GIUSEPPE CACCIAGUERRA
L’UFFICIALE GIUSEPPE CACCIAGUERRA CUSTODE DI TRADIZIONI CENTENARIE Oltre a vantare un curriculum culturale di tutto rispetto, Accademia e Corsi ISSMI, e uno scambio formativo in Ungheria, l’Ufficiale Giuseppe Cacciaguerra è stato impegnato in diverse operazioni di Pace. Nel 2004 era a Nassiriya, si è trovato al centro di uno scontro a fuoco, che vedeva coinvolto un blindato presente il Gen. Chiarini, ma alla fine nessun militare rimane ferito. Approfondimenti Come comandante di Reggimento ha ricoperto l’incarico ITALBAT in Libano nell’ambito della missione UNIFIL con il compito di controllo delle principali arterie stradali, missione “strade sicure” con gli assetti della Brigata Granatieri di Sardegna di cui i Lancieri fanno parte, presso AlMansouri nel sud del Paese dei Cedri. Una delle zone più instabili per le precarie situazioni sociosanitarie. Approfondimenti
L’incarico internazionale viene poi ceduto al 3° Reggimento Bersaglieri di Teulada al Comando del Colonnello Carlo di Pinto alla presenza del Gen. Andrea Di Stasio. Un incarico peraltro più oneroso perché concomitante l’inizio della pandemia da Covid-19. Approfondimenti
Tornato in Italia il Colonnello Cacciaguerra per tre anni ha coordinato l’8° Lancieri Montebello e diviene il custode delle tradizioni di oltre trecento anni di tradizioni della Cavalleria. In una struttura in cui si respira ancora la Storia e le Tradizioni della Battaglia di Montebello del 20 maggio 1859 durante la II Guerra d’indipendenza in provincia di Pavia. Approfondimenti L’8° Lancieri Montebello è comunque legato indissolubilmente alla Capitale e alla sua difesa durante la II Guerra Mondiale nei combattimenti del settembre 1943, guadagnandosi l’onorificenza della Medaglia d’Argento al Valor Militare allo Stendardo. Come prassi e antica tradizione il Reggimento Lancieri di Montebello svolge oltre al Carosello domenicale annuale presso l’ippodromo di Piazza di Siena: una difficile esibizione in 14 minuti che rapisce il pubblico dall’inizio alla fine con magiche evoluzioni. Altresì ha i compiti di Alta Rappresentanza presso il Palazzo del Quirinale, della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica, e partecipa attivamente al rigido protocollo del Cerimoniale di Stato destinato alle massime Autorità politiche e militari. Approfondimenti Intervista al Col. Giuseppe Cacciaguerra: video intervista Il Club Rotary Roma Nord Ovest da 30 anni al fianco della disabilità. Il dono della nuova Club House da parte dell’Esercito, il Sottocapo di SME Gen. Corpo d’Armata Giovanni Fungo a novembre 20202, ha firmato una convenzione per “Servire al di sopra di ogni interesse”. Un dono che vuole essere ancora una volta – ha ricordato il Comandante dei Lancieri di Montebello Colonnello Giuseppe Cacciaguerra – un segno di una fattiva e meritevole collaborazione tra Esercito Italiano e Centro di Riabilitazione, dove tutto lo staff potrà assistere ogni utente e i loro accompagnatori in privacy e sicurezza. Approfondimenti
Il Comandante dei Lancieri di Montebello 8° il Colonnello Giuseppe Cacciaguerra era presente, anche ultimamente alla Messa celebrata il 18 febbraio 2021, il 245° anniversario della morte di Don Alberto Genovese, duca di San Pietro, presso la Basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri in Roma. Alla cerimonia c’erano le più alte cariche dello Stato, il Capo di SME, il Consigliere del Presidente della Repubblica, il Sottosegretario Domenico Rossi, e più alti vertici delle FF.AA.. Dal presidente di ASSOARMA Generale di Corpo d’Armata Mario Buscemi nonché autorità delle altre Forze Armate e di Polizia. Approfondimenti
Oltre agli oneri e onori di servizio il Comandante Cacciaguerra è anche uno studioso StoricoMilitare e ha pubblicato a cura dell’Ufficio Storico dello SME una monografia sconosciuta ai più: Il corpo di spedizione italiano in Murmania 1918- 1919. Una peregrinazione di rientro alla fine della Grande Guerra dalla Russia più remota che si dovette confrontare con l’epidemia della Spagnola, ma anche in combattimenti contro le truppe Bolsceviche presso Vladivostok. Approfondimenti galleria fotografica
Dal 28 ottobre 2021 ha preso l’incarico di Capo del Centro Pubblicistica dell’Esercito nell’ambito del V Reparto dello SME. Quale Direttore dell’antica testata “Rivista Militare” edita fin dal 1856. Una nuova sfida che lo porterà a confrontarsi in una palestra di studio e di confronto dialettico sui temi dell’Informazione Istituzionale scevro da vecchi e nuovi obblighi del libero pensiero. Ma questi non è nuovo di questo spazio culturale infatti ha è stato collaboratore della Testata in diversi articoli che di seguito riproponiamo.
RIVISTA MILITARE
2011 Riflessioni sulla formazione Militare degli Ufficiali n.2 pag. 104 2012 la “Via Italiana”. Radici di una diversità n.3 pag. 34 2018 Jean Bloch: il futuro della guerra n.1 pag. 64 2019 Esercito sociale n.4 pag. 95 2021 La grande illusione di Norman Angell n.3 pag. 38
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RIFLESSIONI SULLA FORMAZIONE MILITARE DEGLI UFFICIALI DALL’ACCADEMIA MILITARE AL CORSO DI STATO MAGGIORE La formazione militare si sviluppa nel corso di un’intera vita passata sotto le armi e l’assunto «non si finisce mai di imparare» risulta, anche in questo nostro ambito, una verità indiscutibile. Si potrebbe definire la formazione militare (ampliandola leggermente rispetto a quanto previsto dal «glossario dei termini e delle definizioni in uso») come un processo che attraversa una serie di fasi ed è composto variamente, e in maniera non omogenea, principalmente dalle esperienze professionali maturate sul campo, dalla preparazione fisica e dagli studi svolti negli Istituti di formazione, in sintesi: mens sana in corpore sano. Proprio all’importanza della formazione, svolta nei vari Istituti, si rivolgono queste brevi note, che esprimono esclusivamente opinioni personali e che trattano un arco temporale ben definito (fino al corso di Stato Maggiore) in quanto vissuto in prima persona, nella convinzione che uno studio di ben altro respiro e autore sarebbe necessario.
LA FORMAZIONE: BENE IRRINUNCIABILE L’attenzione attribuita alla formazione dovrebbe trascendere da qualsiasi carenza o difficoltà finanziaria e andrebbe considerata alla stregua di un bene irrinunciabile. Preparare un corso di Ufficiali è assai più difficile che non acquistare un’arma moderna o ipertecnologica. Competere con le al-
tre Nazioni nell’acquisto di materiali o armi militari dell’ultima generazione sarà sempre mortificante visto che, in fondo, si tratta solo di avere o meno a disposizione un budget consistente. Ciò che non si può comprare è la preparazione degli Ufficiali che è frutto non solo di tempo, tanto possiamo dire, ma di un continuo aggiornamento dei Quadri insegnanti e Istruttori. Prendere anche solo in considerazione la possibilità di non effettuare dei corsi di formazione o delle esercitazioni per Posti Comando, specie internazionali, a causa della mancanza di risorse finanziarie, sarebbe uno di quegli errori a cui non si può porre rimedio (sintomatico di un approccio remissivo e poco lungimirante). «Formare» in questo caso significa preparare a impiegare uno strumento; lo strumento in fondo è un oggetto e lo si può comprare, magari non oggi, ma quando le risorse saranno disponibili, la formazione invece, non si compra agli show room. I segreti dell’industria militar-industriale possono anche essere copiati o rubati, ma non può esserlo la preparazione, raggiunta con il sacrificio sui banchi di studio o con la vita di reparto. Con l’aiuto di una metafora possiamo dire che a un ingegnere (che sarebbe il nostro Ufficiale) potrebbero mancare i soldi per acquistare i mattoni (che sarebbero i mezzi, le armi...) della casa che deve costruire. A tempo debito,
Reggimento Usseri di Piacenza 18621871.
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però, quando le risorse economiche saranno disponibili, egli la saprà erigere bella, funzionale e solida.
LA FINE DEL BIPOLARISMO: NUOVI NEMICI E NECESSITÀ DI NUOVI STUDI L’intimo convincimento della necessità di continuare l’approfondimento e lo sviluppo della formazione militare tout court nasce dagli impe-
gni che la Forza Armata sta affrontando da ormai diversi anni, su svariati fronti, in un mutato contesto internazionale. La certezza del bipolarismo, infatti, si traduceva non solo in un apparente ordine mondiale, ma anche, a beneficio di questa trattazione, in una semplicità di apprendimento e studio che oggi sono superati. In sintesi, si può affermare che mentre un tempo si studiava il Partito Arancione con i suoi mezzi, le sue
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tecniche e i suoi organici, oggi uno studio analogo è quasi impossibile, proprio perché manca la controparte chiara e definita: il nemico. In realtà, di nemici (primo fra tutti il terrorismo imbevuto di ideologie religiose) ce ne sono molti, ma sono di difficile catalogazione; non li si riesce, insomma, ad inquadrare. Questa è, di per sé, una delle grandi sfide che il mondo militare deve affrontare e che necessita di coraggio, di confronto e implica, a tutti i livelli ordinativi, la pre-
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sa di coscienza che sistemi di studio e iter di formazione ultra-collaudati e ritenuti funzionali fino ad ora, magari, potrebbero non attagliarsi adeguatamente alle nuove situazioni. Nelle righe iniziali abbiamo definito la formazione militare quale processo che attraversa diverse fasi.
PRIMA TAPPA DELLA FORMAZIONE MILITARE: L’ACCADEMIA La prima fase, che rappresenta il punto di partenza per la carriera delle armi, ovvero l’Accademia Militare ed eventualmente le Scuole Militari, è caratterizzata da una formazione che deve essere certamente imposta; il giovane Cadetto non ha alcuna esperienza per poter decidere, non sa ciò che potrebbe essergli utile, ma va fatto ogni sforzo possibile per fargli capire i risultati da ottenere e farglieli condividere. Egli è una «spugna», in grado di recepire tutto. Proprio per questo la prima è la fase più delicata. I risultati da ottenere non vanno semplificati con la sufficienza negli studi. Il traguardo del 18, per intenderci, è solo uno dei molti e, a dirla tutta, neppure è quello più importante. Altri sono i risultati da ricercare. Anzitutto, l’Accademia ha il compito di creare i Comandanti (non sono molto attagliate le definizioni di manager e leader; chi intraprende la carriera delle Armi lo fa per essere un Comandante). Di conseguenza, è proprio dalle caratteristiche principali che deve possedere un Comandante che bisogna partire per delineare il processo che permetterà di esaltarle e svilupparle. Spirito di sacrificio, lealtà e coraggio, solo per citare alcuni tratti propri di un Comandante, potrebbero facilmente essere accresciuti e ampliati (è assai difficile impiantarli ex novo, come scriveva Manzoni: «il coraggio uno non se lo può dare»), ad esempio con la pratica di discipline sportive idonee. In definitiva, si può lavorare, e bene, nel far crescere l’entusiasmo e la determinazione laddove il terreno si presenti fertile, da qui
l’assoluta importanza delle selezioni per l’ingresso negli Istituti. L’attività sportiva (che non deve essere considerata esclusivo appannaggio dell’addestramento) riveste nel processo della formazione militare un ruolo primario, ma deve essere un’attività mirata e intelligente, lontana dal meccanismo degli esercizi ginnici imposti con «marziali» ordini (uno-due, uno-due). Al contrario, sarebbe utile far praticare sport che insegnino l’importanza del gruppo, della squadra, del sacrificio, della vittoria che costa sudore: un ottimo esempio potrebbe essere il rugby. Questo sport, infatti, esalta il coraggio, la forza, l’attaccamento ai propri compagni e permette di superare la paura del contatto fisico scaricando, infine, tutto lo stress accumulato sui banchi di studio. Discorso analogo si potrebbe fare per la difesa personale, caldeggiando il ritorno al pugilato, sport che insegna il rispetto per l’avversario e permette di conoscere a fondo le proprie potenzialità. Un tempo lo si praticava, poi, ritenuto troppo duro, è stato abbandonato (chi intraprende la carriera delle armi non si dovrebbe spaventare indossando un paio di guantoni e le idonee protezioni). L’equitazione e il nuoto, per armonia e completezza, andrebbero praticati da tutti per l’intero periodo di permanenza negli Istituti. Per quanto concerne le materie di studio, sensu lato la cultura, il discorso è legato al conseguimento della laurea, per cui è difficile proporre alternative che risulterebbero comunque imbrigliate dalle procedure universitarie standardizzate. Sull’importanza del conseguimento della laurea tanto si è già discusso in passato e non è opportuno, ai fini di questa trattazione, ripercorrerlo. La scelta di far laureare gli Ufficiali è stata una decisione oculata e importante. Si potrebbe, però, in aggiunta al già ottimo lavoro che viene svolto, favorire il lavoro di gruppo valutandolo positivamente e incentivandolo; il tutto nell’ottica di amalgamare e rendere il lavoro collettivo non una mera fase transitoria,
ma la norma! È la squadra che deve vincere, non il singolo. È la media che ti fa promuovere a scuola, non l’eccellenza in una singola materia. Per cui, parallelamente, non serve tanto il singolo elemento dalle capacità «geniali», quanto il gruppo omogeneo fortemente coeso; il cadetto deve abituarsi a lavorare con il gruppo e per il gruppo, ancor prima che per sé. La ricerca della singola eccellenza non fa altro, verosimilmente, che spingere al virtuosismo del singolo, all’individualismo e al «carrierismo» nella sua accezione negativa.
SECONDA TAPPA DELLA FORMAZIONE MILITARE: IL REPARTO La seconda fase è rappresentata dall’incontro del giovane Ufficiale con la realtà del reparto operativo. Qui, il processo di formazione, prettamente professionale, aumenta esponenzialmente ed è affidato, quasi esclusivamente, alle capacità del Comandante di reparto ove egli trova collocazione organica. Di conseguenza, non si può affidare questa fase del processo formativo «sul campo» solo alla buona sorte (ovvero imbattersi in un Comandante competente e in grado di insegnare, visto che, tra l’altro, sono due caratteristiche che molte volte non vanno di pari passo). Bisognerebbe, a questo punto, intervenire con un programma che continui a seguire i nostri Ufficiali anche in questo periodo che devono affrontare da «soli» (ovvero non guidati dagli Istituti di formazione). Si vuole evidenziare, insomma, che trascorrono troppi anni (quasi dieci) dall’arrivo al reparto come prima assegnazione e il ritorno sui banchi di studio per frequentare il corso di Stato Maggiore. Sarebbe utile uno step intermedio di aggiornamento che, qualora non possibile, per note e perpetue carenze finanziarie, potrebbe essere condotto, con costi contenuti, presso i Comandi delle Brigate di appartenenza. In questa decade, però, il nostro Ufficiale farà molteplici
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esperienze di cui buona parte all’estero, in missione. Per giunta, molte di queste missioni verranno svolte presso Comandi di contingenza, quale augmentees, senza possedere, probabilmente, tutti gli strumenti necessari per assolvere al meglio il compito ricevuto. Il rischio che l’Ufficiale correrà, alla fine, sarà quello di capire solo in parte ciò che gli succede attorno e di sicuro non riuscirà a sfruttare questa esperienza appieno per incrementare la propria formazione. Il messaggio da sottolineare è che l’Ufficiale di oggi si presenta al corso di Stato Maggiore con un bagaglio professionale enorme non sostenuto, contestualmente, da un’adeguata base di studio di stampo professionale. Chiarendo meglio, la parte del leone negli studi è sempre rappresentata dal conseguimento della laurea, i cui risultati in termini di metodologia acquisita e cultura in senso lato emergeranno col tempo, ma è altrettanto vero che la redazione di un documento, quale un ordine di operazione o un più semplice FRAGO, non può restare un miraggio fino al corso di Stato Maggiore (nel frattempo, infatti, i nostri Ufficiali avranno lavorato in molti Comandi, avranno scritto ordini, piani e il tutto senza possedere la «grammatica» di base).
TERZA TAPPA DELLA FORMAZIONE MILITARE: IL CORSO DI STATO MAGGIORE La terza fase si concretizza nella frequenza del corso di Stato Maggiore che dovrebbe rappresentare il punto di svolta. Dopo questo corso si è abilitati a lavorare nello Staff di uno Stato Maggiore. Ciò che va detto, però, è che le conoscenze qui acquisite (o che si dovrebbero acquisire) sarebbero state utili ben prima, anche quando non si lavorava presso un Comando. Una piccola digressione a parte va fatta per i contenuti veri e propri del corso. Pur restando, a livello teorico, utile per il wargame e per le esercita-
zioni di base, non si dovrebbero sprecare troppe energie nell’approfondimento di «vecchi nemici» facendo esercitare gli Ufficiali sulle carte topografiche del Friuli. Insomma, ciò che non manca è il numero di teatri aperti e/o potenziali sui quali studiare ed esercitarsi, evitando così la routine di scenari ripetitivi e di nessuna attinenza con la realtà. Perché non addestrarsi su scenari presenti o futuri? Perché non sviluppare gli studi su recenti conflitti (es. la Prima Guerra del Golfo) con l’intervento di oratori che vi hanno partecipato e permettendo uno scambio di preziose informazioni? Si dovrebbero prendere in esame differenti scenari in diversi continenti (europeo, desertico, tropicale, urbano...) anziché continuare a parlare di Arancione che avanza nel NordEst (ammesso che lo avrebbe fatto). Un approccio nuovo permetterebbe a tutte le branche (in primis la branca 2) di esercitarsi veramente. Se non esistono procedure standard dell’ipotetico nemico, una delle sfide maggiori dovrebbe proprio essere quella di prepararle sulla base dei precedenti storici, sull’impiego delle Tecniche Tattiche e Procedure (TTP), su come i suoi alleati operano o hanno operato in precedenza. Grande importanza, inoltre, andrebbe attribuita alla possibilità di inviare per la frequenza all’estero presso gli Istituti di altre Nazioni i nostri Ufficiali. Questa opportunità, però, andrebbe sfruttata al meglio impiegandoli al loro rientro quali inseganti-tutor negli Istituti di formazione per trasmettere alle nuove leve quanto appreso (in pratica, gli Ufficiali inviati a studiare all’estero al rientro dovrebbe trascorrere un periodo minimo presso le Scuole, per riversare quanto appreso in termini di metodologia, nozioni e procedure). Il più delle volte, invece, succede che questa esperienza resterà bagaglio personale del singolo perché non avrà modo di trasmetterla e, non discutendola con gli altri, andrà inevitabilmente persa o non aggior-
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nata. La terza fase è quella della svolta professionale. Adesso si possiedono gli strumenti essenziali per svolgere il proprio compito ai vari livelli dell’organizzazione militare. È una fase che, a differenza delle precedenti, implica una partecipazione e condivisione degli scopi maggiore. Gli Ufficiali hanno qui piena coscienza di cosa apprendere e lo fanno con determinazione. Bisogna fare uno sforzo coraggioso per presentare novità, per stare al passo con gli sviluppi internazionali, per esercitarsi su teatri di potenziale crisi.
CONCLUSIONI L’intelligenza, la curiosità e le competenze acquisite dagli Ufficiali andrebbero sfruttate, piuttosto che accantonate in nome della dottrina. La dottrina cambia, si adegua e allorquando la si scrive è già «sorpassata»; è come un vestito alla moda, lo compri perché è bello, di tendenza, ma sai che lo userai solo una stagione e questo perché i nostri giorni non permettono abiti classici. Le Scuole devono essere innovatrici e devono trasmettere l’amore per il sapere e per il confronto. Tutti gli Istituti dovrebbero far leva sui Quadri più giovani, sugli Ufficiali più preparati e non ancorati a dogmi dottrinali stantii, in grado di discutere serenamente nuove problematiche avendo la forza di mettersi, loro stessi, in discussione. Così facendo, alimenteremo con nuova linfa il dibattito sulle questioni militari (le nostre questioni!) sviluppando idee, progetti e piani nuovi per rimanere sempre al passo con i tempi e, possibilmente, anticipandoli. Non si deve temere il cambiamento, non ci deve spaventare, perché tanto più saremo coraggiosi nell’impiegare metodi moderni, scenari realistici e attuali quanto più serenamente affronteremo le sfide future. Giuseppe Cacciaguerra Maggiore, già frequentatore del 13° Corso ISSMI
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LA «VIA ITALIANA» RADICI DI UNA DIVERSITÀ L’articolo propone una chiave di lettura della «via italiana» alle operazioni militari ricercando le radici che ne sottendono la peculiarià (per cui: non cosa facciamo, ma perché lo facciamo). È un’analisi storico-religiosa, che tende a portare lustro al nostro operato, evidenziando le nostre origini e la nostra «originalità» della quale dobbiamo essere fieri in quanto «unica» e che va trattata alla stregua di un moltiplicatore di forza: in sintesi una sorta di benefit congenito del nostro essere italiani. Che esista una «via italiana» alle operazioni militari è un fatto noto, così come altrettanto noti e riconosciuti a livello internazionale sono i successi che essa ci ha permesso di raggiungere (1) (anticipando prag-
maticamente ciò che poi altri Paesi hanno tradotto o stanno traducendo in teoria e dottrina: basti pensare alla sfera del comprehensive holistic systemic approach). Prendendo le mosse da questo assunto, scopo
dello scritto è proporre una chiave di lettura inerente alla condotta dei militari italiani, ovvero, più specificatamente, cercare di evidenziare le ragioni che ne sottendono la peculiarità comportamentale. Sulle missioni italiane si è già scritto molto, ma, forse, non sono state approfondite le ragioni che rendono l’operato dei soldati italiani unico al mondo. Infatti, si è descritto molto di come essi si comportino e cosa facciano, ma non perché agiscano in modo peculiare. Il perché, al quale si tenterà di dare risposta, non è connesso con gli scopi che il nostro Stato si prefigge in ambito internazionale (è di relativa importanza che si stia trattando di War o Military Operations Other Than War), è un perché più profondo legato al nostro comportamento sociale, alla nostra storia, alla nostra cultura e alla nostra religione. Non ci si limiterà, di conseguenza, alla mistica speculazione di Angelo Silesio: «La rosa è senza perché, fiorisce poiché fiorisce, di sé non gliene cale, non chiede d’esser vista» (2). Si proverà, in punta di piedi, ad andare oltre.
LA «VIA ITALIANA» «Oggi siamo considerati a tutti gli effetti un grande Paese, non più come eravamo visti prima: un Paese fragile e disorganizzato, che aveva un Prodotto Interno Lordo elevato grazie all’operosità dei suoi abitanti» (3). Le parole appena
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citate sono di Massimo D’Alema già Presidente del Consiglio dei Ministri, che riconosce i meriti del cambiamento italiano anche alle missioni di pace condotte dai nostri militari. Gli impegni internazionali ai quali abbiamo partecipato, unitamente alla professionalizzazione dell’Esercito, ci hanno fatto riacquistare quella stima e quel rispetto sociale che erano patrimonio nazionale fino ai funesti eventi della Seconda guerra mondiale. È pertanto evidente come le questioni militari non abbiano trovato larga eco da noi nell’immediato dopoguerra. Di conseguenza, il rinnovato interesse e l’ampio appoggio odierno per il
Angelo Silesio.
mondo in uniforme sono una vera e propria panacea: i nostri soldati sanno di avere il proprio Paese alle spalle che li sostiene. Le recenti missioni hanno ancora una volta evidenziato una tipicità tutta italiana. Essa era emersa anche nel corso delle campagne militari della Seconda guerra mondiale allorquando il Generale Robotti sosteneva che: «Si ammazza
troppo poco» (4) a cui faceva eco il Generale Roatta: «Non dente per dente, ma testa per dente» (5). Anziché accomunarci ad altre condotte, come sembrerebbe a una prima e immediata lettura, ce ne discostano. Infatti, proprio l’invito-ordine ad «ammazzare di più» sottintende che i nostri militari facevano il loro dovere entro determinati limiti e che quanto ordinato dal Generale Robotti o dal Generale Roatta era evidentemente in contrasto con la coscienza propria delle truppe (perché ordinare, altrimenti, siffatte condotte se fossero state naturali?). Non va dimenticato, inoltre, che: «Anche i più duri ordini dei Comandi ponevano limitazioni alle rappresaglie, come il rispetto per donne e bambini» (6). Italiani brava gente? Sarà pure un luogo comune, un vecchio cliché e probabilmente alcuni storici non concorderanno (7) , ma è plausibile sostenere che i militari italiani si comportino con grande rispetto, unico nei confronti delle popolazioni ove vengono inviati. La prima e più semplice ragione risiede nel fatto che per poter rispettare gli altri bisogna anzitutto saper rispettare se stessi, oltreché le regole e il Diritto in genere. Il rispetto
nel mondo in grigio-verde è, in primis, «disciplina» e i nostri militari sono disciplinati. Prova ne è che non abbiamo alcun bisogno di istituire figure ad hoc responsabili, principalmente, della cura della disciplina. Questa caratteristica, di per sé, rappresenta già la base per operare correttamente e poco importa se si è impegnati in una operazione Art.5 o Non Art.5. È importante, a questo punto, iniziare a delineare le ragioni che sottendono questa unicità. Una prima e attagliata risposta può trovare riscontro in un dibattito nel corso della presentazione del libro «Soldati» (8), del Generale Fabio Mini. I militari italiani sono tra i migliori al mondo per il semplice motivo che sono uomini e donne di «cultura». Poiché il livello culturale (inteso anche quale riconoscimento scolastico) degli operatori delle Forze Armate italiane è tra i più elevati al mondo. Di per sé, quindi, la cultura aiuta a capire gli altri e indirizza il nostro comportamento sia negli atteggiamenti di fermezza sia negli atteggiamenti di comprensione. Il che non significa essere remissivi o ancor peggio non saper combattere. La nostra cultura è insegnata nelle famiglie e nelle scuole, certo, ma soprattutto è
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Con queste parole il filosofo B. Russel ci spiega come la grandezza di Roma fu dovuta alla capacità di acquisire dagli altri, ritenuti «superiori», quanto di utile ci fosse, il che implica una notevole dose di rispetto. Rispetto che va unito a quello che è universalmente riconosciuto come uno dei più grandi contributi lasciati dai Romani: il Diritto. Il rispetto e il Diritto, che uniti sono il «rispetto del Diritto», rappresentano una componente fondamentale anche dei militari italiani di oggi. Questo, sia per-
A sinistra. Un particolare della Colonna Traiana. Sotto. La Concordia (Altare della Patria).
acquisita vivendo in Italia, in virtù del suo immenso patrimonio storico-artistico. È proprio la cultura che ci fa comprendere come sia impossibile credere che stiamo vivendo nel famoso periodo dello «Scontro delle civiltà» di S. Huntington (9). Basti pensare alla missione in Kosovo, dove siamo intervenuti per aiutare una minoranza musulmana dalle violenze serbe e dove ci siamo distinti, dal 1999 in poi, per imparzialità promuovendo in ogni occasione il dialogo e operando nella difesa dei più deboli. La conquista dei cuori e delle menti (il motto delle operazioni psicologiche statunitensi è «capture their minds, and their hearts and souls will follow») (10), quale integrazione della «forza bruta», non abbisogna di particolari corsi o addestramento per noi, la consideriamo spontanea, i nostri soldati l’hanno sempre applicata, magari neppure sapendolo, con la normale condotta proprio perché essa fa già parte del nostro patrimonio.
LE RADICI DELLA «VIA ITALIANA» Questa via, se così possiamo definirla, affonda le sue radici in una tipicità maturata nel corso della storia del
nostro Paese, in particolar modo nella romanità, la prima radice, e nella religione Cristiana, la seconda. La grande forza del mondo romano risiedeva anzitutto in una sorta di capacità di autocritica: «Quando i Romani vennero per la prima volta in contatto con i Greci, si accorsero d’essere, in paragone, barbari e rozzi. I Greci erano troppo superiori sotto molti punti di vista.... In una parola, Roma fu culturalmente parassitaria rispetto alla Grecia» (11).
ché abitiamo le terre dei nostri avi, elemento geografico da non sottovalutare mai (12), sia perché il modello romano, riconosciuta la sua inferiorità, ci ha gradatamente trasformato, quale elemento culturale, permettendoci di interiorizzare e far nostra la cultura degli antichi in virtù della propria condizione di «quasi» parvenu rispetto ai Greci. Le strabilianti vittorie militari e la conquista di un vasto impero non furono rese possibili solo da un apparato bellico effi-
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ciente (hard power), anche se le armi romane erano spesso inferiori a quelle usate dai nemici (13), ma soprattutto dalla capacità di trasformare con la concordia (eletta a divinità, in sintesi: spirito dell’armonia e unità dei cuori) diversi popoli in cittadini di un’unica Patria, in virtù del Diritto romano (soft power). Citando un famoso brano di Sallustio: «Ita brevi multitudo diversa atque vaga concordia civitas facta erat» (14), Roma integrava la diversità e faceva dell’estraneo, del «barbaro», del nemico affrontato sui campi di battaglia, un cittadino della urbs aeterna! Quel patrimonio non era solo di Roma antica, è giunto fino ai giorni nostri: tra le più belle statue presenti sull’Altare della Patria spicca quella dedicata proprio alla Concordia. La concordia, l’humanitas e la pietas sono state le colonne portanti della romanità che hanno contribuito a formarci di pari passo con la seconda radice: il Cristianesimo. Secondo Marta Sordi, compianta storica docente di romanità, tra le radici romane e quelle cristiane «non c’è contraddizione: c’è innesto (...) Roma è già cattolica prima di diventare cristiana (...) cattolico vuol dire universale, e l’antica Roma fu proprio questo, l’integrazione di ogni popolo entro il diritto universale» (15). Peraltro, un elemento caratterizzante il Cristianesimo è il rispetto per le altre culture e religioni derivante dalle traduzioni dei testi antichi e dall’amore per la conoscenza del passato. I cristiani, basti pensare all’ininterrotta opera dei monaci, hanno tradotto molto, ma hanno mantenuto i testi originali per le future generazioni, dal momento che un testo «classico» sarà sempre una guida. Ciò perché un testo non tradotto, quindi, non «mediato», garantisce la possibilità di «un rinascimento, che è appunto il ritorno periodico dell’Occidente alle sue radici» (16). Si è fatto riferimento a questi aspetti culturali perché, uniti al messaggio proprio del Cristo (un rivoluzionario messaggio di amore, fiducia e tolle-
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ranza) ci hanno permesso, nel corso dei secoli, di acquisire una sensibilità, nei confronti del prossimo e della sua cultura, del tutto unica. I nostri soldati assolvono i delicati compiti delle missioni internazionali straordinariamente bene anche in virtù di tale «vantaggio» (senza nulla togliere all’addestramento, alla preparazione fisica e alla formazione tecnico-specialistica). Anche il Maresciallo d’Italia Giovanni Messe, sostenne: «Noi siamo generosi, noi poi in fondo non sappiamo odiare. La nostra anima è fatta così, per-
mente idonei a svolgere le missioni internazionali. La questione è che le caratteristiche che facilitano il nostro operato, permettendoci ad esempio un dialogo privilegiato con gli autoctoni, sono il frutto, come spiegato, di secoli di adattamenti che non si apprendono con corsi cultural awareness e, di fatto, non possono essere interiorizzati in tempi brevi. Il nostro ruolo di «soldati» è sempre più proiettato in missioni all’estero, quali veri e propri ambasciatori e mediatori che ricorrono alle armi solo
ciò io ho sempre sostenuto che noi non siamo un popolo guerriero, un popolo guerriero odia» (17). Al contrario, proprio il profondo rispetto del Diritto e la centralità posta agli aspetti umani, in qualsivoglia tipo di operazione o situazione, ci consentono di assolvere al meglio la missione assegnataci.
quando necessario, come eccezione e non regola e che svolgono il proprio dovere anzitutto cercando di capire gli altri tendendo la mano per primi. D’altronde cosa è l’Italia se non un ponte naturale tra il Nord e il Sud, ma soprattutto tra l’Est e l’Ovest? Per noi Italiani la comprensione viene naturale. È nei contesti difficili, dove bisogna interpretare la situazione sociale, il comportamento delle popolazioni, che la nostra diversità, che rappresenta una sorta di benefit o di credito, andrebbe sempre sfruttata appieno. Difatti, essa non va mortificata in
CONCLUSIONI Tirando le somme di questa breve analisi, i nostri militari hanno peculiarità che li rendono particolar-
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Roma, 2009, p. 84. «E così in breve da una moltitudine disparata ed errante l’unità dei cuori fece sorgere una Nazione». (15) M. Sordi, Roma per l’Europa, intervista a cura di M. Blondet, «Avvenire», 30 ottobre 2004. (16) M. Sordi, «Roma per l’Europa», op. cit.. (17) Cit. in: A. Osti Guerrazzi, «Noi non sappiamo odiare», Utet, Torino 2010, p. 232.
BIBLIOGRAFIA
nome di un appiattimento comportamentale su parametri che non appartengono né alla nostra storia né alla nostra cultura né alla nostra religione. Il nostro essere diversi, in conclusione, va considerato un moltiplicatore di potenza anziché una debolezza e va assecondato anziché combattuto. Questa tipicità dovrà continuare a farci ritenere fieri delle nostre origini, della nostra cultura, della nostra condotta, insomma: fieri di essere Italiani. Giuseppe Cacciaguerra Tenente Colonnello, Tutor presso l’Istituto Superiore di Stato Maggiore Interforze
NOTE (1) Un contributo per tutti: «Obama loda i nostri soldati...», in: http://www.corriere.com/viewstory.phpstoryid= 93418. (2) A. Silesio, «Il Pellegrino Cherubico», Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1999, p. 289. (3) M. D’Alema, «Kosovo», Mondadori, Milano, 1999, p. 53. (4) Cit. in: G. Oliva, «Si ammazza troppo
poco», Mondadori, Milano, 2006, p. 119. (Per raffrontarsi a chi ha fatto della violenza indiscriminata la regola, fra i molti pubblicati cfr.: R. Rhodes, «Gli Specialisti della Morte», Mondadori, Milano, 2005 e D. J. Goldhagen, «I Volenterosi Carnefici di Hitler», Mondadori, Milano, 1997). (5) Cit. in Ibid. (6) G. Rochat, «Le guerre Italiane 19351943. Dall’impero d’Etiopia alla disfatta», Einaudi, Torino, 2005, p. 370. (7) Cfr. A. Del Boca, «Italiani brava gente?», Neri Pozza, Vicenza, 2005. (8) Cfr. F. Mini, «Soldati», Einaudi, Torino, 2008. Presentazione del libro a Gorizia il 2 ottobre 2008. (9) Cfr. S. Huntington, «Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale», Garzanti, Milano, 2000. (10) Cit. in: http://www.psywarrior.com. (11) B. Russel, «Storia della Filosofia Occidentale», TEA, Forlì, 2002, p. 279. (12) Cfr. E. Galli della Loggia, «L’Identità italiana», il Mulino, Bologna, 2010 e F. Braudel, «Il Mediterraneo», Bompiani, Milano, 2008. (13) Cfr. E. Luttwak, «La grande Strategia dell’Impero Romano», BUR, Roma, 2009 e Y. Le Bohec, «L’Esercito romano», Carocci, Urbino, 2006. (14) Sallustio, «La Congiura di Catilina», a cura di L. Storoni Mazzolani, BUR,
Brague R., «Il futuro dell’Occidente. Nel modello romano la salvezza dell’Europa», Bompiani, Milano, 2005. Braudel F., «Il Mediterraneo», Bompiani, Milano, 2008. D’Alema M., «Kosovo», Mondadori, Milano, 1999. De Felice R., «L’Italia in guerra, Mondadori, Milano, 2006. Del Boca A., «Italiani brava gente?», Neri Pozza, Vicenza, 2005. Galli della Loggia E., «L’Identità italiana», il Mulino, Bologna, 2010. Goldhagen D. J., «I Volenterosi Carnefici di Hitler», Mondadori, Milano, 1997. Le Bohec Y., «L’Esercito romano», Carocci, Urbino, 2006. Luttwak E., «La grande Strategia dell’Impero Romano», BUR, Roma, 2009. Mini F., «Soldati», Einaudi, Torino, 2008. Oliva G., «Si ammazza troppo poco», Mondadori, Milano, 2006. Osti Guerrazzi A., «Noi non sappiamo odiare», Utet, Torino, 2010. G. Rochat, «Le guerre Italiane 1935-1943. Dall’impero d’Etiopia alla disfatta», Einaudi, Torino, 2005. Rhodes R., «Gli Specialisti della Morte», Mondadori, Milano, 2005. Russel B., «Storia della Filosofia Occidentale», TEA, Forlì, 2002. Sallustio G., «La Congiura di Catilina», a cura di L. Storoni Mazzolani, BUR, Roma, 2009. Silesio A., «Il Pellegrino Cherubico», Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1999. Sordi M., Roma per l’Europa, intervista a cura di M. Blondet, «Avvenire», 30 ottobre 2004. http://www.psywarrior.com. http://www.gsr-roma.com. http://www.batsweb.org.
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Jean de Bloch: il futuro della guerra di Giuseppe Cacciaguerra*
“Sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo” S. Quasimodo
A un secolo dalla Prima Guerra Mondiale, in piena commemorazione (1) dell’evento che, per catastrofica portata, ferì profondamente il Vecchio Continente, pare doveroso tentare una sintesi dell’immenso lavoro svolto da Jean de Bloch, paladino del pacifismo internazionale (2). In tale contesto egli seppe guadagnarsi un posto di rispetto per la concretezza scientifica e originale del suo pensiero. Si tenterà, quindi, di presentare l’autore quale “profeta” delle guerre future le quali, come teorizzato dallo stesso, diventeranno impossibili (3).
Jean de Bloch.
JEAN DE BLOCH È lo stesso Bloch a ricordare, nel corso di un’intervista (4), i vari epiteti con i quali era solito essere appellato: “utopista, visionario, idealista” e, nel migliore dei casi, era considerato un ricco eccentrico (5). Jean de Bloch nacque il 24 giugno 1836, nella Polonia russa a Radom, da una famiglia ebrea non molto agiata. Malgrado ciò, dopo gli studi universitari, intervallati da periodi di apprendistato presso alcune banche già da giovanissimo, egli seppe consolidare una notevole fortuna economica, attribuibile alle sue capacità organizzative e al duro lavoro sempre svolto grazie a un’energia inesauribile. Tali abilità furono impiegate da Bloch anche in ambito letterario, con un’approfondita analisi del fenomeno “guerra”. Non a caso la sua opera principale è: The Future of War in its technical, economic and political relations (6) pubblicata nel 1898, appena quattro anni prima di morire. Bloch si prefiggeva di dimostrare, con un lavoro scientifico estremamente dettagliato e strutturato dal punto di vista tecnico-economico, come la guerra sarebbe stata resa impossibile dalle potenzialità delle nuove armi e dalle interconnessioni finanziarie tra gli Stati. Le competenze specifiche in materia economica di Bloch erano rilevanti, considerata la sua professione di banchiere e industriale, ma ciò che appariva singolare era che la sua opera principale fosse relativa a un ambito non direttamente collegato alla sua professione, visto che non aveva mai indossato una divisa militare. Bloch lavorerà per quasi un decen-
nio a quest’opera il cui leitmotiv sarà che le guerre moderne, per capacità distruttiva, non sono in grado di garantire alcuna soluzione ai problemi internazionali, rappresentando non solo un inutile bagno di sangue, ma anche una catastrofe economica e sociale. La seconda metà del 1800 fu un periodo caratterizzato da una serie di conflitti armati – la guerra franco-prussiana (1870-1871), la guerra russo-turca (1877-1878) e la guerra anglo-boera (18801881) – e Bloch, acutamente e molto più degli “addetti ai lavori” (cioè i professionisti dell’ars bellica) si rese conto che l’utilizzo delle armi moderne nei conflitti attuali e futuri avrebbe condotto alla bancarotta delle nazioni (7). Al contempo, però, mantenere una pace armata avrebbe significato sfinire economicamente gli Stati e aumentare il solco delle diseguaglianze sociali, fomentando l’instabilità sociale. Secondo questo suo ragionamento, la guerra si sarebbe “fisicamente”, ma non moralmente, autoeliminata dal nostro futuro a causa del suo eccessivo sviluppo scientifico-tecnologico. Rivista Militare
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Mauser-K98-Springfield-1903.
Già nell’apertura della sua opera, Bloch individuava i punti essenziali che sarebbero stati, poi, diffusamente sviluppati nelle pagine a seguire. In primo luogo, la baionetta quale pezzo di anticaglia: nella guerra franco-prussiana solo l’1% circa dei morti in combattimento era da attribuire a quest’arma. La guerra futura sarebbe stata combattuta a distanze impensabili per cui la
In secondo luogo, il fucile di piccolo calibro con caricatore-serbatoio: per Bloch era la più importante invenzione tale da cambiare il volto alla guerra, non solo per la celerità di tiro, ma per la gittata, la capacità di penetrazione del colpo, la sua precisione e un maggiore numero di munizioni in dotazione (9). Per di più, la polvere da sparo infume, a differenza della polvere da sparo nera, non produceva quella cortina
in avanti dell’artiglieria: per Bloch risultava una delle armi più micidiali. Sviluppi straordinari erano stati compiuti in termini di precisione del tiro, gittata, celerità e, soprattutto, di frammentazione delle granate, le cui esplosioni raggiungevano le 1.200 schegge quando caricate con esplosivo peroxilene, con effetti facilmente immaginabili sul campo di battaglia. In quarto luogo, i tiratori scelti: da grande distanza sono in grado di colpire i nemici allo scoperto, rimanendo al sicuro. Il tutto a maggior danno, altresì, della tenuta morale delle unità, le quali, magari in marcia, vedono i commilitoni cadere per fuoco avversario. Già alla luce di queste prime considerazioni, Bloch tratteggiava lo svolgimento di un futuro combattimento che sarebbe iniziato con uno scambio di fucileria tra tiratori scelti, con lo scopo di scoprire le
Prima Guerra Mondiale: mitraglieri britannici.
baionetta, che agli occhi dei militari contemporanei di Bloch godeva ancora di un’aurea virile e nostalgica, sarebbe stata del tutto inutile (8). n. 1/2018
di nebbia che rendeva gli scontri diurni combattimenti quasi “alla cieca”, ove non ci si rendeva conto di tutto ciò che succedeva intorno. In terzo luogo, gli spaventosi passi
opposte posizioni (10). Originariamente la missione di ricognizione, a tutti i livelli, era affidata alle unità di cavalleria che, a parere di Bloch, considerato il facile target
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da ingaggiare (per dimensioni di sagoma, soprattutto in altezza, quasi doppia rispetto a un fante appiedato) e l’aumentata gittata dei nuovi fucili, avrebbero rivisto ridimensionati i propri compiti in una guerra moderna. Bloch ritornava più volte sull’impiego della cavalleria a riprova che l’argomento era molto dibattuto in quegli anni. Per sintetizzare il suo pensiero: la ricognizione di tipo strategico, In alto Manifesto di propaganda. In basso Carica di Isbuscenskij.
ad esempio nelle prime fasi della guerra o nell’attraversamento delle frontiere, era senz’altro compito che la cavalleria poteva assolvere, ma la ricognizione in prossimità del nemico, ormai, era da assegnare alla fanteria. Di conseguenza, la reconnaissance (specialmente nell’individuazione delle opere di fortificazione avversarie), la protezione dei fianchi o delle retrovie di Grandi Unità nella fase di avvicinamento sarebbero rimasti compiti prioritari delle truppe montate, evitando però la fase di scontro con il nemico. Bloch, quindi, giungeva alla conclusione che la cavalleria avrebbe continuato a svolgere ruoli importanti, ma molto diversi dal passato. Tale punto fu profetico: l’impiego di armi a ripetizione, come ampiamente dimostrato nel corso del primo conflitto mondiale, rese del tutto inefficace la cavalleria tradizionale nella fase cruciale dell’attacco. Le cariche a cavallo lanciate a distanza di circa 100 metri dal nemico, sebbene svolte con ottimi animali – meglio selezionati che in passato, quindi più veloci – non sarebbero riuscite a superare la velocità di 500 metri al minuto (11): una combinazione di tempo e spazio troppo lunga sotto il fuoco nemico. Coloro che non si arresero all’inevitabilità della modernizzazione, per scelta, per impossibilità economica o per mancanza di visione
Disegni del dott. Bircher, Ufficiale dell’Esercito svizzero, che condusse dei test nel 1896: effetti dei proiettili calibro 7,5 mm sulle ossa umane.
strategico-militare, pagarono un prezzo altissimo (si pensi alla cavalleria polacca durante la Seconda Guerra Mondiale; essa scrisse certo una pagina di encomiabile valore affrontando le unità corazzate tedesche, ma il tragico e ineluttabile risultato è ben noto a tutti) (12). Nella sua trattazione, Bloch continuava affermando che l’azione successiva sarebbe spettata all’artiglieria, con scontri a distanza (circa 4-5 miglia) e con effetti devastanti rendendo, durante la loro azione, l’avvicinamento appiedato impossibile. Terminato il fuoco dei grossi calibri sarebbe stata la volta della fanteria, equipaggiata con i moderni fucili, la cui letalità non avrebbe consentito di espugnare le opposte posizioni. Inoltre, per Bloch, colui che si difendeva anco-
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Arditi della Brigata “Sassari”.
rato al terreno in trincea – e la guerra successiva sarebbe stata di trincea (13) – era in grado di respingere attacchi molto numerosi (Bloch segnala il rapporto: 100 fanti trincerati sarebbero riusciti a respingere 400 attaccanti, infliggendo perdite per un totale di 336 uomini su un campo di assalto di meno di 300 metri di ampiezza) (14). Su tale argomento, ovvero l’importanza dei trinceramenti, si segnala anche il capolavoro di Clausewitz, Della guerra (anno di pubblicazione, postumo, 1832), che nel libro VII, L’offensiva, cap. X, Attacco contro un campo trincerato, scrisse: “Per lungo tempo è stato di moda parlare in modo sprezzante dei trinceramenti e della loro efficacia [ ], un trinceramento ben organizzato, ben presidiato e ben difeso è da considerarsi, di massima, come un posto inespugnabile” (15). La Prima Guerra Mondiale, guerra di trincea per eccellenza, testimoniò tutta la validità di questa riflessione, approfondita, con altri dettagli tecnici, anche da Bloch. La guerra futura, pertanto, sarebbe stata lunga e le sue battaglie sarebbero durate giorni interi con risultati mai definitivi. A rendere inutile il combattimento, il fatto che i due eserciti contrapposti non sarebbero mai arrivati al contatto fisin. 1/2018
co. Ci sarebbe stata tra di loro almeno una distanza di circa 1.000 metri, giustificata dalla gittata delle nuove armi: una sorta di no man’s land li avrebbe tenuti separati (16). Nessuna battaglia decisiva sarebbe stata possibile e non ci sarebbero stati vincitori. Originale era la tesi, sostenuta a complemento della ridotta importanza della cavalleria per il futuro, per la quale la fanteria avrebbe svolto un ruolo sempre più complesso, a iniziare dalla ricognizione tramite scout. Come visto in prece-
Fanti della Brigata “Sassari”.
denza, la cavalleria avrebbe abdicato alla ricognizione in prossimità del nemico a favore di truppe appiedate, meno visibili, più silenziose e, quindi, più letali perchè più difficili da ingaggiare. Tali uomini sarebbero dovuti essere non solo “daring”, ma anche “skilful and sagacious soldiers” (17) caratteristiche che Bloch non riteneva riscontrabili in eserciti enormi composti da coscritti-riservisti. Su tale punto non si concorda. La nascita, ad esempio, dei reparti d’assalto italiani, gli Arditi, avvenne nell’estate del 1917, allorquando, seguendo il ragionamento di Bloch, non sarebbe stato possibile reclutare uomini dotati di particolari qualità-caratteristiche per lo svolgimento di compiti difficili (18). Bloch ampliava questa argomentazione e sosteneva che la dimensione demografica avrebbe reso la guerra ulteriormente improbabile. Infatti, una futura guerra sarebbe stata combattuta da milioni di reclute, addestrate in maniera insufficiente, che si sarebbero affrontate in spazi enormi, con evidenti difficoltà di comando e controllo (19). Un altro concetto che Bloch sviluppava era quello del sostegno logistico alle unità combattenti e alla vita dei civili nelle città. Ovvero, egli riteneva che sarebbe stato difficile riuscire a sostenere
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Artiglieria pesante.
le truppe al fronte perché, con la debita eccezione di Russia e Austria, gli Stati europei non erano autosufficienti per quanto riguardava alcuni approvvigionamenti acquisiti sul mercato internazionale. Tali scambi commerciali che identificavano una interdipendenza degli Stati, nondimeno, sarebbero stati prontamente eliminati in caso di guerra; la mancanza di un’autonomia alimentare, dunque, avrebbe reso irrealizzabile lo sforzo bellico. Ad aggravare questa situazione, i futuri conflitti avrebbero affamato la popolazione attingendo “braccia” dalla preziosa forza lavoro degli Stati per la fucina della guerra. Bloch, a onor del vero, non considerò il fatto che gli uomini al fronte avrebbero potuto essere rimpiazzati nei lavori quotidiani, nei servizi, in fabbrica o in agricoltura dalle donne. Già la Prima Guerra Mondiale sicuramente agevolerà la presa di coscienza, guadagnata sul campo, del movimento femminile: le donne non sarebbero state più solo l’angelo del focolare domestico, ma esse avrebbero lavorato nell’industria dimostrando di valere quanto l’uomo al fronte. Per quanto difficile fu questa prova è indubbio che rappresentò uno spartiacque nel lungo processo di acquisizione dell’uguaglianza dei diritti civili con gli
uomini (20). Per quanto riguarda la Marina militare, Bloch sosteneva, in diretta antitesi con Alfred Thayer Mahan (1840-1914) (21), che possedere una flotta militare, la cui forza potesse essere definita di assoluta superiorità, sarebbe stato un inutile spreco in termini di risorse economiche e umane. Senza forzare eccessivamente questo punto, pare qui già proporsi la contrapposizione tra la visione della forza navale, con Mahan capostipite, e quella
terrestre dell’Heartland sviluppata da Halford John Mackinder (18611947) (22). Per Bloch, infatti, una potente forza navale, fondata su battleship, sarebbe stata di poco aiuto, non essendo in grado di sviluppare la battaglia decisiva (che sarebbe rimasta quella terrestre). Per l’autore, pertanto, sarebbero stati sufficienti gli incrociatori per la difesa delle rotte marittime. Comunque, il cuore del problema sarebbe rimasto quello economico che, con rotte marittime aperte o meno, in caso di guerra non avrebbe risolto la penuria di cibo. La maggior parte delle riflessioni di Bloch era dedicata agli aspetti tecnici della guerra e a quelli economici per sostenerla, ma vi era un tema per il quale egli dimostrava una marcata sensibilità: la cura dei feriti sul campo di battaglia. Bloch si opponeva in maniera netta ad alcuni pensatori da lui definiti ottimisti (23), i quali sostenevano che con le nuove armi a disposizione (soprattutto il minore calibro dei fucili nonché l’incamiciatura dei colpi), le nuove tecniche di combattimento (assalti con personale distanziato e non ammassato su stretti fronti), i kit di automedicazione individuale e più consistenti reparti di sanità, il numero e la gravità delle ferite in-
Munizionamento per carro armato T-55 russo.
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ferte sarebbero stati minori che in passato. Per Bloch, al contrario, sui futuri campi di battaglia ci sarebbe stato un numero impressionante di feriti, causato proprio dai nuovi calibri, il cui soccorso sarebbe stato difficilissimo: le superiori gittate delle artiglierie avrebbero costretto i reparti di sanità a stare lontano dalla linea di fuoco. La cura dei feriti, oltre che atto doveroso di umanità, rappresentava una parte dello sforzo bellico. Pensare di ridurre o di non aumentare a livelli necessari la sanità militare, per assegnare i suoi uomini alla prima linea, agli occhi di Bloch, era un controsenso. Quanto più efficace era l’apparato di recupero e cura dei feriti, tanti più uomini sarebbero stati messi in condizione di combattere nuovamente. Di conseguenza, le autorità militari avrebbero dovuto essere le prime ad affrontare questo problema. Tutta la seconda parte del capolavoro di Bloch è dedicata agli aspetti economici ed è suddivisa per i principali attori individuati in Russia, Gran Bretagna, Germania e Francia (24). Come già anticipato, le vere competenze di Bloch erano quelle economiche ed egli individuava correttamente il fulcro delle future guerre nella loro sostenibilità industriale, agricola e demografica. Il libro di Bloch si conclude con un capitolo, intitolato Militarism and its nemesis, nel quale esprimeva il concetto, già affrontato, della scarsa attrazione che la professione militare aveva tra i giovani, sostenendo che il fascino che essa un tempo emanava era scemato: la carriera militare offriva salari bassi e prospettive di carriera non sempre adeguate. La guerra stava acquisendo un carattere sempre più meccanico e sempre meno cavalleresco; qui l’avversione agli eserciti per Bloch era estremamente marcata, nella considerazione che egli riteneva il mestiere delle armi è “[...] per persone dalla natura così irrequieta e sfrenata da non riuscire a riconciliarsi con una vita laboriosa e regolare, trovando affascinante il pericolo in sé” (25). Tale definizione che appare in chiun. 1/2018
Effetto dei colpi sullo scafo di un carro Jagdpanther.
sura di libro, ingenerosa e nella sua sintesi discutibile, è inserita in un contesto che tende a smantellare la necessità di smisurati eserciti dalle potenzialità distruttive solo percepite – scopo manifesto di Bloch è proprio svelare quanto si presume, ma non si è ancora testato pienamente – per evitare stragi mai viste in precedenza.
CONCLUSIONI Al termine di questo scritto è doveroso omaggiare la memoria di Bloch il quale, ancorchè vissuto in anni difficili, ebbe intuizioni straordinarie, la cui portata si estende con facilità ai giorni nostri. Essa ci aiuta nella comprensione degli avvenimenti di cui siamo spettatori e ci stimola nella riflessione personale, indipendente e non uniformata ai canoni mediatici. L’autore intuì perfettamente che le innovazioni belliche avrebbero continuato a migliorare le armi, sempre più letali e distruttive (26), e che la corsa agli armamenti non avrebbe avuto fine, spinta da una tensione continua verso il nuovo. In tale ottica egli riuscì a prevede-
re come lo sviluppo degli armamenti avrebbe causato perdite elevatissime a livelli tali da rendere la guerra impossibile. Tale previsione si avvererà, parecchi anni dopo la sua morte, nell’era nucleare della Guerra Fredda, con la dottrina MAD (Mutual Assured Destruction): il conflitto tra superpotenze non poteva avvenire se non al prezzo della reciproca distruzione, fatto che garantì, per assurdo, un lungo periodo di pace. Altro punto centrato da Bloch sulle guerre future è rappresentato dalla loro tipologia. Esse sarebbero lunghe e di coalizione (27), ma ciò svela una criticità, combattere una guerra “assieme” è difficile. Questa difficoltà, tra l’altro, non è l’unica, perché le guerre future si vincerebbero grazie alle risorse finanziarie disponibili, prima ancora che agli eserciti schierati (28). Per Bloch la guerra era un suicidio: le perdite umane sarebbero state talmente elevate e lo sforzo bellico smisuratamente costoso da far collassare demograficamente ed economicamente gli Stati. Va rilevato, tuttavia, che Bloch non previde la capacità di resistenza
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Foto del 1953 relativa a un test atomico presso il Nevada Test Site. La potenza dell’ordigno era di 23 kilotoni.
del fronte interno degli Stati, perfino dopo anni durissimi di guerra; nel primo conflitto mondiale si assistette a carneficine inimmaginabili, ma i soldati continuarono ad avanzare sul campo di battaglia sostanzialmente sorretti dai rispettivi cittadini in patria. In conclusione, si può argomentare che Bloch sottovalutò la forza fisica e morale umana e, parallelamente, non ipotizzò le mostruosità di cui l’uomo sarebbe stato artefice. Se egli non lo intuì è perché quanto successo travalicò la logica dell’umana comprensione; basti ricordare che anche a una mente sopraffina quale quella della storica e filosofa Hannah Arendt, negli anni successivi al secondo conflitto mondiale, mancarono le parole appropriate per descrivere la disumanità di quanto successo (29). *Colonnello
NOTE (1) L’Italia ha istituito un Comitato per il centenario della Prima Guerra Mondiale e le commemorazioni sono iniziate nell’estate del 2014 al Vittoriano con la
mostra “Verso La Grande Guerra”, http://www.governo.it/Notizie/Palazzo%20Chigi/dettaglio.asp?d=69666. (2) Nel 1901 Bloch fu candidato per il Premio Nobel della Pace, https://www.nobelprize.org. Tra l’altro, Bloch progettò e finanziò il museo War and Peace Museum a Lucerna (1902) e svolse parte attiva nella promozione della Conferenza dell’Aia del 1899 assieme allo Zar Nicola II. Nessuna opera della vasta bibliografia di Bloch è stata tradotta in italiano. Si intende inserire questo contributo nell’alveo di una riscoperta del pensiero di Bloch, testimoniata dall’attenzione a lui rivolta anche presso autorevoli istituzioni militari quali l’US Army Command and General Staff College, di Fort Leavenworth, http://usacac.army.mil/organizations/cace /csi/pubs. (3) La tipologia di guerra alla quale fa riferimento Bloch è quella delle nazioni avanzate e ricche: tutto il potenziale economico sarà impegnato nella lotta. (4) L’intervista è di Edwin D. Mead ed è riportata all’inizio dell’opera di de Bloch J., The Future of War in its technical, economic and political relations, the International Union Ginn & Company, Boston 1902. (5) Bloch era ben conscio del fatto che la guerra avesse accompagnato l’esperienza umana per secoli, meglio, millenni: nel corso di 3.357 anni, cioè dal
1496 a.C. al 1861 d.C. ci furono ben 3.130 anni di guerra contro 227 di pace in un rapporto di 13:1. Egli non si arrende a questi dati, sostenendo che la nuova economia e le innovazioni tecnologiche militari hanno reso la guerra un ricordo del passato. Parimenti il cliché romantico della guerra, cariche di cavalleria e assalti all’arma bianca, è sorpassato e la professione militare non è tra le più appetibili. (6) De Bloch J., op. cit.. L’opera, di oltre 3.000 pagine, è stata tradotta da R.C. Long e include una conversazione con l’autore a cura di Stead W.T. e una introduzione di Edwin D. Mead. Il lavoro originariamente era stato scritto in lingua russa, articolato su sei volumi e pubblicato nel 1898. L’edizione più nota è quella utilizzata anche per questo studio, ovvero il sesto volume, che fu scritto da Bloch quale sorta di compendio dei primi cinque tomi. (7) Il termine bancarotta è impiegato molto da Bloch, forse in relazione alla sua professione. (8) La “rusticità”, la semplicità d’uso e l’economicità hanno reso la baionetta un’arma con alterne fortune, ma sempre presente nella storia bellica moderna e contemporanea. Un esempio per tutti, nella Seconda guerra del Golfo, in più occasioni, reparti inglesi inastarono la baionetta e caricarono l’avversario. Cfr. Biondani P., La fanteria inglese costretta ad avanzare alla baionetta per aprirsi una via d’uscita. “Corriere della Sera”, 17 maggio 2004. (9) Già nella guerra civile americana, l’introduzione del fucile Henry, con i suoi 15 colpi in serbatoio, rimase impressa a lungo nella memoria dei Sudisti che solevano dire: “That damned Yankee rifle that they load on Sunday and shoot all week”! (Adler D., Guns of the Civil War, Zenith Press, Minneapolis 2011, p. 167). Il calibro ridotto per le armi portatili è un punto sul quale Bloch si dilunga con accurati dettagli tecnici. Per esempio, il calibro di 6,5 mm ha una capacità di penetrazione del 44% superiore al calibro 8 mm, il che implica che uno stesso colpo può trapassare più corpi con un aumento della mortalità a parità di munizioni impiegate; oppure, la riduzione del calibro consente un superiore trasporto di munizioni. Bloch riporta chiaramente che nella
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guerra russo-turca i soldati zaristi avevano una dotazione individuale di 84 pallottole, con la riduzione del calibro a 5 mm la dotazione è aumentata a 270 pallottole, con un ipotetico calibro di 3 mm ben 575 sarebbero state le pallottole che si sarebbero potute avere al seguito. Ancor oggi, però, il calibro di 3 mm non è realizzato e non risulta neppure allo studio, come invece Bloch pensava presto sarebbe successo. (10) Questo tipo di ricognizione, oggigiorno, è definita “recce by force” ed è tipicamente assegnata a unità di cavalleria; per parte italiana, ad esempio, può essere ottimamente svolta con l’impiego di pattuglie operanti anche su blindo armata “Centauro”, la cui formula tattica protezione, mobilità e fuoco la rende molto versatile. (11) Il testo di riferimento francese per l’impiego della cavalleria riporta che “La vîtesse [ ] sera réglée de manière à faire 97 à 107 mètres par minute au pas, et 194 à 214 mètres environ au trot. Quant à la vîtesse du galop, elle sera de 300 mètres par minute”, ovvero: da 97 a 107 metri al minuto per il passo, da 194 a 214 per il trotto e di 300 per il galoppo. Ordonnance provisoire sur l’exercice et les manoeuvres de la cavalerie, par ordre du Ministre de la Guerre. Troisième édition, Chez Magimel, libraire pour l’art militaire, Parigi 1815, pp. 252-253. (12) Quale nota a margine si vuole ricordare che l’ultima carica della cavalleria italiana, tra le ultime al mondo, avvenne il 17 ottobre 1942 a Poloj, in Croazia, e fu compiuta dai Cavalleggeri di Alessandria. Sull’argomento cfr. Arcella R., L’ultima carica: Dolnij Poloj 17 ottobre 1942, Bonanno, AcirealeRoma 2008. Di pochi mesi prima, il 24 agosto 1942, la carica del Savoia Cavalleria a Isbuscenskij, in Russia. (13) Questa considerazione fu indiscutibilmente premonitrice: la guerra futura sarà lunga e di trincea. (14) De Bloch J., op. cit., p. 27. (15) Clausewitz K. von, Della guerra, a cura di Bollati A. e Canevari E., Mondadori, Milano 1991 con l’introduzione del Generale Jean C., p. 717. (16) Bloch parla di una fascia profonda 1.000 passi, tra chi attacca e chi si difende, inconquistabile, de Bloch J., op. cit., p. 30.
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(17) Ivi, p. 24. ”Tali uomini dovranno essere non solo audaci, ma anche esperti ed astuti soldati”. Libera traduzione dell’autore. (18) Sull’argomento cfr. Rochat G., Gli Arditi della Grande Guerra: origini, battaglie e miti, Editrice Goriziana, Gorizia 1990 e Tenente anonimo, Arditi in guerra, 1917-1918, Nordpress, Chiari 2000. (19) Questo punto, estremamente interessante, forse non tenne in debito conto gli straordinari progressi che riuscirono a compiere le varie Accademie e Scuole di Guerra europee a seguito della bufera napoleonica. In particolare i tedeschi modernizzarono gli studi, focalizzando l’attenzione non solo sulle doti di coraggio individuali (un tempo si parlava di “carattere”), ma sull’intelletto. Pertanto, diedero vita allo Stato Maggiore, organismo composto dai migliori Ufficiali, che avrebbe affiancato il comandante elaborando piani e facilitando il momento apice della sua decisione. Sull’argomento si segnalano sia il testo di Goerlitz W., History of the German General Staff 1657-1945, Westview Press, Boulder & London 1985 sia, per il periodo successivo alla Prima Guerra Mondiale, Wheeler-Bennett J.W., La nemesi del potere, Storia dello Stato Maggiore tedesco dal 1918 al 1945, Feltrinelli, Milano 1959. Bloch riconosce che ci furono passi in avanti nell’educazione degli Ufficiali, ma in caso di conflitto, con enormi masse di riservisti richiamati alle armi, non sarebbe stato possibile prepararli adeguatamente. C’è un aspetto al quale Bloch si dedica in particolare ed è la mortalità degli Ufficiali in combattimento. Nello specifico egli sostiene, facendo l’esempio della guerra del 1870, che i tedeschi soffrirono la perdita di ben due Ufficiali e il ferimento di altri tre per ogni soldato. La causa di ciò va ricondotta al dovere dell’esempio, per cui in testa alle truppe ci sono sempre gli Ufficiali, e ai tiratori scelti, che considerano i comandanti ai vari livelli un high target. Mancando gli Ufficiali sul campo, la truppa sarebbe in balia di se stessa e facilmente diverrebbe preda della paura. (20) Per la condizione femminile italiana durante la Prima Guerra Mondiale, tra i tanti, si segnala Finzi I., La
Grande Guerra delle donne italiane, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Milano 2015. (21) Cfr. Mahan A.T. , The influence of Sea power upon history: 1660-1783, Little Brown & Co., Boston 1895. (22) Cfr. Mackinder H.J., The Geographical Pivot of History, in “The Geographical Journal”, Vol. XXIII, n. 4, aprile 1904, pp. 421-444. Di questo articolo esiste una traduzione italiana curata da Borrino F. e Roccati M. in “I castelli di Yale”. Quaderni di filosofia, 1 (1996), pp. 129-162. (23) Tra fine ’800 e inizi ’900 già esisteva ampia letteratura medica e tecnico-balistica sulle potenzialità dei nuovi calibri, con test su cadaveri e animali vivi. A onor del vero, però, sui risultati esistevano contraddittorie valutazioni e ciò va a beneficio della posizione di Bloch che bene intuì la loro letalità. Sul tema: Coupland R.M., Rothschild M.A., Thali M.J., Wound Ballistics: Basics and Applications, Springer, Heidelberg 2011, pp. 89-93. (24) Da p. 163 a p. 293. (25) Si vuole sottolineare come la voce Uncurbed nell’English and Italian Dictionary di Baretti J., Cardinal Printing Office, Firenze 1832, Vol. II, p. 589 riporta: “Licenzioso, immoderato, sfrenato, dissoluto, senza ritegno” Bloch, quindi, esprime un giudizio molto severo. (26) Furono perfettamente previsti il gran uso e letalità dell’artiglieria, delle mitragliatrici così come il nuovo ruolo della cavalleria; non si trovano accenni, però, sull’impiego dei gas o armi chimiche, carri, aeroplano, autocarri, radio. (27) Alla vigilia della Prima e della Seconda Guerra Mondiale si pensava invece questo: “una guerra rapida”. (28) In guerra entrano in gioco tutti i fattori di una società (in questa asserzione si può includere il pensiero di Clausewitz) e non solo gli organigrammi delle Forze Armate con le loro procedure tecnico-tattiche (Jomini). La storia militare, recentissima, ha avvalorato questa teoria: bisogna considerare tutti i fattori in gioco. Oggi, con la system analysis, si tenta di collegarli. (29) Cfr. Arendt H., Le origini del totalitarismo, Bompiani, Milano 1978 e La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 1995.
DEDIZIONE
ESERCITO E SOCIALE La riabilitazione equestre a favore dei ragazzi con disabilità di Giuseppe Cacciaguerra
Simbolo di forza, velocità e bellezza il cavallo ha sempre accompagnato la vita umana nelle sue più varie sfaccettature: dal lavoro, al tempo libero, alla guerra. Questo nobile animale, però, non ha ancora smesso di stupirci. Infatti, grazie a doti di sensibilità inaspettate per la sua mole e la scultorea muscolatura, risulta essere un validissimo aiuto per il recupero di persone afflitte da disabilità. La riabilitazione equestre, sviluppatasi nei paesi del nord Europa, giunse in Italia a metà degli anni settanta ed oggi è comunemente praticata in oltre 40 paesi al mondo. Il lavoro con questi quadrupedi consente di esercitarsi in ambiti svariati che vanno da quello fisico a quello psicologico. Impropriamente tale impiego è definito ippoterapia, termine che implicherebbe il concetto di “terapia”, con tutte le declinazioni sanitarie che esso porta con sé. Più correttamente oggi si parla di interventi assistiti con il cavallo, intendendo racchiudere in questo ambito le molteplici attività in cui il cavallo può essere impiegato quale valido co-protagonista, nel tentativo di alleviare i disagi di piccoli ed adulti sofferenti a vario titolo. A testimoniare l’attenzione del mondo sanitario e la validità delle metodiche riabilitative che si avvalgono della partecipazione di animali, il Ministero della Salute, con un accordo StatoRegioni nel 2015, ha disciplinato gli interventi assistiti con animali attraverso la promulgazione di Linee Guida di intervento specifiche, oggi recepite da tutte le Regioni (1). In esse ben si evidenzia la vasta gamma di opportunità che è in capo all’uso degli animali a scopo riabilitativo. Esse spaziano dai più semplici interventi educativi, ad esempio in ambito sociale-familiare-scolastico, fino all’attuazione di attività terapeutiche mirate con la strutturazione di Progetti Riabilitativi Individuali, sviluppati da personale sanitario specificamente formato e qualificato. In questa ottica, l’intervento riabilitativo con il cavallo spazia dalla cura dell’animale (la sua pulizia, importantissima per il benessere dell’animale, soprattutto quella relativa agli zoccoli, e la sua alimentazione che varia a
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seconda dell’intensità del lavoro da svolgere e alla stagione in cui si opera) e dell’ambito in cui esso vive (il cavallo è ospitato in box che devono rispondere a precisi parametri per dimensioni con disponibilità di acqua, luce e riciclo di aria) alla monta vera e propria che rappresenta il culmine per chi approccia l’equitazione riabilitativa. Relazionarsi con il cavallo im-
plica, di conseguenza, riuscire a interpretare anche tutto l’ambiente che lo circonda, in sintesi: si entra in contatto con la natura ed in contesti differenti da quello famigliare. Grazie al cavallo sono oggi trattate disabilità quali l’autismo, le difficoltà di socializzazione e, finanche, le gravi patologie del sistema nervoso centrale (in sostanza dai disturbi più squisita-
mente psichici a quelli con danno neuromotorio) (2). Il punto cardine da tener presente è che coloro che approcciano la riabilitazione equestre compiono passi che magari non paiono visibili, ma sono sostanziali nell’apprendimento della logica sequenziale delle azioni da compiere e nella soddisfazione proveniente dal prendersi cura di un essere senziente che trasmette il suo ringraziamento, per l’amore dimostrato, non a voce, ma con il comportamento, l’affetto e la fiducia. Non da ultimo va considerato che la visione del mondo dall’alto, montando un cavallo, consente di rafforzare la propria autostima e riuscire a salire in groppa è, in sé, una sorta di “impresa eroica” che dona soddisfazione. Soprattutto per i bambini il cavallo, con la sua altezza, rappresenta un ostacolo da affrontare; mantenersi in equilibrio, poi, è uno sforzo continuo di stabilità che interessa tutta la muscolatura e le relative afferenze al sistema nervoso centrale in un continuo rimando per mantenere l’equilibrio in sella. Cavalcare richiede anche un impegno mentale cosciente di attenzione alla propria postura e ai messaggi che l’animale ci invia, così facendo la simbiosi con il cavallo aumenta e la fiducia in lui riposta ci ripaga trasmettendoci serenità e aiutandoci a sconfiggere le nostre paure. Si può dire, quindi, che il cavallo si comporti alla stregua di una “spugna” in grado di assorbire le nostre tensioni e donandoci sensazioni di soddisfazione fisica e psicologica: stare in sella è una terapia rilassante che da un lato ci calma e dall’altro migliora il nostro portamento fisico. Non solo, svolgendo attività con il cavallo: “il paziente non è più un soggetto passivo che riceve cure, assistenza e terapia, ma diviene partecipe in prima persona delle attività in cui è coinvolto ( ) per garantirgli il miglior accesso possibile all’auto-
nomia, a relazioni interpersonali di qualità” (3); insomma, il paziente è protagonista del progetto di riabilitazione che lo interessa. Il cavallo non è più solo uno strumento, ma un amico, un compagno e, nel caso specifico della riabilitazione, è l’aiuto extra che consente al soggetto svantaggiato di porsi nel ruolo del protagonista attivo e non solo di colui che viene curato e assistito. La riabilitazione equestre è scuola di disciplina e coraggio ove i giovani più “ribelli” troveranno modo di scaricare le energie in surplus e di rispettare precise norme utili, in un secondo tempo, alla vita sociale. Il tutto è finalizzato alla possibilità di godimento di una migliore qualità della vita. La riabilitazione equestre deve essere svolta tramite operatori qualificati, idonei cavalli (per salute, conformazione,
qualità d’andatura e temperamento) e con le previste protezioni fisiche per l’allievo, soprattutto il cap a protezione della testa. A seconda della tipologia di disabilità da affrontare, quindi, si sceglierà un determinato cavallo con il quale, gradatamente (ovvero da fermo, al passo, al trotto e infine al galoppo), si svolgeranno le sessioni di lavoro che hanno una durata media di 45 minuti. Le lezioni seguono un protocollo operativo definito da un’équipe multidisciplinare composta da figure professionali e operatori in possesso di conoscenze e competenze specifiche acquisite attraverso un percorso formativo, come definito dalle già menzionate Linee Guida Nazionali per gli interventi assistiti con gli animali del Ministero della Salute. L’Esercito Italiano si dedica, ormai da decenni, all’attività di riabilitazione n. 4/2019 | Rivista Militare
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equestre nell’ambito di alcuni suoi reparti, dislocati in diverse regioni. Quarant’anni fa l’ANIRE (Associazione Nazionale Italiana di Riabilitazione Equestre), con il convinto e pieno sostegno del reggimento artiglieria a cavallo “Volòire”, avviò la sua attività all’interno della caserma “Santa Barbara”, sede storica del reggimento a Milano, per iniziativa di Emanuela Setti Carraro, Infermiera Volontaria della Croce Rossa Italiana. Successivamente divenne moglie del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa con il quale perse la vita nel 1982 a Palermo in un attentato mafioso. Attualmente, all’interno della caserma vengono seguite centinaia di persone affette da disabilità (la lista d’attesa è molto lunga) e si svolgono specifici corsi di formazione per medici e psicologi. Il 3 aprile 1981, la rieducazione equestre valse allo Stendardo delle “Volòire” la Medaglia d’Oro al Merito della Sanità Pubblica «per l’attività svolta dagli artiglieri a cavallo nel recupero di bambini diversamente abili attraverso l’ippoterapia». Un altro reparto attivo in questo ambito è Il reggimento “Lancieri di Montebello” (8°). Unità di cavalleria dell’Esercito Italiano inquadrato nella Brigata Meccanizzata “Granatieri di Sardegna”, ha il privilegio di essere articolato su due Gruppi di cui uno esplorante, a similitudine di tutti gli altri reggimenti di Cavalleria, ed uno a cavallo, a sua volta articolato in uno squadrone di rappresentanza (per la rappresentanza, l’alta rappresentanza e il cerimoniale di Stato), uno squadrone a cavallo (con compiti di rappresentanza, la cui massima espressione è il carosello di lance, e con compiti operativi) e la fanfara a cavallo. Il gruppo a cavallo ha sede nello storico sedime dell’Ippodromo Militare Gen. C.A. Pietro Giannattasio – centro di addestramento equestre del reggimento – ove da trent’anni opera il Centro di Riabilitazione Equestre Girolamo De Marco Onlus nonché il C.R.E.C. (Centro Rieducazione Equestre Capitolina, Presidente Gen. Tommaso Bruni) ed è proprio in questo arco di tempo che la riabilitazione equestre è stata riconosciuta attività terapeutica a tutti gli effetti.
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Tale Centro si occupa con costanza del recupero di persone affette da disabilità, soprattutto bambini, con straordinari risultati: basti pensare che vengono seguiti circa cento allievi annualmente. Grazie al Centro di Riabilitazione, unito alla disponibilità di una sede, quale quella dell’Ippodromo Militare, che mette a disposizione le proprie strutture ed i propri cavalli, si rende possibile la fruizione di un servizio che altrimenti, soprattutto per i costi, resterebbe appannaggio di pochi.
Per i “Lancieri di Montebello” il cavallo rappresenta molto più di un nobile amico, è a tutti gli effetti un collega e come tale va trattato. La simbiosi cavallo-cavaliere (moltissime sono le amazzoni che indossano le Verdi Fiamme) è ricercata costantemente, ogni cavaliere lavora sempre con lo stesso quadrupede di cui conosce le inclinazioni e le abitudini. La cura e le attenzioni a lui rivolte devono essere di primissimo piano: dalla pulizia degli ambienti ove vive, all’alimentazione, al programma ad-
destrativo che segue (esso deve correttamente bilanciare lavoro e riposo con orari che seguono l’andamento stagionale), alle cure mediche affidate ad esperti veterinari. Con una prospettiva di più ampio respiro, nondimeno, questo impegno meritorio potrebbe essere esteso, a similitudine di quanto già svolto in altri paesi, al trattamento di patologie post traumatiche per i militari italiani (dai traumi fisici a quelli psicologici). Nel caso dei veterani statunitensi, le statistiche dimostrano un significativo decremento del post traumatic stress disorder (PTSD) dopo sole tre settimane di terapia con il cavallo (4) e analoghi risultati sono stati conseguiti nel Regno Unito (5). Si tratterebbe, in definitiva, di sfruttare competenze, organizzazione e strutture già esistenti per assicurare un percorso di recupero con elevatissimi standard per chi indossa una divisa, stante i lusinghieri risultati conseguiti all’estero. Pertanto, l’Ippodromo Militare, già geloso custode della scuola di equitazione militare, ove insegnò il leggendario Cap. Federico Caprilli, è sempre più perno di eccellenza anche in virtù di questa apertura al sociale che ne testimonia l’altruismo e la vicinanza a chi è in difficoltà, in linea con le migliori tradizioni equestri che descrivono l’Arma di Cavalleria come “generosa con tutti, fedele a se stessa”, ma sempre e comunque con il cuore oltre l’ostacolo.
determinate caratteristiche biomeccaniche del cavallo agiscano da vera e propria “fisioterapia”, con effetti anche a medio termine abbastanza persistenti. Non è un caso che questo sia stato il primo grande terreno di sviluppo della Riabilitazione Equestre e che tutt’ora il campo riabilitativo neuromotorio sia sempre più promettente, anche perché meglio si presta a valutazioni di efficacia di tipo quantitativo, che sono le più accettate in ambito
scientifico” in http://www.salute.gov.it/portale/temi/p2_6.jsp?lingua=italiano&id=207 &area=cani&menu=pet. (3) Cerino S., La riabilitazione equestre con pazienti psicotici, Aracne, Roma 2014, p. 44. Cfr. Cirulli F. e Borgi M., Che cos’è la PetTherapy, Carocci, Roma, 2018. (4) http://www.ncbi.nih.gov/pmc/articles/PMC5774121/ (5) http://www.forces.net/welfare/equinetherapy-helping-hundreds-veterans.
NOTE
(1) Il 25 marzo 2015 la Conferenza Stato Regioni ha approvato l’Accordo e le Linee Guida in materia di interventi assistiti con gli animali che stabiliscono gli standard minimi per lo svolgimento di tali interventi e definiscono regole omogenee sul territorio nazionale. Le Linee Guida hanno lo scopo di armonizzare l’attività degli operatori e di garantire la tutela sia delle persone che degli animali coinvolti. Il documento è consultabile in http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_opuscoliPoster_27 6_allegato.pdf. (2) In merito alle evidenze scientifiche, il Ministero della Salute italiano riporta che: “Nel campo della Medicina fisica e riabilitativa esiste un discreto numero di evidenze scientifiche che dimostrano come n. 4/2019 | Rivista Militare
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PENSIERO
LA GRANDE ILLUSIONE DI NORMAN ANGELL di Giuseppe Cacciaguerra
Il primo ministro britannico Neville Chamberlain nel 1938 al rientro dalla conferenza di Monaco.
Il premio Nobel per la Pace Norman Angell scrisse La Grande Illusione all’inizio del 1900. La lettura di questo testo consente ancora oggi una profonda riÀessione sul fenomeno della guerra e su quanto ingannevoli siano i risultati che con essa si possono conseguire. Lo scontro bellico rappresenta un male ancestrale dal quale si può guarire facendo perno sul benessere che 38
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solo la pace è in grado di assicurare. Le strette interconnessioni economiche tra gli Stati, infatti, sono tali da rendere ogni avventura militare una illusione perché dalle radici della violenza nasceranno solo povertà e distruzione regredendo il genere umano allo stato di natura. Sir Norman Angell nacque in Inghilterra il 26 dicembre del 1872 da una famiglia di mercanti dalle agiate con-
dizioni economiche. Ben presto mise in luce doti intellettuali rimarchevoli che af¿nò nel corso dei suoi studi in Inghilterra, Francia e Svizzera. Vero cosmopolita, all’età di 17 anni si recò negli Stati Uniti dove rimase dal 1890 al 1898 facendo i lavori più disparati, tra cui il cowboy, per poi approdare al giornalismo. Ritornato in Europa si iscrisse nel 1920 al Partito Laburista, divenendo anche parlamentare
(1929-1931), ma è nel suo impegno a favore della pace e contro l’aggressività dei regimi dittatoriali che ebbe riconosciuti i maggiori meriti – nel 1933 ricevette il premio Nobel per la Pace. Angell fu un proli¿co autore, dal 1910 ¿no alla sua morte nel 1967, all’età di 94 anni, scrisse un libro ogni anno: i suoi temi preferiti furono l’economia, la politica e gli affari internazionali. Il suo nome divenne famoso presso il grande pubblico proprio grazie ad uno dei suoi primi scritti: La Grande Illusione. Quest’opera fu più volte rivista ed aggiornata nel corso degli anni e come progetto nacque dall’ampliamento di un pamphlet del 1909 che suscitò notevole interesse in tutta Europa. Angell incentra i suoi studi sui rapporti economici e ¿nanziari degli Stati che, essendo sempre più connessi e so¿sticati, rendono di per sé impossibile farsi la guerra. A differenza di altri autori non si occupa, se non marginalmente, degli sviluppi tecnici degli armamenti favorendo la mera speculazione economico-politica delle relazioni internazionali. L’incipit di Angell è relativo alla corsa agli armamenti tra Germania e Regno Unito, sforzo che discende da un erroneo assunto per cui il benessere di una nazione si ottiene solo tramite l’espansione territoriale e l’uso della forza contro gli altri. La prosperità raggiungibile tramite una politica di potenza, che è direttamente proporzionale alle proprie Forze Armate, apparteneva ai secoli precedenti, perché oggi lo sviluppo industriale e i traf¿ci commerciali sono tali da slegare l’acquisizione della ricchezza dalla aggressività concretizzata nel militarismo, braccio operativo della politica statale espansiva. Angell non accetta l’assioma economia ¿orente in virtù di forza militare che, in sintesi, rappresenta una visione darwinistica dei rapporti tra le nazioni. Il commercio tra gli Stati è del tutto indipendente dalla loro forza militare, è semplicemente una questione di qualità-prezzo di un prodotto da piazzare sul mercato: quello più competitivo vince. Angell, sul tema, è critico anche con il suo paese, soprattutto nei confronti della Royal Navy, che per lui rappresenta
Sir Norman Angell.
un’inutile spesa ai ¿ni di un Àorido commercio mondiale, che non si cura della forza, ma dei prodotti in sé. Il grande paradosso è proprio la futilità delle conquiste: sono la “Grande Illusione” di tutta l’Europa, il miraggio da inseguire. L’autore inglese rimarca con decisione questo concetto e si aiuta con l’esempio della Germania. Quest’ultima nel 1869, cioè prima della guerra vittoriosa contro la Francia, aveva una emigrazione attestata su 70.000
unità; nel 1872 la cifra raddoppiò a 154.000. Fatto singolare dopo una campagna vittoriosa, soprattutto perché gli emigranti non erano originari dell’Alsazia o della Lorena, ma della Prussia. L’errore che per Angell si continua a perpetrare è quello di sempli¿care i rapporti tra Stati utilizzando popolari stereotipi. Si tende a tratteggiarli con personalità individuali, ma gli Stati sono organismi complessi con molteplicità di interessi, n. 3/2021 I Rivista Militare
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di natura morale e materiale, che dif¿cilmente si riescono a sintetizzare in formule standardizzate. All’immutabilità della natura umana, base teorica dei sostenitori della guerra quale fattore persistente dello sviluppo dell’umanità, Angell contrappone gli incredibili sviluppi fatti dall’uomo dacché, animale tra gli animali, combatteva per accaparrarsi il cibo o addirittura praticava il cannibalismo. Per sostenere meglio le sue tesi, egli sfrutta il caso della Spagna, ove il militarismo e l’espansione coloniale di vecchio stampo (spoliazione delle 40
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ricchezze dei territori acquisiti) non hanno arricchito Madrid, ma l’hanno dissanguata demogra¿camente ed economicamente. I riferimenti alla Spagna e alle lezioni del passato sono indirizzati alla Germania, considerata la società più militarista del Continente. Angell la invita a slegarsi dalla decantata vita nelle caserme e ribadisce come la “forza ¿sica” non moltiplica lo sviluppo di una nazione. In generale, però, uno Stato non deve essere del tutto sprovvisto di una Forza, ma l’unica utile è quella della Polizia. Essa è strumento di cooperazione sociale, ciò in quanto coloro che delinquono non hanno alcuna intenzione di cooperare: il bandito vuole vivere come un parassita. Angell osserva con attenzione il progresso umano, ne è compiaciuto, e per questo non intende in alcun modo sottoscrivere le datate teorie dell’immutabilità della ferocia umana, insomma il classico homo homini lupus. Parimenti, le idee di una guerra “fucina” di uomini nuovi, “palestra di vita” o “scuola di morale” sono un desueto cliché. L’uso della forza militare, ancor prima di consumare l’avversario, usura chi la impiega, occorrono capitali ingenti per mantenere eserciti moderni di grandi dimensioni. Il militarismo, inteso come corsa
agli armamenti, è un errore non giusti¿cabile con la dicotomia difesa-aggressione. È un circolo vizioso: in Europa gli Stati mantengono e rafforzano i propri eserciti con la necessità di prevenire le intenzioni aggressive altrui. L’unico modo per rompere questo cerchio è quello di introdurre la ragione; Angell è convinto che il reciproco sospetto sia alimentato dalla inossidabile idea che, in ¿n dei conti, da un conÀitto si possano trarre bene¿ci economici in virtù delle conquiste territoriali. Purtroppo, per molti, si tratta ancora di un azzardo sostenibile. Angell ama la logica e la ragione, crede in una haute politique ed è deluso dallo spettacolo offerto a livello internazionale: intrighi, accordi, cambi di schieramento; ovunque sembra regnare la passione e non la riÀessione. Tutto il mondo è in movimento, i progressi nella meccanica sono straordinari, le banche e i capitali ¿nanziari spaziano ovunque, perché non dovrebbe avvenire nell’ambito delle idee? Se ciò ancora non è successo, secondo lui, è da attribuire alla relativa poca forza ed impegno di chi si è occupato di queste tematiche; in buona sostanza si è fatto troppo poco rispetto ai conservatori. Le conferenze sulla pace, i trattati di arbitrato e le federazioni internazio-
nali hanno solo lavorato sul metodo, che consiste nel proporre nuove procedure per evitare le guerre o risolvere le controversie tra Stati. Bisogna lavorare, invece, sulle idee di fondo che sottendono questi metodi. La speculazione economica, sociale e diplomatica è stata lasciata libera di svilupparsi nel campo avversario conservatore, lì, di conseguenza, bisogna concentrarsi per guadagnare il consenso e diffondere l’alternativa. Angell non muove critiche dirette ai militari, non fanno altro che il loro lavoro, è necessario, invece, convincere il popolo, la massa elettorale, della concretezza di queste idee. La forza morale ed emotiva dei movimenti paci¿sti è straordinaria, ma non tale da far breccia nel pensiero uniformato delle compagini militariste e ¿nanziarie mondiali. Quest’ultime hanno avuto facile gioco, in passato, nel sostenere una presunta superiorità del proprio pensiero, quello patriottico, su quello paci¿sta. È su questo piano che bisogna spostare l’azione: il paci¿sta non è contro la patria, anzi, egli è certo che le sue idee porteranno benessere e sicurezza contro distruzione e povertà. La tensione concettuale di Angell è qui condensata. La vecchia realpolitik non migliora la vita delle masse, così come è assurdo considerare la guerra inevitabile. Il progresso economico procede con la pace, esso non è garantito dalle baionette, ma dall’operoso lavoro dei cittadini. L’opera di Angell nella Grande Illusione vuol dimostrare questo.
Trattative di Pace presso il Lord Mayor di Londra “ La Domenica del Corriere”, 5 gennaio 1913. n. 3/2021 I Rivista Militare
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