il flusso delle defezioni di altri popoli. Incredulità, sulle prime, più che sorpresa; seguìta da un tempo di arresto, o piuttosto di smarrimento, in tutti. E non solamente, aggiungeremmo, nella Celtica: che progettavano di fare e che avrebbero fatto Belgio e Aquitania se il ritorno di Cesare avesse ritardato di qualche mese ? Un tempo d'arresto, in tutti ; col risultato che sulla breccia rimasero solo i popoli che s'erano già compromessi: atlantici, preatlantici, Carnuti, Alverni, Senoni e Parisi, Biturigi. Ma Vercingetorige, con la sua reazione, che ft1 immediata, rivela immutata, e si potrebbe dire accresciuta ora che gli è noto il concentramento dell'esercito romano, la fermezza dei suòi propositi.


Egli, saputo dell'arrivo di Cesare, riconduce l'esercito fra i Biturigi - il secondo, rapido, dietro fronte, in poche settimane, della sua freccia - e poi, da tal paese, si dirige a Gorgobina, oppido dei Boi, e decide di assediarla. Gorgobina è, secondo ipotesi accettabile, Saint Parize le Chatel, piccolo paese poco a sud di Nevers, alla confluenza della Loira con l'Allier. I Boi di cui qui si parla li aveva colà trapiantati Cesare, come ricordiamo, sei anni or sono, dopo averli vinti nella guerra elvetica, mettendoli alle dipendenze degli Edui; trapianto avvenuto è difficile dire per qual motivo ma su istanza, ci fu detto, degli stessi Edui. Minuscola trascurabile comunità, i Boi; di trentamila anime al momento in cui si aggregò alla migrazione degli Elvezi: quale interesse poteva spingere Vercingetorige ad attaccarla? Cesare dice: « La. mossa di Vercingetorige mi poneva in grave imbarazzo. Perchè se per il resto dell'inverno tenevo le legioni riunite in un sol luogo, inoperose, c'era il pericolo che, una volta sopraffatti i Boi tributari degli Edui, tutta la Gallia si ribellasse, potendosi ritenere dai miei alleati che non si dovesse più far.e affidamento su di me, nullum in eo praesidium. Se invece facevo uscire troppo presto le legioni dai quartieri invernali, c'era da temere per i rifornimenti di viveri, essendo, d'inverno, difficoltosi i trasporti».

Avrebbe potuto marciare in direzione nord - sud e, per le valli dello Yonne e della Nièvre, raggiungere, in buona parte attraverso territorio eduo, il paese dei Boi, che con gli Edui confinavano sulla Loira. In tal modo, il suo esercito (da quaranta a cinquantamila i soli legionari?) sarebbe stato via via vettovagliato da paese perlomeno non nemico e si sarebbero ridotte le difficoltà dei trasporti; così come avveniva per l'esercito di Vercingetorige (un centomila uomini?) rifornito dai Biturigi, che anch'essi confinavano, sull' Allier, con i Boi. Però un improvviso e rapido movimento verso sud, quasi a cercar protezione in territorio alleato, sarebbe stato considerato ritirata da Carnuti e Senoni; un itinerario, potevano questi pensare, suggerito da timore. Nè gli stessi Edui avrebbero fatto buon viso al passaggio di un grande esercito attraverso il loro territorio, vivo ancora il ricordo del passaggio che aveva concluso, sei anni fa, la guerra elvetica; e allora le legioni erano solo sei. E poi, ora che anche qui i principes interventisti erano cresciuti di numero, a quali complicazioni il passaggio poteva condurre? Che forse VerCÌngetorige attingendo i .Boi non aveva inteso, soprattutto, di tenersi alle porte del territorio eduo per dar pronta mano all'interventismo appena stesse per affermarsi ? Il piano di Cesare fu dunque un altro.


37 2 Dice: « Mi sembrò che convenisse affrontare qualunque difficoltà piuttosto che, sopportando simile affronto, alienarmi l'animo di tutti i miei alleati. Pertanto, fatto appello agli Eduì perchè si assumessero l'onere del rifornimento dei viveri, cohortatus Haeduos de supportando commeatu, inviai messi ai Boi informandoli del mio arrivo e incoraggiandoli a restar fedeli, e a sostenere con forte animo l'assedio. Lasciate ad Agedinco due legioni e i bagagli di tutto l'esercito, partù per il paese dei Boi ». Sicchè le legioni in operazioni saranno d'ora in avanti, e per un bel po', otto; Sens o Agedinco - egregia fortezza sulla destra Yonne - è divenuta base logistica, diremmo l'unica, dell'esercito romano: qui riserve di viveri, materiali d'ogni genere, bagagli individuali, officine, armi, quadrupedi, prigionieri; ostaggi. Cesare, dunque, partì da Agedinco con otto legioni ma non in direzione del paese degli Edui. Gli Edui, questa volta, furono messi spalle al muro senz'altra scelta che un s1 o un no. « Cohortatus Haeduos de supportando commeatu », come abbiamo appena inteso. - Non è intenzione del proconsole (gli argomenti, vale la pena supporli, dell'inviato romano al vergobreto) di attraversare il territorio eduo; e tantomeno di invaderlo, come vanno spacciando i nemici della nostra tradizionale amicizia. Se l'esercito romano ponesse piede sul vostro territorio, vi richiamerebbe senz'altro - e chi potrebbe impedirlo? l'esercito di Vercingetorige; e perciò noi rinunciamo alla via più breve, che più ci porterebbe i vantaggi della vostra ospitalità, per allontanare da voi la sciagura, che ben conoscete, di due eserciti in guerra sul vostro suolo. Il proconsole si limita a chiedervi il vettovagliamento di tutto il suo esercito per i luoghi dove condurrà le operazioni, sino a quando, col sopraggiungere della stagione del raccolto o di altre favorevoli circostanze, vi potrà alleggerire, tutto o parte, di questa gravosa, ma meritoria, cooperazione. Gli Edui - in crisi all'interno, come poi sapremo - non poterono che promettere quanto veniva loro richiesto; impegnandosi anche, come in seguito ci sembra che risulti, alla sicurezza dei trasporti, con presidii fissi e scorte ai convogli, attraverso i territori ribelli. Anticipato ritorno di Cesare, concentramento delle legioni, acquiescenza degli Edui: tre fatti - istantaneamente l'uno all'altro associatosi tanto da divenire fatto unico - che ripresentano a Vercingetç>rige una trista realtà che sino a qualche settimana prima egli sperava che non si sarebbe più verificata: esercito romano riunito con base logistica al centro della stessa Gallia, nelle contrade più ricche.


373 Passò per la sua mente di invadere il territorio eduo per farvi prevalere le forze politiche an1!:iromane? Nessuno può rispondere, naturalmente. Solo si può costatare che ,egli non si è servito della violenza contro gli Edui nè prima dell'arrivo di Cesare, quando il momento poteva essere per lui favorevole e forse decisivo, nè appena saputo dell'arrivo di Cesare, nè ora che il collaborazionismo eduo è ricominciato. In prevalenza goJlisti o collaborazionisti, ora, gli Edui? Si salvarono col minuetto un due mesi fa, se la cavano adesso - saremmo in marzo - col sacrifizio, pazienza se non lieve, di vettovagliare temporaneamente - e il meno che potranno, come poi sentiremo - l'esercito romano.

VELLAUNODUNO DEI SENONI.

Cesare dice: « Il giorno dopo la partenza, arrivato a Vellaunoduno, oppido dei Senoni, per non lasciarmi nemici alle spalle e aver aperte le vie di rifornimento, quo expeditiore re frumentaria uteretur, investii quell'oppido, circondandolo in due giorni con una trincea». Se la partenza avvenne da Sens, e se Vellaunoduno è, come più d'uno suppone, l'odierna Montargis, le otto legioni compirono una marcia di un cinquanta chilometri. Vellaunoduno .non doveva essere un oppido qualunque. I Senoni, già costretti da tempo a non poter disporre liberamente di Agedinco divenuta quartiere d'inverno romano, con ben sei legioni, avevano forse in Vellaunoduno raccolto o stavano raccogliendo risorse e armati; sì che, imprevisto l'anticipato ritorno d:i Cesare, risultò per loro una terribile sorpresa il prematuro inizio delle operazioni nonchè la marcia su questo loro oppido all'estremo del paese, quasi al confine con i Carnuti. La direzione di marcia delle otto legioni sarebbe dunque Sens - Montargis (nè la muta gran che qualche diversa ipotesi sull'ubicazione di Vellaunoduno). E perciò si rimane non poco sorpresi, guardando una carta, che i Romani indugino a Montargis quando, a una settantina di chilometri da questa, c'è un obiettivo ben più importante: Cénabo, o Orléans che dir si voglia; e che i due giorni che li porterebbero quasi all'improvviso sotto le mura della detestata capitale dei Carnuti essi li consumino per la costruzione di un fossato, premessa a regolare e non breve assedio. Che Vellaunoduno possa rendere ricco bottino, non c'è dubbio, altrimenti Cesare non ne avrebbe tenuto conto; ma è anche da considerare che ora essa, con la sua resistenza, darà modo e tempo ai Carnuti di mettere a punto una strenua difesa del grande oppido Cénabo. Indugio a Vellaunoduno, indugio a Cénabo: e quanto si può pretendere che resista, a Gorgobina, la meschina comunità dei Boi?


374 Senonchè, i principes di Vellaunoduno, non appena la trincea romana ebbe avvolto l'oppido, presero una decisione della quale il meno che si possa dire è che fece rabbrividire l'ombra di Accone: il terzo giorno, avendo essi inviato a Cesare parlamentari per la resa . .. Resa senz'altro accettata: ... Cesare ordinò che gli consegnassero le armi, gli conducessero i quadrupedi da trasporto, gli rimettessero seicento ostaggi. Dovè essere sostanziosa la taglia pagata da Vellaunoduno; di q uest'oppido già da mesi rifugio, penseremmo, anche dei facoltosi di Sens, i quali, sdegnati per la sorte di Accone, avevano lasciato la città, seco portando i « carissima», appena colà annunciato lo svernamento delle sei legioni. I capi di Montargis, del resto, non hanno fatto altro in questa occasione che ripetere le gesta di circa un anno addietro quando Cesare, con un salto dal paese dei Paris1, aveva invaso per la prima volta il territorio senone : sopraggiunta la sorpresa, tutti i propositi di resistenza - da Accone ordinata sino all'estremo, di oppido in oppido - erano decaduti, ed era stata chiesta, tramite Edui, la resa. Questa volta però, rinunciando a opporre resistenza, essi pongono allo scoperto, improvvisamente, i Carnuti e l'oppido Cénabo. Cesare dice: « Per avanzare con la massima rapidità possibile, lasciai il Legato Caio Trebonio a terminare le operazioni di resa e io mi diressi verso Cénabo dei Carnuti, ipse Cenabum Carnutum proficiscìtur ».

Una resistenza qualunque, appena temporeggiatrice, sarebbe stata per Cénabo un fatto positivo; diviene invece gravida di oscure conseguenze si rapida resa.

DECISERO L'ESODO.

La consueta radio dei Galli in questa circostanza funzionò male: i Carnuti vennero a sapere, sì, dell'assedio di Vellaunoduno, ma non vennero a sapere affatto che, arresosi prematuramente l'oppido, l'esercito romano (nel terzo quarto giorno dalla partenza da -Sens) era sulla via della loro capitale. Più precisamente, fu così: Cesar~ partì per Cénabo dei Carnuti, i quali, essendo a loro giunto solo allora l'annunzio dell'assedio di Vellaunoduno (anche questa notizia aveva dunque ritardato), pensando che la cosa sarebbe andata per le lunghe (facevano assegnamento sull'alleato), stavano allora preparando il presidio da mandare - Io stavano, evidentemente, raccogliendo per la difesa di Cénabo.


375 Quest'ultima informazione impressiona (ma quante sono le generazioni che non fanno esperienza di cose simili?): all'apparire delle legioni nel territorio dei Carnuti, l'oppido Cénabo - che godeva della protezione naturale, su un lato, del grande fosso della Loira - è del tutto o quasi privo di forze; nell'impossibilità, comunque, di opporre valida resistenza. E perciò colti in flagrante impreparazione - pur concessa l'attenuante del prematuro ritorno e prematuro inizio delle operazioni da parte di Cesare - proprio gli iniziatori della rivolta che avevano preteso il giuramento sulle Insegne.

Cesare giunse a Orléans in due giorni, a pomeriggio inoltrato. Dice: « Posto il campo davanti all'oppido, non potendo, data l'ora avanzata, iniziare nello stesso giorno le operazioni di attacco, le rimisi al giorno dopo e intanto ordinai alle truppe di preparare quel che era necessario a tal bisogna ». Notte insonne per tutti, per un verso o per l'altro, la preparazione notturna di un attacco ali'alba. Dice: « ... e temendo che durante la notte gli abitanti abbandonassero l'oppido, dato che sotto le mura di Cénabo c'era un ponte che consentiva loro il passaggio della Loira, feci vegliare in armi due legioni, duas legiones in arm1s » . Per chiudere Cénabo anche dalla parte protetta dal fiume, Cesare, che proveniva da Montargis, avrebbe dovuto passare sulla riva sinistra della Loira, il che gli era impossibile subito; riva invece accessibile, per quell'unico ponte, - a sud ovest della cinta, pare - agli abitanti di Cénabo. Se dunque i cenabesi decidono di sgomberare l'oppido nella notte, Cesare, per coglierli al transito, deve penetrare nell'oppido, e giungere a quel ponte prima che i fuggiaschi lo abbiano attraversato e distrutto. Il che però non può prevedersi senza contrasto; essendo inconcepibile che i responsabili dell'esodo, col nemico addosso, non pensassero a proteggersi le spalle così come meglio potessero, ritardando di qualche ora lo sfondamento delle porte o il superamento delle mura per portare a termine, attraverso unico ponte, lo sgombero di tutta una popolazione. Per Cénabo, senza sufficiente presidio per valida resistenza, due sole le soluzioni: immediata resa o immediato esodo. I capi di Cénabo decisero per l'esodo. Decisione grave data l'urgenza con cui doveva essere posta in atto; a meno che non fosse stata provocata, ma qui non ve n'è traccia, da inarrestabile panico. Ordini dunque concreti e sicuri da parte di Cesare - attacco all'oppido per l'indomani e due legioni, durante la notte, in armi - tanto fu in lui esatta la valutazione della situazione di Cénabo.


Gli abitanti di Cénabo, poco prima della mezzanotte, paulo ante mediam noctem, uscirono in silenzio dall'oppido e cominciarono a passare il fiume. Informato di ciò dalle vedette, Cesare, fatte incendiare le porte, portis incensis, fa entrare le legioni che aveva tenute pronte (nessuna resistenza, dunque: sarebbe stata segnalata), e si impadronisce dell' oppido. Gli abitanti, salvo pochissimi, furono tutti catturati, perchè la strettezza del ponte e delle strade che vi adducevano aveva impedito la fuga di folla così grande.

Dice: « Feci saccheggiare e incendiare l' oppido, oppidum diripit atque incendit, e donai la preda ai soldati, praedam militibus donat ... ». Dono cospicuo - annunziato alle truppe, naturalmente, subito - che non potè non accendere di gratitudine tutto l'esercito.

Niente strage per i possessori di luoghi santi e del supremo tribunale druidico: salvo pochissimi sfuggiti, tutti prigionieri. E sarà schiavo chi potrà essere utilizzato come tale e pagheranno per il riscatto in proporzione alle loro possibilità coloro che pagare possono. Ognuno, pertanto, al suo destino: Cénabo esali fra le fiamme l'ultimo fiato; cenabesi e bottino, dopo rapida classificazione e registrazione, proseguano sotto scorta per i luoghi di raccolta. Non c'è tempo da perdere. Dice: « ... Indi, condotto l'esercito oltre Loira, exercitum Ligerim traducit, giunsi nel paese dei Biturigi, in Biturigum fines pervenit » .

Le delusioni, per Vercingetorige, si sono susseguite a ritmo serrato: l'acquiescenza degli Edui, il franamento dei Senoni, l'imprevidenza dei Carnuri. Tuttavia, anche questa volta, reazione immediata: Vercingetorige, appena saputo dell'arrivo di Cesare, abbandona l'assedio di Gorgobina e muot·e verso di lui. Aveva forse sperato di attrarre l'esercito romano in territorio eduo e affrontarlo appena avesse le retrovie malsicure o del tutto ostili: se lo trova invece ora - saremmo a metà mar~o - di fronte, già sulla sinistra della Loira, nel territorio dei Biturigi suoi volenterosi alleati .


Cap. X. - AVARICO

«

IL

OPPIDUM AVARJCUM »

QUARTO o'oRA DI Nov10DuNo DEI BrTURIGI.

Gli eserciti, entrambi nel territorio dei Biturigi, marciano, ora, l'uno incontro all'altro. Cesare - che è in marcia sulla sinistra Loira, in direzione sud - aveva già cominciato ad assediare Novioduno, oppido dei Biturigi, che si trovava sulla sua strada, positum in via, quando .. . L'oppido Novioduno, secondo buona ipotesi, era in quel di Neuvy sur Barangeon, circa settanta chilometri a sud - ovest di Orléans ; e perchè Cesare dica che esso sia sulla sua strada non sfugge a chi dà uno sguardo a una qualsiasi carta: Nwvy è appena a mezza tappa dalla capitale dei Biturigi, Avarico, l'odierna Bourges. A Novioduno, quando le legioni vi giunsero, era certamente già nota la resa di Vellaunoduno dei Senoni e la sorte di Cénabo dei Carnuti. Cesare vi aveva dunque già iniziato l'assedio quando, ... essendo venuti a lui ambasciatori dall'oppido, pregando di perdonarli e di risparmiar loro la vita (sciagurati! resta improvvisamente scoperta questa volta la capitale non dell'alleato ma la vostra), egli, per raggiungere gli altri obiettivi con quella celerità che gli aveva procurato sino ad allora la maggior parte dei successi, ordinò che gli consegnassero armi cavalli ostaggi. Tutto come a Vellaunoduno dei Senoni; e alle operazioni di resa fu posto mano subito. Senonchè, a differenza di Vellaunoduno, qui vi fu contrattempo. Già una parte degli ostaggi era stata consegnata e si stava attendendo al resto da parte di centurioni e pochi soldati inviati nell'oppido per raccogliere armi e quadrupedi ... Mentre dunque taluni centurioni e soldati erano affaccendati, su s-largo piazza o mercato che fosse, a raccogliere armi e quadrupedi; mentre ciò avveniva in tutta tranquillità, gli oppidani, quelli che per una ragione o per l'altra si trovavano sulle mura, scorsero lontano - in direzione di Sancerre,


probabilmente - ciò che certo era stato per loro motivo di attesa e delusione nei giorni precedenti: fu vista a distanza la cavalleria in {ltJanguardia alla colonna di Vercingetorige. Allora gli oppidani, appena videro quella cavalleria e poterono sperare nel suo aiuto, ad alte grida, clamore sublato, cominciarono a prendere le armi, arma capere, chiudere le porte, portas claudere, occupare gli spalti, murutr compiere. T uttavia, quel certo numero di militari romani in Novioduno, pur forse senza rendersi conto della causa di quel tumulto, fece in tempo a svignarsela prima che l'esaltazione divenisse ferocia: i centurioni che si trovavano nell' oppido, avendo capito dall'atteggiamento dei Galli che questi stavano preparando qualche cosa di nuovo - ma fra atteggiamenti mutati alte grida e minacce dovette essere questione di minuti - sguainate le spade, gladiis destrictis, occuparono una porta e condussero fuori in salvo, al completo, i loro uomini. Ma la cavalleria di Vercingetorige s'era proprio avvicinata ali'esercito romano a preludio dell'avvicinamento delle fanterie per battaglia in campo aperto? No, niente preludio di battaglia: si trattò, forse, di forte nucleo, cav.;lleria e fanteria, da Vercingetorige inviato probabilmente in ricognizione; sì che ora assisteremo solo a uno scontro equestre alquanto pesante ma di breve durata. Cesare ordina alla sua cavalleria di uscire dal campo e fa iniziare il combattimento; visti però i suoi in difficoltà, laborantibus iam suis, manda in loro aiuto circa quattrocento cavalieri germani che teneva presso di sè sin dal principio della campagna, Germanos equites quos ab initio secum habere instituerat. Conci usione: i Galli non poterono resistere all'impeto dei quattrocento e, volti in fuga con molte perdite, si ritirarono sulla loro colonna. Questa improvvisa apparizione nell'esercito romano di ausiliari germanici ci ricorda che Vercingetorige, appena investito del comando supremo, aveva provveduto con particolare cura, in primis, alla cavalleria. Uno dei maggiori problemi della guerra l'accaparramento di quest'arma da parte dei due cootendenti; chè la Gallia quanto di essa avrebbe dato a Vercingetorige altrettanto avrebbe tolto a Cesare. I cavalieri germanici - certamente, come a suo tempo rileveremo, più dei quattroc_ento questa volta impiegati - furono dunque per Cesare una necessità; e anche grata risorsa, data la diabolica loro combattività che conosciamo.

Manifestatosi dunque l'insuccesso della cavalleria di Vercingetorige, g11 oppidani, presi nuovamente da paura . . . . Sì, ma non ripensarono subito e solamente alla resa, come a noi senz'altro oggi accadrebbe. La paura accrebbe lo zelo; prima di ripreser. arsi


~

·- ··

Avarico.


si procurarono più meritorio titolo: ... arrestarono coloro che pensavano avessero sobillato la plebe, comprehensos eos quorum opera plebem concitatam existimabant (in Neuvy antica, scomparsa che fu la cavalleria di Vercingetorige, tutti si sentirono « sobillati » : io « clamore sublato » ? io « arma capere »? io « portas claudere »? io « murum compiere » ?)arrestarono dunque i sobillatori della plebe e li consegnarono a Cesare, - pur sapendo che a essi non poteva essere riserbata qualifica e sorte di ostaggi - arrendendosi. L'esercito romano proseguì subito per Avarico.

0PPID0 QUASI LAGUNARE.

Cesare dice: « Impadronitomi di Novioduno, partii per Avarico, l'oppido più grande e più fortificato dei Biturigi, oppidum maximum munitissimumque in finibus Biturigum, e posto in regione fertilissima. Speravo che con la conquista di quest'oppido avrei riportato in mio potere tutto il popolo dei Biturigi ». Si dirige quasi al centro del Berry, oggi ricchi dipartimenti Indre e Cher. L'oppido Avarico - oggi Bourges, situata nella rete di ben cinque corsi d'acqua - era allora in grandissima parte circondato da paludi, pantani e stagni, formati, più specialmente verso la fine dell'inverno, dallo straripamento dei corsi d'acqua: godeva dunque di isolamento primitivo, quasi città lagunare. Da Agedinco ad A varico, ossia da Sens a Bourges, le legioni hanno impiegato, con le tre soste, un quindici giorni; e saremmo ora a fine marzo, periodo in quelJe plaghe, a cagione delle piogge, più duro dello stesso inverno.

LE DIRETTIVE DI VERCINGETORIGE.

Vellaunoduno, Cénabo, Novioduno: per i Romani tre grossi successi anche in fatto di prede e specie di vettovaglie; tre disastri, sotto ogni punto di vista, per i Galli. E tutti avvenimenti, se si eccettua lo scontro sostenuto dalla cavalleria di Vercingetorige, incruenti: tre pagine insomma poco felici per gli insorti. Conseguenza dell'ambigua politic;a· edua la prematura e quasi istantanea resa dell'oppido senone, la impreparazione dei Carnuti e ora questo inizio di franamento anche dei Biturigi? Quanti i popoli che vogliono veramente combattere communis libertatis causa? prevalgono gli indifferenti? hanno ancora sotterranea possanza i collaborazionisti? Interrogativi di sempre. Resta il fatto, qui, di un esercito romano in Gallia da sei anni, con basi logistiche nel cuore stesso del paese: un maglio di acciaio che tutti hanno scansato e


vorranno scansare; inevitabili pertanto, sin che le cose rimarranno così, incertezze e miserie. Vercingetorige, lui per primo, è di ciò convinto. Vercingetorige, dopo la serie di insuccessi a Vellaunoduno a Cénabo a N ovioduno, chiama a Concilio i suoi alleati e mostra loro che occorre condur la guerra in modo ben diverso da quel che s'era fatto sino ad allora. Pare che egli si trovasse con l'esercito in quel di Sancerre; dove è anche probabile che sia stato tenuto questo concilio quando l'esercito romano ad Avarico non era ancor giunto.

Queste le linee sostanziali del discorso di Vercinge.torige ai suoi alleati: - Occorre condur la guerra in modo ben diverso, longe alia ratione, da quel che s'è fatto sinora. Con ogni nostro mezzo dobbiamo tendere a questo fine: impedire ai Romani il rifornimento di viveri e foraggi. Compito agevole, id esse facile: sia perchè noi abbiamo numerosa cavalleria sia perchè siamo favoriti dalla stagione. Nulla da mietere, in questa stagione, per i Romani, pabulum secare non posse: eppertanto i nostri nemici, non potendo altrimenti procurarsi il cibo, devono di necessità frazionarsi per ricercarlo nelle case, nei depositi, ovunque possano tr,ovarlo. Ecco dunque il nostro sicuro vantaggio: la cavalleria gallica può ogni giorno, cotidie, annientare tutti i vettovagliatori nemici. Quando è in giuoco la salvezza della comunità, ogni interesse privato è da posporre, rei familiaris commoda negligenda: bisogna dunque dare alle fiam me villaggi e case, ovunque si supponga che i Romani possano portarsi per rifornirsi di foraggi. Noi di tutto abbiamo abbondanza; chè noi saremo riforniti dai popoli nel cui territorio faremo la guerra. Ben diversa sarà la condizione dei nemici: i Romani o non sopporteranno la mancanza di vettovaglie o, con grave rischio, dovranno molto allontanarsi daz loro quarheri. Puntate ai bagagli, ai carreggi, alle salmerie: non v'è differenza se i Romani li uccidete o solo li private dei mezzi di trasporto: senza mezzi di trasporto non si fa guerra, quibus amissis bellum geri non possit. Inoltre: bisogna dare alle fiamme non solo villaggi e depositi ma le città che per fortificazione e posizione non siano al sicuro da ogni pericolo, oppida incendi oportere quae non munitione et loci natura ab omni sint periculo tuta. E ciò per due ragioni: perchè esse non servano di rifugio - scusa la loro difesa - a quanti fra noi vogliano sottrarsi ali'esercito in campo; perchè non diano ai Romani possibilità di'far preda e di rifornirsi. Tutto questo può sembrare grave e crudele, gravia aut acerba; ma più duro sarebbe la schiavitù dei figli e delle mogli e l' éssere noi stessi uccisi; essendo tale, ineluttabile, la sorte dei vinti.


Le direttive di Vercingetorige sono approvate da tutti, omnium consensu, e in ~n sol giorno, uno die, sono incendiate più di venti città dei Biturigi, amplius viginti urbes Biturigum incenduntur; e lo stesso avviene presso altri popoli. In omnibus partibus incendia conspiciuntur, in tutte le parti, - ai Romani funesto presagio - si vedono incendi ... Cesare dice: « E quantunque i Galli, tutti, ne provassero grande dolore, si consolavano al pensiero che, con la vittoria ormai quasi sicura, prope explorata victoria, si sarebbero rapidamente rifatti delle perdite, celeriter amissa recuperaturos ». E' punta ironica, forse : ma a eventi già passati. Perchè la situazione divenne subito grave anche per lui.

Come tutti gli eserciti in terra anche solo non amica, l'esercito romano presentava la sua maggiore vulnerabilità nel rifornimento delle vettovaglie; sia che si trattasse di colonne inviate da alleati, con scorte e mezzi da questi stessi forniti, sia di drappelli staccati dalle legioni per una più immediata ricerca o integrazione di rifornimenti lungo gli stessi itinerari delle truppe. Operazioni sempre faticose e preoccupanti per l'ordinaria insicurezza delle strade; ma che ora si sarebbero complicate con la distruzione di viveri e foraggi ordinata da Vercingetorige ovunque l'esercito romano si fermasse o fosse in transito. Ma chi può vivere, e per giunta combattere, se distrugge tutte le proprie riserve di alimenti? L'incendio dei magazzini significava che intere popolazioni, caricatosi sin l'ultimo pugno di grano e di biada, dovevano abbandonare, all'apparire dei Romani, le loro terre. L'incendio di case villaggi e città attesti e garantisca la vostra fermezza nella causa della libertà; la distruzione delle vostre case soffochi in voi la speranza di farvi ritorno patteggiando col nemico. Bisognava sottrarsi al maglio con la distruzione dei propri beni, deliberata ed eseguita a freddo sia dal povero che dal ricco. La prostrazione dell'esercito romano - e solo allora lo si sarebbe potuto affrontare - attraverso la sistematica rovina del proprio paese.

AvARIOO SI PUÒ DIFENDERE.

Non appena fu noto che Cesare era in marcia per Avarico, vi fu un'altra riunione dei capi dei Galli: si discute, in assemblea gènerale, se Avarico dovesse essere incendiata o difesa, incendi an defendi.


C'è da supporre che i pareri più autorevoli si fossero subito mostrati contrari alla difesa, sino forse al punto che si era già quasi imposta, consenziente Vercingetorige, la decisione di dar Avarico alle fiamme. I rappresentanti dei Biturigi, a questo punto, si gettano ai piedi degli altri Galli, procumbunt omnibus Gallis ad pedes, implorando di non essere costretti a dar fuoco con le loro mani alla città forse più bella di tutta la Gallia, pulcherrimam prope totius Galliae urbem, baluardo e onore di un popolo. Noi possiamo agevolmente difenderla - essi dicono ___,, data la sua posizione: circondata com'è da quasi tutte le parti da fiume e palude, prope ex omnibus partibus flumine et palude circumdata, non ha che un'unica strettissima via di accesso, unum et perangustum aditum. Uno di quei dati di fatto lampanti di fronte al quale ogni altro ragionamento è ognora divenuto e diviene per i barbari superfluo: unum et perangustum aditum, un'unica, strettissima, via di accesso: E quale assalitore oserebbe avventurarvisi? e che pretendono di obiettare, complicando, gli strateghi ? La richiesta dei supplicanti fu esaudita. Cesare, quasi volesse fissare i limiti della responsabilità di Vercingetorige, dice: « E Vercin getorige che prima era contrario, dissuadente primo Vercingetorige, cede ora, post concedente, spinto dalle preghiere degli interessati e dalla compassione per essi della maggioranza, et precibus et misericordia vulgi >>. · E' la seconda volta che l'alvernate desiste pubblicamente da un suo proposito: un mese addietro o poco più, dal paese dei Biturigi s'è fatto attrarre in Alvernia; e anche allora per « precibus et misericordia vulgi », cioè più per convenienze politiche che per ragioni militari. Avarico non sarà dunque data alle fiamme: può essere difesa; e per la sua difesa si procede senz'altro alla scelta delle truppe più adatte, defensores idonei deliguntur.

POS IZIONE INIZIALE DEI DUE ESERCITI.

Cesare, giunto ad Avarico, pose il campo davanti a quella parte dell' oppido dove fiumi e paludi lasciavano la stretta via di accesso di cui dianzi s'è detto .. . Lo pose, pare, a sud- est di Bourges, nell'area dell'odierno faubourg du Chàteau, un chilometro all'incirca dalle mura di Avarico. · Vercingetorige - proveniente probabilmente dal territorio di Sancerre seguì Cesare marciando più lentamente, e pose il campo in luogo difeso da paludi e boschi - a nord- est, pare, di Bourges, nella zona di Morogues a circa ventiquattro chilometri da Avarico.


Data la pos1z1one dei due campi, si può desumere che Vercingetorige s'è posto a non molta distanza dai Romani e sulle loro retrovie allo scopo di regolare la sua azione su quella di Cesare; e s'è chiuso fra paludi e boschi perchè non intende esporsi al pericolo di essere attaccato. Vercingetorige, organizzato in quel luogo un servizio di informazioni, sapeva in ogni momento del giorno, in singula diei tempora, quel che avveniva davanti ad Avarico, e dava in conseguenza le sue disposizioni. Ma il valore di codeste generiche espressioni lo si potrà misurare quando c1 saremo reso conto delle condizioni in cui l'impresa Avarico ha posto le legioni.

IMPOSSIBILE IL BLOCCO.

La natura del luogo non consentiva di circondare l' oppido con un vallo. Non solo non era possibile lo scavo della trincea, ma l'estensione la gravezza l'insidia del terreno paludoso avrebbero reso stolta dispersione di forze anche una discontinua collocazione intorno all'oppido, dove possibile, di presidt di fanteria, nonchè rischioso ogni impiego anche saltuario di cavalleria; - tutte circostanze che già ponevano in assoluto vantaggio la difesa, la quale, spalle e fianchi al sicuro, si veniva così a trovare impegnata solo su strettissima fronte. L'unum et perangustum aditum, quell'unica e stretta via d'accesso all'oppido (ve ne erano però anche altre, come poi risulterà: ma questa in quel momento doveva essere la più emergente) sembra che toccasse Avarico fra due porte della cinta (due portè che si spalancheranno, improvvisamente, in epico momento), per una larghezza, forse non tutta praticabile, di un trecento metri, e che fosse lunga un ottocento. Tutta dominabile a vista, comunque, e dal campo romano e dagli spalti di Avarico. Escluso pertanto il blocco dell'oppido col vallo; esclusa una proficua sorveglianza che precludesse all'oppido ogni comunicazione con l'esterno; escluso, per mancanza di terreno idoneo, un forte spiegamento frontale di forze, ai Romani non restava che l' « oppugnatio » ossia un massiccio attacco scoperto, su fronte eccezionalmente ristretto.

Cesare, dunque, poichè la natura del luogo non consentiva di circondare l'oppido con un vallo, cominciò a far costruire un « agger », aggerem apparare, a far mettere in opera le vinee, vineas agere, a far allestire due torri, turres duas.


L' « AGGER )).

Avarico sorgeva su una modesta altura rispetto al piano circostante, e così pure su zona alquanto elevata, per ovvie ragioni. di abitabilità, doveva essere stato impiantato il grande campo romano; ma la stretta lingua di terra, il perangustum aditum, non era in quota nè col campo nè con l'oppido: dal campo, per un certo tratto degradava forse leggermente, e poi, a un centinaio di metri da Avarico, terminava (non potrebbe esserci dubbio) in una brusca e ampia depressione, una specie di burrone. Di modo che, sia per questa anfrattuosità proprio sotto le mura che per l'altura su cui sorgeva Avarico e i sette otto metri che potevano essere alte le mura dell'oppido, si sarebbe posto in condizioni disperate l'attaccante che si fosse senz'altro avventurato nella depressione. Un terrapieno, un agger, doveva dunque colmare quel fosso e consentire all'attaccante e alle sue macchine l'approccio all'oppido, tenendoli alla stessa altezza dei difensori sugli spalti. Un agger o terrapieno che dir si voglia - anticipiamo qualche dato sicuro - che costò a migliaia di soldati venticinque giorni di febbrile lavoro, diebus quinque et viginti, e che nella fase terminale, quando era già assai vicino alle mura, aveva una fronte di un cento metri, era alto un ventiquattro - profondità dell'anzidetta depressione, più l'altura di Avarico - e lungo, si congettura, un p<>' meno di cento. C'è chi calçola che occorsero non meno di duecentocinquantamila metri cubi di terra di riporto. Una considerevole massa di terra e pietre pressate (un grande parallelepipedo, se volessimo schematizzare l'immagine) robustamente sostenuta all'interno e imbrigliata all'esterno da fascine, siepi, tronchi d'albero.

LE

VINEE.

I lavori campali era dato proseguirli, allora, quando possibile, anche di giorno a brevissima distanza dal nemico; e a sostituire la protezione del nostro camminamento mascherato e'era la vinea. Rustica e di facile fattura, la vinea era una specie di baracca di legno a tetti spioventi, di varia grandezza, chiusa da soli tre lati e senza pavimento; nell'interno, i soldati, spostandola a seconda del bisogno, - la si poteva fissare al terreno o anche rendere mobile su ruote o rulli - trovavano protezione dal tiro e dalle intemperie nell'esecuzione dei lavori. Vinee aggruppate proteggevano, naturalmente, maggior spazio; e, poste in fila e congiunte, costituivano « porticus » : vero e proprio camminamento coperto, allungabile e ~dattabile alle forme del terreno. 25. - U .S.


A breve distanza da Avarico dunque, nell'area dei lavori immediatamente popolatasi, le vinee, isolate e aggruppate, furono poste in opera subito; e aumentarono di mano in mano che il progredire dell'agger rese i lavoratori più vulnerabili dalla fortezza. I lavoratori, invero, si dovettero trovar subito sotto tiro nemico se i difensori erano in possesso, come si potrebbe dar per certo, di macchine con gittate (a proietti di pietra, di metallo, di materie incendiarie) che potevano raggiungere anche i trecento metri: ma tutto, naturalmente, sarebbe divenuto più difficile andando avanti, a una cinquantina· di metri dalle mura, sotto il più agevole e comune tiro delle armi individuali. Anche perchè la cinta di Avarico, come in genere degli oppidi gallici, era internamente munita, come poi rileveremo, di alte torri fisse di legno. Torri che, consentendo sicura e minuta visuale del terreno antistante, favorivano l'insistenza e l'efficacia del tiro sulle vinee e sulle opere avanzate che divenissero alla difesa più minacciose.

DuE

TORRI MOBILI.

La urgente necessità, pertanto, di torri anche da parte romana che controbattessero, e quanto possibile neutralizzassero, spalti e torri del nemico. Per proteggere, in un primo tempo, la costruzione dell'agger e, in seguito, per appoggiare le operazioni di attacco e assalto. Ma le due torri, turres duas, di cui Cesare ordinò subito la costruzione dovevano avere per precipua caratteristica la mobilità; due torri, mobili in sede propria, ciascuna su un fianco dell'agger e quindi con scorrimento perpendicolare alla fronte di attacco. Avrebbero avanzato o indietreggiato, ~u ruote o rulli, spinte a braccia; mobilità preziosa qualora colpite da proietti incendiari, il pericolo a cui più erano esposte le torri fisse, e occorresse tirarle indietro per sottrarle alla distruzione. Una torre mobile, in genere, conteneva l'ariete nel piano inferiore, diverse specie di ponti levatoi nel mezzano, tiratori scelti ed apposite feritoie nei piani più alti: macchina, comunque, assai più complicata di quanto oggi si possa a tutta prima immaginare; costruita da artieri specializzati, non si può presumere che si prestasse a essere impiegata se non da gente di spiccata abilità nelle operazioni ossidionali. Di pari passo con l'agger si procedè dunque alla costruzione di due altri terrapieni all'agger congiunti sui fianchi, anzi con esso tutt'uno; - due terrapieni, calcoleremmo, quattro cinque metri più bassi del centrale e larghi un dieci; muniti poi di parete esterna, - l'interna . era il fianco stesso del1'agger - sarebbero divenuti due larghi camminamenti per lo scorrimento protetto delle basi delle tprri.


Basi che non potevano non essere adeguate, per grandezza e stabilità (e perciò ci è occorso calcolare camminamenti larghi e alti), alle due grosse e alte torri in travaglio di movimento. Pare infine - per quel che rileveremo a suo tempo - che la parete esterna di codesti due camminamenti fosse in questo caso ottenuta con la collocazione l'uno a fianco dell'altro di « plutei», apparecchi protettivi, per più tiratori, fatti di tavole o di robusti graticci; scudi mobili, in altri termini, anch'essi di largo uso sul campo di battaglia quando occorresse sosta o lenta avanzata o lenta retrocessione.

PIOGGIA FREDDO FAME DURO LAVORO.

Compresi i camminamenti laterali delle torri, l'agger verrà così ad assumere una larghezza, o fronte, di un centoventi metri e una lunghezza di q uasi cento. Supposizione necessaria, infine, anche questa: l'opera sia in costruzione che compiuta, occorre considerarla circondata - là dove la palude non desse, con la vicinanza, sicurezza - da apposite difese esterne: tronconi di trincee, probabilmente, presidiati giorno e notte. All'esercito, appena riunito là dove oggi sorge faubourg du Chateau, non fu concesso, si può dire, un istante di tregua. Il campo - data la non breve sosta, il duro lavoro in programma e l'avversa stagione - occorreva non privo di sufficiente sicurezza e perlom~no abitabile; sotto pressione cantieri e officine per la costruzione delle torri e la lavorazione di tutti gli altri materiali occorrenti alle opere in terra, nonchè dello spe .i.fico armamento ossidionale; grosse colonne di quadrupedi, carri, ste1 ·::tton , per la terra di riporto che, necessitando per l'agger asciutta, poteva anche non trovarsi vicino. Attività e traffici quasi certamente non interrotti del tutto neppure di notte. Una dannata vita, insomma; e per l'entità e l'urgenza di quelle opere e perchè l'inclemenza della stagione non dette, in venticinque giorni, un istante di tregua: fred do e piogge incessanti, toto tempore frigore et adsiduis imbribus. E si aggiunse, presto, insufficiente e inadatta nutrizione. Cesare dice: << In quanto ai rifornimenti di grano, non desistetti dalla richiesta a Boi e Edui. Ma gli Edui non mettevano nessun impegno, nullo studio, e non furono quindi di grande aiuto; i Boi, popolo piccolo e debole, erano giunti presto alla consumazione d'ogni loro riserva». A parte i Boi, che effettivamente nulla o quasi potevano, è facile rilevare che gli itinerari sulla sinistra Loira, e quindi nel territorio dei Biturigi,


che dovevano percorrere i rifornimenti degli Edui cadevano sotto il controllo della cavalleria di Vercingetorige; il quale ha posto il campa - suppasizione che ora diviene più consistente - nella zona, a un di presso, di Morogues. Gli Edui, per rifornir Cesare (non affatto negativo il loto aiuto, come abbiamo appena inteso: qualche colonna, chi sa con qual giro, riuscì perciò a passare), avrebbero dovuto scontrarsi con Vercingetorige e dare effettivo inizio alle ostilità contro la Gallia ribelle: non ponevano, invece, alcun impegno, nullo studio. Non essendosi manifestata una sicura prepanderanza dei collaborazionisti sui vercingetoristi (contro Ariovisto, sei anni fa, in testa Diviziaco e Lisco, fu tutt'altra cosa), essi erano in grave crisi palitica anche all'interno; ed era perciò impedita dai contrasti, come presto sentiremo, la stessa annuale elezione del vergobreto. Cesare avrebbe almeno dovuto garantire via sicura ai rifornimenti edui sulla smistra Loira; ma non era neppure da pensarlo, tanto la sua cavalleria doveva essere inferiore, non solo numericamente, a quella di Vercingetorige. Quell'iniziale successo equestre di Novioduno tutto dovuto al suo felice impiego dei quattrocento cavalieri germani: una fulminea e inattesa irruzione solo però per disimpegnare la propria cavalleria già cedente; niente altro, insomma, che un rapido atto difensivo. Due perciò le nubi incombenti: in evidente deflessione il collaborazionismo eduo, insufficiente l'arma, la cavalleria, che dà respiro alle legioni.

Cesare non se ne nasconde le conseguenze. Dice: « Vercingetorige sapeva in ogni momento del giorno quel che avveniva davanti ad Avarico e dava in conseguenza le sue disposizioni. Sorvegliava tutte le nostre uscite per il foraggio e il frumento, omnes nostras pabulationes frumentationesque, e assaliva i nostri drappelli che necessità costringeva ad allontanarsi un po' troppo, infliggendo loro gravi perdite, quantunque si prendessero tutte le precauzioni possibili, facendo andare i nostri in ore e per strade sempre diverse» . La costrizione a « ore e vie sempre diverse » rivela che Vercingetorige non solo aveva bloccato, sulla Loira, ogni eventuale grosso passaggio dell'aiuto eduo ma esercitava altresì un controllo inesorabile immediatamente alle spalle dei Romani. In quotidiana sofferenza perciò tutte le non poche forze romane incaricate della ricerca di cibo divenuta per i Romani estrema necessità. Si esaurì il grano partato al seguito; sopraggiunse quasi la fame; sia per la povertà dei Boi sia per l'insolvenza degli Edui sia per l'incendio dei depositi (ma senza Vercingetorige e la sua cavalleria tutte queste cose si sarebbero in qualche modo superate), l'esercito fu colpito dall'estrema carenza, summa


difficultate, dei rifornimenti sino al punto che i soldati mancarono per parecchi giorni di cereali e fronteggiarono l'estrema fame con animali razziati in lontani t1illaggi. Venne a mancare il nutrimento primo, pane o altro cibo a base di grano: si sostentarono, forse per circa due settimane, quasi solo di carne. Cesare dice: « Tuttavia, non si udì mai da loro una t1oce indegna del decoro del Popolo Romano e delle precedenti vittorie» . Abnegazione dei soldati e, naturalmente, efficiente azione di comando: Cesare, come ora sentiremo, paga il più che può di persona, e tutta la gerarchia da lui stimolata è tramite valido fra lui e le truppe. Dice: « Anzi, quando io parlavo, sui lat1ori, alle singole legioni, e dicevo che, se le privazioni erano troppo dure, ero anche disposto ad abbandonare l'assedio, se dimissurum oppugnationem , tutti a una voce mi chiedet1ano di non farlo, universi ne id faceret petebant. Sotto il tuo comando, - mi dicevano i soldati - ci siamo comportati per parecchi anni in tal modo da non macchiarci di alcuna tJergogna, da non lasciar mai incompiuta un'impresa. Considereremmo disonore abbandonare l'opera intrapresa. Preferiamo sopportare ogni sofferenza, omnes acerbitates, che non t1endicare i cittadini romani vittime, a Cénabo, della perfidia dei Galli. Le stesse cose i soldati dicet1ano ai centurioni e ai tribuni perchè me le riferissero ». Ancor vivo, però, il ricordo del cospicuo bottino di Cénabo donato alle legioni e non da dimenticare che Avarico non era meno ricca di Cénabo. Situazioni estreme, come sempre avviene, si respirano da tutti con l'aria, pur senza essere strateghi; più di tutto sull'ottimo morale dovè influire questo: che se si fosse abbandonata l'impresa anche i popoli che ora stavano alla finestra avrebbero aderito alla rivolta. Quali fosche prospettive per tutti, allora; essendo nulle o quasi le possibilità di una ritirata dal cuore della Gallia alla Provincia che non rasentasse la rotta o vi si tramutasse. Pioggia, freddo, fame, duro lavoro: ma decisa volontà, almeno per ora, di persistenza.

Se Avarico cade in poco tempo, tutto si risolverà a favore di Cesare; ma se le operazioni andranno per le lunghe: o Cesare dovrà dividere le sue forze (ricordiamo che due legioni sono a Sens col bagaglio di tutto l'esercito) per tener impegnata Avarico e far fronte nel contempo, a tergo, alle necessità del vettovagliamento - col rischio di trovarsi insufficiente sia per l'uno che per l'altro compito - o dovrà del tutto rinunciare, decisione tanto più grave quanto più lunga e logorante la stasi, alla conquista di Avarico. La situazione generale presenta perciò, ora come ora, - a un due settimane dall'inizio delle operazioni sotto Avarico - più di un punto favorevole a Vercingetorige.


Cesare, postosi volontariamente su quella specie di diga, è limitato nei movimenti: ha, sui fianchi, zone paludose e malsane; a tergo, un esercito nemico e popolazioni in rivolta o infide; una città fortificata, sulla fronte, la più gran parte inaccessibile. Vercingetorige, a circa ventiquattro chilometri da Avarico, ha libertà d'azione : A varico gli è ancora accessibile, sia pure per malagevoli transiti; può tenersi in contatto con i popoli in rivolta o incerti; potrebbe muovere le sue forze, con la protezione della sua molta cavalleria, in tutte le direzioni.

IL

DIVERSIVO DI RrANS.

L'episodio che segue si potrebbe appunto porre a un due settimane dall'inizio delle operazioni: in situazione quasi disperata per i Romani, pesante però anche per i Galli.

Già le torri potevano avvicinarsi alle mura - e, perciò, con le torri in opera, avanzata anche la costruzione dell'agger - quando Cesare seppe da prigionieri che Vercingetorige, consumati i pascoli, aveva avvicinato il suo campo ad Avarico, castra movisse propius Avaricum, e che poi egli s'era allontanato con la cavalleria e la fanteria leggera - la fanteria idonea al combattimento in mezzo ai cavalieri - per tendere un agguato nei luoghi dove pensava che i Romani sarebbero andati il giorno dop o a foraggiare, postero die pabulatum venturos. Un fatto importante, dunque; un maggiore avvicinamento del campo gallico al campo romano. Vercingetorige spostò il campo, pare, a Rians, che dista da Bourges una quindicina di chilometri; un trasferimento, perciò, da Morogues, di appena dieci chilometri. Ma lo spostamento e la risistemazione anche a breve distanza di tante migliaia di uomini, barbarici che ne fossero i procedimenti, non potè non essere operazione, fra progetto ed esecuzione, piuttosto lunga, di qualche giorno. E perciò Vercingetorige solo quando ebbe riorganizzato il nuovo campo - allontanandosi, lo sentiremo da lui stesso, contava sull'assoluta sicurezza della posizione fatta occupare dal suo esercito - partì con tutte le truppe celeri per ignota des_tinazione (se per l'agguato o per altro motivo, giudicheremo meglio poi). Mossa, comunque, inattesa. Alla quale però -rispose, immediata, un'audace contromossa del generale romano. Cesare, avute queste notizie, partì a mezzanotte, in gran segretezza, e giunse la mattina davanti al nuovo campo nemico, media nocte silentio profectus ad hostium castra mane pervenit.


39 1 Quasi l'eco, nel dettato latino, della rapida decisione ed esecuzione di quel movimento. Forse sperava di cogliere il nemico in crisi di organizzazione del nuovo campo, e invece - un'altra prova della serrata pressione su di lui di Vercingetorige - e invece: i nemici, informati rapidamente dagli esploratori del suo arrivo, nascosero carri salmerie bagagli nella parte più fitta dei boschi (ma questo non p0tè del tutto avvenire nel p0co temp0 che precedette il suo arrivo: il più, evidentemente, era fatto), e schierarono tutte le loro forze su una posizione elevata e aperta. Cesare dice: << Come ciò mi fu riferito, ordinai "sarcinas conferri arma expediri" ». Espressione latina, diremmo regolamentare, - analoga all'odierna « si assumano formazioni di combattimento » - : che si dep0nesse e radunasse ogni sorta di bagaglio trasp0rtato dal legionario e si approntassero le armi individuali, quelle trasp0rtate dal legionario e quelle su salmerie. Siamo alla battaglia?

Ma prima Cesare ci concede uno sguardo alla p0s1z10ne su cui i Galli erano schierati. Era un'altura che sorgeva con lieve pendio sin dalla base, circondata da quasi tutte le parti da difficile e ingombra palude, palus diffìcilis atque impedita, larga una quindicina di metri ... Posizione ideale che gli occupanti si assap0ravano metro per metro: ... I Galli, tagliati i ponti, confidando nei pregi tattici di quel luogo, colà se ne stavano, schierati per popoli, sorvegliando guadi e ogni altro passaggio. E degno d'una tal maginot era ·il progetto di difesa che fermentava nella loro testa: erano ben decisi - se i Romani tentassero di forzare il passaggio della palude - a far sentire il lor peso, dall'alto, su di essi in crisi. Attesa, perciò, a piè fermo. Cesare dice : « Chi avesse giudicato dalla vicinanza degli schieramenti - la quindicina di metri della palude e p0c'altro spazio - avrebbe pensato che i due eserciti fossero pronti a combattere quasi in condizioni uguali, prope aequo Marte, - l'altura nemica era a declivio dolce, come s'è detto, rispetto alla p0sizione dei Romani; - chi invece avesse considerato la disparità tattica d~lle posizioni avrebbe compreso che si trattava soltanto di vana dimostrazione ». Evidente: a nessuno mai farebbe dispiacere bersagliare, dall'alto, attaccante in palude, fra acqua fango intricata vegetazione; alquanto sgradito, per contrapposto, attaccar nemico da palude protetto, e posto, anche di poco, più in alto.


39 2 Ma le pretese dei soldati romani, quella mattina, furono curiose: sdegnati erano i soldati romani, indignantes milites, perchè i nemici, con così poco spazio in mezzo, potevano sopportare la loro vista: chiedevano pertanto il segnale della battaglia, signum proelii exposcentes. I Galli avrebbero dovuto squagliarsela, che pretesa, al solo vederli; e giacchè questo non avevano fatto, ecco che essi Romani si dichiaravano offesi e senz'altro pronti ad attaccarli, malgrado palude e dislivello. Facevano dunque i signum proelii exposcentes. Ma Cesare fece spiegar loro a qual prezzo e con quanta perdita di valorosi soldati si sarebbe potuto avere la vittoria; e come, proprio perchè li vedeva sì pronti ad affrontare qualsiasi pericolo per la sua reputazione, pro sua laude, proprio per questo, egli sarebbe stato un grandissimo colpevole se non avesse considerato la loro vita più cara della propria. Tutta una gonfiatura, sembrerebbe; ma a episodio e sue conseguenze chiusi, qualche spiegazione a questa strana euforia forse la troveremo.

Dice: « Placati così i soldati, li ricomj,ussi, nello stesso giorno, eodem die, nel campo e feci continuare i lavori per l'attacco dell'oppido ». Sotto la posizione di Rians egli non aveva portato che tre, tutt'al più quattro legioni; ~ ce lo confermerà fra poco, indirettamente, Vercingetorige. La costruzione dell'agger non era stata perciò sospesa, sì che, compiuto il rapido diversivo, continuò con l'intensità di prima.

Ma il diversivo che aveva deluso i soldati romani ebbe una grave ripercussione politica nel campo gallico: Vercingetorige, appena ritornato fra i suoi, fu accusato di tradimento, proditionis insimulatus. Tre capi d'accusa: egli aveva portato il campo più vicino ai R omani, castra propius Romanos; s'era allontanato con tutta la cavalleria, cum omni equitatu; aveva lasciato nel nuovo campo forze sì numerose senza designare un capo che lo sostituisse, sine imperio tantas copias. Si aggiunga un sospetto: appena lui partito, i Romani si erano puntualmente presentati davanti alle loro posizioni - e tutto questo non poteva essere avvenuto per caso e senza un accordo, non fortuito aut sine consilio. Atroce conclusione: egli preferiva· avere il regno della Gallia per concessione di Cesare piuttosto che dall'opera dei Galli, Caesaris concessu quam ipsorum beneficio.

Vercingetorige dovè pubblicamente difendersi: giudice tutto o quasi l'esercito riunito.


393 Da tali accuse, Vercingetorige così si difese: - Se ho spostato il campo, ciò si deve alla mancanza di pascoli: e voi stessi mi avete sollecitato a farlo, etiam ipsis hortantibus (se l'erano però dimenticato : segno che la deficienza non era poi così grave); se mi sono avvicinato ai Romani, sono stato indotto dal vantaggio della posizione che si difende - come ben vedete - senza lavori di fortificazione, sine munitione; se mi sono allontanato con i cavalieri, è perchè l'opera di questi, superflua in questo luogo paludoso, è stata invece utile là dove li ho condotti; se partendo non ho, volutamente, lasciato ad alcuno il supremo comando, è perchè un tal capo provvisorio non fosse trascinato a dar battaglia dal desiderio della maggioranza, ne is multitudinis studio ad dimicandum impelleretur ... Anche i Galli, dunque, desideravano la battaglia. E Vercingetorige insistè sul motivo della mancata designazione di un supremo comandante provvisorio che avrebbe potuto compromettere, trascinato dal volere della maggioranza, le sorti della guerra. . . . Vedo infatti che tutti vorreste la battaglia, ma che a questa tendete per debolezza d'animo, propter animi mollitiem, giacchè non siete capaci di sopportare più a lungo queste fatiche. Parole crude: segno che concreti e noti motivi che le ispirassero dovevano pur esserci. ... Se i Romani, appena io mi sono allontanato, si sono presentati qui per un caso, sia ringraziato il caso, se invece è avvenuto per informazione di qualcuno, un grazie all'informatore: perchè - merito del caso o della spia voi, dal!' alto, ex loco superiore, avete potuto vedere quanto essi fossero in pochi, paucitatem eorum, e misurare il valore di uomini che, senza osar di combattere, si sono vilmente, turpiter, ritirati nel campo. Io non desidero ricevere da Cesare, per tradimento, il potere che posso procurarmi con la vittoria. Quella vittoria che è ormai certa e per me e per tutti i Galli, sibi atque omnibus Gallis.

Anzi: il potere conferitomi vi restituisco, ipsis remittere, se voi credete di avermelo dato più per farmi onore, si sibi magis honorem tribuere, che per avere da me salvezza, quam ab se salutem accipere. E perchè vi convinciate che parlo consapevolmente, ascoltate i soldati romani, audite romanos milites ... -

Cesare dice: « A questo punto, Vercingetorige fece avanzare dei servi, producit servos, che pochi giorni prima aveva sorpreso mentre stavano foraggiando e che aveva sottoposto a torture con fame e catene ... ». Inattesa apparizione di un gruppo forse numeroso di nemici ridotti larve dalla fame.


394 Questi denutriti, - ai quali era già stato imposto quello che dovevano dire - qualificandosi soldati delle legioni, milites se esse legionarios (erano « romanos milites » come vuole Vercingetorige o « servos » come vuole Cesare ? Ma servi indigeni, comunque camuffati, non avrebbero fatto grande effetto), vennero dunque avanti e in cospetto dell'esercito fece ro le seguenti dichiarazioni (a m ezzo di interpreti, se « romanos milites »): spinti dalla fame e dalle privazioni, fame et inopia adductos, siamo usciti di nascosto dal campo per cercare nei campi un po' di frumento e qualche animale. Tutto il nostro esercito si trova nelle stesse condizioni, simili omnem exercitum inopia premi, e ormai le forze di tutti sono ali'estremo, inadeguate alle fatiche che i lavori richiedono: tanto che il nostro comandante in capo ha stabilito di condur via fra tre giorni l'esercito, triduo exercitum deducere, se non si riuscirà frattanto ad avere qualche successo contro le difese del!' oppido. Vercingetorige, forte allora dello spettacolo dei denutriti e soprattutto dei « tre giorni », potè riprendere il suo discorso e concludere .

. . . Questi sono i benefici che voi avete da me che pur accusate di tradimento. Per opera mia - e senza spargimento di sangue da parte vostra, si ne vestro sanguine, - voi vedete consumato dalla fame un tanto esercito finora vittorioso, tantum exercitum victorem fame consumptum. E io ho provveduto perchè nessun popolo lo accolga sul suo territorio il giorno in cui vergognosamente dovrà battere in ritirata. -

Tre giorni e l'esercito romano si porrà in ritirata: che sono tre giorni o, sia pure, cinque otto dieci? Ciò che avvenne appena Vercingetorige ebbe terminato il suo discorso è contenuto in questo cortometraggio sonoro: conclamat omnis multitudo et suo more armis concrepat quod facere in eo consuerunt cuius orationem adprobant: tutta la moltitudine applaude e fa risuonare_ le armi, com'è costume gallico quando si approva il discorso di qualcuno. Al rumore delle armi, il rumore dei commenti da un capo all'altro della moltitudine: grandissimo capitano è Vercingetorige, summum esse ducem; non si può dubitare della sua lealtà, nec de eius fide dubitandum; la guerra non può essere condotta meglio di così, maiore ration~. Fra tre giorni a quell'oppido -.- ossia a quell'Avarico definita quasi la città più bella di tutta la Gallia - l'aureola, anche, dell'inespugnabilità. Nè mancò il razzo finale. I capi dei Galli, visto che la fortuna avanzava di buon passo verso loro, vollero ancor più cattivarsela: stabilirono che diecimila uomini scelti, tratti però da tutti i contingenti alleati, fossero inviati nell'oppido: sia perchè non volevano affidare ai soli Biturigi la salvezza di tutti sia perchè comprendevano


395 che, una volta salva la città, ai Biturigi sarebbe poi toccato il maggior merito della vittoria. Doveroso da parte di tutti, diamine, l'aiuto a quei valorosi oppidani; altrettanto doveroso, e non c'è tempo da perdere, fare accorta politica e difendere la propria parte di vittoria. Con i soli Biturigi, vittoria certa: gran parte del merito però ai Biturigi.; con i Biturigi più diecimila alleati, vittoria certissima e merito a tutta la Gallia ribelle.

Quale fu, a questo proposito, il pensiero di Vercingetorige? Con l'invio del rinforzo, Avarico raggiungerà, come ci verrà detto poi, una popolazione di circa quarantamila anime, circiter milium quadraginta. Saturo cioè di popolazione civile e di truppe un oppido che, secondo l'iniziale valutazione del generale alvernate, non doveva essere difesa ma data alle fiamme. Tutta la scena della difesa di Vercingetorige davanti alla moltitudine è ancor viva, grandiosa; ma suscita, anche, un senso di pena: brutto segno quando un generale, guerra stante, è costretto, pubblicamente, a difendersi; quando si sente indotto a sottolineare, vantandone la paternità, i successi ottenuti senza spar:gimento di sangue: sine vestro sanguine; quando un condottiero, politico o militare, indulge alla pretesa o alla speranza del volgo di fissare un termine di tempo alla fine d'una guerra. Ma le dichiarazioni dei servi o soldati romani erano tutt'altro che prive di fondamento: la fame nell'esercì to ce l'ha segnalata Cesare stesso a chiare note; ed è spiegabile anche l'eccitante « tre giorni»: probabile distorsione dei discorsi di Cesare alle legioni quando si diceva disposto a rinunciare al1'impresa solo che glielo chiedessero. Perchè, allora, malgrado questa situazione che stava maturando a suo favore, Vercingetorige si è spostato da Morogues a Rians? Il campo a Morogues gli consentiva, come abbiamo già rilevato, libertà d'azione politica e militare; facoltà troppo preziosa perchè egli pensasse, solo per deficienza di pascoli, anche solamente a ridurla portandosi a meno di tre ore di marcia dalla potente fanteria romana. Ma anche la sua medaglia non mancava del rovescio. Mentre vuoto e guerriglia producevano i loro effetti alle spalle dei Romani, la situazione non si presentava altrettanto promettente su quella stretta lingua di terra fra il campo romano e Avarico. Qui i lavori, malgrado le intemperie e la misera nutrizione, erano continuati quasi con lo stesso ritmo dei primi giorni; e l'agger con le due torri stava per giungere alle mura e consentire ai Romani l'assalto all'oppido in condizioni di parità con i difensori.


Attaccare di viva forza il campo romano? Neppure a pensarlo, tante le prospettive di disastro. Nè concepibile un largo assedio, bloccando i luoghi ove non fosse palude: a parte che con vigorose sortite i Romani avrebbero potuto addentare quadrupedi viveri foraggi, gli eterogenei contingenti alleati erano del tutto inadatti a suddivisioni e dislocazioni che comportassero autonomie; al primo urto, e forse anche senza nessun urto, il grande esercito, si sarebbe dissolto. Ritornare al primitivo progetto di dar Avarico alle fiamme? ancor vivo il ricordo di Cénabo; e comunque troppo tardi : quelle fiamme avrebbero potuto avere conseguenze politiche disastrose offeso che fosse l'orgoglio dei Biturigi. Lo spostamento del campo, da Morogues a Rians, non presentava nè i rischi di un attacco nè quelli di un assedio: era solo una pressione più forte della precedente, più da vicino, per rendere disperate le già assai precarie condizioni logistiche dei Romani; un modo, l'unico possibile, per ritardare il compimento - quando la fame avesse raggiunto punte estreme - di quel terribile agger. E. forse non ci fu opposizione da parte di Vercingetorige al rinforzo dei diecimila: pressione alle spalle che conseguisse un rallentamento, per inedia, dei lavori e assalto che costasse ai Romani, per numero e gagliardia di difensori, molto sangue erano due atti volgenti a un medesimo fine: l'esaurimento dell'esercito romano. Più rilievo acquisterebbe, così, anche il « raid » di truppe celeri: agguato, sì, a colonna romana « in pabulatione », ma anche, e piuttosto, rapida e imponente dimostrazione di forze - con tanta cavalleria - ai popoli sui confini dei Biturigi, allo scopo di sostenere l'animo e di accrescere il numero dei ribelli ancora in ombra, specialmente edui. Lo spostamento da Morogues a Rians rileverebbe dunque l'inquietudine che, pur taciuta all'esercito, agitava l'animo di Vercingetorige.

Ma segni di preoccupazione sono più marcati, se ben lo fissiamo, sul volto di Cesare. Nessun concreto beneficio operativo, la contromossa. Perdita di tempo, anzi; che però egli ridusse a un giorno solo. Fu contromossa, si penserebbe, a scopo di prestigio; una pronta reazione al nemico venuto a porsi così vicino, si che il restarsene nel campo non sembrasse inferiorità o paura. Ma perchè le truppe romane, avendo in quel di Rians tutto contrario, e lo avrebbe visto un cieco, volevano l'attacco ? Meglio la battaglia subito, va o spacca, che le fatiche dell'agger fra le paludi e con la fame (quanti le morti e i morbi, in aumento ogni giorno sino a impressionare tutti, per i malefizi della palude e tutti gli altri stenti?);


397 meglio la battaglia che l'agger: questo dovette essere il primo pensiero spontaneo dei soldati romani in vista del nemico. Quell'effimera euforia che ordinariamente si genera, specialmente in guerra, col repentino passaggio da un deprecato stato di cose a un altro anch'esso non roseo ma diverso. Il barbaro Vercingetorige non ha esitato ad attribuire alla generale stanchezza il desiderio dlella battaglia; Cesare avrebbe invece indorato la pillola: ma anch'essi, i Romani, volevano la battaglia perchè anch'essi della situazione sotto Avarico non ne potevano più. E poi: quando agger e torri si saranno potuti portare a ridosso delle mura, quante perdite costerà la conquista dell'oppido contro decisa resistenza su fronte eccezionalmente ristrètto? Che la conquista avvenga a primo colpo e a buon prezzo è ipotesi da scartare: un miracolo. Può invece fallire o, se ciò si vuol escludere, conseguirsi dopo reiterati tentativi sanguinosi. Avarico, circa quarantamila anime, possiede - risulterà a suo tempo grosse riserve di viveri: ma come sperare che all'atto del cedimento i Biturigi, contravvenendo alla direttiva capitale di Vercingetorige, non le diano alle fiamme? Avarico conquistata dopo lunga stasi, molto sangue e la distruzione dei viveri, potrebbe non essere un successo effettivo; potrebbe anch'essere, nell'economia generale della guerra, l'inizio della disfatta.

L'AGGER TOCCAVA, QUASI, LE MURA •.•

La costruzione dell'ultimo tratto dell'agger divenuta, intanto, penosa: all'eccezionale energia e costanza dei soldati romani - quanta ognora ne richiede la guerra statica in stagione avversa - rispondevano i ritrovati d'ogni genere dei difensori ... Gente sveglia, piena di risorse, i Biturigi; e Cesare non tralascia anche questa volta l'occasione di manifestare a tutti i Galli la sua simpatia. Dice: << Rispondevano i ritrovati d'ogni genere dei difensori, ... perchè i Galli sono una razza di grande intelligenza, summae genus sollertiae, prontissima a imitare e mettere in pratica tutto quello che vede ad altri fare, ad omnia imitanda et efficienda aptissimum ». C'est une race d'une extreme ingéniosité, et qui a les plus grandes aptitudes pour imiter et accomplir tout ce que voit faire - traducono, compiaciuti, i francesi. I Romani, con falci assicurate all'estremità di lunghe pertiche - le « murali » che ricordiamo impiegate con qualche modifica nella battaglia navale di Saint Gildas - tentavano le connessure delle mura per iniziarne lo sgretolamento: ma i difensori, con speciali lacci, deviavano le falci, e, appena afferrate, se le tiravano con argani dentro le mura.


Ma l'azione delle falci, che di norma non poteva non accompagnarsi, qual modesto complemento, all'azione degli arieti, richiedeva lo stretto contatto col nemico; non è quindi oggi chiaro - giacchè qui a stretto contatto non saremmo - quanto giovevole risultato si potesse ottenere da pattuglie, anche notturne, di « falciatori ». Ecco invece un ritrovato dei Biturigi del tutto adatto e potente: essi minavano il terrapieno. Ogni epoca fa la mina che può, naturalmente; anche senza esplosivo. Dall'interno di Avarico, i Biturigi, con lunghi scavi sotterranei e certo piuttosto larghi, giungevano sotto l'agger. La mina, così, era fatta: l' agger, là dove aveva sotto il vuoto, o subito o alla prima occasione, per peso movimento umidità, franava. I Biturigi tanto più abilmente riuscivano in questo lavoro a danno del terrapieno in quanto possedevano nel loro territorio delle grandi miniere di ferro, magnae ferrariae, - vive ancor oggi - eppertanto conoscevano e usavano ogni genere di gallerie. Queste gallerie però, oltre a richiedere lunghe e gravose fatiche, dovevano pur convergere e terminare nello spazio, davvero poco, occupato dal terrapieno: i Biturigi non poterono dunque farne molte; ne poterono fare, quasi si potrebbe affermare, appena qualcuna. Malgrado però qualche franamento, non si direbbe che si possa attribuire solo alle mine l'estremo rallentamento, come ora avvertiremo, del1'avanzata dell 'agger. Bisognava giungere, con terrapieno e torri, a qualche metro dalle mura; e qui - i contendenti fronte a fronte, vicinissimi e a pari altezza - tentare la scalata sotto quel tratto di spalto dove si fosse riusciti col tiro a scacciare o neutralizzare del tutto i difensori. Anche il lancio di ponti levatoi dal terrapieno o dalle torri, se anche à ciò si vuol pensare, avrebbe richiesto distanze minime : un cinque metri o poco più.

Occupare, mercè la scalata, anche pochi metri degli spalti; operazione se sostenuta in pieno dal tiro dal terrélpieno e dalle due torri - di breve durata: questo il primo difficile passo~. tutto il resto presentava minori difficoltà.

Ma la difesa di Avarico era potenziata, l'abbiamo già detto, da torri fisse: la cinta in tutta la sua estensione era rinforzata con torri congiunte da tavolato, - un passaggio, forse, dall'una all'altra - e le avevano rivestite di pelli, - tenute costantemente pregne d'acqua, a difesa dai proietti incendiari.


399 I difensori nulla tralasciavano per conservare, contro i progressi del1'agger, il loro dominio difensivo: aggiungendo nuove impalcature alle lor torri, uguagliavano le torri romane di quanto queste si innalzavano con il quotidiano aumento del terrapieno. Anche i Romani ebbero bisogno di compiere grossi scavi; i loro tentativi dovettero però tutti fallire: i difensori - esperti, naturalmente, anche in contromina - stroncavano i progressi dei cunicoli romani con pali appuntiti e induriti a fuoco, con pece accesa, con sassi pesantissimi, impedendo che si avvicinassero alle mura. Potè trattarsi di trincee protettive molto avanzate, occorrenti per predisporre le basi del terrapieno nel tratto più vicino alle mura. L'impianto difensivo di Avarico ~ nella parte che noi oggi diremmo della difesa passiva - era dunque ben predisposto: anche senza considerare il ritrovato dei lacci contro le falci, c'era contro il terrapieno la subdola minaccia delle mine; c'era, assicurato dalle torri, il dominio metro per metro del terreno antistante. Ma era viva anche la difesa attiva: con frequenti sortite di giorno e di notte, o appiccavano il fuoco alle strutture di legno del terrapieno, aggeri ignem inferebant, o, addirittura, assalivano i soldati romani sul lavoro. Ardite e improvvise pattuglie, favorite dalla notte o dalle nebbie della palude. E se non possibile - per difetto di immediato appoggio di tiro dal terrapieno e dalle due torri - la scalata, tanto meno poteva esserlo un'azione di arieti per la breccia. Perchè le mura degli oppidi gallici, internamente sostenute da una robusta armatura di travi di legno, non si prestavano a essere agevolmente scompaginate. Il sistema secondo il quale i Galli costruivano le mura era, in genere, questo: collocavano orizzontalmente sul suolo - lungo il tracciato stabilito una serie di travi parallele fra loro e a intervallo l'una dall'altra di circa sessanta centimetri, ricoprendole di molta terra e ciottoli pressati dopo che le avevano legate fra di loro con robuste traverse di legno (lunghe, come ora sentiremo, sino a un dodici metri); però all'esterno - nella parte rivolta al nemico - l'intervallo fra le teste delle travi era tenuto, anzichè da terra e ciottoli, da grosse pietre. Ne risultava, così, una specie di grande steccato orizzontale che delle mura, segnandone circuito e spessore, costituiva la base. Una volta saldamente ancorato al terreno e reso ben compatto siffatto strato basilare, su questo se ne costruivano, connettendoli, altri di ugual fattura, sino a raggiungere l'altezza voluta. Le travi però. di ogni singolo strato erano situate in alternanza con le travi de gli strati inferiore e superiore; sì che, viste le mura dall'esterno, ciascuna testa di trave risultava incastrata fra grosse pietre: le laterali del proprio strato nonchè dello strato inferiore e superiore.


Cesare dice: « Questo tipo di costruzione - che per quel regolare alternarsi di teste di travi e di pìetre disposte in linee rette ha un aspetto non sgradito all'occhio - offre grandissimi vantaggi per la difesa delle città, perchè la pietra lo difende dall'incendio e l'ossatura di legno - sostenuta all'interno, generalmente, da una serie di traverse di un dodici metri, sì da non poter essere nè rotta nè scompaginata - lo difende dall'ariete ».

Mura galliche.

Costruzioni, insomma, di una certa consistenza; ostacoli ancora non subito eliminabili sino a quando non s'è riuscito a disporre di artiglierie rigate.

Alla breccia, dunque, neppure da pensare; avrebbe richiesto lunga permanenza degli arieti sotto gli spalti, e quindi un tiro efficace dal terrapieno e dalle torri di lunga durata. Un'assoluta, schiacciante, superiorità di tiro sulla difesa, con balestrieri arcieri frombolieri baliste catapulte proietti incendiad: ecco ciò che ai Romani occorreva sia pure per breve tempo; ma che non era possibile con l'intensità e l'efficacia voluta se non dopo aver portato agger e torri a una quindicina di metri almeno (noi valuteremmo) dalle mura. Sicchè, l'avanzata dell'agger, che. non aveva presentato insormontabili difficoltà sino a una trentina di metri, dovette diventar penosa in questo ultimo tratto, siano quindici i metri o quanti si voglia. Il tratto, appunto, ostacolato dalle frequenti sortite di giorno e di notte; il tratto, per meglio dire, in cui appieno si rivelava il forte spirito combattivo dei difensori. Questo sudato agger divenuto, a un certo punto, motivo di preoccupazione e debolezza: quasi tutto sostenuto com'è, specie all'esterno, da materia incendiabile, non può essere tenuto a lungo esposto all'offesa nemica. La sua


vigilanza, lo sentiremo, costa grossi impegni di forze e i riattamenti di parziali distruzioni aggravio di lavoro a truppe già stanche. Cesare dice: « Per tutte queste ragioni l' « oppugnatio » era ritardata, his tot rebus impedita oppugnatione; tuttavia ì soldati - pur essendo per tutto il tempo ostacolati nel Lavoro da freddo e piogge incessanti - con ininterrotta fatica riuscirono a superare ·tutte queste difficoltà e in venticinque giorni costruirono un terrapieno che aveva un fronte di un cento metri ed era alto un ventiquattro. Ma quando il terrapieno quasi toccava le mura nem iche ... Dunque: al venticinquesimo giorno dall'inizio dei lavori, il terrapieno non si può dire che toccasse le mura: era ad esse molto vicino, le toccava quasi, paene.

Possiamo però subito aggiungere: non le toccò mai; mai cioè attinse la distanza che si potrebbe chiamar di scalata, da cui i Romani avrebbero potuto dar inizio all'attacco scoperto, con massiccia azione di forza, su strettissima fronte. Mai tal distanza fu attinta. E se A varico cadde, come cadde, per « oppugnatio », questa fu condotta in maniera del tutto diversa da quella sì penosamente predisposta.

LASORTITA. Il dato cronologico fornitoci da Cesare - terrapieno quasi alle mura nel venticinquesimo giorno - ci avvicina all'epilogo. Stando infatti ad accettabili calcoli di chi ritiene risolta l'impresa in un ventotto giorni, a cominciare dal 20 marzo, il venticinquesimo giorno coincide col 15 aprile. Fra tre giorni, diciamo il 18 aprile (date qui accettate, come al solito, solo per scandire la successione degli avvenimenti), Avarico cadrà. Il periodo della stentata avanzata dell'agger, dopo il diversivo di Rians, sarebbe perciò durato un dieci giorni : per i Romani i più pesanti ma per gli assediati - visibili i danni inferti all'agger - soddisfacenti.

Il periodo, comunque, in cui nei capi di Avarico si fece strada l'idea di prender essi l'iniziativa dell'offesa. Come potevano non ritenere che fossero molto poche, per non dir nessuna, le probabilità che Avarico non sarebbe alfìne caduta quando i Romani, maturate le condizioni per la scalata, fossero passati all'attacco? E perciò. una « sortita » che riuscisse a distruggere, tutto o parte, quell'agger costato venti26. -

u.s.


cinque giorni di ininterrotta fatica non avrebbe aggravato la situazione di nemico affamato e non avrebbe ritardato, e fors'anche allontanato del tutto, la caduta dell'oppi do? I capi di Avarico dopo che ebbero ricevuto il rinforzo dei diecimila, e dopo un certo numero di giorni in cui riuscirono quasi a fermare· l'avanzata dell'agger, presero dunque la decisione di attaccare le posizioni romane. Sebbene ora, passando dalla difesa all'offesa, si sarebbe volta a loro svantaggio la stessa loro febbrile attività operativa degli ultimi giorni : e per le , mine e, più specialmente, per l'azione delle ·pattuglie, tutto l'esercito romano era ormai, notte e giorno, effettivamente o potenz1almente, in allarme, sino al punto, come subito sentiremo, che Cesare in persona passava la notte sui lavori. Giungiamo, così, alla notte della sortita, - fra il 15 e 16 aprile, secondo le fittizie date .

Cesare dice: « Ma quando il terrapieno quasi toccava le mura, e mentre io - che ero solito passare la notte sui lavori - incitavo i soldati a proseguire nello sforzo senza frapporre il minimo indugio, si avvertì - era poco prima della mezzanotte - che il terrapieno emetteva fumo : il nemico lo aveva minato. Nello stesso tempo, levatosi gran clamore da tutta la linea degli spalti, toto muro clamore sublato, da due porte della città i nemici irrompevano sui fianchi delle torri, mentre altri dal!'alto delle mura gettavano su( terrapieno torce e legni secchi e vi rovesciavano pece e ogni altra materia atta ad alimentare l'incendio ». Il terrapieno, all'improvviso, sotto tre contemporanee minacce: combustioni interne, in fiamme le rivestiture e i sostegni esterni, assalite le due torri, che è quanto dire i capisaldi fiancheggiatori dell'agger. Cesare teneva ognora prontamente disponibili, come subito sentiremo, ben due legioni. Precauzione che non si può escludere che gli fosse anche suggerita dal concetto che in quei giorni s'era fatto del nemico, sino a ritenerlo capace di complesse reazioni. Eppure, anche se preparato a ogni eventualità, questo attacco fu tale - specialmente per la visibilità del tutto impedita anche dal fumo e per i movimenti ostacolati dagli incendi - che le sue parole ancora riecheggiano l'iniziale sgomento. Dice: « Difficile, in quelle condizioni, rendersi conto dove bisognasse per prima portarsi e a qual danno per prima parare. (Un che di simile disse, quattro anni or sono, sulla Sambra). Tuttavia, poichè per mie disposizioni due legioni vegliàvano sempre pronte davanti al campo e molta truppa, a turno, era sui lavori, ben presto avvenne che alcuni poterono fronteggia~e le sortite, altri far indietreggiare le torri e isolare le parti del terrapieno intaccate dal


fuoco, nel mmtre che gran numero di soldati accorreva dal campo a spegnere il fuoco». Informazioni da cui già traluce la grave e lunga crisi dell'esercito romano sorpreso in piena notte. Le resistenze agli assalti, la difesa alle torri, gli sforzi per salvare il salvabile del terrapieno furono lunghi atti disperati che da mezzanotte ancora duravano al mattino: il .resto della notte era trascorso e ancora si combatteva in tutti i punti, in omnibus locis ... La lotta dovè anzi raggiungere la maggiore intensità proprio a giorno fatto, quando gli attaccanti ebbero ben visibili davanti a sè, fra gli altri obiettivi, specialmente le torri, protette sul fianco esterno (come tutto lascia supporre) non da lavori in terra ma da plutei: .. . e i nemici si confermavano sempre più nella speranza di vincere vedendo bruciati i plutei delle torri ... Dovè andar distrutto dal fuoco, ovunque fossero, un gran numero di plutei, senza possibilità di sostituirli; e anche questo fu motivo che accrebbe la baldanza degli attaccanti : ... e si rendevano conto delle difficoltà per i Romani di venire al contrattacco allo scoperto ... Sin dove retrocedettero i Romani ? furono costretti a lasciare ai Galli, per qualche tempo, la indisturbata disponibilità delle due porte? l'accesso al terrapieno dei rincalzi romani fu temporaneamente ostacolato da incendi e frane? Certo è che, per qualche tempo, i Galli poterono agevolmente alimentare la lotta: .. . i nemici sostenevano continuamente con truppe fresche - facendole defluire dalle due porte, evidentemente - le truppe già provate ...

Pesante e ininterrotta fu dunque, per molte ore, la pressione dei Galli. L'ardore combattivo dei difensori di Avarico era sostenuto da una grande idea (assai vicina al vero): ... essi ritenevano che in quel momento si decidessero le sorti di tutta la Gallia ... Ma i Romani pur riuscirono a contrattaccare e riprendere il sopravvento, forse nel pomeriggio del 16. Ossia: ritornarono a prendere posizione a distanza ravvicinata, quale che fosse, dalla cinta. La descrizione dell'episodio che segue (Cesare testimone diretto) non può infatti che riferirsi alla fase finale del combattimento, quando le due porte erano di nuovo sotto tiro romano. Cesare dice: « Accadde sotto i nostri occhi qualche cosa di notevole e degno di essere ricordato: un Gallo innanzi a una porta, scagliava contro una torre in fiamme proietti di sego e pece che gli venivano via via passati dall'interno: colpito al fianco destro da saetta di « scorpione» - la macchina da lancio più leggera e precisa - cadde ucciso, ma uno dei vicini, passato sopra il suo corpo, continuò la di lui opera, e colpito e ucciso a sua volia da « scorpione » fu sostituito da un terzo e il terzo da un quarto, alteri succe$sit tertius et tertio quartus; e quel luogo non fu abbandonato dai difensori se


non quando - già spento l'incendio del terrapieno e già ricacciati in ogni dove i nemici - il combattimento ebbe termine». Gli attaccanti - guerrieri scelti dei Biturigi, a cui si erano aggiunti, anch'essi scelti, i diecimila alleati - si impegnarono generosamente, per un diciotto o.re, con gravi sacrifizi di sangue.

E da che, se non dal dissanguamento delle forze militari, potremmo derivare le desolate pagine che ora leggeremo?

Alla fine del combattimento - al tramonto, diciamo, del 16 aprile il terrapieno, tanti gli sconquassi e i vuoti, doveva essersi ridotto l'ombra miserevole di quello che poche ore innanzi già, quasi, toccava le mura. Senza però questo terrapieno, gli avvenimenti non avrebbero preso la piega che hanno preso. Esso fu il distruttore, nella grande palude, del valore tattico dell'unica e strettissima via di accesso all'oppido, dell'<< unum et perangustum aditum >> su cui tanto i Biturigi, e poi gli altri Galli, avevano contato; fu il cuneo avanzante che richiamò l'accanita difesa e poi la reazione totale e disperata dei difensori.

« MATRES FAMILIAE . .. ».

Il giorno dopo, - il 17 aprile - i Galli di Avarico, visto che ogni loro tentativo era rimasto senza successo, presero la decisione di abbandonare l' oppido, ex oppido profugere. E come? Uscendo nel silenzio della notte, essi speravano che avrebbero raggiunto l'intento senza gravi perdite perchè il campo di Vercingetorige non era lontano dall' oppido e la palude che si stendeva ininterrotta, et palus quae perpetua intercedebat, avrebbe ritardato l'inseguimento dei Romani. Trè tavole di salvataggio: le tenebre, la palude, il campo di Vercingetorige. Ma Vercingetorige, a Rians, non è solamente a breve distanza; appena avuta notizia dell'esito dell'attacco, egli ha fatto giungere ad Avarico il suo consiglio; anzi, questa volta, un suo ordine: i capi di Avarico presero la decisione di abbandonare l'oppido con l'esortazione e con l'ordine di Vercingetorige, hortante et iubente Vercingetorige. Della volontà del generale aivernate, così chiara e imperante ora, non v'è traccia a proposito delle operazioni del giorno innanzi. Può dunque anche darsi che l'attacco di ieri possa essere avvenuto senza che fosse richiesto il parere di Vercingetorige; quel Vercingetorige che meno di due settimane fa


ha denunciato come debolezza la diffusa bramosia di battaglia pur di giungere presto alla soluzione del conflitto. Ma ora i capi di Avarico si devono arrendere all'evidenza: svanita, ieri sera, la speranza di smentire il figlio di Celtillo che parla sempre di guerra lunga gravi fatiche sacrifizi totali; che temporeggia di fronte alla battaglia e si direbbe la tema. La sciagura conclusasi ieri sera - quanti i morti lasciati sotto il terrapieno? quanti i feriti nelle case o abbandonati nelle vie? - mozza il fiato, ora, alle ambizioni, alle recriminazioni, ai rancori; pone in evidenza l'assurdità dell'attacco a un campo romano - e quell'agger era più di un campc.

Le tenebre, la palude, il vicino campc di Vercingetorige. Cose vere e non vere, certezze e allucinazioni, come sempre è accaduto e accadrà.

E come se l'afflizione di tali pensieri non bastasse, ecco che al tramonto, quando tutto, anche se affrettatamente, era pronto per l'esodo, avvenne un fatto che ancora, si può dire, sbigottisce. Un fatto che a tutta prima i capi di Avarico forse pensarono di pcter rapidamente superare> sia pure ricorrendo a qualche violenza. Già si disponevano, venuta la notte, a uscire, quando le madri di famiglia uscirono improvvisamente sulle strade, cum matres familiae repente in publicum procurrerunt, e gettandosi in lacrime ai piedi dei loro uomini, flentesque proiectae ad pedes suorum, li implorarono di non abbandonare ai supplizi dei nemici mogli e figli, se et communes Iiberos, a cui la debolezza del sesso o delle forze impediva di fuggire. Quei tumulti che· rimescolano il sangue: e non dovettero mancare atti repressivi; sì che quelle donne imploranti e urlanti quando videro che essi, i capi, si ostinavano nella decisione presa, in sententia perstare ... I capi avevano dunque deciso che dovessero uscire solo gli armati e i validi alle armi e dovevano restare in Avarico donne bambini vecchi feriti. Decisione, per qualche tempo, malgrado l'imperversare delle proteste, tenuta ferma. Cesare dice: « Si ostinavano nella decisione perchè, in genere, quando i pericoli sono estremi, la paura rende insensibili alla pietà, in summo pericu]o timor misericordiam non recipit ... ». L 'esodo, essendo di ieri l'esperienza di Cénabo, doveva avvenire con la maggiore rapidità pcssibile: considerazione da cui, pietà o meno, non si Poteva deflettere. Ma a creare il fatto sconcertante pctè anche non mancare (e noi diremmo che ci fu) il nascosto incitamento degli stessi armati turbati dal pensiero di lasciare preda ai Romani le loro famiglie.


Le donne piangenti e urlanti nelle strade, quando dunque videro che i capi si ostinavano nel loro proposito, perdettero ogni controllo di sè: si misero a gridare e ad avvertire i Romani del progettato esodo, conclamare et significare de fuga Romanis coeperunt. Per far ciò, evidentemente, dovettero avvicinarsi o portarsi sugli spalti; sicchè, se anche nessuno le avesse istigate, ci dovette almeno essere chi favorì o non si oppose a tale scelleratezza. Solo allora i Galli, affranti dal timore che la cavalleria romana chiudesse loro la strada (ma Vercingetorige non poteva mandar loro incontro la sua?) rinunziarono al progetto. Rinunzia all'esodo che però non poteva significare rinuncia alla difesa di Avarico, più agevole ora che l'agger era mal ridotto; e tanto più che var~co, come sentiremo, aveva « grande abbondanza di grano e di altri vwerz ». E comunque, se la continuazione della resistenza non fosse stata più possibile, restava, amara che fosse, la resa: col pegno in mano del « grano e altri viveri » - avanzando, larvatamente, la minaccia di darli alle fiamme, - le condizioni avrebbero potuto essere meno pesanti. Ma in Avarico, dal momento dell'improvvisa sommossa, dovette subentrare, assoluta, la paralisi d'ogni autorità.

J\

Tra l'inizio dell'attacco alle posizioni romane, poco prima della mezzanotte del 15, e le grida delle donne, notte del 17, appena due giorni: in solo quarantotto ore i difensori di Avarico presto potremo dire che hanno affrettato la distruzione di se stessi con le proprie mani.

L 'ATIACCO.

Il giorno dopo, avendo Cesare fatto riportare in avanti una torre e riparare le opere ... Ieri, mentre Avarico era in subbuglio, i Romani erano ritornati al travaglio campale; ed ecco che oggi - 18 aprile - una torre, una sola però, è resuscitata e le altre opere, fra cui il terrapieno, si avviano, alla meglio, a essere riparate. Ma nè la torre nè la riparazione. del terrapieno quand'anche fosse stata completa saranno la causa della caduta, oggi stesso, di Avarico. Cesare dice: « Il giorno dopo, - quando già dunque avevo fatto riportare in avanti una torre e riparare le altre opere - essendo sopraggiunta una grande pioggia, magno coorto imbre, considerai tal cj.rcostanza favorevole a una decisione, ad capiendum consilium ... ». Favorevole, cioè, all'attacco.


Neppure però il temporale avrà peso assoluto sugli avvenimenti che incalzano. Dice: « ... e poichè notai che le sentinelle sugli spalti erano disposte con minore diligenza, paulo incautius custodias in muro dispositas ... ». Eppure, i Galli dovevano tenere una fronte di solo trecento metri ed esercitare una vigilanza solo precauzional e sull'intero perimetro dell'oppido; eppure, ben capivano che significasse - anche se distrutta la parte avanzata dell'agger - quella parte del fosso sotto le mura ormai quasi tutto colmato; e soprattutto ben avvertivano di trovarsi di fronte a nemico affamato, da essi due giorni prima inasprito con attacco di sorpresa e a fondo, e al quale ieri sera era stato rivelato il loro pietoso dissidio. Dice: << ••• e poichè dunque notai che le sentinelle erano disposte con minore diligenza, ordinai alle mie truppe di rallentare i lavori, e spiegai il mio piano, et quid fieri vellet ostendit ».

Ambiente proplZlo ad azioni audaci: tutt'intorno luoghi paludosi ancora allo stato invernale, gravati ora, sotto il temporale, da pesanti caligini che offuscano la visibilità e attutiscono i rumori. Un temporale d'aprile può però in breve cessare e anche risolversi in un'accentuata schiarita e la vigilanza sugli spalti, per resipiscenza o sospetto, riprendersi da un momento ali' altro : due occasioni sì fugaci, buone tutt'al più per un col po di mano, spingono Cesare alla decisione? Dal momento della decisione al momento in cui l'attacco ebbe effettivo inizio, anche se tutti fecero miracoli (Cesare aveva fatto correr l'esortazione di conquistare con la vittoria, finalmente, il frutto di tante gravi fatiche), dalla decisione all'esecuzione insomma, comunque le cose siano andate, non potè essere questione di mìnuti e neppure di una sola ora. Basti considerare il tempo che occorse solo. per l'attestamento, diremmo oggi, dello scaglione d'attacco o di testa: il trasferimento cioè - senza destar sospetto nel nemico: tutta qui la complicazione - di un certo numero di forze dal campo sotto le mura. Perchè, sì, scalata e assalto sarebbero stati iniziati da audaci (ricompense adeguate fece Cesare promettere a coloro che avessero per primi scalato il muro) ma avrebbero potuto non dar risultato decisivo o addirittura fallire se non sostenuti - quanta resistenza avrebbe opposto la difesa? - da immediati e adeguati rincalzi. L'operazione di attestamento potè ben essere rapida nella sua prima fase, favorita com'era dalla grande pioggia, dalla diminuita vigilanza nemica, dal fatto che i lavori, appunto per non suscitare sospetto, erano stati rallentati ma non sospesi; non dovette però essere tale nella fase terminale, quando si trattò di conseguire, a breve distanza, dal nemico, la completa segretezza sia del movimento sia dell'ammassamento sia della sosta preparatoria all'assalto: qui i procedimenti non poterono che essere cauti e lenti.


Tutta la strettissima lingua di terra fra campo e oppido, il famoso perangustum aditum, era seminato di vinee; il che è senz'altro lecito dar per certo; ma vinee a « porticus » dovevano soprattutto trovarsi nell'area più vicina alle mura, dove i movimenti per i lavori, sottoposti alla maggiore offesa dagli spalti, non sarebbero stati del tutto possibili e sicuri senza camminamenti coperti. Ora, dunque, quelle truppe che noi abbiamo chiamate scaglione di testa o di attacco, - anche meno di una legione, forse - procedendo alla spicciolata, riuscirono ad ammassarsi e a occultarsì (nelle vinee, appunto: nè è congetturabile altro modo) a non molta distanza dalle mura. Dice: « Preparate, occultamente, le legioni nel campo e nelle vinee, legionibusque intra castra vineasque in occulto expeditis ... ». Grandi forze, parecchie migliaia di uomini, predisposte al movimento sia nelle vinee che nel grande campo senza che se ne avvertissero i segni. Cesare avrebbe cioè deciso la vera e propria << oppugnatio » con più legioni; pur lasciando ognora presidiato il campo. Qualora negativa, in altri termini, l'azione di sorpresa dello scaglione di testa, l'attacco sarebbe stato proseguito apertamente dalle sopraggiunte legioni, l'una dietro l'altra. Diminuisce, così, il valore della torre a cui era stata ridonata efficienza, del terrapieno rabberciato, dello stesso temporale; enorme importanza acquisterebbero le grida delle donne ai Romani ier notte e la diminuita vigilanza sulle mur-a rilevata stamane. La deflessione morale dei difensori era patente: dopo il sanguinoso fallimento della sortita del 16, essi, il giorno dopo, avevano tentato un ·passo la cui giustificazione, pur reggendo da un punto di vista meramente militare (quando mai però, in simili frangènti, la maggiore e più comune opinione accetta istanze meramente militari?), era stata respinta e bollata d'infamra dalle donne; e forse non solo dalle donne. Malgrado però tali considerazioni, la resistenza di Avarico, ripetiamo, avrebbe potuto essere valida sino anche all'eroico; una di quelle che sul momento possono apparire esagerate e inutili ma che poi si ripercuotono con positivi impensati effetti sull'andamento complessivo della guerra. La stagione operativa è appeQ.a agli inizi e Avarico non è che il primo serio atto della rivolta. L'avvenimento bellico che sta per iniziarsi non presenterebbe dunque, nelle premesse, nulla di eccezionale;· cose, sostanzialmente, di sempre: un attaccante che si giova di un momento psicologico a lui favorevole, ma che pur affronta i suoi rischi su instabili sintomi di crisi del nemico, quali le grida delle donne e la diminuita vigilanza sulle mura; e, in contrapposto, un difensore che, spossato da una inconsulta sua azione · offensiva, ritarda a nprendersi e subisce l'attacco in momento di massima depressione.


Un difensore che poco sa lavorare con la testa, e poco vede e provvede; e, in contrapposto, un attaccante che più cose, con opera assidua di settimane, è riuscito a sapere - per ricognizioni, per interrogatorio di prigionieri, per spionaggio, per deduzioni sue - della generale organizzazione difensiva di Avarico, dello scaglionamento delle forze galliche dietro la breve fronte, del come era assolta la vigilanza sull'intero perimetro dell'oppido.

Cesare, dunque, preparate occultamente le legioni nel campo e nelle vinee . .. dette il segnale convenuto, signum dedit. Gli attaccanti si lanciarono rapidamente da tutte le parti e rapidamente occuparono il noto tratto delle mura, murumque celeriter compleverunt. I nemici, sbigottiti dalla sorpresa, re nova perterriti, e cacciati dagli spalti e dalle torri (non è segnalata da parte loro alcuna reazione), si ammassarono nel foro e nei luoghi più aperti, in foro ac locis patentioribus ... Passiamo, così, con un soffio, dal superamento degli spalti nell'interno vero e proprio della città. Si ammassarono dunque nel foro e nei luoghi più aperti, ... decisi, in formazione di battaglia, acie instructa, a fronteggiare l'attacco dalla parte donde sarebbe venuto ... Il che però significherebbe che quegli ammassamenti, anche se ora per la sorpresa tumultuari, non erano improvvisati, bensì operazioni previste da un progetto, empirico che fosse, di difesa dell'oppido: la prima resistenza dopo che il nemico avesse superato le mura doveva condursi - oggi si direbbe a isole - nel foro e in alcuni spiazzi; luoghi evidentemente non lontani, se non a ridosso, del fronte. Il fronte di guerra per i difensori di Avarico, militari e civili, erano uno e uno solo: quel breve tratto di mura, trecento metri all'incirca, che dominava la strettissima lingua di terra fra campo romano e oppido. Eppertanto la convinzione, rimasta indisturbata forse in tutti sin dalla prima ideazione della difesa, che il nemico altro non potesse fare che tentare il superamento di quel breve tratto di mura per poi, se il successo gli arrideva, proseguire, fossero una o più le sue colonne e le direzioni, verso l'interno della città. E che altro, in effetti, potevasi prevedere, dato l'ostacolo, tutt'intorno all'oppido, della palude?

I nemici, dunque, in formazioni di battaglia nel foro e in altri luoghi, · erano decisi a fronteggiare l'attacco... Segue il punto sostanziale del piano di Cesare: ... Ma quando avvertirono che i Romani non scendevano a terra per combattere, ubi neminem in aequum locum sese demittere, ma che li aggiravano occupando l'intero perimetro delle mura, sed toto undique muro circumfundi viderunt ...


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Gli assaltatori non scesero a terra ma proseguirono, a sinistra e a destra, lungo gli spalti, o per dove poterono, per occupare (rapidi e feroci colpi di mano che trovarono o non trovarono oppositori) quanto più poterono del perimetro delle mura. Occupato il perimetro delle mura, occupate altresì quante più pcssibili torri fisse che munivano la cinta di Avarico, a un certo momento la città risultò in gran parte se non tutta avvinghiata, per l'interno, dall'alto. La pcpclazione dei quartieri più lontani, rispetto all'ormai consueto fronte di guerra, atterrita, di colpo, dall'apparizione dei Romani sulle mura ritenute inviolabili per l'ostacolo della palude. Pochi e forse nessuno pcterono rendersi conto di come effettivamente le cose si stessero svolgendo; che una qualsiasi resistenza fosse ancora possibile perchè quelle due branche avvolgenti potevano ancora essere, sul momento, deboli e recidibili. Animi già scossi dal disastro della sortita e dalle urla poche ore innanzi delle donne nelle vie e nelle case. Il frenetico diffondersi e scontrarsi delle voci più disparate e disperate. Cose di sempre. Gli armati in ordinanze di battaglia che trovavansi nel foro e nei luoghi più aperti, quando avvertirono l'accerchiamento ... temendo di perdere ogni possibilità di ritirata, veriti ne omnino spes fugae tolleretur (furono dunque colpiti da ciò che avveniva alle loro spalle e ai loro fianchi, lontano), gettate le armi, abiectis armis, si lanciarono senza più freno verso la parte estrema della città, ultimas oppidi partes petiverunt, - i quartieri nella parte oppcsta al consueto fronte di guerra-; ma qui, mentre facevano ressa sullo stretto vano delle porte, una parte fu uccisa dai legionari, a militibus, e la parte già fuori delle porte fu uccisa dalla cavalleria. Le truppe romane che avevano seguito lo scaglione di testa non avevano dunque tardato a entrare nella città sconvolta per occuparne, anzitutto, le porte. E la cavalleria, attraverso la palude, - o con lungo giro o direttamente perchè scarsa se non nulla la vigilanza dagli spalti ai lati e a tergo dell'oppido - si trovò già pronta a cogliere i primissimi frutti del terrore; ossia era già dove trovavansi i guadi idonei per transiti in massa, che i Romani potevano conoscere per il traffico che il nemico vi aveva svolto nei giorni precedenti. Cesare dice : « Non ci fu nessuno che pensasse alla preda >> . Il bersaglio umano visibile e facile ..che dà sfogo anche alla ferocia e alla viltà; il piacere, dopo lunga e trista ··attesa, di conseguire, a braccio sciolto, sicuro ed evidente effetto che prende temporaneo sopravvento su ogni altro istinto o sentimento. Gli armati nell'oppido, compreso il rinforzo degli alleati, potevano essere un ventimila.


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Ma i ventimila circa della popolazione civile fecero l'istessa fine degli armati. - « Così, i soldati romani, irritati dall'eccidio di Cénabo e dalle fatiche det lavori campali, non risparmiarono nè vecchi, nè donne, nè bambini, non aetate confectis non mulieribus non infantibus pepercerunt. Com:Plessivamente, di circa quarantamila abitanti, circiter milium quadraginta, appena ottocento, vix octingenti - quelli che erano fuggiti dalla città alle prime grida - riuscirono a raggiungere incolumi Vercin getorige, incol umes ad Vercingetorigem » - . Non vecchi, non donne, non bambini: i tre « non » che rivelano la profondità della strage.

Ripercussione immediata nel campo gallico di Rians, distante solo un quindici chilometri. Gli incolumi e non incolumi, quanti che fossero, Vercingetorige fece fermare quand'erano ancora lontani dal suo campo: egli, temendo che dal loro affluire e dalla compassione della massa nascesse nel campo qualche tumulto, li accolse nel campo solo quando era già notte alta e in silenzio, multa iam nocte silentio; avendo avuto rnra di scaglionare lungo la via i suoi famigliari e i principes delle popolazioni interessate col compito di dividere quei superstiti e condurli nel settore del campo che era stato assegnato sin dall'inizio a ciascun popolo. Fece quel che potè: interpose una pausa, le poche ore di quella notte, fra sì tremenda sciagura e gli effetti di essa sul suo esercito.

(( UNUM CONSILIUM TOTIUS GALLIAE EFFECTURUM .••

».

Ma il giorno dopo, convocato il consiglio dei capi, Vercingetorige confortò e incoraggiò i suoi, invitandoli a non perdersi troppo d'animo e farsi abbattere da quel rovescio. - I Romani, egli disse, non hanno vinto nè per valore nè in campo aperto, non virtute neque in acie, ma per la loro abilità nel!'arte ossidionale, scientia oppugnationis, di cui noi non abbiamo alcuna esperienza, ipsi imperiti. Sbaglia chi in guerra s'attende solo successi. lo sono stato sempre contrario alla difesa di Avarico ( voi stessi me ne siete testimoni, testes ipsos); si deve all'imprudenza dei Biturigi e all'eccessiva condiscendenza degli altri se ci è toccata questa sciagura. Ma alla sciagura riparerò rapidamente, procurandomi vantaggi maggiori del danno patito. Riuscirò infatti a guadagnare alla nostra causa i popoli della Gallia ancora discordi: infonderò a tutta la Gallia un'unica volontà, unum consilium totius Galliae effecturum; e a una Gallia così unita neppure il


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mondo intero, ne orbis quidem terrarum, sarà capace di resist!re. Un siffatto risultato ho già quasi raggiunto .. . Je ferai de toute la Gaule un seul et meme faisceau de volontés auquel le monde entier meme sera incapable de résister: espressione di fede, malgrado quattro rovesci, nessun successo e l'amarezza delle diffidenze. Egli è convinto che la disastrosa ritirata se non addirittura la distruzione dell'esercito romano potrà dirsi segnata non appena la sua azione politica avrà raggiunto il risultato che si ripromette e al quale si sente ormai vicino. Il discorso così terminava: ... E' giusto intanto che io ottenga da voi - lo esige la comune salvezza - che cominciate a fortificare il campo per poter meglio resistere a un improvviso attacco nemico. C'è sgomento, in lui e in tutti: che farà nei prossimi giorni l'esercito romano a meno di tre ore di marcia? e che s:curezza offre la posizione di Rians, forte quanto si sia per natura, dopo l'affondamento sì repentino di Avarico? Il discorso non fu sgradito ai Galli, haec oratio non ingrata Gallis: e soprattutto riuscì non sgradito il fatto che, dopo un colpo sì grave, egli non s'era perduto d'animo, non s'era posto in disparte e sottratto agli occhi della moltitudine. Gli riconoscevano superiorità di risolutezza e di preveggenza poichè, effettivamente, quando la situazione non era ancor compromessa, re integra, aveva subito espresso il parere che Avarico dovesse essere incendiata e dopo - tre giorni fa, al fallimento della sortita - che fosse abbandonata. Cesare dice: « Così, mentre gli insuccessi diminuiscono l'autorità dei capi, il prestigio invece di Vercingetorige cresceva dopo la sconfitta di giorno in giorno, huius dignitas in dies augebatur ». Nessuna rivolta a Rians, da parte della grande moltitudine di armati; nella quale pur incombeva il vuoto dei diecimila partiti pochi giorni prima, quando a null'altro sembravano destinati che a suggellare l'inespugnabilità di Avarico. Nel campo di Rians, contro la generale costernazione, valsero la parola e la promessa di Vercingetorige: dava a ben sperare la sua affermazione che anche gli altri popoli si sarebbero a loro uniti. Cesare dice: « Si verificò in tal occasione, per la prima volta, che i Galli presero a fortificare il campo; e l'effetto del colpo su di loro fu così forte che, sebbene fossero gente non avvezza a tali fatiche, homines insueti laboris, si decisero a eseguire tutto ciò che veniva l(?ro ordinato ». Non ribellione, dunque, e nè segni di interne discordie, fra quelle truppe sottoposte anch'esse, da un tre mesi, <t gravi sacrifizi: l'avversità, anzi, vi ha richiamato inusitate attitudini.

Sì che Vercingetorige potè continuare la sua febbr_ile azione politica. Secondo quanto aveva promesso, egli molto si preoccupava delle alleanze degli altri popoli; e ne attirava i principes con doni e promesse. Sceglieva per


questo lavoro le persone più adatte, capaci di conquistare gli animi o con abilità diplomatica o per aderenze. Opera di speciali inviati che ora, di mano in mano che l'onda di commozione per la strage di Avarico rapidamente si allarga su tutta la Gallia, dovrebbe conseguire risultati pienamente positivi. Vercingetorige, inoltre, pose mano ai seguenti provvedimenti militari: i superstiti di Avarico fa armare e vestire; ordina a ciascun popolo - ossia ai popoli già alleati - un contingente di soldati, fissando il termine per la presentazione; comanda infine che si cerchino e mandino a lui tutti gli arcieri, sagittariosque omnes, di cui era in Gallia (a cagione della diffusa passione per la caccia) grandissimo numero. Con questi provvedimenti si pose rapidamente riparo alle perdite di Avarico.

Ma non mancò, proprio in quei tristi giorni, un buon evento: il re dei Nitiobrogi, Teutomato, figlio di Ollovicone, venne a Vercingetorige con molta cavalleria, in parte sua in parte arruolata in Aquitania. Aumenta, così, la superiorità della cavalleria gallica sulla cavalleria romana. I Nitiobrogi un po' li conosciamo: un quattro mesi fa, all'inizio della rivolta, si erano uniti al cadurco Lutterio per invadere la Provincia. Papà Ollovicone, a suo tempo, era stato dal Senato insignito del titolo di « amico » : oltre la cavalleria farà dunque effetto la notizia che è venuto da lontano per unirsi a Vercingetorige il figlio di un « amico del Popolo Romano ». Teutomato (lo ritroveremo presto: in mutande) veniva dunque dalla lontana Garonna, fiume divisorio della Celtica dall'Aquitania; e forse seppe della spaventosa fine di Avarico solo quando era già in marcia avanzata. Quel suo arrivo alla testa di molta cavalleria, fra cui rinomata l'aquitanica, dovette risollevare alla speranza l'animo dei Galli quasi prima immediata conferma dì quanto Vercingetorige aveva promesso nel suo discorso.


Cap. X I. - O E R O O V I A

EDUI, ESERCITO DIVISO, GERGOVIA LE VETTOVAGLIE

DI

A VARI CO.

Cesare si trattenne ad Avarico parecchi giorni, avendo colà trovato una grandissima quantità di grano e dt altri viveri, summamque copiam frumenti et reliqui commeatus: ebbe così modo di far rimettere l'esercito dalle fatiche e dalle privazioni, ex labore atque inopia. Trovò provviste per l'intero esercito. I difensori di Avarico non hanno proprio potuto, in tanta calamità, mettere in atto la direttiva cardinale di Vercingetorige : « con ogni nostro mezzo dobbiamo tendere a impedire ai Romani il rifornimento di viveri e foraggi »? E' discutibile se la strage perpetrata in Avarico potrà risolversi per i Romani in vantaggio: il più gran danno ai fini generali della lotta, una sciagura, è invece la m ancata esecuzione di quella direttiva. Perchè le vettovaglie trovate in A varico consentono ora che un esercito, che avrebbe dovuto subito mettersi alla ricerca di cibo, s1 sottragga per più giorni all'azione della cavalleria gallica; consentir anno presto a un esercito così rinfrancato di modificare una situazione che, .senza di esse, stava per divenire insostenibile. LA CRISI EDUA.

Cesare si trattenne in A varico parecchi giorni : non meno, penseremmo, di una dozzina; e pere· ò l'esercito romano si sarebbe ritrovato soddisfacentemente riassestato alla fine di aprile. D ice: « Già quasi ormai finito l'inverno, la stessa stagione mi incitava a continuare le operazioni e avevo già stabilito di andare contro il nemico per farlo uscire da paludi e selve o stringerlo d'assedio, quando venne a , e una deputazione di capi edui pregandomi di aiutare il loro popolo in n momento particolarmente critico>>. Contrattem po questa ambasceria? meglio subito· un altro assedio alle pos;zioni di Rians come se i legionari non fossero rii C"'' •. ,. (' ossa?


Ma non si tratta, come qui apparirebbe, di inatteso e importuno contrattempo. Tutt'altro, anzi: e non sarà difficile scoprirlo nel corso dei prossimi avvenimenti.

Gli eventi delle prossime settimane non potranno che confermare che fra gli Edui, sin dal principio della rivolta, Vercingetorige non ha fatto che guadagnar terreno; sebbene lentamente, un po' per giorno, non col rapido ritmo insomma che le circost:mze avrebbero richiesto. Bellicismo, l'eduo, senza stati febbrili, senza sussulti, riflessivo, mediato: eduo Diviziaco ed eduo Lisca, i quali di fronte al pericolo germanico sei anni fa non ci mostrarono minimamente di far assegnamento (ma chi sa per quali amare esperienze erano passati) su una possibile pronta solidarietà del loro popolo; eduo Dumnorige che prima di fare la morte che fece non sembra che si fosse proprio posto contro ogni collaborazionismo; edua, dubitarne è difficile, la regìa del minuetto. La sostanza della politica edua è, del resto, evidente: col titolo di « amici e consanguinei del Popolo Romano», vecchio ormai di quasi due generazioni, è oggi assicurata una redditizia preponderanza, nella Celtica, su questo e su quello; ma domani, vinto che avrà il figlio di Celtillo, al predominio in Celtica e al prestigio nel resto della Gallia bisognerà rinunciare o perlomeno ridisputarseli, come è:lecenni addietro, con l'Alvernia. Un due mesi fa, Vercingetorige stesso queste diffidenze non ha inasprito e s'è fermato, senza espugnarla, a Gorgobina dei Boi invece di invadere - e chi lo chiamasse non doveva mancare - il territorio eduo (che sarebbe, in tal caso, avvenuto? Cesare si sarebbe mosso da Sens in pieno inverno?). Certo però è, ripetiamo, che presso gli Edui, sin dalla condanna del senone Accone o dal giuramento sulle Insegne Militari, il vercingetorismo sta prendendo via via il sopravvento sul collaborazionismo. Malgrado però tal sopravvento, malgrado anzi il nessun impegno per i r:fornimenti che pur costituiva implicito atto di ostilità ai Romani, l'intervento eduo nella rivolta, atteso da tanti altri popoli, non è stato ancora, come diciamo oggi, ufficialmente proclamato.

E pretendereste che lo fosse proprio ora? A distanza forse neppure di ventiquattro ore dalla fatale sera del 18 aprile, il vercingetorismo, in tutta la Gallia, fu ridotto al silenzio, senza imposizione di alcuno, dal sopraggiungere, l'una sull'altra, di tre notizie: la caduta di Avarico, i tre « non», la sorte delle riserve di viveri. La deputazione di capi edui così disse a Cesare: La situazione nel nostro paese è gravissima, summa esse in periculo. Perchè mentre è antica tradt-


zione che si elegga un solo vergobreto, - a cui devolviamo per un anno potere regio - al presente, invece, due persone esercitano contemporaneamente tal magistratura, e ciascuno si vanta legittimamente eletto. Uno è Convictolitave ( giovane ricco e molto noto) l'altro è Coto ( di antichissima famiglia e persona di grandissima autorità e di cospicue parentele: suo fratello, Valeziaco, ha tenuto la stessa magistratura l'anno scorso). Tutto il paese è in armi: diviso il senato, diviso il popolo, divise le clientele dei contendenti. Se la scissione si acuisce, si giungerà alla guerra civile: solo una Vostra inchiesta e la Vostra autorità potranno impedirlo. Le tre notizie concessero dunque quel tanto di respiro ai collaborazionisti, chè certamente la deputazione era di collaborazionisti, per far sapere a Cesare, che però lo sapeva meglio di loro, che se non avesse preso in considerazione lui in persona le faccende interne del loro paese a essi non restava che darsi per vinti. Cesare (contrariato) dice: « Quantunque pensassi che era dannoso interrompere le operazioni e allontanarsi dal nemico, tuttavia . .. ». E poi (dall'alto): « tuttavia, ... !J:On potendo ignorare quanti mali siano soliti nascere dalle lotte intestine ... ». E p0i (ma sta già atterrando): « .•. volendo evitare che in un popolo così importante e così legato al Popolo Romano - popolo che io avevo sempre favorito, accrescendone la potenza in tutti i modi - scoppiasse la guerra civile, e volendo altresì evitare che il partito che si sentiva meno forte chiamasse in aiuto Vercingetorige . .. ». Si tratta insomma di un contrasto interno di natura costituzionale oppure di contrasto che appena dissimula i progressi - malgrado i tre « non » o proprio a cagione dei tre « non >> - del vercingetorismo? Dice infine (e tocca finalmente terra): « ... Poichè le leggi degli Edui vietavano a chi era investito della più alta magistratura di uscire dal territorio, per non sembrare poco rispettoso della loro costituzione, decisi di andare io stesso fra gli Edui, ipse in H aeduos, e convocai l'intero Senato, senatumque omnem, nonchè i contendenti, a Decezia ». Decezia, odierna Decize, destra Loira: territorio, perciò, eduo. Distante da Avarico più di cento chilometri, era però grosso oppido della Loira sulla via, per chi viene da Bourges, di Bibracte. Rispettoso delle leggi edue, Cesar<;. preferì muoversi lui - con tutte e otto le legioni, naturalmente - piuttosto che far muovere i contendenti; - sebbene questi fossero entrambi giuridicamente inconsistenti per il semplice fatto che di vergobreti non doveva essercene che uno solo. Le legioni passarono la Loira e si p0rtarono in territorio eduo oppure attestarono alla riva sinistra e rimasero in territorio dei Biturigi? Interrogativo di nessun valore; perchè dire che l'esercito romano era a Decezia e dire che era sulla riva sinistra (non lontano da Nevers, penserem-


mo) a qualche chilometro dal territorio eduo, è l'istessissima cosa; c'è anzi da supp0rre che Cesare lo abbia lasciato sulla riva sinistra, essendo sempre più d'effetto il non mettere le mani addosso a nessuno specie quando è patente che facilmente lo si p0ssa.

L'affluenza al congresso di Decezia, nel giorno convenuto, fu soddisfacente. Essendo colà convenuta quasi tutta la « civztas », - le personalità più rappresentative: senatori, principes, capi fazione - ... Ma le questioni poste e discusse furono, tutte, di natura giuridico - costituzionale; e si conclusero così: Cesare apprese che l'elezione di Coto era dovuta a un ristretto numero di persone riunitesi privatamente senza che fossero osservate, circa il luogo e il tempo, le formalità di legge; che il fratello - quel Valeziaco, vergobreto uscente - aveva proclamato all'alta carica il fratello, - quando invece le leggi proibivano non solo di elevare alla suprema magistratura ma escludevano altresì dal Senato due membri viventi della stessa famiglia; Cesare dunque, saputo ciò, ordinò a Coto di deporre il potere e fece restare in carica Convictolitave, il quale era stato eletto, secondo consuetudine, dai sacerdoti, per sacerdotes (crisma druidico, dunque), nell'intervallo legale fra l'una e l'altra magistratura. Dice: « Data alla controversia tal soluzione, hoc decreto interp0sito ... ». Nessuna opp0sizione al verdetto: in Decezia, territorio eduo, Cesare - che vi si era recato, probabilmente, con sola scorta d'onore - dovè ricevere più che rispettosa accoglienza. Dice : << ••• esortai gli Edui a dimenticare contrasti e discordie e, tralasciando tutto il resto, non pensar che alla guerra in atto, con la sicurezza che, vinta la Gallia, avrebbero da me ricevuto la ricompensa che meritavano . .. ». Ricordate gli Edui, due anni fa, quando Dumnorige svelò, vero men vero o falso, che Cesare voleva farlo re? Mal sopportavano gli Edui tal dichiarazione, ma non osavano mandar messi a Cesare nè per rifiutare nè per deprecare tale eventualità. Lo stesso fecero adesso: tutte questioni giuridico costituzionali; dei contrasti fra collaborazionismo e vercingetorismo, che qui risulti, neppur l'ombra. Sì che Cesare p0tè venire al sodo. Dice: « ... li invitai a mandarmi, al più presto, celeriter, e tutta la cavalleria, equitatumque omnem, e diecimila fanti, et peditum milia decem, che io avrei distribuiti in presidii per assicurarmi il vettovagliamento ... ». Parte della çavalleria edua Cesare doveva già tenerla con sè: ora gli si dovrà inviare, e subito, facendone quasi leva in massa, la restante; e quei diecimila fanti gli serviranno nei distaccamenti fissi a protezione, dopo le esperienze fatte ad Avarico, delle colonne logistiche. 27. -

u.s.


LA DIVISIONE

DELL'ESERCITO.

Sopita, così, la questione edua, Cesare prese una decisione che per le conseguenze immediate e mediate che ne deriveranno si rivelerà di somma importanza: divise l'esercito in due parti, in duas partes. Quattro legioni le diede a La,bieno perchè le conducesse nel paese dei Senoni e dei Parisii, quattuor legiones in Senones Parisiosque; con le altre sei, sex ... Quattro e sei dieci: ma ci vorrà un bel po', prendiamone nota, perchè Cesare ci consenta di scoprire perchè sarebbero presenti anche le due che erano state lasciate, come ricordiamo, ad Agedinco o Sens con le « impedìmenta » di tutto l'esercito . . . . Con le altre sei, marciò egli stesso verso il territorio degli Alverni, in Arvernos, in direzione di Gergovia, ad oppidum Gergoviam, seguendo il fiume Allier, secundum flumen Elaver. Della cavalleria (dovettero farsi davvero in quattro gli Edui per consegnargliene subito quanta più poterono) una parte L'assegnò a Labieno, l'altra la tenne con sè. Quasi due eserciti. E l'uno si allontanerà dall'altro ogni giorno di più; sì che quando, poniamo, Labieno giungerà a Sens o Agedinco, capitale dei Senoni, e Cesare in quel di Clermont Ferrand dove sorgeva Gergovia, la distanza sarà sui trecentotrenta chilometri. Quali motivi avranno spinto Cesare alla « divisione delle forze », di massima riguardata con occhio severo dalla strategia d'ogni tempo e luogo? Una spiegazione egli non ce la dà nè ora nè poi; anzi si direbbe che intenzionalmente la eviti: procederà indisturbato (il suo solito sistema dialettico, del resto) sino a quando i risultati faranno apparire tal divisione un fatt~ superato, sì da rendere superflua, per chi ne avesse avuta l'intenzione, ogm censura. Quasi due eserciti, dunque; operanti nel medesimo tempo - dalla seconda quindicina di maggio a tutto luglio, approssimativamente - in due diversi e lontani scacchieri: Labieno sulla media Senna, fra Senoni e Parisii; Cesare sul medio Allier, fra gli Alverni. A

GERGOVIA.

In poco più di sessanta giorni, sono perite due .capitali: fra le fiamme Cénabo dei Carnuti e nella strage Avarico dei Biturigi. E' la volta, ora, di Gergovia degli Alverni?


Cesare, questa volta, e di proposito, non dovette tener nascosto il suo intento; e a Decezia, forse nel congresso stesso, avrà pubblicamente dichiarato che avrebbe marciato subito contro l'Alvernia, cuore della rivolta. Quando Vercingetorige, a Rians, apprese tal notizia, fatti distruggere tutti i ponti sull' Allier, omnibus interruptis pontibus, cominciò a risalire il fiume lungo la riva, rispetto a Cesare, opposta, ab altera fluminis parte. Primo pensiero di- Vercingetorige, a quella notizia, fu dunque quello di portarsi a Gergovia facendosi precedere sull 'Allier da apposite e celeri truppe perchè vi distruggessero i ponti sino all'altezza di Gergovia, e oltre se ve n'erano; egli, tolto il campo di Rians, si accostò con l'esercito all'Allier e cominciò a risalirlo lungo la sinistra, - che era la parte dove, molto a monte, trovavasi Gergovia. Cesare - nella zona a sud di Nevers : se là le legioni - dovè percorrere un tragitto molto breve per raggiungere dell'Allier la riva destra. E qui giunto - quale che fosse la località - era forse sua intenzione passare subito il .fiume per risalirne anche lui la sinistra: ma trovò, come abbiamo appena inteso, i ponti rotti. O aveva subìto l'iniziativa di Vercingetorige, questa volta più rapido di lui, o, più probabile, s'era pregiudicato da sè con l'indugio presso gli Edui, sebbene la cavalleria fosse cosa troppo preziosa per non pretenderla sino all'ultimo cavallo. Intraprese quindi la marcia verso Gergovia seguendo la destra del .fiume; mentre altrettanto, dalla parte opposta, faceva Vercingetorige D ue marce l'una legata all'altra, volendo Vercingetorige impedire ai Romani il passaggio del fiume: procedendo tutti e due gli eserciti uno in vista dell'altro, uterque utrique in conspectu, in modo che ponevano il campo a fine tappa quasi di fronte. Vercingetorige dislocava lungo la riva apposite truppe i i esplorazione per impedire ai Romani di costruire un ponte e far pa .·.zre i elle forze ... Vigilanza certamente ininterrotta e consistente; favorita da quest'altro ostacolo: ... l' Allier non si può normalmente passare a guado prima del/'autunno .. .

Sicchè, per un numero imprecisabile di giorni, - tre quattro? - sulla sinistra e sulla destra dell'Allier, ogni giorno il medesimo spettacolo: il risveglio rumoroso all'alba degli accampamenti, i lunghi serpeggiamenti sino al tramonto delle colonne in marcia, i bagliori notturni dei fuochi di bivacco. Ossia, in sostanza: dopo un certo numero di giorni e di marce probabilmente lentissime, si creò questa situazione: Cesare non poteva passare il fi~e perchè i ponti erano distrutti e le acque alte; Vercingetorige, di ciò comapevole, si poneva tuttavia costantemente in condizione di impedire ai Ro-


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mani anche il guado a forze destinate a costituire sulla sinistra dell ' Allier una benchè minima testa di ponte. Situazione assai chiara e, per Vercingetorige, faticosa ma facile.

Cesare dice: « Mi trovavo dunque in una situazione assai difficile, in magnis difficultatibus: di essere fermato dal fiume per la maggior parte della buona stagione. E così, perchè questo non avvenisse ... ». Che l'Allier fosse guadabile verso l'autunno invece che appena cessato lo scioglimento delle nevi del Plateau Central è inesattezza che non incide in alcun modo sugli avvenimenti che seguono; perchè Cesare l'Allier lo passò subito. Lo passò, con tanto di ponte, servendosi dello stratagemma a cui ora assisteremo.

Vercmgetorige aveva certo provveduto nel migliore dei modi all'organizzazione della sua marcia: cavalleria in avanguardia, cavalleria in retroguardia, reparti esploranti sul fianco sinistro, possibilità di rapido schieramento in forze sulla riva del fiume in caso di tentativo di passaggio del nemico. Aveva pensato, possiamo concedergli, a tutto; meno che a una cosa: al vuoto che dopo uno due tre giorni di marcia si lasciava alle spalle. Cesare dice: « Perchè dunque non avvenisse che fossi fermato dal fiume per la maggior parte della buona stagione, ... una sera posi il campo in un terreno boscoso nei pressi di uno di quei ponti che Vercingetorige aveva fatto tagliare ... ». Si fermò - secondo l'ipotesi che ci sembra fra le più accettabili - nell'a zona delJ'odierna città di Moulins. E per quella sera e conseguente notte tutto andò liscio; nulla infatti poteva distrarre Vercingetorige dal porre il campo e pernottare, come nei giorni precedenti, in vista del campo romano. Però all'alba del giorno seguente, ossia alla ripresa del movimento, ecco in atto lo stratagemma (niente di difficile, naturalmente, come, una volta fatte, tutte le cose militari) che a distanza neppure di ventiquattro ore muterà bruscamente la situazione. , · Cesare fece riprendere la marcia solo a quattro legioni e la cavalleria; le altre due le tenne ferme e nascoste, sotto il suo diretto comando, nel luogo boscoso scelto la sera prima per il campo. Il giorno dopo, postero die, stette fermo e nascos/o con due legioni, cum duabus legionibus in occulto, e mandò innanzi, secondo il consueto, il resto delle truppe ma con falmerie e carreggio di tutt'e sei le legioni . ..


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Le legioni usavano però marciare, Insegne in testa, distaccate l'una dall'altra, quasi autonome (le articolazioni delle colonne in marcia, allora, data la difficoltosa viabilità, assai più necessarie di oggi); sicchè la 'sottrazione dalla colonna di due legioni non era cosa che, anche col fiume in mezzo, si Potesse senz'altro pretendere che passasse inavvertita: perchè dunque il numero delle legioni sembrasse lo stesso, si servì di alcune coorti. L'allungamento in marcia di tali coorti Potè pertanto simulare le due legioni mancanti.

Ecco ora due rapidi periodi che ci diranno come, su tali premesse, le cose effettivamente si svolsero. Cesare diede ordine alle truppe in marcia di avanzare il più possibile, quam longissime, e quando, dall'ora, calcolò che avessero raggiunto il luogo di sosta, fece ricostruire il ponte sugli stessi pali del vecchio ma che nella parte inferiore erano rimasti intatti. Compiuto celermente tal lavoro, fatto passare il ponte alle due legioni, scelta una posizione adatta per il campo, richiamò le altre truppe, reliquas copias revocavit.

Alle quattro legioni e cavalleria era stato dunque ordinato di compiere una marcia la più lunga Possibile, « quam longissime », forse anche più di trenta chilometri: il nemico stesso, pertanto, costretto a più lunga tappa e quindi insospettito e nel con tempo attratto dall'inspiegabile aumento deJle ore di marcia. Il generale romano che non Pone fra sè e le quattro legioni alcun collegamento di cavalieri; Pone il vuoto; si affida al calcolo della sua testa: il nemico, comunque avesse vigilato, non avrebbe visto che vuoto alle spalle della colonna in marcia. La colonna romana stessa, molto probabilmente, ignara, tranne qualche Legato, del progetto; dai più forse neppure avvertito che quella mattina due legioni non hanno ripreso la marcia: il nemico, più affaticato del solito, vede porre il camPo romano senza che nulla accada o si veda di eccezionale. La ricostruzione del Ponte - il nemico di ora in ora sempre più lontano - può avere inizio anche prima del crepuscolo giacchè i residui di quel Ponte sono fra due rive boscose; e si effettua rapidamente perchè tutto è stato predisPosto, al coperto, durante il giorno. Nè è superflua la notizia che le due legioni, appena sulla sinistra del1'Allier, si accam parono su idonea posizione: Pone in rilievo l'immediata organizza2ione sulla sinistra dell 'Allier di una salda testa di ponte. Che ora i Galli, alle prime luci, rilevino pure che la colonna romana ha ripreso la marcia in senso inverso. Non Pos.sono far nulla, essendo l'Allier inguadabile per chiunque; e anche fra loro non manca chi presto si rende conto di ciò che, per prodigio, è avvenuto.


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Vercin getorige, conosciuta la situazione, non attese di prendere contatto con l'esercito romano: anzi, per non essere costretto a combattere contro la sua volontà, lo precedette a grandi tappe sulla via di Gergovia. Cesare, dal luogo del passaggio dell' Allier, raggiunse Gergovia in cinque tappe, quintis castris ... Se il passaggio avvenne a Moulins, si trattò di un centinaio di chilometri : cinque tappe brevi. Vercingetorige si affretta, Cesare avrebbe rallentato. A quegli conveniva ormai guadagnar tempo per predisporre a difesa, sebbene già su fortissima posizione naturale, l'oppido Gergovia; a Cesare, non ignaro delle difficoltà che gli avrebbe opposto anche la regione montuosa, conveniva non affaticare le truppe. Il giorno della quinta tappa, forse quando le truppe romane erano appena in vista dell'oppido, avvenne un leggero scontro di cavalleria, di cui non ci è però detto l'esito.

LA

POSIZIONE DI GERGOVIA.

Cesare fece subito riconoscere la posizione su cui sorgeva la città di Gergovza. E fors'anche sugli stessi risultati di tal prima e sommaria ricognizione rinunciò senz'altro all'idea di conquistare Gergovia con una « oppugnatio »: la città, situata su monte molto alto, posita in altissimo monte, aveva accessi difficili da tutte le parti, omnes aditus dif.ficiles. Il monte di Gergovia, le plateau de Gergovie, qui detto altissimo, - 744 metri sul mare e un quattrocento sull' Allier - spicca fra le alture che lo circondano anche per la particolare sua forma. E' una specie di cono reciso a cui sia rimasta, larga e tozza, poco più che la base: termina cioè in alto con un'ampia spianata quasi quadrangolare - sulla quale sorgeva Gergovia - larga un seicento metri e lunga un tre volte tanto. Dei suoi versanti, una certa accessibilità alla spianata la offre quello sud, - che pur si protrae sulla valle dell' Auzon con una serie di scabri speroni e di terrazzi piuttosto larghi ma a ripido pendio - ; ma quasi impraticabili, a picco, rocciosi, interrotti da profondi burroni, gli altri. Siffatto bastione, che appare altissimo a chi proviene dalla valle dell' Allier, è inoltre rinserrato, e meglio si direbbe pressato, da numerose altre alture, allora ricoperte da fitti boschi, che con esso costituiscono caratteristico complesso orografico. Oppido su posizione fortissima dunque, sia per il monte su cui sorge che per le alture che lo circondano.


E' paesaggio di ampi e suggestivi sfondi: a chi risale l' Allier appare da lontano, alle spalle di Gergovia, il Puy de Dome, il Puy dell' Aiguiller, il Puy, più alto di tutti, di Sancy, e via di seguito. Tutta la cosiddetta acropoli alvernate. Ma Cesare, rilevato che ebbe il versante che gli era davanti e le selvose alture circostanti, venne a un'ulteriore valutazione militare del terreno; se cioè questo offrisse condizioni appena sufficienti per tagliare ogni comunicazione all'altissimo monte e quindi a Gergovia. Dice però: « Decisi di non iniziare le operazioni per un assedio prima di aver provveduto ai rifornimenti di grano» . Nessuno, è evidente, si impegna in lunghe operazioni, anche statiche come quelle d'assedio, senza adeguata organizzazione logistica. Ma l'espressione di Cesare nasconde, e presto si svelerà, una preoccupazione politica: proprio gli Edui, che abbiamo appena lasciati, dovevano fornirgli il grano - prima che si esaurisse, se ancora ve n'era, quello di Avarico, e quello che certo s'era potuto agli Edui imporre con la stessa urgenza della cavalleria a Decize - ; proprio dagli Edui dunque e il grano e, prima del grano, da un giorno all'altro, i diecimila soldati con i quali dovevasi organizzare a tergo una certa sicurezza di rifornimento. Terreno difficile e, Giove ve ne liberi, alleato eduo. Non il terreno. in sè e per sè, come e quando che sia sempre domabile, ma terreno tenuto da un Vercingetorige: questi aveva posto il campo vicino all'oppido, sul monte, e aveva collocato intorno a sè, circum se, a poca distanza, - solo, s'intende, sul versante sud - le forze, l'una dall'altra separata, di ciascun popolo; e avendo così occupato tutto quell'insieme di speroni e di terrazzi, omnibus collibus occupatis, offriva, ovunque si spingesse lo sguardo, uno spettacolo impressionante, horribilem speciem praebebat. Impressionante nel senso più forte: quasi pauroso, horribilem; perchè quando l'esercito romano giunse in vista di Gergovia tutta la fascia superiore del versante stid dell'altissimo monte, dove le forze galliche erano certo in allarme, apparve irta di armati. A Cesare, cioè, si presentò una specie di campo trincerato a semicerchio, con cavità verso l'alto: e pertanto formidabile sia per il gran numero di forze che lo costituiva sia per la forte contropendenza rispetto a chi volesse attaccarlo, sia perchè alle spalle tutto dominato e protetto dall'oppido. Da scartare dunque senz'altro l'idea di un attacco di viva forza, che è quanto i Galli avrebbero desiderato; o, meglio, è quanto gli uomini, quando sono su ottima posizione, spesso si illudono che possa avvenire. Ma neppure l'assedio presentava possibilità di attuazione. Un assedio, sia pure il meno impegnativo, attuato cioè con un non continuo cerchio di presidii, ciascuno mobile in un proprio raggio, avrebbe richiesto l'occupazione di posizioni dominanti e di obbligati passaggi su un



Gergovia.


circuito non minore, calcolo stretto, di venti chilometri; ossia, date le difficoltà al movimento che la zona ovunque presenta, una grave dispersione di forze. Anche un solo presidio soppresso o immobilizzato dalla reazione del campo gallico, - che già c'è di che per prevederla potente - avrebbe frustrato l'effetto del blocco e scoperto i pericoli delle forze frazionate. Non dunque assedio con ininterrotto vallo e neppure un blocco con i presidii mobili può ora accordarsi con la ridotta disponibilità delle forze romane (un trentamila uomini?) dopo che l'esercito, validi che ne possano essere i motivi, è stato diviso in due parti.

A qualche giorno dall'arrivo nella zona, Cesare potè fare due costatazioni che pongono subito in rilievo la principale caratteristica della sua situazione. Vercingetorige, ogni giorno, cotidie, all'alba, faceva venire a sè i capi dei popoli che aveva scelto come consiglieri, sia che avesse loro da comunicare qualcosa, sia che vi fossero provve.dimenti da prendere. Vercingetorige, inoltre, si può dire che non lasciasse passar giorno senza sperimentare, in combattimenti di cavalleria intramezzata di arcieri, l'animo e· il valore in ciascuno dei suoi. Il terreno fra campo trincerato e campo romano, cioè, sotto quasi permanente incursione nemica, e quindi ai Romani insicuro. Comando, dunque, accentrato e attivamen_te esercitato; truppe tenute vive e battagliere. Qui non è come ad Avarico, dove fu s<arsa o nessuna l'ingerenza di Vercingetorige nella difesa dell'oppido; l'effettivo potere, qui, su tutti e su tutto, di uno solo. Da parte romana invece, l'attacco è senz'altro da escludere nè sembr~ possibile un qualsiasi assedio; interdetti inoltre, data la quasi quotidiana azione della cavalleria nemica, i movimenti fuori del campo non adeguatamente protetti. Ma rinunciare all'impresa, come pur lo si poteva inizialmente ad Avarico, a Gergovia non si può; un suicidio eccitare i Galli con l'idea, anzi la prova, che un oppido diventi senz'altro inespugnabile se tenuto dal figlio di Celtillo. Difatti neppur l'ombra in Cesare d~lla rinuncia. Fissato che avremo sulla carta la posizione del campo romano, r - impiantato, come attestano gli scavi, un tre chilometri in linea d'aria a sud - est dell'oppido, su talune alture fra il lago ora prosciugato di Sarlièves e il villaggio di Orcet - ; rilevata la posizione del campo rispetto all'oppido Gergovia, potremo meglio renderci conto di ciò che Cesare fece per far sentire al nemico la sua .presenza. E la soluzione che vedremo adottata confermerà le congetture sulla impossibilità d'una qualsiasi forma di assedio.


LA ROCHE BLANCHE.

C'era di fronte all'oppido, alle radici del monte, un colle per natura assai forte e scosceso da tutte le parti, ex omni parte circumcisus ... E' il colle La Roche Bianche che domina la valle dell'Auzon, e trovasi a circa un chilometro e mezzo in linea d'aria e un cento metri più basso rispetto alle tracce delle mura di Gergovia (notiamo codesti dati); un grosso e caratteristico colle, oggi non più scosceso da tutte le parti e specialmente dalla parte di Gergovia. Cesare dice: << ••• Se le mie truppe fossero riuscite a impadronirsi di quel colle, avrebbero interdetto ai nemici la maggior parte dell'acqua e la possibilità di foraggiare liberamente . .. ». Però l'intero gruppo orografico di Gergovia doveva essere, come oggi, piuttosto ricco d'acqua e pascoli; la valle dell'Auzon, pur dominata dal colle La Roche Bianche, non poteva dirsi ai Galli indispensabile o tale che una volta interdetta li avrebbe posti in crisi grave. Dice: « ... Quella posizione era però tenuta da un non debole presidio. Tuttavia, tamen ... ». Un « tamen » che annunzia grosso colpo di mano su La Roche Bianche, accuratamente studiato e di rapida e felice riuscita .

. . . Tuttavia, Cesare, uscito dal campo nel silenzio della notte, silentio noctis Caesar ex castris egressus (locuzione che darebbe quasi per certo che a condurre l'azione fosse lui in persona), cacciato il presidio e occupata la posizione prima che dal!' oppido potessero accorrere rinforzi, vi stabilì due legioni .. . Per sì immediato e completo successo, dovettero influire, più che la notte e il terreno rotto e coperto di vegetazione, la insufficiente comprensione, da parte di Vercingetorige o di chi si sia,. che quel presidio avanzato occorresse tenerlo ognora collegato al campo trincerato e la conseguente omissione, da parte dei difensori in posto, di ogni predisposizione esterna di allarme, ritenendo la posizione di notte inaccessibile. Collocate a La Roche Bianche ben due legioni, che vi costituirono, naturalmente, un campo fortificato, Cesare volle altresì assicurarsi una soddisfacente sicurezza di movimento fra il maggior campo, a Orcet, e questo minore, a La Roche Bianche: fece costruire dal campo maggiore al minore, a maioribus castris ad minora, un doppio camminamento, fossamque duplicem perduxit, ciascuno largo un tre metri e mezzo (gli scavi hanno però per ognuno rivelato una larghezza, più verosimile, di quasi due metri); due camminamenti paralleli, comunque, per un traffico indipendente nei due sensi.


Questo duplice fossato potè assumere sul terreno, dati i dislivelli, una lunghezza di oltre tre chilometri ; e certamente era protetto - là dove non a breve portata dai due campi - anche da qualche caposaldo intermedio se consentiva, come ci vien detto, che anche uomini isolati potessero andare e venire al sicuro da improvvise incursioni del nemico ... Sono perciò assicurate le comunicazioni fra campo maggiore e minore e un robusto assestamento difensivo garantisce la padronanza della valle dell'Auzon.

Ma anche sotto Gergovia, come ad Avarico, stasi ci fu (saremmo, ora, dopo il colpo di mano, ai primi di giugno). Vi influì la sorpresa per le difficoltà del terreno, rivelatesi, in rapporto alle forze, maggiori del previsto; vi influì il fatto che Cesare, come ha detto, non intendeva impegnarsi a fondo se prima non avesse provveduto al rifornimento dei viveri, il che sostanzialmente significa che temeva per le spalle malsicure. Una inesatta prevalutazione dell'impresa, quali che siano stati i motivi, ha dunque posto Cesare in una situazione di sgomento: Gergovia inespugnabile, esercito diviso, insicuro il vettovagliamento, la strage di Avarico che chiede dappertutto vendetta. Eppure, ciò malgrado, indiscusse sono qui le prove che egli intende restare dove si trova, risoluto ad agire: conquista di La Roche Bianche, pugno lontano ma serrato contro l'oppido; apprestamento di oltre tre chilometri di cam~inamento, quasi trinceramento, fra due potenti capisaldi quali i due campi. Però non si riesce a capire a che miri tutto questo se nè si può pensare a La Roche Bianche come a un primo approccio per un attacco all'oppido di. viva forza nè al trinceramento fra i due capisaldi come a un primo tronco per una linea di blocco. Che forse Cesare - ora che ha meglio avvertito le difficoltà del terreno e l'inadempienza degli Edui - ha già richiamato Labieno ormai lontan o e s'è perciò sistemato e fortificato nel modo che abbiamo visto perchè è in attesa di ricostituire l'unità dell'esercito? Niente neppure di ciò: Labieno sta. continuando, e continuerà, la sua marcia.

IL VERGOBRETO CoNv1cToLITAVE. Mentre questo avveniva davanti a Gergovia, Convictolitave, eduo, al quale, come s'è detto, Cesare aveva aggiudicato la suprema magistratura, cui magistratum adiudicatum a Caesare demonstravimus ...


Riesplode - a breve tempo dal congresso di Decize e per i Romani in un brutto momento - la crisi edua. Magistratura aggiudicata da Cesare? Ma Cesare a Decezia non ha fatto altro che riconoscere lo stato di cose che era o risultava più legale: Convictolitave eletto su designazione dei sacerdoti, secondo norme consuetudinarie del paese, n~ll'intervallo legale tra l'una e l'altra magistratura. Titoli che il suo avversano non aveva. Questa volta a Cesare sarebbe occorso un collaborazionista calibro Cingetorige treviro che due anni or sono pose in crisi in pochi giorni, sotto il naso del suocero Induziomaro, la politica del suo paese. Convictolitave? Una sfinge: ma sostenuto da una legalità di granito. Sebbene con un Coto anche solo per metà collaborazionista, la legalità di Convictolitave sarebbe divenuta di vetro. A Coto, tutt'altro che collaborazionista (lo ritroveremo fra qualche mese sul campo di battaglia) gli si dovè volgere in danno proprio l'autorità che pur gli veniva dalle cospicue parentele e dal fratello vergobreto uscente. Che ne è, ora, di lui deposto e offeso? è già sceso in campo alla testa della sua fazione? siamo già, a cagion sua, ad vim atque arma, alla guerra civile? Neanche per sogno. Animi eccitati, questo sì: ma nessuna agenzia edua ha finora segnalato spargimento di sangue.

Ma neppure Convictolitave (nobile, ricco, giovane, florentem et inlustrem adulescentem) era collaborazionista. L'eletto per sacerdotes si tolse la maschera subito dopo il congresso di Decezia, appena le legioni furono lontane dal territorio eduo. Ma se la tolse quando già Cesare lo aveva, per quanto gli era stato possibile, fiaccato: gli aveva cioè tolto, subito, tutta la cavalleria (e come avrebbe fatto, ora, a imporsi da un capo all'altro del paese?); gli aveva imposto diecimila armati (tutte le truppe a piedi, diremmo, di una certa organizzazione e consistenza militare); nè gli aveva lasciato intatto il territorio - però questa notizia Cesare ce la darà solo fra un mese e più quando non potrà farne a meno: ora che era il momento suo, che avrebbe dovuto apparire fra le imposizioni agli Edui e ne era la più pungente, l'ha taciuta - nè dunque gli aveva lasciato intatto il territorio: s'era preso in pegno Novioduno, l'odierna Nevers, oppido che doveva essere quasi un'isola, difendibile con poche forze, situato com'è a breve distanza dalla confluenza dell'Allier con la Loira.

E, come poi rileveremo, a Nevers aveva già fatto trasportare, forse subito dopo Avarico, il grande deposito dell'esercito che ricordiamo di aver lasciato a Sens difeso da due legioni.


Quel gran deposito Cesare aveva pertanto avvicinato a sè di parecchio, - Nevers è un centocinquanta chilometri più a sud di Sens - ponendolo fra gli Edui, non nemici dichiarati come i Senoni e anzi ufficialmente ancora amici; circostanze che gli consentirono - si spiega, così, la riapparizione di tutte e dieci le legioni all'atto della divisione dell'esercito - di affidare la difesa di quella base logistica a poche coorti organiche rinforzate da personale resosi via via meno idoneo alle operazioni di guerra. Ma il motivo del trasferimento potrebbe anche ricercarsi, oltre che nel ricupero di forze, nei progressi fatti dalla rivolta - durante le lunghe operazioni sotto Avarico - nello scacchiere media Senna: progressi che avrebbero richiesto la sostituzione con forz.e mobili del presidio statico di Sens, troppo isolato e lontano per non destare, specialmente se assediato, serie preoccupazioni. Il motivo, in altri termini e in definitiva, che avrebbe imposto - se su fondamento di giuste o meno giuste valutazioni, nessuno può dire - la divisione dell'esercito in due parti.

Fissato, così, - anche se Cesare non l'ha ancor detto - che la maggior base logistica dell'esercito romano è ora a Nevers, o Novioduno degli Edui, e non più ad Agedinco dei Senoni, ritorniamo a Convictolìtave ormai già nel pieno esercizio delle sue funzioni, nella capitale, a Bibracte. Gli era stata tolta tutta la cavalleria, gli era stata imposta la consegna delle migliori truppe a piedi, era stato beneficiato, a Novioduno, di una testa di ponte per un'eventuale invasione del paese; senza contare l'onere, che piuma non poteva es.sere, del grano: circostanze dunque non felici hanno accompagnato la sua elezione. Mentre dunque questo avveniva davanti a Gergovia, Convictolitave, edu?, ... sollecitato con danaro dagli Alverni, sollicitatus ab Arvernis pe~ cuma .. . Sospetto di subornazione che però potrebb'essere contraddetto dal fatto che sono in ogni tempo normali e lecite nelle alleanze di guerra profferte o richieste di aiuti finanziari. Dunque: Convictolitave (Cesare rende vivida la di lui fugace apparizione riferendo in succinto un suo discorso politico), sollecitato con danaro dagli Alverni ... prende contatto (in segreto: la politica antiromana è ancora in fase clandestina) con alcuni giova1Ji; a capo dei quali, giovani anch'essi, Litavicco e i suoi fratelli, di nobilissimo casato, e divide con essi (sarà agevole, fra poco, rilevarne il probabile motivo) il danaro ricevuto, cum his praemium communicat .. . Questo il discorso, a quei giovani, di Convictolitave: Vi esorto a ricordarvi che siete uomini liberi e nati per il comando (giovani d'alto lignaggio non possono rifuggire dai rischi che comporta la difesa della libertà e la re-


431 sponsabilità del comando). Il popolo eduo è il solo, unam esse Haeduorum civitatem, che ritardi nella Gallia la ormai sicurissima vittoria finale, certissimam victoriam: gli altri popoli non ancora intervenuti nella lotta sono trattenuti dalla nostra autorità (una voce, finalmente, ed edua, che fissa la responsabilità della politica edua in questi memorabili mesi). Se il popolo eduo fa causa comune con i ribelli, ai Romani non resterà più un solo punto di appoggio in Gallia (costatazione che pone in tutta luce l'attuale grave situazione dell'esercito romano). Io, è vero, sono alquanto obbligato a Cesare: ma semplicemente nel senso che mi ha reso giustizia: più di Cesare, comunque, mi sta a cuore l'indipendenza del paese, sed plus communi libertate tribuere (cinque parole, le latine, che immediatamente precedono, non v'è dubbio, la dichiarazione di guerra). Perchè gli Edui devono rivolgersi a Cesare come arbitro sulla loro costituzione e le loro leggi (meno i collaborazionisti, chi poteva aver visto di buon occhio l'intromissione di Cesare per l'elezione del vergobreto ?) e non piuttosto i Romani sottoporsi al giudizio degli Edui? (nìente dichiarazione di guerra. Una proposizione giuridica politicamente inconsistente: tutto qui). Quei giovani furono ben presto persuasi sia dal discorso del vergobreto, et oratione magistratus, che dal denaro alvernate, et praemio, e si dichiararono anche pronti a mettersi a capo dell'impresa; cioè di farsi nel paese promotori - danaro pertanto ne occorreva - di una politica decisamente interventista. Fuoco alle polveri, allora? No. Quei giovani discutono sulla linea d'azione da adottare perchè non si facevano illusioni, quod non confidebant, che il loro paese si potesse facilmente spingere alla guerra. Non si facevano illusioni, quei giovani, non confidebant: la neutralità è ciò che ritiene ognora a sè più confacente indole edua. Il partito migliore sembrò che Litavicco avesse il comando dei diecimila, che si dovevano mandare a Cesare per la guerra, e glieli conducesse; i suoi fratelli intanto lo avrebbero presso Cesare preceduto. . A Litavicco il comando dei diecimila, ai fratelli di Litavicco il compito di presentarsi subito a Cesare: ma quali indizi sono questi di mutamento di politica? Ecco però, a rincalzo, una frase sibillina: quei giovani stabiliscono tn che modo tutto il resto, reliqua, dovesse effettuarsi. E questo « tutto il resto » apparirà presto, fra pochi giorni. Intanto quei giovani, ivi compreso il vergobreto, fecero sì che tutto si svolgesse normalmente : che i diecimila lasciassero il paese e prendessero la via di Cesare; che Cesare fosse subito rassicurato - garanti, quasi ostaggi, i fratelli stessi di Litavicco - dell'imminente arrivo del contingente: che nulla, insomma, suscitasse alcun sospetto.


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I DIECIMILA. Non sappiamo da dove i diecimila fanti partirono e la strada che percorsero nel loro territorio, ma, passato che ebbero il confine, la Loira, è accettabile la supposizione che facessero lo stesso itinerario di Cesare: avrebbero passato quindi l'Allier in quel di Moulins, forse sul ponte stesso dello stratagemma. Litavicco, ricevuto il comando di quelle forze, quando fu a circa quarantacinque chilometri da Gergovia, - saremmo in quel di Gannat - riunì all'improvviso quelle truppe e dette loro un'inattesa notizia. Parlò piangendo, lacrimans. Disse: - Dove andiamo, miei soldati? quo proficiscimur milites? E' stata uccisa sotto Gergovia tutta la nostra cavalleria, tutta la nobiltà! Due nostri alti concittadini, Eporedorige e Viridomaro, accusati di tradimento, sono stati dai Romani giustiziati senza processo. Vi racconteranno quanto è avvenuto quelli - qui presenti - che sono scampati alla strage, perchè a me, che ho in essa perduti i fratelli e tutti i parenti, il dolore impedisce di farlo ... Litavicco dà come già avvenuto un eccidio di nobili che Dumnorige, due anni or sono, dava solo come un'intenzione che Cesare avrebbe posta in atto in Britannia: Litavicco, come subito si rivelerà, è nel mendacio; Dumnorige, come ricordiamo, lo era anch'egli. Si avanzano dunque coloro che erano sfuggiti alla strage e - istruiti, naturalmente, su quel che dovevano dire - fanno alla moltitudine di quei soldati lo stesso racconto di Litavicco: molti cavalieri degli Edui sono stati uccisi perchè sospettati di proditorie intese con gli Alverni: noi soli, nascosti tra la folla dei soldati, siamo riusciti a sfuggire alla strage. Non fu allegra per quelle schiere, a neppure due tappe da Cesare, un simile annunzio: levano un grido i diecimila, conclamant Haedui, implorando da Litavicco la salvezza. Litavicco riprese allora il suo discorso. - Come se ci sia da discutere e non sia evidente che noi dobbiamo andare a Gergovia e unirci agli Alverni. V'è forse chi dubita che i Romani, dopo tal nefando delitto, già non pensino a uccidere anche noi? Insomma, se abbiamo ancora sangue nelle vene, si quid in nobis animi est, vendichiamo la morte di coloro che sono miseramente periti e uccidiamo questi ladroni!, atque hos latrones interficiamus ... ...::.. Quali ladroni? Litavicco, nel pronunciare l'ultima frase del discorso, addita i cittadini romani, ostendit cives romanos (e da dove vengono fuori questi « cives » ?), che, fidando nella protezione del contingente, .lo ave'vano seguito: li addita (più morti che vivi, disgraziati) e fa loro saccheggiare gran quantità di fru-


433 mento e di vettovaglie (commercianti stabilitisi nel paese degli Edui erano dunque quei « cives ») e li fa infine uccidere fra le più crudeli torture. Litavicco spedisce messaggeri per tutto il paese degli Edui . .. : che ognuno vendichi le proprie offese, seguendo il suo esempio. Cesare, invero, dice: « Spedì messaggeri per tutto il paese degli Edui ... e questi scosse servendosi della stessa menzogna, eodem mendacio, della strage dei cavalieri e dei nobili». Nè infatti aveva egli fatto strage di cavalieri e nobili nè aveya giustiziato Eporedorige e Viridomaro, che prestissimo sapremo chi sono.

Litavicco però, dall'altro mondo, anch'egli protesta: dovete rendervi conto, per imparzialità, - egli ci grida - che incombeva ovunque e in tutti la psicosi, come voi oggi dite, del terrore. A noi serviva una strage che colpisse direttamente, per smuoverlo, il nostro popolo; e l'abbiamo inventata. Ma quante in Gallia le stragi vere da sei, sette, anni? Anche l'esagerazione di Dumnorige ve la spieghereste col ricordo, allora recente e vivo in lui e nei suoi ascoltatori, degli Usipeti e Tencteri, a cui il mattino del massacro erano stati sottratti - in qual modo, ognuno giudichi come crede - i capi. La strage nel campo romano di Gergovia era, sì, menwgna; ma la strage di Avarico, tanto per citare quella alla mia menzogna più vicina, era vera; e la strage vera viene cronologicamente prima della inventata. Altro è un'invenzione isolata, altro è se posta sullo sfondo da cui nasce.

Però non tutti quelli che erano attorno a Litavicco si lasciarono tras!)Ortare da furore antiromano: chè la notizia della defezione dei diecimila giunse nel campo romano di Orcet circa a mezzanotte del giorno stesso in cui era avvenuta. Fu portata, chi sa da chi, al notabile eduo Eporedorige dato per ucciso. Ed Eporedorige, immediatamente, conscio della gravità della cosa, la riferì a Cesare. Chi era Eporedorige? Giovane di altissimi natali e di grandissima autorità nl suo paese. Chi era Viridomaro, l'altro eduo dato anch'esso per ucciso? Questt per gioventù e prestigio era pari a Eporedorige, ma differenti ne erano i natali: veniva dal niente; era stato raccomandato a Cesare da Diviziaco, ab Divitiaco sibi traditum (ultima apparizione, un attimo, del collaborazionista numero uno, storico), e Cesare lo aveva portato da un'umile posizione ai più alti posti. Questi due signori erano al comando, naturalmente, di truppe celeri: essi facevano parte del numero di cavalieri (del contingente, come ora dedurremo, imposto a Decezia) da Cesare, o per fiducia o per diffidenza, personalmente designati e voluti, nominatim ab eo evocati. I due, fra loro cordiali 28. -

u.s.


434 forse nel privato rapporto, covavano però reciproco antagonismo: si contendevano sempre il primato, - di gradino in gradino, un anno o l'altro, entrambi miravano alla suprema magistratura - ; e anche nella lotta per l' elezione del vergobreto avevano combattuto con tutto il loro impegno l'uno per Convictolitave e l'altro per Coto (prima del congresso di Decezia non avevano quindi ancor lasciato il paese). Avevano cioè strenuamente lottato per due candidati che collaborazionisti non erano; ed è perciò da presumere che essi ora si trovassero presso Cesare solo perchè, « nominatim evocati », non avevano potuto farne a meno. La notte in cui giunse la notizia della defezione dei diecimila fu di scena, come abbiamo inteso, Eporedorige. Costui, saputo della decisione di Litavicco, va, circa a mezzanotte, ad avvertire Cesare, media fere nocte rem ad Caesarem defert, e lo prega di non lasciare che il suo paese, per esaltate idee di giovani, pravis adulescentium consiliis, fosse staccato dall'amicizia del Popolo Romano. Il che si poteva prevedere c~e accade~se - è sempre Eporedorige che parla - se tante migliaia di uomini passavano a Vercingetorige: perchè, in tal caso, nè i congiunti dei diecimila potrebbero restare indifferenti alla sorte dei loro nè lo stesso intero popolo eduo avrebbe potuto non dare al fatto la dovuta importanza. Non si riesce però a capire dove questo signore tenda. L'informazione or ora offerta così urgentemente, e con tanta consapevolezza dei suoi effetti politici, non lo riporta (quando invece non lo è più: ve lo giuriamo; non lo è più) fra i collaborazionisti ?

Ma Cesare non dovè lasciargli neppure il tempo di finire. Le informazioni che ora sommamente gli importavano - e ne dovè prètendere preciso e urgente ragguaglio dall'informatore di Eporedorige e da chi altro potè - erano solo queste: « quando » e « dove » Litavicco avesse fatto il colpo e « i più probabili itinerari» che i diecimila potessero seguire per raggiungere Gergovia. Dice: « Assai turbato da questa notizia, magna adfectus sollicitudine, perchè avevo sempre favorit9 il popolo degli Edui . .. ». Colpo proprio inatteso. Dice: « ... senza indugiare un istante, feci uscire dal campo in assetto leggero quattro legioni, legiones expeditas quattuor, e per intero la cavalleria, equitatumque omnem ... ». Il campo avanzato di La Roche Blanche, in cui all'atto della conquista erano state poste due legioni, ora, ancor meglio fortificato, era tenuto, è da presumere, da appena qualche coorte. Il grande campo di Orcet, pertanto, detratte che furono la cavalleria e quattro legioni, rimase affidato a una forza


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minore di due legioni; forza che non potè subito non apparire insufficiente per sì lungo perimetro. Dice: « ..• Non ci fu tempo in tal circostanza per restringere il campo maggiore, dato che tutto dipendeva dalla celerità, res posita in celeritate: lasciai perciò a capo della sua difesa il Legato Caio Fabio con due legioni». Nè s'era dimenticato dei fratelli di Litavicco già presso di lui: ma, avendo ordinato di arrestarli, gli riferirono che erano allora allora fuggiti al nemico. Dice: « Fatti esortare i soldati ad affrontare, data l'urgenza del momento, le fatiche della marcia, avanzai - essendo tutti bramosissimi di secondarmi - per trentasette chilometri . .. ». E dopo trentasette chilometri di affannosa marcia fu ai diecimila vicino. Litavicco aveva fatto il discorso a circa quarantacinque chilometri da Gergovia e Cesare - che è sul giusto itinerario che porta i diecimila a Vercingetorige - ha ora percorso un trentasette chilometri. Cifre, anche se ,di larga approssimazione, significative: perchè Litavicco, dal momento in cui potè veder compiute tutte le operazioni che Cesare ci ha riferite (poco prima di sera?) al momento in cui le legioni stanno per compiere i trentasette chilometri (vogliamo cakolare che queste abbiano lasciato il campo non prima delle due di notte e abbiano marciato un sette ore?), Litavicco dunque, in tutto questo tempo - dal tardo pomeriggio alle nove o alle dieci del giorno seguente - non ha fatto percorrere ai diecimila che pochissimi chilometri. Sebbene sia anche da argomentare che la lentezza della marcia, questo indugio, fosse calcolata sulla necessità di percorrere col favore della notte i luoghi più vicini al campo romano di Orcet. I quarantacinque chilometri da Gergovia erano a Litavicco indispensabili. A tal distanza da Cesare, egli potè sentirsi sicuro, e lo fu, del fatto suo: fece il discorso, produsse i testimoni dell'eccidio, sollevò il morale dei diecimila col bottino, ma anche col sangue, dei « cives >>, ebbe tempo di dare istruzioni ai messaggeri che dovevano accendere la rivolta in tutto il paese, concesse sosta notturna alle truppe nella stessa località in cui tutti codesti fatti erano avvenuti. Giudicò sacrifizio ricompensato dalla segretezza e sicurezza dell'impresa i quarantacinque chilometri, - o quelli che potevano essere: ma parecchi certamente - l'indomani, dell'ultima tappa. Tutto calcolato. Sebbene qui sia lecito inferire che gli ideatori del progetto discusso nel segreto convegno di Bibracte avrebbero fatto, circa le distanze, precisamente il contrario di ciò che sarebbe occorso.


La defezione solo se fatta a poca distanza, la minore possibile, da Vercingetorige, e solo se seguita dall'immediata ripresa della marcia, avrebbe po5to Cesare - per veloci che potessero essere gli informatori - di fronte al fatto compiuto; oppure lo avrebbe posto nella eventualità, non invero gradita, di uno scontro con i diecimila quando già questi avevano preso contatto o quasi con le forze di Vercingetorige. Occorreva che la defezione si concludesse in brevissimo tempo, con un salto: ma - vuoi barbarica inesperienza vuoi che quei giovani « non conndebant » e perciò rifuggivano da soluzioni ardite e pericolose - sono proprio la risolutezza e l'audacia che sembrano assenti nell'attuazione del segreto progetto.

A trentasette chilometri da Gergovia - c'è chi congettura nella zona, approssimativamente, a nord di Aigueperse - la colonna dei diecimila fu dunque in vista, agmen Haeduorum conspicatur. Cesare dice: « Feci avanzare la cavalleria e arrestai di quella colonna la marcia: avevo però dato ordine a tutti di non ucciderne neppur uno ». Neppur uno, ne quemquam. Non poteva però dipendere solo da un perentorio ordine l'arresto incruento della colonna: una qualunque reazione dei diecimila avrebbe provocato la rivalsa. La cavalleria romana (se non ci aiutiamo con lecita immaginazione non riusciremo a spiegarci nè l'ordine di non uccidere nè tutti gli altri fatti che seguono) non fu lanciata all'attacco - e questo è chiaro - della colonna edua. L' « equitatumque omnem », migliaia di cavalli, fu fatto invece avanzare piuttosto lentamente con un an1pio spiegamento frontale che avvolgesse, ma a distanza, la testa della colonna edua; fu indi arrestato per dar tempo alle quattro legioni di attestare a ridosso della cavalleria ma su posizioni che le ponessero, tutt'e quattro, il più possibile in vista. Uno schieramento forte, ben visibile; ma per ora solo minaccioso: che i diecimila avessero qualche tempo per avvertire la situazione in cui si trovavano. Dice: « Ordinai a Eporedorige e a Viridomaro - che i diecimila credevano uccisi - di aggirarsi fra i cavalieri, inter equites versari, e di chiamare e farsi riconoscere dalla lor gente, suosque appellare. Conosciuta la verità e svelato così l'inganno di Litavicco ... ».

Ma Litavicco, dagl'inferi, ancora interloquisce: la resurrezione dei due notabili è solo un particolare. E particolari, se vogliamo, sono anche la sciagurata delazione di Eporedorige e lo stesso nostro progetto che qualcuno di voi giudica mal congegnato nel calcolo delle distanze e dei tempi. Poteva infatti esserci tempestiva delazione e calcolo errato e potevano non esserci i


437 modi della reazione di Cesare. Fu il balzo di tutta la cavalleria e delle quattro legioni, lo riconosco, che ci posero in una situazione assolutamente imprevista. Sì che si volse contro di me la mia stessa menzogna: sembrò che l'apparizione dei Romani effettivamente preludesse a una nuova strage, così come nel discorso avevo detto neppure ventiquattr'ore prima.

Quando dunque fo conosciuta la verità e svelato l'inganno di Litavicco: ... i diecimila cominciarono a tendere le mani, manus tendere, a far segni di resa; deditionem significare, e, gettate le armi, a implorare (tanto eranc convinti, dopo Avarico, che resistenza fallita significasse strage) di aver salva la vita. Litavicco, in tanto sfacelo, non trasse, come Dumnorige, la spada: con i suoi clienti - per i quali, secondo il costume dei Galli, è disonore abbandonare i patroni anche nei casi disperati - si rifugiò a Gergovia, Gergoviam profugit. Cesare aveva preferito correre il rischio di lasciare a Orcet una difesa insufficiente alla sicurezza del grande campo, sì vicino al nemico, piuttosto che rinunciare a condurre l'operazione per i diecimila nel solo modo (non erano certo le balde schiere di Litavicco che potevano pretendere una simile dimostrazion~ di forze) che gli consentisse di non porre sangue fra sè e il popolo eduo, in modo da tenerselo, se non più alleato, almeno neutrale. Dice: « Dopo aver inviato messaggeri al popolo degli Edui perchè sapessero che per mia generosità, suo beneficio, erano stati risparmiati coloro che per diritto di guerra, iure belli, avrei potuto uccidere ... ». (Dice per dire: brutta e vendicativa bestia, sempre, - e qui c'erano stati i tre « non » - l'uccisione di gente che s'è arresa). Ces'àre, dunque, dopo aver inviato messaggeri al popolo degli Edui, ... e dopo aver concesso alle truppe ire ore di riposo notturno, riprese la via di Gergo via. Le quattro legioni, poste in allarme a circa mezzanotte, avevano marciato sette otto ore; erano poi state variamente impegnate durante le operazioni di resa (durate a lungo se le tre ore di riposo non poterono essc:.re che notturne): ripartivano ora, nello stesso giorno dell'allarme (calcoleremmo qualche ora prima di mezzanotte) per ripercorrere i trentasette chilometri. Le quattro legioni nonchè tutta la cavalleria - nonchè, diremmo, i diecimila - sono dunque in marcia di ritorno da Aigueperse, o dove che fu, a campo Orcet.

Ma a circa metà strada, medio fere itinere, cavalieri mandati da Fabio espongono a Cesare quale grave pericolo abbia frattanto corso il campo mag·giore: i nemici lo avevano assalito con numerosissime forze, summis copiis,


sì che mentre i Galli erano in grado di sostituire con uomini freschi i combattenti stanchi, i Romani erano stati costretti dalla grandezza del campo a rimanere continuamente sul vallo, logorandosi nell'incessante fatica. Molti i feriti dalla gran quantità di dardi e di proiettili d'ogni genere. Si era potuto resistere grazie all'aiuto delle macchine (ossia buon giuoco ebbero le artiglierie romane sui Galli che si ammassavano sotto il vallo). Fabio, dopo che i nemici si erano allontanati, aveva fatto ostruire tutte le porte eccetto due , rinforzando il vallo con plutei: e si preparava a subire un attacco di pari intensità per il giorno dopo. Cesare dice: « A queste notizie, affrettai la marcia, e con somma abnegazione delle truppe, giunsi al campo maggiore prima dell'alba, ante ortum solis ». Dal momento dell'allarme a questo ritorno - tutto in una trentina di ore - le quattro legioni percorsero circa ottanta chilometri, e quasi di corsa la seconda metà del ritorno; senza contare altre fatiche.

Il che però non sarebbe stato passibile, e il ritorno avrebbe patuto avvenire parecchie ore dopo, cioè in ritardo rispetto al ripetersi dell'attacco di Vercingetorige - la cui riuscita avrebbe patuto segnare, col massacro, fra Orcet e La Roche Bianche, di due legioni, un definitivo successo - senza il miserabile compartamento di Litavicco e dei Diecimila.

BENIGNITÀ E CONDISCENDENZA.

Il quadro della situazione palitica edua sarebbe, a questo punto, il seguente: interventista il vergobreto Convictolitave sebbene ancora in segreto; Coto: scomparso dalla circolazione; Litavicco e fratelli interventisti a viso scoperto ma non ritornati nel loro paese per infiammarlo alla guerra; Eparedorige collaborazionista non è (a presto le prove) ma a campa Orcet da collaborazionista s'è compartato; i diecimila, raccattate le armi o lasciatele raccogliere dai Romani, sarebbero con Cesare, e con Cesare è la cavalleria edua di Eparedorige e Viridomaro. Mentre tali fatti avvengono in ·· quel di Gergovia, . . . i messaggeri di Litavicco giungono alle lor varie destinazioni e diffondono la notizia della strage sotto Gergovia di nobili e cavalieri nonchè del passaggio a Vercingetorige, che danno per avvenuto, dei diecimila. Cesare dice: « .•. gli Edui, alle prime notizie riéevute da Litavicco non si concedono quel tanto di tempo necessario per accertarle, nullum ad cognoscendum spatium ».


439 C'era poco, invero, da accertare. L'imposizione, a Decezia, di tutta la cavalleria, ossia di tutta la più valida nobiltà, era stata troppo violenta perchè al minimo stormir di foglie non apparisse lo spettro di Avarico. Sicchè la rivolta edua divampò rapida: chi vi fu spinto dalla cupidigia, avaritia (cupidigia di che?), chi da spirito collerico e temerario, iracundia et temeritas (pigliano fuoco, i Galli, come fiammiferi: .c'est le trait dominant de la race et qui leu~ f ait prendre un bruit sans consistance pour un fait certain, levem auditionem pro re comperta). Saccheggiano i beni dei cittadini romani, bona diripiunt (ecco il motivo della cupidigia), fanno stragi, caedes (di « cives »), traggono in servitù, in servitutem abstrahunt (i Galli dei « cives » al servizio). Il vergobreto Convictolitave spinge il carro per la discesa (si scopre?), ed eccita la plebe al furore, affinchè, una volta commesso qualche fatto irreparabile, essa poi si vergogni (eh, via, che pretesa) di tornare alla ragione, ad sanitatem reverti pudeat.

Guerra, guerra, guerra. Uscito dal riserbo il vergobreto, gli avvenimenti stanno prendendo il corso che da tempo si prevedeva.

Ma lasciamo che parlino i fatti. Ecco quanto avvenne a Cabillono, cioè a Chalons sur Saòne, al confine del territorio eduo col sequano. I cabillonesi, assicurandolo dell'immunità, fanno uscire dalla città il tribuno militare Marco Aristio, in viaggio per raggiungere la sua legione ... Aristio, in viaggio chi sa da dove e perchè, al momento dell'esplosione trovavasi dunque di passaggio a Chalons sur Saòne. . . . e costringono a far la stessa cosa coloro che in Cabillono risiedevano per ragioni di commercio. Uscì insomma da Cabillono una bella comitiva : Aristio, alto ufficiale, con i suoi bagagli i suoi cavalli i suoi attendenti e i commercianti con servi . . carn e mercanzie. Naturalmente, appena costoro furono in viaggio, i cabillonesi senz'altro li assaltano, spogliandoli di tutto il loro bagaglio. Nè la cosa finì lì perchè i ribelli, oltre che la roba, volevano la pelle: ma avendo trovato in quei fuggiaschi resistenza, li assediano un giorno e una notte, diem noctemque; - ma neppur così riescono a spuntarla, tanto che, dopo molte perdite dal!' una parte e dal!' altra, i ribelli chiamano a rin!orzo un maggior numero di armati. Un giorno e una notte di assedio, più la sosta in attesa di rinforzi: troppo tempo: chè giunse intanto la notizia che tutti i soldati edui, i diecimila, erano non presso Vercingetorige ma in potere di Cesare, in potestate Caesaris. E


allora i cabillonesi corrono ad Aristio e gli dicono che i pubblici poteri non c'entravano affatto in ciò che era avvenuto, nihil publico factum consilio, ordinano, anzi, un'inchiesta sul saccheggio . .. Resipiscenza immediata a Cabillono. Figuratevi, ora, a Bibracte, ov'erano le teste più fini e gli anmu più sensibili: appena giunta la smentita, si mettono all'asta i beni di Lìtavicco e fratelli, si mandano a Cesare - e anche questo non potè avvenire senza precisa volontà del vergobreto Convictolitave - ambasciatori per discolparsi, sui purgandi gratia. Siamo, così, di nuovo all'assoluta prevalenza dei collaborazionisti. Macchè. Cesare dice: « Ciò fecero per riavere i loro uomini, recipiendorum suorum causa, ossia, anzitutto, i diecimila. Ma essendo ormai molti i compromessi dalle violenze e gli interessati a conservare i frutti del saccheggio, atterriti dalla pena che li aspettava, cominciano a far nascostamente piani di guerra e a sollecitare con ambascerie gli altri popoli ». Tutti bassi motivi sospingevano gli Edui alla guerra: assassinii ruberie pauca della pena. Proprio nessuna, almeno retorica, indignazione per i tre « non » ? Dice: « Sebbene comprendessi il motivo che li aveva mossi, trattai quegli ambasciatori con la maggior benignità possibile, quam mitissime potest. Dissi loro: non voglio dare un giudizio troppo severo su tutto il vostro popolo, riferendomi a quanto è avvenuto per ignoranza e leggerezza di volgo; nè, sappiate, è punto in me diminuita la benevolenza verso gli Edui, negue de sua in Haeduos benevolentia deminuere ». Malgrado il tradimento di Litavicco, le uccisioni di cittadini romani e i saccheggi dei lor beni, Cesare mostra dunque agli ambasciatori degli Edui benignità e condiscendenza.

Ma il perchè, durissimo, vien presto, tutto, alla luce.

SUPREMA NECESSITÀ.

Dice: « Aspettandomi una più estesa rivolta, maiorem motum, per non essere accerchiato da tutti i popoli, ab omnibus civitatibus, stavo studiando il modo di allontanarmi da· Gergovia, quem ad modum a Gergovia discederet, e di unire di nuovo tutto l'esercito, ac rursus omnem exercitum contraheret, senza che la partenza, causata dal timore di una defezione, sembrasse fuga». L'apprensione di essere inghiottito dalla rivolta che sta per divenire generale; l'intento di ritirarsi da Gergovia implicito riconoscimento che ]'impresa contro quell'oppido, mal progettata, è da considerarsi fallita; il richiamo


44 1 (a mezza bocca) alla necessità della riunione dell'esercito; il prestigio che dall'abbandono di Gergovia avrebbe riscosso Vercingetorige in tutta la Gallia: vi si sarebbe considerato insuccesso militare (e non era, in sostanza, così r) una volontaria ritirata suggerita dalla precaria · situazione edua (come se questa non fosse anch'essa da attribuire al prestigio di Vercingeto-

~tj.

.

Fulcro però delle ammissioni: la riunione delle forze, rursus omnem exercitum contraheret.· Abbandonare con dignità le posizioni di Gergovia, ridiscendere l'Allier, ripassare la Loira, avvicinarsi il più possibile alla media Senna, paese dei Senoni e Parisii. Ossia, per il momento: ridurre quanto possibile la distanza fra sè e Labieno. Se la rivolta diverrà generale, pe·r tutte e dieci le legioni saranno giorni neri fra l'urgenza del movimento verso i luoghi della riunione e la disperata ricerca di cibo. Le comunicazioni fra Cesare e Labieno - ne avremo a suo tempo piena conferma - sono ora, alla vigilia della ritirata da Gergovia (fine di giugno?), del tutto interrotte dalla rivolta. E si può dar per certo che nel momento in cui fu presa la decisione di lasciar Gergovia Cesare ignorava la situazione di Labieno e Labieno, malgrado voci, la situazione di Cesare. Erano del tutto falliti i loro tentativi di conseguire, comunque, una qualsiasi anche sporadica com umcaz10ne.

Riemerge da sè infine - Cesare non ne fa nè ne farà più parola - la questione, davvero grossa, della sorte toccata ai diecimila. Vorremmo sapere se Cesare li ha trattenuti presso di sè (continuerete, signor vergobreto, nel « nullo studio » ? fate pure: i primi a morir di fame saranno i diecimila) oppure al vergobreto Ii ha restituiti (ma possibile che si sia tolto dalle mani un tal pegno?).

«

DEIECTI SUNT LOCO »

UN'ALTRA FAVOREVOLE OCCASIONE.

Dice: « Mentre stavo pensando a queste cose, mi sembrò che si fosse presentata un'occasione favorevole per un'operazione redditizia, facultas bene gerendae rei ».


44 2 E' una seconda favorevole occasione per chi ricorda quella che gli consentì, tre anni or sono, di far prigionieri, di colpo, tutti i capi degli Usipeti e Tencteri. Trovandosi Cesare nel campo minore (ossia a La Roche Blanche: e qui dobbiamo immaginare di trovarci anche noi) per osservare i lavori che colà si conducevano notò che una posizione nemica, un colle - le posizioni, quasi certamente, di quota 692 delle alture di Risolles - era completamente sguarnita di uomini, nudatum hominibus, mentre nei giorni precedenti ne era quasi interamente coperta. Suscitandogli tal novità una certa meraviglia, ne chiese la cagione ai disertori, che ogni giorno affluivano a lui in gran nu. mero, magnus ad eum cotidie numerus . . .

Che la grande moltitudine di armati di cui disponeva Vercingetorige fosse afflitta da privazioni e s~ reggesse piuttosto per coercizione può non esserci dubbio; ma disertori a getto continuo poteva voler dire anche allora che qualche ingranaggio, alla centrale, strideva; che proprio dalla centrale soffiava, per fessure anche invisibili, vento di sfiducia.

I disertori, dunque, ... sono concordi, tutti, nel ripetere quel che Cesare aveva già saputo dai suoi esploratori, quod per exploratores cognoverat .. . Se i disertori non li riteneste degni di fiducia, eccovi gli esploratori che attestano (sembra imputato che prepari la sua difesa) la concretezza della favorevole occasione da me rilevata. I disertori dunque, confermando e chiarendo le informazioni degli esploratori, riferirono quanto segue: la dorsale di quelle alture (le alture di Risolles, di cui più specialmente si vede, da La Roche Blanche, la quota 692) era quasi pianeggiante, ma boscoso e stretto ne era il versante (è il colle des Gaules fra tal quota e l'oppido) sul quale trovavasi l'accesso all'altra parte dell' oppido. Attraverso il colle des Gaules passava dunque una strada che dalle alture di Risolles conduceva a Gergovia; strada che si può ritenere principale comunicazione dell'oppido con l'esterno, essendo difficili gli altri accessi al monte e dai Romani interdetto il versante sud. I nemici molto si preoccupavano di quella posizione; ed erano persuasi che, essendosi i Romani già impossessati di La Roche Bianche, se si fossero perdute anche le posizioni di quota 692, - quota 692 è come un alto osservatorio a neppure un chilometro dall'oppido - avrebbero finito con l'essere quasi circondati e tagliati fuori da ogni comunicazione con l'esterno e dai pascoli. Posizioni perciò importanti quelle di quota 692 (ma Cesare pare che se ne accorga solo ora): dominavano e proteggevano un agevole accesso all 'oppi do nonchè i pascoli di Clémensat e di Romagnat, divenuti i più frequentati


443 da quando erano stati interdetti o resi malsicuri, per la perdita di La Roche Bianche, quelli dell'Auzon. Emerge, pertanto, il motivo per cui esse posizioni apparvero quel giorno a Cesare sguarnite di uomini sull'alto: per fortificarle, Vercingetorige (e anche lui pare che si accorga solo ora della loro importanza) aveva colà raccolto e impegnato tutti. Migliaia di uomini erano fra la boscaglia dei versanti per costituire con muretti a secco (qualche residuo pare che ancora esista) o con trincee un ampio an che se discontinuo cerchio che favorisse la difesa di quelle alture su tutti e quattro i punti cardinali.

I nemici molto, vehementer, si preoccupavano delle posizioni di quota

692. La notizia dunque dei disertori fu per Cesare la scintilla generatrice di quell'occasione da lui ritenuta favorevole per una rapida, e poco o niente affatto costosa, azione offensiva. Alle spalle e alla sinistra del suo schieramento, Vercingetorige non poteva che sentirsi sicuro: il terreno, qui, - e specialmente quello più vicino alla spianata dell'oppido - era assai aspro e rotto; e sicuro doveva anche sentirsi a sud (questo soprattutto va notato), dove, malgrado la perdita di La Roche Bianche, le posizioni di cui si potessero servire i Romani per un eventuale attacco agli accampamenti, e all'oppido stesso, erano come in un fosso rispetto alle mura di Gergovia: un cento metri di dislivello, ripetiamo, fra La Roche Bianche e le mura su una distanza, in linea d'aria, di circa un chilometro e mezzo. E neppure molto aveva da temere alla destra del suo schieramento: neanche da Col des Gaules gli accessi all'oppido erano facili, e le alture di Risolles, se tutt'intorno sorvegliate e appena presidiate sui versanti ripidi e boscosi, non potevano costituire obiettivo invitante per i Romani. Ma sotto il peso di gravi responsabilità è un po' difficile se non impossibile l'affidarsi all'idea della sicurezza assoluta: Vercingetorige « vehementer >> si preoccupava delle posizioni di quota 692.

II,

PIANO.

E Cesare, saputo questo, non perdè tempo: a poche ore da tali notizie il suo piano era già in atto. · Piano che può considerarsi in due tempi _: nel primo, un complesso di azioni diversive a occidente delle alture di Rìsolles per confermare nel nemico l'idea che quelle posizioni stessero per divenire effettivo obiettivo di attacco da parte dei Romani ; nel secondo, un'incursione negli accampamenti gallici sul versante sud dell'oppido.


444 La parte essenziale del piano è dunque nel secondo tempo, nell'incursione. Azione però non impegnativa : un inatteso fulmineo colpo di bastone che lasciasse un livido sull'esercito di Vercingetorige in conto delle sterili settimane sotto Gergovia. Incursione, pertanto, condizionata dal se e dal quando Vercingetorige avesse sottratto uomini dagli accampamenti per inviarli' sui versanti occidentali delle alture di Risolles, specialmente quelli di quota 692 e 723.

TRE

LE PUNTATE DIVERSIVE.

Verso la mezzanotte, Cesare invia sotto quelle posizioni (i versanti occidentali, appunto, delle alture distinte dalle quote 692 e 723) parecchi squadroni di cavalleria, con l'ordine di battere quelle: zone in ogni senso, facendo più rumore dell'ordinario: e fu questa, in ordine di tempo, la prima puntata diversiva. La seconda: Cesare ordina che all'alba, prima luce, sia fatto uscire da campo Orcet un gran numero di muli delle salmerie: muli senza basti, montati dai loro stessi conducenti con elmi al posto del 'ordinario copricapo: lunga serie di muli e di vistosi cimieri che simulassero, per formazione di marcia e scintillio di elmi, la cavalleria. A questa falsa cavalleria Cesare assegnò un percorso più ampio di quello degli squadroni: ordinò di aggirare (a sud dell'Auzon, per i villaggi di Chanonat e di Opme) le alture di Risolles. Ma l'andatura dei muli, distanti che questi fossero, non poteva alla lunga ingannare occhio esperto; e perciò Cesare vi aggiunse un pizzico di pepe: pochi cavalieri che la finzione meglio sostenessero scorazzando in lungo e in largo, in testa e sui fianchi della colonna. Cesare ordinò inoltre che dopo lungo giro, longo circuitu (pattuglie di cavalieri veri si spinsero, penseremmo, sino a Romagnat), tutti (i cavalieri veri della mandata di mezzanotte e i finti di quella dell'alba, sembrerebbe) si portassero nella stessa zona: un concentramento di truppe a cavallo lontano (su qualche altura forse intorno ad Opme) ma visibile dal nemico. Tali dunque le due puntate diversive che dettero ai Galli, nel cuore della notte e di buon mattino, il primo allarme. Ma allarme ancor vago: questi movimenti si potevano veder da lontano, sin dall' oppido, che dominava i campi romani; ma, a una tal distanza, non si poteva capire di che cosa realmente ..sì trattasse. Ma perchè mai - interrogativo che poi rivelerà la sua importanza Vercingetorige non impiegò, a tal fine, la cavaJleria? Perchè la cavalleria gallica - attivissima, come ricordiamo, al primo giungere dei Romani sotto Gergovia - non s'è fatta ancor viva in questa occasione? Allarme dunque, nel campo gallico, ancor vago.


445 Ma il progetto romano prevedeva a un certo punto del mattino una terza azione diversiva, più concreta e immediata: Cesare invia una legione verso quelle stesse alture (ossia verso le pendici occidentali delle alture di Risolles: legione che perciò, provenendo da camPo Orcet, marciò forse a sud dell'Auzon, procedendo poi da Chanonat verso nord); tal legione, dopo aver avanzato un poco, - quanto bastasse per farsi sicuramente scorgere dalle sommità o dalle pendici occidentali di quelle alture - si fermò (supPorremmo a sud e non molto distante da Opme) in un avvallamento, occultandosi in mezzo ai boschi. Cresce, a questa terza puntata, il sospetto dei Galli, augetur Gallis suspicio, e tutte le loro forze vengono allora concentrate per la difesa, ad munitionem, - lavori o presidii che fossero - di quei luoghi. Cesare, vedendo vuoto il campo nemico, vacua castra hostium conspicatus ...

Si sarebbe puntualmente verificato ciò che egli s'era proPosto con le tre puntate diversive: SPostamento di forze considerevoli dalle Posizioni a sud dell'oppido alle alture di Risolles. Potè, così, aver inizio il secondo temPo, quello conclusivo, del piano: l'incursione negli accampamenti ora non adeguatamente presidiati.

LE

OPERAZIONI.

Cesare, dunque, quando scorge che il camPo nemico è vuoto, vacua castra, fa passare i suoi soldati da campo Orcet a campo La, Roche Bianche. E perchè non fossero visti dall' oppido, il movimento fu eseguito - di giorno, perciò - in formazioni rade, a piccoli gruppi, raros milites, coperti i distintivi di grado gli elmi gli scudi, e con le Insegne anch'esse occultate. Dovè però trattarsi di movimento di gran lunga più complicato, per tempi e modalità, di quanto non dica codesto rapido cenno. Le legioni disPonibili in camPo Orcet non Potevano essere, ora, che quattro; chè una è stata impiegata nell'anzidetta puntata diversiva e una non s1 può non supPorre ripartita - e ne avremo presto conferma - fra i due campi, quale guardia fissa. Un movimento, pertanto, di quattro legioni (vogliamo calcolare, conto non largo, un quindicimila uomini?), in pieno giorno, condizionato ad assoluta segretezza, su area relativamente ristretta e, sebbene rotta e boschiva; controllabile dalle Posizioni nemiche vicine e dominanti : condizioni, tutte, contemPoranee e fra loro contrastanti, che rifiutano improvvisazione e immediatezza. Lo SPoStamento maggiore delle forze galliche verso le Posizioni di Risolles, in seguito all'apparizione della legione a nord di Chanonat, non Potè /


dirsi avvenuto che a giorno fatto e alquanto inoltrato, diremmo almeno alle otto; l'attacco romano ebbe inizio - lo dedurremo presto da un minuto episodio - dopo mezzogiorno: sicchè, dunque, per tutto il movimento, se tutto avvenuto di giorno, occorsero un quattro ore. Giovò, certamente, la possibilità di un quasi ininterrotto deflusso attraverso quel duplice camminamento che univa campo Orcet a campo La Roche Blanche; ma l'espressione raros milites, a formazioni rade, - nonchè tutte le altre predisposizioni di occultamento che abbiamo appena intese - può anche significare che furono utilizzati anche altri itinerari solo coperti da vegetazione. Comunque: verso le dodici di quel memorabile giorno, le legioni erano riunite attorno a La Roche Bianche: pronte per un'incursione - come chiamarla diversamente? - negli accampamenti gallici sotto Gergovia. L'espressione « ex maioribus castris ad minora», dal campo maggiore al minore, indicherebbe solo la direttrice, l'asse, del movimento. Il campo fortificato di La Roche Blanche - che pur dovè raccogliere un certo numero di forze - qui starebbe piuttosto a indicare che esso fu il maggior punto di riferimento della zona boscosa nella quale le legioni si dovevano concentrare.

Cesare dice: « Le mura dell' oppido - in linea retta e senza tener conto delle anfrattuosità del terreno - distavano circa milleottocento metri da dove la pianura cessava e aveva inizio la salita. Distanza però illusoria: tutti i giri che bisognava fare per rendere meno aspro il pendio aumentavano la lunghezza del percorso>>. L'incursione.


447 Gli inizi della salita che rispondono a circa due chilometri, in linea d'aria, dalle mura dell"oppido si trovano in quel di Donnezat: e in effetti è assai probabile per non dir certo che le legioni si attestarono nella zona che oggi contiene i villaggi Donnezat e La Roche Blanche. Terreno, dall'inizio della salita agli accampamenti gallici, difficile; e quale ne fosse la pendenza (attenuata, nel tempo, dalla natura e dall'uomo) Cesare ben lo sottolinea: per rendere il declivio meno aspro, molti giri; e neppur questi, per pendenza o anfrattuosità, agevoli. Dice : « Si aggiunga che per rallentare eventuali nostri attacchi, i Galli, a circa metà costa, a medio fere colle, avevano costruito con grandi sassi un muro alto circa un metro e ottanta, il quale si svolgeva, per quanto le accidentalità del terreno lo permettevano, parallelamente alle mura di Gergovia. Tutto il declivio al di .sotto di tale ostacolo lo avevano lasciato vuoto, ma risultava riempito di fittissimi accampamenti, densissimis castris, tutto lo spazio_ fra esso ostacolo e le mura dell' oppido, usque ad murum oppidi ». Lo scenario, dopo queste informazioni, ancor più si chiarisce : dalle zone boscose di La Roche Blanche e di Donnezat sino al muro di sbarramento - circa un chilometro in linea d'aria - terreno scabroso ma vuoto di difese e di difensori e anche coperto; oltre il muro invece, i bizzarri e fitti agglomerati di tende e capanne; più in alto ancora, corona del plateau, le mura di Gergovia. Dice: « Esposi ai Legati, che avevo messo a capo delle singole legioni, quos singulis legionibus praefecerat, il mio piano ... ». Azione rapida, dunque, ma non semplice perchè a capo di ciascuna legione è stato posto un comandante d'alto rango gerarchico . . . . Cesare soprattutto raccomandò loro che non si lasciassero sfuggire di mano i soldati, in primis ut contineant milites, evitando che la foga del combattere o la speranza della preda li portasse troppo lontano, longius; - un po' difficile però, in pratica, una volta alle prese con i difensori o con l'attrattiva del bottino, stabilire il poco e il troppo : raccomandazione qui, comunque, capitale. Espose tutti gli svantaggi del terreno, - sebbene i Legati, specie se questo rapporto fu tenuto nel campo minore, lo giudicassero da sè - svantaggi che potevano essere superati solo con la rapidità - la maggiore possibile rapidità di incursione e poi il minore possibile indugio e il più rapido deflusso da quegli accampamen ti. E' un'azione di sorpresa - così Cesare concluse non battaglia, occasionis esse rem non proelii. Ciascuna legione affidata all'autorità di un Legato : già un segno, ripetiamo, della consape-


volezza delle difficoltà dell'impresa in chi l'ha ideata. Indicati a chiare note, prima dell'azione, ~ .testimoni i Legati - i limiti in cui l'azione doveva essere contenuta : quelli di una sorpresa. Un'ondata, in altri termini, che investisse e danneggiasse su lungo tratto di fronte quegli incustoditi accampamenti e che subito si ritraesse col bottino che poteva. Cesare, chiarite così le sue intenzioni, dà il segnale dell'avanzata alle legioni, signum dat, e, contemporaneamente, eodem tempore (ma questo sembra detto un po' in fretta, come particolare non rilevante), dalla destra, ab dextra parte, fa salire verso l' oppido, ma per un altro itinerario, alio ascensu, la cavalleria edua, Haeduos mittit.

Abbastanza chiaro, ora, il disegno dell'operazione che si è appena iniziata: azione diversiva sia a1l'una che all'altra ala; incursione al centro. L'azione diversiva sulla sinistra, iniziatasi a mezzanotte, è condotta da un certo numero di squadroni - la cavalleria finta non consideriamola più e da una legione: forze che però ora sono da ritenere lontane rispetto a quanto sta per avvenire al centro dello schieramento. L'incursione al centro condotta da quattro legioni - ma una, lo desumeremo presto, rimase alquanto arretrata - su una fronte, non ininterrotta, di un due chilometri e mezzo, quanta poteva essere, con valutazione approssimativa, la lunghezza del muro di sbarramento costruito dai Galli. L'azione infine sulla destra, anch'essa diversiva, condotta dalla cavalleria edua; la quale, come ci è stato appena. detto, ha iniziato il suo movimento nello stesso momento, eodem tempore, in cui sono partite le legioni: ma seguendo un diverso itinerario, a/io ascenst.t. Sarebbe partita - supposizione più che lecita - direttamente da campo Orcet : ma se poi essa dovesse agire isolata o tenersi collegata all'azione delle legioni non ci è detto. In conclusione: questa impresa che deve rendere dignitosa la ritirata da Gergovia, ha richiesto l'impiego di tutte le forze disponibili, parecchie migliaia di uomini (imponente, considerato da Opme al Puy di Marmant, l'intero schieramento), per un attacco non a fondo ; per un'azione che anzi deve rifuggire da qualsiasi insistenza che comporti non breve impegno. Ma era la stessa disperata situazione generale a pretendere, prima della ritirata, un'impresa di considerevoli proporzioni ed echi, anche se solo intesa a far bottino. Rapidissimo e terribile flusso e deflusso perciò di tutto un esercito su un grande campo nemico situato su balze quasi impervie e protetto alle spalle da un forte oppido. Impresa posta in atto nel giro, neppure, di ven~quattr'ore; e concepita a regola d'arte: l'entità combattiva e numerica delle forze impiegate al centro è senz'altro garanzia contro ogni sorpresa umanamente concepibile.


449 Il primo comunicato romano è g101oso, quasi alato: al segnale convenuto, i soldati raggiungono rapidamente il muro di sbarramento, lo sorpassano, si impadroniscono di tre accampamenti: milites dato signo celeriter ad munitionem perveniunt eamque transgressi trinis castris potiuntur. La marea crescente degli attaccanti non trovò al muro alcuna resistenza: barbarica indolenza, può darsi, data la stagione estiva e l'ora meridiana. Il sospetto potrebbe nascere dal come ora riappare quel gran signore, figlio di Ollivicone, venuto a Vercingetorige dalla Garonna, subito dopo Avarico, alla testa di numerosa e scelta cavalleria: la conquista degli accampamenti fu così rapida che il re dei Nitiobrogi, Teutomato, sorpreso nella sua tenda, in tabernaculo, mentre faceva la siesta (l'avanzata dovè dunque aver inizio non molto dopo mezzogiorno), nudo dalla cintola in su, superiore corporis parte nudata, a .stento - il cavallo gli era stato ferito - riuscì a sfuggire dalle mani dei soldati in cerca di preda. Cesare, tenendosi a breve distanza dalle tre legioni che avevano avanzato, s'era certamente posto in condizione di seguire a sufficienza gli sviluppi dell'azione da posizione alquanto a sud, forse, del muro (ma congetture di qualche concretezza non si saprebbe da dove ricavarle). Dice: « Raggiunto con la conquista di tre accampamenti lo scopo che mi ero proposto, feci suonare la ritirata, receptui cani iussit, e feci fermare le Insegne della decima legione con la quale mi trovavo ». La Decima dunque, alquanto arretrata rispetto alla prima schiera, non aveva partecipato all'incursione. E ora la Decima può testimoniare (continua la sfilata dei testimoni: disertori, esploratori, Legati, trombettieri, Decima) come Cesare si fosse subito tenuto pago dei risultati raggiunti: non l'avrebbe infatti fermata, specialmente dopo il favorevole risultato iniziale, se fra le sue intenzioni ci fosse stata - e si può dar per certo che non c'era - quella di un'azione a fondo. Dice: « Ma i soldati delle legioni in azione non udirono le trombe perchè c'era di mezzo un ampio avvallamento, quod satis magna valles intercedebat ... ». Gli strumenti a fiato dell'antichità, abbiamo già avuto occasione di farne cenno, avevano una portata sonora ben minore rispetto alle trombe a pistone dei nostri tempi: un collegamento acustico in terreno rotto richiedeva perciò fitta rete di tubicines, di trombettieri. Che Cesare avesse fatto suonare la ritirata non c'è assolutamente da porlo in dubbio, anche se non sappiamo precisamente quando; ma qui è piuttosto da dubitare che un qualche speciale collegamento diretto - una catena, aq esempio, di trombettieri - fosse stato ritenuto necessario e predisposto fra lui e le legioni avanzate. Dice: « I soldati non udirono le trombe, .. . tuttavia Legati e tribuni, secondo gli ordini da me impartiti, cercarono di frenarli . .. ».

29. -

u.s.


Toccava infatti ai Legati, sul posto, la resPonsabilità dell'atto più difficile dell'operazione: l'arresto delle truppe 'subito dopo violenta incursione negli accampamenti.

Al gran flusso, doveva via via seguire l'arresto dell'ondata su tutta la fronte; indi, non appena ciascuna unità si disimpegnasse, i deflussi verso la zona di partenza. Ma di accampamento in accampamento; di tenda in tenda, e quindi di preda in preda, e prevedendo e vedendo che nulla o quasi sarebbe stata, ed era, l'opPosizione nemica, a che punto in che modo e quando - qui, in pratica, il difficile - l'incursione doveva essere arrestata?

L'azion~ raffrenante di Legati e tribuni non ebbe, comunque, effetto. Coloro che erano impegnati direttamente nell'incursione (gregari e comandanti: tutti), entusiasmati dalla speranza di una rapida vittoria, dalla fuga dei nemici, dai successi dei precedenti fatti d' arme, pensarono che non v'era difficoltà così grande, nihil adeo arduum, che essi non potessero superare con il loro valore . .. L'operazione cominciò a prendere, così, una piega imprevista e impressionante perchè gregari e comandanti . . . non interruppero l'inseguimento prima di aver raggiunto le mura dell' oppido e le porte, muro oppidi Portisque. Le mura dell'oppido che avrebbero dovuto imporre l'arresto non potuto dalle trombe nè da Legati e tribuni divennero invece, proprio esse, - e il fenomeno dovette essere quasi generale - attrazione irresistibile. Sorsero allora strida da ogni parte della città, ex omnibus urbis partibus orto clamore, e gli abitanti più lontani spaventati da quell'improvviso tu·multo, persuasi che ormai il nemico si fosse impossessato delle porte, hostem intra portas esse, si riversarono, per i versanti liberi, fuori dell' oppido, sese ex oppido eiecerunt. Le madri di famiglia gettarono dalle mura stoffe e oggetti d'argento, matres familiae de muro vestem argentumque iactabant, e, sporgendosi dalle mura col petto nudo, et pectore nudo prominentes (i segni della maternità a distanza più visibili?), imploravano a mani tese i Romani perchè avessero di loro pietà e non facessero come ad Avarico dove non avevano risparmiato nè donne nè fanciulli. Alèune si facevano calar giù dalle mura e si consegnavano ai soldati, de muro per manus demissae sese militibus tradebant . ..

Migliaia di uomini in pieno furore predatorio non interruppero dunque l'inseguimento prima di aver raggiunto le mura dell'oppido, contravvenendo,


45 1 così, a quanto certamente era stato concertato prima con riferimenti di luogo e di tempo (che però non sappiamo, come può ognora accadere e accade, sino a che punto reali o illusori). Il predisposto congegno tattico, insomma, non fu.l)zionò proprio nella sua fase più importante e delicata: l'arresto. Tuttavia, non si può non riconoscere che senza l'esplosione di terrore dall'oppido, rivelatosi inopinatamente indifeso, l'arresto delle legioni - le quali sapevano, questo è certo, che non si trattava di << oppugnatio » - sarebbe forse automaticamente avvenuto. Invece ...

. . . Lucio Fabio, centurione dell'ottava legione, presi tre soldati del suo manipolo, sale, da questi sollevato, sulle mura e poi, a sua volta egli trae i suoi tre soldati, uno a uno, lassù . .. Il centurione della stessa legione Marco Petronio sta lottando per forzare una porta ...

Suscitata dagli echi del tumultuario esodo della papolazione, confermata dalla disperazione delle donne che denunciava indifesa la cinta, di tutti gli attaccanti si impossessò la certezza (fermiamoci un attimo: di tal certezza del tutto imparteci pi Legati, tribuni, Cesare stesso?) che Gergovia, indifesa e terrorizzata, potesse essere presa subito. Certezza - ora sentiremo - di brevissima durata, fuggevole: tale però eh:'. accrebbe, sollecitando verso l'alto più o meno tutti, l'ammassamento confuso (e non sappiamo immaginarlo che confuso) di tre legioni (un otto novemila assalitori) nelle pieghe del terreno, fossi più che pieghe, sotto l'oppido. Cesare dice: « Intanto, quelle forze galliche che, come sappiamo, s'erano raccolte per i lavori di fortificazione dall'altra parte dell' oppido, udite le prime grida, primo exaudito clamore, sotto l'incalzare delle notizie che davano l' oppido in potere dei Romani, si volsero di gran corsa, preced ute da cavalieri, verso le posizioni che avevano lasciate poche ore prima. Di mano in mano che ciascuno arrivava, si ferma va sotto le mura: il numero dei combattenti fu, così, in continuo aumento, pugnantium numerum augebat ». Gli armati gallici, provenendo dalle alture di Risolles per col des Gaules, trovarono via sgombra (nessuna diga era stata da Cesare posta a protezione del fianco sinistro delle tre legioni d 'attacco, tanto, sembra, egli era sicuro della rapida conclusione dell 'impresa) per giungere sotto le mura. Assunta così forte consistenza numerica sulle posizioni immediatamente a sud - ovest di Gergovia, essi dovettero pai costituire, - la più parte provenendo dalle posizioni di Risolles, parte dall'interno dell'oppido - uno schieramento frontale, discontinuo e caotico che fosse, pressochè lungo quanto il tratto minacciato delle mura.


45 2 Quando gli armati gallici furono in gran numero, le madri di famiglia, che poco prima tendevano dalle mura le mani ai Romani, cominciarono a invocare i loro uomini e, secondo il costume gallico, a sciogliere le chiome e sollevare in alto i figliuoli. I Romani erano in svantaggio sia per posizione che per numero, erat Romanis nec loco nec numero aequa contentio . . . Se i Galli riuscirono a costituire - piuttosto celermente, come sembra un qualche schieramento frontale in parallelo al tratto minacciato delle mura (nè sembra possibile, dai fatti che seguono, altra supposizione), effettivamente tutte e tre le legioni vennero a trovarsi di mano in mano dominate dall'alto e impegnate sul posto così come si trovavano, senza possibilità di un qualsiasi assetto difensivo che riparasse allo svantaggio del terreno e al disordine prodotto dalla brama di preda. Cesare dice: « I miei soldati, inoltre, spossati dalla corsa e dalla durata del combattimento, non resistevano che con difficoltà a uomini freschi e nella pienezza delle loro forze ». Evidente da codesto inciso (però anche i Galli avevano corso, e come) che l'ardore combattivo dei Galli, richiamato da sì straordinarie circostanze, fu, subito, elevatissimo.

I Romani devono subito, ora, abbandonare quelle posizioni. Abbandono il più possibile accelerato; da pagare, s'intende, rinunciando al bottino già fatto e con l'insoddisfazione del colpo fallito; da pagare con sacrifìzio di sangue; da pagare, se occorre, a caro prezzo: purchè, però, non si risolva in uno sbalzo indietro violento e incontrollato. Con un cedimento a precipizio sotto la valanga degli inseguitori - il doppio, se non il triplo, dei Romani - da sotto l'oppido sino alla valle del-· l' Auzon, le tre legioni giungerebbero a valle ancora in condizioni di fer: marvisi per uno schieramento difensivo o, estrema speranza, ancora in condizioni di rifugiarsi in campo Orcet essendo ancora in grado di difenderlo? Nella valle dell'Auzon o l'insuccesso, se però tutto va nel migliore dei modi, o il massacro.

Dice: « Vedendo che il terreno era sfavorevole e che le forze dei nemici aumentavano, preoccupandomi la sorte dei miei, praemetuens suis . .. ». Il brivido della disfatta. Dice: « ... ordinai al Legato Tito Sestio, che avevo lasciato a presidiare il campo minore, di farne uscire rapidamente le coorti e di prendere posizione ai piedi del colle, sub infimo colle, sulla destra· del nemico, ab dextro latere hostium, al quale - se avesse visto i nostri costretti a ritirarsi - do-


453 veva ostacolare l'inseguimento. lo, avanzatomi con la Decima di poco, dal luogo dove mi ero fermato prima, paulum cum legione progressus, sorvegliavo gli sviluppi del combattimento». Accettabile la congettura - e quasi lo attesta il « sub in.fimo colle» che le coorti di Tito Sestio (appartenevano, come presto ci sarà detto, alla tredicesima legione) presero posizione in quel di quota 520: ma dov'era Cesare con la Decima quando fece suonare la ritirata e qual è la sua nuova posizione dopo che ha avanzato di poco? In sì grave e inopinato frangente, Cesare non ha a portata di mano che modeste riserve: la Decima e alcune coorti di Tito Sestio. Le forze impegnate per le puntate diversive sono troppo lontane rispetto al bisogno. Impegnata, sulla destra, la cavalleria edua; e se anche a campo Orcet v'erano le restanti coorti della Tredicesima non si poteva pensare, assolutamente, a sguarnirlo. Per il caso di cedimento o di rotta si stanno dunque attuando due provvedimenti : ferme le coorti di Tito Sestio per offendere la destra del nemico quando questo giungesse a loro portata; ferma la Decima (vogliamo supporla sulla breve spianata di Merdogne ?) per fare da frangente al pieno flutto del!' avanzata nemica. In caso di rotta", molto o tutto dipenderà dalla dislocazione iniziale ordinata da Cesare a Tito Sestio e da quella assunta da lui stesso con la Decima, nonchè dalle dislocazioni che Sestio e Cesare saranno costretti ad assumere in seguito: se coorti di Sestio e Decima sono, o successivamente saranno, mal dislocate, sì da essere aggirate o addirittura sopraffatte, può ben dirsi che sarà il disastro. Mentre si combatteva accanitamente, corpo a corpo, i Galli fidando nella posizione e nel numero, i Romani solo nel loro coraggio ... Sia perchè· la pressione dei Galli non potè essere forte subito sia perchè, malgrado il disordine per le prede, era forte la compagine militare delle unità romane, e per l'un motivo e per l'altro, i legionari, in gran parte se non tutti, accettarono dunque, così come poterono, il combattimento; avvertiti dall'istinto dell'estrema sciagura d'un cedimento passivo. Sicchè, e per la immediata reazione di tutti e per le riserve tempestivamente schierate a tergo, sembrò in un primo tempo che il balzo indietro potesse essere, almeno, graduale e, anche se a stento, controllato. Ma la situazione dei Romani divenne presto tremenda per imprevedibile, e se vogliamo banale, circostanza.

Mentre si combatteva accanitamente, corpo a corpo, ... sul fianco destro dei Romani apparvero improvvisamente gli Edui ...


454 Quella cavalleria edua che Cesare aveva impegnato a scopo diversivo sulla destra, facendola salire verso l'oppido per un itinerario diverso da quello delle legioni, a/io ascensu. Un'apparizione improvvisa che scosse la legione d'ala destra: quei cavalieri, con la somiglianza della loro armatura a quella del nemico, spaventarono tremendamente i Romani, vehementer perterruerunt (l'espressione è forte) e quantunque i soldati vedessero che quei cavalieri avevano la spalla destra scoperta, - contrassegno che serviva a distinguere le truppe amiche credettero che i nemici avessero ciò fatto per ingannarli . .. (troppo poco quel solo contrassegno, proprio troppo poco. Non c'era stato dunque alcun accordo e collegamento fra cavalleria edua e legione di destra?) ... . . . Nello stesso tempo, eodem tempore (evidente l'indugio per attutire l'effetto di quanto ora sentiremo), il centurione Lucio Fabio e quelli che erano saliti sulle mura con lui, circondati e uccisi, venivano gettati giù. Il centurione Marco Petronio, anche lui dell'ottava legione, dopo aver tentato di forzare una porta, sopraffatto dal numero dei nemici, ferito in più parti, sentendo che per lui era finita, sibi desperans ...

Ma ecco, esplicita, la segnalazione del violento balzo indietro dell'intera fronte: i Romani, incalzati da tutte le parti, dopo aver perduto quarantasei centurioni, furono rigettati dalla posizione, deiecti sunt loco.

Quarantasei centurioni. Perdita rilevante che implicitamente denuncia ciò che potè avvenire allorquando - per l'apparizione della cavalleria edua, ma più, diremmo, perchè il nemico era divenuto impressionante anche per numero - sopraggiunse lo sgomento generale: furono specialmente i cen-· turioni più animosi che tentarono di raffrenare - e certo ne attutirono in parte gli effetti - il precipitoso franamento delle unità verso la valle. Cesare dice: « Ma il furioso incalzare dei Galli fu ritardato dalla decima legione, legio decima tardavit, la quale aveva preso posizione - a mo' di argine, pro subsidio - su terreno un po' meno sfavorevole. La Decima, ritirandosi, fu a sua volta appoggiata dalle coorti della Tredicesima, le quali - uscite dal campo minore col Legato Tito Sestio - avevano poi occupato una posizione più alta». Due scaglioni in retroguardia, dir~mmo oggi, reciprocamente appoggiantisi su successive e prestabilite posizioni; sebbene qui la scelta delle posizioni, per l'incalzare delle circostanze, non potè che essere immediata. Ma con la Decima c'era Cesare; e di questa legione sia la posizione iniziale che le successive erano state da Cesare scelte; come pure: su ordine di Cesare Tito Sestio era uscito in tempo dal campo e la scelta delle posizioni


455 da lui occupate, se anche non fatta direttamente da Cesare, all'azione di Cesare dovè coordinarsi. E in effetti più si considerano, quel poco possibile, le circostanze in cui questo fatto d'arme potè svolgersi, più si avverte che il disastro totale fu scongiurato, per un filo, da unica robustissima mano.

Le legioni, come raggiunsero la pianura, si fermarono e fecero fronte al nemico. Centro dell'affrettato schieramento, supporremmo, posizioni a nord del Puy de Marmant, sulla direttrice Gergovia - campo Orcet. Ma Vercingetorige, dai piedi delle alture, ab radicibus collis, - il campo La Roche Bianche è dunque ritornato in suo possesso - ricondusse i suoi nelle difese, suos intra munitiones reduxit. Nella valle le opposte forze si staccarono. Nessun combattimento. Vercingetorige, invece di proseguire l'inseguimento, si ritirò sotto l'oopido: motivo, anche, il tramonto già in atto o vicino? In quel giorno, nelle sei sette ore che durò questo fatto d'arme, da dopo mezzogiorno al tramonto, - i Romani perdettero poco meno di settecento soldati, paulo minus septingenti. Morti un settecento soldati - per ogni quindici, un centurione - senza contare i feriti. Nulla è più detto - e giova rilevarlo - della cavalleria edua: se essa favorì la ritirata romana o se, anche nolente, aggravò la situazione con una prematura ritirata.

ASPRA REPRENSIONE.

Il giorno dopo, Cesare, radunate le truppe (l'ammassamento da comizio doveva essere anche consuetudine militare), le rimproverò per la lor temeraria foga predatoria, temeritatem cupiditatemque.

Prima però di roro 10 ascolto del rimprovero, dobbiamo fare qualche passo indietro e tornare sugli episodi dei due centurioni dell'ottava legione (episodi che abbiamo riferiti incompleti per non ritardare lo sviluppo principale del fatto d'arme). Primo dunque a salire sulle mura era stato il centurione Lucio Fabio, seguito da tre suoi soldati. Del qual Lucio Fabrio si sapeva, constabat, aver detto quel giorno stesso ai suoi soldati (ma Cesare lo venne a sapere, evidentemente, a fatti avvenuti, quando Fabio era già morto) che molto si sentiva


stimolato dalle ricompense di Avarico, avarìcensibus praemiis (grossa remunerazione, ricordiamo, era stata allora promessa ai primi scalatori), e che quindi non avrebbe lasciato a nessuno l'onore di salir per primo sulle mura di Gergovia. L'altro centurione, Marco Petronio, - lo abbiamo lasciato sopraffatto dal numero dei nemici e crivellato di ferite - sentendo che per lui era finita ... così disse agli uomini che lo avevano seguito nel tentativo di forzare una porta: poichè non possiamo salvarci insieme, cercherò di salvare almeno voi che ho portati nel pericolo per mia brama di gloria, cupiditate gloriae. Appena lo potete, pensate a porvi in salvo. Ciò detto, si lanciò senz'altro in mezzo ai nemici uccidendone due e allontanandone un po' gli altri dalla porta. Nè l'episodio si arresta qui: ai suoi che gli rivenivano in aiuto, egli disse: invano voi tentate di salvare la mia vita, alla quale vengono ormai meno sangue e forze. Su, allontanatevi sin che siete in tempo e raggiungete. la legione. Continuò quindi a combattere e poco dopo cadde, favorendo così la salvezza dei suoi. Dunque: Lucio Fabio esaltato dalle ricompense di Avarico, avaricensibus praemiis, e Marco Petronio da brama di gloria, cupiditate gloriae. Continua la sfilata dei testimoni: due voci dell'aldilà ad attestare quanto sul naufragio della « favorevole occasione » abbiano anche influito motivi venali e smodate ambizioni. Questi gli argomenti del rimprovero di Cesare alle truppe riunite: - Perchè avevano voluto decidere da soli sin dove avanzare e che cosa fare ... L'arresto doveva forse avvenire appena conquistati i tre accampamenti raggiunti, come ricordiamo, di primo impeto. Ma i tre accampamenti, una volta che i soldati vi si fossero cacciati dentro, costituivano obiettivo distinto o distinguibile da tutto il resto oppure tali solo sembravano visti dal basso, ossia dalle posizioni romane? ... senza fermarsi al segnale di ritirata .. . Le trombe di Cesare non s'erano udite a cagione della « satis magna valles ». E se c'erano altri collegamenti acustici, tal dato dalla relazione non risulta . . . . e senza che Legati e tribuni avessero potuto trattenerli . . . Se la decisione dell'arresto era affidata solo o quasi alla personale valutazione di Legati e tribuni, potè ben darsi che l'azione di comando di costoro, attraversétta e complicata dal frammi_schiamento, riuscisse per forza di cose lenta e slegata, quando invece occorreva immediata e quasi contemporanea.

E nessuna esitazione, ripetiamo, potè colpire Legati e tribuni, Cesare stesso, di fronte a Gergovia terrorizzata e indifesa? Se·- per i potesi - anche una sola legione fosse riuscita a penetrare nell'oppido prima che le forze gal-


457 liche riaccorse avessero potuto assumere una certa consistenza, a V ercingetorige, estromesso dalla fortezza, che sarebbe rimasto se non l'alternativa della battaglia in estremo disorientamento o la ritirata?

... Spiegò quali fossero i pericoli di terreno sfavorevole . .. Su terreno sfavorevole i legionari non s'erano cacciati di lor volontà: e a Gergovia il terre.mo era sfavorevole in ogni dove . . . . e come egli stesso s'era regolato ad Avarico, dove, sorpresi i nemici senza il capo e senza cavalleria, aveva preferito rinunciare a una sicura vittoria piuttosto che subire il più piccolo danno per gli svantaggi del terreno ... Sì, ma qui a Gergovia s'era fatto il contrario: i vantaggi, solo probabili, della sorpresa avevano fatto passare in seconda linea gli svantaggi, reali ed evidenti, del terreno. . . . Quanto più egli ammirava il loro coraggio - chè non le difese degli accampamenti, non l'altezza del monte, non le mura dell' oppido avevano potuto arrestarli - altrettanto deplorava l'indisciplina e la presunzione con cui essi avevano creduto di poter giudicare con più sicurezza di lui le vie da battere per giungere al successo ... E indisciplina dovette essercene, molta; feroce esaltazione, per meglio dire, - fresco il ricordo di Cénabo e Avarico - in vista di grande e facile bottino . . . . Egli desiderava che nel soldato la moderazione e la disciplina non fossero minori del valore e della solidità del carattere. A chi andarono questi ultimi due più generali richiami? a semplici legionari, a centurioni, o anche più su? La chiusa del discorso fu un'esortazione a non abbattersi per l'insuccesso e a non attribuire a valore del nemico ciò che era dipeso dagli svantaggi del terreno. Aspra reprensione che, come ognuno s'avvede, non accoglie nessuno di quei chiaroscuri che pur si fanno notare lungo la relazione del fatto:

Ma forse, chi sa~ qualche cosa di energico e reattivo quella mattina, a torto o a ragione, ci voleva: poteva ben esserci chi fosse r.imasto piuttosto deluso di questa « favorevole occasione » dimostratasi, in pratica, un po' troppo complicata e sconsolante.


Cap. Xli. - DIGIONE

LA DEFEZIONE EDUA

CoRSA ALLA LOIRA.

Dice: « Chiusa l'adunanza con l'esortazione ai soldati di non abbattersi, ... restando sempre fermo nella mia decisione di lasciare quei luoghi, feci uscire le legioni dal campo e le schierai in luogo adatto. Ma poichè Vercin-. getorige restava sulle sue posizioni e non si decideva a scendere in piano - dopo un piccolo combattimento di cavalleria a noi favorevole, .......,. ricondussi le truppe nel campo ». Vercingetori ge che aveva interrotto l'inseguimento sì redditizio del giorno prima non accettò battaglia, naturalmente, il giorno dopo. E lo stesso scontro equestre dovette essere proprio poca cosa perchè il grosso della cavalleria di Vercingetorige, come presto sentiremo, era già altrove. Dice: « Il giorno dopo feci lo stesso; e pensando che ciò bastasse per intimorire la baldanza dei Galli e a rianimare i miei, iniziai la marcia per il paese degli Edui, in Haeduos movit castra. Non avendo ricevuto neppur nella· ritirata alcun ·disturbo dal nemico, il terzo giorno (quinto dal combattimento sotto Gergovia) raggiunsi l'Allier e, ricostruito un ponte su sostegni già esistenti, vi feci passare l'esercito » . Avrebbe ripassato l'Allier non troppo lontano, - a due giorni e poco più di marcia - da Gergovia: in quel di Vichy, pare, da Gergovia a una settantina di chilometri. In H aeduos movit castra : l'instabile e malfida situazione degli Edui alle spalle può aggravare, evidentemente, iJ significato dei tre « non » e di quanto è avvenuto sotto Gergovia.

Qui - sulla destra dell'Allier, quand'era appena avvenuto il passaggio dell'esercito - da Viridomaro ed Eporedorige, che gli avevano chiesto un colloquio, Cesare apprese, discit (lo apprende proprio solo ora?), che L ita-


459 vicco era partito con tutta la cavalleria per sollevare gli Edui, cum omni equitatu ad sollecitandos Haeduos.

Vercingetorige, cioè, aveva affidato tutta la sua cavalleria a Litavicco rifugiatosi, come ricordiamo, a Gergovia - perchè si riportasse nel suo paese e ridonasse al vergobreto Convictolitave, in una con la forza militare di migliaia di cavalli, quell'autorità di cui Cesare lo aveva quasi del tutto privato. Non violazione di confini,- non menomazione di indipendenza, non imposizioni di tributi ma alta prova di fiducia: tutta la cavalleria dei coalizzati entrerà in territorio eduo al comando di eduo. Come a Rians così ora a Gergovia, Vercingetorige, poste le fanterie su posizioni che ritiene inespugnabili, impiega la cavalleria per il precipuo fine a cui ognora tende: indurre alla rivolta tutti i popoli della Gallia. Se tutti parteciperete alla guerra, se tutti sarete pronti a fare il vuoto nel vostro stesso territorio all'avvicinarsi del nemico, non per battaglie ma per fame i Romani saranno costretti a intraprendere la ritirata dalla Gallia. Viridomaro ed Eporedorige così dissero a Cesare: Litavicco è partito con tutta la cavalleria per affrettare l'intervento eduo nella guerra: ... è pertanto necessario che noi lo precediamo, opus esse antecedere, per trattenere il nostro popolo, ad confirmandam civitatem. Siamo ancora in tempo, essi dicono, per precedere Litavicco. Ma Litavicco non poteva non essere in territorio eduo già da più giorni; riprove l'assenza della cavalleria gallica sia neHa reazione sotto Gergovia che nella ritirata romana da Gergovia all' Allier. Con i Galli che disponessero di tutta la loro cavalleria Cesare avrebbe anche solo progettato le tre puntate diversive che comportavano dispersione di forze e l'incursione negli accampamenti che richiedeva sicura rapidità di esecuzione? · Dice: « Quantunque avessi già sperimentato più volte la perfidia degli Edui, perfidiam Haeduorum, e pensassi che la loro partenza affrettava la defezione di tutto il paese, tuttavia decisi di non trattenerli, tamen eos retinendos non constituit: il trattenerli poteva sembrare violenza o segno di timore». Orgoglioso congedo, pertanto: anche collaboratori come voi, utili ~ graditi, non li considero indispensabili. Ma al momento in cui Viridomaro ed Eporedorige stavano per partire, li convocò presso di sè e fece loro una concisa esposizione delle sue benemerenze verso gli Edui:


« Ricordai loro in quali tristi condizioni, quam humiles, avessi trovato gli Edui al mio giungere in Gallia, quando imperversava Ariovisto. Li avevo trovati costretti a rifugiarsi in luoghi fortificati, condannati a cedere le loro terre, depredati di ogni loro bene, soggetti a pagare tributi e a dare ostaggi nelle forme più vergognose. Ma poi, ricordassero, erano giunti per mio merito a tal floridezza che non solo erano ritornati allo stato di prima, ma avevano conseguito autorità e prestigio mai goduti in passato. Dato a essi l'incarico di riferire il mio discorso, his datis mandatis, li congedai». Con gli Edui - unica eccezione, ma c'era di che, Dumnorige - non adopera la violenza e neppure, si direbbe, modi bruschi; non li esaspera, non li spinge a rinnegare la loro naturale propensione alla neutralità. Sta, al contrario, incassando con disinvoltura clandestini maneggi, tergiversazioni e intemperanze. Eporedorige e Viridomaro, che pur gli sottraevano cavalleria, avrebbero potuto perlomeno essere tenuti temporaneamente al guinzaglio: sono anch'io in marcia per il vostro paese; andremo insieme di gran carriera a parare e riparare le malefatte di Litavicco. No: decise di non trattenerlì, eos retinendos non constituit.

Novioduno era un oppido degli Edui posto in ottima posizione sulle rive della Loira . . . Già sappiamo di che si tratta: Cesare, forse subito dopo Avarico - ma lo segnala solo ora - aveva intaccato la integrità territoriale degli Edui occupando la loro Novioduno, oggi Nevers. Oppido divenuto, ora, grosso boccone: Cesare aveva colà raccolto - facendoveli, evidentemente, trasportare da Sens - tutti gli ostaggi della Gallia, omnes obsides, i magazzini di grano, frumentum, il danaro pubblico, pecuniam publicam, gran parte dei bagagli suoi e dell'esercito, suorum atque exercitus impedimentorum m agnam partem. E vi aveva anche mandato un gran numero di cavalli comperati per questa guerra in Italia e in Spagna. Numeroso dunque, per forza di cose, doveva essere il personale, anche quello qualificato, colà lasciato; senza contare feriti e malati. Eporedorige e Viridomaro, giunti zn quel di Novioduno, appena si re.sera conto della situazione politica del paese, de statu civitatis ... Grandi cose erano frattanto avvenute nell'eduo paese.

Litavicco - giuntovi prima di Eporedorige e Viridomaro alla testa di tanta cavalleria da far tremare la terra - era stato ricevuto a Bibracte e il


vergobreto Convictolitave, Convictolitavem magistratum, e gran parte del senato, magnamque partem senatus, s'erano riuniti presso di lui per compiervi l'atto atteso da tutta la Gallia: con pubblica deliberazione, publice, avevano inviato ambasciatori a Vercingetorige per stringere con lui pace e alleanza, legatos ad Vercingetorigem de pace et amicitia . ..

La defezione edua fatto compiuto e dichiarato.

Eporedorige e Viridomaro, appena venuti a conoscenza della situazione politica del paese, furono proprio essi a passar dalle dichiarazioni ai fatti, a dar fuoco alle polveri. Pensarono di non lasciarsi intanto sfuggire una così buona occasione, ossia il ghiotto boccone di Nevers, e su esso si avventarono: ucciso il personale di guardia all'oppido, interfectis Novioduni custodibus (l'espressione « custodi bus» è vaga: si può dubitare che almeno parte delle guardie, e soprattutto i comandanti , fossero legionari?), e quanti colà si trovavano per ragioni di commercio ...

Se dunque, Eporedorige - il patrocinatore, come ricordiamo, dei diecimila - ha fatto uccidere soldati romani e persone, quali i commercianti, con tanto di cittadinanza romana, vuol dire che i famosi Diecimila erano al sicuro; che Cesare aveva ritenuto buona politica - dopo i fatti di Cabillono restituirli al popolo eduo. Viridomaro ed Eporedorige, impadronitisi di Nevers, affondarono le mani nel sacco con patriottico sdegno: ... si ripartirono fra loro danaro e cavalli, gli ostaggi dei vari popoli fecero però condurre a Bibracte, a disposizione del vergobreto, ad magistratum (e il vergobreto che altro potrà fare se non porli subito itn libertà a onore e vanto del popolo eduo ?), diedero fuoco all'oppido - che essi sapevano di non poter tenere - perchè non potesse più servire ai Romani; fecero portar subito via con imbarcazioni fluviali tutto il grano che poterono: bruciarono e gettarono nel fiume il resto ... Compiuta quest'impresa, il loro raggio d'azione si estese; assunsero tutta per sè, si può dire, l'immediata difesa della Loira: ... cominciarono a raccoglier truppe dalle regioni vicine, a dispo"e presidii e guardie sulle rive della Loira, a fare dappertutto dimostrazioni di cavalleria per spargere !l terrore: si proponevano così di impedire ai Romani i rifornimenti di grano o ricacciarli, per mancanza di viveri, nella Provincia, in provinciam expellere. Ciò che molto li incoraggiava in tal speranza era il fatto che la Loira era cresciuta per lo scioglimento delle nevz e il passarla a guado sembrava assolutamente impossibile.


MARCIA, GUADO, VIVERI.

Tentare il gittamento di un ponte sulla Loira, con nemico vigile e reattivo sull'altra sponda, sarebbe stata operazione di lunga preparazione e rischiosa ; guadare con un esercito la Loira in piena, impossibile: tali, per Cesare, i termini della situazione. Ma non solo quei due comandanti bensì tutto l'apparato politico e militare degli Edui dovè essere influenzato dalla valutazione, non errata, che i Romani la Loira non potessero passarla subito, nè per ponte, essendo già sul fiume attivissimi con la loro cavalleria Viridomaro ed Eporedorige, nè, data la piena, a guado. Si aggiunga che le legioni, se avevano passato l' Allier a due tappe da Gergovia, dovevano trovarsi dalla Loira che tocca il paese degli Edui a più di cento chilometri: anche solo le marce, perciò, consentivano un qualche respiro. Cesare dice : <e Avute queste notizie, pensai che bisognasse affrettarsi, e se c'era da affrontare dei pericoli per la costruzione di ponti, affrontarli prima che potessero essere colà dal rremico raccolte maggiori forze . .. ». Ebbe dunque informazioni concrete su ciò ch'era avvenuto a Nevers quando sulla Loira c'erano Eporedorige e Viridomaro ma non v'erano ancora nè la fanteria, che costoro stavano raccogliendo, nè la cavalleria affidata a Litavicco. Dice: << ••• Quanto a cambiare i miei piani e a dirigermi verso la Provincia, - cosa che nessuno, in quel momento, stimava necessaria - me lo impedivano l'indegnità della cosa e il disprezzo che me ne sarebbe derivato, infamia atque indignitas rei, nonchè la difficoltà degli itinerari qualora avessi voluto riattraversare, questa volta con un considerevole esercito, la barriera delle Cevenne. Me lo impediva soprattutto il fatto che ero assai preoccupato per Labieno da me separato e per le legioni che avevo messo ai suoi ordini ».· Fare dietro fronte, risalire l' Allier sino alla sorgente, riattraversare le Cevenne e porre in salvo sè e le sue legioni abbandonando alla sua sorte Labieno? Interrogativo neppure da porre. Ma posto, e per: il solo fatto che è stato posto, vuol dire che la sua situazione è più grave di quanto ci sia dato di dedurre dalla pur dura relazione sin qui letta. D ice: « Perciò, a grandissime tappe, marciando giorno e notte, raggiunsi, contro l'aspettativa di tutti, contra omnium opinionem, la Loira, e, scoperto dagli esploratori di cavalleria un guado che poteva rispondere alla necessità della circostanza . .. ». Non dice quanti giorni marciò senza quasi interruzione giorno e notte (si sarebbe meglio potuto congetturare da dove partì e dove passò - fra


Nevers e Décize? - la Loira) ma per i legionari dovè essere, comunque, uno sforzo quasi pazzesco. Gli esploratori trovarono un guado? Trovarono, diciamo meglio, un passaggio tale ... che appena le spalle e le braccia sollevate restavano liberi fuori dell'acqua a sostenere l'armamento, dopo che la cavalleria era stata disposta in modo da rompere la violenza della corrente. Con grosse aliquote di cavalleria dislocate nel fiume in formazioni molto serrate fu costituito, a mo' di diga trasversale, un frangente a monte per attenuare la violenza dell'acqua e un altro, forse, a valle per trattenere uomini o cose strappati dalla corrente: un corridoio che consentì il faticoso transito della durata di ore - a migliaia di uomini e quadrupedi, a centinaia di carri. Dice: « Sbigottiti, così, col nostro primo apparire i nemici, feci passare incolume l'esercito, incolumem exercitum ... ». Giunse alla Loira del tutto inaspettato, compiendo una marcia, per il momento politico e il modo con cui avvenne, da porre fra i più significativi atti di questa campagna. Dice: « Feci passare incolume l'esercito ... e, avendo trovato in quelle terre abbondanza di frumento e di bestiame, frumentumque in agris et pecoris copiam nactus, rifornito completamente l'esercito, repleto his rebus exercitu, iniziai la marcia per il paese dei Senoni)) . Ma allora il risultato felice non è uno solo. Alla marcia fulminea dall'Allier alla Loira occorre ora aggmngere la scoperta non di un guado qualunque ma di un guado che sfocia in una zona dove c'è grano, evidentemente già raccolto, e bestiame da rifornirne, e non per un giorno solo, la forza di sei legioni e tutto il resto. Due fatti straordinari e il secondo strettamente connesso e immediatamente conseguente al primo, sì che disgiungerli non si può. Se fu .la fulminea marcia che gli fece imbroccare, per caso, guado e ricca zona, c'è, comunque, da restarne meravigliati; che se invece fu l' esistenza in quella zona di viveri e bestiame raccolti dagli Edui per la guerra a ispirargli l'urgenza di quella marcia e a sussurrargli quello specifico guado, chi fu l'informatore? A distanza neppure di tre mesi, è la seconda volta, la prima ad Avarico, che avviene un ritrovamento di viveri di proporzioni sorprendenti. Due flagranti offese alla direttiva maestra, l'unica sicuramente valida, di Vercingetorige. Sei legioni, non costrette a dispersioni per immediato bisogno di cibo, scanseranno, anche questa volta, i colpi della cavalleria gallica; riusciranno a tenersi ancora in equilibrio, senza soste esiziali, nello sforzo per ricongiungersi alle legioni di Labieno.


LABIENO DA

NEVERS ALL'lLE DE FRANCE.

Che ne è stato di Labieno dal momento congresso di D ecezia, ha diviso l'esercito?

tn

cui Cesare, subito dopo il

Mentre questo accadeva a Cesare, l.Abieno - lasciati in Agedinco, a guardia del bagaglio, i complementi dell'ultima leva in Italia - parte alla volta di Lutezia con le quattro legioni. Se la divisione dell'esercito avvenne nella zona di Nevers, e se calcoliamo circa una settimana di marcia la distanza da Nevers a Sens, - un centosettanta chilometri - Labieno sarebbe giunto a Sens o Agedinco quando Cesare, che risalì l'Allier piuttosto lentamente, poteva essere appena da qualche giorno a Gtrgovia. Valuteremmo breve la sosta ad Agedinco e quasi contemporanea al colpo di mano di Cesare su La Roche Bianche la partenza di Labieno per Lutezia. E' Lutezia - l'ile de la Cité - oppido dei Parisii situato in un'isola del fiume Senna, oppidum Parisiorum positum in insula fluminis Sequanae ...

Cesare è passato per Lutezia l'anno scorso, approssimativamente in marzo. Vi fece brevissima sosta prima di invadere il paese dei Senoni; quei Senoni che assieme ai Carnuti lor finitimi - questi con la coscienza sporca per aver assassinato Tasgezio e quelli per aver deposto Cavarino - si stavano preparando alla guerra. Alla sosta a Lutezia seguì l'invasione del territorio senone e, nell'autunno, la condanna a morte di Accone; venne poi, nel febbraio di quest'anno, e quando i Romani tenevano Agedinco già da tempo, la resa incondizionata, in virtù di semplice trincea circolare, dell'oppido senone Vellaunoduno. E puniti ci risultano anche i Carnuti, i possessori di luoghi santi, promotori del giuramento sulle Insegne, autori dell'eccidio di Cénabo; puniti con un certo riguardo a cagione, appunto, dei luoghi santi, ma puniti: ha divampato neppure tre mesi fa l'incendio distruttore della città del grosso eccidio. Ma tutti codesti colpi, pur lasciando il segno, non ebbero più alcun effetto quando Cesare, costrettovi dalle iniziative di Vercingetorige, dovè portarsi nel territorio dei Biturigi e impegnarsi ad Avarico. Appena Cesare ebbe passato il ponte di Cénabo e fu a sud della Loira, tutto il paese fra Atlantico Loira e Senna si ritrovò padrone di sè; e padrona di sè, possiamo senz'altro aggiungere, anche tutta la ·Belgica, che da territori a destra della Senna aveva inizio.


Che cosa valevano, che cosa avrebbero potuto fare, di fronte a sì immenso paese, le due legioni rinchiuse col bagaglio di tutto l'esercito in Agedinco? Lo stesso che niente; Agedinco, anzi, richiamo per un concentramento di forze nemiche nel tentativo che quei popoli avrebbero certamente fatto per bloccarlo e impadronirsene. Affiorerebbe, così, il dilemma che dovè a Cesare imporsi appena chiuso il congresso di Decezia. Abbandonare al suo destino tutto il nord della Loira sino a quando si fosse regolata la partita, a sud, con Vercingetorige? Soluzione di prudenza; ma che pur denunciava, subito, la sua limitatezza: la pronta e notevole potenzialità di quei popoli, una volta che ciascuno si fosse sentito sicuro da qualsiasi minaccia al proprio territorio, avrebbe anche alimentato e accresciuto, rendendola insostenibile più di quanto già fosse, la resistenza del sud. Dividere l'esercito in due parti, entrambe il più possibile mobili ed efficienti? Nessuna rinuncia, in tal caso, nessuna diminuzione di prestigio: ma soluzione conforme alla realtà e vastità di quella lotta in cui stava per decidersi, senza mezzi termini, la conquista o la perdita dell'intera Gallia. Si correva però il rischio - il rischio? ma questa soluzione non era, più che temeraria, disperata? - di trovarsi insufficienti sia a nord che a sud, e il disastro di una delle parti si sarebbe trascinato quello dell'altra.

Labieno dunque, fatta breve sosta in Agedinco, partì per Lutezia con quasi tutt'e quattro le legioni (un quindicimila legionari e un duemila cavalli?). A Lutezia, punto chiave dell'antica provincia Ile de France, quasi convergono le grandi vie di comunicazione provenienti dalla Bretagna, dalla Normandia, dalla Manica, dal Reno, dalla Loira centrale: le principal carrefour, dicono i francesi, du nord de la Gaulle. Il centro di una regione che è stata sino a ieri fra gli obiettivi strategici più cruenti della storia d'Europa. L'isola Lutezia così come difendibile con poche forze altrettanto non si prestava a stretto assedio; essa dava all'occupante libertà d'iniziativa e possibilità di manovra, diremmo oggi, da punto centrale: una volta che un esercito romano l'avesse occupata, chi poteva ancora sentirsi sicuro in casa propria? Chi è a Lutezia è nella capitale dei Pari sii ed è sulla soglia del paese dei Senoni, è vicino ai Carnuti e sulla soglia del paese dei Belgi. Giunta ai nemici la notizia dell'arrivo di LAbieno, grandi forze si adunarono dai paesi vicini. Un concentramento a immediata copertura di Lutezia sulla sinistra della Senna, che era la riva da Labieno seguìta nella marcia da Agedinco. I Galli, alla notizia dell'arrivo di Labieno, richiamato dalla riserva, come diremmo oggi, un vecchio generale, lo posero a capo dei loro contingenti riuniti: il comando supremo è affidato all' aulerco Camulogeno (i celtici Au30.•

u.s.


lerci faranno Poco o quasi niente parlar di sè), il qual Camulogeno, sebbene logorato dagli anni, prope confectus aetate, era stato chiamato all'alta carica per la sua singolare esperienza di cose militari.

Labieno.

Non sembrerebbe però che Camulogeno fosse del tutto an imato, e avrà avuto le sue ragioni, dall'intento di affrontar subito Labieno in una battaglia in cam po aperto; si Pose, sì, anch'egli in m arcia sulla sinistra Senna, ma a un certo punto, avendo trovato o sapendo che c'era un tratto ininterrotto di palude le cui acque defluivano nella Senna e che ostacolava qualsiasi movi-


mento in vasta zona, - quasi certamente la valle allora paludosa dell'Essonne, affluente di sinistra della Senna - qui si fermò, deciso a impedire ai Romani il passaggio. Labieno, giunto anche lui all'Essonne, comincia con lo spingere innanzi camminamenti di vinee, via via rassodando il terreno paludoso con graticci e terra di riporto, costruendosi così una strada: quando però si accorge che la cosa diventa troppo difficile ... Ma anche a Labieno, e forse specialmente a lui, non poteva essere gradita la battaglia: quale sorte lo attendeva quando i nemici, accresciutisi di numero, si fossero meglio orientati sull'entità delle sue forze e sulle sue possibilità di sostentamento, che erano da prevedere ognora più difficili? Camulogeno, lui sì, poteva e forse doveva combattere, ma a Labieno conveniva solo raggiungere al più presto l'isola Lutezia. Quando dunque Labieno si accorse che il proseguimento della strada attraverso la palude andava per le lunghe e sarebbe costato troppe fatiche, .. . uscito in silenzio dal campo a circa mezzanotte, rifacendo la strada per cui era venuto, pervenne a Meloduno, - o Metiosedo: l'attuale Melun, comunque - oppido dei Senoni situato, così come Lutezia, su un'isola della Senna. Rapida ritirata notturna, inavvertita al nemico, di un venti chilometri. Nei pressi di Meloduno, trovate (già scoperte, evidentemente, nella marcia di andata) circa cinquanta navi, barconi o zatteroni di uso fluviale, le fece rapidamente congiungere e avviò su di esse un certo numero di soldati . .. L'operazione dovè essere rapida. Non il gittamento ognora lento e avvertibile di un ponte di barche ma numerosi e grossi galleggianti, specie di pontoni, ciascuno ottenuto dall'unione di più barche, che, carichi di armati e con breve e contemporaneo tragitto dalla riva all'isola, sorpresero Meloduno quasi nel sonno, all'alba . . . . Spaventati con tal novità gli oppidani, - gran parte dei quali erano stati richiamati alla guerra, magna pars ad bellum evocata, - lAbieno si impadronì, senza lotta, dell' oppido. Al primo passo, seguì, quel mattino stesso, il secondo; il più importante, quello che, attraverso l'isola Meloduno, doveva portare i Romani - ed era questo lo scopo della manovra - sulla destra della Senna: Labieno, fatto riattare il ponte tagliato nei giorni precedenti dal nemico, vi fa passare l' esercito e, seguendo il corso del fiume, si dirige a Lutezia. Ma tale stratagemma, che pur portò i Romani sulla destra della Senna e su itinerario libero, non portò, proprio, all'obiettivo principale: i nemici, - i quali, evidentemente, non si trovarono nelle condizioni di poter precedere Labieno - ricevuta informazione del fatto da coloro che erano fuggiti da Meloduno, fanno dar alle fiamme Lutezia e tagliare i suoi ponti. Sicchè i due eserciti, dopo breve tempo, si ritrovarono, nei pressi di Lutezia distrutta, faccia a faccia, sebbene divisi dal fiume. Sulla riva sinistra


Camulogeno, sulla destra Labieno: i nemici, partiti dalla zona paludosa del1'Essonne, prendono posizione sulla Senna, all'altezza di Lutezia, di contro alle posizioni occupate da Lab1e110. La rapida e coraggiosa discesa di quattro legioni con poca cavalleria dal territorio di Nevers all'Ile de France - il che certamente servì a tener perplessi i popoli a nord della Loira - costituisce dunque il primo ciclo operativo di Labieno; forse durato, con la permanenza sulla Senna, più di un mese: dalla divisione dell'esercito sino a quando anche in quel di Lutezia giunse la voce che Cesare aveva abbandonato Gergovia.

Le cattive notizie cominciarono a giungere a Labieno quando questi era già da qualche settimana in sosta intimidatoria sulla destra della Senna; e quando, vorremmo aggiungere, le sue preoccupazioni non potevano che aumentare di giorno in giorno, specie per il vettovagliamento. Già si diceva che Cesare si fosse allontanato da Gergovia; giungevano le prime voci sulla defezione degli Edui e i progressi della rivolta; i Galli poi, nelle loro conversazioni, - riferite evidentemente dai Galli al servizio dei Romani che avevano contatti con le popolazioni del luogo - davano per certo che Cesare, trovata sbarrata la via della Loira, era stato costretto dalla mancanza di grano a prender la via della Provincia. Inafferrabili « si dice», ma niente di certo: la prova però che a un certo momento della permanenza dei Romani sotto Gergovia la rivolta aveva del tutto interrotto lo scambio di corrieri fra Cesare e Labieno. Ma un'informazione giunse a Labieno concreta, e tale da imporgli la preoccupazione che le dicerie fossero fondate. I Bellovaci, - poco fedeli, per se stessi, sin da prima - saputo della defezione degli Edui, defectione Haednorum cognita, avevano cominciato a raccogliere forze e a preparare apertamente la guerra, aperte bellum parare. I Bellovaci li conoscemmo sei anni fa: il popolo belga daila resa spettacolare a Bratuspanzio, in quel di Beauvais: e quando Cesare fu con l'esercito a circa otto chilometri da Bratuspanzio, tutti gli anziani, usciti dall' oppido, cominciarono a tendere le mani verso di lui, ecc. Quei Bellovaci che, come pure ricordiamo, beneficiarono in quell'occasione anche dell'intercessione del gran collaborazionista Diviziaco, il quale in un suo discorso a Cesare, fra l:altro, disse: in ogni tempo i Bellovaci sono stati amici e protetti del popolo edr~o . .. Se userete clemenza verso i Bellovaci, voi avrete accresciuto presso tutti i Belgi l'autorità di noi Ed ui. I Bellovaci dunque, - Bratuspanzio era quasi il centro del lor territorio e distava da Lutezia poco più di settanta chilometri - appena seppero della definitiva defezione edua, cominciarono a preparare apertamente la guerra.


Che avrebbero fatto, sull'esempio loro, tutti gli altri papoli della coalizione belga di sei anni or sono? e gli stessi Remi, collaborazionisti numero uno? Cesare dice: « Labieno, di fronte a un mutamento così radicale della situazione, tanta rerum commutatione, capiva di dover adottare un piano ben diverso da quello di prima: non si trattava più di ricercar successi provocando il nemico a battaglia, ma di ricondurre sano e salvo l'esercito ad Agedinco, sed ut incolumem exercitum Agedincum reduceret )). Se la divisione dell'esercito fu dovuta a errata valutazione della situazione a nord della Loira, ecco che Labieno, resosene conto sul pasto, non esiterà a riparare all'errore con una sua propria iniziativa: la ritirata; se errore non fu, ecco che Labieno, avendo prontamente avvertito - e con sensibilità sua, privo com'era di ogni notizia certa - che l'altra parte dell'esercito sta per perdere se non l'ha già perso l'equilibrio, pensa che solo una tempestiva ritirata potrà lasciare intatti i benefizi della sua incursione. Una tempestiva ritirata in situazione che sarebbe divenuta di giorno in giorno più perigliosa: da una parte, a nord della Senna, c'era la minaccia dei Bellovaci - popolo famoso in -Gallia per il suo valore - dall'altra, a sud, Camulogeno con un eserato sotto ogni aspetto efficiente; inoltre le legioni, essendo la base Agedinco sulla sinistra della Senna, erano tagliate fuori dal bagaglio e relativo presidio da questo gran fiume. Cesare dice: « In così improvvise e gravi difficoltà, Labieno ben comprendeva che non e'era altro rimedio che l'audacia» . Labieno, invero, era stato posto in situazione già di per sè ardua sin dall'inizio; aggravata, ora, dall'intervento eduo - non previsto imminente. e forse ritenuto scansabile all'atto della divisione dell'eser~ito - e dall'insuccesso, meno previsto che mai, sotto Gergovia. In una situazione fattasi improvvisamente critica, occorreva, perciò, che Labieno facesse quasi un miracolo: che ricongiungesse la sua parte dell'esercito ali'al tra evitando <li venire a battaglia.

LA

BATTAGLIA DI Lt;TEZIA.

Labieno, convocato verso sera, un consiglio di comandanti - saremmo ai primi di luglio, quando Cesare ha appena lasciato, dopo l'approvvigionamento sulla Loira, il paese degli Edui - esorta i presenti - esortazione che


47° prepara all'importanza di quanto sta per avvenire - a eseguire i suoi ordini con tutto l'impegno e l'abilità possibili .. . Per un'assoluta garanzia di segretezza, svela il suo piano quando è già notte, al momento dell'esecuzione. Questa la sostanza del piano: indurre il nemico a dividere le sue forze ren dendolo incerto sul punto in cui egli sarebbe ripassato sulla sinistra della Senna. Esortati dunque i comandanti a eseguire i suoi ·ordini con tutto l'impegno e l'abilità possibili, ... Labieno affida ciascun.a delle navi (una cinquantina, come sappiamo: lo avevano dunque seguito da Meloduno) a militari romani di cavalleria, ordinando che al termine del primo turno di guardia, circa alle ventidue, esse discendano in silenzio la corrente, secundo flumine, per un sei chilometri, e qui - si trattava perciò di luogo già riconosciuto - lo aspettino. Lascia a presidiare il campo cinque coorti che riteneva meno salde per il combattimento. Alle altre cinque coorti della stessa legione ordina di partire verso la mezzanotte, con tutti i bagagli, in senso opposto alla corrente del fiume, adverso flumine, e facendo grande rumore. Queste cinque coorti, seguendo la riva destra della Senna, dovevano simulare la tumultuaria ritirata di tutte le forze romane sino a Meloduno. Simulazione completa: Labieno si procurò anche delle piccole barche, che fece andare dalla stessa parte - fiancheggiando la colonna delle ci nque coorti in marcia - con grande strepito di remi. Sicchè la situazione di Labieno, a mezzanotte, fu la seguente: - le navi, vuote, affidate al personale di cavalleria giunte in segreto al posto prefissato; - cinque coorti a presidio del campo; - cinque coorti, fiancheggiate da piccole imbarcazioni, in marcia rumorosa su Meloduno. Il che significa che tutte le altre truppe --- tre legioni e la cavalleria furono, a mezzanotte, pronte a operare riunite.

Egli, Labieno, poco dopo mez zanotte, uscito dal campo in silenzio, si dirige con le tre legioni verso il luogo dove aveva comandato alle navi di attenderlo. Qui giunto, fece subito eseguire i primi traghetti dalla sponda destra • alla sinistra; e fu il momento più delicato dell'operazione: ma gli esploratori nemici, pur dìsposti lungo tutto il fiume,- colti di sorpresa perchè improvvisamente era scoppiato un gran temporale, furono dai Romani sopraffatti. Costituita, così, la testa di sbarco, fanteria e cavalleria - legionari nelle barche e cavalleria a guado - passano rapidamente il fiume mercè la cooperazione - laboriosi e numerosi traghetti - di quel personale romano di caualleria a cui Labieno aveua affidato l'incarico. All'alba erano sulla sinistra Senna tre legioni e la cavalleria.


47 1 Appare evidente, così, che Labieno non era nella condizione di operare la ritirata sulla destra stessa della Senna: il nemico - dopo l'esperienza di Meloduno - non gli avrebbe consentito, questa volta, di ripassare sulla sinistra, dov'era Agedinco, la base logistica romana. Battaglia o no, dunque, e meglio, s'intende, senza battaglia - l'esercito di Camulogeno gli occorreva avvicinarlo e, sia pure per breve tempo, neutralizzarlo.

Ai nemtct, ·ossia a Camulogeno, verso l'alba, - circa alle quattro, se siamo in luglio - giunsero quasi contemporaneamente le seguenti notizie: che dal campo romano si levava insolito rumore, che una grande colonna marciava in senso opposto al corso del fiume, e da quella parte si udiva anche grande strepito di remi; che un po' più a valle, - rispetto alla posizione del campo gallico - truppe romane si stavano traghettando sulla riva sinistra. Le notizie giunte a Camulogeno furono dunque esatte e tempestive. Cesare dice: « I nemici, avute queste notizie, pensando che le legioni passassero in tre luoghi e che tutti, turbati dalla defezione degli Edui, si preparassero a fuggire, divisero, anch'essi, le loro forze in tre parti, suas quoque copias in tres partes ». Si ha l'impressione, così leggendo, che a Labieno capiterà la fortu na, appena avrà percorso qualche chilometro (c'è chi congettura che il passaggio sia avvenuto a Point du Jour e il combattimento fra la piana di Grenelle e le al ture di Vaugirard : tutte località, oggi, nella cerchia di Parigi) di scontrarsi con un esercito già diviso in tre parti, in tres partes, ossia con forze notevolmente frazionate. Ma è impressione che presto svanisce. I nemici, lasciato un presidio, praesidio relicto, dirimpetto al campò romano, e inviata in direzione di Meloduno una piccola colonna, parva manu missa, - la quale, per reagire prontamente a tentativi di sbarco, doveva tenersi alla stessa altezza delle piccole imbarcazioni romane - condussero le altre truppe contro Labieno. Il presidio di fronte al campo romano, protetto dal fiume, non potè essere che modesto - o, almeno, qui non è detto che fosse di eccezionale con sistenza - e « piccola » era la colonna per Metiosedo: si trattò di due indispensabili distaccam enti precauzionali - in corrispondenza di altrettanti romani - che rivelano come Camulogeno, nella sua immediata reazione alla manovra di Labieno, non fosse stato affatto tratto in inganno sul punto del)' effettivo passaggio del fiume da parte romana. Labieno, di conseguenza, si scontrò col grosso delle fo rze nemiche. AL!'alba, tutte le forze di Labieno avevano passato il fiume, e già si scorgevano le schiere nemiche. Labieno - esortati i soldati a ricordarsi del valore sempre dimostrato, dei grandi successi già riportati e a considerare Cesare come presente, sotto


47 2 il cui comando avevano tante volte vinto il nemico - non appena gli eserciti furono a giusta distanza, dette il segnale della battaglia.

All'ala destra - dov'era schierata la settima legione - i nemici, al primo urto, sono respinti e messi in fuga. All'ala sinistra invece - dov'era schierata la dodicesima legione - le prime file dei nemici, colpite da giavellotti, erano cadute: ma gli altri resistevano accanitamente, nè alcuno accennava a retrocedere. Lo stesso capo dei nemici, Camulogeno, era qui presente ed esortava l SUOl.

Ma mentre l'esito della battaglia era ancora incerto, - con perdite certamente da entrambe le parti se nessuno della massa principale dei Galli accennava a retrocedere - i tribuni della legione d'ala destra, la Settima, informati di quel che avveniva all'ala sinistra ... Ma ·possibile che quanto sta per avvenire - un ampio spostamento di tutta l'ala destra dello schieramento - fosse del tutto iniziativa dei tribuni senza perlomeno il consenso di chi regolava la battaglia, cioè di Labieno? I tribuni della Settima, dunque, fecero fare alla loro legione una larga conversione a sinistra: la fecero comparire, così, alle spalle del nemico, attaccandolo. La mischia dovè divenire feroce: perchè nessuno dei nemici, anche in quel momento, abbandonò il suo posto ma tutti, circondati, si fecero uccidere. Camulogeno subì la stessa sorte: cadde combattendo. La battaglia poteva dirsi finita quando ebbe un ultimo sussulto: quei Galli che erano stati lasciati di fronte al campo di Labieno, avendo udito che era in corso combattimento, accorsero in aiuto dei loro, occupando un'altura: ma non riuscirono a sostenere l'attacco dei Romani ormai vittoriosi. Mescolati così agli altri fuggiaschi, quanti non poterono salvarsi nei boschi e sui monti furono uccisi dalla cavalleria. Vittoria di quelle memorabili? Ma forse è meglio concludere che l'esercito di Camulogeno fu sbaragliato per il tempo necessario a Labieno - il quale si giovava dell'estrema mobilità, rispetto al nemico, delle sue truppe - di riprendere la marcia e di ricongiungersi - sulla sinistra della Senna, all'altezza di Meloduno - con le cinque coorti del campo e con le cinque che avevano simulato la ritirata. La descrizione della battaglia di Lutezia è tutta in soli tre cenni: cenno all'ala destra, cenno all'ala sinistra, cenno. all'avviluppamento operato dall'ala destra. Tanto concisa da obbligarci a considerare sottinteso il « centro» dello schieramento; non potendovi essere dubbio che un centro - altrimenti la conversione della Settima avrebbe lasciato un vuoto sul fianco della Dodicesima - doveva esserci. Qui ci vuole qualche sforzo per riportare alla luce -la parte militare più viva dell'azione di Labieno (che al momento in cui furono risistemate queste


473 memorie era fra i nemici di Cesare): che cioè questi avrebbe osato impegnare tutte e tre le legioni su una sola schiera; che avrebbe giuocato insomma, e subito, tutto per tutto, in un momento in cui una minima esitazione, pur richiesta dalla prudenza, - restava infatti senza alcuna riserva di fanteria p0teva provocare il disastro.

Terminata questa impresa, Labieno ritorna ad Agedinco, dove era rimasto il bagaglio di tutto l'esercito (cioè tutto il bagaglio della parte dell'esercito da lui comandata); e da Agedinco - la capitale dei Senoni la si può ora considerare dai Romani definitivamente abbandonata - egli raggiunge Cesare, in territorio senone, con tutte le sue truppe. Truppe che avevano subìto non p0che perdite, mal ridotte. Ma questo ricongiungimento dovuto all'iniziativa e all'audacia di Labieno - e avvenuto, si congettura, fra Joigny e Auxerre - è senz'altro da p0rrc fra i più rilevanti avvenimenti dell'intera guerra gallica.

IL CONCILIO DI BIBRACTE

«

Ao

uNuM OMNES ».

Conosciuta la defezione degli Edui, la guerra si allarga, bellum augetur. Gli Edui mandano ambascerie da tutte le parti; si servono del loro prestigio, della loro autorità, del loro danaro, gratia auctoritate pecunia, per sospingere gli altri popoli alla guerra; e avendo in mano gli ostaggi che Cesare aveva lasciati nel paese, - da Nevers, inviati, come ricordiamo, « ad magistratum » - spaventano i popoli recalcitranti minacciando dei loro ostaggi la soppressione. La !oro entrata nella coalizione vollero altresì che fosse segnata da un non formale e solenne atto pubblico da parte del belligerante gallico sino ad allora maggiore: chiedono a Vercingetorige di recarsi presso di loro - a Bibracte, è da ritenere - a esporvi i criteri con i quali intende condurre la guerra. Tanto avendo ottenuto . .. Nessuna meraviglia che Vercingetorige abbia prontamente accettato l'invito: valse il suo stesso prop0sito di non perdere nessuna occasione per richiamare a viva voce i popoli ali' « unum consilium totius Galliae », a una Gallia tutta una sola volontà.


474 Ma appena ottenuto cotanto successo, gli Edui ne tentarono immediatamente uno maggiore, il massimo: pretendono che sia affidato a loro il comando supremo, ut ipsis summa imperii tradatur. A tal richiesta, l'opposizione di Vercingetorige non potè che essere recisa; si dovè pertanto venire a uno di quei compromessi che ognora raggelano ogni migliore spirito di collaborazione: e poiclzè non riescono a mettersi d'accordo, si indice a Bibracte il Concilio di tutta la Gallia, totius Galliae concilium. Bibracte indicitur. Un tempo d'arresto quindi, breve o meno breve che potrà essere. E chi è Vercingetorige, l' Alvernia stessa, ora che gli Edui, associando per la guerra tutti i popoli, stanno per aprire nuovi e più promettenti orizzonti? La decisione, o principes di tutta la Gallia, spetta a voi: volete Vercingetorige oppure un Convictolitave un Coto un Litavicco un Eporedorige· (e c'è anche un Eporedorige senior, sentirete, già illustre condottiero) un Viridomaro?

A Bibracte numerose convennero, da ogni parte, le rappresentanze, conveniunt undique frequentes. Ma a Bibracte i principes di tutta la Gallia, messi nell'alternativa, superarono se stessi : essendo la decisione affidata ai voti del 'assemblea, multitudinis suffragiis, tutti, ali' unanimità, ad unum omnes, confermano il comando supremo a Vercingetorige, Vercingetorigem probant imperatorem. Numerosi e provenienti da ogni contrada, come abbiamo appena sentito, i rappresentanti della Gallia al Concilio. . I popoli assenti furono appena tre: non parteciparona Remi, Li11goni e Treveri. Remi e Lingoni perchè rimasti fedeli ai Romani; i Treveri perchè troppo lontani e minacciati dai Germani: e questo fu il motivo per cui, tutta la durata della guerra, furono assenti e non mandarono aiuti nè agli uni nè agli altri. La segnalazione dei Remi farebbe supporre presenti al Concilio gli altri popoli della Belgica; ma poco colpisce l'assenza dei Lingoni che, come chiusi in sè sull'altipiano di Langres, mai abbiam o visto assumersi impegni bellici. Più da notare i Treveri, su cui çra regna Cingetorige: la loro assenza denunzierebbe estranée alla rivolta di Verci ngetorige le genti galliche più vicine al Reno che più avevano partecipato a quella di Induziomaro. Il voto di Bibracte fu per gli Edui, sostenuti com'erano da larghe amicizie e clientele, un colpo duro e inaspettato.


475 Gli Edui provano grande dolore per essere stati rimossi dalla loro posizione di preminenza, deiectos principatu: deplorano il mutamento di fortuna, rimpiangono di Cesare la benevolenza. Tuttavia, poichè ormai la guerra è iniziata, non osano separare la loro sorte da quella degli altri. Eporedorige rassegnano a restare e Viridomaro, poi, giovani di grande avvenire, mal agli ordini di Vercingetorige.

si

Sicchè, stante tal dolore deplorazione rimpianto nonchè il disagio di due eminenti giovani sotto comando alvernate, che ne sarà dell'unanime voto di Bibracte nella realtà d!egli avvenimenti che ora incalzeranno sempre più decisivi e nei quali gli Edui, con la loro indole e con il loro potere, bisogna pur considerarli presenti e operanti specialmente, diremmo, quando non appaiono? Vercingetorige comanda ostaggi agli altri popoli, - a quelli allora allora entrati in guerra: anche agli Edui? - fissando il giorno della consegna. Egli, cioè, si serve subito degli alti pateri che l'assemblea gli ha conferi ti. Ordina altresì che tutti i cavalieri, in numero di quindicimila, omnes equites quindecim milia numero, si radunino celermente sul posto - in quel di Bibracte o dove che fu. La cavalleria degli alleati, tutta, ammonta dunque a quindicimila cavalli : un gran numer-0, oltre che di per sè, rispetto alle dispanibilità certamente modeste - un cinquemila? - di Cesare. Gli ostaggi devono garantire l'assolvimento degli impegni che ciascun alleato s'è assunto; la cavalleria, accentrata, pone nelle mani di chi la comanda l'effettiva direzione della guerra.

LA STESSA INESORABILE DIRETTIVA.

L'esigenza, nelle coalizioni, di un patere su tutti coordinatore è, così, soddisfatta; il passo risolutivo i principes di quasi tutta la Gallia lo hanno compiuto, a Bibracte, con nobile impeto. Da una parte, la coalizione gallica che, pur infirmata dal dissenso con gli Edui, ha assunto un'insperata coesione per quasi generale consenso; dal1'altra, l'esercito romano che, pur gravato dalle ritirate da Gergovia da Lutezia da Agedinco, ha ricongiunto le sue forze. Un momento impcrtante, perciò; in cui le dichiarazioni di Vercingetorige che ora sentiremo - un discorso, probabilmente, subito dopa il voto acquistano particolare rilievo. Quanto alla fanteria, egli dichiara di non volerne di più di quella che ha già. Non forzerà la fortuna, non affronterà il rischio di una battaglia


campale: avendo abbondanza dì cavalleria, sarà facile impedire ai Romani il rifornimento di grano e di foraggio. Nè dunque richieste di uomini per aumentare il suo esercito nè rischi di battaglia in campo aperto: purchè però essi stessi distruggano senza rimpianto i loro raccolti (saremmo in luglio, alla mietitura) e diano alle fiamme ì depositi di viveri, considerando che attraverso questo pur doloroso sacrificio di beni privati, conseguiranno, per sempre, indipendenza e libertà, perpetuum imperium libertatemque. I Galli forse sospettavano che Vercingetorige profittasse del supremo comando per ingrandire chi sa quanto il suo esercito e divenire nella Celtica onnipotente di fatto quando lo stesso suo padre non lo era stato che di nome. Niente affatto; sospetti simili, se qualcuno li nutre, devono essere abbandonati: l'esercito rimane quello che è; anche percl)è un maggior numero di bocche aggraverebbe le difficoltà del vettovagliamento. Riconosciuta e temuta la superiorità campale dei Romani; tant'è vero che pubblicamente, a sollievo di tutti, il capo ha dichiarato: non forzerò la fortuna, non affronterò il rischio di una battaglia: neque fortunam temptaturum aut in acie dimicaturum. Il maggior peso della guerra - sino a quando non divenissero palesi i segni dell'esaurimento del nemico - deve continuare a essere direttamente sostenuto, più che dall'esercito, dallo spirito di sacrifizio, sino all'esasperazione, di intere popolazioni. La stessa, inesorabile, direttiva di prima di Avarico. Definitivamente imposta quella guerra di esaurimento che in genere viene da sè e nessuno vorrebbe mai proporsela come fattore dominante del proprio piano.

IL

SECONDO FRONTE.

Immutato, quasi, anche il piano operativo: si aprirà anche questa volta, · e con tre frecce, il secondo fronte, quello contro la Provincia. Vercingetorige ordina a Edui e lor clienti Segusiavi diecimila fanti (i Diecimila che conosciamo?) e a questi aggiunge ottocento cavalieri: ne affida il comando a un fratello di Eporedorige - il nome non è detto - con l'ordine di attaccare gli Allobrogi. Gli Allobrogi li incontrammo circa sette anni fa, quando gli Elvezi, per emigrare nel Saintonge, avrebbero voluto passare sulla sinistra del Rodano. Il fratello di Eporedorige, perciò, avrebbe dovuto superare il non facile ostacolo del Rodano. Ma all'azione militare Vercingetorige affiancò la politica: non tralascia per questo di sollecitare con messi clandestini e ambascerie gli Allobrogi, che sperava non ancora completamente pacificati dopo l'ultima guerra. Una grande rivolta degli Allobrogi era stata da poco domata, come sappiamo, quando Cesare era giunto in Gallia; e Cesare stesso aveva trovato quel popolo non del tutto pacificato. Dopo altri sette anni, l'ostilità degli


477 Allobrogi offre dunque ancora buone speranze se Vercingetorige può ancora pensare di eccitarla a suo favore: ai capi promette danaro, e a quel popolo il dominio, a guerra vinta, su tutta la Provincia. La seconda freccia punta su un altro popolo provinciale che pure conosciamo: gli Elv1 del Vivarais, da dove Cesare ha testè passato le Cevenne: Vercin getorige manda i Gabali nonchè alcune tribù alverne di frontiera contro gli Elvt. La terza freccia, infine, punta al basso Rodano, territorio di Nìrrìes, dove risiedevano i Volei Arecomici: manda Ruteni e Cadurchi a devastare il territorio dei Volei Arecomici. Tre frecce, tre minacce, con le quali sembrerebbe che Vercingetorige si fosse soprattutto proposto - e una conferma ce la darà subito Cesare stesso di chiudere le vie per le quali l'esercito romano poteva ricevere più immediato aiuto. A tutte queste eventualità, da parte romana si era provveduto con i presidii di ventidue coorti (di mercenari della Provincia stessa); presidii che, dislocati ai transiti, dovevano guardare tutta la frontiera. Ventidue coorti ben poca cosa per una frontiera anche solo da Vienne al territorio di Nìmes e anche se dislocate nei punti più importanti. Ma tutto, come ora subito sentir,emo, andò liscio. Gli Elvì si cacciarono nei guai da sè: invece di tenersi in difensiva, vennero a battaglia - ma di loro iniziativa - con le genti di confine, furono però sconfitti e, ricacciati indietro, costretti a difendersi nei loro oppidi. Non altro che una lieve deflessione, se così si può dire, del confine della Provincia in zona montuosa. Gli Allobrogi, invece, si tennero sulla difensiva felicemente: disposti fitti presidii sulla riva del Rodano, difendono il loro territorio con rigorosa vigilanza. Nulla di nuovo, cioè, sul fronte del Rodano; anche il solo tentativo di forzamento da parte del fratello di Eporedorige sarebbe stato segnalato, se non altro per dire che fallì. E sul fronte di Nimes? Nulla di nulla: I Volei Arecomici non sono neppure più nominati. Senza l'esuberanza degli Elvì, sicchè, tutto una villeggiatura, sino alla fine della campagna, si potrebbe dire che fu il secondo fronte.

CAVALLERIA GERMANICA.

Dice: « Poichè riconoscevo la superiorità dei nemici nella cavalleria e che, con tutte le strade tagliate, non potevo in nessun modo aver rinforzi dalla Provincia e dall'Italia, mi rivolsi, di là del Reno, in Germania, alle popolazioni con cui negli anni precedenti avevo conseguito rapporti' di pace, e ne feci venire cavalieri e fanti; - questi ultimi di armatura leggera e fra


la ca(la/leria addestrati a combattere. Al loro arrivo, poichè avevano cavalli non troppo adatti, li presi ai tribuni, ai cavalieri romani stessi, ai richiamati, e li distribuii ai Germani» . Con un salto brusco, e si direbbe senza nesso, dal secondo fronte siamo passati al modo come fu sopperito alla forte deficienza di cavalleria. Il più grave fallo di cui si possa macchiare popolo gallico, cioè richiesta di aiuto ai Germani, non è più tale se commesso da Cesare? Con tutte le strade tagliate, interclusis omnibus itineribus, - Cesare risponde - non potevo in nessun modo aver rinforzi dalla Provincia e dall'ltalia, nulla re ex provincia atque Italia. Necessità create dal secondo fronte, improvvisamente, e non premeditati propositi ispirati da supervalutazione del valore guerriero germanico avrebbero provocato la richiesta di aiuti oltre Reno; necessità improrogabili e sì dure da costringere ad appiedare, per il barbaro, il tribuno il cavaliere il richiamato. Ma una raccolta, notevole, di mercenari dalla lontana Germania non poteva ottenersi con un soffio; ed è ancor vivo il ricordo - un cinque mesi or sono, quando Vercingetorige ancora non disponeva degli Edui - dei quattrocento cavalieri che trovarono proficuo impiego nel quarto d'ora di Novioduno dei Biturigi. Da quanto tempo dunque Cesare raccoglieva cavalleria germanica?

LA BATTAGLIA DI DIGIONE

<< VENISSE TEMPUS VICTORJAE . . .

».

La corsa delle sei legioni dall 'Allier alla Loira, la biblica manna dopo il passaggio di questo .fiume, la marcia al paese dei Senoni sarebbero tutti avvenimenti della seconda metà di giugno. E dei primi di luglio la ricongiunzione, in territorio senone, di Labieno a Cesare. Della durata di due tre settimane, infine, i fatti, in parte contemporanei in parte successivi ai precedenti, che potrebbero prender nome dal Concilio .di Bibracte. Su tali riferimenti cronologici di larga approssimazione, il comunicato di Cesare che ora leggeremo si potrebbe collocare nella seconda metà di luglio. E' il comunicato che apre la fase finale, che però sarà lunga, della grande lotta: segnala una decisione capitale, e davvero inattesa, di Vercingetor:be; ci fa inoltre intravedere la vera situazione, finora quasi in ombra, dell'ese Lito rom ano dopo il passaggio della Loira.


479 Mentre si svolgevano codesti fatti, dice il comunicato, avvenne la riunione (si congettura a nord di Bibracte, ai confini del territorio eduo) sia delle forze galliche, provenienti dall' Alvernia (ossia da Gergovia: è l'esercito di Vercingetorige) eh e dei cavalieri comandati a tutta la Gallia. Vercin getorige, appena raccolto di tali forze gran numero, - mentre Cesare era in marcia su un lembo estremo del territorio dei Lingoni, per extremos Lingonum fìnes, diretto, allo scopo di poter meglio difendere la Provincia, quo facilius subsidium provinciae ferri pcsset, al paese dei Sequani, in Sequanos, - Vercingetorige, dunque, raccolte che ebbe forze sufficienti ai suoi fini, e pestosi naturalmente anche lui in marcia, si fermò a circa quindici chilometri dai Romani con le truppe divise in tre accampamenti, trinis castris . ..

I due eserciti sono dunque vicini nel lembo estremo del territorio dei Lingoni: subito a nord, quasi certo, di Digione. Dell'altipiano di Langres, paese dei Lingoni, ci è noto l'essenziale valore strategico: a nord ovest, Senna Aube Marna che scendono nella Celtica; a nord, la Mosa, via per la Belgica e per la Gallia renana; a oriente, il solco della Saona e quindi quello del Rodano che adducono alla Provincia. Se dunque Cesare è diretto ai Sequani (i quali non .figurano fra gli assenti al Concilio di Bibracte: ma certo era ancora in mano romana Vesonzione) se dunque Cesare, dopc aver lasciato il paese dei Senoni, - la ricongiunzione con Labieno sarebbe avvenuta, abbiamo detto, fra Joigny e Auxerre - è sul lembo meridionale del!' alti piano di Langres diretto ai Seq uani, vuol dire che l'orientamento generale della sua marcia è da occidente a oriente, dalla regione della media Yonne alla regione dell'alta Saona. Egli ha dunque già intrapresa, e ora è già a buon punto, la ritirata verso la Provincia? Il secondo fronte (in cui l'unica freccia di qualche consistenza, a vero dire, era quella sul Rodano, contro gli Allobrogi) ci ha fatto apparire effetto di necessità il ricorso a mercenari germanici, dato che, tagliate tutte le strade, niente di niente si pcteva avere dalla Provincia; lo stesso secondo fronte, ora, dovrebbe suggerirci quale fosse la vera sostanza di questo trasferimento presso i Sequani: un temporaneo atto operativo, quasi libera iniziativa, compiuto non per altro scopo - così abbiamo appena letto nel comunicato - che quello di difendere meglio, ossia più da vicino, la Provincia, quo facilius provinciae subsidium ferri posset. Passaggio dunque da uno scacchiere all'altro, dalla Yonne alla Saona, richiesto dall'andamento generale della lotta, non ritirata imposta da nemico.

Vercingetorige dunque __,, riprendiamo il comunicato - si fermò a circa quindici chilometri dai Romani con le truppe divise in tre campi ... e, con-


vocati i comandanti della cavalleria, disse che era giunto il momento della vittoria, venisse tempus victoriae: i Romani fuggivano nella Provincia e abbandonavano la Gallia, fugere in Provinciam Romanos Galliaque excedere. Ma se ciò - egli aggiunse - poteva bastare per conseguire una momentanea libertà, ad praesentem obtinendam libertatem, poco poteva significare per la pace e la tranquillità dell'avvenire: i Romani sarebbero sicuramente ritornati con maggiori forze e non avrebbero cessato di far guerra. Li si doveva quindi affrontare adottando questa tattica: assalirli in marcia, impacciati dai bagagli. Se i legionari portavano aiuto ai compagni attardandosi a difenderli, dovevano interrompere la marcia - il che avrebbe aumentato le difficoltà del loro vettovagliamento; - se invece, e questo egli riteneva più probabile, non pensavano che a salvarsi abbandonando i bagagli al loro destino, essi, così facendo, avrebbero perduto le loro cose più necessarie e l'onore. Quanto ai cavalieri nemici, - sì pochi contro molti - non c'era neppur da pensare che qualcuno di essi avrebbe osato uscir fuori dalla colonna. Perchè potessero attaccare con maggior coraggio, id quo maiore faciant animo, - così Vercingetorige concluse - egli, a minaccia del nemico, avrebbe schierato tutte le fanterie davanti agli accampamenti. E il comunicato termina riferendo anche l'immediato effetto che tal discorso ebbe su quei comandanti di cavalleria. Gridano a gran voce i cavalieri, conclamant equites, che un sacrosanto giuramento s'impone, sanctissimo iure iurando confirmari oportere: « Non abbia più casa, ne tecto recipiatur, non riveda più figli genitori moglie, ne ad liberos ne ad parentes ad uxorem aditum habeat, chiunque non abbia attraversato a cavallo, due volte, le file del nemico, qui non bis per agmen hostium perequitarit >>. I.A proposta è approvata, tutti fanno il giuramento, probata re atque omnibus iure iurando adactis ... A Bibracte, Vercingetorige, appena ottenuto il supremo comando, aveva pubblicamente dichiarato che non avrebbe affrontato il rischio di una battaglia in campo aperto; ma ecco che ora, con questa improvvisa e concitata convocazione dei comandanti della cavalleria, nel rischio di una battaglia deliberatamente si pone. Ha infatti ordinato che la cavalleria, anzichè per una guerriglia che non desse respiro al nemico in ritirata, venisse impiegata a masse: rapidi e potenti a fondo che obbligassero i Romani all'abbandono dei loro carreggi e delle loro salmerie; e ha anche ordinato - i presupposti per una battaglia ci sono dunque tutti e due - uno schieramento potenziale della fanteria a sostegno dell'azione della cavalleria.

Vercingetorige avrebbe dunque cambiato idea, a quindici giorni o poco più dalla dichiarazione di Bibracte, perchè sicuro che la marcia dell'esercito


romano da occidente a oriente significava la ritirata nella Provincia e l'abbandono della Gallia: fugere in provinciam Romanos Galliaque excedere.

La convinzione che la marcia romana da occidente a oriente che Cesare ci ha data per diretta ai Sequani - significasse una ritirata sollecitata da sì gravi angustie da potersi tramutare, con una spinta, in disfatta. Che l'intento di Cesare fosse una temporanea sosta presso i Sequani - a Vesonzione, poniamo - oppure una ritirata nella Provincia, questo Vercingetorige non poteva saperlo sin tanto che l'esercito romano era ancora, com'era, nelle terre dei Lingoni. Ed è anche da tener presente che i popoli affetti da barbarico temperamento tendono ognora a considerare la ritirata, che può essere un superiore atto di equilibrio operativo, come un insuccesso patente, se non addirittura sconfitta e sciagura; e perciò si potrebbero attribuire a Vercingetorige - poteva negare agli alleati la soddisfazione di una battaglia contro nemico in ritirata? - valutazioni troppo ottimistiche. Ma non si trattò di ottimismo; o, perlomeno, l'ottimismo, se ci fu, non sembra che si possa porre fra le più serie considerazioni. L'abbandono da parte del nemico del teatro principale della lotta, delle ricche terre dei Senoni e degli Edui, non era già, di per sè, felice promessa? Abbandono che veniva dopo il rovescio di Gergovia, dopo la ritirata da Lucezia e da Agedinco imposta a Labieno, dopo l'intervento eduo e le sue conseguenze, dopo che il voto di Bibracte aveva fatto di Vercingetorige un dio ; che avveniva nel momento, si potrebbe aggiungere, in cui tutti i popoli più si sentivano disposti - non era forse a essi lecito valutare che la guerra stesse per finire? - a distruggere i propri beni più vitali con le loro stesse mam. Solo necessità estreme e diciamo pure disperate potevano imporre a Cesare una marcia che scopriva a tutta la Gallia la insostenibilità della sua permanenza, pur a esercito riunito, nel teatro principale della lotta. E che la marcia mirasse alla Provincia o a una sosta recuperatrice presso i Sequani, - ma anche in quest'ultimo caso la stagione operativa in corso sarebbe trascorsa - ciò non poteva essere che tutt'uno nella comune, e non comune, opinione dei Galli. Quali dunque le condizioni dell'esercito ro~o nel momento in cui Vercingetorige prese l'iniziativa di attaccarlo? Che nelle terre dei Senoni, patria di Accone, gli fosse stato fatto tutt'intorno il vuoto e sottratto sin l'ultima spiga di grano? con quante perdite gli erano ritornate le quattro legioni e la cavalleria di Labieno? Ma Cesare ci ha lasciato quando era sulla destra Loira e aveva appena iniziato la marcia verso i Senoni e s'è fatto ritrovare ora, come per incanto, fra i Lingoni: un periodo di più di due settimane tenuto in ombra. 31. •

u.s.


Notizie certamente necessarie e grandiose quelle relative all'operato di Labieno e al Concilio di Bibracte: ma a spiegare i motivi della marcia dalla Loira, per il territorio dei Lingoni, ai Sequani, non ci sono che le tre labili frecce del secondo fronte.

Marcia - alla Provincia o ai Sequani è lo stesso - che ci patremmo figurare pesante : chilometri di carreggi e salmerie con i materiali d'ogni specie dell'intero esercito e col meglio delle prede; folle di Galli, servi e non servi, troppo compromessi con i dominatori; frotte atterrite di commercian ti italiani scampati da ogni parte della Gallia; il peso dei malati e dei feriti; patenti esplosioni di intolleranza che forse troppo rivelavano la stanchezza generale delle truppe da febbraio sotto pressione; la rivalsa feroce delle papalazioni contro chiunque necessità spingesse ad allontanarsi dalla colonna. Una marcia, comunque, che troppa padrona di sè non doveva apparire se Vercingetorige - anzichè esercitare quel tanto di pressione che ne favorisse il proseguimento - si sente sicuro, assalendo carreggi e salmerie, di tramutare in disfatta.

LE OPERAZIONI .

Il giorno che seguì al giuramento dei comandanti di cavalleria, Vercingetorige attaccò la colonna romana mentre era in marcia da Langres, si può ritenere, a Digione - c'è chi precisa in quel di Norges, poco a nord della città - diretta alla valle della Saona. Siamo, così, al maggior combattimento equestre di tutta la guerra gallica e alla battaglia che darà un corso decisivo a questa campagna. . Vercingetorige sembra che avesse occupato talune alture che dominavano un possibile e forse obbligato itinerario - le alture a cavallo della valle. del Suzon, secondo la detta ipatesi - della colonna romana: sull'alto i suoi tre grandi campi, e davanti a questi, verso il basso - protetto da quel modesto corso d'acqua - lo schieramento delle sue fanterie. D a tali posizioni, verosimilmente molto boscose, dovè avvenire il lancio della cavalleria gallica non appena la colonna romana - che era in marcia da nord a sud diretta alla Saona e che poteva essere profonda una quindicina di chilometri - si trovò, tutta o parte, allo scoperto. Vercingetorige impiegò la cavalleria divisa in tre raggruppamenti, in tres partes distributo equitatu: due apparvero sui due fianchi della colonna, a duobus lateribus, mentre il terzo si dette ad arrestare la marcia dello scaglione di testa, iter impedire coepit. . Cesare, appena di ciò informato, dà ordine alla sua cavalleria di affrontare il nemico anch'essa divisa in tre raggruppamenti.


Quale fosse il posto e la ripartlZlone della cavalleria romana nella colonna non è dato in alcun modo di rilevare. Tutta in avanguardia? parte in avanguardia e parte sui fianchi e sul tergo? tutta accentrata in retroguardia? Solo qualche risposta a questi interrogativi potrebbe alquanto rivelare sino a che punto i Romani fossero sul chi vive e quali misure di sicurezza avessero adottate; se, cioè, avessero notizia, ma si può dubitarne, del nemico sì vicino. Lo scontro assunse subito vaste e serie proporzioni: si combatte contemporaneamente dappertutto , pugnatur una omnibus in partibus; la colonna

I probabili luoghi -della battaglia <li Digione.


romana si ferma, consistit agmen; carreggi e salmerie sono ritirati in mezzo alle legioni, impedimenta intra legiones recipiuntur. Nessuna notizia del posto e della ripartizione delle impedimenta nella colonna in marcia, sì che l' « in tra legiones » dice poco. Se le impedimenta marciavano divise - fra legione e legione o fra gruppi di legioni - furono protette da più schieramenti a cerchio; se invece marci::ivano tutte assieme, quelle almeno con i materiali più pesanti e ingombranti, la iniziale crisi romana, per raggiungere un idoneo schieramento r,rotettivo, fu assai più complicata. Le cariche della cavalleria gallica dovettero essere, specialmente contro i fianchi della colonna, poderose e violente, e forse, più sì che no, del tutto di sorpresa. La crisi iniziale dell'intero esercito romano si rileva dal procedimento tattico adottato; un che di simile alla tattica che si potrebbe dire del respiro a fatica adottata da Titurio Sabino prima della disfatta: se in qualche punto i cavalieri romani mal resistevano o la pressione nemica era troppo forte, Cesare (ma il campo di battaglia era vasto, e perciò la più diretta azione di comando non potè non essere di tutti i maggiori comandanti) ordinava alla fanteria di avanzare in direzione di quel punto e di schierarsi: il che ritardava l'inseguimento del nemico (le ondate della cavalleria gallica tendevano, e più d'una dovette fortemente colpirle, alle fanterie) e teneva su il morale dei cavalieri con la speranza di appoggio. Tutta qui (parole sul testo latino, dal « pugnatur », quaranta) la descrizione della prima parte della battaglia; cioè proprio di quella fase grave e lunga - dall'alba, probabilmente, a metà pomeriggio - che lasciò nei posteri il ricordo di un disastro appena scansato (con qualche leggenda: Cesare stesso in primissima schiera e sfuggito alla cattura per miracolo).

Ma dopo sì rapida descrizione, Cesare pronuncia un tandem , che com'è apertura alla fase conclusiva, altrettanto sembra sospiro di sollievo. Riappaiono i mercenari germanici, cavalieri e fanti, per Cesare forse estrema risorsa in caso di catastrofe. Finalmente, tandem, i Germani, dalla destra, ab dextro latere, impadronitisi della sommità di un colle, summum iugum nacti, - doveva essere un'altura in vista a gran parte del campo di battaglia - cacciano i nemici - il raggruppamento gallico che aveva attaccato la testa o uno di quelli che avevano attaccato uno dei fianchi della colonna romana - dalla posizione, hostes loco depellunt; inseguono i fuggiaschi sino al fiume, fugientes usque ad flumen persequuntur, - dove Vercingetorige era fermo con le fanterie, e ne uccidono parecchi. I Germani, cioè, scendendo verso il fiume dal colle conquistato, si sarebbero posti fra le fanterie di Vercingetorige e gli altri due raggruppamenti di


cavalleria gallica. Avrebbero rotto, in altri termini, il contatto potenziale fra cavalleria e fanteria su cui Vercingetorige faceva assegnamento. Quando cìò fu av.vertito, le altre forze della cavalleria gallica, temendo di essere circondate, si danno alla fuga, se fugae mandant: fu allora dappertutto la strage, omnibus locis fìt caedes. Tutta qui (parole sul testo latino, dal «tandem » trentotto) la descrizione della seconda fase, la .finale, di quella battaglia di Digione che ha primario valore se ora ci farà vedere l'esercito romano, già quasi sulla valle della Saona, cioè già in ritirata dal teatro principale della lotta, mutare rotta e riprendere, come per miracolo, l'iniziativa delle operazioni. Il nucleo dei mercenari germanici non doveva però essere numericamente impressionante (due tremila uomini?); perciò lo sbandamento degli altri due raggruppamenti della cavalleria gallica potè essere piuttosto causato dalla convulsa rotta del raggruppamento che Cesare riuscì a far attaccare, c'è chi congettura, di sorpresa e alle spalle. Omnibus locis fìt caedes, fu dappertutto la strage; quattro pesanti parole di fronte alle quali la notizia che segue sembra (ma lo è?) del tutto secondaria, cronaca: tre edui della più alta nobiltà, tres nobilissimi H aedui, Coto l'avversario di çonvictolitave, che ora era capo della cavalleria, un certo Cavarillo, che aveva preso il posto di Litavicco, nel comando della fanteria, e un Eporedorige senior già condottiero contro i Sequani - sono presi e condotti a Cesare, capti ad Caesarem perducuntur. Nelle mani di Cesare tre potenti personaggi - specialmente Coto: di antichissima famiglia, come ricordiamo, e persona di grandissima autorità e cospicue parentele, fratello del vergobreto uscente - tre potenti personaggi di un paese sino a ieri collaborazionista e oggi offeso dal voto di Bibracte. Messa così in fuga tutta la cavalleria, Vercingetorige ritirò le truppe che aveva schierate davanti ai campi e iniziò senz'altro la marcìa verso Alesia, protinusque Alesiam iter facere coepit, ordinando a salmerie e carreggi di lasciar subito gli accampamenti e di seguirlo. Ritirata precipitosa che Cesare tentò, per quanto gli fu possibile, di aggravare: fatti riunire i suoi carreggi e le sue salmerie su un'altura vicìna, ove lasciò a presidio due legioni, egli inseguì i nemici sin che la durata del giorno lo permise, - ma poche, forse, le ore di luce e stanca, certamente, la cavalleria - uccidendone circa tremila della retroguardia ...

Troppo sommario il resoconto della battaglia che abbiamo denominata di Digione; battaglia che pur vide svanire in meno di un giorno la superio-


rità, che non doveva poi essere solo numerica, della cavalleria gallica sulla romana. C'è chi opina che Cesare non abbia voluto indugiare sulla sorpresa subìta dall'affranta colonna - inadeguate le misure di sicurezza e perciò disperata e forse disdicevole la crisi iniziale - per non porre neppur in implicito rilievo le sue responsabilità. Ma non regge: più volte s'è compiaciuto, come sappiamo, dell'abilità e fortuna sue nel risolvere sorprese ed errori, nè talvolta ha esitato a presentare del campo di battaglia le ognora inevitabili, e quante, miserie. Che egli abbia voluto mettere la sordina a un successo riportato dai Germani neppure è serio argomento: che altro furono quei Germani m sua mano se non strumenti di guerra? Lo scardinamento, con un sol colpo, di un raggruppamento equestre del nemico fu sintetica valutazione dell'intero campo di battaglia prima di essere esecuzione quanto si voglia valorosa. Eppure, il mancato sviluppo della narrazione, come per Accone e relativo processo di Reims, si fa notare; non trova spiegazione questa eccessiva brevità, dove quasi non figura alcun inciso vivificatore di quelli che spesso ci hanno aiutato a intravedere, talvolta meglio di lungo discono, le più importanti correlazioni dei fatti.


Cap. XIII. - ALESIA

« AD ALESIAM CASTRA FECIT >)

FORTEZZA NATURALE.

Cesare inseguì i nemici sin che la durata del giorno lo permise, uccidendone circa tremila della retroguardia ... e il giorno dopo la battaglia pose il campo davanti ad Alesia, ad Alesiam castra fecit, che era oppido dei Mandub( oppidum Mandubiorum, - clienti, pare, degli Edui. Se i luoghi della battaglia che noi abbiamo denominata di Digione furono quelli qui supposti,· e se consideriamo una pur breve sosta dopo l'inseguimento, dovè giungere in prossimità di Alesia a notte inoltrata.

L'oppido Alesia sorgeva sulla sommità di un colle molto elevato, in colle summo admodum edito loco, tale che non si poteva presumere di espugnarlo se non mediante regolare assedio, nisi obsidione. Ai piedi del colle, lungo due lati, scorrevano due corsi d'acqua, duo duabus ex partibus flumina. Da una parte dell' oppido si estendeva una piana lunga un cinque chilometri, planities patebat : da tutte le altre, esso era circondato - a poca distanza, mediocri interiecto spatio, - da alture di pari altezza, colles pari altitudinis fastigio oppidum cingebant. Rapido schizzo in cui l'esattezza topografica è congiunta, come poi risulterà, a sicura valutazione militare.

Il luogo dove sorgeva Alesia - in pos1z1one molto elevata, admodum edito Loco, - è il Monte Auxois, il quale, isolato dalle alture che lo circondano e ripido nei versanti, può sembrare più alto di quanto in effetti è: 418 metri sul livello del mare e un 16o sulla grande piana des Laumes, la planities, che lo tocca a occidente. A chi si desse a percorrere tutt'intorno le falde dell' Auxois sembrerebbe di aggirarsi in una fortezza; gli si rivelerebbero, di mano in mano: un



:\lcsia.


ridotto centrale, -che è lo stesso Auxois - tre fossati, cioè tre corsi d'acqua, di cui due interni e uno esterno, quattro grosse torri periferiche. Il ridotto centrale è infatti protetto da tre corsi d'acqua: a nord dall'Osc::, a sud dall'Oserain, entrambi piccoli affluenti della Brenne che, ad ovest, solca la piana des Laumes, la quale per un tratto di quattro o cinque chilometri costituisce l'unica porta aperta della fortezza. Le quattro torri periferiche di altezza quasi uguale a quella dell'Auxois, i colles pari altitudinis fastigia, sono - centro l'Auxois, da cui distano poco, mediocri interiecto spatio, - i monti Réa a nord e Bussy a nord e a nord est, Pennevelle _a est e a sud - est, Flavigny, il più alto di tutti, a sud. Le valli dell'Ose e dell'Oserain - i due fossati interni della fortezza non proprio ovunque strette subiscono però l'ininterrotto dominio delle pendici di quei monti; sì che per ritrovare, diciamo, respiro e passo liberi bisogna o uscire dalla fortezza portandosi nella piana des Laumes o risalire una delle cinque alture, tutte, al sommo, con spianate di notevole ampiezza. Siamo pertanto, come i nomi dei luoghi ci dicono, in una contrada della Cote d'Or, - a una sessantina di chilometri a nord - ovest di Digione dove l'erede di Alesia, l'odierna Alise Sainte Reine, sorge sul declivio occidentale dell'Auxois e perciò più in basso rispetto all'oppidum che occupava buona parte della spianata terminale del monte, la quale, a forma ellittica, è lunga un duemila metri e larga in media un cinquecento. La posizione di Alesia era dunque formidabile, e nota per fama a Vercingetorige come a tutta la Gallia, e certamente anche a Cesare.

Come non riconoscere che Vercingetorige è stato ognora ispirato da un intuito difensivo pienamente consono ali 'intento di condurre guerra di logoramento? A Rians, in quel di Avarico - un tre mesi fa se ora siamo ai primissimi di agosto - osò portare l'intero suo esercito a neppure una tappa dal romano, e qui lasciarlo senza comando su posizioni da lui giudicate inespugnabili e che tali poi si mostrarono a Cesare stesso; a Gergo via, or è circa un mese, un blocco integrale da parte romana, non possibile a ridosso dell'oppido: avrebbe richiesto, data la contorta configurazione ovunque del terreno, perimetro lunghissimo e perciò estrema dispersione di forze (pericolo che Cesare non avrebbe certamente affrontato anche con la disponibilità di tutt'e dieci le legioni); a Digione stesso, giorni or sono, la sua decisione di attaccare un nemico pur ritenuto in fuga la si trova associata all'esistenza alle spalle, a circa due tappe, della fortezza naturale di Alesia, probabilmente già alquanto presidiata prima della battaglia; ·e infine, a Digione s~essa, quasi certo il successo con l'impiego di tutta la cavalleria, ha posto le sue fanterie in condizione di poter lasciar subito, d'iniziativa, il campo di battaglia.


49 1 Nel caso di Alesia, ora, ai Romani occorrerebbe un cerchio ossidionale il meno Possibile largo che lasciasse la maggior Possibile dispùnibilità di forze per la situazione alle spalle a loro del tutto ostile. Ma in che modo? A contenere tal cerchio non si prestano nè i ripidi versanti dell' Auxois nè le valli incassate dell'Ose e dell'Oserain; e neppure sono sufficienti, senza il Possesso delle spianate terminali, i versanti volti ad Alesia delle quattro alture periferiche. Che i Romani progettino dunque un cerchio di opere che passi per le quattro spianate (del Réa, del Bussy, del Pennevelle, del Flavigny): centro quota 418 dell'Auxois. Una circonferenza che le comprenda anche solo in parte non può essere minore di dieci chilometri in linea d'aria: quanti, allora, sul terreno? Un blocco, in tal caso, che comporterebbe un'estrema diluizione delle forze intorno al grande concentramento gallico testè effettuatosi sull'Auxois con la ritirata dell'esercito; che comporterebbe lunga stasi per la costruzione di opere che consentissero, per quantità e qualità, ai Pochi di tener testa, su molti chilometri, ai molti. Il sicuro intuito difensivo di Vercingetorige nonchè la coscienza dei propri limiti militari sono dunque fuori discussione: gli sarebbero stati impùsti (come, fra l'altro, dimenticare la difesa di sè a cui fu costretto davanti all'esercito in quel di. Rians?) sia il ritorno in Alvernia appena Cesare ebbe passato le Cevenne sia la concessione di difendere A varico sia, un due settimane fa, il mutamento dell'intento del tutto difensivo - neque fortunam temptaturum aut in acie dimicaturum - nella decisione di attaccare la colonna romana in ritirata.

IL BLOCCO.

Cesare dice: « Resomi conto della posizione della città, e vedendo che i nemici erano sbigottiti dalla sconfitta della cavalleria eh'era la parte dell' esercito su cui contavano di più, max ime confidebant, - fatte esortare le truppe ad affrontare con lena i lavori, adhortatus ad laborem milites, - detti inizio alle opere di investimento, circumvallare instituit ». Impassibile un cerchio ossidionale sui versanti dell 'Auxois; inidonee le valli dell'Ose e dell'Oserain perchè sotto dominio delle alture; insufficienti i versanti interni delle alture periferiche: che si dia mano, allora, alla costruzione di un blocco ininterrotto di opere che includa anche quanto occorra delle alture periferiche.

Non v'è dubbio che la battaglia di Digione ha avuto per i Romani un effetto Positivo di prim'ordine: le forze di Vercingetorige - le uniche, per


49 2 ora, riunite ed efficienti della coalizione - costrette a concentrarsi e fermarsi in Alesia, ossia destinate, prima o poi, a pressione ossidionale. Ma accanto all'effetto pasitivo c'è_: e non è forse più certo e consistente? - il negativo : i Romani stessi da Cesare costretti a fermarsi per un assedio di non certo breve durata che ancora li sottoporrà, esausti come sono, - non è una formalità l'esortazione a intraprendere con lena i lavori - alla tattica logoratrice di Vercingetorige. Un nemico di fronte, quello di Alesia, numeroso e, non c'è da dubitarne, combattivo; nemici tutt'intorno che non hanno ancora compiuto tutto lo sforzo bellico che impone la disperazione. Il problema del vettovagliamento, per citare la più grossa incognita, insolubile se l'assedio dovesse durare qualche settimana, un mese, più di un mese. Lingoni Remi Treveri? Due alleati e un neutrale che al minimo infortunio muteranno anch'essi, ormai, rotta; tre papali, comunque, da considerare di nessun ausilio - salvo, forse, i vicini Lingoni ma paveri - ai fini delle operazioni attorno ad Alesia.

E' probabile che l'esercito romano abbia proceduto all'occupazione delle pasizioni attorno ad Alesia con una certa, per quanto rapida, progressione, e che quindi la prima sosta, diremmo di orientamento, sia avvenuta - provenendo esso dal territorio di Digione - su una delle alture orientali del1'oppido. · La seguente descrizione sarebbe perciò l'iniziale visione che i Romani ebbero di Alesia: sotto le mura, sub muro, la parte del colle volta ad oriente, guae pars collis ad orientem solis spectabat, era tutta gremita di truppe galliche, protette sul davanti da un fosso e da un muro a secco alto circa un metro e ottanta. Il versante orientale del!' Auxois, quasi saldato al Pennevelle da un avvallamento pcco pronunciato e di non difficile percorrenza, era infatti il meno forte.· Ma truppe in allarme protette da lavori campali erano, anche se non detto, tutt'intorno all'oppido, specie là dove i declivi offrivano, come quello dove sorge Alise Sainte Reine, qualche ripiano. Vercingetorige era dunque sicuro dell'inespugnabilità di Alesia: a settentrione e a mezzogiorno ripidi versanti sbarrati dall'Ose e dall'Oserain; tutta dominabile dal versante occidentale la piana des Laumes e maggiormente patenziato, truppe e lavori campali sul declivio, l'orientale. Una sicurezza, si potrebbe aggiungere, accompagnata da mistico afflato: quei luoghi - l'unità orografica, maéstosa, delle cinque alture - ospitavano leggende e templi grati al sentimento religioso dell 'intera Celtica.

Ad Avarico Cesare s'era impadronito di quell'unica diga d'accesso alla città e a Gergovia dello scoglio avanzato di La Roche Bianche: ma questa


493 volta, costatata l'impossibilità dell ' « oppugnatio », s'è subito deciso per il blocco: circumvallare imstituit.

Dice: « I lavori intrapresi dai Romani si sviluppavano su un circuito di circa quindici chilometri». Quindici chilometri di opere campali, cioè un vallum, fosso e terrapieno, tutt'intorno all' Auxois per chiudervi e fronteggiare le forze di Vercingetorige. Scavi archeologici hanno rivelato il percorso del fosso con attendibile approssimazione: - piana des Laumes, ne! tratto fiancheggiante le posizioni di Alesia; - sinistra Oserain, lungo le pendici del Flavigny; - estremità occidentale del Pennevelle fra Ose e Oserain; - riva destra dell'Ose, lungo le pendici del Bussy; - pianoro di Grésigny ; - declivio sud del Réa. I campi erano collocati su posizioni adatte, castra opportunis locis posita, e in vari punti del circuito erano stati costruiti ventitrè ridotti, castella tria et viginti; - ridotti che di giorno costituivano posti di vigilanza contro improvvise sortite e di notte, muniti di vedette, excubitoribus, erano tenuti da forti presidii, noctu firmis praesidiis. I campi, e a maggior ragione i ridotti, o fortini che dir si voglia, erano anch'essi cinti da vallum; gli uni e gli altri costituirono quindi veri e propri capisaldi alle spalle ·del vallum perimetrale di quindici chilometri, il quale aveva per fronte - come si deve ben fissare - Alesia. Circa la singola dislocazione sia dei campi che dei ridotti, dà ancora qualche aiuto l'archeologia: ma mentre per i campi gli scavi finora eseguiti danno indizi perlomeno sufficienti, debolissime, ove esistono, sono invece le tracce dei ridotti; - i quali però, per assolvere la loro funzione, non potevano che trovarsi a ridosso del vallum perimetrale e l'uno dall'altro a non lungo intervallo per un reciproco, qualora possibile, ausilio. I campi delle dieci legioni sarebbero stati quattro: due sul Flavigny, - in uno quasi certamente il quartier generale di Cesare - uno sul Bussy, uno su un declivio del Réa; quelli della cavalleria, imprecisabile il numero, là dove quest'arma più poteva trovar impiego: i più nella piana des Laumes e qualcuno nel pianoro di Grésigny, unici sbocchi agevoli qualora Vercingetorige avesse voluto abbandonare quelle posizioni. Il blocco di Alesia meglio rivela, così, la sua imponenza e funzione: un lungo vallum, che può essere prontamente presidiato sia di giorno che di notte dall'accorrere delle truppe dai campi e dai ridotti e che, in grandissima parte protetto da due corsi d'acqua, è, dai ridotti, sotto ininterrotta vigilanza diurna; quattro grandi campi di fanteria su tre delle quattro alture periferiche.

Un'organizzazione difensiva generale ben profonda rispetto a chi attacchi da Alesia: l'attaccante troverebbe - stando a quanto sin qui detto : ma


494 verrà il resto - prima il vallum, poi i castella, e infine, estremi baluardi sulle alture, i castra. Inoltre: in gran parte impregiudicato il movimento - ossia la potenzialità offensiva - di tutto l'esercito se da ciascun campo possono muovere forze riunite per azioni autonome a breve raggio o per reciproco appoggio.

IMMEDIATA REAZIONE.

Ma la previsione di Vercingetorige, prima che i Romani si accingessero ai lavori o quando li avevano appena iniziati, era stata - vogliamo aggiungere un certamente? - questa: il blocco, sì, ma a capisaldi; il che avrebbe resa intercettabile, e anche sanguinosa, la comunicazione di Alesia con l'esterno, mai però avrebbe potuto precluderla del tutto.

Vercingetorige ricorse pertanto a un 'immediata reazione appena avvertì, anche solo dallo scaglionamento dei lavoratori, che i Romani avrebbero attuato un blocco, nientemeno, ininterrotto.

Reagì subito lanciando nella piana gran parte della cavalleria. Mentre i lavori erano in corso, avvenne un combattimento di cavalleria, fit equestre proelium, su quella pianura, in ea planitie, che, come s'è detto, si stendeva per un cinque chilometri fra le alture. Nel tratto della piana des Laumes che fiancheggia a occidente le posizioni di Alesia. La cavalleria attaccante doveva essere numericamente notevole, parecchie migliaia, specie in rapporto alla romana: ma questo combattimento, quale che fosse il numero dei cavalieri, è soprattutto indice che la cavalleria gallica aveva, in complesso, presto superato la crisi dello sbandamento di Digione. Nè si sa da quale delle posizioni sotto l'oppido l'attacco partì; sebbene il ripiano dove oggi sorge Alise Sainte Reine presenti la base di partenza più idonea per un'azione sulla sottostante pianura. Quasi certamente il giorno dell'attacco gran parte della fanteria romana era già dislocata, e al lavoro, sulle altu~e ; ma vedremo presto come non si possa escludere che forze di fanteria, in numero maggiore delle stabilite, fossero trattenute nella piana des Laumes, forse in attesa che giungessero a termine le opere di sbarramento, là più che altrove, sino a quando non fossero giunte a compimento, vulnerabili. Se la cavalleria gallica scese dal ripiano di Alise, i Romani subirono l'attacco, tanto fu rapido, quasi di sorpresa.


495 Con estremo accanimento, summa vi, si combattè da ambedue le parti, ab utrisque contenditur. LA situazione si fa critica per la cavalleria romana e Cesare invia di rincalzo i Germani, Germanos submittit, facendo schierare le legioni davanti ai camfi, pro castris, per parare qualche improvvisa irruzione della fanteria nemica. L'intensità e vastità della lotta in corso gli poterono far temere che Vercingetorige tentasse con tutte le sue forze - nel momento che i Romani erano in crisi forrificatoria - lo sblocco. Aggiunto, così, l'appoggio delle legioni, - appoggio, dunque, di forze prontamente disponibili - la cavalleria romana si rinfranca. I nemici, messi in fuga ...

Messi in fuga, anche questa volta, dai Germani. Ma la fuga della cavalleria gallica - o anche solo la ritirata se l'ordine era di non impegnarsi a fondo all'apparire delle legioni - porta, in questa occasione, tristo contrassegno: un'imprevidenza, imputabile a chi si sia, ne fece infausto preannunzio al destino di Vercingetorige.

I cavalieri nemici, messi in fuga, ... poichè le lor porte erano state lasciate troppo strette, angustioribus portis relictis, - stretti cioè i varchi nel muro a secco del campo trincerato dai quali la cavalleria era defluita in condizioni d'animo e con procedimento assai diversi da quelli del ritorno impacciandosi a vicenda, davanti a tali varchi si accalcano, se ipsi impediunt atque coartantur. Allora, a tal vista, sino a quelle fortificazioni, la cavalleria germanica, con più violenza, li insegue: ne fa grande strage, fit magna caedes: non pochi coloro che, abbandonati i cavalli, tentano di passare il fosso e scalare il muro. Tragico intoppo (verificatosi più specialmente, c'è chi opina, sul versante dell'Auxois che domina l'Oserain) che Cesare pensò subito, il più che potè, di aggravare: fece avanzare le legioni che aveva testè schierate davanti al vallo. E può darsi che avanzassero, là dove erano in vista di Alesia, anche le legioni, già in allarme, del Flavigny e del Réa. La ritirata della propria cavalleria aveva già scosso l'animo delle truppe galliche del campo trincerato; ma quella sì tempestiva dimostrazione delle fanterie romane vi apportò il panico: anche i Galli ch'erano dentro il campo trincerato, intra munitiones, si turbano: credono che i Romani avanzino per attaccarli, gridano all'armi, ad arma conclamant. Gli atterriti, e non pochi, irrompono nel!' oppido: Vercingetorige fa chiudere dell' oppido le porte perchè gli accampamenti esterni non si vuotino.


La cavalleria germanica rientrò dopo aver uccuo molti nemici e preso parecchi cavalli.

Quali risultati positivi poteva dare a Vercingetorige, nella situazione che l'assedio totale avrebbe determinato, questa sortita della cavalleria? Una diminuzione, potrebb'essere la risposta, della potenzialità, già ridotta, della cavalleria romana. Non altro. Perchè un duraturo possesso della porta della fortezza, ossia della piana des Laumes, avrebbe richiesto l'intervento delle fanterie e, favorevole, una battaglia campale; il che, per ora almeno, era senz'altro da escludere. Diminuzione di potenzialità anche in caso di successo non completo: anche nel caso, come stava avvenendo senza l'intoppo, di ritirata dopo impegnativo combattimento. Che se poi l'esito fosse stato una vittoria, questa, correggendo Digione, avrebbe recato danno irrimediabile ai Romani, che ora della cavalleria hanno bisogno come dell'aria per procacciarsi il sostentamento. Risultati positivi, apprezzabili anche se non decisivi, può dunque darsi che si proponesse Vercingetorige impiegando anche questa volta tutta la cavalleria: è che l'operazione - vuoi perchè bisognava far presto altrimenti gli sbarramenti in costruzione nella piana l'avrebbero resa impossibile vuoi per imperizia militare - non fu preparata adeguatamente; e può anche darsi che non lo fosse affatto.

LEVA IN MASSA.

Il doloroso episodio fu però per i Galli non del tutto impro.ficuo se affrettò la seguente decisione: Vercin getorige decide di far partire di notte tutta la cavalleria, omnem ab se equitatum noctu dimittere, prima che le fortificazioni romane siano compiute, prius quam munitiones per.ficiantur. Decisione fulminea in cui i motivi militari meramente contingenti - la cavalleria non poteva trovar impiego nel cerchio ossidionale una volta completato nè gli assediati avrebbero potuto sostenerne il mantenimento - sono di gran lunga superati da quanto ora sentiremo. Vercingetorige dà ai partenti - ai principes comandanti dei contingenti di cavalleria - il seguente incarico: Ciascuno di voi ritorni nel proprio paese e vi chiami a raccolta per la guerra tutti quelli che l'età rende atti alle armi, omnesque qui per aetatem arma ferre possint. Valendosi dei poteri conferitigli a Bibracte, egli 1unque ordina che tutti gli uomini validi della Celtica e della Belgica debbano partecipare alla liberazione di Alesia. Ordina la leva in massa.


497 Rammentate ciò che io ho fatto per voi: vi scongiuro dunque di darvi pensiero della mia salvezza, non abbandonando alla crudeltà dei nemici chi ha fatto tanto per la libertà di tutti. Precisò l'entità della posta in giuoco: Se doveste non impegnarvi a fondo, ben ottantamila uomini, tutta gioventù scelta, periranno con me, milia hominum delecta octoginta una secum interitura. Svelò (e fu imprudenza grave se lo fece apertamente) la consistenza dei suoi approvvigionamenti: Fatto un calcolo, ho grano appena per trenta giorni, exigue dierum se habere triginta frumentum; e con rigoroso razionamento potrò resistere poco più, paulo longius. Date queste direttive, circa alle nove di sera, secunda vigilia, in segreto, silentio, attraverso i luoghi ancora liberi del blocco, qua opus erat intermissum, egli fa uscire la cavalleria. Più si complica, così, per la ristrettezza del tempo, la leva in massa: pena l'inutilità, essa deve dare i suoi frutti prima dello scadere dei « trenta . . .' g1orm e poco p1u ».

La cavalleria gallica lasciò dunque le posizioni di Alesia. Ossia: attinse e riuscì a superare inavvertita uno dei pochi e obbligati sbocchi di quei luoghi configurati a quasi ermetica fortezza. Risalì, probabilmente, le valli dell'Ose e dell'Oserain, dato che la piana des Laumes era ancora, si potrebbe dire, in allarme. Se però l'esodo non fosse riuscito, è difficile immaginare dove i popoli in rivolta - assente e come perduta tutta la loro indispensabile potenzialità equestre, e non più ricolmabile tal vuoto - avrebbero potuto ritrovare la fiducia per continuare la guerra; nè, in conseguenza, che cosa sarebbe avvenuto, e a non lunga scadenza, di Alesia. Sicchè Cesare avrebbe subìto in pieno, questa volta, - o perchè non ebbe la possibilità di farla fallire o perchè non la preavvertì affatto - la rapida iniziativa del suo avversario. Il quale condusse forse personalmente l'operazione a cui era affidato il suo destino; e fu, diremmo, infaticabile e insonne sino a che non vide allontanarsi l'ultimo cavallo. Presto o meno presto, i Romani sarebbero stati costretti alla lotta su due fronti: l'interno contro Alesia, l'esterno contro un esercito di soccorso. Tutti i punti della linea d'investimento romana - a cui non sono più sufficienti, come presto sentiremo, quindici chilometri - risulteranno allora non abbastanza forti, e i più addirittura deboli, rispetto alla massa di armati che su uno e su più di essi - e meglio se su uno e contemporaneamente - riverserà e Alesia e l'esercito di soccorso. E poi, chi vettovaglierà l'esercito romano impegnato su tanti chilometri di lavori, cioè senza forze disponibili per procacciarsi il cibo nel paese ostile

32. -

u.s.


che lo circonda? e, peggio, quando sarà esso stesso come assediato dal sopraggiungere dell'esercito di soccorso?

Ma la situazione militare che sta per crearsi presenta anche per i Galli un punto molto debole; il punto, verrebbe voglia di dire, fatale, tutto evidente nel seguente interrogativo: l'esercito di Alesia o l'esercito di soccorso ha ora maggior bisogno di Vercingetorige in persona? L'esercito di Alesia è inquadrato dalle circostanze. N elle condizioni in cui si trova, se non si ribella, non potrà che coraggiosamente prodigarsi; ha compito operativo di non difficile accezione: la sua azione dovrà regolarsi - sia contem poranea o la preceda o la segua - su quella dell'esercito di soccorso; e se anche ci attendiamo da esso l'azione determinante, la rottura, è perchè, a p~rte la sua grande entità num erica, si tratta di esercito da tempo costituito e orm ai già alquanto omogeneo e agguerrito. Il discorso è tutt'altro per l'esercito che dovrà nascere dalla leva in massa. I Galli, è vero, sono generosi e focosi: ma, pur tuttavia, ognora immersi sino ai capelli nei particolarismi della propria civitas su cui può trovare facile innesto il sillogismo capzioso delle edue nature. Ubbidiranno essi alla direttiva capitale di questa guerra di fare il vuoto attorno al nemico costretto all'immobilità? Com piranno il massimo sforzo per far giungere ad Alesia i loro contingenti prim a della fame? Contingenti senza reciproca coesione, quasi solo num ero; un'immensa moltitudine che avrà valore solo se troverà chi sia capace di dominarla e, senza indugio, lanciarla e pressarla contro le fortificazioni romane in contemporaneità o quasi con l'esercito di Alesia, sì che possa travolgere (e lo potrebbe) qualsiasi resistenza. Ma è anche probabile, diremmo, che Vercingetorige non fosse afflitto da nessun dilemma quando prese la sua decisione. Come avrebbe potuto pretendere la liberazione dell'esercito di Alesia da lui lasciato o, secondo altri (chè avviene sempre così), per am bizione abbandonato? avrebbe avuto riconfermato il comando supremo quando, senza esercito, nulla _potesse imporre? Nessun dilemma, forse : e non senza speranze dovè dar inizio, appena partita la cavalleria, all'opera che la nuova situazione richiedeva. Requisisce e pone sotto il suo diretto controllo il grano ovunque esistente, frumentum omne: la pena di morte a chi non obbedisce. Divide, tanto a testa, vintim, la gran quantità di bestiame che i M andubii avevano raccolto, per porlo in salvo, nell'oppido, pecus cuius m agna copia a Mandubiis com pulsa (notiamo questo notevole apporto dei Mandubii). Comincia a distribuire il grano a razioni molto ridotte, parce et paulatim. Ritira nell'oppido tutte le truppe collocate nel terreno circostante, copias om nes in oppidum recepit. Sicuro ormai che si trattava di assedio e non di attacco, sentì forse la necessità di contrarsi per un maggior controllo delle provvigioni.


499 Con tali provvedimenti, si prepara ad attendere il soccorso della Gallia e - in relazione a quanto prevedeva circa la misura e il modo di tal soccorso a predisporre l'azione militare sua.

LA

CONTROVALLAZIONE.

Cesare aveva posto subito mano, come abbiamo appena inteso, ai lavori per il blocco: un vallum di quindici chilometri - sostenuto alle spalle da veotitrè ridotti e da un certo numero di campi - che fronteggiasse e privasse d'ogni comunicazione l'oppido Alesia. Dice: « Informato di tali fatti da disertori e prigionieri, feci iniziare i seguenti lavori di fortificazione, haec genera munitionis ... ». Avvenuto l'esodo della cavalleria gallica e informato del progetto della leva in massa, s'avvede che s'è complicato, e di gran lunga, il problema fortifìcatorio. Perchè alle opere già in corso per il blocco di Alesia - la « controvallazione » - bisogna ora aggiungere opere di difesa - la « circonvallazione » contro l'esercito di soccorso, certo assai più numeroso di quello di Alesia. Nessuna aliquota delle forze impegnate nella controvallazione lunga quindici chilometri pctrà, è evidente, essere distolta dalla sua funzione. Impossibile pertanto ogni difesa mobile, ossia la disponibilità di una massa di manovra contro J'esercì to di soccorso; anche se a ciò bastasse, per assurdo, una sola legione. Non rimane perciò che la difesa statica: altri luoghi fortificati idonei a costituire, alle spalle della controvallazione, un secondo fronte. Due anelli ossidionali concentrici rispetto ad Alesia: l'interno costituito dalJe opere di controvallazione, l'esterno da opere di circonvallazione : ecco quanto, schematicamente, occorrerebbe. Ma come possibile un anello duplice se le forze sono appena sufficienti, o addirittura insufficienti, per uno? Non occupiamocene, per ora. Ora, contrariamente a quanto potrebbe indurci a credere la prima impressione, è la controvallazione, l'investimento di Alesia, che precipuamente conta. Perchè quanto più la controval1azione, concezione e attuazione, potrà essere tenuta da minor numero di forze tanto maggiori saranno le forze! disponibili per la circonvallazione. La circonvallazione verrà dunque da sè, a suo tempo. Stiamo ora a vedere che cosa Cesare fece per rendere al massimo redditizia la controvallazione.


500

Dice : « Iniziai i seguenti lavori dì fortificazione: ... feci scavare un fossato largo circa sei metri, a pareti diritte, in modo che fosse largo al fondo quanto alt' apertura ». Un fossato che costituisse l'ostacolo più avanzato ad attacchi da Alesia. Stando agli scavi il tronco sarebbe uno solo, di parecchi chilometri, sulle pendici occidentali dell' Auxois, là dove queste sono ultimo gradino alla piana des Laumes; ma non si può escludere, appena ci sarà rivelato lo scopo di quest'opera, che altri tronchi potessero esistere per altri minori sbocchi di quelle posizioni: specialmente, fra Ose e Oserain, all'estremità occidentale del Pennevelle. Dice: « Posi fra tal fossato e tutte le altre fortificazioni una distanza di circa centoventi metri ... ». Che il fossato fosse a centoventi metri, più o meno, dalle altre fortificazioni, questa, a ogni modo, la sua funzione: un attacco degli assediati - che tendesse a uno o più degli sbocchi - prima di raggiungere il vallum perimetrale sarebbe stato rallentato da fossato non facilmente sormontabile. Dice infatti: « Ciò feci perchè una massa nemica ( dato che ero stato costretto a servirmi di un'area sì grande. tantum spatium, per la quale non era facile un presidio ininterrotto di truppe, corona militum, lungo tutto il perimetro) non potesse di sorpresa o durante la notte, piombare sulle fortificazioni, nè le mie truppe sui lavori, durante il giorno, fossero a portata del tiro nemico ». Primo frangente, dunque, a un attacco da Alesia sarà un fossato largo circa sei metri, e certo anche profondo, a pareti diritte; sorvegliato, si sottintende, e protetto. Dice: « Interposto lo spazio di centoventi metri, feci scavare due fossati larghi oltre quattro metri, entrambi di uguale profondità: e il più interno, interiorem, feci riempire - là dove consentito dalle depressioni della pianura - di acqua derivata dal fiume, aqua ex flumine derivata complevit ;>. Q uesto lavoro - di cui sono state ritrovate sufficienti tracce - quasi certamen te fu eseguito solo nella piana des Laumes; ossia sullo sbocco più idoneo a un'azione nemica contemporanea dall'interno e dall'esterno. Secondo frangente a un attacco in forze degli assediati saranno dunque questi altri due fossati, fra loro pressochè paralleli, a sbarramento della piana des Laumes, fra Ose e Oserain; e allagato per lunghi tratti con le acque di un fiume (l'Oserain) il fossato « inter_iorem », cioè il fossato, rispetto al nemico, più avanzato. Ma il terzo fossato non altro sembra che lo stesso vallum perimetrale. Sicchè - sempre riferendoci alla piana des Laumes - il terrapieno, l'agger, del vallum perimetrale avrà sotto di sè il proprio fossato nonchè, a breve distanza, un fossato d'arresto allagato. Avrà . inoltre davanti a sè, a centoventi metri o quanto si sia, - primo frangente ad attacco da Alesia il fossato, alto sei metri nonchè di notevole larghezza e a pareti diritte.


501

Alto e robusto il terrapieno, o agger, del vallo perimetrale. Dice: « Alle spalle dei fossati, feci costruire un terrapieno che con la palizzata raggiungeva un'altezza di circa tre metri e mezzo. Lo completai con parapetto e merli, e sulla linea di congiunzione della palizzata col terreno feci disporre grandi « cervi » che ritardassero al nemico la scalata. Tutta l'opera fortificatoria feci circondare di torri, turres toto opere circumdedit, fra loro intervallate poco più di venti metri, pedes octoginta ». Un attacco da Alesia diretto alla piana des Laumes - per considerare il caso più importante - sarebbe dunque stato sottoposto a successive e difficili prove: il superamento del fossato ai piedi dell' Auxois; il tumultuario riammassamento degli attaccanti nel susseguente spazio di centoventi metri o quanti che fossero; l'indugio, sotto pieno tiro dal terrapieno, nel superamento del fossato allagato e poi del fossato del vallum perimetrale; quasi alla sommità, del terrapieno in contropendenza, e proprio al momento dell'assalto, da distruggere o da rimuovere, un ostacolo ritardatore consueto nella fortificazione romana (i cosiddetti « cervi » ancorati alla palizzata e al terreno, ossia grandi rami nudi - il fogliame avrebbe impedito al difensore la visibilità - con le punte rivolte all'attaccante); e, infine, la lotta ravvicinata sino al corpo a corpo per il superamento, con scalata o distruzione, della palizzata protettiva, sulla quale i merli avevano la funzione di intercettare proiettili. E tutto questo sòtto visuale e tiro di un apparecchio a noi noto, di facile fattura e grande rendimento: le torri fisse di legno a ridosso del terrapieno disposte, a venti metri l'una dall'altra, come abbiamo appena inteso, lungo tutta la fortificazione (ma probabilmente solo nella piana des Laumes).

Dice (inciso assai più importante di quanto non appaia a pnma lettura): « Occorreva, contemporaneamente, fornirsi di materiali, procurarsi il grano, non interrompere la costruzione di opere di sì vaste proporzioni, et materiari et frumentari et tantas munitiones fieri: sì che le mie truppe si trovavano ognora ridotte di numero per i distaccamenti che, a cagione di quei rifornimenti, dovevansi inviare lontano . .. ». Chi non ricorda la feroce guerriglia dell'anno scorso condotta dagli Eburoni contro colonne romane? la pressione ininterrotta, un quattro mesi or sono, di Vercingetorige sulle retrovie dei Romani ad Avarico? e, appena due mesi fa, a Gergovia, Cesare che esita a iniziare lavori d'assedio se prima non ha provveduto ai rifornimenti promessigli dalla dubbia politica edua ? Ma qui, ad A]esia, - a quanto sembra di poter senz'altro dedurre dal passo appena letto - niente di tutto questo; proprio qui, i distaccamenti romani - quei tentacoli che, recisi, potrebbero dare la vittoria alla Gallia escono, si allontanano, rientrano nelle loro linee senza che sia segnalato alcun contrasto.


Non subiscono nessun attacco in forze - e questo può concedersi se i Galli evitano la battaglia prima della grande radunata; - si impossessano dei materiali che occorrono - e questo, trattandosi per lo più di legname, può passar~ - ; ma trovano anche - e qui il mistero - tanti viveri da scansare la fame e costituire, come presto sentiremo, una riserva di viveri a tutto l'esercito, relativamente alle circostanze, rilevante.

DIFESE ACCESSORIE.

Dice: « Più volte i Galli tentarono di danneggiare le nostre opere e di fare violente sortite da più porte dell' oppido, eruptionem pluribus portis summa v1 ». Tentativi di rallentare o interdire la prosecuzione di quei lavori, dei, fossati soprattutto, che avrebbero pregiudicato il movimento degli assediati verso quei punti della linea romana - la piana des Laumes, principalmente -dove era previsto e concordato, come poi risulterà, l'incontro con l'esercito di soccorso. Dice: « E perciò - stante gli insopprimibili bisogni logistici e i frequenti disturbi ai lavori - pensai di completare le opere in corso con difese accessorie, in modo che la co_ntrovallazione potesse essere difesa da un minor numero di truppe >> . Difese accessorie; cioè, a integrazione di tutte le opere finora segnalate, la costruzione di altri ostacoli - in pianura come sulle alture - a sbarramento degli accessi più agevoli, nonchè intorno a posizioni importanti e ovunque possibili pregiudizievoli infiltrazioni o l'aggiramento dei capisaldi. Siamo insomma ai tristi espedienti, rudimentali ed efficaci, - e Cesare insiste nella loro descrizione per gli atroci effetti che ne ottenne su nemiq) più ignaro che improvvido - che hanno più volte caratterizzato la guerra di posizione. Cippi, gigli, triboli: le agrodolci denominazioni di tali ostacoli nel corrente linguaggio delle truppe romane. Questo il genere d'ostacolo che i soldati chiamavano « cippi », cìppos appellabant: tronchi d'albero o anche rami molto robusti si scortecciavano e appuntivano all'estremità; si scavava una serie di buche profonde circa un metro e mezzo e nel loro fondo piantapansi tali tronchi o rami legandoli nel basso perchè non potessero essere divelti: naturalmente, la parte che restava fuori buca era lasciata, a simulazione, ramosa. Tali ostacoli .erano su una profondità di cinque linee, quini erant ordines, congiunti e intrecciati fra loro: chi vi entrasse incappava nelle punte acutissime di quei pali. Questo l'ostacolo chiamato, dalla somiglianza col fiore, « giglio », lilium appellabant: davanti alla fascia di « cippi », un'altra fascia di buche, - distribuite come il cinque dei dadi - scavate per una profondità di un novanta


centimetri, con apertura che sempre più si restringeva verso il fondo - il calice del giglio. Qui si calavano paletti rotondi - i pistilli - della grossezza di un femore, appuntiti e induriti a fuoco: non sporgevano però dal suolo più di quattro dita. Ogni paletto, per renderlo più fermo e saldo, era in basso rincalzato con terra per un trenta centimetri: il resto della buca, per nascondere l'insidia, era ricoperto di vimini e virgulti. Se ne fece una fascia su otto linee, octoni ordines, e l'una linea distante dall'altra un novanta centimetri. Questo, infine, l'ostacolo chiamato « tribolo », stimulos nominabant: davanti a/La fascia dei « gigli », si piantavano sotterra pioli della lunghezza di un trenta centimetri, da cui sporgevano uncini dì ferro, e si seminavano qua e là, dappertuto, a piccola distanza. Sicchè i Galli attaccanti da Alesia avrebbero trovato davanti ai lavori di controvallazione una fascia di terreno cosparsa dell'ostacolo più speditivo, « triboli », indi le otto linee di « gigli », indi la fascia di « cippi».

Più evidente, così, il pensiero di Cesare appena ebbe valutato le conseguenze della leva in massa: rendere inespugnabile, bieco, il fronte che doveva chiudere gli ottantamila. Se infatti questò fronte non desse garanzia di stabilità, sin quasi la sicurezza, tutto il resto, comunque fatto o condotto, non potrebbe che risultare compromesso.

LA

CIRCONVALLAZIONE.

Dice : « Portata a termine la controvallazione, his rebus perfectis, - tenendomi al terreno più pianeggiante che la conformazione di quei luoghi consentisse - feci por mano, su un circuito di ventun chilometri circa, a opere fortificatorie aventi le stesse caratteristiche delle prime: ma rivolte contro nemico esterno, contra exteriorem hostem. E ciò perchè le forze della controuallazione non potessero essere minacciate anche alle spalle da nemico per numero soverchiante». Dette mano, in altri termini, al circuito, - ventun chilometri - di circonvallazione. E nessuna contemporaneità, come potevasi pensare, fra controvallazione e lavori destinati a fronteggiare l'esercito di soc:corso; perchè solo la concreta posa della controvallazione, di posizione in posizione, poteva meglio consentire l'impostazione più economica - richiesta anche dallo sforzo lavorativo, immane, a cui erano sottoposte tutte le truppe - delle opere di circonvallazione.


Ma la differenza di soli sei chilometri fra i due circuiti ci dice già che questo secondo anello non Poteva essere del tutto staccato e distinto dal primo. Stando agli scavi, - ma lo si può arguire anche senza - la circonvallazione fu effettuata a tronchi, sui noti punti più sensibili delle posizioni: un tronco a sbarramento della piana des Laumes, dalle pendici del Réa a quelle del Flavigny; un altro, alla parte opf>Osta, a sbarramento della pendice del Pennevelle, la quale, fra Ose e Oserain, quasi si insinua nell'Auxois; altri tronchi, più o meno lunghi, sulle spianate delle alture periferiche tenute dalle legioni. E ' però da dubitare che a protezione di tali tronchi fossero stati costruiti gli stessi complessi ostacoli della controvallazione; ogni tronco non fu probabilmente che un vallum rafforzato sul davanti da cippi gigli triboli (qua e là ritrovati, in piano come sulle alture). Un altro dato molto importante offerto anch'esso dagli scavi è che i tronchi di circonvallazione, paralleli alla controvallazione, distavano da questa solo un duecento metri. Una breve corsa, perciò, per passare da un fronte all'altro.

Sicchè, ora che vediamo il tutto, - e come animata la naturale configurazione di quei luoghi - riscontriamo che è stata creata un'organizzazione fortifìcatoria che, appunto perchè consente l'immediato avvicendarsi delle forze sui due fronti, può moltiplicare le Possibilità operative di tutto l'esercito.

VIVERI PER TRENTA GIORNI.

Dice: « E perchè non si fosse costretti a far uscire gli uomini dalle f o,:• tificazioni nei momenti di pericolo, ordinai che tutti si provvedessero di foraggio e grano per trenta giorni, dierum triginta pabulum frumentumque habere omnes convectum iubet ». Non sappiamo quando un tal ordine fu dato e quando Potè dirsi eseguito. Se i « trenta» furono regolati sui « trenta e poco più » di Vercingetorige, - con inizio dunque ai primi di agosto, partenza della cavalleria - il vantaggio in viveri di Cesare sarebbe stato ben roco; che se invece, come sembra più probabile, i « trenta » ebbero inizio. a lavoro fortifìcatorio inoltrato - una, due, tre settiman e dalla partenza della cavalleria - il vantaggio di Cesare aumenterebbe di parecchio, di molto, di moltissimo. Quesito che con tutta la sua pesantezza si riaffaccerà da sè, fra non molto: ma sempre senza risPosta. Cesare, comunque, è stato a un certo punto in condizione - e non ha esitato a dichiararlo - di ordinare l'approvvigionamento, per trenta giorni, di circa cinquantamila uomini e grandissimo numero di quadrupedi.


Fra qualche anno, per altra memorabile circostanza della guerra civile, egli detterà: « I soldati ricordavano che ad Alesia, sebbene sottoposti a gravi privazioni, e anche molto più ad Avarico, avevano avuto ragione di potentissimi popoli». Sì, però mentre ad Avarico fummo ben richiamati alle cause delle privazioni, qui, ad Alesia, sebbene ognora sottintesi giorni magri, nessun cenno al travaglio per gli approvvigionamenti.

Omissione inspiegabile in situazione come questa. Quando invece subito dopo Gergovia ci è stato puntualmente segnalato come rinvenimento senza contrasto, anche se casuale, sulla destra Loira, di grossi quantitativi di grano e bestiame. E se anche si volesse pensare, ma non ve n'è motivo, a un approvvigionamento per un minor numero di giorni, ciò nulla toglierebbe alla costatazione che nessuna opposizione ai rifornimenti, o perchè non vi fu o perchè proprio trascurabile, è segnalata tutt'intorno ali'esercito romano.

IL GRANDE ESERCITO GALLICO

« ÙMNES

ALACRES ET FIDUCIAE PLENI

».

Mentre questo avveniva ad Alesia, i Galli, - cioè i principes a cm era stata ordinata la leva in massa - convocato un concilio ... Ed è da presumere che anche questo concilio, subito dopo che la cavalleria ebbe lasciato Alesia, sia stato tenuto in Bibracte; ora che la forza degli eventi, assente Vercingetorige, ha inaspettatamente riportato al primo posto gli Edui.

I capi a concilio stabiliscono: non di chiamare alle armi tutti gli uomini validi, non omnes qui arma ferre possent convocandos, come voleva Vercingetorige, ut censuit Vercingetorix, ma di imporre a ciascuno per il suo paese un determinato contingente, certum numerum cuique civitati. Rifiutata la leva in massa per le seguenti considerazioni: il timore di non poter, nella confusione che avrebbe creata sì grande moltitudine, nè arginare le sfrenatezze, nè, come la comandabilità in battaglia richiedeva, tener distinti per popolo i contingenti, nè - e questo il motivo certo dominante - provvedere al vettovagliamento, nec frumenti rationem habere.


50 6 Solo la leva in massa, cioè solo il numero, avrebbe potuto sommergere e superare, comunque realizzata, la difesa romana? Ma le ragioni che costrinsero i capi gallici a deporre il progetto della leva in m assa sono, come ognuno avverte, valide; e potrebbero restar tali - diremmo - anche quando l'interrogativo si riaffaccerà da sè, più concreto, in momenti decisivi delle operazioni attorno ad Alesia.

Il contingente imposto a ciascun popolo fu però tutt'altro che lieve: - Edui e loro clienti: 35mila uomini; - Alverni e loro tradizionali clienti: _55mila; - Sequani, Senoni, Biturigi, Santoni, Ruteni, Carnuti, tutti popoli che conosciamo, 12mila ciascuno: complessivamente, 72mila; - Bellovaci e Lemovici: diecimila ciascuno; - ottomila ciascuno altri quattro popoli, fra cui i Parisii e, finanche, gli Elvezt; complessivamente: 32mi la; - ai Nervii, i dissanguati della Sambra, e ad altri cinque popoli seimila ciascuno: complessivamente 36mila; - ad altri nove popoli minori, fra cui gli Atrebati di Commio e i Boi da Cesare beneficati: 27mila uomini, complessivamente; - 3omila,_ infine, ai popoli dell' Oceano (fra cui i Veneti) che si denominano « aremorici ». Totale generale: 287mila armati (la leva in m assa, c'è chi opina, avrebbe potuto darne un milione circa) provenienti da due terzi della Gallia: da quasi tutta l'immensa Gallia Celtica e, in parte, - Bellovaci, Nervi, Atrebati, Morini - dalla Belgica. Solo i Bellovaci - quelli che poche settimane fa, senza muoversi, avevano preoccupato Labieno sulla Senna - solo i Bellovaci non mandarono il contingente fissato, che pur era di soli diecimila uomini: perchè - essi fecero sapere - la guerra ai Romani noi la farem o per conto nostro e a modo nostro, suo nomine atque arbitrio, e non intendiamo assoggettarci al comand_o di nessuno. Sdegnoso proposito che però subì leggera attenuazione : tuttavia, pregati da Commio, rogati tamen ab Commio, per legami di amicizia che a lui li univano, ne mandarono anch'essi duemila. Ritornato così alla ribalta, ma fra i rivoltosi, quel Commio tre anni or sono fortunoso preannunziatore, in Britannia, dell'avvento di Cesare; quel Commio l'anno dopo, nella stessa Britannia, felice mediatore, supponemmo, fra Cesare e Cassivellauno; quel Commio le cui benemerenze collaborazionistiche valsero ai suoi Atrebati l'immunità tributaria, ovverosia particolari esenzioni; quel Commio a cui Cesare aveva assegnato come clienti - ma si trattava di regione in gran parte ancora da sottomettere - i Morini. L'esercito di soccorso potè, così, sorgere. Riuniti ottomila cavalieri e circa 240 mila fanti ... Dice: « Fu così grande e così generale la concordia della Gallia, tanta universae Galliae consensio fuit, nel voler riconquistare la libertà e recuperare


la gloria militare di un tempo, libertatis vindican dae et pristinae belli laudis recuperandae, che non valsero nè i benefici nè i rapporti di amicizia, neque beneficiis neque amicitiae memoria, e tutti si diedero a questa guerra con tutto l'animo e con tutti i mezzi, et animo et opibus ». Siamo all 'unum consilium totius Galliae: la Gallia un unico volere. Il numero dei cavalieri, nei confronti del romano ancora forte, però è quasi dimezzato rispetto ai quindicimila al momento del voto di Bibracte; forse per la strage di Digione e dell'intoppo, ma soprattutto, penseremmo, per dispersioni o diserzioni. Il numero dei fanti, neppure cinquantamila in meno sul preventivato, può ritenersi impressionante. Riuniti dunque ottomila cavalieri e circa 24omila fanti, ... queste forze vennero passate in rassegna nel paese degli Edui e qui assegnate cri vari comandanti. Contrade edue - il Morvan, pare - videro dunque giungere da lontano e lontanissimo i diversi contingenti: inquadrarsi, costituirsi in grandi masse, partire - due tre tappe - per Alesia.

E quasi certamente ancora in Bibracte fu riaffrontata la questione più scottante : a chi affidare il comando supremo dell'esercito. All'atrebate Commio, agli edui Viridomaro ed Eporedorige, a Vercasivellauno alverno, cugino di Vercingetorige, Vercasivellauno Arverno consobrino Vercingetorigis, è affidato il supremo comando, summa imperii. Quattro, dunque, i comandanti supremi. Ma non fu possibile, forse, altrimenti. Accanto ai quattro comandanti sono messi - in che proporzione non è detto - uomini scelti dai vari popoli con funzioni di consiglieri di guerra. Il grande esercito, appena costituito, fu posto in moto.

Omnes alacres et fiduciae pieni ad Alesiam profìciscuntur, partirono tutti alacri e fiduciosi per Alesia, neque erat omnium quisquam, e non c'era proprio nessuno che pensasse possibile, per il nemico, anche solo sostenere la vista di una così grande moltitudine; praesertim ancipiti proelio: specialmente in una lotta su due fronti, chè a tal nemico sarebbe toccato di sostenere l'attacco dall' oppido e vedere avanzare dall'esterno sì grandi forze di cavalleria e fanteria. I collegati s'erano votati alla guerra anima e corpo, et animo et opibus; e ora che l'esercito è stato costituito ed è in moto si può anche dire che i loro capi fecero miracoli.


508 GLI ASSEDIATI

« CoNSUMPTO OMNI FRUMENTO . . . ».

Senonchè, quando il grande esercito fu pronto e posto in moto, i « trenta giorni e poco più» di Vercingetorige erano spirati. Da quanto, nessuno può più dire.

Quelli intanto che erano assediati in Alesia, passato il giorno in cui aspettavano l'esercito di soccorso, consumato tutto il frumento, consumpto omni frumento, - ignari, nell'assoluta chiusura del blocco, di ciò che avveniva nel paese degli Edui, inscii quid in Haeduis gereretur, - radunarono un consiglio di capi per discutere sulle possibilità della loro situazione. La spianata su cui sorgeva Alesia era una superficie poco meno di cento ettari, una specie di rettangolo, come abbiamo già detto, di circa duemila metri per cinquecento. E su tale area - ma forse anche in qualche altro spiazzo appena fuori le mura - erano ammassati gli ottantamila di Vercingetorige, - e se non ottantamila, come qu.alcuno dubita, molte e molte migliaia - nonchè i Mandubii residenti in Alesia, nonchè quella parte di Mandubii che si erano rifugiati col bestiame, dalla campagna nell'oppido: un totale di bocche che poteva aggirarsi, piuttosto più che meno, sulle centomila. Moltitudine eccessiva per sì poco spazio, e per giunta, date le diverse popolazioni che componevano l'esercito, eterogenea. Di modo che, quando alb immobilità e all'ozio forzati, alla calura estiva, e, soprattutto, a quel cerchio di ferro che nulla faceva trapelare dall'esterno si aggiunse la totale mancanza della già insufficiente razione di frumento, tutto in Alesia, a ùn certo punto, divenne angoscioso. E forse solo una relativa sufficienza di acqua - sorgenti ancor vive esistono sul plateau e sui declivi dell'Auxois - consentì la prosecuzione dello sforzo.

L 'ALVERNO CRITOGNATO.

Al momento in cui si riunì il coJ1siglio s'era già provocata fra i capi una scissura. Esistevano già due partiti, ognuno con intento che a tutta prima potrà sembrare opposto a quello dell'altro: molti pareri nel consiglio furono espressi, dei quali parte propendeva per la resa, pars deditionem, parte, mentre ancora reggevano le forze, proponeva una sortita,. pars eruptionem. Cesare dice: « Merita di essere rifen·to il discorso in quel concilio di Critognato, orario Critognati ( nato fra gli Alverni da nobilissima famiglia, era


persona che godeva di grande autorità) per la sua singolare e nefanda crudeltà, propter singularem et nefariam crudelitatem ».

Mi rifiuto di commentare - Critognato esordì - le proposte di colore, che a una vergognosa schiavitù danno il nome di resa, turpissimam servitutem deditionis nomine appellant: penso che costoro nè si debbano considerare come cittadini nè degni di assidersi in consiglio . .. Le condizioni di Alesia, ora che era venuto a mancare il pane, non potevano far considerare viltà la discussione, almeno, sul pro e il contro anche della resa. Esordio troppo aspro, perciò, se non lo si considera brusca frenata a incombente cedimento generale. . . . lo qui parlerò solo per coloro che approvano la sortita, nella quale tutti voi vedete perpetuata la tradizione del nostro valore. Ma il non saper sopportare per un poco le privazioni, paulisper inopiam ferre ... Per un poco: il soccorso ha dunque già tardato oltre ogni previsione; poteva essere, ormai, vicino: tutte le ore erano buone per vederlo apparire. . . . Ma il non saper sopportare per un poco le privazioni è fiacchezza d'animo non valore, animi mollitia non virtus. Più facilmente si trova chi si voti alla morte che chi sopporti il dolore ... Non respinti, ma accolti con distacco anche gli zelatori, quanti che fossero, della sortita . . . . E io approverei la proposta della sortita - tanto è in me il rispetto per i suoi sostenitori - se vedessi che noi facciamo getto di nient'altro che della nostra vita, ma, nel prendere una tal decisione, noi dobbiamo guardare a tutta la Gallia che abbiamo chiamata in nostro aiuto, sed omnem Galliam respiciamus quam ad nostrum auxilium concitavimus ... Chi osa scindere, al punto in cui sono le cose, la sorte dell'esercito di Alesia dalla sorte dell'esercito di soccorso? ... Uccisi, qui, ottantamila uomini, che animo potranno avere i nostri parenti, la gente del nostro sangue, se costretti a combattere quasi in mezzo ai cadaveri, paene in ipsis cadaveribus? ... Neppure la più labile speranza che le linee romane si prestino a essere sfondate, che la sortita possa conseguire successo; l'ombra, perciò, di Avarico: saremo, qui, uccisi tutti .. . . . . Non fate che non trovino il vostro aiuto coloro che per la vostra salvezza non hanno pensato al loro pericolo; nè vogliate - per stoltezza temerità debolezza d'animo, stultitia ac temeritate aut animi imbecillitate, costringere la Gallia intera a piegarsi e ad assoggettarsi a perpetua schiavitù . .. Gli accordi con i principes della cavalleria dovevano essere stati chiari, così come 1'istinto stesso poteva richiederlo: nessuno dei due eserciti si sarebbe impegnato di sua volontà isolato; l'azione dell'uno doveva invece essere il


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più possibile legata, per luogo e tempo, a quella dell'altro. La sortita, - di ieri l'esperienza di Avarico - facendo crollare tale presupposto, e<l esponendo a insuccesso l'uno e l'altro esercito, avrebbe segnato il fallimento definitivo della rivolta. . . . O forse dubitate della lealtà e fermezza dei nostri alleati perchè non sono arrivati nel giorno stabilito, quod ad diem non venerunt? . . . La corrosione minuta e sotterranea operata dai sospetti, dalle insinuazioni, dalle maldicenze. . . . Che dunque? Pensate forse che i Romani lavorando ogni giorno laggiù, alle loro linee difensive esterne, in illis ulterioribus munitionibus, lo facciano per passatempo? Preclusa com'è ogni comunicazione, se messaggeri non possono assicurarvi prossimo l'arrivo dei nostri, giovatevi della testimonianza dei Romani stessi: è il terrore dell'arrivo del 'esercito di soccorso che li tiene sui lavori notte e giorno, diem noctemque in opere ... Da Alesia si vede e si sente il dannato - « diem noctemque in opere » travaglio dei Romani . . . . Qual è dunque il mio parere? Fare quello che i nostri antenati hanno fatto nella guerra, neppur paragonabile all'importanza di questa, dei Cimbri e Teutoni: essi, costretti negli oppidi e alle nostre stesse privazioni, si sostentarono con i corpi di coloro che, troppo giovani, non sembravano idonei alla guerra, aetate ad bellum inutiles: però non si arresero . .. Gesta di oltre mezzo secolo prima, dei padri e dei nonni . . . . Che se di un tal fatto non avessimo già quell'esempio, io proporrei, per salvare la nostra libertà, di darlo qui la prima volta noi, e di tramandarlo, attestazione nobilissima, ai posteri ... Vi può essere chi ritiene false leggende siffatte crudeltà? Anche se false, che esse diventino, in Alesia, fatti veri . . . . Che cosa infatti ci fu in quella guerra che potesse paragonarsi a questa? I Cimbri, dopo aver devastato la Gallia, e averle inflitto gravissimi danni, pur finalmente uscirono dal nostro paese diretti ad altre terre: ma ci lasciarono le nostre costituzioni, le nostre leggi, le nostre terre, la libertà, iura leges agros libertatem. I Romani invece, gelosi di tutti coloro di cui conoscono le civili tradizioni e la potenza guerriera, che altro chiedono e pretendono se non stabilirsi in quelle terre e fra quelle popolazioni e infliggere loro eterno servaggio, aeternam iniungere servitutem? ... Scavalcò il ricordo di Ariovisto; oppure da ritenere che sette anni or sono egli o non aveva ancora alcuna autorità o non s'era trovato d'accordo con la politica di Diviziaco. . . . Mai e poi mai i Romani hanno fatto guerra con altro scopo. Che se voi ignorate ciò che avviene in lontani paesi, quod si ea quae in longinq JÌS nationibus geruntur ignoratis . . . . Non altro che avidità di terre altrui, e non civili moventi, sping '! il Popolo Romano alle guerre.


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I

Ma Critognato non disse, da quanto qui risulta, ciò che egli sapeva di lontani PoPoli; aveva una prova sicura, a Portata di mano, di quanto asseriva e, a chiusura del discorso, l'additò. . . . Che se voi ignorate ciò che avviene in lontani paesi, guardate alla Gallia a noi vicina, respicite finirimam Galliam: ridotta a Provincia, in provinciam redacta, privata delle sue proprie costituzioni e leggi, iure et legibus commutatis, soggiace, sotto le scuri proconsolari, a perpetua tirannia, perpetua premitur servitute.

Discorso (e chi, malgrado il macabro sfogo oratorio, Potrebbe mai respingerlo?) che presuppùne ambiente estremamente turbato. Erano, o apparivano, minoranza i fautori della resa, erano, o apparivano, maggioranza i fautori della sortita: depressione e angoscia gravavano però sull'animo di tutti. Gli stessi fautori della sortita a che altro miravano se non a uscire, comunque, da quella situazione? Poteya, in moltissimi, anche non essere spenta la volontà di resistere, l'odio per il nemico Poteva, in molti, prevalere: ma da tutti era giudicato insostenibile il proseguimento della resistenza.

(( INUTILES BE.U..O )) .

Finita, in quel consiglio, la discussione, quei capi decidono: - Che debbono uscire dall' oppido quanti per malattia e per età non sono idonei alla guerra, ut ii qui valetudine aut aetate inutiles sint bello oppido excedant, e che si facciano tutti i tentativi possibili prima di ricorrere a quanto proposto da Critognato. Tuttavia: se la situazione lo richiedesse, se si fosse ancora protratto il ritardo del 'esercito di soccorso, avrebbero piuttosto accettato quella proposta che piegarsi a condizioni di resa o di pace, quam aut deditionis aut pacis subeundam condicionem. Dovevano dunque subito lasciar l'oppido gli « inutiles bello»: malati, fanciulli, donne, vecchi.

La deliberazione colpì pertanto in pieno - essendo tutto il resto esercito - la PoPolazione civile. di Alesia, residenti e profughi: i Mandubii ( cioè proprio il popolo ospite) sono costretti a uscire con i figli e le mogli, cum liberis atque uxoribus. In poche ore, - afflitti che fossero anche coloro che fecero eseguire la deliberazione - Alesia si ritrovò con un certo numero, Poche o meno Poche migliaia, di bocche in meno.


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I Mandubii, avvicinatisi alle linee romane, si dettero a implorare, con pianti e ogni sorta di preghiere, flentes omnibus precibus, di essere accettati come schiavi pur di avere un po' di cibo, ut se in servitutem receptos cibo iuvarent. Tutto invano. At Caesar dispositis in vallo custodibus recipi prohibebat: ma Cesare, disposta apposita vigilanza lungo il vallo, vietò di riceverli.

Alla vigilia di una prova di cui vedeva, e diremmo con sgomento, le incognite, il generale romano non poteva sapere quanto i suoi viveri avrebbero dovuto bastargli sopraggiunto che fosse l'esercito di soccorso; una volta, cioè, chiuse le vie attraverso le quali era stato pur possibile (quali che siano state le favorevoli circostanze) un approvvigionamento di trenta giorni. Ognuno degli avversari considerava disperata la propria situazione; onde, in entrambi, l'ossessione che ogni minimo cedimento potesse aprire la via alla catastrofe. E quando - molti giorni non dovettero passare - gli effetti del rifiuto romano divennero, sotto gli occhi di tutti, strazianti, nè i capi di Alesia richiamarono i superstiti Mandubii nell'oppido nè Cesare concesse loro il transito, almeno, per l'esterno: i primi erano alla morte per fame, ma il secondo paventava che un gesto umano potesse allontanare una resa che tutto ormai dava, questione si può dire di minuti, imminente, prima che giungesse l'esercito di soccorso. I Mandubii pertanto (come da altre, tarde, fonti, ma dal silenzio di Cesare sembra a tutti di poter dedurre) sarebbero periti, tutti o quasi, nello spazio compreso fra le mura dell'oppido e le linee romane; nella terra, come si dice oggi, di nessuno.

LE OPERAZIONI

GIUNGE L'ESERCITO DI SOCCORSO.

Frattanto Commio e gli altri comandanti a cui era stato affidato il supremo comando raggiungono con tutto l'esercito Alesia e occupano un'altura d~sta~te circa un chilometro e mezzo, non longius mille passibus, dalle posiz10111 romane. Si fermarono - riferimenti topografici quasi sicud - sul complesso collinoso di Mussy la Fosse che domina, da sud - ovest, la piana des Laumes.


Dall'oppido Alesia si vedeva la piana, erat ex oppido Alesia despectus in campum: appena awistate le forze di soccorso, - dai fuochi di bivacco, prima che esse giungessero sulle alture di Mussy la Fosse - tutti accorrono a vedere, si congratulano fra loro, fìt gratulatio, si abbandonano tutti alla gioia, omnium animi ad laetitiam excitantur.

lL

PRIMO TENTATIVO D I SBLOCCO.

I Galli confidavano nel numero: di fronte ai loro 240 mila fanti e ottomila cavalli, i Romani. erano certo ben pochi; confidavano nel doppio fronte: impossibile che un nemico dislocato su oltre venti chilometri reggesse a due grandi eserciti. E i loro comandanti supremi, si potrebbe anche aggiungere, abbagliati dal numero e dal doppio fronte, forse neppur valutavano a pieno l'intrinseco valore di quell'apparato fortifìcatorio nemico, pur sì scoperto alla vista. Sulle posizioni di Mussy la Fosse essi non fecero alcuna sosta preparatoria: il giorno dopo l'arrivo, postero die, dettero battaglia. Erano però sotto l'assillo dei « trenta giorni e poco più» già spirati e, certamente, della preoccupazione di non poter vettovagliare se non per giorni contati il loro gran numero di armati. Il primo tentativo di sblocco avviene dunque, com'era da prevedersi, nella piana des Laumes, sull'unica ampia porta della fortezza naturale che ha per ridotto centrale il monte Auxois e l'oppido Alesia.

Il giorno dopo, i Galli, fatta uscire la cavalleria, ne riempiono tutta quella piana, omnem eam planitiem, - la qua.le, come s'è detto, aveva una lunghezza di circa cinque chilometri - e collocano le fanterie, pedestresque copias, un po' piìì indietro, su alture, in locis superioribus.

Anche le truppe di Alesia, gli assediati, si disposero pertanto all'azione: fatte uscire le loro forze, prendono posizione davanti all'oppido, - sul lato occidentale - : il fossato a essi più vicino - quello più avanzato della controvallazione - coprono di graticci e riempiono di terra, preparandosi, così, alla sortita e a tutte le eventualità, ad eruptionem atque omnes casus. Cesare (il quale, come poi risulterà, aveva già ripartito l'area fortificata in settori, ciascuno al comando di uno o due Legati), dislocate le fanterie su entrambe le linee fortificate, controvallazione e circonvallazione, affinchè, giunto il momento, ognuno fosse orientato sulle posizioni che doveva . difendere ...

33 .•

u.s.


Doveva aver già assunto una dislocazione di preallarme alle prime notizie dell'approssimarsi dell'esercito di soccorso: truppe non sul vallo ma raggruppate più indietro, nei ridotti, per affluire ai posti di combattimento secondo le necessità operative.

Il grande scaglione avanzato dell'esercito di soccorso, lungo tutta la fronte della piana, è dunque composto di sola cavalleria, essendo la fanteria tenuta alquanto indietro, ferma su alture. Il che significa che i comandanti supremi dei Galli impiegheranno per prima e da sola l'arma della rapidità e del terreno libero quando invece dall'ininterrotto cerchio delle fortificazioni campali romane, neppure a due chilometri, era richiesta, per prima o in assoluta prevalenza, la fanteria. Rischieranno, così, gravi perdite e una maggior menomazione della loro superiorità equestre, già ridotta a Digione, nel caso occorresse far fronte a eventuali sortite dei Romani in altri settori e se, soprattutto, occorresse rendere definitivo il successo in caso di rottura del cerchio ossidionale. Decisero così perchè l'uso della cavalleria più congeniale e connaturato alla lor indole? per il preconcetto che la fanteria gallica poco valesse, in combattimento organizzato, contro la romana? Ma se tentiamo di intravedere le circostanze nelle quali agivano quei comandanti, potrebbe apparire che non poteva essere nelle loro intenzioni la conquista e un duraturo mantenimento, che sono propri della fanteria, di queste o quelle posizioni romane: di soste e frazionamenti di fanteria, comunque operati, i Romani non avrebbero tardato a trarne vantaggio. Tutt'altro compito essi si proponevano, e può anche darsi che ne ritenessero l'attuazione meno ardua; questo: aprire nelle posizioni romane - contemporanea e decisiva, s'intende, la spinta degli ottantamila - uno o più alvei, del tutto temporanei, sì che lungo essi, a grossi blocchi, precipitasse giù, nelfa piana, l'esercito di Vercingetorige. La fanteria, a tale scopo, era tarda; solo la cavalleria avrebbe potuto con infiltrazioni e aggiramenti, su luoghi a essa noti, trar profitto - per effetto, anche, di sorpresa se i Romani si attendevano prima la fanteria - dal rapido e contemporaneo impegno di una fronte di cinque chilometri. Ma :sapevano delle opere di controvallazione che occludevano lo sbocco da Alesia nella piana des Laumes? e, se sapevano, ne avevano misurato il valore?

Sicchè, se le cose stavano come qui appaiono, se ne dovrebbe dedurre che ora ai Romani toccherà di assumere atteggiamento del tutto difensivo contro l'attacco della cavalleria gallica. · Attesa, a piè fermo, di sì grossa fortuna.


Ma non fu così. Cesare dice: « Dislocate le mie fanterie su entrambe le linee, affinchè, giunto il momento, ognuno fosse orientato sulle posizioni che doveva difendere, ... ordinai alla cavalleria di uscire dai campi e di attaccare combattimento».

Non solo, dunque, non esita a impegnare la propria cavalleria, - sì scarsa e fra le estreme risorse nell'incertezza del domani - ma a questa ordina che, senza attendere l'attacco nemico, prenda essa l'iniziativa del combattimento. Atteggiamento offensivo perciò inatteso: che quel potente scaglione avanzato sia tenuto quanto più a lungo possibile lontano dalla circonvallazione. Ma anche questa decisione è solo apparentemente in contraddizione con la sostanza delle cose. Se controvallazione e circonvallazione resisteranno, potranno, sì, passare dei giorni - invero non molti - ma alla fine Alesia dovrà pur cedere per fame; se invece o l'una o l'altra non resisterà, - e il crollo dell'una si trascinerà quello dell'altra - avverrà la congiunzione, nella piana, dei due eserciti e la situazione ròmana non potrà che risolversi nella disfatta o in una ritirata dalla disfatta non gran che diversa. Su così evidenti premesse, chi può dubitare che l'attacco degli ottantamila, Vercingetorige in testa, non sarà persistentissimo e disperatissimo? e chi potrebbe calcolare in anticipo le forze che occorreranno per contenerlo? Gli assediati premono, tutti, sui cinque chilometri del gradino frontale della piana des Laumes e, come abbiamo appena inteso, sembra che abbiano già reso sormontabile, al primo apparire dell'esercito di soccorso, il fossato più avanzato della controvallazione; il loro attacco a fondo è quindi imminente, e se non basteranno a contenerlo le forze della controvallazione, bisognerà ricorrere anche a quelle della circonvallazione. Che la cavalleria romana esca, pertanto, dalle fortificazioni e prenda essa la temporanea iniziativa del combattimento: è necessità assoluta che le truppe della circonvallazione si ritardi a farle attaccare sino a quando non saranno sicure le spalle.

Il terreno della lotta era visibile da tutti i campi romani situati, tutt'intorno, in cima alle alture, - più specialmente dal Flavigny - e tutti i soldati attendevano quindi con ansia il risultato dello scontro. Ma l'attesa durò parecchie ore, non senza tormento e sconforto. La cavalleria gallica si presentò alla battaglia col procedimento tattico in cm eccellevano i Germani : i Galli avevano intramezzato ai cavalieri piccoli


gruppi di arcieri e fanti di armatura leggera che dovevano aiutare i loro se cedevano e infrenare le cariche dei Romani. Procedimento che questa volta era stato predisposto con particolare efficacia, sì che la cavalleria romana subì un sanguinoso arresto: molti cavalieri romani, feriti di sorpresa da quegli arcieri e fanti, abbandonarono il combattimento, complures proelio excedebant. Momento della battaglia che rivive in quest'altro cortometraggio sonoro: allora i Galli, tutti, - e coloro che erano assediati e coloro del!'esercito di soccorso - sicuri ormai del proprio sopravvento, e vedendo i Romani sopraffatti dal numero, con grida e ululati, clamore et ululatu, da ogni parte, ex omnibus partibus, eccitavano i loro. Arresto e, anche se non è detto, accentuato indietreggiamento della cavalleria romana, già sul punto, con ogni probabilità, di cedere definitivamente. Siccome il combattimento si svolgeva sotto gli occhi di tutti, sì che non era possibile che un atto di valore o di viltà potesse rimanere nascosto, entrambi i contendenti erano stimolati dall'ambizione di lodi e dal timore del!'ignominia. Il comportamento dei raggruppamenti in cui erano certo divise entrambe le cavallerie - per popoli la gallica, ciascuno, diremmo, con propria Insegna - era pressappoco giudicabile a vista, da lontano. Gli assediati, per muovere essi all'attàcco, attendevano - nè sembrerebbe che potessero fare diversamente - che la cavalleria giungesse al vallo della circonvallazione e lo impegnasse, e intanto emettevano grida e ululati; le fanterie tenute indietro sulle alture - che fatte serrar sotto, come suol dirsi, alla propria cavalleria avrebbero potuto render probabile un iniziale successo - rimasero dov'erano e intanto emettevano grida e ululati. I capi dell'esercito di soccorso, quel giorno, attendevano il successo, del resto già cominciato, dalla sola cavalleria. Già durava la battaglia da mezzogiorno e l'esito ancora incerto, dubia victoria, quando già si era quasi al tramonto ... Del combattimento incominciato a mezzogiorno, ossia con ritardo, rimane solo da presumere che la cavalleria gallica, chi sa perchè, apparve nella piana des Laumes a mattino inoltrato, mentre l'inizio delle operazioni all'alba avrebbe forse potuto conseguire uno, sviluppo dell'azione a essa più favorevole. In ogni modo, quali che siano state le cause del ritardo, da mezzogiorno quasi al tramonto - un sei ore - la cavalleria romana fu in crisi e la gallica sul punto di vincere. Ma anche questa volta - ed è la quarta - la cavalleria germanica salvò la situazione; evitò, perlomeno, che sotto gli occhi di tutti avvenisse la rotta della cavalleria romana.


Già, dunque, durava la battaglia da mezzogiorno e, quasi al tramonto, l'esito appariva ancora incerto, ... allorchè i Germani, ammassati i loro squadroni in un sol punto, una in parte confertis turmis (non è detto questa volta per ordine di Cesare), fecero impeto contro i nemici e li respinsero. · Dovettero scardinare ed avvolgere tutta un'ala dello schieramento gallico, sì che gli effetti decisivi seguirono rapidi: messi in fuga i cavalieri, gli arcieri ad essi frammisti furono circondati e uccisi; e anche dalle altre parti - regge perciò l'ipotesi che i Germani operarono su un'ala dello schieramento gallico - i cavalieri romani inseguirono sino ai loro accampamenti, usque ad castra, - ossia sin sotto le alture di Mussy la Fosse - i nemici che cedevano, senza dar loro la possibilità - ma era già quasi notte - di riordinarsi. Così finì, tra lusco e brusco, il primo tentativo di sblocco da parte del1'esercito di soccorso.

E gli assediati? E quelli che erano usciti da Alesia, depressi, maesti, come se la vittoria fosse ormai impossibile, prope victoria desperata, si ritirarono nell'oppido. Li abbiamo lasciati che avevano reso o stavar..::i rendendo.. sormontabile il fossato più avanzato della controvallazione, li ritroviamo che rientrano avviliti nell'oppido. Nessuna traccia che durante le sei ore del combattimento equestre avessero attaccato - e Cesare avrebbe avuto tutto l'interesse di segnarlo - la parte più interna della controvallazione. Vercingetorige non potè far nulla: non impegnate le fortificazioni della circonvallazione, l'attacco a quelle della controvallazione sarebbe costato, senza profitto, moltissimo sangue. Assistè impotente a quel prill).o fallimento. E c'è da chiedersi: rimase lui stesso contrariato e disorientato all'apparire della cavalleria se gli accordi a suo tempo presi, con Commio o chi si sia, erano che nella piana des Laumes - giacchè i Romani la stavano già da allora fortificando - dovesse agire per prima o in assoluta prevalenza la fanteria?

LA NOTTE DELLA FANTERIA.

Ma dopo paco più di ventiquattro ore dal fallimento dell'azione della cavalleria, un fatto certamente anche da Cesare inatteso: le fanterie dell'esercito di soccorso avevano già iniziato l'attacco, e di notte, alle fortificazioni romane della piana des Laumes. I Galli, lasciato passare un sol giorno, uno die intermisso, - durante il quale costruirono gran quantità di graticci, per il passaggio dei fossati, di scale, per risalire il terrapieno, nonchè di arpioni, per divellere palizzate a mezzanotte, media nocte, defluendo dagli accampamenti con le misure ne- .


cessarie per non essere dal nemico avvertiti, silentio ex castris egressi, compiono l'avvicinamento alle fortificazioni romane della pianura, ad campestres munitiones accedunt.

Rapido passaggio dall'impiego della cavalleria all'impiego della fanteria che non potè essere solamente effetto dello sfavorevole fatto d'arme di ventiquattr'ore prima; può piuttosto voler dire che a suo tempo era stato esaminato e discusso anche l'impiego, per primo o subito dopo quello equestre, della fanteria. E lo confermerebbe ora la costruzione - in un sol giorno? anche per tal bisogna sono di per sè evidenti previsioni e predisposizioni di un gran quantitativo di strumenti idonei a operazioni ossidionali. I capi supremi dei Galli vogliono tentare ora, al buio e di sorpresa, quel s~peramento di fortificazioni campali che ritengono assai difficile in pieno g10rno. E anche questo secondo attacco è esclusivamente rivolto alle posizioni della piana des Laumes, ad campestres munitiones: nessun'altra azione dimostrativa, come si direbbe oggi, nè contemporanea, nè successiva, su qualcuna delle quattro torri periferiche della fortezza naturale o su qualsiasi altro punto del cerchio ossidionale. Sicchè, nella notte dell'attacco, per una fronte di soli cinque chilometri, all'incirca, fu inevitabile - se i 240 mila furono impiegati anche solo metà che si venissero via via ammassando, in profondità, migliaia e m igliaia di uom1m. Il collegamento con Alesia, per l'attacco con la cavalleria, era stato assicurato dalla visibilità diretta; qu~~ta volta - non convenuta una segnalazione con fuochi perchè forse neppure previsto un combattimento notturno~ valsero, proprio, le grida e gli ululati.

Levato un improvviso clamore, subito clamore sublato, - col qual segnale si avvertivano gli assediati del!'attacco - gli attaccanti cominciano il gittamento di graticci, e con fionde dardi sassi costringono i Romani - quelli, evidentemente, in luoghi più avanzati e meno protetti - a ritirarsi dal vallo della circonvallazione, e prepara'l'!o quanto occorre per l'assalto. Contemporaneamente, eodem tempore, sentito che fu quel clamore, clamore exaudito, Vercingetorige dat tuba signum suis, fa suonare l'allarme alle sue truppe e le fa uscire dall' oppido. L'attacco delle fanterie galliche, sia perchè sì immediato a quello della cavalleria sia per il modo e l'ora in cui fu condotto; dovè giungere alla circonvallazione romana, ripetiamo, di sorpresa; e dovè anche essere impressionante.


Cesare dice: « Le mie truppe si portano in linea, al posto che nei giorni precedenti era stato a ognuno fissato, e con armi e munizioni colà da ess, già preparati - grosse fionde, giavellotti, palle di piombo - produssero spavento e urresto nei Galli. Essendo la vista impedita dalle tenebre, prospectu tenebris adempto, si hanno molte perdite da una parte e dal/'altra, multa utrimque vulnera. Le macchine lanciano gran quantità di proiettili». Scansa, sembra, il riconoscimento della subìta sorpresa col ribadire che tutto era stato da lui predisposto, in special modo nella piana des Laumes, per parare qualsiasi evenienza. La dislocazione di preallarme era stata congegnata in tal modo da consentire una pronta dislocazione di combattimento in qualsiasi settore dell'intero cerchio ossidionale; e perciò potè avvenire in tempo l'occupazione, metro per metro, di tutto il terrapieno del vallo che sbarrava la piana des Laumes. Per l'oscurità, gravi le perdite sia da parte gallica che da parte romana, multa utrimque vulnera; e l'attacco, come ora sentiremo, incalzante e minaccioso durò tutta la notte. I Legati Marco Antonio e Caio Trebonio - ai quali era toccato il comando di quel settore - ovunque avvertivano i Romani in pericolo mandavano rinforzi dai ridotti più arretrati, ex ulterioribus castellis. Azione di comando, nell'oscurità, ardua, tanto che i due comandanti di settore sono segnalati, a titolo d 'onore, nominativamente.

Finchè i Galli erano alquanto distanti dalle fortificazioni, dava loro vantaggio il gran numero di proiettili che potevano scagliare: ma quando si portarono più sotto, postea quam propius successerunt, o si infilzavano, ignari, sui « triboli » o cadwano trafiggendosi nelle buche o soccombevano sotto il tiro dei giavellotti d'assedio lanciati dal terrapieno e dalle torri ... S'avverte la penosa vicenda della fanteria gallica. Masse che si riversano, a più riprese, sulle fasce dei cippi, dei gigli, dei triboli e conseguenti disperati riflussi di piagati ai piedi e alle mani ; gruppi che superano le fasce di ostacoli; gruppi che riescono a superare anche il fossato del vallo; gruppi giunti sotto il terrapieno e altri che ne tentano la scalata. I Galli si dissanguarono non poco lungo tutti i cinque chilometri delle posizioni romane deHa piana des Laumes: avendo dovunque, undique, subìto gravi perdite, multis vulneribus acceptis, senza riuscire ad aprire nella circonvallazione alcun passaggio, nulla munitione perrupta ...

La sfiducia li colse alle prime luci dell'alba, - il combattimento durò quindi un cinque ore - quando poterono vedere sul Flavigny truppe romane ammassate che erano o sembravano sul punto di muovere: all'avvicinarsi del


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giorno, temendo di essere aggirati sul fianco destro con una sortita dai campi posti in alto, si ritirarono sulle posizioni di partenza. Si ritirarono senza nessuna reazione romana nè di fanteria nè di cavalleria: altro segno della ininterrotta e pesante pressione dell'attacco. Così finì, anch'esso tra lusco e brusco, il secondo tentativo di sblocco - questa volta più cruento per entrambe le parti - dell'esercito di soccorso.

E gli assediati? In quanto agli assediati, nel portar fuori tutti quei materiali che per la sortita Vercingetorige aveva fatto preparare, e nel riempire le fosse più avanzate, avendo perduto tempo in cotali operazioni, avvertirono la ritirata dell'esercito di soccorso prima che a loro fosse dato di giungere alle fortificazioni. E così, lasciato tutto a mezzo, re infecta, rientrarono nell' oppido. Le truppe di Vercingetorige non fecero in tempo a raggiungere le fortificazioni del vallum perimetrale e forse neppure il fossato intermedio. Il materiale ossidionale, costruito e tenuto nell'oppido, doveva essere trasportato a piè d'opera e impiegato di gi0rno, così come di giorno dovevano essere eseguiti tutti gli approcci che l'attesa di tanti giorni aveva predisposti: tutto invece sarebbe stato complicato e perturbato, sin forse al subbuglio, da quèll'improvviso attacco, invero sì generoso, esploso di notte.

LA MANOVRA

DEL

RÉA.

Respinti due volte con gravi perdite, bis magno cum detrimento repulsi, i Galli discutono sul da farsi.

Dal giorno in cui l'esercito di soccorso è giunto sotto Alesia - dal giorno, anzi, che Vercingetorige ha ordinato la leva in massa - l'operato dei capi gallici appare degno della complessità e grandezza del lord compito. Radunate e poste in movimento, in meno forse di cinquanta giorni, grandi masse di armati, essi le hanno portate tutte - convinti che non convenisse compiere altrove azioni anche solo dimostrative che distraessero forze dal luogo che a una decisione rapida .più si prestava - in quella piana des Laumes sì aperta allo spiegamento e all'impiego di un grande esercito e da Alesia tutta dominata a vista e accedibile. H anno reagito al mancato successo equestre con l'immediato impiego della fanteria; e nell'un caso come nell'altro sarebbe difficile congetturare come potessero fare diversamente. O dovevano, per preparare l'attacco di quelle fortificazioni, arrestarsi - Alesia era però allo stremo - o dovevano ricorrere, come ricorsero, alle risorse dell'audacia: l'impiego, per primo, del-


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la cavalleria, l'impiego, di notte, della fanteria; confidando, nel pnmo caso, nell'azione, da loro forse ritenuta inarrestabile, degli assediati, confidando, nel secondo, nell'urto contempcraneo di entrambi gli eserciti nonchè nella sorpresa provocata dalla pronta ripresa combattiva e dalla notte.

Ma ora essi, fallita l'azione della fanteria, non esitano a considerare, assai più di quanto non avessero fatto prima, anche le .alture periferiche della fortezza naturale: consultano persone esperte dei luoghi e da queste sono informati dove precisamente sono situati e come sono difesi i campi romani posti sulle alture. Ariche prima, certamente, non avevan potuto fare a meno di appcsiti ed esperti informatori; ma questa volta le indagini furono guidate da vissute esperienze, cioè su specifici orientamenti operativi.

Riuscirono infatti a individuare un punto debole del cerchio ossidionale.

Cesare accusa il colpo. Dice: « Vi era a settentrione un'altura - è il monte Réa - che per la sua grandezza, propter magnitudinem circuitus, i nostri non avevano potuto comprendere nelle linee; e pertanto, di necessità, essi avevano costruito il campo su terreno piuttosto svantaggioso, in leggera discesa. Tenevano il comando di questo campo, con due legioni, i Legati Caio · Antistio Regino e Caio Caninio Rebilo )>. Tal campc era situato, destra Ose, sulle estreme pendici sud- est del Réa; mentre sulla spianata della sommità pare che vi fosse solo, secondo gli scavi, non lontano dal campc, una piccola fortificazione, forse un posto di vigilanza. Il settore Réa, pertanto, presidiato da due legioni, era forte per un attacco degli assediati; era però quasi del tutto privo di sorveglianza in profondità - in zona, certamente, boscosa - per un attacco dall'esterno. Delle due alture più accessibili dalla zona di Mussy la Fosse, - che è quanto dire più a portata dell'esercito di soccorso - il solo Flavigny era dunque munito di controvallazione e circonvallazione: controvallazione e circonvallazione sarebbero state tutt'uno sul Réa.

I capi supremi dei Galli, pertanto, fatti riconoscere i luoghi da esploratori, prendono le seguenti decisioni: - Scelgono da tutto l'esercito sessantamila uomini, sexaginta milia ex omni numero, appartenenti ai popoli più reputati per valore guerriero;


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- stabiliscono fra loro, in segreto, occulte, ciò che intendono fare e come farlo; - fissano l'ora dèll'attacco: mezzogiorno circa; - il comando dei sessantamila affidano a uno dei quattro capi supremi: a Vercasivellauno, alverno, parente di Vercingetorige. Decisioni dense di significato. Deposto il mito del numero, padre dell'attacco in massa lento e ottuso; e così pure il mito del doppio fronte, già due volte motivo di scoraggiamento; questa volta spunta invece l'idea - e all'idea seguirà il fatto - della manovra: i sessantamila, forza d'urto selezionata, agiranno staccati dal resto dell'esercito e per un'azione indipendente dal concorso, che pur richiameranno e favoriranno , degli assediati. Riaffermano, quei capi, la necessità del segreto e se ne fanno personalmente responsabili. Sebbene questa volta non si possa sospettare che si sia riaperta la solita piaga delle spie: Cesare - si potrebbe forse affermare non si attendeva nè che l'esercito di soccorso iniziasse le operazioni senza quasi far sosta, nè l'attacco, per primo, della cavalleria, nè, tantomeno, poco più di ventiquattr'ore dopo e di notte, quello della fanteria. Quei capi discussero anche l'ora in cui doveva aver inizio l'attacco sul Réa, convenendo che non potesse avvenire, come abbiamo appena inteso, prima di mezzogiorno: approssimativo calcolo di tempi, cardine d'ogni manovra, che troverà spiegazione nello svolgimento delle operazioni. Vercasivellauno aveva due buoni titoli per pretendere il comando dei sessantamila: apparteneva a popolo, l'alverno, di alta reputazione guerriera già da mesi alla testa della rivolta ed era cugino di Vercingetorige. Ma forse non ci fu neppur lo sforzo della scelta: Commio, a parte ch'era atrebate, lo conosciamo più politico che soldato, e ci sono stati presentati come comandanti ancor giovani gli edui Viri<lomarn ed Eporedorige.

Circa a mezzodì, dunque, avrà inizio l'attacco al campo romano del Réa. Ma a mezzodì di qual giorno? Accettabile ipotesi cronologica (ma anche qui valga soprattutto per scandire la successione degli avvenimenti) vuole che i sessantamila abbiano subìto la disfatta (dopo combattimento di sei sette ore: da quel e, mezzodì >> al tramonto) il 26 settembre. Procedendo a ritroso, abbiamo: .i sessantamila di Vercasivellauno partirono dagli accampamenti, come subito sentiremo, circa alle ventuno del giorno 25, - giorno che -si può presumere tutto speso in preparativi per la progettata, complessa, operazione. Come pure per discussioni decisioni e scelta degli uomini, e soprattutto per indispensabile sosta, era stato speso il giorno 24, quello che aveva visto, all'alba, la cessazione dell'attacco della fanteria. Il giorno 23 fu intervallo, come sappiamo, fra !'attacco della cavalleria - avvenuto perciò il 22 - e l'attacco della fanteria.


L'esercito di soccorso sarebbe dunque giunto sotto Alesia il 21 settembre. Ma se vi giunse anche solo dopo un giorno dall'espulsione dei Mandubii, ecco che cinque giorni ~ dal 21 al « mezzodì » del 26 - rendono più desolato il richiamo che ci viene dall'esercito affamato di Vercingetorige. Cesare ne tace : ma si può non udirlo? E se i nostri calcoli peccassero, come pur dubitiamo, di eccessiva strettezza?

Vercasivellauno, uscito dagli accampamenti circa alle ventuno, prima vigilia, all'alba, sub lucem, aveva quasi compiuto la marcia di avvicinamento. Occultate le truppe dietro il monte, le fece riposare dalle fatiche della notte. I sessantamila giunsero a settentrione del Réa (nella zona di Ménétaux, si suppone) intorno alle quattro: un sette ore di marcia notturna. Un lungo e faticoso giro - c'è chi congettura attraverso le alture di Grignon - per essere del tutto sicuri di giungere sul Réa inavvertiti. Vercasivellauno, quando il mezzogiorno parve vicino, marciò contro il noto campo, ad ea castra. Contemporaneamente, eodemque tempore: la cavalleria gallica cominciò ad avvicinarsi alle fortificazioni della piana des La.umes, ad campestres munitiones, e il resto, - migliàia e migliaia di armati a piedi - a dispiegarsi davanti ai propri accampamenti, pro castris sese ostendere. La prevista sosta ai sessantamila dopo la marcia notturna aveva dunque condizionato l'inizio delle operazioni a tutto l'esercito di soccorso. Att~cco c~ntemporaneo, quasi, sul Réa e nella piana des Laumes, a mezzogiorno circa.

I Romani - quelli della piana e quelli del Flavigny - dovettero avvertire in tempo solo ciò che avveniva in pianura: le prime truppe di Vercasivellauno, invece, superata la sommità del Réa, si potrebbe dar per certo che apparirono davanti al campo di sorpresa.

Vercingetorige, scorti i suoi dalla rocca di Alesia, ex aree Alesiae, esce dall'oppido e fa portar fuori graticci pertiche tetti protettivi falci, tutto quello che aveva preparato per la sortita. Dall'alto della rocca egli potè vedere, poniamo, tutto, sia le truppe _avanzanti in pianura che quelle avanzanti sul Réa. La questione capitale sarebbe però, ora, un'altra; ora che è di somma importanza la direzione in cui egli impegnerà le sue maggiori forze: se e quanto, cioè, egli agirà in accordo, o senza volerlo in disaccordo, con l'attacco


dei sessantamila. Se nulla sapeva del valore conferito all'azione sul Réa, non può aver ritenuto ancora una volta decisiva l'azione nella piana des Laumes? « NEc IAM ARMA NEC VIRES .•. ».

Si combatte contemporaneamente da ogni parte, pugnatur uno tempore omnibus locis, - sulla controvallazione e circonvallazione della piana nonchè sul vallo perimetrale del Réa - e tutto vien messo a prova: i nemici dove la resistenza sembra appena più debole ivi concentrano i loro sforzi. L'attacco barbarico, frontale e a frotte, che si concentra, più per istinto che per coordinazione, sui punti che appaiono più deboli. Una situazione che già al suo inizio richiama nei Romani una non lieta, per quanto prevedibile, constatazione: le loro forze son talmente impegnate dalla lunghezza delle linee che non è facile parare alle minacce dappertutto.

(La « leva in massa » avrebbe senz'altro sommerso e superato, comunque, la difesa romana?). Grida e ululati anche questa volta; ma con qualche effetto Positivo: ciò che soprattutto spaventa i Romani, multum ad terrendos valet, sono le grida che si levano alle loro spalle, clamor pùSt tergum, perchè sentono che la loro sorte dipende dall'altrui resistenza. Ogni cedimento della controvallazione avrebbe Posto in pericolo la circonvallazione e viceversa. Cesare dice (aforisma uscitogli, diremmo, mentre dettava queste memorie, sì vivo il ricordo) : « Il pericolo che non si vede è quello che più suo.le turbare l'animo dell'uomo ». A mezzogiorno o poco dopo le posizioni romane risultano dunque attaccate, con forte pressione, dappertutto, come abbiamo appena inteso: nel settore Réa, dalle fanterie di Vercasivellauno; alla circonvallazione della piana des Laumes, da fanteria e cavalleria dell'esercito di soccorso; alla controvallazione - settore, anche questo, piana des Laumes - dalle truppe di Vercingetorige. _ Nessun attacco, o segno che comunque lo preannunzi, su tutto il resto del cerchio ossidionale: settori Flavigny Pennevelle Bussy. Cesare, scelto un buon osservatorio - · sulle pendici settentrionali del Flavigny, quasi certamente - segue lo svolgimento dell'azione di tutta la fronte impegnata: dove avverte compromessa la resistenza, invia rinforzi.


In condizioni di sicurezza, sino a che intatto il cerchio delle fortificazioni, si passono svolgere i collegamenti tra il suo pasto di comando e tutti gli altri settori; e le fortificazioni della piana si giovano anche di ciò che si può vedere dalle torri di legno dislocate a solo una ventina di metri, come ricordiamo, l'una dall'altra. Dice: « Entrambi i contendenti comprendono che questo è il momento del massimo sforzo, quo maxime contendi conveniat: i Galli sentono che, se non riescono a sfondare, la loro sorte è segnata, de omni salute desperant; i Romani si aspettano, se riescono a tenere le posizioni, la fine di tutte le loro fatiche, finem laborum omnium)). Ma più per i Romani, se non resistono, la sorte è segnata: che risorsa pctrebbe mai essere, per essi, la ritirata o la fuga?

Noti.zie tremende e, diremmo, inattese quelle dal Réa. Maxime ad superiores munitiones laborantur quo Vercassivellaunum missum demonstravimus: il pericolo fu soprattutto grande su quelle fortificazioni di montagna ove s'è detto che era stato inviato Vercasivellauno. Qui era elemento importante la pendenza del terreno ai difensori sfavorevole. Ma soprattutto ~i impase il compartamento tattico di quei sessantamila che, con pressione ininterrotta, mostravano di aver appreso, diremmo oggi, come si associno fuoco e movimento: parte lanciano proiettili, alii tela coniciunt, parte avanzano « a testuggine », alii testudine facta subeunt: è continuo il cambio di uomini freschi con gli stanchi ... C'è di più (ma la troppa concisione sembra che tenda un pa' a nascondere le parti ingrate della situazione romana): la terra gettata da tutti gli attaccanti sulle fortificazioni, - tutti gli attaccanti s'erano dunque provvisti di terra e certo anche di altri materiali per il superamento di fossi e di passaggi scabrosi - concede ai Galli, dat Gallis, due pas·sibilità: e di facilitarli nella salita e di coprire le difese accessorie che i Romani avevano occultate nel terreno. Salire dove se il terreno era per gli attaccanti in discesa? Vuol dunque dire che i Galli ebbero la passibilità di risalire - e in più punti, certo, risalirono - il terrapieno, penetrando nel campa, preparati e premuniti com'erano per il superamento delle fasce di cippi gigli triboli. Siamo, così, alle ore - una due dopa mezzogiorno ~ per i Romani più gravi di tutto l'assedio; e se i brani che abbiamo appena letti appaiono paco espliciti, ecco che li incalza una dichiarazione che non lascia dubbi: ai Romani ormai non bastano nè le armi nè le forze, nec iam arma nostris nec vires suppetunt.


LABIENO SUL

RÉA.

Cesare, informato della situazione sul Réa, manda in aiuto dei difensori in pericolo l.Abieno con sei coorti. Labieno era, si congettura, sul Bussy: sintomatico, comunque, l'immediato ricorso al suo prestigio tattico. Rinforzo modesto, sei coorti: ma, manifestatasi la sorpresa sul Réa, Cesare dovè esitare, temendone altre, a sottrarre fo rze da altri settori. Coorti concesse, inoltre, sotto condizione. L'ordine, stile militare, è ancora qui: - Ordina, imperat: se non possibile arrestare la pressione nemica, si sustinere non possit, concentrate Le coorti, faccia una sortita, deductis cohortibus eruptione pugnet. Ma la sortita solo in caso estremo, id nisi necessario ne faciat. Truppe lanciate al contrattacco, se l'azione fallisce o anche solamente ristagna, sono, in genere, truppe perdute. Lungo tutto il fronte ora invece occorreva la più stretta difensiva: forze il più possibile riunite; fatale ogni dispersione.

E ben presto lo sviluppo assunto dall'attacco sul Réa non potè non divenire per Cesare grave turbamento. Dice : « Mi recai presso altri reparti e li esortai a non farsi vincere dalla fatica, ricordando che da quel giorno, da quel momento, in eo die atque hora, dipendeva il frutto di tutte le precedenti battaglie». Dovè percorrere al galoppo, qua e là fermandosi, tutte le altre linee impegnate, cioè controvallazione e c?rconvallazione della piana. Aveva ragione di ritenere che una volta sfondata la resistenza sul Réa - e l'irruzione sarebbe stata visibile a tutti e terrificante - qui, sulla piana, sarebbe avvenutò, anche per solo panico, la rotta.

L'AZIONE DIVERSIVA DI VERCINGETORIGE.

Ma nella piana, a un certo punto, per iniziativa, è da supporre, di Vercingetorige, avvenne improvviso e imprevedibile mutamento di cose: gli assediati, disperando di poter conseguire positivi risultati in pianura contro sì imponenti fortificazioni, tentano la scalata di luoghi scoscesi, loca praerupta ex ascensu temptant. Ossia - è l'ipotesi topografica più convincente - tentano la scalata, sulla sinistra Oserain, delle pendici nord- occidenta1i del Flavigny. Vercingetorige mutò dunque, improvvisamente, direzione di attacco: ma dei due fianchi delle fortificazioni della piana - speroni del Réa a nord,


speroni del Flavigny a sud - avrebbe scelto il fianco opposto a quello su cui era diretto Vercasivellauno. Sicchè, ora, aumentata, necessità o sbaglio, la lontananza fra le direzioni di attacco, le due azioni galliche si svolgeranno, ancor più, ognuna per conto proprio; solo legatissime nel risultato finale, quando ·la sorte dell'una non potrà non riversarsi, estremo beneficio o estremo maleficio, sull'altra. Non poteva essere negli intenti di Vercingetorige, ovviamente, il raggiungimento della sommità del maggior pilastro della difesa romana; unica fattibile ipotesi è, appunto, che egli tendesse al superamento, mediante breccia, delle fortificazioni sulle pendici del Flavigny. Impresa temeraria con i Romani su un fianco e in alto; ma sarebbe stato ben scelto il tratto di sfondamento: posizioni - di sutura fra settore e settore, diremmo oggi - dove è probabile che i Romani, facendo assegnamento sui luoghi scoscesi, non avessero alcuna fortificazione o fortificazioni di minore efficienz.a. Le truppe di Vercingetorige dunque - e tutto dovè svolgersi, per concorso favorevole di circostanze, in brevissimo tempo - trasportano colà, su quelle pendici, i materiali d'attacco che avevano preparati. Ebbero così inizio scalata e attacco delle pendici nord - occidentali del Flavigny: e meglio si direbbe - solo che si consideri che significato hanno in concreto le parole latine che .seguono - che ebbe inizio, breve che potè esserne la durata, l'epopea degli affamati: con fitto tiro di proiettili costringono i difensori ad abbandonare le torri, ex turribus propugnantes deturbant, - singolare la violenza e l'efficacia di tal tiro se, provenendo dal basso, giunse a tanto - i fossati riempiono con terra e fascine, aggere et cratibus fossas explent, - superate dunque le fasce di ostacoli, raggiunto il fossato perimetrale, - con falci tagliano parapetti e merli del terrapieno, vallum ac loricam rescindunt: superati fasce di ostacoli e fossato, gli attaccanti sono sul terrapieno e ne stanno distruggendo le protezioni. Riuscirono, almeno in qualche tratto, a superarlo? riuscirono, almeno alcune punte, a raggiungere la circonvallazione?

Cesare dice: « Da prima, inviai colà, con alcune coorti, il giovane Bruto; poi, inviai, con altre coorti, il Legato Caio Fabio; infine, crescendo l'accanimento della battaglia, cum vehementius pugnaretur, condussi io stesso sul posto rinforzi di truppe fresche». La reazione romana, certo immediata, dovè però essere laboriosa e non rapida nel ristabilimento della situazione. Lo si desume dai tre tempi, di progressiva importanza, in cui è scandita: nel primo, l'invio di un ufficiale giovane e abile (Decimo Bruto, a capo della flotta, quattro anni or sono, nella battaglia navale di Saint Gildas); nel secondo, di un ufficiale di alto grado e di fiducia (quel Caio Fabio salvatore


del campo a Gergovia, circa due mesi fa, durante la spedizione contro i diecimila di Litavicco); nel terzo, Cesare in persona nonchè truppe, a differenza delle precedenti, fresche. E il numero delle unità, di volta in volta chiamate da altri luoghi, certamente proporzionato all'aggravarsi della situazione e all'entità gerarchica di ciascun comandante. Attacco degli affamati, comunque, arrestato e alla fine respinto: Cesare, avendo risollevato le sorti del combattimento e respinti i nemici ... E' da supporre - specialmente se il diversivo di Vercingetorige fu improvvisato - che gli attaccanti, pur avendo conseguito favorevoli risultati parziali, pur essendo giunti in gran numero alle fortificazioni, non riuscirono, sotto le fortificazioni, a costituire massa d'urto efficiente prima del sopraggiungere, probabilmente sul loro fianco sinistro, dei crescenti rinforzi romani.

Sicchè ora la situazione generale può così considerarsi: fallito il tentativo di sfondamento sulle pendici del Flavigny, ma ancor viva la pressione di Vercingetorige su quelle pendici o sulle fortificazioni della piana; - nella fase più pesante l'attacco sul Réa; - nessuna notizia della fanteria e cavalleria galliche contro la circonvallazione della piana; - su tutto il resto della fronte, inazione assoluta. Inazione assoluta su circa tre quarti del cerchio ossidionale che potrebbe spiegarsi col preconcetto che solo nella piana e poi sul Réa dove il campo romano era in declivio i capi dei Galli ritenessero di poter conseguire, mercè la preponderanza numerica, risultati decisivi. Preconcetto dello stesso Vercingetorige che, pur avendo larga disponibilità di forze, non ha attaccato che nel settore della piana e su uno sperone d'altura alla piana tatticamente legato; non ha cercato altro sbocco. Impressiona invece il decadere e lo spegnersi dell'attacco - e se fosse stato il contrario Cesare aveva tutto l'interesse di porlo in evidenza - ·alla circonvallazione della piana, contro la quale pur sì trovavano la più gran parte della fanteria e tutta la cavalleria dell'esercito di soccorso. Ma quale poteva essere lo stato e la coesione di quella fanteria e cavalleria dopo le dolorose prove da cui erano appena uscite?

LA CONTROMANOVRA DEI CINQUE

« SE . • • ».

L'azione diversiva degli assediati sulle pendici del Flavigny dunque respinta. Cesare dice: <e ••• Mi avviai, allora, verso il Réa, dove avevo inviato Labieno, eo quo Labienum miserat. Dal più vicino ridotto, trassi quattro coorti, cohortes quattuor ex proximo castello. Della cavalleria, a una parte ordinai di seguirmi, partem se segui, ... ».


Siamo nella fase più grave - subito ne avremo le prove - della minaccia sul Réa: si fa pertanto seguire da quattro coorti e da parte della cavalleria anche perchè da un momento all'altro, se sul Réa avviene lo sfondamento, potrebbe trovarsi egli stesso costretto a cercar salvezza.

Dice: « Della cavalleria, a una parte ordinai di seguirmi, ... all'altra di aggirare, per l'esterno, le linee fortificate e attaccare il nemico alle spalle, circumire exteriores munitiones et ab tergo hostes adoriri ».

Fu dunque sulle pendici del Flavigny, notiamolo, che Cesare ideò la contromanovra, ordinò cioè alla cavalleria di aggirare quasi tutta l'area fortificata per giungere di sorpresa alle spalle dei sessantamila. Se le sue forze equestri - forse neppure quattromila cavalli - erano tutte riunite, com'è assai probabile, nella piana des Laumes, la parte della cavalleria - calcoliamo un tremila cavalli - a cui è ordinato l'aggiramento deve compiere un percorso - esterno alle fortificazioni del Flavigny Pennevelle Bussy per non essere avvistata dal Réa - di circa due ore di trotto e galoppo. S'è privato di quasi tutta la cavalleria - unica risorsa nella diluizione di forze su ventun chilometri - su informazioni della situazione sul Réa ricevute, come ora sentiremo, da Labieno.

Dice: « Labieno, poichè nè fossati nè terrapieni bastavano più a trattenere l'impeto dei nemici, neque aggeres neque fossae vim hostium sustinere poterant, riunite trentanove coorti che aveva potuto trarre a caso dai più vicini presidii, ex proximis praesidiis deductas, mi informa, per mezzo di messi, delle sue intenzioni, quid faciendum existimet. E io mi affrettai, accelerat Caesar, per partecipare al combattimento, ut proelio intersit ». Sarebbe un po' difficile dubitare, ora, - dopo questa dichiarata insufficienza dei fossati e dei terrapieni - che alcune parti del campo non fossero state invase. Rilevabili altresì, dai dati appena letti, l'iniziativa e la risolutezza di Labieno: inviato sul Réa con sole sei coorti in grave momento, egli era riuscito a raccogliere presto altre trentatre coorti, - ossia una forza maggiore di tre legioni, tratta, supporremmo, dal Bussy e dal pianoro di Gresigny, essendo le posizioni sulla sua sinistra troppo legate alla difesa della piana -; era riuscito a raccogliere in breve tempo (anche indipendentemente dalle trentanove coorti che ci sembrano eccessive) una forza tale da non far precipitare una situazione già disperata. 34· • U.S.


Reticente, e in definitiva monca, è invece l'espressione Labieno informa Cesare delle sue intenzioni, quid faciendum existimet, sia che le intenzioni richiedessero consiglio o autorizzazione sul da farsi sia che significassero decisioni già prese. Quali erano le intenzioni di Labieno se provocarono l'accelerat Caesar? Che Labieno ritenesse giunto il momento di passare al contrattacco, non c'è da pensarlo, e i fatti che seguono lo confermeranno. Egli non disponeva di forze adeguate a tal fine, anche se le coorti erano trentanove a cui si volessero aggiungere le venti delle due legioni già nel campo. Cinquantanove coorti, alle quali - sia per le perdite di più ore di combattimento sia soprattutto perchè le posizioni da cui erano state tolte non erano certo rimaste prive di presidio - non si potrebbe attribuire che una forza media di un trecento uomini; un totale, perciò, intorno ai ventimila uomini: forse neppure il sufficiente per far argine, su terreno sfavorevole, a forza assai superiore se non vogliamo dir tripla. Labieno dunque (non dovrebb'esserci dubbio) aveva annunziato a Cesare la sua ritirata --, anche se a scaglioni, combattendo - per tentar di sfuggire alla rotta disastrosa.

Si spiegherebbe, così, perchè Cesare, quand'era ancora sul Flavigny, e quando altre riserve non aveva che la cavalleria e le quattro coorti strappate al più vicino ridotto, abbia deciso il lungo e convulso lancio di cavalleria che dovrà sorprendere alle spalle le forze di Vercasivellauno. Lungo e convulso lancio che raggiungerà i suoi effetti « se» non avverrà il suo prematuro avvistamento; « se ,, troverà libero da intoppi l'itinerario; « se ,, farà in tempo ad arrestare, qualora cominciato, lo sfondamento delle legioni; « se ,, Vercasivellauno ha lasciato incustodite le sue retrovie. Quattro « se >> - il quinto ci verrà incontro presto - che pongono in evidenza il valore della decisione (che lascia ancora col fiato sospeso) presa da Cesare sul Flavigny mentre tutto stava per crollare.

Quando Cesare giunse sotto le posizioni del Réa, gli attaccanti dovevano trovarsi in fase di riammassamento, ossia in temporanea sosta per predisporre l'ultimo sforzo; e potrebbe anche darsi che a preoccupare Labieno fosse proprio l'entità e l'imminenza di tal ripresa, da lui intuita o appresa da prigionieri. I nemici, rivelato l'arrivo di Cesare dal colore del vestito ( il mantello rosso che gli serviva come d'insegna nella battaglia) e visti comparire quegli squadroni di cavalleria, l'aliquota cioè che Cesare aveva tenuta con sè, e le quattro coorti - dall'alto di quelle posizioni si vedevano declivi e avvallamenti che a esse adducevano - i nemici dunque a tal vista, attaccano battaglia, proeli um committunt.


53 1 L'attacco gallico doveva perciò trovarsi m temporanea sospensione: e Vercasivellauno si affrettò a riaccenderlo prima che le riserve romane, queste con Cesare e altre di cui subito sentiremo, - avvistate a distanza relativamente notevole e perciò forse valutate più di quanto fossero - giungessero . sui luoghi dell'azione. Ancora una volta, grida e ululati da parte delle truppe combattenti e delle truppe dei vicini presidii che potessero vedere quanto accadeva sul Réa: dalle due parti si levò alto clamore, a cui rispose il clamore che salì dalla linea di combattimento di tutte le fortificazioni. Si venne subito al corpo a corpo: i Romani rinunciano ai giavellotti e combattono con le spade, omissis pilis gladiis rem gerunt: in una fascia profonda almeno quanto la comune portata di un giavellotto era dunque avvenuto il frammischiamento degli attaccanti con i difensori: non più pertanto la certezza, con le armi da lancio, di colpire solo nemici.

Non ci dovrebbe essere dubbio: la pressione dei sessantam ila aveva già iniziato la rottura delle linee romane.

LA DISSOLUZIONE

DELL'ESERCITO DI SOCCORSO.

Repente post tergum equitatus cernitur: ma improvvisamente la cavalleria è avvistata dai sessantamila alle spalle. L'avvistamento, il turbamento, l'ondeggiamento, e alla fine il terrore che, dall'indietro all'avanti, si propagò nelle masse galliche. Non c'è affatto notizia di una ripresa offensiva da parte della fanteria romana anche quando la cavalleria aveva già cominciato a far sentire i suoi effetti. E' solo detto : altre coorti si avvicinavano, cohortes aliae adpropinquabant; il che fa supparre che Cesare avesse chiamate altre forze da altri punti - e forse dalla stessa piana des Laumes - appena aveva cominciato ad avvertire la frana. Il capovolgimento della situazione tutto dunque dovuto alla contromanovra con la cavalleria.

I nemici si danno alla fuga, hostes terga vertunt. Ai fuggiaschi si taglia la strada, fugientibus equites occurrunt. La, strage è grande, fit magna caedes.

Quattro i «se» che condizionavano l'esito positivo della contromanovra. Eccone ora un altro,. il più duro. Tremila cavalieri (poco più poco meno)


53 2 contro sessantamila (molte migliaia, comunque) armati a piedi: possibile perciò, anzi quasi certa, una ripresa reattiva, pregiudizievole anche se solo ritardatrice, da parte di quelle considerevoli forze necessariamente dislocate su vasta area. Quinto « se», pertanto: la fase risolutiva, l'assalto, doveva essere un investimento a fondo, spietato, che, subito, non desse ai sorpresi respiro: magna caedes. Fu Basilo l'anno scorso l'esecutore del redditizio galoppo contro gli Eburoni; ma l'esecutore dei cinque «se» non è nominato; nè è detto se tutta germanica, anche questa volta, la cavalleria.

Ucciso certo Sedulio, capo dei Lemo11ici; fatto prigioniero Vercasivellauno mentre fuggi11a; ben settantaquattro le Insegne portate a Cesare; di quella massa di manovra, i sessantamila, ben pochi raggiunsero incolumi gli accampamenti. Gli assediati, vista da/i' oppido la strage e la fuga dei loro, perduta ogni speranza di liberazione, desperata salute, ritirano le truppe dalle fortificazioni.

Fit prorinus hac re audita ex castris Gallorum fuga: giunta la notizia, a1111iene, immediata, la fuga dei Galli dagli accampamenti. Alla « magna caedes » sul Réa seguì l' « ex castris fuga » nella piana des Laumes: si dissolse l'esercito di soccorso.

Dice: « Se i soldati non fossero stati stanchi per i frequenti mo11imenti e le fatiche di tutta la giornata, le forze nemiche avrebbero potuto essere completamente distrutte». Fece però tutto quello che potè: verso la mezzanotte - i combattimenti erano forse cessati dopo il tramonto - lancia la cavalleria all'inseguimento delle retroguardie - delle folle, per meglio dire, rimaste indietro - : un gran numero è preso e ucciso; solo con la fuga gli altri raggiungono i loro paesi. Le operazioni dell'esercito di soccorso sarebbero così durate, secondo i nostri calcoli, un cinque giorni; ma può anche darsi, ripetiamo, che fra la notte della fanteria e il « mezzodì » di Vercasivellauno sia intercorso più tempo di quello qui calcolato.

LA RESA Il giorno dopo, Vercingetorige, con11ocato il consiglio dei capi, dichiara: - lo ho intrapreso questa guerra non per interesse personale ma per la libertà di tutti, communis libertatis causa. E poichè bisogna arrendersi alla


I j

533 fortuna, et quoniam sit fortunae cedendum, io affido a voi la scelta: sia che vogliate placare i Romani uccidendomi, seu morte sua Romanis satisfacere, sÙJ che preferiate consegnarmi vivo, seu vivum tradere velint. Ma quei principes non avevano ormai più niente da scegliere: si mandano messi a Cesare per trattare, mittuntur ad Caesarem legati. N'ebbero in risposta: iubet arma tradi princi pes produci: ordina la consegna delle armi e dei capi. Alla cerimonia della resa - svoltasi, quasi certamente, sul Flavigny partecipò Cesare in persona che prese posto davanti all'area fortificata : e qui furono portati i capi, duces producuntur, gli fu consegnato Vercingetorige, Vercingetorix deditur, avvenne simbolico gittamento, ai suoi piedi, delle armi, arma proiciuntur.

I prigionieri, tranne quelli edui e alverni, furono distribuiti uno a testa ai legionari a titolo di preda; avvenne la resa degli Edui seguita da quella degli Alverni; furono assegnati alle legioni i quartieri invernali; a Roma, appena pervenuta hl relazione di questi fatti, furono decretati venti giorni di « supplicatio »; . .. Ma tutta cronaca, ormai : ancora qualche forte sussulto nei venturi mesi (però non è più Cesare che « dice »), e poi la vita della Gallia prenderà nuovo corso.

La rivolta di Vercingetorige, considerata dal ritorno di Cesare in Gallia - cioè, approssimativamente, da fine febbraio - è durata un sette mesi.



1

I N DI CE



Nota introduttiva

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Nota bibliografica

5

))

Il

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17

PARTE PRIMA

TRE BATTAGLIE (Li.ber Primus) CAP. I - ELVEZt E GERMANI LA MIGRAZIONE ELVETICA .

Orgetorige - Esodo irrevocabile - Il proconsole a Ginevra - « Per Sequanos », allora - Oltre Rodano. LA POLITI CA EDUA

·-

))

<< Amici e consanguinei <lei Popolo Romano > ) - Il fatto di Trévoux Disposti alla pace - Episodio conturbante - La denunzia del Vergobreto - L'inchiesta - Diviziaco.

MuTANO PIANO E DIREZIONE DI MARCIA

))

41

))

47

))

54

L'abbaglio di Considio - A Bibracte. LA BATTAGLIA DI BIBRACTE

Gli schieramenti - Nessuno volse le spalle .. . - La resa. L ' APPELLO DI D1VIZIACO .

Gli si gettarono ai piedi - Parla Diviziaco - Dicono le stesse cose .. . ARIOVISTO

))

Tre condizioni - « Vehementer commotus )) - Improvvisa diversione. LA VICENDA DI BESANçON .

))

65

))

74

))

85

Vesonz,ione - I legionari fanno testamento - Il di.scorso. CESARE E ARIOVISTO -

Ariovisto al bivio - L'incontro - L'ultima carta. LA BATTAGLIA DI EPFIG •

Manovra <li Ariovisto - Contromanovra di Cesare - Non prima del novilunio - Ma accettò 1a battaglia - Gli schieramenti - Lo scontro - « Una aestate».


(Liber Secundus) CAP. Il - I BELGI

Pag.

UNA COALIZIONE

99

Otto le legioni - I Remi - Le forze della coalizione. Gu AVVENIMENTI suLL'A1sNE

))

1o6

La missione Diviziaco - Mauchamp - Fumo e fuochi di bivacco ... - Il fatto d'arme di Berry au Bac - « Nullo certo ordine neque imperio » - T re rese. LA BATTAGLIA DELLA SAMBRA .

.,

121

..

139

I Nervi - I luoghi della battaglia - La situazione iniziale - « Castra munire coepcrunt ... » - Visione allucinante - « Ala sinistra » - « Centro » Un vuoto - «Ala destra » - L'avanzata dei Kerv1 . Il disastro - Decisione assoluta e fatale • Arduo collegamento - •<Tanta commutacio 1,. L A NOTTE DI NAMUR.

Gli Aduatuci. CESARE, CESARE, CESARE . . .

))

La missione di Publio Crasso - « Dies quindecim supplicatio )).

PARTE SECONDA

ATLANTICO - RENO - BRITANNIA (Liba Tertius) CAP. III - ATLANTICO

L'AVVENTURA DI SERVIO GALBA.

Pag.

Ancora protesta ... UN ' IMPROVVISA GUERRA

)'

Il piano dalle cinque frecce. LABIENO, CRASSO, SABINO .

Labicno e i Treveri - Publio Crasso e l'Aquitania - Titurio Sabino e la Normandia.

))

147


53 9 I

VENETI .

166

Pag.

Chi sono i Veneti - Lunga e inutile fatica - La battaglia navale di Saint Gildas - Monito pesante - Foresta e tempesta.

(Liber Quartus) CAP.

IV - RENO

UsrPET I E TENCTERI •

))

177

))

1 93

\)

200

)l

222

))

228

)>

2

Un'altra migrazione - Un felice stratagemma - Imprevista e seria minaccia - La condizione fondamentale - Fermati, Cesare! - « Nihil spatii >> - « Favorevolissima occasione l> . I L PASSAGGIO DEL R ENO

La decisione - Il ponte - La testa di ponte.

CA P. V -

BRITANNI A

LA PRIMA SPEDIZIONE .

Esercito e flotta sulla Manica - Appare Commio - Il corpo di spedizione - Sei ore sulle ancore - Situazione nuova - « Summa difficultas ,, - La manovra delle navi lunghe - Ritrovato risolutivo - Infausto plenilunio - L'« essedum » - Affrettato reimbarco - La nuova oneraria.

(Liber Qui11tus) LA SECONDA SPEDIZIONE

I TREVERI

.

T re capi d'accusa. DuMNORIGE

Odiava Cesare e Romani - Libero uomo! di libero popolo! Lo SPAZIO È T EMPO .

La traversata - Nessuna distensione - « Ipse ad naves revertitur » - Cassivdlauno e T amigi - « Intellectum est .. . ,, .

AL

TAM IGI

Il passaggio - Passo lento e faticoso - La carta Mandubracio - Riappare Commio - Il ritorno.

))

37


PARTE TERZA

« FREME LA GALLIA ... »

(Liber Quintus) CAP. VI - AMBIORIGE ÙTTO LEGIONI OTTO PRESIDII .

Pag.

261

Siccità e regicidio. ToNGREs

))

« Tum suo more conclamaverunt ... ,, - << Magnaque existit controversia,, - « Ardere Galliam ... » · « In magnam convallem .. . )> - << Clamore et fletu ... » - « Iussus a,rma abjicere ... » - e< Victoriam conclamant ... )>. CHARLEROI

))

Centoventi torri - L'assedio.

« UNI CA SALVEZZA LA RAPIDITÀ » « .. . Omncm dubitationem expulit >).

))

CAP. VII - INDUZIOMARO LABIENO (( COGITABAT))

))

Non ubbidirono i Senoni - Il concilio armato - I fatti di Mouzon.

(Liber Sextus) CAP. VIII - ACCONE RAPIDE MA MODERA TE REAZIONI .

))

Dieci le legioni - I Nervi - I Senoni - I Carnuti - Due grossi obiettivi I Menap1 - Lo stratagemma di Labieno - Il secondo passaggio del Reno. GALLI E GERMANI

Fra due gorghi

))

I Galli -

Germani

Un confronto.

• ADUATUCA

))

Per un « paulisper » - « Fra sette giorni >J - Appello al vicinato - S'avvicinava il settimo giorno ... - Duemila furfanti - Il dubbio di Quinto Cicerone - T utto il campo in tumulto - Ritorna la colonna - La soluzi<>ne <lei veterani - Quasi pazzi ... - Il fantasma Ambiorige.

IL

PROCESSO DI REIMS •<

More maiorum » - Disfocazione d'attesa.

))

349


54 1 PARTE QUARTA

LA RIVOLTA DI VERCINGETORIGE (Liber Septimus) CAP. IX - CÉNABO

CHI

SARÀ IL PRIMO? .

Pag.

355

))

359

L'eccidio di Cénabo.

V ERCINGETORIGE Ad eum defertur imperium » - Il piano iniziale della rivolta - Un minuetto politico. <<

IL

BALZO

.

))

Unico approdo: la Provincia - La freccia Lutterio - Le Cevenne - « Precibus permotus » - « Non più di tre giorni >> . « 0PPIDUM DIRIPIT ATQUE I NCENDIT »

))

370

))

377

T rista realtà - Vellaunoduno dei Senoni - Decisero l'esodo.

CAP. X - A V ARICO « 0PPIDUM A v ARICUM » Il quarto d'ora di Novioduno dei Biturigi - Oppido quasi lagunare - Le direttive di Vercingetorige - Avarico si può difendere - Posizione iniziale dei due eserciti - Impossibile il blocco - L' « agger » - Le vinee - Due torri mobili - Pioggia freddo fame duro lavoro - Il diversivo di Rians - L'agger toccava, quasi, le mura .. . - La sortita - « Matres familiae ... ,, - L'attacco - « Unum consilium totius Galliae effecturum ... ».

CAP. XI - GERGOVIA EDUI, ESERCITO DIVISO, GERGOVIA

))

Le vettovaglie di Avarico - La crisi edua - La divisione dell'esercito - A Gergovia - La posizione di Gergovia - La Roche Bianche - Il vergobreto Convictolitave - I Diecimila - Benignità e condiscendenza - Suprema necessità. « DEIECTI SUNT LOCO

>>

Un'altra favorevole occasione - Il piano - Tre le puntate diversive - Le operazioni - Aspra reprensione.

))

44 1


54 2 CAP. XII - DIGIONE

Pag.

LA DEFEZ IONE EDUA .

458

Corsa alla Loira - Marcia, guado, viveri. LABI ENO

))

Da Nevers all'Ile de France - La battaglia di Lutezia. IL CONCILIO DI B1BRACTE .

>)

« Ad unum omnes » - La stessa inesorabile direttiva -

473

Il secondo fronte -

Cavalleria germanica. LA BATTAGLIA DI DIGIONE . «

"

Venisse tempus victoriae ... » - Le operazioni.

CAP. XIII - ALESIA

« A o ALESIAM CASTRA FECI T » . Fortezza naturale - Il blocco - Immediata reazione - Leva in massa - La controvallazione - Difese accessorie - La circonvallazione - Viveri per trenta giorni.

JL

GRANDE ESERCITO GALLICO

\)

»

505

« Omnes alacres et fiduciae pieni ».

Gu

ASSEDIATI

.

« Consumpto omni frumento ... »

)I

508

))

512

))

532

:,'alverno Critognato - « lnutiles

bello ». LE OPERAZI ONI

Giunge l'esercito di soccorso - Il primo tentativo di sblocco - La notte della fanteria - La manovra del Réa - « Nec iam arma nec vires . .. » Labieno sul Réa · L'azione diversiva di Vercingetorigc La contromanovra dei cinque « ~e ... » - La dissoluzione dell'esercito di soccorso. • LA RESA


Fini10 di stampare Febbraio

1996

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§.<!.Cii. TIPOLITOGRAFIA

00152 Roma - Via Ludovica Albenon i, 76/ 82 Tel. 06/ 5376386 - 5349080 - Fax 06/ 5377376


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