DALLA POLONIA NAZISTA ALL'URUGUAY DI BORDABERRY

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FACOLTÀ DI LINGUE E LETTERATURE STRANIERE CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA IN LETTERATURE MODERNE COMPARATE

DALLA POLONIA N AZISTA ALL’URUGUAY DI BORDABERRY: MAURICIO ROSENCOF RACCONTA IL SILENZIO

TESI DI LAUREA IN LINGUA E LETTERATURE ISPANO -AMERICANE

RELATORE

CANDIDATO

PROF.SSA G RILLO ROSA MARIA

FERRAIOLO SERENA

MATR: 4320100121 CORRELATORE PROF.SSA MIRELLA VERA MAFRICI

ANNO ACCADEMICO 2008/ 2009


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L’elaborato si propone come viaggio all’interno della vita e della storia di un uomo, Mauricio Rosencof, e della sua famiglia, anello di congiunzione tra la Polonia nazista e l’Uruguay di Bordaberry e tra le disumane tragedie storiche sviluppatesi in questi due importanti momenti del novecento. Mauricio Rosencof è uno scrittore uruguaiano contemporaneo, noto e apprezzato per la spontaneità della scrittura e dello stile, autore principalmente di opere teatrali ispirate a personaggi realmente esistiti, che popolavano il quartiere Palermo di Montevideo e la sua infanzia. Le sue opere, il suo stile, il suo messaggio cambiano e si evolvono insieme ai cambiamenti della sua storia personale. Attualmente conosciuto in Italia grazie all’unica traduzione edita di una delle sue opere più recenti: /H OHWWHUH PDL DUULYDWH, e al suo viaggio in Italia nel 2008, in cui, tra le altre città, fece tappa a Lecce, Firenze, Roma ed altre per presentare il proprio libro e tenere conferenze, e che lo portò anche a Perugia, in occasione del XXX Convegno Internazionale di Americanistica, all’interno del quale tenne la Lectio Magistralis dal titolo 6RPRV QXHVWUD PHPRULD. L’autore s’inserisce in quel panorama culturale legato agli eventi della Seconda Guerra Mondiale in Polonia, della deportazione degli ebrei nei ghetti e poi nei campi di concentramento, della Shoà, dell’annientamento di vittime innocenti per il folle desiderio di sopravvivenza di un’unica razza “superiore”. Tutte esperienze che l’autore ha vissuto di riflesso durante la sua infanzia, segnata dalla tristezza della sua casa, dei suoi genitori, tristezza che da bambino qual’era non poteva comprendere. La comprenderà solo dopo, solo da adulto, solo riguardandola con occhi diversi, maturi, con gli occhi di chi aveva vissuto la propria esperienza di prigionia. In lui s’intrecciano le due tragiche realtà storiche del novecento citate precedentemente, pertanto solo dopo aver vissuto sulla propria pelle l’esperienza drammatica della prigionia all’interno dei FDODER]RV della dittatura uruguayana di Bordaberry riuscirà ad intrecciare la sua esperienza diretta, con quella della famiglia a Varsavia, che si rivela ad ogni modo un’esperienza “di seconda mano”. La famiglia di Mauricio Rosencof era originaria di Varsavia. Da lì era fuggita, a Florida e poi Montevideo, una volta iniziate le persecuzioni degli ebrei, mentre tutti i familiari erano rimasti lì, ad aspettare, ignari di tutto quello che sarebbe arrivato: le atrocità della guerra mondiale, della deportazione, della morte disumana ed ingiustificata. 3


L’opera si presenta come un ritorno al passato, ad una storia che l’autore non ha mai vissuto sulla propria pelle, perché nato dopo l’emigrazione dei suoi genitori in Uruguay, ma che aveva respirato nella tristezza degli sguardi dei genitori, nelle fotografie dei parenti lontani, nell’attesa di lettere, mai arrivate, che potevano segnare cambiamenti positivi, ma che in realtà ne avrebbero segnati solo in senso opposto. Questa storia “europea” si intreccia poi con la sua storia personale “americana”, che nasce con il desiderio di manifestare contro il Governo, di incidere sulla politica del paese con una militanza attiva, che lo portò a diventare responsabile di una delle tre frange del 0RYLPLHQWR GH /LEHUDFLyQ 1DFLRQDO ma che l’avrebbe portato nel ’73 alla “caduta”, ovvero alla cattura da parte dell’esercito ed alla tortura, alla reclusione per 13 anni nei FDODER]RV della dittatura, celle d’isolamento sotterranee in cui è stato costretto a “vivere”, o meglio sopravvivere. L’intento di questo elaborato non è solo quello di presentare la figura di un letterato attualmente poco conosciuto in Italia, ma anche quello di renderlo filo conduttore tra le atrocità vissute dalla sua famiglia nei campi di sterminio e quelle da lui sofferte durante i 13 anni di dittatura militare uruguaiana. A questo scopo ho intrapreso la traduzione del testo 0HPRULDV GDO FDODER]R, elaborato tra il 1987 e 1988 a quattro mani con il compagno e vicino di cella Eleuterio Fernández Huidobro, e pubblicato l’anno successivo, che descrive l’esperienza all’interno dei FDODER]RV Mauricio Rosencof era già riconosciuto come scrittore all’interno del paese. Grazie alla sua poliedricità, poiché scrittore sia di narrativa che di teatro, romanzi e poesie, le sue opere possono essere catalogate per genere: Tra i romanzi, 9LQFKD %UDYD (1987), (O EDWDUD] (1992), /DV FDUWDV TXH QR OOHJDURQ (2000), (O EDUULR HUD XQD ILHVWD (2005) e il recentissimo 0HGLR 0XQGR.. Tra le opere di narrativa, /D UHEHOLyQ GH ORV FDxHURV, (1969), /DV &UyQLFDV GHO (1986), /RV FRUGHULWRV GH 'LRV \ RWURV FXHQWRV (1995), &DMyQ GH VDVWUH(1999).

7XOHTXH

Tra le opere di poesia, &RQYHUVDFLRQHV FRQ OD DOSDUJDWD (1985), DOOHJUD D XQD QLxD (1985), /D 0DUJDULWD (1995).

&DQFLRQHV SDUD

Tra le opere edite di teatro, (O JUDQ 7XOHTXH (1960), /DV UDQDV e /D YDOLMD (1964) /RV FDEDOORV H (O FRPEDWH HQ HO HVWDEOR (1985) 7HDWUR (VFRMLGR , (1988) 7HDWUR HVFRMLGR ,, (1990) < QXHVWURV FDEDOORV VHUiQ EODQFRV (1994) (O YHQGHGRU GH UHOLTXLDV (1992)

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Il nome di Eleuterio Fernández Huidobro, invece, non risuonava come quello del compagno, che anche all’interno dei FDODER]RV della dittatura veniva riconosciuto come scrittore, ma è riconducibile comunque a diverse opere, storiche e narrative, prima dell’esperienza della stesura di 0HPRULDV GHO FDODER]R produzione che non si è ancora interrotta: +LVWRULD GH ORV 7XSDPDURV

(1986-1987), /D 7UHJXD $UPDGD (1972), /D )XJD 'H (1990), /RV GRV 0XQGRV (1991), &KLOH 5RWR (1993), &HEDGXUDV (1994), 9DFDFLRQHV (1995), (O 7HMHGRU (1995), $UWLJDV ROYLGDGR (2000), (Q OD QXFD (2000), %DQFDGD (2001), 'HVDVWUH 1DFLRQDO (2003), (O $WDTXH (2003), 9LFWRULD (2005), /D %DWDOOD GH OD (QHUJLD (2006).

3XQWD &DUUHWDV

0HPRULDV GHO FDODER]R

resta l’opera centrale di entrambi gli autori, poiché la violenta esperienza della prigionia ha modificato la percezione del mondo di entrambi gli ostaggi, fungendo da lente che amplifica lo sguardo sulla realtà. La traduzione di un testo di denuncia come quello preso in analisi, risponde all’intento di diffondere informazioni riguardanti le crudeltà dell’esercito uruguaiyano allora al potere, attualmente poco conosciute e per lo più rimaste in penombra rispetto alle torture e alle detenzioni, disumane allo stesso modo, della dittatura Argentina che da sempre ha ricevuto interesse e risonanza maggiori, soprattutto all’interno della intellettualità europea. L’elaborato non sarà quindi esclusivamente dedicato alla traduzione del testo, che ad ogni modo risulta la parte maggiormente sviluppata. Comprenderà anche un’analisi tematica dell’opera che seguirà diversi fili conduttori, tra cui quello della tortura, fisica e psicologica, e quello dell’assenza, della privazione, forma esemplare di tortura psicologica. L’analisi traduttiva seguirà la versione italiana dell’opera, per spiegare il perché di determinate scelte lessicali, terminologiche e metodologiche ai fini traduttivi. Doveroso evidenziare quanto sia stato indispensabile fornire riferimenti concreti della realtà storica in cui si muovono le vicende, poiché narrate dal punto di vista di prigionieri in isolamento, all’oscuro dei cambiamenti epocali che si verificavano all’esterno delle loro celle, ma che diventa chiave di volta per un traduttore che, al contrario, deve poter vedere il contesto in cui le vicende si sviluppano. Pertanto il primo capitolo è dedicato alla storia dell’Uruguay, dalle origini, dai primi passi verso l’indipendenza, ai nostri giorni, con particolare attenzione al periodo della dittatura militare del ’73-’85, ai fattori che hanno favorito l’instaurazione di questo tipo di regime, ed agli eventi che ne hanno determinato il crollo.

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Utilizzando, come si è già accennato, la vita di Mauricio Rosencof come filo conduttore tra una percezione tutta “americana” della sofferenza e della prigionia, e quella “europea” dell’Olocausto, approderemo all’analisi tematica dell’opera /DV FDUWDV TXH QR OOHJDURQ, per sottolineare non solo la differenza d’intenti che Rosencof manifesta nelle due opere, entrambe autobiografiche, ma anche le differenze stilistiche e metodologiche di due opere ugualmente inserite, ma in diverso ‘grado’, in un contesto letterario quale quello della ‘testimonianza’ e della “denuncia”.

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L’Uruguay fu una delle colonie europee fondate con maggiore ritardo rispetto all’inizio della colonizzazione. La “conquista” dell’Uruguay iniziò nel 1516. La fiera resistenza alla conquista opposta da parte della popolazione locale, insieme all'apparente assenza di oro e argento, limitò molto gli insediamenti nei secoli XVI e XVII. Solo nel 1680 venne fondata l’antica Colonia de Sacramento, ad opera dei portoghesi, e ciò influì senza dubbio sullo sviluppo sociale e culturale dei primi centri popolati, che in questa prima epoca non reggevano minimamente il confronto con altre città colonizzate quali Méjico, Lima e Buenos Aires. Con ciò non s’intende dimenticare la violenza e la crudeltà con cui vennero sterminate le popolazioni indigene della zona. Si pensi che l'unica popolazione documentata che abbia abitato l'attuale Uruguay è stata quella dei Charrúas, piccola tribù spinta a sud dalla tribù Guaranì del Paraguay, e che non superava un numero compreso tra le 5.000 e le 10.000 unità. Pertanto lo scarso numero d’indigeni esistenti fu totalmente sterminato, in modo da impedire la nascita, nei secoli successivi, di una razza PHVWL]D, di un meticciato tra “uomo bianco” ed “indigeno”, cosa che invece è riscontrabile nelle altre regioni dell’America Latina. Nonostante la sua recente colonizzazione, l’Uruguay fu ben sfruttato come fortezza militare dagli spagnoli, grazie alla sua eccellente posizione che lo rendeva un facile approdo navale, e non esitarono a sfruttare la sua posizione anche per il commercio, che entrò subito in competizione con Buenos Aires. Nel 1724 Bruno Mauricio de Zabala, governatore di Buenos Aires, fondò le città di San Felipe e Santiago de Montevideo, attuale capitale, iniziando un processo di fondazione e di appartenenza spagnola del territorio per frenare l’eventuale rivendicazione portoghese. Tale processo di fondazione terminerà nel 1776 con la creazione del 9LUUHLQDWR GHO 5tR GH OD 3ODWD, con il quale la Spagna prendeva possesso anche di Colonia de Sacramento, portoghese, e con la fondazione di piccoli stanziamenti spagnoli all’interno di tutto l’attuale Uruguay. Nonostante l’Uruguay fosse effettivamente sotto il dominio del vicerè di Buenos Aires, la sua rapida espansione a livello commerciale che l’aveva trasformata in uno dei punti di riferimento dei trasporti tra America e Spagna, nonché beneficiaria di alcune concessioni da parte della Corona, non fece altro che creare una sorta di rivalità tra Buenos Aires e Montevideo. Una rivalità che però si trasformò in rivolta comune contro la 7


madrepatria e sfociò nel 1810 nella rivoluzione per l’Indipendenza, condotta da un gruppo di JDXFKRV, popolazione delle zone interne del 9LUUHLQDWR GHO 5tR GH OD 3ODWD, che vivevano di allevamento e che, come i loro pascoli, erano liberi e selvaggi. Presto i JDXFKRV acquisirono il consenso della maggior parte della popolazione, e vennero capeggiati da José Artigas, un capitano dell’esercito spagnolo che sarebbe presto diventato eroe nazionale uruguayano, che disertò e si presentò davanti all’intera popolazione per combattere al suo fianco e riportare la libertà nel Río de la Plata. Furono numerose le lotte che portarono alla liberazione dell’Uruguay. Ricordiamo, tra tante, quella dei “Treinta y Tres Orientales” il 19 aprile del 1825, che fu decisiva, e che nell’agosto dello stesso anno portò all’indipendenza dall’Argentina, con la firma e dichiarazione della propria costituzione il 18 luglio 1830.

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L’Uruguay, quel piccolo stato che conta un’estensione di circa 176.000 kilometri, che si espandono tra Brasile, Argentina, Río de la Plata e l’oceano Atlantico, alla fine del XIX secolo aveva raggiunto un equilibrio organizzativo dal punto di vista politico e territoriale che pose le basi per un periodo di crescita e di sviluppo tale da ricevere l’appellativo di “WDFLWD GHO 5tR GH OD 3ODWD” e “6XL]D GH $PpULFD”. Il XX secolo si apre ad una serie di cambiamenti, di eventi che spingeranno i cittadini a prendere coscienza della propria nazione e della propria politica. Si afferma il bipartitismo che in tal modo disintegrava la precedente unità del potere, che risiedeva interamente nelle mani dello Stato. Tale modifica permetteva la presenza, nel Parlamento uruguayano, di rappresentati di entrambi i partiti politici che si contendevano il potere, in base ai voti ed ai seggi raggiunti. Vi era da un lato il Partido Blanco o Nacional, seguace delle idee di Aparicio Saravia e d’ispirazione conservatrice, liberista e logicamente nazionalista, dall’altro vi era il 3DUWLGR &RORUDGR, partito liberale, rosso, intorno ai primi anni del novecento iniziava ad aumentare la percentuale di voti e di seggi in parlamento, al punto da spianare la strada ad un personaggio politico che ne fu il rappresentante: José Battle y Ordóñez. Durante il primo trentennio José Battle y Ordóñez e Claudio Williman si alterneranno alla Presidenza della Repubblica, e quest’ultimo, maggiormente interessato a modificare la situazione economica del paese, mantenne una linea di condotta simile a quella precedentemente e successivamente adoperata da Battle.

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La lunga Presidenza di Battle, dal 1903 al 1907, e poi di nuovo dal 1911 al 1915, si contraddistinse per una serie di leggi che avrebbero favorito la libertà individuale e soprattutto quella degli oppressi, in particolare le donne con una proposta di legge sul divorzio concesso anche esclusivamente per volontà della parte debole della coppia, e i lavoratori, riducendo le ore di lavoro giornaliere e garantendo un indennizzo in caso d’incidente sul lavoro. Con l’abolizione della pena di morte, inoltre, propose l’incarceramento anche a vita, offrendo un nuovo metodo punitivo, ma allo stesso tempo anche una diversa concezione della vita, della società, della morale. Non bisogna però dimenticare le due violente rivolte del 3DUWLGR 1DFLRQDO con a capo Aparicio Saravia nel 1903 e 1904, in cui l’esercito rurale che l’appoggiava fu completamente distrutto ed insieme a lui anche le speranze riposte nel 3DUWLGR 1DFLRQDO. Questi episodi violenti apportarono come risultato finale il consolidamento del potere Battlista, al quale, alla luce dei fatti, la popolazione rurale affidava i propri voti, con l’esclusione del 3DUWLGR 1DFLRQDO dal governo, nonché la modifica della legge elettorale e della costituzione del 1830 che accentrava tutti i poteri nelle mani del Presidente della Repubblica, favorendo un tipo di politica dittatoriale e non democratica. Il principio ideologico contemplato da Battle riguardo l’economia, si fondava sull’idea che doveva essere lo Stato ad intervenire in un momento di crisi o di bisogno del cittadino. Un cittadino che non doveva appartenere ad una specifica classe sociale per usufruire delle agevolazioni statali, poiché lo Stato era l’organismo rappresentativo dell’intera società. Pertanto non solo prese provvedimenti per affrontare il problema dell’iniqua divisione delle terre, adottando una serie di provvedimenti che, secondo il suo punto di vista, avrebbero provveduto in modo automatico ad una ridistribuzione equa delle terre. Stabilì inoltre una politica volta al protezionismo economico, che salvaguardava la nazione dallo sfruttamento delle materie prime esportate a prezzi irrisori. E così si ebbe la statalizzazione di una serie di banche e dei trasporti ferroviari. Quando nel 1913 Batlle propose, oltre alla serie di rifermo sociali, una riforma che cambiasse l’assetto della Presidenza della Repubblica, proponendo il potere esecutivo fosse diretto e controllato da nove membri. In tal modo era possibile governare la nazione per un periodo secondo lui sufficiente perché anche i risultati del governo di vedessero. Ma un prolungamento governativo avrebbe contribuito all’accentramento del potere nelle mani del 3DUWLGR &RORUDGR, che non avrebbe mai lasciato il suo posto, il che fece preoccupare e reagire il 3DUWLGR 1DFLRQDO. Ma le resistenze al nuovo disegno di legge divennero manifeste anche all’interno del 3DUWLGR &RORUDGR stesso, da parte di frange del partito che non vedevano di buon occhio il marcato interesse per le riforme sulla divisione dei latifondi, che si scissero fondando il “3DUWLGR &RORUDGR General Rivera” e l’organo giornalistico “La Mañana”. 9


Il dibattito tra “colegialistas”, ovvero battlistas e socialisti, e “anticolegialistas”, che comprendevano tutte le altre ideologie, nazionalisti, colorati e cattolici, si acuì fino al momento delle elezioni, che videro la sconfitta dei “colegialistas” all’interno del Parlamento, ma la loro vittoria, l’anno successivo, nella Camera. In questi anni in cui la differenza tra Camera e Parlamento era netta, si riuscirono a trovare accordi per modificare la Costituzione in modo da garantie una serie di innovazioni politiche e sociali. Tra le modifiche della Costituzione del 1918, oltre alla scissione tra Stato e Chiesa, all’inserimento del suffragio universale ed alla creazione dell’anagrafe, importante fu, dal punto di vista politico, la distribuzione equa del potere ai due grandi partiti politici presenti in Parlamento, in modo da garantire maggiore democrazia ed un governo basato sulla cooperazione. La nazione si abituò a partecipare alla vita politica, a scegliere secondo le proprie ideologie, a rispettare i risultati delle votazioni come specchio del pensiero dell’intera popolazione. Iniziò a prendere coscienza della democrazia e dell’orgoglio nazionale. I primi trent’anni del XX secolo non furono segnati solo da tali riforme ma soprattutto da una crescita economica dettata dal protezionismo, dai commerci con l’Europa che importava maggiormente carne e lana dall’Uruguay, e che favorì la situazione economica della Nazione durante la crisi Europea che seguì alla prima guerra mondiale. Ma la grande crisi del 1929 che partì dagli Stati Uniti d’America sconvolse il mondo intero abbassando i prezzi del commercio. Il SHVR uruguayano fu fortemente svalutato e il Consejo Nacional de Administración, ovvero l’organo governativo incaricato di far fronte alla crisi economica e finanziaria del paese, non riuscì a contenere la crisi e pertanto furono indette nuove elezioni nel 1930, che videro salire alla Predisenza della Repubblica Gabriel Terra, del 3DUWLGR &RORUDGR, appoggiato dal partito battlista, scisso ormai dai “colorados”, che alleati con i “nacionalistas” si erano schierati come “anticolegiales” contro di loro. La crisi economica e l’incapacità di gestire la situazione da parte dell’organo del governo deputato, diedero la possibilità a Terra di modificare la Costituzione con il completo appoggio del popolo. Fu così che il 31 marzo del 1933 si sciolsero il Consejo Nacional de Administración e il Parlamento, e si diede inizio alla censura della stampa: si era verificato il tanto temuto colpo di stato. Il governo dittatoriale di Terra fu di tipo conservatore, autoritario, antiliberale. Immediatamente dopo il colpo di stato convocò un’assemblea costituente per elaborare la nuova Costituzione a carattere presidenzialista e fu nuovamente eletto presidente. 10


Durante il suo mandato sviluppò una politica incentrata sull’industria e sulla ricerca di una possibile alternativa al commercio, che fino a quel momento era stato l’unica risorsa dell’economia nazionale. Dal punto di vista politico interruppe le relazioni diplomatiche con l’Unione Sovietica. Nel 1938, al termine del mandato di Terra, il popolo prese in mano la situazione esprimendo il proprio malcontento attraverso un’enorme manifestazione popolare che richiedeva una nuova costituzione e leggi democratiche. Durante le elezioni dello stesso anno appoggiarono il candidato che sembrava aperto a modificare la situazione politica, considerando indispensabile una forma di cambiamento: Alfredo Baldomir, il quale sentì incombente, su di sé e sul suo mandato, il peso della situazione internazionale colpita e debilitata dalla seconda guerra mondiale. L’Uruguay dichiarò la propria neutralità, pur restando schierata al fianco delle altre nazioni americane, soggette all’egemonia degli Stati Uniti, e pronto ad intervenire nel caso in cui loro lo richiedessero. In seguito a scontri interni tra i “terristi” convinti di dover mantenersi neutrali, e i “battlisti” che difendevano la causa degli Alleati (Stati Uniti, Inghilterra, Francia), Baldomir decise di scendere in campo insieme a questi ultimi, cosa che avrebbe richiesto una modifica della costituzione. Così nel 1942, anno in cui il presidente doveva dare le dimissioni lasciando spazio alle elezioni, attuò il “Golpe bueno” e prolungò la sua carica solo ed esclusivamente per rendere più moderata la Costituzione e preparare così la Nazione ad un nuovo periodo di transizione democratica e un ritorno al battlismo. La successiva modifica della costituzione sarebbe avvenuta nel 1952, anno in cui si spostò il potere esecutivo dalle mani del Presidente della Repubblica a quelle del Consiglio del Governo, passando ad un sistema governativo diretto dai “Colegiados” di gusto Battlista.

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La fine della Guerra di Corea nel 1953 segnò l’inizio del declino per l’economia uruguayana. A metà degli anni ‘50, infatti, l’Uruguay iniziò a soffrire l’abbassamento dei prezzi delle esportazioni, inversamente proporzionale a quello delle importazioni, che comportò un calo del potere d’acquisto, con conseguente svalutazione del peso. Iniziò a diminuire la produzione, le fabbriche chiusero, aumentò la disoccupazione e diminuirono i salari, poiché gli industriali riuscivano a mala pena a sostenere le spese per il carburante dei macchinari.

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Di conseguenza gli operai iniziarono ad organizzare scioperi di massa, creando un clima di degrado sociale. L’Uruguay era nella situazione opposta a quella in cui dalla tranquillità di quell’oasi all’interno dell’America Latina era nato il motto “Como Uruguay no hay”. Inoltre in politica estera si successero eventi che ebbero una forte ripercussione sul paese, come la definizione dei confini territoriali tra Argentina e Uruguay sul versante del Río de la Plata e su quello del Río Uruguay, per lo sfruttamento dell’energia idroelettrica. La vittoria della Rivoluzione Cubana, che vide Cuba unirsi dopo soli due anni alle fila del comunismo, disseminò un’agitazione nel continente che in molte nazioni si risolse con la scelta del regime autoritario. Questo fu senza dubbio uno degli eventi che sconvolse maggiormente la politica estera di quel periodo, anche perché ci si aspettava una risposta da parte degli Stati Uniti d’America, che con molta probabilità avrebbe turbato ulteriormente gli equilibri nazionali. La reazione degli Stati Uniti d’America, infatti, fu immediata ma tacita. Convocarono ufficiali militari da tutta l’America Latina per iniziare un duro addestramento, soprattutto ideologico, nelle accademie statunitensi, per prepararli nel caso di una rivoluzione comunista in tutt’America, o nel caso, come vedremo in seguito, di una rivoluzione sociale come quelle del 1964 in Brasile e del 1966 in Argentina. Oltre alla preparazione delle Forze Armate, gli Stati Uniti, dopo aver firmato un piano di sviluppo per il progresso con tutti gli stati dell’America Latina, decisero di espellere Cuba dall’OEA (Organizzazione degli Stati Americani). Nonostante ciò, la società uruguayana iniziava a crescere e lo dimostrava attraverso una serie di cambiamenti che la rendeva simile ad una città europea: l’aumento della popolazione, il suo invecchiamento, l’aumento della densità nei centri urbani a dispetto delle periferie, la diminuzione del tasso di analfabetismo, la crescita del numero d’iscritti all’università, sono tutti dati evidenti dell’evoluzione di una nazione che sentiva, tra le altre cose, la necessità di acculturarsi per essere cosciente della situazione politica e esprimere la sua approvazione, o il suo eventuale disaccordo. Dal punto di vista politico, una situazione di malcontento generale non poteva far altro che incentivare la scissione e lo smembramento dei partiti politici. Per cui lo stesso 3DUWLGR 1DFLRQDO, in carica dalle elezioni del 1958, in seguito alla morte di Luis Alberto de Herrera, a cui faceva capo, si divise in due parti: da un lato la “Ubedoxia”, ovvero gli “herreristi” che si allearono con l’UBD (Unione Bianca Democratica), e dall’altro si costituì un partito “herrero-rurale”. A destra del 3DUWLGR 1DFLRQDO troviamo l’8QLyQ &RORUDGD \ %DWOOLVWD, di matrice conservatrice, mentre a sinistra nacque la lista 99 “Per il Governo del Popolo”, con a capo Zelmar Michelini, che proponeva un ritorno al socialismo del primo battlismo.

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Per quanto riguarda i partiti minori, da una costola dell’ormai scisso Partido Socialista nacque “Unión Popular”, nel tentativo di abbracciare la sinistra ma non i comunisti. Rodney Arismendi si sostituì al precedente segretario del Partido Comunista. Nel tentativo di ampliare il proprio raggio d’azione, fondò il )UHQWH GH ,]TXLHUGD GH /LEHUDFLyQ ),'(/ che con un tale acronimo non poteva nascondere il suo totale appoggio alla Rivoluzione Cubana. La giovane leva dell’8QLyQ &tYLFD, che rappresentava gli uruguayani cattolici, si staccò dalla matrice originaria per dare vita al 0RYLPLHQWR 6RFLDO &ULVWLDQR che poi divenne Democracia Cristiana. Così suddivisi e modificati i partiti non erano pronti per affrontare le nuove elezioni, che videro trionfare nuovamente il 3DUWLGR 1DFLRQDOLVWD, cosa che in un certo qual modo diede adito ad un’ulteriore scissione. Oltre alla divisione tra partiti %ODQFRV e &RORUDGRV, molti abbandonarono il Partido Socialista e fondarono con Raúl Sendic il 0RYLPLHQWR GH /LEHUDFLyQ 1DFLRQDO 0/1 7XSDPDURV; molti altri abbandonarono il Partido Comunista per fondare il Movimiento de Izquierda Revolucionario (MIR); i conservatori della Democracia Cristiana fondarono il 0RYLPLHQWR &tYLFR &ULVWLDQR, che s’interessava maggiormente delle problematiche sociali. Unico minimo comune denominatore di questo marasma era la convinzione che la crisi fosse in parte dovuta all’esistenza di un organo di governo collettivo, lento, inefficace, e che pertanto ci fosse bisogno di una riforma costituzionale, alla quale si approdò nel 1967, che ristabilì la Presidenza della Repubblica, affiancata da un Consiglio dei Ministri e un organo deputato alle decisioni economiche.

, 7XSDPDURV

Il movimento 7XSDPDUR, che secondo il dirigente dell'organizzazione e oggi senatore in Uruguay, Eleuterio Fernández Huidobro, ebbe origine nel 1965, dall'unione del 0RYLPLHQWR GH $SR\R DO &DPSHVLQR 0$& , fondato da Sendic nelle aree rurali più povere, e i membri del partito socialista che si sciolse. Il suo nome deriva da quello del glorioso ultimo re Inca, Túpac Amaru II. Questo nome veniva utilizzato nell’epoca della dominazione per chiamare i nativi, ma successivamente si estese fino ad identificare ogni sorta di rivoluzionario. Sendic, fondatore del 0$&, nonché uno dei maggiori esponenti del 0/1 7, s’interessò per primo alle condizioni disumane in cui vertevano sia i coltivatori di riso che quelli di canna da zucchero.

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Lo sfruttamento che questi coltivatori subivano era dettato in primo luogo dall’ignoranza, dall’incapacità di prendere atto delle violazioni dei diritti umani che subivano continuamente. Sendic non faceva altro che seguire il disegno dell’eror nazionale Artigas, cercando di dimostrare alle popolazioni rurali sfruttate che vi erano forme di protesta non violente che li avrebbero portati ad acquisire nuovamente i propri diritti. Il 1962 fu un anno da ricordare poiché i FDPSHVLQRV Lniziarono la marcia su Montevideo con delle richieste concrete, tra le quali la riduzione della giornata lavorativa ad otto ore e l’espropriazione di 30.000 ettari coltivabili ad una sola famiglia. La presenza in città di questi uomini, donne e bambini che sembravano provenire da un altro pianeta, o da un'altra epoca storica, scatenò una grande commozione da parte del popolo, ma anche una repressione violenta da parte delle forze armate e del governo. Ciò nonostante le marce non terminarono, ma continuarono a prodursi negli anni successivi. La nascita d’insurrezioni spontanee all’interno della popolazione diede la spinta che si concretizzò nella nascita dell’0/1 7, e tali manifestazioni popolari non furono altro che la dimostrazione di quanto fosse necessario uno stravolgimento della società, che portasse ad una società giusta. Il mezzo che utilizzarono per iniziare il processo di cambiamento sociale, fu la guerriglia. Inizialmente l’intenzione era quella di far scattare un meccanismo di ‘rilancio’: colpire un punto cruciale per attirare l’attenzione ed avanzare richieste sempre più alte. Il loro gruppo era armato, ma non aveva accettato rifornimenti di armi sovietiche, per non essere confusi con un movimento comunista, né tantomeno cubane, per non vincolarsi alla rivoluzione cubana. Le loro armi erano vietnamite e, secondo i racconti di Mauricio Rosencof, non sapevano neppure cosa farci con le armi, non avevano uomini preparati e pronti ad usarle, non ne conoscevano il funzionamento1. Ad ogni modo, nonostante non sapessero usarle, la guerriglia urbana iniziò con rapine alle banche, attacchi ai circoli e ad altre attività imprenditoriali, agli inizi degli anni Sessanta, cui seguiva la distribuzione ai poveri di Montevideo del cibo e dei soldi ‘rubati’. Il movimento agli esordi non fu visto di buon occhio né dalla Sinistra Parlamentare, né dal Partido Comunista, che dovettero presto cedere alla pressione della forte crescita del numero di membri del movimento, a Montevideo e nel paese tutto, che presto avrebbe raggiunto l’acme.

Miguel Ángel Campodónico, /DV YLGDV GH Rosencof, Editorial Fin de siglo, Montevideo, 2001, pag 219. 1

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Nel 1967 assunse il mandato della presidenza della Repubblica Jorge Pacheco Areco, che oltre ad inserire tecnici ed esperti di diversi settori nel suo team, non fece altro che mostrare al popolo l’immagine di un uomo forte e capace, che attecchiva nelle menti dei ceti bassi e analfabeti, ma non in quelle dei WXSDPDURV che avevano già intrapreso azioni di guerriglia. Fu in seguito a tali azioni di guerriglia urbana che Pacheco prese provvedimenti che violavano irrimediabilmente la costituzione e i diritti umani. Diverse commissioni parlamentari ebbero le prove, tra le altre violazioni, delle torture che venivano inflitte ai prigionieri dalla Polizia, della censura ed eventuale chiusura di giornali “scomodi”, della mancata presa in considerazione delle decisioni del Potere Legislativo e Giudiziario. Fu questo il periodo in cui L’0/1 7 raggiunse il maggior numero di militanti e le loro azioni iniziarono anche ad avere risvolti violenti. All’inizio, infatti, non erano previste azioni di violenza. I WXSDPDURV miravano sempre a chiarire di essere un movimento politico non armato, e che l'eventuale uso della violenza sarebbe dipeso da un cambiamento di strategia per raggiungere maggiori possibilità di successo. Nel giugno 1968, il Presidente Pacheco, nel tentativo di sopprimere l'agitazione che scuoteva il mondo sindacale, proclamò lo stato d'emergenza e annullò ogni garanzia costituzionale. Il governo imprigionò i dissidenti politici, fece ricorso alla tortura nel corso degli interrogatori di polizia e represse con brutalità le dimostrazioni di protesta. Fu allora che il movimento 7XSDPDUR iniziò ad impegnarsi in azioni di sequestro politico, "propaganda armata" e omicidi. Di particolare risonanza furono i rapimenti del potente manager bancario Pereyra Rebervel e dell'ambasciatore britannico in Uruguay, Geoffrey Jackson, come pure l'assassinio di Dan Mitrione, l'agente dell'FBI accusato di aver insegnato tecniche di tortura alle forze di polizia in vari paesi latino-americani. Pereyra Rebervel era un amico intimo del Presidente Jorge Pacheco Areco, reo di aver ucciso uno strillone che aveva venduto un giornale che lo attaccava. Fu rilasciato quattro giorni più tardi, illeso, o forse trattato meglio di quanto si potesse aspettare. Pacheco reagì incarcerando più di cento militanti dell’0/1 7, sottoponendoli a interrogatori, senza tuttavia ricorrere alla tortura. Nel 1971 la maggior parte dei WXSDPDURV arrestati fuggirono dal carcere di Punta Carretas, e fu questa la causa scatenante della reazione di Pacheco, che probabilmente non aspettava che un passo falso da parte dei JXHUULOOHUL. Con la “ragione” dalla sua parte, ordinò alle Forze Armate di reprimere con la violenza la ribellione dei WXSDPDURV fuggiti. Da questo momento in poi nessun organo politico e nessun partito, così smembrato, avrà la forza di contrastare il potere esecutivo, che continuava a mietere vittime.

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Tra le altre cose fu questa sfiducia totale negli organi politici ad incentivare un tipo di rivolta violenta, armata, considerata l’unica possibilità per difendere i propri diritti e riacquistare la libertà. Oltre all’MLN-T, un nuovo partito si formò in quegli anni: il )UHQWH $PSOLR, frutto dell’unione di partiti di sinistra e di gruppi ormai troppo suddivisi tra loro, che pose obbiettivi politici, economici, sociali e fiscali ben precisi nella sua Dichiarazione costitutiva. Il )UHQWH $PSOLR, estremamente anti-Pachico, insieme al 3DUWLGR &RORUDGR e a quello Nacional, si presentarono alle successive elezioni che furono vinte dal 3DUWLGR &RORUDGR con il binomio Bordaberry-Sapelli.

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Deciso a fermare i 7XSDPDURV, Bordaberry oppose loro uno “Squadrone della morte” che iniziò un massacro senza fine. Poco dopo l’Assemblea Generale dichiarò lo “Stato di Guerra Interna”, dando così il via alle Forze Armate che si preoccuparono di mettere in pratica tutti gli insegnamenti ricevuti durante l’addestramento dell’accademia statunitense, sui guerriglieri, che a poco a poco furono interamente sconfitti. Queste azioni di forza, la progressiva perdita di peso delle decisioni del Parlamento, culminarono in quello che venne chiamato “colpo di stato a rallentatore” del 27 giugno 1973. Bordaberry firmò con i comandanti delle Forze Armate il “Patto di Boizo Lanza” che riconosceva alle stesse un tipo di partecipazione politica ed amministrativa dominante. Istituì il Consiglio di Sicurezza Nazionale (COSENA), sciolse le Camere e le Giunte, applicò la censura nonché la limitazione di tutti i diritti individuali e diede inizio a quello che con eufemismo fu chiamato “processo civico-militare”. «Afirmo hoy, una vez más y en circunstancia trascendentes para la vida del país, nuestra profunda vocación democrática y nuestra adhesión sin reticencias al sistema de organización política y social que rige la convivencia de los uruguayos. Y va con ellos entonces el rechazo a toda ideología de origen marxista que intente aprovechar de la generosidad de nuestra democracia, para presentarse como doctrina salvadora y terminar como instrumento de opresión totalitaria. Este paso que hemos tenido que dar no conduce y no va a limitar las libertades ni los derechos de la persona humana. Para ello y para su vigilancia estamos nosotros mismos; para eso además hemos cometido esas funciones al Consejo de Estado y más allá, 16


aún por encima de todo ello, está el pueblo uruguayo que nunca dejó de avasallar sus libertades »2. Cominciava con questo discorso il controllo assoluto su tutti gli aspetti della vita dei cittadini, compresi quelli che non avevano niente a che vedere con la politica. I provvedimenti iniziarono a riflettersi in diversi settori della società. Per quanto riguarda l’istruzione, destituirono docenti, chiusero istituti di formazione per gli stessi ed in seguito alle elezioni universitarie del settembre di quello stesso anno, radicalmente contrarie alla politica del nuovo regime, diedero inizio alla più brutale delle repressioni nell’Università stessa. Tennero un comportamento simile anche con i sindacati, man mano che andavano consolidandosi la dittatura ed il potere militare. Aumentarono le repressioni, soprattutto contro la stampa e gli stessi giornalisti, le catture, e ridussero in condizione di “ostaggi” i maggiori esponenti del 0/1 7. Ma la repressione non colpì solo ed esclusivamente i militanti in organizzazioni politiche contrarie alla dittatura, poiché, come in ogni regime di terrore, il “repressore” non dichiarava cosa scatenasse la sua furia violenta e distruttrice. In questo clima furono le famiglie ad essere quelle più intimamente colpite e private delle loro libertà. Si viveva nella paura di oltrepassare quel confine sottile tra il lecito e l’illecito, poiché non ne era affatto chiara la differenza. La politica fu senza dubbio il primo tema ad essere considerato tabù, e pertanto fu la prima ad essere espulsa dalle abitudini familiari dell’Uruguay. Non si partecipava neanche più alle feste nazionali, pertanto era impossibile aspettarsi dal popolo una manifestazione del malcontento che pervadeva la società. Era rischioso non solo sapere, ma anche aver visto, esser stato testimone. L’unica forma di difesa personale era dimenticare, negare, non voler sapere, andando contro la propria morale e contro l’etica di tutto un popolo. E se la repressione risultò dura a Montevideo, fu ancora più angosciante quella applicata ai paesi dell’interno. Lì infatti i cittadini erano maggiormente controllati, anche a causa del dislocamento delle carceri in cui tenevano gli “ostaggi” dell’0/1 7 lontani dalla capitale.

J. M Bordaberry 'LVFXUVR SRU UDGLR \ WHOHYLVLyQ GHO in Benjamín Nahum, %UHYH KLVWRULD GHO 8UXJXD\ LQGHSHQGLHQWH Ediciones de la Banda Oriental, Montevideo 1999, pag. 172. 2

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La presenza di un commissario, un intendente e un comandante regionale quasi in ogni paese dell’interno riduceva drasticamente la distanza tra pubblico e privato, trasformando la repressione in un’aggressione diretta alla popolazione, e talvolta spingendo parte della popolazione in quella direzione, ovvero a schierarsi con le Forze Armate e ad intraprendere la carriera militare o esserne fiancheggiatore.

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In risposta al colpo di stato, la mattina seguente il segretario del &17 &HQWUDO 1DFLRQDO GH 7UDEDMDGRUHV lanciò un manifesto in cui invitava la cittadinanza ad occupare le fabbriche, a permanere in stato d’allerta, e indiva un’assemblea, alla quale effettivamente parteciparono tutti i membri del Partito Comunista. Sarebbe stato lo sciopero più lungo della storia della nazione: quindici giorni. Le Forze Armate presero i capi dei WXSDPDURV, e li tennero prigionieri per tutta la durata della dittatura militare: fino al 1985. Raúl Sendic, Eleuterio Fernández Huidobro, Mauricio Rosencof, José Mujica, Adolfo Wasem, Julio Marenales, Henry Engler, Jorge Manera e Jorge Zabalza vissero reclusi in condizioni inumane, convivendo con le torture fisiche e psicologiche che venivano inflitte loro, in un lungo regime di silenzio. Nelle stesse carceri morirono durante questo periodo circa un centinaio di prigionieri, mentre altre 200 persone continuano a essere considerate GHVDSDUHFLGDV. Addirittura il presidente successivo, Aparicio Ménendez, destituì dall’incarico, con diversi capi d’accusa quali la presunta complicità con comunismo e marxismo, per quindici anni, tutti i politici uruguayani. Accuse che, logicamente, non riuscì a provare in nessun modo. Così, per 15 anni circa 15.000 persone vennero escluse dalla vita politica. Nel 1977 le forze al potere disegnarono un piano politico: nel 1980 avrebbero istituito un plebiscito in cui votare una Costituzione basata su Atti Istituzionali, e l’anno successivo avrebbero reintegrato nella vita politica i partiti tradizionali, dai quali durante le elezioni, sarebbe stato possibile dare il proprio voto ad un solo candidato, dell’unico partito vincitore. Secondo i loro calcoli sarebbe stata una mossa perfetta per confermanre il protrarsi dell’egemonia militare. Nel frattempo nuovi atti istituzionali avevano autorizzato il licenziamento di migliaia di funzionari pubblici “civili”, affidando il controllo dei diritti umani a responsabili della “sicurezza interna”. Tutto confluiva nelle mani dei militari.

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Il progetto costituzionale del regime non faceva altro che continuare ad accentrare il potere nelle mani delle Forze Armate, e quando si parla di potere, non s’intende solo quello politico, collettivo, ma soprattutto dei diritti individuali, completamente gestiti e controllati dalle forze militari. Oltre all’invadente campagna elettorale a favore del SI, lentamente percorse la nazione una silenziosa campagna elettorale che raccomandava di votare NO. Cosa che, per fortuna, fu assolutamente superflua, poiché la maggior parte del popolo uruguayano si era già riunito segretamente per assicurarsi l’unica mossa possibile contro il regime. Il 30 novembre del 1980, s’indisse il Plebiscito Costituzionale del 30 novembre del 1980. La data era destinata alla votazione per le elezioni parlamentari, che non si tennero poiché il regime militare non ritenne necessario interpellare la popolazione sulla condizione governativa. Voleva piuttosto assicurarsi una più lunga permanenza al potere, che sarebbe stata segnata dalla vittoria del SI’. Vinse il NO, con il 57% dei voti. Fu una sconfitta che il regime non poteva immaginare, una lezione di civiltà contro la violenza. Il risultato del plebiscito costrinse le Forze Armate ad organizzare un nuovo programma che prendesse in considerazione anche i partiti politici. Si stabilì così un periodo di transizione di tre anni, con l’elezione di un nuovo presidente, il Tenente Generale Gregorio Alvarez, e la promulgazione di una Legge Organica dei Partiti Politici, perché portassero a termine le loro elezioni interne. Il popolo uruguayano non esitò a sfruttare quest’occasione per fare non solo propaganda politica, ma per manifestare apertamente contro il regime, che reagì chiudendo alcuni giornali e applicando una dura censura sulla stampa. Al termine delle elezioni del 28 novembre del 1982 furono eletti Wilson Ferreira per il Partido Blanco e Sanguinetti-Tarigo per il 3DUWLGR &RORUDGR, nuovi interlocutori delle forze armate ed unica speranza per il popolo di trovare una soluzione pacifica alla situazione. Si fecero piccoli passi in avanti, come il 3OHQDULR ,QWHUVLQGDFDO GH 7UDEDMDGRUHV 3,7 , che diede fiducia al popolo che si aprì a manifestazioni spontanee, come la “cacerolada”, una sfilata popolare al ritmo di pentole e padelle, oppure manifestazioni studentesche o di sindacati a favore dei diritti umani. Tutte queste forme di protesta sfociarono in una manifestazione che fu la più grande della storia politica nazionale: HO 2EHOLVFD]R, una riunione dell’intera popolazione sotto l’Obelisco il 27 novembre 1983 in cui la popolazione stessa si rese conto della propria forza e dell’isolamento in cui avevano relegato il regime.

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Iniziarono le trattative. Il nuovo Comandante in Capo dell’Esercito, Generale Hugo Medina, era propenso ad una negoziazione, che si concluse nel 1984 con la firma del “Patto del Club Navale” tra i comandanti militari e i dirigenti dei tre partiti, che garantiva elezioni prossime, anche se non si parlò esplicitamente delle responsabilità dei militari per gli atti criminali commessi in quel periodo.

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I tre partiti politici non erano unanimemente d’accordo con il metodo diplomatico utilizzato, ma il risultato finale fu l’elezione, il 1°marzo 1985 di Julio María Sanguinetti, e la restaurazione della democrazia. Fu un periodo difficile per il partito al potere, che fu affiancato anche dal 3DUWLGR 1DFLRQDO, poiché erano innumerevoli i problemi ereditati dal regime a livello istituzionale, economico e umano. Iniziarono dai problemi più urgenti: eliminare il Ministero di Giustizia creato dalla Dittatura per restituire al Potere Giudiziario le sue facoltà; rendere legali tutte le organizzazioni destituite; approvare l’amnistia per tutti i prigionieri politici e stabilire una commissione che si occupasse di rimpatriare tutti gli esiliati politici. Successivamente restituire il lavoro a tutti coloro che erano stati destituiti ingiustamente dal loro incarico. Il tema più scottante riguardava la pena da infliggere ai militari colpevoli delle torture e delle violazioni dei diritti umani. Nonostante le convocazioni in tribunale, il Comandante Hugo Medina negò il permesso ai propri ufficiali. Il Governo inviò nel 1986 una bozza della legge d’amnistia per le Forza Armate, temendo un nuovo colpo di stato da un momento all’altro. Il popolo uruguayano, diviso tra il terrore, il desiderio di dimenticare e la sete di giustizia, iniziò una raccolta di firme per poter avere diritto di veto sulla legge. Purtroppo, o per fortuna, ebbe la meglio la popolazione delle zone interne che maggiormente temeva un ritorno al potere delle Forze Armate, e nello stesso anno fu approvata la “Ley de punto final” o legge di caducità, che mandava in proscrizione ogni accusa rivolta ai militari. L’economia sembrò riprendersi, nonostante il Governo avesse deciso di cambiare i sistemi economici adottati dal regime. Grazie all’aumento della domanda di merci dei paesi vicini si riuscirono a portare alla normalità i salari.

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Ma un incremento economico maggiore, anche se con molte difficoltà, si ebbe dal 1991 in poi, quando, sotto la presidenza di Luis Alberto Lacalle anche l’Uruguay firmò l’accordo per la costituzione di un Mercato Comune del Sud (MERCOSUR) con l’Argentina, il Brasile e il Paraguay. L’accordo prevedeva la liberalizzazione commerciale, la coordinazione di politiche macroeconomiche, un dazio esterno comune ed accordi riguardo i settori d’esportazione. Il secondo mandato di Sanguinetti si potrebbe considerare la tappa conclusiva dell’evoluzione uruguayana, perché caratterizzato da una serie di riforme dal punto di vista politico, con una riforma elettorale che contemplava un minor numero di candidati e il ballottaggio; una riforma sulle pensioni, aumentando l’età pensionabile, sull’educazione, anticipando l’età per la scuola dell’infanzia, trasformando in scuole a tempo pieno quelle dislocate in zone periferiche o malfamate, e inserendo informatica ed inglese tra le materie scolastiche. La riforma dello Stato era volta a diminuire il peso dello Stato sulla società sia dal punto di vista economico sia dal punto di vista sociale; e nel 1996 un plebiscito approvò la riforma della costituzione, che entrò in vigore il 1°gennaio del 1997 e che modificò la legge elettorale e ridusse il potere effettivo del Presidente della Repubblica. I risultati delle elezioni del 2000 portarono alla Presidenza Jorge Battle del 3DUWLGR &RORUDGR: il Parlamento sarebbe stato composto, in base al numero di seggi ricevuti da ogni partito durante le elezioni, da senatori e rappresentanti del 3DUWLGR &RORUDGR, di quello 1DFLRQDO, dell’(QFXHQWUR 3URJUHVLVWD, parte del )UHQWH $PSOLR, e 1XHYR (VSDFLR.

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Alle successive elezioni, ovvero quelle del 31 ottobre 2004, Tabaré Vázquez risultò vincitore, candidato per la coalizione di sinistra che vedeva uniti i partiti Encuentro Progresista, Frente Amplio e Nueva Mayoría, battendo per la prima volta dopo 174 anni i due partiti tradizionali, il 3DUWLGR &RORUDGR e il 3DUWLGR 1DFLRQDO, cosa che avvenne anche nelle elezioni municipali e che evidenziò il cambiamento delle coscienze e di una intera nazione. Durante questo mandato, due antichi militanti dei 7XSDPDURV, José Mujica e Nora Castro, diventarono presidenti delle due Camere che compongono il Parlamento.

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Il 2006 e il 2007 sono stati anni importanti per la politica sui diritti umani. Furono gli anni in cui processarono Bordaberry, Alvarez e altri militari per le violazioni degli stessi diritti, e in cui si iniziò a raccogliere firme per eliminare dalla costituzione la ‘Legge di caducità’. Furono inoltre gli anni in cui fu approvata la legge di Unione Concubinaria, un progetto che equipara al matrimonio le coppie di fatto eterosessuali o omosessuali che abbiano superato i cinque anni di convivenza. Approvarono inoltre l’abrogazione della pena per l’aborto. La storia tracciata dagli inizi del ‘900 ad oggi ci parla di una nazione in crescita, di una nazione debole e ancora agli esordi che cercava una stabilità sociale ed economica tutta da inventare, da capire, da gestire. È la storia di una piccola nazione che ha subito, ha lottato e non ha dimenticato gli orrori. Che chiede giustizia e che lentamente, attraverso sistemi burocratici sopiti e impetuose manifestazioni popolari, la sta raggiungendo, e continua a migliorare i suoi livelli di emancipazione sociale e di difesa dei diritti umani, talvolta maggiori rispetto ad altre nazioni europee. Èla storia di una nazione di piccola estensione rispetto alla grandezza dell’America, ma che racchiude la forza di un popolo che non rinuncia alla propria indipendenza e identità e che le difende con tutte le armi a sua disposizione.

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Quella di Mauricio Rosencof è una storia travagliata, sofferta, frammentata, divisa e ricucita, un insieme di storie di vita, di persone e di identità. Miguel Ángel Campodónico, autore di un’attenta biografia di Mauricio Rosencof, prepara il lettore all’incontro con l’autore scegliendo un titolo che si erge ad emblema della frammentarietà della sua vita: /DV YLGDV GH 5RVHQFRI. La storia di Rosencof è un percorso di scatole cinesi, un insieme d’identità che fanno capo a nomi diversi, che s’intersecano le une con le altre, fino a ricongiungersi in una sola persona. Oltre all’errore anagrafico di un funzionario che non riuscì a decifrare la scrittura del padre e che lo iscrisse come “Marco”, costringendolo a recuperare autonomamente e dopo anni la propria identità come “Mauricio”, sono altri i nomi che distinguono le diverse nature dell’autore: l’ebraico “Moishe” della casa dell’infanzia, il “Ruso” degli amici ed il “Leonel” da WXSDPDUR. Sarà questo il percorso da seguire per scavare nelle diverse identità dell’autore e riscoprirne le radici, gli esili, gli incontri ed i disincontri che hanno segnato la sua esperienza. Nel 1931 Isaac Rozenkof, padre dell’autore, intraprende il viaggio verso l’Uruguay per fuggire dalla Polonia ostile agli ebrei, da un’Europa che di lì a poco avrebbe iniziato lunghe ed esasperanti persecuzioni contro di loro e che già ne dava sentore. Isaac era diretto nella città uruguaiana di Florida, dove avrebbe cercato di costruirsi una nuova vita con un solo asso nella manica: saper fare il sarto. La sua macchina per cucire, inseparabile compagna di viaggio ed ancora di salvezza, lo metterà in condizione di ricongiungere la famiglia. Isaac era stato il primo della famiglia ad intraprendere un viaggio attraversando il mondo intero solo per riconquistare la libertà, la tranquillità. Era stato il primo a dire addio alla famiglia, alla vita di sempre ed alle proprie radici. Dopo due anni di duro lavoro riuscì a mettere da parte il denaro necessario per permettere alla moglie Rajzala e al figlio Leibu di viaggiare verso l’Uruguay, attraversare il mondo intero e perdere le proprie radici per arrivare in una terra nuova e sconosciuta dove poter ricostruire una vita e ripartire da zero, con un gesto rappresentativo del cambiamento d’identità, del rinnovamento, dell’adeguamento ad una nuova cultura e ad una nuova civiltà: modificare i propri nomi. Rajazala divenne Rosa, Leibu divenne Leonel, mentre Isaac non modificò il proprio nome, bensì il cognome della famiglia, da Rozenkof a Rosencof.

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Da qui scaturisce quella dualità tra mondo uruguaiano e mondo ebreo che aveva come confine l’uscio di casa, ma che diventava netta solo a livello nominale. Conservare il proprio nome, di origine ebraica, all’interno della casa, aveva un valore affettivo, era simbolo di attaccamento alle proprie radici ormai lontane, che veniva risvegliato anche durante le conversazioni in yiddish. Utilizzare il proprio nome “spagnolo” e una lingua “straniera” all’estero non diventava una forzatura, ma un semplice compromesso che andava a favore della propria integrazione nella società. Parliamo di dualità in quanto sdoppiamento della personalità e divisione in due culture. Ma la dualità che vive la famiglia Rozenckof/ Rosencof non è una dualità forzata. I germi della cultura uruguaiana prendono piede anche all’interno della casa. L’uscio che separa le due culture, non è ermeticamente chiuso, bensì aperto ad un’integrazione che avviene attraverso un elemento simbolico della cultura ospitante: il mate. La bevanda latino-americana abbatte le barriere culturali diventando un appuntamento fisso nella quotidianità della famiglia Rosencof, ed ancor di più nella vita di Mauricio.

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Nasce il 30 giugno 1933 a Florida Marco-Moishe, e dopo due anni dalla sua nascita la famiglia deciderà di trasferirsi a Montevideo, in calle Ansina e poi nel quartiere Palermo, in calle Gonzalo Ramírez. L’infanzia di Moishe, nel suo nucleo familiare, nonché all’interno delle pareti domestiche, dove l’ebraico era la cultura dominante, fu idilliaca. Grande ed evidente era l’ammirazione che dimostrava nei confronti del fratello Leibu, che fungeva da interprete e insegnante di spagnolo ai suoi genitori, che in tal modo rappresentava l’anello di congiunzione tra la cultura ebraica e quella esterna, spagnola. A causa dei problemi economici familiari dettati anche dalla scarsa richiesta di abiti su misura, che costituiva il lavoro del padre, Leibu era costretto a lavorare, a dedicarsi alla casa, a studiare alla scuola serale, e a praticare la box, un po’ per svago, un po’ per difesa personale. Era un ragazzo con la maturità di un adulto, modello e genitore per Moishe che invece, in quanto secondogenito, era stato destinato agli studi: i genitori volevano che diventasse dottore, pertanto non doveva occuparsi delle faccende domestiche. Da piccolissimo lo iscrivono in una scuola chiamata Zhitlovsky, istituzione ebraica di sinistra, perché sin da piccolo riuscisse a familiarizzare con l’ebraico.

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La pace della famiglia e di Moishe terminò con la morte di Leibu a causa di una meningite. I genitori non riuscirono a rassegnarsi all’idea della perdita di un figlio dopo tutti quegli anni di sacrifici. L’unica soluzione che riuscirono a trovare per superare quel momento, per dimenticare o semplicemente per andare avanti, fu quella di trasferirsi, cambiare casa, cambiare quartiere, pensando che cambiando quartiere le domande, pesanti come piombo per una madre che non riesce e non può rassegnarsi, sarebbero rimaste rinchiuse nella vecchia casa, insieme ai ricordi. Anche dentro Moishe scattò qualcosa. Leibu era il fratello a cui tutti sarebbero stati secondi, un esempio di vita per lui, sin da piccolo. Era morto a causa della stessa meningite che lui stesso aveva avuto e superato settimane prima. Si sentiva colpevole ed inutile. Non poteva accettare di aver superato la malattia, di doversi rassegnare alla perdita del fratello, e di dover alleviare il peso delle sofferenze della famiglia senza sapere da dove iniziare. Moishe è davanti al primo trauma della sua vita, davanti ad un feretro chiuso in una stanza interamente coperta di lenzuola bianche, secondo il rito ebraico, che creava un’aria spettrale. Mioshe è, per la prima volta nella sua vita, davanti alla morte, che presto ritornerà a segnare la sua famiglia. Alla morte di Leibu si aggiunse anche quella di tutti i parenti in Polonia, nel campo di concentramento di Auschwitz, ad eccezione di una sorella di Isaac e di sua nipote. La vita della famiglia Rosencof cambiò, e l’adolescenza di Moishe divenne una clausura. La quotidianità divenne pesante, asfissiante. Nella casa era cambiato tutto. Alle nove di sera si spegneva la luce e si andava a dormire, non si rispettavano feste ebraiche, perfino il compleanno di Moishe fu cancellato, e ogni domenica si andava al cimitero.

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L’infanzia del 5XVR è concomitante a quella di Moishe, ma si muove all’esterno della casa, dove gli amici ed i compagni di scuola lo identificano come “Ruso”. Dopo la scuola Zhitlovsky, il 5XVR si trasferì nella scuola di FDOOH 'XUD]QR, ma la cultura, la scuola, quel locale chiuso e costrittivo, non era ciò che voleva. Era un inquieto bambino di strada che amava giocare e gironzolare nel quartiere con il suo amico Fito, compagno di traversie e scorribande. In seguito alla morte del fratello, la famiglia intera si trasferì a Garibalidi 2877, un quartiere nuovo della città dove le famiglie non conoscevano la loro storia né quella di Leibu. Il 5XVR, però, continuava a frequentare la scuola di FDOOH 'XUD]QR, continuava a frequentare il quartiere e gli amici che avevano riempito i giorni felici della sua infanzia. Erano le uniche ore del giorno passate fuori casa. 25


La casa era diventata ormai cupa, tetra, i suoi genitori erano stati prosciugati dalla vita e lui si sentiva l’unico essere vitale, l’unico sopravvissuto alle vicende. Iniziò quindi la scuola secondaria, con scarsi risultati e per soli tre anni, ma lì iniziò a muovere i suoi primi passi nella scrittura e dimostrò, in modo rudimentale e ancora immaturo, la capacità di esporre il proprio pensiero in versi. La sua intraprendenza non fu premiata, ma al contrario, sminuita, ma lui non si fece scoraggiare. Probabilmente in quel frangente aveva preso coscienza delle proprie capacità, pur sapendo che non aveva ancora i mezzi adeguati per esprimerle al meglio. Intorno ai 14 anni conseguì il diploma di dattilografia presso l’Accademia Pitman, che la madre non esitò ad incorniciare ed appendere in casa con immenso orgoglio. La sua vita continuava in strada, mentre la scuola veniva sempre più accantonata. A 16 anni conosceva tutti i locali del quartiere, le PLORQJKH, sicuramente poco adatte ad un ragazzino della sua età, ed i personaggi che animavano il quartiere, con cui giocava a bocce, a carte. Tutto quel materiale umano e quella bizzarra vita di strada fu raccolto negli anni successivi in racconti, romanzi ed opere teatrali interamente dedicate a queste tematiche. La strada, il quartiere, quelle frequentazioni strane e poco adatte ad un ragazzino della sua età, non possono essere definite come esperienze negative, ma al contrario esperienze pregnanti per la sua formazione, più di qualsiasi scuola o libro letto, poiché a presa diretta con la realtà, con uno scenario, quello del quartiere, che gli ha permesso di entrare in contatto con una serie di “attori” multiformi e variegati: Macho Gutiérrez, un uomo che dava i numeri da giocare al lotto, alimentò con la sua persona la fantasia del Ruso, mentre altri personaggi del quartiere, come Florencio Sánchez ed il professor Pietrafesa la alimentavano da un altro punto di vista, quello tecnico, di chi si trova alle spalle dell’opera. Altri personaggi come Julio César Ferme, meglio conosciuto come Tito o come il Leonardo del quartiere, era il pittore del quartiere ma influenzò l’opera letteraria del 5XVR soprattutto con le sue rappresentazioni teatrali. Gallego Menéndez era uno spagnolo emigrato a Montevideo per fuggire alla guerra civile. Dopo anni di sorveglianza notturna alle case del quartiere, prese una casa per sé e inizio l’allevamento di galline e la coltivazione di un piccolo orto. Tutti questi personaggi diedero vita ad una serie di opere teatrali che riuscì a mettere in scena nello stesso quartiere: (O JUDQ 7XOHTXH (1960), /DV 5DQDV (1961). La preoccupazione dei genitori per le bizzarre frequentazioni del figlio spinsero gli amici del padre a proporre al 5XVR un percorso di formazione che l’avrebbe portato a lavorare nella Commissione di Propaganda del Partito Comunista, in modo da sfruttare anche il suo diploma di dattilografo. Gli stessi amici del padre lo avvicinarono alla lettura di testi che la famiglia non considerava propriamente adatti ad un ragazzo della sua età, appartenenti al filone letterario del realismo socialista. 26


I libri che iniziavano a formare il bagaglio culturale di quello che i seguito sarebbe stato un fervente politico, erano testi a cui il 5XVR non era abituato, dato il suo scarso interesse dimostrato per lo studio. Al contrario, questi testi che spiegavano la rigida posizione politica del Partito Comunista, contrariamente alle aspettative, gli risultarono interessanti ed affascinanti, lo colpirono, e restarono assopiti all’interno delle sue conoscenze, per venir fuori non direttamente nelle sue prime prove, ma in opere successive. La passione e l’interesse per la questione politica prende forma alla luce delle nuove competenze assorbite, ma il 5XVR aveva già dimostrato forme embrionali d’interesse quando, pochi anni prima, era stato Segretario Generale dell’Associazione Studentesca del Liceo Notturno, ed ancora prima quando si era interessato alla situazione del movimento studentesco, unendosi a due studenti comunisti. Questa preparazione ideologica, oltre alle letture suggeritegli, avevano creato terreno fertile per il suo ingresso nel Partito Comunista. Fu in quegli anni che imparò l’uso delle armi, che iniziò a frequentare, d’accordo con la sua propensione per la scrittura, o con la sua capacità di dattilografare, la sede del quotidiano «Justicia». Fu inoltre discepolo di e discepolo di Alejandro Lerena, ammirato dal 5XVR per la sua sessione «Luces y sombras» e ricevette lezioni di oratoria, sempre a carico del Partito Comunista che aveva visibilmente scelto di investire in lui. Visse sotto i propri occhi il cambiamento del Partito Comunista ad opera di Rodney Arismendi che nel ’55 diede un golpe e modificò diverse cose. Tra queste creò l’8QLyQ GH OD -XYHQWXG &RPXQLVWD 8 - & e fondò «El Popular», un quotidiano più ampio e meno diretto agli “addetti ai lavori”, cosa che caratterizzava il precedente «Justicia», inserendo il 5XVR all’interno della redazione. Fu in quegli anni che, come inviato del quotidiano, il 5XVR entrò a contatto con una serie di realtà molto dure. Questo fu il momento in cui il teatro iniziò ad avere un ruolo rilevante nella vita di Mauricio. Fu in parte “iniziato” al teatro da una fidanzata colta, che frequentava i balli organizzati da diversi sindacati. S’iscrisse alla scuola di recitazione de «El Galpón» e fu lì che il 5XVR vide per la prima volta un’opera teatrale, e fu lì che iniziò a sviluppare quest’interesse per la scrittura teatrale che lo portò alla stesura di /DV 5DQDV, unendo questa sua nuova esperienza a tutto ciò che aveva visto e vissuto nel suo quartiere. Queste le parole dello stesso autore a proposito della stesura de /DV 5DQDV, nell’intervista di Miguel Angel Campodónico per la stesura della sua biografia: «Yo no tengo dudas de que fue en la calle Garibaldi donde empecé a escribir, tendría alrededor de veinte años. Creo que lo primero de gran aliento que intenté fue una novela. Todavía tengo un pedazo por ahí. En casa había una mesa grande, de mucho cuerpo y peso, que era la del taller de mi padre. Pero era intocable. Y había otra que era la que usaba mi madre en la cocina. 27


Entonces, yo sacaba la mesa de la cocina al patio y me ponía a escribir. Pero sólo podía hacerlo hasta las doce de mediodía porque mi madre la necesitaba para poner los platos y servir el almuerzo de nosostros tres. Así fue que escribí ‘Las Ranas’. La terminé en quince días. Me acuerdo muy bien porque una de las historias que la inspirò fue un relato que me hizo Enrique Rodríguez. Él había conocido a alguien que vivía de cazar ranas en un zanjón para venderlas después a un laboratorio que las utilizaba para realizar los estudios que determinaban si una mijer estaba o no embarazada. Yo finalmente lo conocí en la Isla Mala. Estaba trastornado, tenía una botella con un remedio para el cáncer que hacía con víbora ciega. Andaba siempre descalzo. Una vez lo vi, era rubio, de treinta y pico de años, con una gran sonrisa, magro, pero fornido. Se convirtió en el Jacinto de ‘Las Ranas’. Yo escribo mi realidad»3. Nell’ultima frase risalta la dichiarazione di poetica dell’autore, con la quale giustifica le sue scelte tematiche: infatti durante tutto il suo percorso di vita e scrittura affronterà tematiche ed argomenti da lui vissuti in prima persona, toccati con mano. In tal modo riesce inoltre a giustificare la presenza di errori di ortografia e di sintassi nei dialoghi di questi personaggi, in modo che non venissero attribuiti all’autore (che assegnava la correzione dei suoi testi ad un compagno di scuola che la scuola la frequentava, Juan Garibotto). Ma il 5XVR non rimase attratto e colpito solo dal teatro. In questo periodo iniziò ad esplorare il mondo di diversi autori e a cercare di scoprire i segreti della scrittura, non avendo avuto nessuno che gli avesse insegnato come scrivere, da dove iniziare, come riuscire a tenere costante l’attenzione del lettore. Uno degli autori che studiò più a fondo fu Horacio Quiroga. Lo aveva scioccato la tecnica utilizzata da quell’autore, che era in grado di anticipare il finale sin dalle prime righe del racconto, ma poi insinuava il dubbio nel lettore che, una volta messo davanti alla realtà dei fatti, restava incredulo, attonito: «Pero cuando ya [el personaje] murió, uno ve que, en realidad, no, que está parado contra el alambrado. Entonces uno se acerca al lugar y cando llega ahí se da cuenta de que sí, que realmente el personaje está muerto»4.

3 Miguel Ángel Campodónico, /DV YLGDV GH 5RVHQFRI, op. cit., pagg. 99100. 4

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, pag. 120.

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Un’esperienza che segnerà il passaggio dalle sue esperienze giovanili – quando era “il Ruso” – alle esperienze della maturità e dell’impegno – quando sarà “Leonel” - fu quando fu inviato da «El Popular» a scrivere un articolo sullo sciopero dei coltivatori di riso ed entrò a contatto con tutta quella povertà, quella gente che viveva in una miseria inspiegabile e che sembrava arrivare da un tempo lontano. Sarebbero stati tutti personaggio perfetti per un’opera teatrale, che poi venne realmente scritta: /RV FDEDOORV (1967). La povertà dei coltivatori di riso era inimmaginabile, la rassegnazione a quella condizione sarebbe stata la loro rovina. Raúl Sendic fu colui che fece conoscere al resto della nazione quella realtà: fu l’aizzatore delle masse, l’uomo che spinse tutta quella popolazione a protestare perché i loro diritti fossero rispettati. Fu l’uomo che svegliò le coscienze di una popolazione senza istruzione e dimenticata dal resto della nazione. E fu l’uomo che svegliò anche la coscienza di Rosencof e lo spinse a superare quel ponte, a prendere coscienza della necessità di un cambiamento, di una rivoluzione. Fino a quel giorno, infatti, il 5XVR, affiliato al Partito Comunista, aveva avuto ottimi rapporti con i sindacati, e come inviato di un quotidiano aveva avuto accesso a qualsiasi manifestazione. Prese parte, infatti, perfino alla marcia su Montevideo dei coltivatori di canna da zucchero nel 1962, che fu violentemente repressa dal Governo. In seguito a questa repressione ed alla cattura di alcuni coltivatori, nacque la Lista 99 con a capo Zelmar Michelini, che lottava per la emancipazione dei lavoratori e per garantire loro migliori condizioni di vita. In quest’occasione lo stesso Sendic chiese al 5XVR di scrivere un’opera sui coltivatori di canna da zucchero, che si sarebbe intitolata /D UHEHOLyQ GH ORV FDxHURV (1969), alla quale si dedicò dopo aver appreso bene ogni movimento della storia dei coltivatori ed esserne rimasto profondamente turbato. Nello stesso 1962 viaggiò a Cuba ed ebbe la possibilità di scambiare alcune parole con Che Guevara. Fu un momento molto importante per la vita del 5XVR-comunista. Altrettanto importante per lui fu il viaggio nell’URSS del 1964, al quale si dedicò non con l’animo del turista, ma con quello del giornalista, del ricercatore, che aveva bisogno di scoprire e toccare con mano la storia del comunismo. E scoprì che c’era differenza tra il comunismo sovietico, quello italiano e quello francese. Erano tutti indipendenti. Portò con sé testi come quello di Palmiro Togliatti, e dedicò degli articoli interi de «El Popular» a quel viaggio, per diffondere informazioni come quella che Trotsky era stato il fondatore e comandante dell’Armata Rossa, che in Italia vendevano canzoni anarchiche, ed altre scoperte di questo tipo. Ma il Partito Comunista Uruguaiano vietò la pubblicazione, preferì occultare questo tipo d’informazioni, e poco a poco le divergenze tra le opinioni del Partito Comunista e quelle del 5XVR iniziarono ad ampliarsi al punto l’unica soluzione fu quella di abbandonarlo. 29


/HRQHO

«Al apartamento me llevaron compartimentado porque el Bebe [Raúl Sendic] estaba clandestino. […] El Bebe apareció en chancletas, con el mate, la sonrisa y los ojos pícaros de siempre. Hablamos de todo, de política, de los cañeros, de que él estaba clande, pero no me planteó el ingreso a la organización. Sin embargo, aquello fue un reclutamento. A partir de entonces quedé vinculado»5. Le parole di Mauricio Rosencof evidenziano un momento di passaggio, un cambiamento del proprio sguardo sul mondo, la rottura di quel velo che avvolgeva l’ideologia comunista, che in quel momento lui stesso sente di aver squarciato con le proprie mani, alla ricerca della verità. Moishe, il 5XVR, adesso sceglie da solo il proprio nome per la militanza tra i WXSDPDURV: Leonel , in onore di quel fratello perso in gioventù ed al quale sentirà sempre di essere secondo. Questi furono senza dubbio gli anni più duri ed intensi della sua vita. Gli anni da WXSDPDUR a cui seguirono quelli da prigioniero politico. I WXSDPDURV erano un’organizzazione clandestina, non dichiarata, non affiliata ad un partito, che lottava esclusivamente per provocare un cambiamento sociale e soprattutto nelle condizioni di vita della popolazione dell’Uruguay, tanto in città quanto nelle zone interne. La condotta dei WXSDPDURV non s’ispirava alla Rivoluzione Cubana, e perché ciò fosse chiaro rifiutarono qualsiasi tipo di aiuto da Cuba, come rifiutarono d’inviare WXSDPDURV a Cuba per contribuire alla rivoluzione castrista. Tutto era partito con delle marce di contadini, e così volevano che continuasse. L’0/1 7 era diviso in tre colonne, di cui la terza, che si chiamò in seguito “columna Diez”, era capeggiata da Leonel, che iniziava ad acquisire un vero e proprio ruolo direttivo nell’organizzazione clandestina. Tutte le colonne erano uguali ma erano indipendenti dalle altre, perché quello era l’unico modo per tutelare il pensiero del movimento e far sì che ognuna potesse sopravvivere anche se le altre colonne fossero state mutilate. Ogni colonna era suddivisa in sezione politica, che per quanto riguarda la colonna tre era sotto la responsabilità di Leonel, una sezione militare ed una dei servizi, dell’azione. Man mano che la dittatura del Presidente Pacheco di faceva più dura e restrittiva, aumentavano i gesti di rivolta, che inizialmente si esplicitavano in manifestazioni, attacchi alla banche ed ai circoli, mente successivamente sfociarono in sequestri politici e azioni sanguinose.

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pag. 163.

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Arrivati a questo punto i WXSDPDURV, traditi da una spia che rivelò alle Forze Armate il luogo delle loro riunioni, arrivarono allo scontro diretto con le Forze Armate il 14 aprile 1972. Quella giornata si aprì con una serie di attentati terroristici da parte dei WXSDPDURV il sottocommissario Oscar Delega e Carlos Leite, autista del veicolo, il capitano Ernesto Motto, un ex sottosegretario del Ministero degli Interni Armando Acosta y Lara, considerati parte degli Squadroni della Morte. La giornata si concluse poi con la morte di otto WXSDPDURV, un elevato numero di feriti ed uno altrettanto elevato di prigionieri. Bisogna considerare che il WXSDPDUR non era una persona affiliata ad un partito, non era identificabile con una tessera o un documento. I WXSDPDURV erano in numero sempre crescente e non si riconoscevano neppure tra loro, immersi nella loro stessa clandestinità. Essere WXSDPDUR era diventato uno stile di vita. Pertanto furono tantissimi quelli catturati e quelli che in seguito occuperanno le carceri. Quel fatidico 14 aprile fu decisivo per l’inizio del declino dell’0/1 7. Leonel sarebbe “caduto” nelle mani della polizia il 19 Maggio 1972. Non gli fu mai chiaro quello che sarebbe successo durante quei lunghissimi 13 anni di prigionia, sotto terra. La vita di Leonel sarebbe stata, tra le vite di Rosencof, quella più sofferta, quella più tenace, quella costretta a lottare per la sopravvivenza, per la sanità mentale, per la vita. Sarebbe stata una vita concentrata sulla resistenza, sulla ricerca continua di un gesto, una parola, un pezzo di giornale, una notizia, un mezzo di comunicazione, perché sarebbe stata una vita immersa nel profondo silenzio delle catacombe, di celle d’isolamento di 1 metro e 80 per 1 metro e 20, in spagnolo FDODER]RV, nelle quali era rinchiuso, e costretto in piedi per la maggior parte del tempo, in qualità di “ostaggio” della dittatura. La dittatura militare, con il suo sadismo ingiustificabile e le torture fisiche e psicologiche, aveva preso come ostaggi i nove WXSDPDURV a capo delle tre colonne dell’0/1 7 in modo da controllare la situazione politica e la guerriglia: a un nuovo attacco, al tentativo di liberarli, gli ostaggi sarebbero stati uccisi. I 13 anni di Leonel sarebbero stati scanditi da trasferimenti da un paese all’altro dell’Uruguay, sempre lontano dalla capitale, lontano da ogni rischio di un’azione sovversiva che li potesse liberare. Ogni trasferimento avveniva con una benda sugli occhi, un cappuccio in testa e le mani legate indietro, quando i soldati non volevano “divertirsi” con loro e non volevano tirare brutti scherzi, ai quali lentamente iniziarono a prepararsi, ma mai ad abituarsi: «FH: [...] vuelvo a ser trasladado. Fue tal el grado de ataduras a que me sometieron, que un sargento del 13 de Infantería que estaba presenciando todo, les dijo: “Che, ¿no necesitan unos clavos?” El detalle “exquisito” fue que cuando me sacaron la capucha del 13 para ponerme la de Rocha, dijeron “No, no, esperá, esperá”; entonces fueron, la mojaron en gasoil, y me la colocaron. Así tuve que hacer todo el viaje vomitándome encima.

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MR: El largo viaje hacia la justicia nunca llegaba a destino. Siempre se volvía al punto de partida»6. Gli anni erano scanditi anche dai fuochi d’artificio del capodanno, dai rumori e le grida per i mondiali di calcio, dalle visite della famiglia pochissime volte l’anno, dai colpi delle nocche sulle pareti per comunicare con l’altro ostaggio al di là del muro, per inventare una nuova lingua che aprisse una finestra sul mondo, uno squarcio nel silenzio. Nonostante l’isolamento, le torture fisiche e psicologiche, la follia, che arrivava ad impossessarsi di loro in alcuni momenti di debolezza, e le condizioni inumane in cui i nove ostaggi vissero per 13 anni, Leonel riusciva a creare, a pensare alla scrittura ed alla poesia come terapie per restare ancorati alla sporca realtà e cercare al contempo un sano metodo di evasione. Durante la prigionia nacquero opere di poesia, come &RQYHUVDFLRQHV FRQ OD DOSDUJDWD (1985), spesso declamate con il rumore delle nocche attraverso la parete al suo compagno di viaggio Eleuterio Fernández Huidobro, detto Ñato; &DQFLRQHV SDUD UDOOHJUDU D XQD QLxD (1985) scritte per sua figlia Alejandra e la figlia del compagno, Gabrielita, con l’intento di rasserenarle ed allo stesso tempo criptare un messaggio che riuscisse a sfuggire alla censura militare e ad arrivare a chi fosse in grado di leggere tra le righe la condizione in cui vivevano. Ancora scrisse /D 0DUJDULWD (1995), opera che per lo più conteneva poesie create con acrostici, come quelle estremamente prive d’inventiva e di poeticità che i soldati gli commissionavano a Paso de los Toros. Fu qui, a Paso de los Toros, quando un giorno decisero di appendere all’interno della loro cella un cartello immaginario «Aquí también se lucha»7, che iniziò a prendere forma, sempre a colpi di nocche contro la parete, quella cronaca monumentale che rispose appieno al loro obbiettivo di denuncia e testimonianza: 0HPRULDV GHO FDODER]R (1989). Gli ultimi anni di prigionia furono quelli in cui passarono da ostaggi a prigionieri, fecero ritorno a un carcere civile, il 3HQDO GH /LEHUWDG, in cui le guardie rispettavano le regole stabilite, dovevano rispettarle. Il 3HQDO GH /LEHUWDG, una delle carceri di massima sicurezza dell’Uruguay, era per Leonel, e per gli altri otto compagni, il Paradiso terrestre. Durante gli ultimi due anni lì erano riusciti, con la resistenza da sempre applicata, ad ottenere una serie di risultati positivi, di concessioni anche minime, pur continuando ad essere completamente all’oscuro della situazione politica del paese.

Mauricio Rosencof, 0HPRULDV GHO FDODER]R Ediciones de la Banda Oriental, Montevideo, 2006, pag 68. 6

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pag. 55.

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In questi ultimi anni, una volta entrati in contatto tutti gli “ostaggi” della dittatura, adottando tecniche fugaci per la trasmissione orale e la comunicazione, riuscirono a comporre testi e musica di canzoni che nel 1985, una volta usciti dal carcere, avrebbero registrato e pubblicato intitolandole &DQWDUHV GHO FDODER]R. 15 marzo 1985: la liberazione, il ritorno alla vita, nelle braccia di una folla esultante di compagni liberati, o di quelli che avevano continuato a lottare o a resistere per 13 anni. Un ritorno alla vita che significava denuncia, testimonianza, ma anche un processo duro e lento per riabituarsi alla normalità delle cose, dopo aver invertito i parametri di normalità ed anormalità per tanto tempo. Ed è ancora Leonel il giorno della liberazione, che d’improvviso si allontana da quella folla, dalla gente esultante che rivede otto persone restituite alla vita, che si allontana per ritrovare la sua stessa vita: «FH: Pero hubo una noche, Ruso, en que desapareciste solo. MR: Sí… La noche que volví a caminar por las veredas de mi infancia, Palermo, donde aún queda en pie, desvencijado, el 1395 de Gonzalo Ramírez, vecino del Boxing Club, casa de inquilinato de patio abierto, en el que mi madre colgaba la ropa, encendía el brasero, regaba sus plantas… Desde ahí, al paso, hasta Ansina… Parecían las ruinas de Stalingrado. Quedaba algún frente en pie, ventanitas de buhardillas como palomares, balconcitos en arco. Ruinas, malezas, silencio, un gato. Caminé despacito el barrio de Las Llamadas, haciéndolas mías… FH: Despertando recuerdos en cada baldosa… Y en esa caminata de negromante fuiste más lejos… MR: Hasta el barrio del Estadio. Allí rondé por Garibaldi, “la casita de mis viejos”, con mi bolsito a cuestas, mate, alpargatas… tabaco. FH: Sólo te faltaba la “lata”, Ruso. Seguís viviendo “los traslados”»8. Leonel si allontana della scena festosa, dall’accoglienza dei compagni, per iniziare il suo ultimo WUDVODGR, un trasferimento che lo porti indietro nel tempo, in luoghi lontani della memoria, in cui tutto è ormai distrutto, non solo il suo ricordo. Leonel, chiamato “Ruso” con affetto dal compagno Fernández Huidobro che in questo momento non vede davanti agli occhi il guerrigliero ma l’uomo, o quel che ne resta, cerca di ripristinare il contatto con il mondo, di risvegliare ricordi, memorie, da ogni angolo concreto di quelle case. Leonel si appresta all’incontro con Mauricio.

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0DXULFLR

Molto spesso nella letteratura uruguaiana si è parlato di H[LOLR \ GHVH[LOLR, quest’ultimo termine coniato da Mario Benedetti per definire quel ritorno alla propria patria dopo un periodo di allontanamento forzato, e tutte le conseguenze che da esso scaturiscono. Al ritorno niente è più come al momento della partenza verso l’esilio. Non è cambiato solo il mondo interiore dell’esiliato, è anche cambiato il paesaggio, la situazione, sono cambiati i luoghi della terra a cui l’esiliato fa ritorno. Simile è il ritorno alla vita di Mauricio. Una volta assaporata la libertà si scontra con una serie di cambiamenti, che non appartengono solo ai territori lasciati da 13 anni, ma alla vita stessa, da cui era stato allontanato. Re-incontra i gesti, come aveva già provato a fare durante gli anni di prigionia quelle rare volte in cui lui, insieme agli altri ostaggi, era messo in condizione di rivivere la “normalità” di un gesto, di una situazione. Queste le sue parole riferite al giorno in cui, senza nessun tipo di spiegazione, inserirono un tavolo, una sedia e delle riviste nei loro FDODER]RV: «MR: Me senté en la silla, me acodé en la mesa: con los dos codos, luego con uno, después con otro. Usé bien todas las posturas olvidadas como regresando de un largo viaje a tierra conocida»9. Il ritorno alla vita diventa per Mauricio un re-incontro con se stesso e con tutte le vite ed i “sé” frammentati della sua esistenza, oltre che un reincontro, nell’ambito politico, con l’0/1 7, che riprendeva vita e si costituiva ufficialmente come partito politico. Ancora carico di sete di denuncia, Mauricio, insieme al suo compagno Eleuterio Fernández Huidobro, decide di placarla con la scrittura, la testimonianza, la denuncia: 0HPRULDV GHO FDODER]R (1989), in cui gli autori ricostruiscono la propria esperienza all’interno dei FDODER]RV della dittatura e denunciano le sopportazioni e le vicende di nove uomini che per 13 anni sono stati costretti da colossali barriere d’isolamento. Mauricio vive attualmente a Malvín con sua moglie Ana Barrios, psicologa e psicoterapeuta, immerso in una quotidianità che gli restituisce, in parte, la tranquillità, ma soprattutto l’allegria e la voglia di vivere. È in questa fase tranquilla della sua vita, pronto a scontrarsi con se stesso, che si spinge a comporre /DV FDUWDV TXH QR OOHJDURQ (2000), opera che ricostruisce con uno stile tutto letterario l’esperienza personale e quella della sua famiglia nei campi di concentramento.

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Un’opera per riscoprire le proprie radici, denunciare le vicende della sua famiglia e testimoniare, ancora una volta, perché nessuno dimentichi le atrocità di cui l’uomo è capace.

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/D OHWWHUDWXUD GL 7HVWLPRQLDQ]D 'HQXQFLD FRPH JHQHUH OHWWHUDULR

La riorganizzazione della letteratura dell’America Latina e la suddivisione in generi è senza dubbio complessa, se si pensa all’estensione territoriale, al numero esorbitante di tribù indigene che continuano a trasmettere la propria letteratura come oralità, alle civiltà precolombiane scomparse che ad ogni modo hanno lasciato una grande impronta sul territorio, ed a tutte quelle civiltà che non hanno gli strumenti per trasmettere la propria cultura e restano pertanto dimenticate per secoli. Ma oltre alla classica suddivisione dei generi letterari che rispecchiano ad ogni modo, e con le dovute differenze, la divisione “occidentale”, dobbiamo aggiungere un genere nuovo che comprende tutta quella serie di documenti che abbondano nella cultura dell’America Latina dalla formazione delle Colonie ai nostri giorni: la letteratura di testimonianza/ denuncia. Già nei &RPHQWDULRV 5HDOHV di Garcilaso de la Vega el Inca si riscontra la traccia della testimonianza, della descrizione in prima persona degli eventi che cercano di rispecchiare, rispettando il carattere storiografico dell’opera, quanto più possibile la realtà effettiva. E numerosi sono gli esempi di denuncia, dal contadino peruviano Saturnino Hullica che denuncia i soprusi e gli sfruttamenti del proprio padrone, all’esempio lampante di Rigoberta Menchú, che nel 1983 pubblicò la sua testimonianza: 0H OODPR 5LJREHUWD 0HQFK~ \ DVt PH QDFLy OD FRQFLHQFLD La storia di Rigoberta Menchú, che in seguito alla diffusione dei fatti narrati ricevette il Premio Nobel per la pace nel 1992, e della sua testimonianza lascerebbe impressionato qualsiasi lettore. Si tratta della storia di una persona, un essere umano come tanti altri, che improvvisamente e senza una valida ragione vede crollarsi il mondo addosso, assiste allo sterminio della sua famiglia e di tutta la popolazione. Unica superstite del suo popolo, decide d’imparare la lingua dell’aggressore, del nemico, per far valere la propria identità. Per dare la sua testimonianza e denunciare al mondo l’accaduto. $Vt PH QDFLy OD FRQFLHQFLD

è un esempio lampante di ciò che chiamiamo letteratura di testimonianza/ denuncia.

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Sono numerosi i critici che hanno tentato di analizzare questo filone letterario per darne una definizione, impresa titanica data la varietà di forme e contenuti della testimonianza/ denuncia: ciò che accomuna tutte le diverse scritture è la necessità e l’urgenza che spingono un individuo a dare la propria testimonianza, a comunicare ed esternare la propria sofferenza, la propria esperienza. È qui che secondo alcuni critici, come Philippe Lejeune, la letteratura di testimonianza/ denuncia s’interseca con l’autobiografia, poiché le vicende narrate non possono essere altro che quelle dell’esperienza di un singolo e pertanto a partire da un punto di vista che nella narrazione degli eventi rifletterà la propria personalità ed le proprie esperienze. Anche René Jara avalla questo punto di vista, aggiungendo che il soggetto dell’enunciato assume tre ruoli nella narrazione stessa, impedendole di essere una dichiarazione oggettiva dei fatti, quindi più lontana dalla storiografia e più vicina all’autobiografia. L’Io narrante assume infatti la posizione di testimone, attore e giudice delle vicende, creando una sorta di empatia con il lettore che non può far altro che giudicare le vicende allo stesso modo. La tendenza della critica a considerare che questi testi influenzino il lettore spingendolo ad accettare e condividere il punto di vista del narratore, viene in parte contestata da Renato Prada Oropeza che tende a sottolineare che quanto narrato in prima persona - e senza dubbio in modo soggettivo dall’autore - riguarda eventi storici risaputi, di cui il lettore è già a conoscenza da fonti ufficiali, e su cui ha già una sua opinione, contro cui, probabilmente, si erge la voce dell’autore. I tre critici sopra citati, ad ogni modo, concordano sull’idea che la letteratura di testimonianza/ denuncia, che ha come obbiettivo principale la veridicità, si opponga a racconti, romanzi o poesie di testimonianza che hanno come obbiettivo la finalità artistica, poiché queste forme letterarie devono rispondere obbligatoriamente ad una serie di schemi, che la testimonianza non contempla, in quanto dettata dalla sola necessità ed urgenza di comunicare ed informare. Héctor Mario Cavallari tende invece ad addolcire la opposizione ILFFLyQ WHVWLPRQLR, dichiarando che prendendo come punti di riferimento la realtà, l’esperienza vissuta e la verità, la ILFFLyQ ed il WHVWLPRQLR hanno una relazione differente, ma non irriducibile, con questi parametri, la prima indiretta, il secondo diretto. Oltre al contatto con la realtà e l’eventuale manipolazione d’informazioni e di opinioni che alcuni critici condannano nella letteratura di testimonianza/ denuncia, dobbiamo evidenziare le caratteristiche stilistiche di tale genere, partendo dal dato condiviso che questo genere letterario non ha come finalità quella artistica. 37


Elzbieta Sklodowska propone una divisione delle opere in LQPHGLDWDV \ . Appartengono al primo gruppo le opere scritte di proprio pugno da persone che hanno subito le vicende sulla propria pelle, ed al secondo gruppo coloro i quali hanno preferito scegliere di “mediare” le proprie esperienze attraverso interviste, registrazioni ecc. e lasciare in mani altrui la stesura dell’opera. Le caratteristiche dello stile spesso adottato, più o meno vicino all’oralità, con una presenza frequente di reiterazioni e di espressioni colloquiali, potrebbe essere ricondotta a questa bipartizione. PHGLDWDV

Infatti è logico riscontrare una maggiore presenza di tipologie espressive tipiche dell’oralità in un testo LQPHGLDWR, poiché prodotto della penna di uno scrittore non professionista che cerca di essere quanto più realistico e spontaneo possibile. Ed allo stesso modo possiamo considerare la presenza della reiterazione, che apporta una certa monotonia estetica, frutto dell’inesperienza dell’autore e del suo desiderio di essere il più possibile chiaro ed esaustivo. Diversi, sempre secondo l’autrice Elzbieta Sklodowska possono essere i prodotti PHGLDWRV dal punto di vista stilistico. Una volta preso possesso dei documenti, l’addetto ai lavori (scrittore, editore, giornalista, saggista: d’ora in avanti HGLWRU) avrà nelle proprie mani un’esperienza di vita da modificare dal punto di vista stilistico: decidere (possibilmente d’accordo con l’autore) se attenersi alla forma in cui gli eventi gli sono stati narrati (forma dipendentente dalla cultura del narratore e dal tipo di narrazione), oppure inserire l’esperienza in un tessuto romanzesco ed in tal modo modificarne l’estetica e probabilmente la forza comunicativa con cui arriverà al lettore. A seconda della scelta dell’HGLWRU, l’opera PHGLDWD sarà più o meno carica di espedienti tipici dell’oralità o di reiterazioni. Nel primo caso, in cui è maggiore la presenza di elementi fatico-comunicativi, avremo come prodotto finale una testimonianza notiziaria, mentre nel secondo caso, in cui è maggiore la presenza di elementi romanzesco-estetici, avremo come prodotto finale una testimonianza etnografica10. La già citata opera di Rigoberta Menchú è un’opera PHGLDWD dalla sociologa Elisabeth Burgos, che dopo aver concluso la sua intervista si rese conto che non poteva essere modificata, che l’opera sarebbe dovuta essere scritta precisamente com’era stata raccontata, lasciando a loro posto quelle caratteristiche dell’oralità che erano proprie non solo dell’intervistata ma anche della sua cultura, del suo popolo. Queste le parole di Elisabeth Burgos: «No desaché nada, no cambié ni una palabra, aunque estuviese mal empleada. No toqué ni el estilo ni la costrucción de las frases»11.

10 Citando Elzbieta Sklodowska dal saggio (O WHVWLPRQLR \ ODV VRFLHGDGHV PXOWLpWQLFDV in “Urdimbre estética, social e ideológica del indigenismo en América Latina”, Caracas, 2004, pagg 112-113. 11

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, pag. 113.

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Ed ancora: «Muy pronto decidí dar al manuscrito forma de monólogo, ya que así volvía a sonar en mis oídos al reelerlo. Resolví, pues, suprimir todas mis preguntas. Situarme en el lugar que me corrispondía: primero escuchando y dejando hablar a Rigoberta, y luego convertiéndome en una especie de doble suyo»12. In tal modo l’intervistatore diventa un mero mezzo di comunicazione, che si preoccupa esclusivamente di “correggere” il testo. Prendendo come parametri per la scrittura di un’opera di testimonianza/ denuncia la presenza o l’assenza di un “mediatore” dell’esperienza e della scrittura, ci risulta difficile collocare l’esperienza di denuncia di Mauricio Rosencof all’interno di uno spazio piuttosto che un altro, ed ancor più difficile risulta collocare le sue opere in esame in quest’elaborato, che caratterizzano non solo due momenti della scrittura dell’autore, ma anche due scelte stilistiche diverse, pur appartenendo entrambe al genere della testimonianza/ denuncia: 0HPRULDV GHO FDODER]R (1989) e /DV FDUWDV TXH QXQFD OOHJDURQ (2000). A un primo approccio ci sembra evidente che entrambe le opere non siano frutto di una “mediazione”, poiché è l’autore stesso a scrivere di suo pugno le proprie esperienze, ed a scegliere di proporre due testimonianze con stili diversi, avvalendosi della sua abilità di scrittore professionista. Ad un’analisi un po’ più attenta, e forse troppo critica, ci rendiamo conto che una mediazione avviene in entrambe le opere. Per quanto riguarda 0HPRULDV GHO FDODER]R, ci troviamo di fronte ad una narrazione a due voci e due autori, Mauricio Rosencof ed Eleuterio Fernández Huidobro, che s’interfacciano come se l’uno fosse il riflesso, l’alter ego dell’altro, sviluppando in questo modo una sorta di mediazione reciproca in cui l’uno fa da scudo e riflesso all’altro per avviare quel processo di liberazione, per esternare e denunciare le torture fisiche e psicologiche subite, e squarciare le maglie del silenzio dell’isolamento in cui erano stati costretti per 13 lunghi anni. Essere in due a raccontare aveva significato anche darsi la forza, per testimoniare e denunciare. Queste le parole dei due autori a riguardo: «MR: Sobrevivir, entre otras cosas, para hacer, entre otras cosas, esto que estamos haciendo ahora y que mucca veces pensé. “Tengo que banca resto, tengo que soportar para testimoniar”.

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, pag. 114.

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Una de las raziones, uno de los peldaños en que nos afirmábamos para escalar desde el fondo del pozo, era que teníamos que comunicar a los compañeros, a la familia, y a la humanidad lo que estábamos pasando, y que tenís necesidad de testimoniar no sólo por nosotros sino por todos los que estaban en una situación similar o por los que habían pasado por las mismas y habían sucumbido. Si tuviera que sintetizar lo que estamos haciendo en este momento, diría que es un canto a la vida. FH: Esto es un testimonio de vida. Aquí no hay rencor, no hay deseo de adjetivar desmanes que jefes, oficiales y clases hicieron con nosotro, sino que antes que todo es un canto a la vida, una reafirmación vital»13. Un canto alla vita con uno stile semplice, discorsivo, tipico dell’oralità, ma curato nei dettagli dalla mano di un professionista, in modo che ogni parola, ogni ripetizione, non ci sembri monotona, ma sia carica di un grande valore semantico. /DV FDUWDV TXH QR OOHJDURQ

, opera più tarda, scritta a freddo e con ponderazione, incentrata sugli orrori dell’olocausto e dei campi di concentramento in cui i suoi nonni ed i suoi zii avevano vissuto, non può essere definita una testimonianza diretta, poiché in questo caso il piccolo Moishe, nome ebraico con cui chiamavano Mauricio Rosencof in famiglia, protagonista e narratore degli eventi, non subisce gli eventi in prima persona. Mauricio Rosencof nasce nel 1933 a Florida, Uruguay, quando ormai la sua famiglia si era trasferita, salvandosi dalle atrocità dell’olocausto, che invece il resto della famiglia subì. Lo sguardo di Moishe è comunque uno sguardo poco coinvolto, o sicuramente in grado di capire e definire poco la situazione, che riuscirà infatti ad elaborare in un’opera solo nel 2000. Altra “mediazione” avviene attraverso le lettere, presenti anche nel titolo dell’opera, da un lato vere e proprie protagoniste. Lettere immaginarie, mai arrivate, forse mai scritte, che ricostruiscono una storia che è testimonianza. Il piano della denuncia e quello della ILFFLyQ s’intersecano e si spalleggiano, rinvigorendosi reciprocamente, nella accurata costruzione letteraria, nell’alternanza tre le descrizioni ingenue di un bambino che nascondono grandi verità, e descrizioni crude, dirette, taglienti, di chi sta vivendo sulla sua pelle e raccontando i campi di concentramento. Per quanto riguarda le prime:

Mauricio Rosencof, 0HPRULDV GHO FDODER]R Ediciones de la Banda Oriental, Montevideo, 2006, pag. 71. 13

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«Adentro de mi casa vivíamos muchos, pero nosotros éramos los que teníamos más, porque teníamos dos cuartos. Uno para dormir y el otro con un balcón para ver pasar los tranvías sin que nos vieran, porque con Fito les tirábamos piedras. […] Los tranvías son una cosa espantosa porque se llevan a la gente y no se sabe dónde, no los ves más, pero al motorman sí que lo ves, a ese sí Y entonces con el Fito le tiramos piedras»14. E le seconde: «Grete nos ha distribuido hoy un trozo de jabón. Te parecerá tonto, pero nos llenó de ilusión. Tal vez nos den más cosas, una papa, no sé. Calcetines. Siento la piel suave del jabón en mi mano y sonrío un poquito. Pienso en una ducha, agua caliente que corre y corre sobre tus hombros, toallas, ropa limpia. Grete se va. Tiene, a la vez, un andar marcial y femenino, elegante. Nos da un poquito de envidia. Cuando aproximamos el jabón hasta nuestras narices para respirarlo, vemos la iscripción. El desconcierto es tan grande que nadie articula una palabra, ni aun un gemido. Solo lloramos, Isaac, suavecito, en silencio, porque todo lo que nos queda en este instante son la lágrimas, que ruedan lentas como un cortejo, incesantes, mientras enterramos el jabón murmurando “.DGLVFKµ»15. Sono numerose le opere di denuncia scaturite da esperienze di prigionia di questo tipo, e mi sembra opportuno citare autori come Jorge Semprún e Primo Levi, che si muovono, con meccanismi e stili senza dubbio diversi, sul terreno comune della prigionia nei campi di concentramento. Secondo l’analisi di Carla Perugini, sono due i motivi che spingono alla scrittura di opere di questo tipo, due i motivi principali che spingono a superare quella barriera inconscia che induce a non parlare per non ricordare: scrivere per rovesciare sulla pagina quanto è stato trattenuto dentro di sé fino a quel momento, e scrivere per gli altri, in modo didascalico, «perché chi legge o chi ascolta possa farsi scudo delle esperienze altrui contro rigurgiti violenti e militaristi»16.

Mauricio Rosencof, /DV FDUWDV TXH QR OOHJDURQ, Alfaguara, Montevideo, 2000, pagg. 18-19.

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pagg. 37-38.

Carla Perugini, 'LUH O·LQGLFLELOH 3ULJLRQL H FDPSL GL FRQFHQWUDPHQWR GRSR OD JXHUUD FLYLOH, Atti del Congresso Internazionale /LQJXDJJL GHOOD JXHUUD /D *XHUUD &LYLOH 6SDJQROD, Venezia, (28-30 nov. 1996), a cura di M.C. Bianchini, Padova, Unipress, 2000, pag. 72.

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Potremmo considerare Jorge Semprún emblematico esempio di questo superamento inconscio. Emigrato in Francia all’inizio della guerra civile spagnola, nel 1941 aderisce alla Resistenza francese nell'organizzazione comunista dei FTP ()UDQFV WLUHXUV HW SDUWLVDQV), poi al Partito Comunista di Spagna (3DUWLGR &RPPXQLVWD GH (VSDxD, PCE) e finalmente, autorizzato dai FTP, entra a far parte della cellula clandestina -HDQ 0DULH $FWLRQ dell'organizzazione %XFNPDVWHU. Nel settembre del 1943 viene arrestato a Joigny dalla Gestapo e nel 1944 viene inviato al campo di concentramento di Buchenwald, dove milita nell'organizzazione comunista clandestina formatasi all'interno del campo, esperienza che racconterà cinquanta anni dopo in /D HVFULWXUD R OD YLGD Il punto che spesso Carla Perugini sottolinea nei suoi saggi a proposito della letteratura della prigionia e dello stesso Semprún è la difficoltà di comunicare l’inimmaginabile ed “indicibile realtà di quel che è stato”17. L’indicibilità è per l’appunto il nodo centrale di tutta la letteratura di denuncia, insieme a quell’afasia che caratterizza originariamente tutti gli scrittori. La voglia di dimenticare e la paura di rivelare una realtà troppo paradossale per essere ritenuta reale da chi è all’oscuro delle vicende, porta in particolare Jorge Semprún ad una soluzione: la letteratura come riflesso menzognero di una verità ignorata da molti. La letteratura diventa il mezzo di denuncia per la sua capacità d’indorare la pillola, di nascondere la crudeltà della realtà dietro un velo di finzione artistica, espediente che solo la letteratura può offrire. /D HVFULWXUD R OD YLGD

rappresenta il superamento di quell’afasia, la riconciliazione con il proprio passato attraverso il viaggio, il ritorno al luogo della sua sofferenza. Èl’opera che determina l’accettazione, la riappropriazione della scrittura, abbandonata per anni, e della vita, ad essa collegata e in essa riposta, che non può essere altro che una prova artistica, e non meramente didascalica, della realtà dei fatti. Diverso è il caso di Primo Levi: inseritosi nel 1943 nel nucleo partigiano operante in Val d'Aosta, viene arrestato dalla milizia fascista nel villaggio di Amay sul versante verso Saint-Vincent del col de Joux e trasferito nel campo di transito di Fossoli presso Carpi in provincia di Modena. Il 22 febbraio 1944, Levi ed altri 650 ebrei vengono stipati su un treno merci e destinati al campo di concentramento di Auschwitz in Polonia. Levi fu qui registrato e subito condotto al campo di Buna-Monowitz, allora conosciuto come Auschwitz III, dove rimase fino alla liberazione da parte dell'Armata Rossa. Fu uno dei venti sopravvissuti fra i 650 che erano arrivati con lui al campo. L’opera di Levi si innesta perfettamente in questa dualità di obbiettivi e finalità dell’opera di denuncia. Da un lato identifichiamo 6H TXHVWR q XQ XRPR come opera di denuncia “didascalica” sin dalla poesia che apre l’opera: Perugini Carla, /HWWHUDWXUD HG HVSHULHQ]H HVWUHPH $ SURSRVLWR GL 0D[ $XE H -RUJH 6HPSU~Q, (I parte), “Spagna Contemporanea”, 12 (1997), pag. 92.

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«Voi che vivete sicuri Nelle vostre tiepide case, Voi che trovate tornando a sera Il cibo caldo e visi amici: Considerate se questo è un uomo Che lavora nel fango Che non conosce pace Che lotta per mezzo pane Che muore per un sì o per un no. Considerate se questa è una donna, Senza capelli e senza nome Senza più forza di ricordare Vuoti gli occhi e freddo il grembo Come una rana d’inverno. Meditate che questo è stato: Vi comando queste parole. Scolpitele nel vostro cuore Stando in casa andando per via, Coricandovi alzandovi; Ripetetele ai vostri figli. O vi si sfaccia la casa, La malattia vi impedisca, I vostri nati torcano il viso da voi.»18

18

Primo Levi, 6H TXHVWR q XQ XRPR Einaudi, Torino 1989, pag 7.

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La poesia ha un tono perentorio e solenne, impone la diffusione, la comunicazione, affinché ciò che è stato non si ripeta. E successivamente, nella prefazione all’opera, lo stesso Levi dichiara di non voler aggiungere nulla di nuovo a ciò che già altri avevano raccontato, né tantomeno nuovi capi d’accusa alla questione dei campi di distruzione. Vuole solo presentare gli strumenti per l’analisi dell’animo umano, ma non solo di quello che soffre. Vuole analizzare oggettivamente le cause che spingono l’animo umano all’odio verso una razza diversa, ai Lagher,alla distruzione, all’annientamento di altri esseri umani. La premessa di Levi è quella di allarmare ed informare la popolazione, seguendo uno stile ed un messaggio estremamente vicini a 0HPRULDV GHO FDODER]R, con intento comune «Il bisogno di raccontare agli «altri», di fare gli «altri» partecipi, aveva assunto fra noi, prima della liberazione e dopo, il carattere di un impulso immediato e violento, tanto da rivaleggiare con gli altri bisogni elementari»19. D’altro canto, la stessa premessa si conclude con un’altra dichiarazione di poetica, che colloca l’opera e l’autore a cavallo tra le due categorie di denuncia: «Il libro è stato scritto per soddisfare questo bisogno; in primo luogo a scopo di rivelazione interiore. Di qui il suo carattere frammentario: i capitoli sono stati scritti non in successione logica, ma per ordine di urgenza»20. Potremmo quindi considerare 6H TXHVWR q XQ XRPR l’anello mancante, la congiunzione finale che annulla ogni distinzione di sorta, poiché quando il testimone e lo scrittore si fondono, non c’è possibilità alcuna che la scrittura e la vita restino ognuna al proprio posto, ed è necessaria una sorta di flusso di coscienza che guidi gli eventi e dia anche la giusta enfasi alla narrazione scritta e vissuta in prima persona.

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pag. 9.

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pag. 9-10.

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0HPRULDV GHO FDODER]R DQDOLVL WHPDWLFD

L’opera alla quale ritengo opportuno dare maggior risalto è senza dubbio 0HPRULDV GHO &DODER]R, romanzo di denuncia in tre volumi che vide la luce nel 1989 ad opera di Mauricio Rosencof ed Eleuterio Fernández Huidobro in seguito alla loro liberazione dalla prigionia durante la dittatura militare in Uruguay. 0HPRULDV GHO &DODER]R

come si è già accennato, è un continuo ‘botta e risposta’ tra i due autori che hanno condiviso la stessa esperienza, la stessa reclusione sia nelle carceri che nelle caserme uruguayane, nelle stesse disumane condizioni, per 13 lunghissimi anni. Mauricio Rosencof ed Eleuterio Fernández Huidobro, insieme ad altri sette compagni e capi delle diverse frange del 0RYLPLHQWR GH /LEHUDFLyQ 1DFLRQDO ² 7XSDPDURV (d’ora in avanti 0/1 7) Raúl Sendic, José Mujica, Adolfo Wasem, Julio Marenales, Henry Engler, Jorge Manera e Jorge Zabalza, furono catturati, torturati e detenuti nelle prigioni di stato, fino a quando, in seguito all’instaurazione della dittatura militare, passarono dallo stato di prigionieri a quello di ostaggi, tenuti in custodia in modo da impedire qualsiasi tipo di ribellione da parte del resto dei compagni dell’0/1 7, e così evitare eventuali attacchi al regime. Li tennero, per questo motivo, rinchiusi per 13 anni in celle di isolamento, in condizioni igieniche più che precarie, con razioni di cibo inadeguate, ma soprattutto in spazi angusti che non permettevano movimenti, senza nessun tipo di agevolazione neanche per dormire, con il semplice scopo di renderli innocui, nonostante fosse più che evidente che le condizioni in cui li tenevano li avessero annientati. Il testo a due voci analizza l’esperienza corale dei nove capi dell’0/1 7, denuncia le condizioni, le crudeltà subite, le violenze fisiche e psichiche, attraverso la riproduzione del meccanismo di dialogo che Rosencof e Fernández Huidobro inventarono durante la loro prigionia: una sorta di alfabeto morse che permetteva di eludere la sorveglianza e comunicare inizialmente informazioni basilari, come lo stato di salute o semplicemente la propria presenza al di là del muro, e che lentamente divenne più articolato e rapido e permise ai due testimoni di squarciare quel muro di silenzio che li avrebbe altrimenti portati alla follia. Gli aneddoti narrati non seguono un ordine cronologico; spesso sono accennati e poi approfonditi in altri capitoli, le informazioni sono spesso frammentarie e rimandano ad un panorama storico che qualsiasi uruguayano sarebbe stato in grado di comprendere, ma che risulta enigmatico agli occhi di un Europeo che non conosce la storia dell’Uruguay di quegli anni.

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Tutto lascia pensare ad un meccanismo di rimandi tra presente e passato, equiparabile allo VWUHDP RI FRQVFLRXVQHVV degli anglosassoni Virginia Woolf e James Joyce, che articolavano le proprie opere su un piano emotivo, ponendo la narrazione ad un livello inferiore rispetto a quello delle esperienze personali, conscie o non, degli individui che attraverso brevi immagini e suggestioni ripescavano nel proprio passato o presente la propria esperienza. È precisamente ciò che accade in 0HPRULDV GHO FDODER]R, con l’unica differenza che non è l’ambiente esterno ad offrire rimandi interiori, bensì è l’altro, la persona che è al di là del muro, ma pur sempre rinchiuso nella stessa struttura, che induce a riflessioni e ricordi. Sono le parole, in determinati contesti, che ripescano nell’inconscio situazioni ed immagini, come evidente nel capitolo dal titolo ´3RPPHU\µ presente nel primo volume dell’opera: «FH: […] Lo único que se oía, profundizando el silencio, era una especie de molinete o algo así, un ruido muy tenue que, después de años de estar, descubrí que era la driza de una bandera en el techo. Cuando el viento soplaba, golpeaba contra el mástil. MR: Había una banderola… no, no había una banderola. Era un agujero sin vidrio y sin marco, por donde entraba el frío, el viento, la lluvia»21. Si noti qui il rimando tra il messaggio enunciato dal primo interlocutore, che parla di una EDQGHUD, e quello che questa bandiera ‘pesca’ nella memoria del secondo interlocutore, che a questo punto non si ricollega agli avvenimenti, ma ricorda, non una bandiera, ma una EDQGHUROD, che in uruguaiano vuol dire finestra, e che dopo poco diventerà XQ DJXMHUR VLQ YLGULR, passando da un campo semantico che rinvia all’instabilità, all’inconsistenza, alla leggerezza dei tessuti, al movimento, ad uno molto più rigido e fisico, come se il passaggio avvenisse effettivamente tra la libertà dei corpi esterni e la rigidità di quelli interni che costituiscono limiti tangibili per i reclusi. Considerando questo uno dei meccanismi che muovono l’ordine dei racconti, non ci resta quindi, per un’analisi approfondita dell’opera, che procedere per tematiche anzichè seguire l’ordine cronologico degli eventi o dei capitoli.

Mauricio Rosencof, 0HPRULDV Montevideo, 2006, pag. 16. 21

GHO FDODER]R

Ediciones de la Banda Oriental,

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Numerosi sarebbero gli aspetti da sottolineare in quest’opera narrativa che non si limita a descrizioni sistematiche delle condizioni di prigionia, ma analizza a fondo la molteplicità dell’animo umano, l’attaccamento alla vita, il livello di sopportazione che certi uomini riescono a tirar fuori grazie al loro spirito di sopravvivenza, ma anche e soprattutto la crudeltà che spinge ad annientare altri esseri umani, le motivazioni logiche, o meglio illogiche, che inducono un uomo a sentirsi superiore ad un altro. Pertanto la tematica portante sulla quale s’incentrerà l’analisi sarà la tortura, fisica e psichica, evidenziando il suo sviluppo attraverso la privazione di una serie di elementi vitali, o attraverso il completo annientamento dei loro caratteri. Assenti o caricati di una valenza semantica negativa saranno i suoni, gli odori, la parola, i colori, i bambini, la musica, e scopriremo insieme agli autori con quali mezzi riuscirono a ricordarli, ad esorcizzarli, a ricrearli, all’interno di mondo disumanizzato come quello dei FDODER]RV. ©<D TXH QR SXGLPRV PDWDUORV FXDQGR FD\HURQ ORV YDPRV D YROYHU

ORFRVª

Queste le prime parole presenti nel primo volume dell’opera, una dichiarazione da parte di un colonnello responsabile del primo trasferimento degli ostaggi nelle loro nuove prigioni, spesso costruite appositamente per accoglierli. Questa l’esaustiva spiegazione che renderà più chiari tutti i racconti e le vicissitudini dei protagonisti. I nove prigionieri erano tenuti in condizione di ostaggi, oggetti nelle mani dell’esercito, ripetutamente puniti per i danni causati alla dittatura dalle loro rivolte, che dovevano essere portati allo sfinimento, al crollo, ma che non potevano morire, perché indispensabili per tenere sotto controllo la situazione dei ribelli all’interno della nazione. L’affermazione dimostra quanto fossero comuni le violenze fisiche, le torture, i colpi a tradimento che venivano dati loro ogni qual volta cadevano nelle mani delle guardie, alla stregua di quelle psicologiche, con unico fine la sopravvivenza dei corpi, ma non delle menti, sottoposte a qualsiasi tipo di violazione. Le atroci condizioni in cui erano costretti i nove prigionieri per 13 lunghi anni furono la prima forma di tortura. Raccogliendo informazioni dai tre volumi, a volte sconnesse e frammentarie, a volte meticolose, riusciamo a tracciare un quadro generale delle violenze a cui furono sottomessi. Bisogna innanzitutto ricordare che l’esperienza narrata in prima persona da Mauricio Rosencof ed Eleuterio Fernández Huidobro riguarda le loro condizioni, i loro trasferimenti e la permanenza nei FDODER]RV, insieme a quelle di José Mujica.

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pag. 14.

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I nove ostaggi erano divisi a gruppi di tre e occupavano gli stessi calabozos in periodi diversi, a rotazione. Tutti passarono per le caserme di 6DQWD &ODUD GH 2OLPDU, 7UHQWD \ 7UHV, 3DVR GH ORV 7RURV, 5RFKD 3XQWD &DUUHWDV; tutti vissero nelle stesse condizioni, in periodi alterni, per ritrovarsi insieme al punto di partenza: la LVOD del 3HQDO GH /LEHUWDG alla fine di tutte le traversie. Le torture subite dai nove ostaggi non iniziano nel FDODER]RV, bensì molto prima, al momento della cattura. Infatti, prima di diventare ostaggi, i nove capi dell’0/1 7 erano nove prigionieri, ed in quanto tali portatori d’informazioni che avrebbero permesso la cattura di altri rivoluzionari. Erano contenitori d’informazioni, pertanto dovevano essere sottoposti a tortura per ricavare tutto ciò che potesse essere utile. La forma di tortura più diffusa era la stessa che veniva utilizzata in Argentina durante la dittatura: la SLFDQD elettrica. I prigionieri venivano sottoposti ad interrogatori ed al trattamento con la SLFDQD, che i torturatori collocavano in ogni parte del corpo. Tutti ne uscivano vivi, poiché non era intenzione dei torturatori uccidere i prigionieri. Ma il più delle volte uscivano da queste torture in fin di vita. Lo stesso Rosencof ricorda di esser finito all’Ospedale Militare, dove «iban a dar los torturados para una recuperación suficiente como para volver a la tortura»23, e di aver lì incontrato schiere di compagni feriti, lacerati sia dalle torture che dal desiderio di sfuggire alle stesse. Di grande impatto è l’aneddoto a proposito della violenza delle torture, del sadismo dei torturatori e della forza d’animo e di volontà dei prigionieri, raccontato nel capitolo +RVSLWDO 0LOLWDU VDOD : «En el sector de las mujeres estaba una vieja compañera, María Elena Curbelo. Tenía una enfermedad muy grave que la estaba dejando paralítica: espina bífida. Ya había sido tratada ni bien cayó, por los oficiales; conoscendo su enfermedad y, constatando que en ese lugar tenía un tumor, cuando le aplicaban la picana eléctrica tenían la puntería y el ingenio suficiente de radicársela allí. También en la s caries. Tenía que caminar con “andador”; prácticamente estaba paralítica. Pero nunca la abandonaba la sonrisa, tierna y enérgica. Un día internaron a una compañera que se había cortado con una bottella. La había rota y se la clavó en el cuello. FH: Comodo modo de salir de la tortura… MR: […] A las 24 horas, todavía con el aparato de traqueotomía colocado en el cuello, ordinarono llevarla, y la llevaron, en camilla, a Artillería 1 para proseguir los interrogatorios. Esta compañera, cuando pasó frente a mi cama, a pesar de su estado – era una mujer muy delgadita, muy pequeña-, alza su bracito con mucha dignidad y cierra el puño como diciendo “fuerza compañero”. Ella, que venía de la tortura y a la tortura volvía, con una traqueotomía en el cuello desgarrado…»24

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pag. 55.

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Ma quando la dittatura militare iniziò a rafforzarsi, i nove prigionieri divennero nove ostaggi, nove oggetti nelle mani dei militari che servivano a sedare rivolte in tutto l’Uruguay. Iniziarono le deportazioni nelle diverse caserme sopracitate, dislocate in tutto il paese, ma equidistanti da Montevideo, punto nevralgico e sede di possibili ribellioni. Attraverso le descrizioni sommarie in alcuni casi, e più dettagliate in altri, siamo in grado anche di descrivere un FDODER]R, del quale ci risulta difficile trovare un equivalente non solo nella lingua, ma anche nella cultura italiana. Un FDODER]R è una cella d’isolamento generalmente sviluppata in verticale, spesso sotterranea, pertanto umida e malsana, con un’altezza di 180 cm ed una larghezza e lunghezza di 120 cm, che variano leggermente a seconda dei FDODER]RV assegnati, nelle diverse caserme. Alcuni vengono descritti con porte sulla superficie sovrastante, alla stregua di una botola, altre hanno la porta frontale ed uno spioncino su di essa, altre ancora hanno perfino una finestrella, sigillata e ricoperta per evitare il passaggio di aria o di luce solare. Caratteristica comune di tutti è la presenza di umidità, la struttura grezza, non rifinita, pertanto la mancanza perfino di piastrelle sul suolo, e la presenza di una piccola branda che riduce maggiormente lo spazio a disposizione per i movimenti. Le uniche strutture nella cultura italiana che possono ricordare quelle di alcuni FDODER]RV, in particolare per la porta frontale, sono i piombi veneziani. I piombi erano infatti celle sotterranee all’interno di prigioni, particolarmente umide e malsane, costruite ed utilizzate nel periodo medievale. Il nome “piombi” deriva appunto dalle lastre di piombo poste subito sotto il tetto del palazzo, parallelismo confermato nella descrizione di alcuni calabozos, come quello di 6DQWD &ODUD GH 2OLPDU: «Techo de cinc, un cielorraso de madera podrido»25. O quello di 3DVR GH ORV 7RURV «Tenía un techo de cinc sin cielorraso en pronunciado declive y los calabozos estaban en la parte más baja del declive»26. I FDODER]RV sono strutture ricavate non solo nelle caserme, ma anche in alcuni tipi di carceri. Queste particolari celle d’isolamento all’interno delle caserme venivano, nella maggior parte dei casi, appositamente create per i nove ostaggi in questione, pertanto dislocate in una zona separata ed invisibile rispetto ai punti centrali della struttura. La maggior parte delle volte i FDODER]RV si collocavano all’interno di un corridoio sotterraneo, alla cui estremità, dopo aver superato una porta di ferro, risiedeva la stanza delle guardie, centro di controllo.

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In ogni corridoio si situava, insieme alle celle, anche un bagno per gli ostaggi, dalle condizioni igieniche discutibili. La particolarità di questi “cellari”, piccole carceri create appositamente per tre ostaggi alla volta, era che non avevano finestre, o se le avevano, erano ermeticamente chiuse. Pertanto, ad aggravare le condizioni di vita a cui erano limitati, si aggiungeva la mancanza d’aria. I FDODER]RV della ,VOD del 3HQDO GH /LEHUWDG erano stati costruiti da architetti che avevano studiato e sfruttato ogni elemento per torturare i prigionieri semplicemente alloggiandoli al loro interno: «FH: Donde este fenómeno pone los pelos de punta es en lugares como la “isla” del Penal de Libertad. Quien haya estado en sus calabozos podrá medir el refinamiento, la sofisticación, la ciencia, que el arquitecto que diseñó la “isla” puso al servicio del dolor: le encargaron la tarea de hacer sufrir todo lo posible a los seres humanos, y cumplió a cabalidad... Sin tocarlos con sus manos. Poniendo en la empresa lo que le enseñaron en la Universidad, las matemáticas, el cálculo, la economía de espacio, hasta el arte... […] MR: Están pensadas, calculadas, medidas y creadas la oscuridad, la sed, las corrientes de aire helado en invierno, el calor sofocante en el verano, la mugre insoslayable, la opresión de los muros, la soledad, el profundo silencio, los ruidos impactantes de las trancas metálicas, las dobles rejas, la caída de los pisos sutilmente nivelados para joderte... Flor de trabajo científico con un solo objeto: hacer daño».27 Oltre a sfruttare le correnti d’aria ed i materiali grezzi con i quali i FDODER]RV erano costruiti, per aumentare la sofferenza dei prigionieri, la LVOD era inoltre strutturata in modo tale da essere divisa in tre settori, i cui rispettivi cinque calabozos peggioravano la loro struttura e riducevano le “comodità” a disposizione dei detenuti che in base alla pena da scontare venivano collocati in quelli più “comodi”, equipaggiati con un tavolo, un letto, una sedia, il water ed addirittura un lavabo. I FDODER]RV degradavano in modo che gli ultimi, i peggiori, non avessero nessun tipo di accessorio, e che addirittura fossero divisi a metà da una grata di ferro che limitava ancor di più i movimenti: «MR: Es magistralmente sádica la pendiente ascendente de sufrimiento calculada por el arquitecto. Los cinco calabozos más “suaves” son los del fondo. Tienen mesa, cama y banquito de hormigón. Taza sanitaria y una piletita con canilla. En todos los casos el agua se maneja desde afuera.

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O sea que para la más mínima necesidad beber, lavarse, limpiar la taza se debe acudir a la guardia, la que, según la orden, las ganas o el caso, la dará o no. FH: Gozan, los calabozos del fondo, de una ventana alta de vidrio común, con fuertes rejas por la que se ve el cielo y por la que a ciertas horas, en ciertas épocas del año, puede lograr entrar el sol. MR: Los cinco calabozos del lado izquierdo ya son para hacer sufrir un poco más. El arquitecto puso aquí piletas más groseras, le quitó toda ventana y puso vidrios gruesos y opacos muy bien estudiados a los efectos de que pase la luz mínima, tan mínima que no sirve para nada, o, mejor dicho, para mucho: atormentar. En esos calabozos reina, día y noche, la penumbra. No tienen contacto sus paredes con el exterior, es decir sus cuatro paredes dan a la parte interna de la “isla”. Están construidos dentro de la “isla”. FH: Los cinco del lado derecho son la escala suprema del sufrimiento. Aquí el arquitecto llegó a su clímax... MR: A lo sublime... FH: Se logró. No tienen pileta, no tienen mesa, ni banquito, ni cama de hormigón; sólo un agujero y un caño para el agua de la taza sanitaria, que sirve a todos los efectos. Y que cuando se abre desde afuera, ya sea por pedido del preso o por capricho de la guardia, suelta un fuerte chorro de agua que moja todo el calabozo. Además de la puerta de hierro tienen una reja que lo parte a la mitad. De modo que el preso no tiene casi dónde moverse».28 Le brutalità descritte e denunciate da Mauricio Rosencof ed Eleuterio Fernádez Huidobro non sono dovute solo ed esclusivamente alle strutture in cui erano alloggiati. La mano militare che li controllava determinava il grado di brutalità che avrebbero vissuto e subito. Una volta arrivati all’interno dei FDODER]RV, in seguito al primo trasferimento, Rosencof racconta di aver trascorso 24 ore in piedi, incappucciato ed ammanettato dietro la schiena, poiché così l’avevano scaraventato all’interno della sua cella, senza dargli nessun ordine. Non sarebbe stata la prima volta, né l’ultima che avrebbe subito questo trattamento. Durante ogni trasferimento la prassi era questa: nonostante i loro corpi non fossero in grado di fuggire o ribellarsi perché ormai stremati da tutto il vissuto, dovevano essere resi immuni, trattati come oggetti, collocati all’interno di un cassone di un camion, senza la possibilità di parlare, né tantomeno di sapere dove fossero diretti.

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Una volta arrivati a destinazione venivano gettati in un FDODER]R senza sapere quanto tempo vi avrebbero trascorso all’interno. Ogni caserma aveva regole diverse, generali e guardie diverse, più o meno violente, più o meno ostili. Gli autori raccontano di periodi trascorsi a rosicchiare le ossa come animali, poiché il resto della razione era già passata interamente sotto le mani delle guardie. Raccontano di aver trovato pezzi di vetro al loro interno, piuttosto che muffa sul fondo del loro caffè e latte. Raccontano di periodi in cui non bevevano acqua a sufficienza ed impararono a desalinizzare la propria urina per sopravvivere, o di essersi cibati di insetti. Le condizioni igieniche erano terribili, gli stessi autori ricordano di aver lavato il proprio FDODER]R forse tre volte in tredici anni, e di essersi lavati forse anche un numero inferiore di volte. Anche andare in bagno diventava una scommessa contro le guardie, che a volte concedevano l’ingresso al bagno, altre li riportavano indietro senza permettere di soddisfare i loro bisogni, ma solo i propri, a suon di calci. Con il termine tortura non possiamo indicare solo ed esclusivamente la SLFDQD elettrica o i FDODER]RV. L’intera condizione disumana a cui erano sottoposti costituiva una tortura fisica e psicologica. Fisica senz’altro perché oltre alle violenze, la mancanza di cibo, di aria e di luce si ripercuoterà col tempo sui loro corpi. Psicologica perché fattori ulteriori contribuivano all’intento finale del sistema repressivo e delle guardie: farli impazzire. Capitoli interi sono dedicati all’analisi dei loro comportamenti dopo un così lungo periodo di reclusione, all’alterazione dei loro sensi, della personalità, delle percezioni. Gli ostaggi arrivarono ad affacciarsi sul baratro della follia, alcuni perdendo il controllo, altri continuando a rimanere ancorati alla realtà, alla lucidità. Ma ciò che maggiormente contribuì all’alterazione di quello stato furono le tecniche adottare dalle guardie per aumentare il disorientamento, la perdita delle coordinate spazio-temporali. Uno dei primi sintomi fu la perdita della cognizione del tempo e dello spazio. Non avevano nessun riferimento atmosferico, non vedevano la luce del sole ed avevano all’interno della cella una luce accecante sempre accesa. Non riuscivano a dormire, poiché quando tentavano di addormentarsi, sempre accovacciati e mai stesi, a causa dello spazio, venivano svegliati dai calci delle guardie sulle porte di ferro o sulle pareti. «MR: Durante las primeras semanas que estuvimos allá trataron por todos los medios de que no durmiéramos durante la noche, pateaban las puertas, se ponían a marchar frente a los calabozos, marcando el paso... FH: Yo pensaba: “El trabajo que les da a estos tipos estar toda la noche haciendo esto para que nosotros no durmamos; hay que tener mucha capacidad de odio, para tomarse este trabajo”. Porque aquella guardia podía estar tranquilamente tomando mate, sentada, hablando de bueyes perdidos, pero se dedicó, hasta que se aburrió, a

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mortificarnos.»29 Lentamente iniziarono a manifestarsi disturbi mentali effettivi, vere e proprie esperienze di evasione che inducevano a non pensare, a non rendersi conto della situazione presente, eliminando quei confini tra realtà e fantasia. Rosencof racconta di aver ricreato volontariamente delle situazioni del passato, attraverso una sorta di autoipnosi, che lo riportava indietro nel tempo e gli permetteva di ricostruire un finale diverso alle sue storie passate. Evadevano dalla caserma facendo lunghe passeggiate per i prati, s’immergevano in calcoli compulsivi pur di allenare la mente e non pensare alla follia nella quale involontariamente stavano cadendo. Cenni evidenti di cedimento li diedero Mujica, che sentiva il rumore incessante di un registratore che captava le loro comunicazioni; un registratore che tutt’ora s’ignora se fosse immaginario o reale. Fernández Huidobro invece si perdeva in calcoli numerici ed inventava contabilità a partire da uno stimolo esterno, un rumore di tasti, forse di una calcolatrice. Le stesse condizioni fisiche incidevano su quelle mentali, e le circostanze immutate negli anni li spingevano a vivere una serie di sensazioni alterate, di dare troppo peso a gesti inconsistenti piuttosto che cercare di farsi forza dimenticando il mondo all’esterno, la propria famiglia, i propri compagni, dimenticare l’affetto e non rischiare di affezionarsi neppure ad oggetti che entravano a far parte della loro vita. Essere soli al mondo, o riuscire a crederlo, dava loro una forza che li aiutava a superare le disavventure. Essere soli al mondo diventava la loro solida corazza: «MR: Quisiera deslindar un poco en este diálogo dos cosas: la profundísima sensación de angustia, desazón en los momentos en que sentíamos que estábamos absolutamente solos en el mundo, porque hay algo que faltó agregar y que tal vez a eso apuntaba: llegamos a dudar de nuestra familia. Que nuestra familia se había habituado ya a una vida en que nosotros éramos lo que éramos y estábamos como estábamos, y que ellos tenían que hacer el sacrificio de venir, estuviéramos donde estuviéramos, para no dejarnos sin yerba, sin medicamentos y sin papel higiénico. Llegamos a pensar que la familia también se había acostumbrado, que habíamos entrado en un estatus infernal que ya no era modificable, y que el mundo exterior, las organizaciones políticas, las organizaciones solidarias e incluso las familias, habían engranado en una situación de hecho en la que lo único que cabía era el conformismo. [...]

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Habíamos asumido además la soledad. Habíamos olvidado, inclusive, que teníamos familia. Tuvimos que despojarnos de todos los objetos. No podíamos ligarnos a ninguno, porque si conquistábamos una lata, en cualquier requisa la podíamos perder; si algún día nos entregaban un libro, no podíamos aferrarnos a él, no podía ser la tabla de sostén; si nos daban papel y lápiz, tampoco podíamos contar con eso. No podíamos contar ni con la ropa que llevábamos puesta. Entonces empezamos a construir la idea de que, más allá del muro, más allá de nuestro interior, no existía absolutamente nada. Teníamos que vivir con lo puesto por dentro. Y eso era lo que hacía que termináramos bajando una enorme cortina al mundo que nos rodeaba. Los pensamientos, las ideas, nuestras fantasías, era imposible que las requisaran»30. La famiglia è una delle tematiche chiave dell’opera, perché ricopre una duplice funzione: da un lato allevia le sofferenze attraverso la propria presenza negli incontri mensili in cui sono ammesse visite ai prigionieri, dall’altro è causa di sofferenza poiché i problemi familiari spesso si sommano alle problematiche dei prigionieri stessi, che li riportano con sé all’interno dei FDODER]RV. Ma la loro valenza è anche una valenza politica. Sono diversi i racconti che Rosencof lega alla presenza della figlia Alejandra, molte le poesie che compone per lei, che sembra essere una delle poche immagini positive in grado di regalare speranza all’autore. D’altro canto sono molti anche i momenti di riflessione e di preoccupazione per quanto riguarda la sorte dei propri genitori, privati della loro casa e trasferiti in un ospizio. Talmente forte è il pensiero di sua figlia e di suo padre, la sua preoccupazione, da spingerlo ad una sorta di telepatia, un trance che li metterà in contatto: «MR: En una visita, mi familia me informa que a mis padres les dieron el desalojo y que tuvieron que ir a parar a un asilo. Llegué al calabozo, vos esperabas que te llamara para ver si había surgido alguna novedad, y lo que te contesté fue: “Estoy llorando...”. FH: Melo, 1978. MR: A partir de ese momento tuve a mi padre presente cada minuto. De día conversaba con él, consolándolo, levantándole el ánimo; por las noches, lo soñaba. En un sueño, el Viejo me dice una palabra, una sola, no recuerdo cuál, supongo que no existe en ningún idioma, pero que yo interpreté sin dudas: “¿Qué estás haciendo acá? Sentate, comé”. Me desperté, te lo trasmití tal cual. 30

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En la visita siguiente, a los veinte días, mi padre llega con doña Carmen. Como no podían entrar juntos, la vi primero a ella. Entonces me dijo con un poco de alarma, no mucha para que no me angustiara, que papá tal vez tuviera alucinaciones y me contó lo que le había pasado en el comedor del hogar de ancianos: mi padre me vio entrar, dejó de comer, se paró, empalideció y me dijo (en la narración de Carmen): “¿Qué estás haciendo acá? Sentate, comé”. Situaciones similares se dieron con mi hija. En una oportunidad, imagino un “paseo” con Alejandra: la llevo a conocer la tumba de su tío, mi hermano Leonel, cuyo nombre llevé como militante de la Organización; entonces, recorrimos los senderos del cementerio, entre cipreses y lápidas, hasta que llegamos a la tumba. En una de las visitas siguientes, Alejandra me cuenta que tuvo un sueño extrañísimo, que no lo fue exactamente, sino una especie de estado entre el sueño y la vigilia, en la que se veía paseando conmigo en un cementerio. Luego de narrarme eso en pocas palabras, muy seriecita y como espantada, me pregunta: “¿En qué cementerio está el tío?”. Puede ser coincidencia, pero, como decía Einstein: “Hay demasiada armonía en el espacio para que sea obra de la casualidad”»31. Inoltre è l’esercito stesso a servirsi delle famiglie, durante le visite, per influenzare la popolazione e sedare eventuali movimenti rivoluzionari. La vista degli ostaggi in tali barbare condizioni avrebbe afflitto i parenti che, una volta tornati alle loro case, avrebbero frenato qualsiasi rivolta o ribellione pur di avere salva la vita dei propri cari. Ed è anche per questo che i soldati non si fanno scrupoli di mostrare ai visitatori un prigioniero ancora sporco di sangue o con cicatrici evidenti, o di portare i parenti all’interno di un FDODER]R vuoto, per impressionare ancor di più i familiari e svilire i prigionieri di fronte a cotanta crudeltà. Questo un aneddoto raccontato da Fernández Huidobro: «FH: Nosotros teníamos que oler mal. Y nuestra familia tiene que haber sentido ese mal olor. Estábamos barbudos, no nos habían afeitado, no nos habíamos bañado, nuestra ropa estaba impregnada. Yo llevé el mameluco, que era lo único que usaba hasta ese momento. Y tenía la cabeza rota, en esa primera visita. Ellos no me habían atendido. Tenía una herida en la frente y la cabeza hinchada. No tenía espejo para mirarme. Supongo que debía tener muy sucia toda la zona por donde me había salido sangre, porque cuando mi familia se sentó frente a mí, leí el terror en sus ojos. Pensé, entonces, cómo podía tener la cara el capitán que estaba vigilando la visita, y cómo podían, ellos, cometer la torpeza de mostrarnos así frente a la población civil.

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Luego constaté que eso era una política. La política de aterrorizar a la familia y, a través de la familia, a la población civil»32.

/·DVVHQ]D

Un fattore determinante per l’alterazione mentale dei prigionieri, parte della tortura psicologica, è la privazione, l’assenza. A contribuire all’annientamento degli individui partecipa innanzitutto il silenzio, l’incomunicabilità dettata dalle leggi delle caserme, l’isolamento che lascia l’uomo solo con i propri pensieri, ignaro di ciò che lo circonda, delle intenzioni altrui, di ciò che accade all’esterno, affianco, nella cella dei compagni. L’incomunicabilità spinge l’uomo ad ampliare i propri sensi, a cercare nuovi mezzi di comunicazione e soprattutto ad interpretare ogni gesto non verbale come un messaggio criptato. Durante gli anni gli ostaggi impareranno a carpire informazioni dai dialoghi dei soldati in qualsiasi condizione, a ricavare notizie dai giornali usati in bagno come carta igienica, a leggere dietro un calcio in meno di un soldato, un piccolo segnale di vittoria. E rimarranno sconvolti quando un breve dialogo con un soldato permetterà di comprendere che l’esercito stesso era ignaro del grado d’incomunicazione in cui loro erano tenuti: «FH: Una tarde fui llevado al “recreo”, que en Melo se hacía con la capucha puesta, los ojos vendados y esposado, en el frontón de una cancha de pelota. Esa vez, extraña y temiblemente, me hicieron sentar cómodamente sobre un muro bajito y un oficial que se veía tenía muchas ganas de hacerlo, empezó a charlar conmigo en un tono inicialmente “amigable”: “¿Q ué opina –me trató de usted– de lo de Polonia?” Al principio creí que la pregunta se refería a la pasada Guerra Mundial, tal vez a la insurrección del gueto de Varsovia... Pronto comprendí que no. Que nuevamente me encontraba frente a un “incidente” como el de Nicaragua. En este caso, para mí sería el “incidente Polonia”. Le dije no saber nada y por lo tanto no poder opinar nada. “Sí, seguro: ustedes no saben cuando no les conviene”, me dijo. Y lo decía sinceramente porque, otra vez, él no podía concebir que alguien ignorara hechos tan notorios. N uevamente: no creía en su propio dispositivo de incomunicación a cal y canto». 33

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Ma come ogni privazione, anche il silenzio doveva essere esorcizzato, superato, squarciato, senza però arrivare a scontrarsi con le regole della caserma. Fu così che tra Mauricio Rosencof ed Eleuterio Fernández Huidobro nacque una comunicazione attraverso la parete, essendo collocati, nella maggior parte dei trasferimenti, in FDODER]RV attigui. La comunicazione aveva un codice elementare: bussavano con le nocche alla parete per testimoniare la loro esistenza, per confermare che stessero “bene” o per segnalare un “pericolo”. Una notte di Natale, una notte in cui raggiunsero la consapevolezza che la loro permanenza lì sarebbe durata più del dovuto, decisero d’interrompere quel silenzio lacerante per iniziare una comunicazione, con lo stesso criterio delle precedenti, colpendo la parete con le nocche: «MR: Había que inventar un idioma; no teníamos claves previas. FH: Partí de la base de que si comprendías que te estaba trasladando una palabra y si la comprendías, ibas a desentrañar el código. Por eso la primera que se me ocurrió trasmitirte, dado que era navidad, fue la palabra obvia. Pensé: si no me entiende, va a deducir que lo que cualquiera dice en navidad a otra persona es eso. Entonces, el primer código que se me ocurrió inventar fue simplemente tomar el alfabeto, contar las letras y: a la “a” un golpe, a la “b” dos golpes, a la “c” tres golpes. MR: ¡La “t”, 17! FH: Cuando me sentaba en el rincón que daba a tu calabozo, sentía el roce de tu cuerpo. Entonces comencé a rascar con la uña la pared. Vos comprendiste inmediatamente y comenzaste a rascar desde el otro lado como diciendo: “Acá estoy”. [...] FH: Luego, durante más de una década, hablamos así. N o teníamos otro sistema y llegamos a desarrollar una gran velocidad. Pero aquella primera vez la cosa fue lenta y trabajosa»34. Questo gesto di ribellione, di resistenza, fu come una dichiarazione di guerra, una reazione alla condanna più atroce che si possa infliggere: non conoscere il termine ultimo della propria pena, ma soprattutto sapere che lo scopo di quella detenzione, di quelle condizioni disumane in cui erano tenuti era la sofferenza. I soldati, la dittatura militare, volevano che loro soffrissero, «y una persona padece mientras está vivo, lúcido, y en condiciones físicas más o menos aptas. Se necesita vida para sufrir»35.

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Il gesto di ribellione si raddoppia quando la nuova lingua inventata per la comunicazione diventa non solo un mezzo di denuncia della condizione individuale, ma anche di comunicazione della propria letteratura interiore che iniziava a germogliare all’interno dei FDODER]RV. La prima forma di letteratura comunicata attraverso la parete fu una poesia, creata e trasmessa da Rosencof il giorno del compleanno di Fernández Huidobro: «MR:

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Attraverso la parete ricostruiscono la propria identità. Nella comunicazione c’è sempre la necessità di utilizzare “l’altro” come specchio di se stessi, come prova tangibile della propria esistenza. Comunicare diventava, in quelle condizioni, sinonimo di “vivere”, di riaffermazione della propria identità. La comunicazione serviva loro per trasmettersi emozioni, riscontrarsi in quelle dell’altro, risolverle e darsi la forza ed il coraggio reciproco per resistere. L’alfabeto morse sarà il mezzo attraverso il quale decideranno di creare un piano effettivo per la resistenza: fingere una malattia per essere trasferiti all’Ospedale Militare e riuscire a comunicare la propria situazione all’esterno, al di là delle pareti. Il loro piano presupponeva un’enorme dose di resistenza, di coraggio, di forza, che si trasmettevano l’un l’altro attraverso quella parete divisoria: «MR: Y a esta altura, cualquiera de nosotros, sin llegar al nocaut, ya andaba medio grogui. Yo tenía una afección renal, el ácido úrico se me acumulaba en las articulaciones; con la humedad y el frío tenía dolores intensos en las caderas, que eran las que se posaban sobre el piso de hormigón sin nada en que apoyarse, los baños fríos, la humedad de los calabozos... Había, por lo tanto, una manifestación orgánica de enfermedad. Entonces yo tenía que demostrar, a partir de esa enfermedad real, que su expresión orgánica era de origen psíquico. Se me dio por crear un estado de incontinencia de vías urinarias. Es decir, que había perdido el control de los esfínteres. [...] Daba la sensación de que otro ser habitaba mi cuerpo en ese momento y manejaba mi organismo, en particular los esfínteres. Para eso tenía que orinarme encima, en la cama. [...]

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Aunque el médico y el comandante estaban de acuerdo y compartían el tipo de reclusión a que estábamos sometidos, no querían que los trastornos se produjeran bajo su jurisdicción. FH: Deseaban que nos enfermáramos, nos volviéramos locos y nos suicidáramos, pero no en su casa. MR: Cuando hicimos este plan, nos dijimos, a través de la pared, que a partir de ese momento teníamos que tener un cartel imaginario dentro del calabozo que dijera “aquí también se lucha”»37 Oltre al coraggio, i due autori si racconteranno, per 13 anni, tutto ciò che noi siamo ora in grado di ritrovare sfogliando le pagine del loro libro: emozioni, sogni, scopriranno di aver sviluppato una sorta di telepatia che costituirà l’espediente attraverso il quale velocizzare le proprie comunicazioni. Si daranno consigli, scriveranno opere insieme, creeranno racconti per le loro figlie. Nel silenzio più assoluto riusciranno a sviluppare ipotesi ed elucubrazioni sul mondo esterno, e riusciranno a tenere lo stesso livello di comunicazione “sordo” anche durante i trasferimenti, in cui riuscivano ad avvicinare le mani ed a comunicare con una leggera pressione del pollice sulla mano dell’altro. Una volta trasferiti al 3HQDO GH /LEHUWDG, il codice riuscirà ad essere condiviso con tutti gli altri ostaggi, a diventare una lingua collettiva, segreta, un gesto di ribellione che aveva come fine ultimo la produzione di una denuncia effettiva e collettiva, trasposta nella letteratura e nella musica. L'assenza della parola, squarciata dalla creazione di un nuovo codice comunicativo, non è però assenza totale di suoni e rumori. In tali condizioni disumane tutti i sensi erano stati intaccati, la vista soprattutto, e la sua defezione comportò l’amplificarsi della percezione attraverso altri sensi, quali il tatto e l'udito, unici sensi utili alla sopravvivenza. L'udito permetteva di captare notizie che i soldati si scambiavano durante il cambio della guardia sotto le loro finestre, notizie che avrebbero dato luogo a nuove elucubrazioni e valutazioni sulla loro condizione. Permetteva inoltre di controllare i movimenti delle guardie, di sentirli avvicinarsi alle loro porte, pronti per nuove torture. Il tempo, una montagna da scalare minuto dopo minuto, veniva scandito dai rumori delle catene, dei passi pesanti dei soldati che impedivano il loro sonno, dal tintinnio delle chiavi che li avvisava dell'arrivo dell'insulsa razione di cibo quotidiana:

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«MR: [...] Nuestro mundo se componía de una serie de sonidos que traducíamos mentalmente en imágenes y situaciones. Ese maravilloso crepitar sobre el cinc era una doble fiesta: me transportaba a una callecita de barrio, una noche de otoño bajo la garúa. Luego los sonidos hostiles, el taconear... FH: ...el sonido de las esposas... MR: Fuera de la rutina, porque el ruido de las esposas nos alegraba cuando era hora de salir al baño. En las catacumbas de Paso de los Toros, su tintineo era señal de que nos podían sacar al “recreo”. Ese sonido era alegre. Yo tenía, en mi infancia, un perrito que cada vez que sentía el de las cadenas con que mi padre lo sacaba a la vereda su cola era una carcajada. Se alegraba porque iban a encadenarlo. Después venían los adversos: el abrirse de la reja del corredor cuando no correspondía presagiaba alguna mortificación...»38 Ogni suono “positivo”, portatore di buone nuove, era un nuovo espediente che permetteva la fuga dalla realtà, verso l'infanzia, verso una nuova evasione “al di là del muro”. Quest'udito così sviluppato, come quello dei ciechi , sarà utile anche per scoprire i saccheggi delle guardie nelle buste di alimenti, PDWH e tabacco che la famiglia mandava loro, e che puntualmente venivano trafugati. Un aneddoto ironico rivela come gli stessi soldati non si rendessero conto delle condizioni in cui tenevano i loro ostaggi e di quanto questi fossero riusciti a sviluppare i propri sensi per sopravvivere a quelle stesse condizioni: «FH: Por sus charlas en voz cómplice, por sus pasos culpables, por el ruidito de la puerta del depósito abierta con cierta precaución, por el crujido de las bolsas y los envoltorios, sabíamos cuando, concretamente, nos estaban robando yerba o eligiendo ropa. MR: En especial de noche. Una de ellas, Pepe, que estaba con la sangre en el ojo por tantas “quitas” al depósito, se ve que o los campaneó o estaba sencillamente insomne cuando sintió iniciar ese operativo. Esperó, todo en base al oído, que el cabo de guardia estuviera con las manos en la masa. FH: Mejor dicho: en la yerba. MR: Y desde el fondo de su oscuro calabozo, con voz gutural y solemne, como la de Dios, gritó: “¡¿Qué hacen ustedes ahí?!”, y en el tono tajante de las órdenes militares: “¡Deje esa yerba!”

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FH: Oímos las botas de caballería salir atropelladamente de entre las bolsas. El perro que estaba de guardia dormitando, paró las orejas y comenzó el ronco gemido que preludiaba sus escandalosos ladridos. No era para menos: había ladrones. MR: El resto de los soldados quedó en suspenso. No sabían qué hacer. FH: Cuchichearon, y al ratoel leve chirrido de las grandes botas en punta de pie fue recorriendo nuestras mirillas, abriéndolas lentísimamente... “Dormíamos”. MR: Al otro día nos sacaron, apenas amaneció, al cuarto de baño. La curiosidad los consumía. FH: Nos iban llevando de a uno y mientras tanto los otros dos oíamos como revisaban meticulosamente, desde adentro del calabozo vacío, el estado de las mirillas. MR: Buscaban el orificio por el cual veíamos. Un orificio inexistente, que de existir tampoco hubiera permitido mirar hacia el costado la puerta del depósito. Por eso uno, más científico, sostuvo en voz baja: “Tienen que tener un periscopio escondido”»39. E solo quando riuscivano ad uscire dalle “catacombe”, a volte per qualche trasferimento d'eccezione, si rendevano conto di aver sviluppato sopra gli altri sensi anche l'olfatto: «FH:[...] No lo esperaba pero otro sentido comenzó a servirme para reconocer las calles montevideanas: el olfato, sentido que también teníamos agudizado. Viejos olores olvidados volvieron a mí, olores diferentes a los del calabozo: me vino el olor peculiar que sale por la puerta de los almacenes, el de los capuchinos que sube de los boliches en las esquinas donde las camionetas entreparaban, el del pan fresco...»40. Gli ostaggi erano ridotti ad oggetti, ad animali, costretti a sopravvivere in condizioni di gran lunga peggiori perfino degli stessi cani della caserma: «MR: En Santa Clara, al amanecer, oía con envidia el ladrido frenético que se producía en los caniles. Era la hora de la ración que recibían con gran algarabía; llegué a envidiarlos e incluso estuve a punto de hacer una solicitud al comando reclamando para nosotros el tratamiento de perro; fijate todo lo que tenían: podían estar bestia con bestia, animales de una misma especie juntos; podían orinar y defecar a discreción, estar al sol, tenían ración plena, ladrar y gruñir cuando se les antojara...

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FH: O aullar. MR: Lo cual nos estaba vedado»41. Si noti come l'ironia di Rosencof sia sempre presente nella narrazione, e come riesca a sdrammatizzare attraverso la messa in evidenza della paradossale condizione umana e di ostaggi, il racconto di tali atrocità, in modo da sminuire, sopra ogni cosa, la forza del potere, dei soldati che lo detenevano, ignari della loro fragilità. Si noti inoltre come, nonostante le condizioni in cui gli ostaggi erano abbandonati, si muova sempre dentro di loro un desiderio di sopravvivenza, un attaccamento alla vita che li spingeva a trovare espedienti per compensare le privazioni a cui erano sottoposti. Oltre all'assenza della parola, gli ostaggi erano privati anche della vista del mondo esterno, pertanto anche dei colori, al punto da temere di averli dimenticati, di non riuscire neppure a ricordarli: «MR: Vivíamos en un mundo sin color; cada vez que me ponía a fantasear, buscaba frenéticamente dentro del pensamiento paisajes con verdes, o floridos, y tenía gran dificultad, porque no se puede pensar en colores o por lo menos me costaba mucho y pocas veces lo lograba; maldecía los sueños porque generalmente los tenía en blanco y negro. FH: Yo guardaba colores. Los atesoraba en papelitos, simplemente por tener la posibilidad de verlos, los mismos dos o tres durante meses»42. Colori che, oltre ad aver conservato per anni, in foglietti gelosamente custoditi nelle tasche delle loro tute, riuscirono a rivedere anni dopo, con grande sorpresa di tutti, durante un trasferimento all'interno del 3HQDO GH /LEHUWDG, davanti al primo esemplare, della loro vita, di televisore a colori: «FH: [...] “La primera vez en mi vida que vi televisión en colores yo estaba sentado frente a una pantalla apagada, con el gorro de lana de Peñarol, que vos o mi madre me tejieron, y de pronto (yo no sabía qué iba a ver ahí), se encendió esa maravilla. Un señor dijo que los televidentes tuviéramos muy buenas noches, que ese era un polideportivo y, entonces, a una velocidad de cosas y de color insólitas para mis lentes que quise limpiar de apuro, estalló en mis ojos la boca del túnel que vivía en mi memoria más antigua, tan antigua como mi conciencia de mí porque se pierde en el amanecer de mi niñez, y por ella fueron saliendo como duendes amarillos y negros, once muchachos que pudieran ser hijos míos, y yo, hincha rabioso, no reconocía a ninguno porque nunca los había visto. [...]”»43.

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Un’altra presenza della quale avvertiranno la mancanza in questi 13 lunghi anni di prigionia è quella dei bambini, mancanza che manifestano apertamente nella seguente citazione: «MR: Las cosas que llegaban más nítidas eran las voces de los niños. Voces de niños que a nosotros nos faltaron mucho en estos años y que en alguna oportunidad, cuando oíamos a alguno que anduviera por el cuartel, nos producía una sensación de alegría. FH: Yo tenía previsto hablar del problema de los niños. De la ausencia de niños en el universo en que nos instalaron»44. I bambini, icone della purezza, portatori di allegria e rimando spontaneo ad una sfera sensoriale positiva, infantile, spensierata, li riportano, attraverso le loro voci, ad una nuova fuga dalla realtà. Ma i loro bambini, le figlie di Rosencof e Fernandez Huidobro, Alejandra e Gabrielita, sono elementi delicati all'interno della narrazione. Sono bambine che soffrono la mancanza dei propri genitori ma che soffrono anche durante i loro incontri. Delicato è il ruolo di genitori, da un lato spinti dal desiderio di un incontro con loro, dall'altro desiderosi di salvaguardare la loro ingenuità infantile. Il primo incontro tra Alejandra e Mauricio lascia trasparire la tenerezza dei modi della bambina che si reca alla visita piena di buone intenzioni, animata dal desiderio di alleviare le sofferenze del padre con la propria presenza, ma che fallisce nel momento dell'incontro e si risolve in un pianto occultato, ma pur sempre evidente. L'incontro tra Gabrielita ed Eleuterio, a contrario, è disastroso. La bambina, abbandonata ai propri nonni a causa della detenzione del padre all'interno dei FDODER]RV e della madre nel carcere di 3XQWD GH 5LHOHV, è terrorizzata ad ogni incontro col padre, che i soldati si ostinano a presentare sporco di sangue, ferito e con le mani legate ai piedi del tavolo. La bambina immagina suo padre senza mani, lo vede come un mostro, e lui, per reinstaurare un rapporto con la propria figlia, chiederà aiuto al compagno Mauricio perché inventi per lui favole da narrare per ristabilire l'armonia durante i loro brevi incontri: «MR: Se trataba de una niña cuyos sueños se materializaban. La historia comenzaba una mañana que la madre la va a despertar y la niña le dice: “Dale de comer a los pollitos”. “¿Qué pollitos?”. “Los pollitos azules”. “Pero acá no hay, no existen los pollitos azules”. Y en ese momento empiezan a piar debajo de la cama y asoman.

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, pag. 38.

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Todo eso va a seguir creciendo hasta que la niña finalmente va a ir al zoológico, y una noche sueña con un elefante y no hay dónde colocarlo. De ahí el corolario: los sueños de un niño no caben en una pieza, como los sueños nuestros no cabían en un calabozo»45. Il rapporto con le figlie era inserito in un contesto fiabesco, onirico, lontano dalla realtà concreta, troppo dura per essere compresa e superata da due creature così piccole. Il rapporto tra Rosencof e Alejandra aveva come tramite una stella, che la piccola guardava ogni notte ed a cui raccontava le sue giornate, nella speranza che la stellina riportasse al padre tutte le sue narrazioni. Rosencof quella stella poteva solo immaginarla, vederla nei suoi sogni, ma ugualmente provava a comunicare con lei, come se in quella realtà onirica ci si fosse immerso totalmente. Le favole protrettrici che scrivevano alle figlie, i disegni inviati furtivamente, conservano una morale di fondo, come quella esplicita nella citazione precedente, ma in alcuni casi erano degli espedienti per inviare messaggi subliminali alla famiglia, messaggi che venivano spesso bloccati durante le perquisizioni, e che probabilmente giacciono ancora sepolti in quanche fascicolo di documenti militari. Era questa la chiave della loro letteratura, lo scopo della loro scrittura: inviare messaggi intellegibili e denunciare, ancora una volta, la loro condizione. L’obbiettivo della loro resistenza era la denuncia, che inizierà a muovere i primi passi tra una parete e l’altra, per arrivare poi a coinvolgere tutti gli ostaggi e sfociare definitivamente in quest’opera, esperienza di uno, di due o di tutti: «MR: Es que hay una extraña simbiosis entre tus vivencias y las mías en estos trece años. Las narraciones de estas “memorias” pueden cambiar indistintamente de sujeto sin cambiar el sentido. Este libro está hecho por uno: los dos. Tal vez por nueve... FH: O por todos»46. Ma anche la presenza dei bambini, quando c'era, non era esclusivamente positiva. Gli unici bambini spesso presenti all'interno delle caserme erano i figli dei torturatori, dei militari, da loro educati sin da piccoli alla violenza. I bambini giocavano alla tortura, emulando i propri padri, e fu questa una delle manifestazioni di violenza che provocò maggiore sofferenza agli ostaggi. Era un ossimoro esistenziale la crudeltà sviluppata per gioco da quelle piccole anime ingenue, che non avevano alcuna consapevolezza delle proprie azioni e che non avevano neppure una valida motivazione per odiarli, ma avevano imparato a farlo:

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, pag. 45.

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«MR: Un día se acercaron niños a las puertas de nuestros calabozos. A nuestras mirillas, a insultarnos, a hacer comentarios... FH: A contribuir con su granito de arena en la tarea. MR: ¿Cómo entender la mentalidad de padres –eran hijos de oficiales y jefes– que como elemento formativo le daban a sus hijos esa tarea? FH: Tarea que, realizada, daba motivo de orgullo paternal... Se estaba entrenando a los hijos, desde niños, para la tortura. MR: Y no se daban cuenta de que las víctimas eran sus propios hijos... FH: Que estaban cometiendo una atrocidad contra ellos y contra nosotros. MR: Dolía por ellos, por nuestro país, por nuestra civilización, por toda la gente. FH: Se había llegado a esos extremos de bajeza inconcebibles. Era una agresión a los niños sólo el hecho de permitir que nos vieran. Que vieran el estado en que estábamos. Fijate que yo le rogaba a mi familia que no trajeran a Gabrielita sólo porque no viera. MR: Ellos no sólo se lo permitían a sus hijos, sino que los alentaban. Que oyéramos la voz de un soldado mofarse o insultar, entraba en las leyes del juego, pero oír las voces de los niños amenazar, reírse, regocijarse como en un juego, era macabro»47. La cosa che più provocava sofferenza era la consapevolezza che questi bambini sarebbero cresciuti, sarebbero stati educati come i loro padri alla violenza, e che avrebbero provocato altra violenza, entrando in un giro di vite senza fine. E questo, come sottolinea lo stesso Rosencof, nuoceva soprattutto ai bambini, privati della loro essenza primaria.

/D PXVLFD GHL FDODER]RV

Abbiamo parlato fino ad ora di suoni, parole, colori, presenze ostili ed altre piacevoli, di letteratura scritta attraverso le nocche che urtavano le pareti. Non abbiamo parlato della musica, presenza/ assenza nelle caserme e nei FDODER]RV

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, pag. 156.

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La musica assume da sempre una valenza simile a quella della letteratura: da un lato, in contesti politici, assume funzione catartica e di denuncia, dall’altro, in contesti più arbitrari, ha funzione evasiva, viene considerata uno svago, un piacere. D’altronde bisognerebbe ricordare che le prime forme di letteratura, sia quelle classiche che quelle medioevali, erano legate ad arrangiamenti musicali che accompagnavano i versi, pertanto la natura delle due arti resta inscindibile. La musica nei campi di prigionia è avvertita come elemento negativo, perchè spesso usata per coprire suoni, azioni, situazioni scomode. La musica spesso veniva usata per coprire le urla delle torture con la SLFDQD elettrica, o nei lagher, allo stesso scopo, o ancora, come raccontano Rosencof e Fernández Huidobro, come intermezzo radiofonico per le comunicazioni dello stato di salute dei loro compagni ricoverati nell’Ospedale Militare. L’esercito usò la musica anche per coprire le parole della radio che emetteva il verdetto finale di uno dei plebisciti che decretavano l’inizio del declino per la dittatura militare. Pertanto nell’immaginario collettivo dei detenuti, la musica ascoltata all’improvviso non poteva far altro che ricondurre all’idea della sofferenza, della morte, di qualcosa occultato ad ogni modo, e che non dava particolari speranze. Ma la musica che compare all’interno della narrazione dell’esperienza dei FDODER]RV non è esclusivamente negativa. A volte una musica lontana, ad esempio l’ascolto improvviso della marcia del 3DUWLGR 1DFLRQDO 7UHV ÉUEROHV, proibita dalla repressione militare, non poteva che essere un segno di speranza. Altre volte la musica dava un momento di tregua ai detenuti, momento che riuscivano a strappare alla vita ed alla prigionia grazie esclusivamente all’ignoranza dei soldati. /RV 2OLPDUHxRV è il capitolo che, con una forte ironia, dimostra esplicitamente l’ignoranza e l’incompetenza della maggior parte delle guardie, sottolineando che la loro presenza era al pari di quella degli eserciti mercenari, erano lì solo per il loro salario e talvolta non avevano un’ideologia precisa. /RV 2OLPDUHxRV erano due cantanti WXSDPDURV molto in voga in quel periodo, che la dittatura militare aveva ovviamente bandito per i contenuti rivoluzionari delle loro canzoni. Ma erano talmente orecchiabili da essere apprezzati dagli stessi soldati che, clandestinamente, commerciavano le cassette, le scambiavano tra di loro e li ascoltavano all’interno del “cellario” accompagnando le canzoni a commenti del tipo: «MR: “Serán tupamaros o todo lo que vos quieras –decían–, pero nadie canta como ellos”»48. La musica era anche quella dei tamburi che scandivano il tempo la notte di capodanno, un suono fraterno, vicino, intimo, che li riportava agli usuali festeggiamenti dei loro quartieri e per un momento li faceva sentire meno soli.

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pag. 170.

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Ma era musica anche la FXPELD come lo era la musica moderna che i soldati ascoltavano per evasione, prima di recarsi al ballo settimanale. La musica, come la letteratura, diventa denuncia della barbarie, e pertanto oltre alla testimonianza in chiave letteraria, rappresentata da 0HPRULDV GHO FDODER]R sopra ogni altra opera, i nove prigionieri non potevano perdere l’occasione di produrre un’opera musicale✂☎✄ che fosse denuncia della loro condizione ed insieme un «canto a la vida» . E come la genesi delle opere letterarie create da Mauricio Rosencof ed Eleuterio Fern ndez Huidobro, così anche la genesi di un’opera musicale e corale avvenne a suon di nocche sulle pareti. L’opera conclusa nel 1985 con il titolo &DQWDUHV 7XSDPDURV GHO FDODER]R, iniziò ad essere composta singolarmente dai nove ostaggi durante la permanenza nei FDODER]RV stessi. Divenne un’opera corale al loro incontro nel 3HQDO GH /LEHUWDG, quando, in attesa della liberazione, con una speranza in seno che qualcosa stesse cambiando, o con il desiderio di cambiare la situazione, riuscirono a mandarsi segnali, a fischiettare motivi durante le “ore d’aria”, a colpire la parete per riprodurre musica e testi e a ripetere tutto fino alla follia, per incidere 14 canzoni una volta usciti dall’incubo. Gli autori dai FDODER]RV sono nove, anche se al momento dell’incisione Adolfo Wasem aveva già perso la vita nell’Ospedale Militare a causa di un tumore. Nei mesi precedenti aveva però avuto premura di comunicare a Mauricio Rosencof tutti i suoi elaborati, in poesie e canzoni, per lasciare il ricordo, la sua memoria, e per essere presente in questa raccolta insieme ai suoi compagni. Due delle quattordici canzoni provengono invece dal 3HQDO GH 3XQWD GH 5LHOHV, dalle compagne lì detenute: «FH: A varios rehenes nos había sucedido un fenómeno extraño durante esos años en los calabozos. Creo que producto del silencio. En lo personal me ocurrió que, de pronto, luego de haber cantado en voz baja miles de veces las canciones recordadas, comenzaron a nacerme otras. Una noche en Paso de los Toros soñé que estaba en una playa sentado junto con una cantidad de amigos en torno al fuego y bajo las estrellas. Alguien, un brasileño, cantaba y tocaba la guitarra. Cuando desperté, recordaba la canción. La canción que jamás había oído. La canción del brasileño desconocido en una playa del sueño. Todavía la recuerdo. Existe. Así más o menos, varias canciones más. MR: Al Nepo le pasó lo mismo y a Raúl también. Compusieron música. Música para ellos y para los rehenes de los calabozos vecinos. Música para un mundo despojado de ella. Mejor dicho: al que quisieron despojar de ella. Como si la música no fuera obra de los hombres y como si bastara apagar la radio para exterminarla.

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Introduzione di

&DQFLRQHURV GHO FDODER]R KWWS SHUUHUDF RUJ PXVLFD XUXJXD\ REUD FROHFWLYD

FDQWDUHV WXSDPDURV GHO FDODER]R

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FH: El surgimiento de poemas en tu caso era “natural”, propio de tus antecedentes. En Engler, músico, también lo era el surgimiento de canciones. Pero en otros era extraño... MR: Entonces aprovechamos aquellos días de expectativa para entonarnos las canciones y recitarnos los poemas. FH: Raúl y Engler desde su celda organizaron un festival de “música de calabozo”, con jurado y todo. MR: Los autores, el público y el jurado cabían en la multitud de nueve personas. Hubo primero, segundo, y hasta tercer premio... FH: Está bien lo que dijiste: nueve personas, porque Nepo también “presentó” sus canciones»50. Henry Engler fu incaricato di musicarle, e sono sue la voce e le parole della prima traccia introduttiva del disco: «Estas poesías y canciones fueron elaboradas en circunstancias muy especiales. Algunas de ellas, fueron realizadas en Punta de Rieles, por las compañeras cautivas. Otras, fueron elaboradas en los duros calabozos de la dictadura y pulidas en el penal de Libertad. Encerrados a veces en celdas de 1,80 x 1,20, con apenas 60 cm de espacio a lo ancho para movernos, por causa de la tarima sobre la cual dormíamos (y esto, cuando las había). Hostigados en una forma permanente. Haciendo nuestras necesidades en baldes, que en ocasiones no podíamos vaciar por una semana. Comiendo pan y cuchillo, y a veces cuchillo solo. Tan lejos del mundo que palpitaba a veces a pocos metros de los calabozos. En esas condiciones, uno se ponía a silbar (cuando nos lo permitían), y entonces, hacíamos música. Alguno de nosotros, retuvo una melodía que solía silbar el otro unos cuantos calabozos más allá, y le puso letra. O bien escuchó un poema, y lo memorizó hasta el día aquel en que pudimos contar con un instrumento musical, y las hicimos canciones. No serán muy hermosas, pero en cada una de ellas (todas sencillas), está implícita una historia terrible de sufrimientos, de soledad, de locura y de muerte. Fueron paridas muy dolorosamente, y son un poco nuestro tesoro. Porque todas, todas ellas, son un canto a la vida y a la esperanza. Demuestran, el inquebrantable espíritu de superación que late en el hombre sometido a las más duras condiciones que puedan imaginarse. Por eso aquí no se trata de cantar lindo, sino de decir lo que por muchos, muchísimos años no pudimos hacer. Quizá nos falte voz, quizás nos falte técnica, pero, no habrá de faltarnos alma…

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Mauricio Rosencof, 0HPRULDV GHO FDODER]R op.cit., pagg. 341-342.

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Nuestro canto es, como el canto de las piedras rodadas. No hay modo de pulirse, salvo el ir rodando. Lo hemos hecho 13 o 14 años, en las peores condiciones. Lo que se gestó entonces, es simplemente: El Cantar de los Calabozos». La musica diventa denuncia, reazione, alla stregua dei cori della popolazione intonati ai piedi del 3HQDO GH /LEHUWDG, una volta annunciate le liberazioni, e poi a Montevideo, nel Carcere Centrale della caserma di Polizia:

«“¡TUPAS, HE RMAN O S, AQ UÍ LO S E SPE RAMO S!” “¡TUPA, ESCUCHA, TU LUCHA ES NUESTRA LUCHA!”»51.

Diventano grida di libertà, di solidarietà, di gioia, ancora piene di voglia di lottare.

/D ULDSSURSULD]LRQH

La lotta, le torture, l’assenza di elementi vitali, di materia che renda “umani” questi ostaggi privati della propria identità, sfocia nella denuncia, nella rivolta, nella ribellione, dettate dalla forza di volontà dei prigionieri che non sono rimasti schiacciati sotto il peso dell’annientamento, che hanno rispettato i patti, le promesse reciproche di mantenersi in vita, di non abbandonare la lotta. E mblematico è l’esempio di Adolfo Wasem, ricoverato nell’O spedale Militare in fin di vita, a causa di un tumore al cervello che non era stato curato. Una volta raggiunto l’ospedale, conoscendo le proprie condizioni, non si preoccupa di raggiungere una guarigione che sa bene che non verrà, non pensa egoisticamente a rifocillarsi per combattere la malattia ad armi pari, bensì organizza uno sciopero della fame, per la liberazione dei suoi compagni. Fu grazie a lui che iniziarono, infatti, le prime liberazioni dal 3 H Q D O G H / L E H U W D G . Ma ciò nonostante, nonostante la scelta di lottare con la sua vita per quella degli altri compagni, non si era arreso alla morte. Q uesto il racconto delle sue ultime tre ore di vita, della sua ultima battaglia:

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«MR: [...] Lo tenían en una celda de dos por uno, solo. Sobre las diez de la noche sintió que lo rondaba el punto final y salió de la cama. Disponía de un espacio libre de sesenta centímetros de ancho. Alguien le ordenó que se volviera a acostar. “Voy a morir”, contestó, “y la voy a pelear”. Sobre la una de la madrugada, cuando semi inconsciente se daba contra los muros, lo acostaron. Había dado la última batalla»52. L’anima J X H U U L O O H U D emerge in ogni momento della storia, che non è altro che la realizzazione di una promessa: denunciare per tutti quelli che non ce l’hanno fatta. Ma sono tantissimi i momenti di tenerezza che trapelano nel testo, maggiormente nel terzo volume dell’opera. Sono i momenti in cui l’animo abbandona le difese, crolla, si libera a dichiarazioni disarmanti che commuovono gli uomini abituati a vivere come tali. Sono i momenti del “re-incontro”, del contatto con tutti gli elementi abbandonati, lasciati ad una vita precedente. Parliamo spesso di re-incontro nella letteratura dell’esilio, che divide in tre parti il processo dell’animo di un esiliato: H [ L O L R L Q V L O L R e G H V H [ L O L R . La teoria del G H V H [ L O L R , elaborata dall’autore uruguayano Mario Benedetti, sottolinea quanto l’esilio renda duro il distacco dalla propria patria, lingua e cultura, e quanto allontanarsi renda impossibile una re-integrazione dopo anni. Il tempo dell’esilio, lo sforzo di riadattarsi ad una cultura, e spesse volte ad una lingua, che non siano quelle di appartenenza, modificano l’individuo, al punto tale che il suo ritorno in patria determina un ulteriore annullamento dell’individuo iniziale. La re-integrazione non può essere totale perchè nell’assenza, il tempo e le esperienze hanno cambiato la terra di provenienza, ma hanno cambiato anche l’individuo. Q uesta chiave di lettura può essere applicata anche all’esperienza degli ostaggi, ed è probabilmente quello a cui si riferisce lo stesso Rosencof utilizzando la parola U H H Q F X H Q W U R 53. G li ostaggi sono uomini ridotti ad oggetti, ad animali, privati della propria identità e libertà, che pur di sopravvivere non tanto alle torture fisiche ma a quelle psichiche si sono costruiti un’armatura, sono sfuggiti alla follia, hanno superato vicissitudini disumane, provocando un enorme cambiamento della propria identità. Il re-incontro con il proprio “io”, con l’identità che c’è alla base

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pag. 331.

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pag. 316.

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di tutto questo processo, in realtà è uno scontro tra i processi di cambiamento. N on è possibile ritornare ad essere l’individuo di prima, dopo aver vissuto tali esperienze, e non è possibile reintegrare nella propria vita elementi assenti per 13 anni senza denotare un cambiamento nel loro utilizzo, senza utilizzare tutto ciò che non hanno potuto avere in 13 anni con cognizione di causa e per un fine ben preciso. Ciò non toglie che i momenti di U H H Q F X H Q W U R siano i passi più drammaticamente commoventi dell’intera opera. O rmai gli ostaggi vivono con immensa sorpresa gli elementi che fanno da cornice alle nostre giornate, che ci accompagnano ed a cui noi diamo poca importanza. Loro, dopo 13 anni di buio, o di luce al neon della propria minuscola cella, alla vista del sole o delle stelle restano stupiti come dei bambini che aprono per la prima volta gli occhi sul mondo, conservando quello sguardo sterile sulla realtà, che li spingeva a considerare quella “visione” un mero episodio, che le guardie si sarebbero preoccupate con attenzione di non far ripetere: «FH: No vinieron los alambres ni las capuchas. Por el contrario, recuperamos la noche... MR: Hacía diez años y medio que no veíamos las estrellas... FH: Y la noche aquella, ¿te acordás?, estaba cuajada de estrellas. Yo las iba mirando, aprovechando tal vez la única oportunidad que se me daría para guardarlas nuevamente en la memoria. Iba tropezando contra todos los pozos y bultos del campo. Recordé aquella vez, la única, que pude ver la luna en Santa Clara. MR: Yo también, hasta que me di contra el que iba delante de mí y comprendí que toda la fila de rehenes iba haciendo lo mismo. FH: “¿Qué estás haciendo? Déjense de mirar las estrellas”, ordenaron en vano. MR: Era una fila de borrachos tropezante, embriagada, embobada de estrellas.»54 Commovente è inoltre la lettera che Eleuterio Fernández Huidobro invia alla sua compagna Graciela dopo essere entrato dopo undici anni in una cella con una finestra: «Tuve una aventura que debo contarte. La primera madrugada en este nuevo domicilio, aún de noche al levantarme sin los lentes, vi que un reflector me iluminaba por la ventana. Pero estaba muy alto y no podía ser. Tuve que ponerme los lentes para convencerme de la luna a la cual yo ya

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, pag. 290-291.

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no reconocía. Estaba gorda grandota por causa de unos jirones de nubes y humedad que la amplificaban. La estuve aprendiendo hasta que se metió en el horizonte ya de día bien frente a mí. En las madrugadas siguientes ella me encontró siempre a mí esperándola con la boca abierta y me hice el propósito de que tenía que contarte a vos que vi la luna»55. O la reazione incredula alla notizia di poter abbattere quel muro di silenzio, di poter recuperare oltre al sole, alle stelle, alle nuvole, ai colori ed i suoni, anche la parola, la compagnia di un amico, le informazioni che avevano ignorato per così tanti anni: «MR: El 14 de setiembre de 1984 por la noche nos avisan. Se trata de un fabuloso acontecimiento: al otro día podremos estar en una misma celda dos rehenes. FH: Vino el jefe del Penal, en persona, celda por celda a dar la colosal noticia. MR: Podríamos hablar. Las Fuerzas Armadas en decisión solemne, haciendo gala de toda su magnificencia, nos autorizaban a hablar. Nos devolvían la voz, la compañía, la comunicación. [...] Después de la noticia, tan irreal, tan fantástica, quedé como atontado... Tan sencillamente se podía realizar un cambio tamaño en mi vida. Así nomás, una noche cualquiera, con palabras prosaicas de las que usa el común de la gente para cualquier otra cosa. FH: Poco antes del mediodía del 15 se produjo la histórica mudanza. El reencuentro con el compañero... Y la palabra. Años hablando con nosotros mismos sin proferir una, o hablando en voz alta solos como los locos. A partir de esa noche, a partir del momento de la noticia, durante casi una semana no pudimos dormir; más aun: no teníamos deseos de dormir. El cuerpo aguantaba fresco como una lechuga. Hablando y hablando sin poder parar hasta quedar roncos...»56.

Recuperare la vita, quindi, ancora rinchiusi in un carcere, dal paradossale nome /LEHUWDG che era stato la loro massima aspirazione dal primo giorno di reclusione nei FDODER]RV. Recuperarla a piccoli pezzi, facendo tesoro di ogni passo in avanti nella speranza di non tornare più indietro e di proseguire la propria rotta recuperando ogni momento qualcosa in più.

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, pag. 298. pag. 316.

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8QD XOWHULRUH WUDVSRVL]LRQH GHOO·HVSHULHQ]D GHL FDODER]RV /DV FDUWDV TXH QR OOHJDURQ

Ripercorrendo le tappe della vita di Rosencof e del suo viaggio all’interno di se stesso alla ricerca di risposte agli innumerevoli perché della sua esistenza, incappiamo inevitabilmente in un romanzo di molti quattro anni posteriore a Memorias del calabozo, e che con questo s’intreccia inesorabilmente. Las cartas que no llegaron potrebbe essere definito il romanzo in cui Rosencof termina la ricerca di se stesso, della propria identità, delle proprie origini, il romanzo nel quale lancia ancor di più quel grido sofferto di denuncia delle brutalità dell’uomo contro altri uomini. Ma è anche il romanzo in cui, non trovando risposte adeguate ai perché della sua storia personale e familiare, decide di costruirle, metterle nero su bianco, riempiendo i vuoti comunicativi che la storia aveva provocato, immaginando lettere mai inviate e mai ricevute. Il tema delle lettere mai arrivate ci porta alla memoria un altro esempio letterario americano, questa volta del Nord America: Bartleby the Scrivener di Herman Melville, pubblicato per per la prima volta anonimo, in due parti, sulla rivista Putnam's Magazine nel 1853, e poi incluso nella raccolta The Piazza Tales nel 1856 con qualche piccola variante testuale. Bartelby è un inetto, un uomo che vive di espedienti e che rifiuta di fare, rispondendo sempre allo stesso modo al suo datore di lavoro: "I would prefer not to", ovvero “preferirei di no”. Oltre ad essere un personaggio senza dubbio sopra le righe, Bartelby, prima di lavorare presso il notaio che gli darà oltre al lavoro, anche vitto e alloggio, era impiegato nell’ufficio delle Dead Letters, l’ufficio postale in cui vengono bruciate le lettere che non è possibile recapitare né trasferire al mittente, e che pertanto assumono valenza di “lettere mai arrivate”. Queste “lettere morte” del romanzo di Melville rappresenterebbero l’impossibilità di comunicare, resa esplicita nelle parole conclusive del racconto: «Lettere smarrite, lettere morte! Non suona come uomini morti? Pensate a un uomo, per natura e sventura, incline a una languida disperazione: esiste un lavoro più adatto ad accentuarla che maneggiare continuamente queste lettere morte e metterle in ordine per darle alle fiamme? Ogni anno ne vengono bruciate a carrettate. Qualche volta dal foglio piegato il pallido impiegato estrae un anello - il dito al quale era destinato, forse, imputridisce 73


nella tomba; una banconota inviata in un moto di pronta carità... e colui che ne avrebbe tratto sollievo non mangia più e non soffre più la fame; parole di perdono per coloro che morirono nello sconforto; di speranza per coloro che morirono disperati; buone nuove per coloro che morirono soffocati da sventure inconsolabili. Apportatrici di vita, queste lettere rovinano verso la morte. O Bartleby! O umanità!» . Le “lettere morte” di Bartelby con la loro incomunicabilità non inseguono lo stesso obbiettivo de Las cartas que no llegaron. Le prime discendono verso la morte, le seconde hanno tutta l’intenzione di riportare in vita, tramite la memoria, persone che verso la morte sono già scivolate irrimediabilmente, e solo con il ricordo possono ristabilire la loro posizione nella memoria collettiva del mondo. Mauricio Rosencof nasce nel 1933 a Florida, in Uruguay, quando la sua famiglia era sfuggita al pericolo nazista che invadeva la Polonia e che avrebbe decimato il resto della famiglia.memoria, persone che verso la morte sono già scivolate irrimediabilmente, e solo con il ricordo possono ristabilire la loro posizione nella memoria collettiva del mondo. Rosencof inizia la stesura di /DV FDUWDV TXH QR OOHJDURQ quando, ormai segnato dalla propria esperienza all’interno dei FDODER]RV della dittatura, è in grado di leggere con occhi diversi l’esperienza della sua famiglia all’interno dei campi di concentramento, esperienza la cui presenza si era sempre avvertita all’interno della famiglia durante la sua infanzia, ma che era troppo cruda per esser raccontata e spiegata ad un bambino. Il romanzo, che appartiene, come già si è detto, al filone della denuncia ma si serve di tecniche stilistiche tipicamente letterarie, si muove in diverse direzioni ed in ambiti distinti. L’io narrante delle vicende non è univoco. L’opera, infatti, si divide tra la narrazione di “Moishe”, l’autore da piccolo, in grado di dipingere la realtà con occhi innocenti e di descrivere le vicende utilizzando molto spesso la tecnica dello straniamento, e dall’altro lato, “Mauricio”, l’autore adulto che compie questo viaggio alla ricerca del proprio passato. Un viaggio inconscio, fatto di ricordi, ma anche un viaggio fisico, ai luoghi delle torture della propria famiglia. Saranno queste due identità ricongiunte a ritrovare il filo logico e cronologico della storia, intercalati dalle lettere, dalle voci di altri personaggi, da altre narrazioni.

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Le lettere, frutto dell’immaginazione dell’autore, da un lato provengono da Aushwitz, dalla famiglia, dalla sorella di suo padre, e sono tenere lettere di denuncia, di aiuto, di compassione. Sono piccole traccie di una memoria, per lasciare una memoria, un ricordo al di là delle fotografie nascoste in una scatola di scarpe per essere salvaguardate. Le lettere da Auschwitz descrivono passo dopo passo il processo di deportazione, dalla partenza con destinazione il ghetto, fino alla fine, al freddo, alla morte. L’autore, attraverso le voci dei familiari deportati, denuncia le atrocità, la disumanità presente in quei campi di sterminio, attraverso gli occhi ingenui ed increduli dei deportati, incapaci di credere possobile l’atroce destino a cui erano diretti, oltre alle atrocità che nel percorso erano costretti a subire, come quella di condannare a morte le proprie compagne: «Vienen a contarnos. Con ellos, una hermosa rubia de uniforme, Grete. Se llama Grete y tiene dientes perfectos. [...] Grete saca de las filas a algunas chicas y las hace parar aparte. Han sido separadas, ¿entiendes?, separadas por su delgadez y tristeza; y yo estoy muy flaca, Isaac, y tengo miedo. Nos ordenan, a todas las demás, que tenemos que rodearlas para que no se escapen»57. O gesti disumani come la consegna del sapone: «Grete nos ha distribuido hoy un trozo de jabón. Te parecerá tonto, pero nos llenó de ilusión. Tal vez nos den más cosas, una papa, no sé. Calcetines. Siento la piel suave del jabón en mi mano y sonrío un poquito. Pienso en una ducha, agua caliente que corre y corre sobre tus hombros, toallas, ropa limpia. Grete se va. Tiene, a la vez, un andar marcial y femenino, elegante. Nos da un poquito de envidia. Cuando aproximamos el jabón hasta nuestras narices para respirarlo, vemos la iscripción. El desconcierto es tan grande que nadie articula una palabra, ni aun un gemido. Solo lloramos, Isaac, suavecito, en silencio, porque todo lo que nos queda en este instante son la lágrimas, que ruedan lentas como un cortejo, incesantes, mientras enterramos el jabón murmurando “.DGLVFKµ»58.

57

Mauricio Rosencof, /DV FDUWDV TXH QR OOHJDURQ, Alfaguara, Montevideo, 2000, pag 29.

58

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pagg. 37-38.

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Nelle narrazioni delle lettere da Aushwitz, vi è un’altrernanza tra silenzio e grida, che diventano entrambi manifestazioni irrazionali del dolore: «Una noche, ¿sabes?, una muchacha de nuestra barraca empezó a dar gritos terribles mientras dormía; unos minutos después, todas estábamos gritando sin saber por qué. ¿Por qué? Pienso que este sonido lastimoso que, en ocasiones – sólo Dios sabe cómocruza los aires como un pájaro sin cuerpo, es una expresión reconcentrada de la dignidad humana. Es la forma, tal vez única, que tiene un hombre de dejar una huella, de decir a los demás cómo vivió y murió. Con sus gritos hace valer su derecho a la vida, envía un mensaje al mundo exterior pidiendo ayuda y exigiendo resistencia. Si ya no queda nada, uno debe gritar. El silencio es el verdadero crimen de lesa humanidad»59. E forse quest’ultima frase ci riconduce apertamente alla presenza dell’autore dietro queste parole, ed alla sua storia personale, all’interno del FDODER]R in cui per tredici anni ha regnato il silenzio, quello stesso silenzio che definisce un crimine di lesa umanità. Dalla narrazione della sua esperienza di prigionia il parallelismo costante tra la reclusione nei campi di sterminio e quella nelle carceri della dittatura risulta evidente perfino attraverso similitudini tra le celle, tra quell’DWD~G YHUWLFDO GH VHVHQWD SRU VHVHQWD60 delle carceri uruguayane, ed il VDUFyIDJR RUL]RQWDO61 che rimandano inevitabilmente alla fisicità del forno crematorio dei campi di concentramento. La storia della deportazione s’intreccia con quella della prigionia dell’autore, nelle lettere che “Mauricio” dirige al padre, che non potrà mai riceverle. È un modo per ricordarlo, per ricordare la propria infanzia, per chiedergli e chiedersi qualcosa in più, o per elemosinare racconti, rimpiangendo il tempo in cui sarebbe stato possibile ascoltarli dalla sua voce:

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pag. 107.

61

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pag. 112.

pag. 31.

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«Cómo eras, Viejo, cuando yo no estaba. Cómo era esa historia de que el abuelo, el padre de mamá, arrendaba un monte de guindos, que arrendaba porque tierra, lo que se dice tierra, no tenían, no podían tener, por pobres, Viejo, y por ley, decías. [...] Y cómo era aquello, que se me entrevera, de que mamá era una muchacha y se trepaba a un guindo para juntar los frutos y/ o para comerlos, y que vos estabas abajo y le decías cosas y ella se reía»62. [...] «¿Y por qué te escribo hoy todo esto, Viejo? No sé. Tal vez para decirte lo que me acuerdo y, más que nada, decirte lo que me acuerdo para que veas lo poco que sé, que quiero saber más, que quiero más memorias, más de la tuya, contame, tenemos que hablar. ¿Por qué hablamos tan poco? ¿Por qué nunca se me dio por decirte: “Viejo, vamos a conversar”?»63. Ma è anche un modo per trasmettergli emozioni, sensazioni, rabbia, tutto ciò che non è riuscito mai a dirgli durante i suoi 13 anni di prigionia: «Y èstas son las cartas, mi Viejo, que te quise escribir desde donde no se podía, y que te escribo hoy, mi Viejo, desde donde sí puedo, junto a una ventana que durante tantas eternidades no tuve, con vista a un patio, pequeño, de entre casa, donde se mezclan los racimos de glicinas, y estallan los jazmines del cielo y los del país aroman, y pienso en mamá»64. La narrazione di “Mauricio” ritorna spesso all’interno del romanzo, ci presenta aneddoti riguardanti il contatto con il padre durante le visite, raccontati in maniera sommaria, sfocata, non ben definita, come se fossero parte di una serie d’informazioni risapute, condivise con il lettore, poiché già lungamente descritte nella sua opera precedente 0HPRULDV GHO FDODER]R. Sono racconti emblematici, ricordi di un contatto con il padre, grande eroe e punto di riferimento della sua vita, all’interno dei FDODER]RV della dittuatura, che nonostante le condizioni fisiche e la sofferenza di vedere un figlio logorato dalle torture, cerca di dargli la carica, attraverso sguardi che infondono coraggio, che esprimono il desiderio di non mollare, di non cedere. Ed egli stesso, racconta l’autore, non vacillerà neppure durante un malore. Non chiederà aiuto alle guardie, non accetterà neppure l’acqua da loro. Ingoierà la sua pillola e si farà forza, per orgoglio e ribrezzo nei confronti di queli uomini, che di umano avevano ben poco.

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pagg. 53-54.

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pag. 69.

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pag. 94.

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Lo sguardo che c’intenerisce di fronte al panorama di sofferenze della famiglia dell’autore, presentate in questo breve romanzo, è quello di Moishe, il bambino nato in Uruguay che non comprende l’iddish, la lingua ebraica della sua famiglia, che ignora le sue radici e che guarda con ammirazione tutto il mondo intorno a lui. È in realtà lo sguardo adulto di Mauricio che si cela anche dietro quest’immagine infantile. Il recupero delle proprie origini deve partire da qui, da Moishe, dai tanti episodi incompresi durante l’infanzia, dalla presenza di un fratello così perfetto che diventa, nella vita familiare, anello di congiunzione tra l’interno della casa “ebreo” e l’esterno, “uruguayano”. Adesso comprende perché tanta sofferenza negli occhi della madre quando sfogliava le foto di famiglia, di una famiglia che non c’era più. Capisce perché alle nove di sera il buio ed il silenzio calavano sulla casa, e con loro la tristezza, perché Liebu, il fratello, non c’era più. Comprende il perché delle grida della madre nel cimitero, di quel metodico accarezzare i vestiti del figlio scomparso. Comprende la sofferenza per la perdita delle radici, degli affetti, di tutto. E comprende l’importanza nella sua propria vita, di Fito, compagno di giochi dell’infanzia che gli permetteva di entrare a contatto con la realtà in cui era nato, e conoscerla, esplorarla, lasciarsi stupire e volare con la fantasia alla vista,ad esempio, di un tram. Ma il cerchio si chiuderà durante il suo viaggio a Varsavia, che costituirà il vero ritorno alle origini, origini con cui lui non era mai entrato in contatto, se non ‘di seconda mano’: «Uno buscaba por las calles varsovianas algún rastro de tus tiempos, papá, pero la crueldad biblica se había cumplido y allí no dejaron piedra sobre piedra, y solo el serpentear de l Vístula, que se adormecía en mis pupilas, le daba a la nueva ciudad un algo de “yo estuve aquí una vez”; aunque no vayas a creer, desde que aterricé y mis pulmones se inundaron de aires que alguna vez te oxigenaron,sentí un algo de retorno»65. E con la vista del campo di concentramento dove erano tenuti i membri mai incontrati della sua famiglia. La descrizione è agghiacciante. Rosencof racconta di esser stato accompagnato da una guida, di aver seguito il percorso “turistico” che mostrava tutto il campo, dal cancello d’ingresso alle baracche, le cuccette, le doccie , i forni, ed infine le vetrine, dove si vedevano ammucchiati tutti i beni delle persone morte in quei campi di concentramento:

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pag. 98.

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«Estamos llegando a las vitrinas, donde en una se amontonan las ortopedias, prótesis, piernas de madera y el que la tuvo entrando a los saltos a la ducha; brochas, brochas de afeitar, miles, de cerda, que caben cada uno como un pájaro en la mano [...]; zapatitos de niño en otra, zapatitos de época, con un botoncito al costado donde cerraba la tira – habrían llegado en primavera- [...] miles, miles y miles de zapatitos, todos modelos de época, allí algún sobrino tal vez, papá, tal vez hubieras podido reconocer “ese era como el del Janele, la más pequeña de Leibu”»66. Questa immagine agghiacciante, che ritorna anche nella mente dell’autore in 0HPRULDV GHO FDODER]R, quando vedrà, prima dell’abbandono del 3HQDO GH /LEHUWDG tutta la serie di oggetti abbandonati dai prigionieri ormai liberati, ci rimanda all’associazione tra gli oggetti, i pochi beni materiali dei detenuti, ed i loro proprietari, disumanizzati, trattati come beste senz’anima, come oggetti, per l’appunto. E l’immagine ci suggerisce anche l’idea che tutti questi corpi senz’anima fossero ammassati, impilati, come tutti quegli oggetti in esposizione, ed allo stesso modo esposti in segno di trionfo della “razza ariana” che aveva causato tale insensato sterminio. Al termine della visita, Mauricio non riuscirà a ritrovare il proprio cognome in nessuna lista, neppure tra le montagne di valigie lì ammassate e sarà grande la delusione per il fallimento del recupero effettivo delle proprie origini, del ritorno alla famiglia, di un contatto con il padre, che siglerà con le parole: «Y nada, allí no estaban, allí no estábamos, ni en esa guía, mi vejo, estábamos vos y yo»67. Ma nonostante il fallimento, nonostante le sofferenze di una persona, di una famiglia e di una razza, Rosencof non demorde. Immagina la sua storia, ricorda il suo passato, respira l’aria che la sua famiglia ha respirato, e lotta, con ogni molecola del proprio corpo, per resistere ancora, per denunciare, vincere l’oblio. Perché niente resti sepolto e dimenticato, perché queste lettere, anche se inventate, mai spedite, mai arrivate, sono state scritte per riportare tutto, tutto quello che non è stato detto, tutto quello che non era possibile dire, o meglio ancora tutto quello che non era possibile far arrivare: «Estas cartas nunca te van a llegar, Isaac. O te van a llegar cuando ya no estemos, y entonces será para nosotros una forma de estar. Tal vez estas cartas las escriban otros.

66

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pagg. 109-110.

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pag. 111.

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Que Moishe sepa que también son nuestras, para que sepa qué fue de sus tíos, de sus primos, de sus abuelos. Queremos formar parte de su memoria, Isaac. Cada uno de nosotros es cada uno y todos los demás. También Moishe. Moishe es él y todos los demás. Moishe es su gato y sus padres. Es su hermano que va a morir y su amigo Fito. Moishe es también todos nosotros. Así son las cosas»68. Lascio concludere all’autore stesso questa analisi, con una piccola parte di un’intervista che ha avuto luogo in Italia, il 25 maggio 2008, in seguito alla pubblicazione della traduzione in italiano della stessa opera, con il titolo /H OHWWHUH PDL DUULYDWH. Alla domanda del giornalista Aldo Garzia “Forse proprio l'avere intrecciato la cronaca di una famiglia con la storia dell'intera Europa può avere contribuito al successo del suo libro?”, Mauricio Rosencof risponde: «In un racconto autobiografico non si riconosce solo chi scrive. Le lettere che giungevano a mio padre parlavano della vita che si erano lasciati alle spalle lui e mia madre: quella delle loro famiglie di origine, fatta di avvenimenti semplici come un battesimo o un matrimonio. Le lettere mai arrivate ricostruiscono quelle atmosfere. Spesso i lettori pensano che si tratti di lettere autentiche. E un po' lo sono, perché le ho scritte partendo dai racconti dei miei genitori. Salvare la memoria è il grande obiettivo dei nostri giorni, la prima barricata della resistenza contro l'oblio. Il mio riferimento letterario, Primo Levi, ci ha insegnato che la memoria è un'arma formidabile, come nella splendida pagina di Se questo è un uomo in cui narra il concentramento di ebrei, comunisti e gitani in attesa di essere trasportati a Auschwitz: tutti sanno che andranno a morire, ma le madri lavano gli indumenti dei propri figli»69.

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pagg. 41-42.

69

http:/ / rete-eco.it/ it/ documenti/ 35-riflessioni/ 1689-la-memoria-ritrovata-dimauricio-rosencof.html

80


0HPRULH GHO &DODER]R

´/L IDUHPR LPSD]]LUHµ

MAURICIO ROSENCOF:

Quel giorno, mentre stavamo facendo le pulizie, ci gettarono con violenza nei FDODER]RV , sospesero le ore d’aria, sospesero i lavori forzati e lì vicino atterrò un aereo in cui portavano prigionieri dalle zone interne, non ricordo se venissero da Paysandú o da Artigas. Li bastonarono brutalmente. Si scatenò una rivolta in tutto il carcere. Iniziammo tutti a battere sulle porte di ferro con le tazze di latta del caffellatte. Dopo di che rimanemmo con la sensazione che avrebbero messo in atto metodi punitivi: specialmente con noi. Già era successo con un maggiore (contro cui inveivano ogni volta che passava davanti alle celle). ✆

FERNÁNDEZ HUIDOBRO : Gli gridavano

“checca!”

MR:

Avevamo scatenato una tempesta di latta, ed il fulmine cadde alle due o tre di notte...

FH :

... di un 7 settembre 1973; si dovrebbe controllare su un calendario se fosse giovedì o venerdì. Arrivano e ci ordinano di alzarci e vestirci. O almeno a me ordinano questo. Di alzarmi, vestirmi, prendere lo spazzolino da denti, il sapone, la carta igienica e nient’altro.

MR:

C’era un medico magrolino che, silenziosamente, ci applicò lo stetoscopio. Facevano tutto in silenzio, di nascosto...

FH :

Preoccupante...

MR:

Mi portano giù nel seminterrato, mi mettono insieme a te. Lì mormoriamo “Che succede?”. “Non lo so” mi rispondesti.

FH :

Quella deve esser stata l’ultima volta che abbiamo parlato.

MR:

Che ci siamo visti...

FH :

... che ci siamo visti.

MR:

Per molti anni in seguito non abbiamo rivisto i nostri volti, nonostante stessimo sempre insieme, con un muro in mezzo.

FH :

Ci portano nel seminterrato, in un bagno che usava solo il personale militare. Mi mettono del cotone sugli occhi, una benda, un cappuccio e infine mi legano con il fil di ferro. 81


MR:

Tutto in silenzio. I cappucci erano dei sacchi enormi.

FH :

Sì, non erano normali cappucci.

MR:

Erano di tela grezza e sporca.

FH :

Lunghi.

MR:

Che scendevano fino al petto.

FH :

E che avremmo usato per molto tempo...

MR:

... molto tempo.

FH :

Nessuno parlava. Non parlava nemmeno l’ufficiale con la truppa, né il capo con i soldati. Avevano dato ordine di non proferire parola; tutti gli ordini si davano a gesti. Non avevo sentito, nonostante stessi dormendo male, il rumore dei camion che arrivarono nel seminterrato, che invece sentivo sempre.

MR:

È strano, quando scendemmo vidi alcuni URSHURV .

FH :

Erano fermi lì, però non avevo sentito nessun rumore. Era un’operazione silenziosa. Come se volessero tenere all’oscuro gli altri prigionieri. Fu un trasferimento vergognoso, un trasferimento con la consapevolezza che stavano commettendo qualcosa di grave.

MR:

Moltissimi anni dopo, quando già ero libero, durante un’intervista della Bbc a Londra, il giornalista mi disse una cosa che non sapevo: che il colonnello responsabile dell’operazione aveva dichiarato: «visto che non abbiamo potuto ucciderli quando li abbiamo presi, li faremo impazzire». Da quel momento questa frase avrebbe condizionato le nostre peripezie.

/H OHJJL GHOO·LUUHDOWj

FH :

Ci gettarono nel cassone del camion come immondizia. Iniziammo a perdere la nozione di quanti prigionieri c’erano e di chi eravamo, il silenzio e l’oscurità erano totali.

MR:

La destinazione, sconosciuta. Ne avevano gettato un terzo. Chi? Arrivai a dubitare che ci fosse un terzo, e anche che ci fossi tu. Io c’ero? Tutto era irreale, spettrale.

FH :

Era inutile urlare, inveire, fare qualsiasi cosa. Quando trovavo una 82


posizione comoda, l’unica cosa che ricevevo era un colpo o una spinta violenta perché tornassi alla posizione precedente. MR:

Sai quando fui certo di aver capito con chi viaggiavo? Quando Pepe3 iniziò a chiedere insistentemente che lo facessero cagare. Pepe era malato.

FH :

Aveva la diarrea cronica.

MR:

Sento te che dici: «Lasciatelo andare, è malato».

FH :

Trascorsero molte ore di viaggio...

MR:

Le ore ci confondevano, e anche il fondo stradale. Una strada importante ci dava l’assurda impressione di essere diretti a un luogo “civilizzato”. Quando iniziavano le buche pensavamo «Dove cazzo stiamo andando?». Io perdevo spesso la cognizione del tempo, perché improvvisamente la testa ti riportava ad altri eventi, ricordi, e non avevi la cognizione di quanto tempo fosse trascorso. Potevano essere tre ore come trenta minuti.

FH :

L’unica cosa sicura è che dopo un po’ di tempo Pepe, che evidentemente non poteva trattenersi più, ci disse: «compagni, scusatemi ma io cagherò qui».

MR:

La guardia non sopportava più quella puzza. Alla fine, dopo molte ore, arrivammo alla caserma.

FH :

Ci fecero scendere legati e incappucciati, come eravamo nel camion, e ci lasciarono così, in un FDODER]R, in piedi...

MR:

... dopo essere passati sotto gli stivali di una orda di soldati che ci caricò di calci; ci fu una sfilata di capi e ufficiali che ci guardavano come animali dello zoo, e il comandante ci esaminava come Napoleone da un quadro.

FH :

Passammo tutta la notte in piedi e senza chiudere occhio. Il giorno seguente, all’alba, passammo nelle mani di un’altra unità, questa volta la Cavalleria. Il camion che usano è diverso, più da parata... ci legano i piedi con il fil di ferro e ci buttano nel cassone, insieme a due enormi ruote di scorta che vagano libere e ci cadono addosso molte volte. Avevano scelto un percorso di strade sterrate. Era evidente che c’erano altri veicoli. Il viaggio sarebbe stato così lungo che si sarebbero dovuti fermare a metà del percorso per fare rifornimento.

MR:

C’erano travi sulle pareti del cassone, e bulloni sulle travi, ai quali assicuravano meticolosamente le nostre caviglie legate. Una tanica sulle caviglie, iniziava a spingere; era una lotta tra la caviglia e la testa del bullone. La caviglia perse.

FH :

Avrebbe perso sempre. Fu un viaggio indimenticabile, uno in più, insieme a 83


quelli che già ci pesavano sulle spalle, senza mangiare, senza dormire, scartavamo le ipotesi più incoraggianti. MR:

In momenti così, sembra che il corpo pretenda che la mente lo nutra con qualche piacevole ipotesi.

FH :

Stiamo per entrare in un universo in cui quello che ha valore per noi non è la realtà concreta. Un uomo, quando viaggia, ha una cartina e vede le strade che attraversa. Non può avere dubbi. Ha un orologio al polso e verifica i suoi orari. Nella condizione in cui eravamo, iniziavamo a entrare, senza saperlo ancora, nell’universo in cui avremmo vissuto: un universo costruito dalla nostra stessa immaginazione e dai nostri stessi calcoli. Che fosse reale o no, non contava molto. Funzionava come se lo fosse.

MR:

Ma lo era!

FH :

Ho l’impressione che arrivammo a Santa Clara de Olimar alle tre di pomeriggio. Anche se fossero state le cinque di mattina, per me erano le tre di pomeriggio.

MR:

Svanivano i confini tra la realtà e l’immaginazione. Questa condizione diventò una legge. Ci capiterà poi di costruire un universo partendo da una minuscola informazione.

FH :

E quest’universo operava in noi con delle leggi, come quelle dell’universo reale.

´3RPPHU\µ

FH :

Mi fecero sprofondare in un FDODER]R senza spiegarmi niente. Fui io a togliermi il cappuccio, la benda, il cotone... nessuno mi disse niente. L’unica cosa che fecero fu togliermi il fil di ferro e gettarmi con violenza in un piccolo FDODER]R, non ancora completato, fresco, fatto da poco. Le pareti trasudavano umidità; il composto non aveva fatto totalmente presa. Mi colpì il totale, assoluto silenzio. Dava l’impressione che non ci fosse nessuno, lì, a occuparsi di noi: l’unica cosa che si sentiva, che rendeva più profondo il silenzio, era una specie di ventilatore, o qualcosa del genere, un rumore molto tenue che, dopo anni lì, scoprii che era la corda di una bandiera sul tetto. Quando il vento soffiava, colpiva il palo.

MR:

C’era una finestrella... no, non era una finestra. Era un buco senza vetro né telaio, da cui entravano freddo, vento, pioggia. Tetto di zinco, soffitto di legno marcio. Pioveva ovunque. 84


FH :

L’inverno agonizzava e faceva ancora freddo...

MR:

Ci raggomitolavamo a terra.

FH :

L’unico indumento che avevo era un’uniforme da lavoro. Numero 787 3HQDO GH /LEHUWDG . ✂

MR:

Avere addosso l’uniforme, avere il numero 813, mi dava l’illusione che saremmo rimasti lì per il tempo di una punizione, troppo lunga da scontare nel 3HQDO GH /LEHUWDG. Il 3HQDO si stava trasformando nella “terra promessa”.

FH :

La piccola speranza di ritornare a Libertad, che l’uniforme rappresentava, si consumava e distruggeva mentre si consumava e distruggeva l’uniforme stessa. La guardia aveva ricevuto l’ordine di non parlare con noi. Ci comunicano, con un ordine scritto, che non possiamo parlare con nessuno e niente.

MR:

Includevano gli oggetti...

FH :

Ci portano via tutto dal niente.

MR:

C’era un suono che mi faceva rabbrividire, ma che in alcuni momenti arrivai a desiderare di sentire; era quell’impressionante stridìo dell’enorme portone che chiudevano (perché era l’entrata della caserma) ogni volta che ci dovevano portare in bagno. Appena ci facevano uscire, desideravamo sentire quel suono. Indicava che avremmo potuto liberarci la vescica.

FH :

Il mondo del silenzio, il mondo della desolazione. In una sola parola: il cappuccio.

MR:

Il cappuccio che diventò polifunzionale. Lo riempivamo di attenzioni, lo pulivamo, lo colpivamo, gli facevamo prendere aria. Io lo piegavo e lo mettevo sul pavimento per non sentire il freddo del cemento.

FH :

A volte ce lo sporcavano, ti ricordi? Col cibo, l’urina, con qualsiasi cosa...

MR:

... con la merda. Ti ricordi che nel bagno ci permettevano di alzare il cappuccio sugli occhi giusto per centrare il buco?

FH :

Sempre legati.

MR:

Riuscire ad arrivare, con i polsi ammanettati, alle natiche, al centro delle natiche, per pulirsi, implicava movimenti che nemmeno l’“uomo di gomma” avrebbe potuto fare. Ci fecero cagare ammanettati e incappucciati per undici anni.

FDODER]R

: lì dentro non abbiamo assolutamente

85


FH :

Torniamo alla descrizione del mondo. La desolazione, perché non avevamo niente nella cella. L’inesistenza di orari. Era stato fatto di proposito. Non c’era un’ora per mangiare, per portarci il materasso. C’erano notti in cui non ce lo portavano. Rimanevi in attesa del materasso come un cretino.

MR:

E alla fine ti buttavi sul pavimento. E il cappuccio fungeva da materasso.

FH :

Materasso, cuscino...

MR:

Polifunzionale. Lo spostavi sulle zone in cui sentivi più freddo. Prima sul fianco, poi sulla spalla...

FH :

Facevano raffreddare il cibo.

MR:

I soldati raccoglievano la terra dal pavimento e la mettevano sul cibo.

FH :

Anche le cicche.

MR:

C’erano le cicche mescolate alla polenta...

FH :

La mangiavamo lo stesso. La fame mangia qualsiasi cosa. La razione ce la davano a terra. Spingevano con i piedi i piatti fin dentro la cella. Quei piatti americani di alluminio, grandi, come padelle, che non si ribaltavano nemmeno se li prendevano a calci, scivolavano. Per l’acqua, poi, ci diedero una borraccia militare ciascuno.

MR:

Normalmente senza acqua. La usavamo per pisciare. Lasciavamo raffreddare l’urina a contatto con l’alluminio; i sali si depositavano sul fondo. Come direbbero le cuoche esperte, “si lascia riposare”. Allora, quando svaniva quel retrogusto nauseante che ha quando è tiepida, la sorseggiavi, fresca, con piacere. 3RPPHU\.

/D /XQD QHO SR]]R

FH :

Com’era il FDODER]R? Descriveremo il FDODER]R come se descrivessimo il nostro mondo. Avremmo vissuto lì così tanto tempo... Più tempo che nella casa dell’infanzia.

MR:

Tutti i FDODER]RV, quando arrivavamo, erano ostili. Bisognava interiorizzarli. Riconoscevi macchie, forme nelle macchie, umidità, insetti, finché tutto ciò, che era ostile, lo assimilavi, lo interiorizzavi; dopo averlo riconosciuto potevi condurre una vita “normale”, perché non ti preoccupava più. Non 86


potevi stendere le braccia da una parete all’altra, perché quel pozzo era largo un metro e venti, venticinque... FH :

La tua osservazione spiega bene la sua larghezza: non potevi stendere le braccia.

MR:

L’altra cosa che bisognava interiorizzare erano i movimenti per non urtare contro le pareti. Potevamo camminare da un angolo all’altro, in diagonale, facendo tre passi piccoli e un mezzo giro. Dopo il terzo passo bisognava “smussare” il piede sinistro a 45 gradi per non battere la punta contro il muro. Insistere sempre dallo stesso lato. Se cambiavi piede ti girava la testa. Bisognava interiorizzare – come le macchie – i movimenti.

FH :

Rimasero le impronte nel FDODER]R. Il cemento a terra rimase lucido, per le scarpe, nei tre punti in cui si appoggiavano i piedi.

MR:

Non ci potevamo sbracciare perché le mani ed i gomiti si scontravano con la parete. Bisognava camminare con le mani indietro.

FH :

Le pareti erano molto ruvide e se strusciavi contro la parete, o se ti strusciavano, ti graffiavi sempre. In quei FDODER]RV pioveva, i topi correvano sul soffitto...

MR:

Ed entravano i passeri...

FH :

Le rondini facevano i nidi in primavera. E quello sfiatatoio da dove entravano tutto il freddo e l’acqua del mondo?

MR:

Quella finestrella, tanto nefasta, a volte arrecava piacere. Permetteva che entrasse l’unico soffio di vento fresco...

FH :

E a volte si vedevano le nuvole.

MR:

Tutto era uno spettacolo.

FH :

Una volta, una sola volta, un giorno solo, attraverso una di quelle finestrelle, di notte, vidi la luna. Un astronomo dovrebbe calcolare, secondo l’ubicazione della finestra e il suo orientamento, in quale notte di questo secolo la luna si trovò in una determinata ora a tot gradi sull’orizzonte, in modo che potesse, brevemente, passare davanti a quella finestrella.

MR:

All’altezza della mia finestrella c’era un cavo elettrico che attraversava la Piazza d’Armi, sul quale, a volte, si posavano le rondini...

FH :

C’era un solo angolo da cui si potevano vedere. In quei FDODER]RV di Santa Clara de Olimar nel mio, entrò dalla finestra, una volta una lucciola, e mi morì subito. Un’altra volta entrò la piuma di un uccellino e la conservo ancora per ricordo. 87


MR:

Anche nel mio! E ce l’ho ancora infilata in un foglio con una poesia che un giorno regalai a mia figlia, che allora era una bambina: ²¢'yQGH HVWi WX SiMDUR SOXPLWD" ²0L SiMDUR HV XQ VXHxR 6H KD YRODGR ²¢9ROYHUi" ²1XQFD VH YD 9XHOD \ SHUPDQHFH &RPR YXHOD \ SHUPDQHFH WRGR OR VRxDGR ✞

FH :

Lì provai a cercare tracce di altri prigionieri, non ho mai trovato niente. Era come se fossero stati fatti per noi. Anni dopo, quando mi toccò tornare qui, trovai, sì, tracce vostre. Ma non di altri.

MR:

Nel mio c’era un’escrescenza. Usciva dal soffitto, dalla tessitura di una spatolata di calce. La presenza di quella bolla mi ossessionava. Quando mi mettevo a terra, supino, ce l’avevo sulla testa. Iniziai a pensare che si muovesse. La vedevo sempre diversa.

FH :

Non pulivano mai. Non passarono una scopa, uno straccio, non lavarono mai. Quando non sopportavano più la puzza, la puzza della nostra stessa sporcizia, delle nostre urine, del cibo avariato che si diffondeva per tutto il piano, tiravano secchiate di acqua e creolina, come si fa nelle stalle.

MR:

Pisciare diventò un’ossessione.

FH :

La prima tecnica che ho inventato per farlo fuori dai luoghi deputati, è stata la borraccia. Poi, durante il resto del giorno, versavo l’urina lentamente, aspettando che evaporasse, per poter riempire una seconda volta la borraccia.

MR:

Io la facevo sotto il materasso. Era come dormire sulle onde...

FH :

Quindi potremmo dire a qualsiasi essere umano, di quelli che abitano nel mondo normale, che si può pisciare praticamente ovunque.

MR:

Iniziai ad avere l’impressione, un’impressione reale, che gli organi avessero cambiato il loro ordine: la vescica aveva preso il posto del cervello. Non riuscivo a pensare ad altro.

88


FH :

Con questo trattamento, la diarrea arrivò presto, come la cosa più naturale del mondo nonché logica conseguenza. Qualsiasi tipo di cagata era sopportabile, ma la diarrea no. Perfezionavo le tecniche. Ce n’erano varie. Una era: farla in una sacca di nylon, riempiendola di carta igienica, se c’era.

MR:

Visto che non c’erano sacche per tutti, una volta arrivati in bagno invece di buttarle, provavamo a svuotarle e a riportarle indietro.

FH :

Ovviamente! Non le sprechi...

[...]

´6H GRYHWH WHQHUOL FRVu q SL XPDQR IXFLODUOLµ

FH :

Stiamo per entrare in contatto con una nuova sezione medica. Ogni volta che ci portavano in una caserma la norma prevedeva che ci visitasse un medico.

MR:

Loro non volevano farsi carico delle malattie che potevi avere, dei colpi, delle ferite, delle infezioni contratte in altre unità. Si facevano carico dei loro “atti di giustizia”, non di quelli degli altri. Una delle zone che esaminavano erano i testicoli.

FH :

E ti chiedevano a cosa fossero dovuti i colpi, i lividi e le cicatrici.

MR:

Anche quando lasciavi un settore; per poterlo documentare.

FH :

E riempivano una scheda, che ci avrebbe accompagnato durante tutto il viaggio. E ci facevano firmare la dichiarazione che documentava il buon trattamento. Ma, nel frattempo, quando ci ammalavamo o avevamo bisogno di assistenza medica, chi s’è visto s’è visto.

MR:

Guarda, io di Santa Clara, non durante il primo viaggio, ma il secondo, ricordo il seguente aneddoto. Arrivammo già abbastanza malconci. Ricordo nell’infermeria di Santa Clara, supino, a torso nudo e con il cappuccio, il dottore mi prende la pelle del ventre, la tira (sembrava il telone del circo Sarrazani) e dice «Ma cos’è! È una barbarie». Insieme al medico c’era anche il comandante dell’unità. Volevano constatare di persona lo stato in cui arrivavamo. 89


Il comandante e il medico, pensando che mi avessero già portato via per prendere un altro prigioniero, s’intrattennero un momento nel bagno; invece io ero ancora lì, perché c’erano dei civili, e non potevano farmi attraversare la Piazza d’Armi. Allora il medico disse al comandante: «Ma cos’è, è una barbarie! Se dovete tenerli così, è più umano fucilarli». Mengele era umano...

/DFULPH GL XQD EDPELQD

FH :

La prima visita che ricevemmo a Santa Clara de Olimar fu abbastanza sorprendente. Non ce l’aspettavamo. Piovigginava, faceva freddo, tirava vento. La sala delle visite, ricordi? Aveva una finestra, affacciava sulla campagna. Era una finestra senza vetri. Il freddo era talmente forte che il capitano che sorvegliava la visita non si tolse la giacca. Evidentemente non avevano previsto delle visite. Così le improvvisarono lì, con un tavolo al centro, e mi legarono le mani giù, ai piedi del tavolo. Ricevetti mia sorella e mia madre.

MR:

L’intenzione era mostrare alle famiglie che eravamo in una situazione limite, per farlo sapere all’esterno. Aprirono la porta del FDODER]R, mi misero il cappuccio (ero con l’uniforme sporca, malmenato e malnutrito), mi ammanettarono dietro, per un percorso di dieci passi; la visita era nel luogo che tu ricordi: vicino ai FDODER]RV, nell’ufficio del comandante di guardia. Quando arrivo alla porta del luogo in cui si sarebbe effettuata la visita, mi tolgono le manette da dietro e me le mettono davanti. Mi portano a sedere su una specie di panchina e mi posizionano di spalle alla finestra. Non ho mai visto la campagna fuori. A un certo punto sento che entra gente. Sento che sta per accadere qualcosa d’intenso e, lentamente, come il sipario all’inizio di un atto, mi tolgono il cappuccio. Mi trovo davanti per prima Alejandra, mia figlia, che allora aveva 7 anni, imbacuccata; sembrava un orsetto. I miei genitori, che avevano già 73, 74 anni, Carmen e la madre di Carmen. Li avevano fatti entrare tutti insieme, li avevano messi davanti a me, perché assistessero al momento in cui mi toglievano il cappuccio. Avevano l’ordine esplicito, che mi avevano già trasmesso, che se avessero stabilito qualsiasi contatto fisico con me (eravamo a 50 cm, faccia a faccia), avrebbero sospeso l’incontro e ne sarebbero conseguite delle punizioni. Inoltre, parlando con Alejandra le volte successive, lei ricordava che le avevano proibito tassativamente, in quell’incontro, di pronunciare parole come fiore, uccello, stella, colomba, cose del genere, il che creava alla 90


piccola un’enorme difficoltà nel comunicare. Quest’incontro io non lo dimentico. Alejandra veniva con l’intenzione di farmi una sorpresa. Io sapevo che aveva un problema alla vista, che la stava seguendo un oculista, e quel giorno la sorpresa sarebbe stata presentarsi davanti a suo padre con fare civettuolo, con gli occhiali sul naso. Teneva le mani dietro la schiena, nascondendo l’astuccio con gli occhiali, e quando mi vide, nelle condizioni in cui mi vide, in qualche modo il suo cuoricino non volle aggiungere anche il suo dramma a quello che io stavo vivendo. Le si riempirono gli occhi di lacrime e invece di darmi la sorpresa, di farmi chiudere gli occhi e, quando li avessi aperti, comparire con gli occhiali sul naso, quando si accorse che iniziavano ad uscirle le lacrime, mi mostrò gli occhiali e disse: «Ah, papà, che orrore. Questi occhiali mi fanno piangere al solo vederli». Quella visita, questa piccola storia, la porterò con me per tutta la vita. FH :

Dovevamo puzzare molto. E la nostra famiglia deve aver sentito quel cattivo odore. Eravamo barboni. Non ci avevano fatto la barba, non ci eravamo lavati, i vestiti erano impregnati. Avevo l’uniforme, che era l’unica che avevo usato fino a quel momento. E avevo la testa rotta, in quella prima visita. Non mi avevano medicato. Avevo una ferita sulla fronte e la testa gonfia. Non avevo uno specchio per guardarmi. Suppongo che la zona da cui era uscito il sangue fosse ancora molto sporca, perché quando la mia famiglia si sedette di fronte a me, lessi il terrore nei loro occhi. Pensai, allora, a che faccia avesse il capitano che sorvegliava la visita, e a come potessero commettere la crudeltà di mostrarci in questo stato a dei civili. In seguito constatai che era una tattica. La tattica di terrorizzare le famiglie e, attraverso le famiglie, la popolazione civile. Perché loro partivano dall’idea che i nostri familiari avrebbero raccontato alle altre famiglie del quartiere quello che avevano visto. Forse dobbiamo collocarci un po’ nel contesto che avremmo scoperto in seguito: c’era stato un colpo di stato da pochi mesi; c’era stato anche un golpe in Cile, se la stavano prendendo con le università, con i gruppi, con il resto della sinistra. Di conseguenza avevano bisogno di terrorizzare questi ambienti. I nostri familiari, attraverso di noi, ne erano il tramite. Il fatto stesso di doverci venire a far visita a Santa Clara de Olimar, per esempio, era già una misura repressiva; non contro di noi, ma contro i nostri familiari, poiché era impossibile arrivarci se non in treno. E per di più in un treno uruguaiano, che non so quante ore ci mette ad arrivare. Inoltre era un paesino sperduto in mezzo a latifondi destinati all’allevamento; lì abitavano praticamente solo militari o ex militari.

MR:

E con una storia formidabile, no? Lì giacciono le spoglie di Aparicio Saravia6. Lì sfilarono le sue truppe, le 20mila lance della rivoluzione del 1904. Noi siamo venuti dopo, ma non di molto... quello che hai detto 91


riguardo la famiglia mi ha fatto pensare a qualche altro dettaglio della visita. Lo sconcerto. Il gesto significativo di mio padre, che scuoteva lentamente la testa. E l’inquietudine di mia madre dopo avermi visto così, che mi consigliava di mangiare: «Che mangi? Perché non mangi? Che ti danno da mangiare? Devi mangiare!» Come se fossi di nuovo bambino e stessi a casa. FH :

Lì iniziò la pressione della famiglia nel chiederci se stavamo bene in salute e se uscivamo durante l’ora d’aria.

MR:

Mia figlia mi chiedeva che facevo tutti i giorni, e se avevo la televisione.

FH :

Decidemmo di dire di sì, che uscivamo durante l’ora d’aria, per consolarli.

MR:

Sì! Dovevamo consolare la nostra famiglia. Però il gesto – significativo – del mio vecchio aveva un punto di riferimento anteriore. Mi presero a maggio del ‘72 e trascorsi più o meno nove mesi consecutivi, con dei periodi di pausa, ma comunque nove mesi consecutivi di interrogatori e torture. Poi, quando pensai che la tempesta fosse passata, arrivò il peggio, quando mi portarono a Tacuarembó con un gruppo di compagni, per alcuni interrogatori diretti dall’allora Maggiore Gavazzo. Michelini stava denunciando in Senato quel regime di tortura al quale mi sottoponevano. Il Parlamento esisteva ancora, e questo fu il motivo per cui, siccome dubitavano anche della mia stessa esistenza, mi concessero, tra un interrogatorio e l’altro, un incontro di dieci minuti con la mia famiglia. Accadde a Paso de los Toros. Quando mi portarono all’incontro e fecero entrare mio padre, mi guardò, guardò l’ufficiale e disse: «Io vengo a vedere mio figlio; lui non lo conosco. Questo non è mio figlio». Non mi aveva riconosciuto. Parlare delle sue visite mi fa venire in mente un altro episodio, quando nel 1976 ci trovavamo a Laguna del Sauce. Mi avevano tirato fuori dal FDODER]R che si trovava di fronte all’infermeria. Non era sufficiente metterci il cappuccio, d’estate ci mettevano sopra un paio di poncho. Il gioco preferito della guardia che ci portava era farci sbattere contro gli stipiti delle porte. Quando arrivammo al luogo dell’incontro, che era un FDODER]R (ciò vuol dire che obbligavano la famiglia ad entrare in un FDODER]R), mi fecero sbattere contro la cornice della porta e stavo per svenire. Mi tolsero il cappuccio davanti al mio vecchio, ed avevo la fronte spaccata. Il mio vecchio mi vide così, si impressionò (aveva problemi cardiaci) e fece lo stesso gesto che fece a Santa Clara, un gesto di comprensione, di solidarietà, di un uomo che ha sofferto, che ne ha passate di tutti i colori, che aveva fatto la guerra nel ’14, che era stato emigrante, che aveva fondato il Sindacato Unico dell’Ago, come lui lo chiamava, aggiungendo immancabilmente “filiale Ugt”7. Quando uscì mi accorsi che era successo qualcosa, perché sentii delle voci 92


dall’infermeria, preoccupate, che dicevano «Un vecchio è svenuto! Un vecchio è svenuto!». Rimasi in uno stato di fortissima tensione, perché avevo da poco salutato mio padre; uscirono gli infermieri con una barella. Poi non seppi più niente. Chiesi, domandai, non mi risposero. Dopo molto tempo seppi cos’era successo. Il mio vecchio era svenuto. Erano arrivati con la barella e quando vide che lo volevano portare dentro, rifiutò. Tirò fuori una compressa, gli portarono un bicchiere d’acqua. Il mio vecchio, ancora tremante, disse: «Da voi non voglio nemmeno l’acqua». E ingoiando a fatica se ne andò, solo, fino alla strada. FH :

A Melo, nel 1981, mia madre aveva 77 anni. Praticamente se la dimenticarono sulla porta della caserma. Quando si accorse che stava per perdere il treno, si fece coraggio, si avvicinò a una finestra e iniziò a bussare. Il sergente avvisò il tenente che c’era una vecchia che bussava alla finestra, lui andò a vedere cosa volesse e si rese conto che quella donna stava aspettando dalla mattina, ed era già pomeriggio. Alla fine le concessero una visita, brevissima per giunta. Un’altra volta, a Santa Clara, arrivò con la fronte insanguinata e gli occhiali rotti. Era caduta mentre scendeva dal treno. La mia famiglia le aveva proibito di venire da sola, ma lei veniva di nascosto. «Sono andata a trovare Ñato» aveva lasciato scritto su di un foglio sul tavolo. Le chiesi tantissime volte di non venire. Alla fine ci rinunciai: «Finché mi permetteranno di incontrarti, verrò, anche se mi dovessi trascinare fin qui». Non mancò mai.

&ROSR GRSR FROSR

FH :

Lì, a Santa Clara, iniziammo le nostre conversazioni attraverso la parete.

MR:

Colpo dopo colpo aprimmo una finestrella clandestina sulla vita.

FH :

Arriviamo l’8 settembre del 1973, ed avremmo trascorso le nostre prime feste, la vigilia, Natale, nella caserma. Ne avevo già vissute alcune in diverse carceri e in altre caserme, ma non in queste condizioni. Ricordo che la vigilia fu un giorno particolarmente angoscioso, almeno per me. Fino a quel momento non avevamo avuto nessun tipo di comunicazione. Ognuno viveva nel proprio FDODER]R, rinchiuso nei confini delle proprie elucubrazioni. Continuavamo ad aspettare di essere riportati al 3HQDO GH /LEHUWDG, quando avremmo finito di scontare la pena che credevamo di stare scontando. Alla vigilia di Natale diedero la licenza al personale, più o meno intorno alle 2 di pomeriggio. C’era stata una grigliata per tutti a 93


mezzogiorno. Una volta data la licenza, la caserma rimase vuota. Rimanemmo noi e le guardie indispensabili. Calò un silenzio sepolcrale, e mi si strinse il cuore pensando che era Natale. E per la sensazione d’immensa solitudine. Perché uno alla fine si abitua ai rumori della caserma, e quando la caserma si svuota si avverte di più la solitudine. Quel giorno faceva caldo. Molto caldo. MR:

Quella notte ci fu un suono che accentuò ancora di più la sensazione che stai descrivendo, e che condividevamo. Iniziammo a sentire da lontano colpi di tamburi.

FH :

Da lontano, festeggiamenti, sì, da lontano; si sentì anche una fisarmonica. Mi ero ripromesso di non demoralizzarmi. Ma la depressione arriva proprio in queste circostanze. Decisi di pensare che quello era un giorno come tanti. Però quella notte i tamburi colpirono emotivamente entrambi allo stesso modo, e giunsi all’amara conclusione che no, che nonostante tutti i miei sforzi e i miei propositi, non era una notte come tante; era una notte speciale, era la vigilia di Natale. Mangiammo presto.

MR:

Quella notte io aspettai con impazienza che portassero la razione: c’era l’agnello. Capì che era agnello perché riconobbi le ossa. Mangiammo peggio degli altri giorni.

FH :

Ci portarono le ossa. I resti della cena delle guardie. Di modo che ci mettemmo presto a dormire (con gli anni ci abituammo; perché trascorremmo tante feste nelle caserme...). Avevamo già dormito varie ore quando ci svegliarono i fuochi d’artificio...

MR:

Ti rendi conto di quello che hai detto? Trascorremmo tante “feste” nelle caserme...

FH :

Trascorremmo tante vigilie, Natale, Capodanni nelle caserme!

MR:

Un anno sentimmo meno fuochi d’artificio delle altre volte e ipotizzammo che era arrivata la crisi, che non risparmiava nemmeno i fuochi d’artificio. Continuava ad essere un messaggio popolare anche quello...

FH :

In quel periodo i giorni erano così duri (per tutte le aggressioni che subivamo), che iniziai a desiderare che arrivasse il momento di dormire. Per evadere, attraverso il sonno, dal mondo nel quale vivevo. Fu un’esperienza che mi stupì molto, nel FDODER]R, perché per anni avevo pensato che una cosa del genere non avrebbe mai potuto accadere. Che un essere umano potesse desiderare di sparire pur di non vivere la crudeltà di ciò che stava vivendo. Ogni mattina, ogni risveglio, era un nodo che stringeva alla bocca dello stomaco.

MR:

Il sonno era un modo per ritornare alla vita. Il risveglio, un incubo. 94


FH :

Ogni alba significava aspettare e immaginare quali cose nefaste ci sarebbero accadute quel giorno.

MR:

I sogni sono così stupidi, che a volte nemmeno nei sogni – parlo per me – mi lasciavano in pace; sognavo che la porta si apriva, che entravano, che mi incappucciavano. Residui del giorno, Ñato.

FH :

L’unica cosa certa è che quando ci svegliammo il giorno dopo era Natale. La caserma rimaneva in silenzio, immutabile. Ci toccò lottare molto per riuscire ad andare in bagno. Si ripetè l’episodio della razione. C’era la razione speciale, quel giorno, come in tutte le caserme il giorno di Natale e la vigilia, e a noi davano i resti. Nel pomeriggio, che di solitudine ne avevo maturato già abbastanza, mi venne in mente, per la prima volta, di provare a comunicare con te.

MR:

Era un’idea che mi frullava nella testa, perché avevamo pochi mezzi di comunicazione, con solo due tipi di segnali. Ta, ta tara ta, ta, ta, che significava «sto bene». E un colpo secco, che significava «allarme» o «pericolo».

FH :

Fino a quel momento avevamo solo questi due segnali. Uno: sto bene. L’altro: pericolo. Non avevamo bisogno d’altro perché entrambi credevamo fermamente che saremmo tornati al carcere. Perciò, nonostante avessimo molte violenze da raccontarci, non sentimmo per mesi la necessità di comunicare. Ma da un lato la solitudine e la festività, dall’altro il passare del tempo (eravamo in quelle condizioni da più di tre mesi) furono i motivi che mi spinsero a provare a bussare alla parete. Questa volta non per dare un segnale di «sto bene» o di «pericolo», ma per provare a comunicare una parola.

MR:

Dovevamo inventare una lingua; non avevamo un codice.

FH :

Partii dall’idea che se tu avessi capito che ti stavo trasmettendo una parola e l’avessi compresa, avresti decifrato il codice. Per questo la prima cosa che mi venne in mente di trasmetterti, visto che era Natale, fu la parola più ovvia. Pensai: se non mi capisce, può dedurre che è quello che chiunque a Natale direbbe ad un’altra persona. Allora, il primo codice che inventai fu semplicemente prendere l’alfabeto, contare le lettere e: per la “a” un colpo, per la “b” due colpi, per la “c” tre.

MR:

La “t” 18!

FH :

Quando mi sedevo nell’angolo che confinava con il tuo FDODER]R, sentivo strusciare il tuo corpo. Allora iniziai a graffiare con l’unghia sulla parete. Tu capisti immediatamente e iniziasti a graffiare dall’altro lato, come per dire: «Sono qui».

95


MR:

Mi sedetti contro il tuo rumore, schiena contro schiena, con il muro in mezzo, con il mio profilo sinistro verso lo spioncino, perché dietro c’era una sentinella che ci controllava. Con lo sguardo perso verso l’angolo opposto, piegavo il mio braccio destro dietro la schiena, prima con le unghie, come ricorderai, e poi con la nocca del dito medio.

FH :

Dove abbiamo sviluppato un callo.

MR:

Che ti comportò quella complicazione il giorno dell’incontro con le famiglie.

FH :

Perché mia figlia se ne accorse e mi chiese a cosa fosse dovuto.

MR:

Cosa che provocò un’enorme preoccupazione, perché l’ufficiale che assisteva alla visita avrebbe potuto dedurre cosa stavamo facendo.

FH :

Poi, per più di un decennio, abbiamo parlato così. Non avevamo un altro sistema e siamo arrivati a sviluppare una grande velocità. Ma quella prima volta la cosa era stata lenta e faticosa. Mi ricordo che ti avevo trasmesso il seguente messaggio: 1-19-7-19-15-9, e dopo avevo fatto il segnale «sto bene»: ta, ta tara ta, ta, ta.

MR:

Un alfabeto che poi siamo riusciti a semplificare.

FH :

Ma questo fu il primo. Molto lento nel ritmo. La tua risposta fu un profondo silenzio. Rimasi con il dubbio. Quando iniziai a colpire di nuovo, nel caso non avessi capito, tu mi facesti capire «Stai zitto», colpendo disordinatamente, ma in un modo molto eloquente. Volevi dirmi: «Non m’interrompere».

MR:

Non avevo ancora associato le lettere ai colpi, allora presi un pezzo d’intonaco e, come se stessi giocando, da un lato, segnavo a terra il numero di colpi, per tradurlo poi in lettere.

FH :

Allora, all’improvviso, dopo un momento di angosciante silenzio, mi rispondesti in modo molto nervoso: «bene». Avevi capito! Poi iniziasti a trasmettermi, anche tu lentamente, la stessa parola con gli stessi colpi. Ed io ti risposi allo stesso modo che andava tutto «bene», che avevo capito anch’io 1-19-7-19-15-9: auguri.

MR:

Ma fu molto breve.

FH :

Quando finiamo di trasmettere la prima parola e ci diamo il segnale di «bene»...

MR:

... compaiono i movimenti extra-routinari.

FH :

Ecco qui! Era di pomeriggio, iniziava a calare la notte. All’improvviso sento 96


che in caserma arrivano i URSHURV. MR:

Il motore è inconfondibile. Dopo pochi minuti arrivò l’orda di soldati a tagliarci i capelli e a farci la barba; e tra loro il medico, ubriaco.

8Q DOWUR WUDVIHULPHQWR GHL FKH DIIURQWDPPR

FH :

Io avevo un calendario nel FDODER]R. Ma siccome perdevo la cognizione del tempo, non sapevo esattamente se il mio calendario indicasse la data giusta. Allora, leggere i documenti di buon trattamento che ti facevano firmare ad ogni trasferimento, avrebbe confermato se il mio calendario indicava la data giusta. Quella sera ci prepararono per un trasferimento. Non dormimmo, per il nervosismo, o forse per una sorta di euforia che provammo in quel momento. Pensavamo che saremmo tornati al 3HQDO GH /LEHUWDG.

MR:

Quando partimmo da Santa Clara dicemmo: vada come vada, non staremo mai peggio di così.

FH :

Questo è il punto.

MR:

Non sapevamo, allora, che al peggio non c’è fine. Quando raschiammo il fondo del pozzo dicemmo: peggio di così non si può. Ma il pozzo si scava e puoi sempre arrivare più in basso. E noi ci arrivammo.

FH :

Il giorno seguente, all’alba (era il 26 dicembre), eravamo già legati di nuovo con il fil di ferro, buttati nel cassone di un URSHUR, nelle mani di un capo di prima divisione che avremmo conosciuto poi, e che con il passare degli anni avremmo accompagnato nella sua carriera militare. Insieme ad altri soldati si sarebbe dedicato per tutto il percorso, che per fortuna fu breve (da Santa Clara a Melo la distanza era breve), a martoriarci.

MR:

Era un diversivo.

FH :

Durante il viaggio, continuammo a scegliere di “comportarci bene”, pensando che avevamo finito di scontare la pena e che fossimo diretti verso “casa”...

MR:

Sì, che l’avventura stava per finire.

FH :

Allora non volevamo rispondere alle provocazioni. 97


MR:

Sì, infatti, stavamo tranquilli, ci lasciavamo la notte alle spalle. Che illusi!

FH :

Se quel capo ci avesse fatto quello che ci avrebbero fatto alcuni trasferimenti dopo, l’avremmo mandato a fare in culo. Ci saremmo evoluti in quegli anni: all’inizio accetti molte cose, ma alla fine non ne accetti nessuna; al punto di esagerare e di avere un comportamento permanentemente aggressivo di fronte alla minima cosa che ci facevano.

MR:

Eravamo così distrutti che quando venivano a parlarci con correttezza, scattavamo come se fosse un’aggressione.

FH :

Saremmo riusciti a metabolizzarlo con il passare dei mesi e degli anni. Sarei riuscito a comunicare anche con Pepe, se fossimo rimasti più tempo a Santa Clara de Olimar. La sua cella era alla mia sinistra, ma il caso volle che ci trasferirono a Melo giusto quando iniziammo a comunicare e, a Melo, invece di tre FDODER]RV, ce n’erano cinque. Ne lasciarono uno vuoto all’inizio, poi misero me, poi te, poi ne lasciarono uno vuoto ed alla fine misero Pepe. E così non comunicò con noi attraverso la parete durante tutta la permanenza lì. A Rocha avrebbero fatto lo stesso.

MR:

Proprio lo stesso, infatti. Per questo, poi, ogni volta che ci trasferivano ci veniva l’angoscia per la preoccupazione (allora non sognavamo più di tornare al Penal) che nell’assegnarci un nuovo FDODER]R ci ritrovassimo con uno vuoto in mezzo.

FH :

Avrebbero interrotto la comunicazione. E poi, un FDODER]R in mezzo era molto pericoloso, poiché loro si mettevano lì; da lì potevano ascoltare i nostri colpi. Così le caserme in cui c’erano più di tre FDODER]RV contemplavano la possibilità che ce ne fosse uno vuoto tra di noi, il che significava incomunicabilità per mesi ed anni, come capitò, e lo vedremo. Una roulette russa.

MR:

45 trasferimenti abbiamo accumulato in tutta l’odissea.

,O 6LJQRU &RPDQGDQWH Gj GLVSRVL]LRQL VX TXDOH SRVL]LRQH GREELDPR DGRWWDUH SHU GHIHFDUH

FH :

Mi fecero scendere dal camion con violenza e mi portarono, come sempre a calci e pugni, al FDODER]R, in cui rimasi in piedi, legato e con il cappuccio per diversi giorni.

98


MR:

Io percepivo, sotto il cappuccio, la luce che entrava. Mentre eravamo in piedi accaddero una serie di cose. Come i FDODER]RV di Santa Clara, neanche quelli di Melo quando arrivammo erano stati completati, poiché il trasferimento era stato improvviso. Gli ordini non si trasmettevano con molto anticipo per una questione di sicurezza, avrebbero potuto intercettarli e liberarci durante il tragitto. Quando arrivammo, i FDODER]RV erano utilizzati per le punizioni ai militari, non erano adatti per noi; dovevano peggiorarli. Allora il finestrone, quello meraviglioso, quello per il quale sognavamo di tornare a Melo in ogni trasferimento che si sarebbe prodotto successivamente, lo chiusero con della carta azzurrognola...

FH :

Tu hai sempre chiamato “finestrone” delle finestrelle rotonde che erano finestroni solo paragonati con quel buchetto di Santa Clara!

MR:

È come la felicità: non è altro che il confronto di uno stato con un altro. Sentivo che stavano facendo dei lavori sulla porta: creavano uno spioncino e collocavano una sbarra. In un determinato momento, quando ricominciammo la conversazione lì, una delle cose che stavamo ipotizzando fu la possibilità di fuggire. Tu mi dicevi che saresti riuscito ad uscire dalla finestra. Io non mi spiegavo come, perché c’era una grata. Il tuo FDODER]R non era stato ancora terminato; ti mancava una sbarra di ferro e pensavi che il mio fosse uguale. Ricordo i calcoli che facevi: ti saresti spogliato per insaponarti (doveva essere una notte in cui pioveva), poi avresti passato una gamba, poi un’altra... Io non capivo niente. Finché un giorno vennero e misero la sbarra che mancava.

FH :

Che piacere provai quando chiesi per la prima volta di andare al bagno! Mi ci portarono, bastava fare cinque passi per arrivare al bagno.

MR:

La porta era di compensato, la colpivi ed era un piacere sentire come rimbombava. Quella era la felicità. Ma c’era altro: quella finestra che doveva essere ermetica e oscurata con la carta, non si chiudeva bene, e attraverso quei due centimetri di luce potevo vedere il cielo e questa cosa meravigliosa: le chiome degli aranci che circondavano la Piazza d’Armi.

FH :

Su cui a volte si posava qualche uccellino...

MR:

Una notte entrò, abbagliato, perché anche lì avevamo la luce eternamente accesa, un merlo...

FH :

Le lampade erano di potenza maggiore e visto che le celle erano imbiancate di recente, abbagliavano di più.

MR:

Ricordo che entrò e mi spaventò, perché stavo dormendo. Sentì svolazzare e mi dissi: Cos’è? Il corvo di Poe? Era un merlo e lo riuscii a prendere. E te lo dissi: che significato gli dai? Ci intrattenemmo a fare elucubrazioni, come gli antichi greci che leggevano nel volo degli uccelli i messaggi che gli Dei 99


mandavano loro. Tu profetizzasti la libertà. Ma sbagliasti a calcolare il tempo. FH :

La prima volta che andai in bagno, non a urinare ma a defecare, l’ordine che avevano i soldati era di liberare un polso dalle manette, per poterla fare, ma di attaccare l’altro al tubo dello sciacquone. E così quando il tipo mi legò al tubo, non mi potevo più accovacciare.

MR:

Dovevano consultarsi; il soldato riferì al capo, il capo al sergente, il sergente al sottotenente, il sottotenente al capitano in servizio e questi ordinò di chiedere al comando cosa fare. Immagino cosa dovrà essere stato tutto questo, quando arrivò la richiesta di consultazione al capo del Reggimento.

FH :

Dovevamo cagare in piedi o no? Fu abbastanza ridicolo, perché per poter sottoporre al comando una cosa del genere, una discrepanza con l’ordine dato, non mi spostarono dal bagno, mi lasciarono lì come prova. Ogni volta che veniva il capo, il sergente, il sottotenente, il capitano in servizio e poi il comandante, mi indicavano: «Vede? Vede, signor comandante, che non può cagare legato lì su? Possiamo solo mettergli una catena più lunga».

MR:

Nel mio caso un tenente rimase davanti a me per constatare se riuscivo realmente ad arrivarci o no.

FH :

Poi cambiarono l’ordine.

MR:

Ci toglievano le manette e ci legavano con una corda al tubo dello sciacquone.

FH :

Quella era stata la prudente strategia bellica del signor comandante. Agenzia stampa e scacchi

FH :

Melo era il paese dei cani, ricordi? Ci sorvegliavano tre soldati (uno per ciascuno di noi), un capo, che si occupava dei tre soldati, un altro soldato, che si occupava del cane, e il cane, che aveva il compito di abbaiare. In totale quattro soldati, un cane e un capo ben addomesticato, per tre “omuncoli” dentro un edificio da 400 posti. Quel cane era lì per sorvegliarci quando ci portavano al bagno, di fronte al FDODER]R, legati e incappucciati. Ogni volta che portavano uno di noi, il cane iniziava diligentemente ad abbaiare in maniera furibonda, ad avanzare e a guaire (faceva pena) perché non poteva morderci. Io desideravo che mi mordesse, perché così mi avrebbero portato subito all’ospedale. Ma non si verificò mai nessun felice incidente, nonostante la quantità di cani e di tempo che trascorremmo lì.

100


Ricordi i nomi dei cani? Katy, Luna... addestrati per torturare i civili, non attaccavano le uniformi. Arrivai a dubitare che i cani fossero i migliori amici dell’uomo. Iniziai ad amare di più i gatti e tutti gli animali che si guadagnano da vivere senza leccare nessuna mano... MR:

Erano molto orgogliosi dei loro cani, che portavano all’esposizione del Prado. Pensavo: se la gente, se i bambini sapessero... Se sapessero che erano tutti compresi nel “Programma di &RQYHQWRV”8...

FH :

Alle guardie (come sempre) avevano proibito tassativamente di parlare di qualsiasi argomento quando erano appostati lì, ma con il tempo iniziarono a comportarsi normalmente.

MR:

Iniziarono ad annoiarsi. A volte si sentiva, da lontano, una radio. Arrivammo al punto di sacrificare il sonno per vedere se riuscivamo a “pescare” qualche informazione. Ma quello che dicevamo di &RQYHQWRV mi riporta alla memoria due avvenimenti storici: alle rive di questo fiume ritornò, dopo esser stato prigioniero in Brasile, con il desiderio di buttarsi sulla collina per impregnarsi dei frutti della sua terra, il generale Rivera9. E quando hai nominato il cane Luna mi sono ricordato di “Pardo” Luna che si prese cura di Rivera durante la sua agonia e che raccolse la sua ultima frase: «Ora che io non ci sono, tieni stretta la Costituzione». E un altro aneddoto ancora: una volta ci accampammo vicino a questo fiume con un gruppo di coltivatori, con Beletti, Bandera Lima e i vecchi adorati compagni coltivatori di canna da zucchero, che poi portarono a termine molte imprese in altre zone dell’America Latina. Alcuni di loro oggi sono nella lista dei GHVDSDUHFLGRV. Lì ricevemmo la visita di un uomo che a Melo era un’istituzione, quel famoso sindaco...

FH :

Il “Nano” Pérez.

MR:

Il “Nano” Pérez, che ordinò di chiederci di cosa avessimo bisogno. Ci portò un contributo di cento pesos, e ordinò di farci avere, da parte del comune, gli scheletri, con le loro rispettive teste, dei capponi scarnificati.

FH :

I FDODER]RV di Melo erano di gran lunga migliori di quelli di Santa Clara de Olimar. In primo luogo perché avevano il pavimento con le mattonelle. In secondo luogo perché erano un poco più grandi. In terzo luogo perché avevano le pareti intonacate e imbiancate abbastanza bene...

MR:

E quella fantastica finestra; quello era un bungalow con vista sul mare; però guarda, quando dici che erano molto più grandi, la seconda volta che ci portarono a Melo...

FH :

Ah, mi ricordo! Ti sembravano più piccoli di quello che avevi immaginato...

101


MR:

Quella – nella mia mente – era una pista da ballo, compagno...

FH :

Certo, in realtà erano FDODER]RV molto piccoli, ma paragonati a quelli di Santa Clara de Olimar erano...

MR:

... leggermente più spaziosi, e di lunghezza avevano più o meno la stessa dimensione.

FH :

E quella preziosa finestra rotonda, che tu chiami finestrone, ma che era un forellino con il vetro, ce la chiusero, incollarono la carta azzurrognola per rivestire i libri, e la chiusero ermeticamente. Lì iniziò per noi la lotta per l’aria.

MR:

La prima cosa che constatai come segno della divina provvidenza, come quando a Santa Clara trovai nel FDODER]R una tana dei topi per pisciare (perché non poteva essere di altri se non della mano di Dio), fu che nella mia finestra il telaio era marcio, e non si chiudeva ermeticamente, e quindi restavano due centimetri attraverso i quali entrava un filino d’aria al mattino, sotto il quale mi sedevo per respirare un po’ d’aria fresca al profumo degli aranci. E quando presi un po’ di confidenza, lo spingevo con le dita, in modo che invece di due centimetri, ce ne fossero due e mezzo.

FH :

Era una lotta spietata, implacabile, per l’aria, perché se a Santa Clara de Olimar avevamo quella finestra totalmente aperta, dalla quale entravano il freddo e la pioggia, a Melo ci rendemmo conto che era molto più grave non avere nessun tipo di finestra. Perché dopo due o tre ore l’aria diventava viziata e dopo diversi giorni, il fisico risentiva della mancanza d’aria.

MR:

L’altra era che siccome per la stradina su cui affacciava la finestra passavano i soldati, dai loro dialoghi fugaci ci arrivava qualche notizia.

FH :

Sì, ed entravano le api perché c’era un alveare.

MR:

Le api saranno anche molto laboriose, ma sono stupide. Andavano verso la luce e non si staccavano più, lì restavano. Il moscone era più intelligente: entrava, faceva quattro giri, perlustrava il pavimento, si posava, si alzava in volo nuovamente e trovava subito l’uscita. Le api, invece, si attaccavano a quella lampadina ed era una lotta impari... Il ronzio non faceva dormire. Mesi. Anni.

FH :

Perché entravano di pomeriggio per questa feritoia, quando la luce della lampadina era più forte di quella del giorno. Questi FDODER]RV conservavano le tracce di presenze umane. Le pareti erano, quasi tutte, scritte, e per la maggior parte da soldati che avevano scontato gli arresti disciplinari. 102


MR:

Durante le prime settimane provarono in tutti i modi a non farci dormire durante la notte, prendevano a calci le porte, si mettevano a camminare davanti ai nostri FDODER]RV, segnando il passo...

FH :

Io pensavo: «Che fatica dev’essere per questa gente passare tutta la notte a fare di tutto per impedirci di dormire; bisogna avere grande capacità di odiare per prendersi questo fastidio». Perché quei soldati avrebbero tranquillamente potuto bere il loro mate10, seduti, a chiacchierare, ma si dedicarono, fino alla nausea, a tormentarci.

MR:

Un giorno iniziammo a renderci conto che sui tubi dello sciacquone dove ci legavano, i soldati lasciavano dei vecchi quotidiani per il proprio uso, per la propria igiene personale.

FH :

E non solo sul tubo. Si pulivano il sedere e invece di buttare il giornale nella tazza, lo lasciavano a terra. Quando si distraevano il cane e il soldato raccoglievamo sia i pezzi di giornale che stavano sul tubo, sia gli altri. Così riuscimmo a leggere editoriali, di merda, de El País.

MR:

Riflettevamo sulle notizie, ed anche solo per il fatto che fossero notizie, trovavamo sempre il lato positivo. Cercavamo sempre di trovare una virgola stimolante o significativa, che ci permettesse di fare supposizioni.

FH :

L’importanza che avrebbe avuto per noi questa “biblioteca” nelle caserme in cui usavamo lo stesso bagno dei soldati, sarebbe stata enorme per più di dieci anni. La principale fonte d’informazione sul mondo esterno. E il fatto che qualsiasi notizia desse adito a ogni tipo di speculazione si spiega perché, normalmente, trovavamo gli articoli e gli editoriali su pagine di giornali fatte a pezzi, così potevamo continuarli “a piacere”. Un pezzettino della pagina dell’editoriale de El País, o della pagina internazionale, con la merda nitidamente incisa al centro, limitava la lettura alla quarta parte di una riga, la terza di un’altra ed al pezzettino finale dell’altra ancora. Il resto della notizia si doveva comporre, con la forza dell’immaginazione, e siccome l’immaginazione tende sempre al positivo, potevamo collocare il mondo esterno in una situazione abbastanza positiva, in virtù di quel tipo di cultura che acquisivamo via via, di anno in anno, grazie alle latrine delle caserme.

MR:

Per le nostre speculazioni bastava anche solo un pezzo sulla sezione degli annunci; sulla base del prezzo dei televisori potevamo dedurre la situazione economica della Nazione...

FH :

Miglioravamo gradualmente le nostre comunicazioni. All’inizio, dopo tutta una giornata a dare colpi alla parete riuscivamo a trasmetterci una o due frasi. Lentamente iniziammo a fare l’orecchio fino a che bastò solo l’ascolto e non avevamo bisogno di prendere appunti, usavamo semplicemente l’udito. Poi iniziò a essere sufficiente riconoscere le prime 4 o 5 lettere di una parola e il contesto di una frase, per dare il segnale «capito» e passare 103


oltre. La prima cosa che facemmo, la prima funzione che assegnammo alle comunicazioni fu di scambiarci informazioni. Le pochissime informazioni che avevamo, sulle cose che durante le visite potevano averci detto o no, le avevano intuite da uno sguardo o un gesto, fino a quelle che avevamo potuto cogliere dall’ascolto di conversazioni tra soldati. Eravamo in grado di scambiarci informazioni con una certa velocità e cominciare a discutere dei problemi. MR:

Una volta finito di trasmettere l’informazione povera che avevamo, iniziavano le ipotesi. Iniziavamo con l’analisi politica: quanto tempo saremmo rimasti in quello stato, che cosa stava succedendo fuori, al di là del muro. Conservavamo ancora fresca l’informazione che avevamo assimilato con difficoltà, ma con maggiore attendibilità, nel carcere dal quale venivamo.

FH :

Giocavamo una partita a scacchi di pomeriggio, con lo stesso metodo di comunicazione.

MR:

Quando esaurimmo le informazioni, i commenti, lo stato di salute, ci rendemmo conto che non avendo assolutamente niente da fare, perché non avevamo tabacco, non avevamo libri, non avevamo niente, dovevamo trovare una soluzione per far passare le giornate, perché le giornate dovevano essere scalate, come montagne, minuto per minuto.

FH :

Quando avevo delle cicche, quando avevo il tabacco, mi illudevo di scandire i giorni con le cicche e che la notte sarebbe rimasta solo una montagna di fumo e cenere nel luogo in cui ero seduto.

MR:

Il primo problema che emerse con la faccenda degli scacchi era che se avessero visto te con una scacchiera e me con un’altra, mentre muovevamo le pedine...

FH :

... guardavano costantemente dallo spioncino...

MR:

... avrebbero dedotto che comunicavamo tra noi. Dovevamo correre un enorme rischio per farlo, un rischio che alla fine finimmo per eliminare, eliminando gli scacchi. Ma in quel momento era davvero necessario. E così dovemmo improvvisare una scacchiera...

FH :

... sulla parete...

MR:

... in un posto qualsiasi. Tu lo facesti sul muro e poi cancellavi i movimenti delle pedine con le unghie. Il che creava confusione – ricordi che avemmo delle discussioni – e dei litigi molto accesi.

FH :

Sono ancora convinto che qualche volta hai imbrogliato. 104


MR:

Scusa, Ñato. La mia scacchiera la creai su un foglietto di carta stagnola delle sigarette “La Paz”. Ci abituammo a prendere, conservare, nascondere ogni porcheria utile: fili, spaghi, spille, pezzi di latta, le cose più piccole diventavano i nostri beni terreni, d’uso, perché sarebbero stati utili per qualcosa. Un pezzo di spago serviva quando ti toglievano i lacci dalle scarpe: lo passavi nel primo buco vicino alla caviglia, sulla linguetta, e facevi almeno un nodo perché le scarpe non ti scappassero per la via. In quel foglietto impressi la scacchiera, passando le unghie su quelle che sarebbero state le caselle nere, e lasciando intonse le altre. Con pezzettini di carta costruii le pedine, che, nel caso in cui fossero entrati improvvisamente, soffiandoci sopra si sarebbero sparpagliate.

FH :

Il sabato, mattina e sera, c’erano le visite ai prigionieri, vicino ai nostri FDODER]RV. Quindi il sabato per noi era un giorno di festa. Semplicemente perché sentivamo il mormorio dei diversi turni dei nostri compagni che venivano portati lì. Non vedemmo mai quei prigionieri, ma li sentivamo arrivare, sentivamo gli ordini che dava loro la guardia e sentivamo qualcosa delle loro chiacchiere con i familiari.

MR:

Le cose che arrivavano fino a noi in maniera più nitida erano le voci dei bambini. Voci di bambini che ci mancarono molto in quegli anni e che in alcune occasioni, quando ne sentivamo uno che camminava per la caserma, ci provocava una sensazione d’allegria.

FH :

Avevo previsto di toccare l’argomento dei bambini. Dell’assenza dei bambini nell’universo in cui ci avevano inserito. La presenza delle visite ai compagni, il sabato, sarebbe stata l’ultima (anche se noi non lo sospettavamo ancora), l’ultima volta in cui saremmo stati così vicini a una quantità così grande di compagni. Il solo fatto di sapere che esistevano, che c’era solo una porta a dividerci, era per noi una festa.

5HVLVWHUH

MR:

Ci autorizzarono a ricevere il mate, ma non l’erba con cui farlo, e siccome (come tutto) restava fuori dai FDODER]RV, lo consumavano le guardie. Da allora, siccome avevano preso l’abitudine, a una cert’ora del mattino, di darci una scopa fatta con i rami della FDUTXHMD11 per spazzare, io la sbattevo negli angoli perché cadessero dei rametti, e mi facevo il mate con la FDUTXHMD “alla polvere”. 105


FH :

Con la polvere e tutto, era di sicuro più pulito dell’acqua che ci davano. La visita di Gregorio Álvarez12 sarebbe stata il motivo per cui avremmo cambiato la nostra strategia. Ebbe una conseguenza triste: era febbraio, quando già da 4 o 5 mesi, approssimativamente, eravamo in quelle condizioni; era poco, in realtà stavamo “inaugurando” la nostra condizione di ostaggi. Fino a quel momento, sebbene avessimo intuito che la nostra situazione sarebbe potuta essere definitiva, rimaneva ancora qualche speranza che non lo fosse. Ricevere la visita del generale della divisione, e restare nelle stesse condizioni, era come avere la conferma di quello che ci avevano detto: siete ostaggi. La minaccia non era una frase vuota. Questo ci obbligava, di conseguenza, a prendere provvedimenti; perché arrivare a questa conclusione con il grado di certezza che avemmo in quel momento fu abbastanza duro.

MR:

A questo punto parlavamo abbastanza facilmente attraverso la parete, ed eravamo d’accordo su un punto: il comando dell’esercito ha deciso che resteremo in questa situazione di reclusione, senza limite di tempo, ed era questo a essere inquietante. Era possibile sopportare una situazione come quella sapendo che aveva un limite. La nostra non l’aveva. Poteva durare finché non fosse cambiata la situazione della Nazione o fosse arrivata la nostra ultima ora.

FH :

Allora iniziavi a valutare tutto con uno sguardo nuovo. Il FDODER]R, il cibo, la tua vita, e arrivavi all’indiscutibile conclusione che i soldati erano pazzi. Nessun essere umano avrebbe potuto sostenere, a breve o a lungo termine, quelle condizioni. Fino a quel momento ci eravamo comportati in funzione di un’altra conclusione: «non facciamo troppo casino, perché se stiamo così è per la rivolta che abbiamo scatenato nel 3HQDO GH /LEHUWDG». Da quel momento eravamo come Hernán Cortés quando bruciò le navi: decidemmo d’iniziare a pianificare la lotta.

MR:

Pendeva anche un’ordinanza su di noi, di cui venimmo a conoscenza quando fu modificata, e stabiliva che erano autorizzati a colpirci quando volevano. Molti anni dopo ci avrebbero comunicato, come chi trasmette una buona nuova: «A partire da oggi non potete più essere maltrattati». Ordine che (ci mancherebbe altro!) fu più un’eccezione che la regola.

FH :

È come se dicessimo che la “conseguenza politica” della visita di Gregorio Álvarez nell’universo nel quale ci muovevamo...

MR:

... ci avesse spinto a stabilire linee di condotta che fossero allo stesso tempo un atto di lotta e di resistenza.

FH :

Quell’estate del 1974, mentre ero a Melo, mi fa visita il mio avvocato (è una 106


donna coraggiosa) e mi comunica, nonostante i divieti, che non eravamo noi tre gli unici in quelle condizioni; che c’erano altri sei compagni. Poiché la mia cattura era avvenuta il 14 aprile 1972 (lo stato di guerra sarebbe stato decretato il 16), io ero uno dei pochi prigionieri e l’unico ostaggio che non era sottomesso alla giustizia militare. Dipendevo da un giudice civile. La mia situazione, dal punto di vista legale, in una caserma, era totalmente anomala. MR:

Non so precisamente in che unità, anni dopo, arrivò la comunicazione da parte della giustizia civile, che avevi scontato la tua pena...

FH :

Il giudice, in una delle mie cause, quella della “auto-evasione”, mi aveva concesso la libertà, e queste bestie, quando leggono la notifica arrivata per essere firmata, capiscono che mi avevano assolto in tutte le mie cause e chiedono la testa del giudice che aveva commesso un simile oltraggio. Questo accade alcuni anni dopo, ma nel ’74 il giudice civile, cui spettava la giurisdizione del mio caso, mi reclamava da Montevideo per sottopormi a vari confronti e per interrogarmi. Il comando militare disobbediva a quest’ordine. Si chiedeva al giudice civile di spostare il suo ufficio nell’unità in cui ero, perché loro negavano il trasferimento. Allora, nella cornice di questo piano di lotta che avevamo abbozzato, decidemmo che io avrei dovuto insistere con il mio avvocato al fine di essere trasferito davanti al giudice per avere la prima opportunità di parlare a lungo delle condizioni della nostra reclusione.

MR:

C’era l’ordine che senza l’autorizzazione del Comando Generale dell’Esercito non potevamo essere trasferiti né all’ospedale, né al tribunale. In quell’occasione ricevetti la visita del giudice. Non mi trasferirono a Montevideo per comparire davanti al colonnello Silva Ledesma, ma il suddetto colonnello si trasferì all’80esimo Cavalleria. Ricordo il colloquio con lui per un dettaglio: si era stravaccato su una poltrona e sentii a un certo punto che qualcosa infastidiva i suoi onorevoli glutei: una biro. Mi disse: «La conservi lei, Rosencof, che è scrittore. Sicuramente non ne ha una nella cella, se ne serva, gliela do io». Ed io gli risposi: «La ringrazio, colonnello, ma se mi scoprono con una biro, le sanzioni le applicheranno a me, non a lei». Il “buon uomo” mi dava la zappa perché me la dessi sui piedi.

FH :

Un’altra misura di lotta era comunicare in qualche modo alla nostra famiglia lo stato reale della nostra situazione. Perché fino ad allora, nonostante quello che avevamo passato, gliel’avevamo tenuto nascosto.

MR:

Perché non soffrissero più di quello che stavano già soffrendo.

FH :

L’altra decisione che prendemmo fu che da allora in poi avremmo preteso con maggior energia la cura di tutte le nostre malattie, perché era normale 107


concludere che ci saremmo ammalati, come accadde alla fine. Questo era un punto debole del loro piano e dovevano pagarne, almeno, il prezzo politico. MR:

A partire da questo momento la nostra prima legge sarebbe stata: resistere.

´0LR SDGUH QRQ KD OH PDQLµ

FH :

Mia figlia Gabriela era nata nella caserma e viveva lì perché la mia compagna rimase incinta nel 1972...

MR:

Detto per inciso, tua figlia riuscì a vedere te e sua madre insieme, per la prima volta...

FH :

... il 14 marzo 1985, quando entrambi fummo liberati insieme agli ultimi prigionieri. Nel 1974 mia figlia, che non aveva ancora 2 anni, viveva nella caserma con la madre. Il problema, per ricevere la sua visita, era che doveva coincidere con il giorno in cui permettevano ai parenti di prendere i bambini dalla caserma per portarli a passeggio. Il viaggio per una bambina fino a luoghi così lontani come Melo non era facile. Tutte le visite di mia figlia, in quel periodo, sono, ancora oggi, ricordi molto dolorosi, perché da quando la bambina entrava, fino a che se ne andava, era un pianto continuo. Non provava nessun piacere nel vedermi, al punto che ebbi una discussione con la mia famiglia perché non me la portassero. Credevo non fossero visite adatte a una bambina di quell’età. La mia famiglia, d’accordo con psicologi e psichiatri, era dell’avviso che mia figlia dovesse conoscermi. Questa discussione sarebbe durata alcuni anni.

MR:

Io ricordo il pianto di tua figlia a Santa Clara de Olimar, forse la seconda volta che eravamo lì; Gabrielita allora poteva avere quattro anni. Ricordo qualcosa che, prima o poi, potremmo ricomporre, perché mi resta qualche idea vaga. Consultasti me, considerando che io avevo un po’ di esperienza in più rispetto a te come padre, per sapere di cosa avresti potuto parlarle, e che favole avresti potuto raccontarle, ed io, da allora, ogni volta che avevi una visita ti raccontavo, a puntate, alcune favole che avevo inventato per Gabrielita, ti ricordi?

FH :

Sì.

MR:

Si trattava di una bambina i cui sogni diventavano realtà. La storia iniziava una mattina in cui la madre la sveglia e la bambina le dice: «Dai da mangiare 108


ai pulcini». «Che pulcini?» «I pulcini azzurri» «Ma qui non ci sono, non esistono pulcini azzurri». E in quel momento iniziano a pigolare e si affacciano da sotto il letto. Tutto ciò continua finché la bambina finalmente va allo zoo, e una notte sogna un elefante e non sa dove metterlo. Morale della favola: i sogni di un bambino non entrano in una stanza, come i nostri non entrano in un FDODER]R. FH :

Prova a immaginare cosa potesse provare una bambina durante una visita in cui al padre, a volte con la testa rotta, e con le mani legate sotto il tavolo, tolgono appena il cappuccio. Avevo disperatamente bisogno di avere qualcosa da raccontarle e riuscire a strapparle un sorriso o almeno farla smettere di piangere. Mia figlia, a causa delle visite di quel periodo e di tutta la sua situazione, iniziò ad avere problemi. Una delle cose che diceva allo psicologo era che piangeva e aveva paura perché suo padre non aveva le mani. Quelli erano capaci di tutto, anche di obbligare bambine di due o di quattro anni a delle visite in quelle condizioni.

MR:

Ricordo un aneddoto di Alejandra a Melo. Prima della visita la bambina aveva scritto su dei pezzettini di carta: «Ti voglio bene, papà» e li lanciava in aria con la speranza che il vento li facesse arrivare alla mia cella. Non so come, ma uno arrivò. E glielo dissi in una poesia: (VFULELVWH HQ XQ SDSHOLWR ´3DSi WH TXLHURµ \ ODQ]iQGROR DO DLUH FRQ XQ VRSOLGR YDJy \ YDJy FRPR HO SiMDUR SHUGLGR TXH DEDQGRQD VX QLGR HQ HO YXHOR SULPHUR

3RU ODV UXWDV VLQ KXHOODV GHO DLUH OLJHUR EXVFDQGR HO FDPLQR GHVFRQRFLGR IXH D GHVSHUWDU HO VXHxR GRUPLGR GHO TXH GtD D GtD DJXDUGD XQ PHQVDMHUR

'DQ]y WLWXEHDQWH IUHQWH D OD UHMD HO DOER SDSHOLWR TXH EDMy GHO FLHOR \ HQWRQFHV FRPSUHQGLy PL PLUDGD SHUSOHMD

109


TXH DTXHOOD SOXPD TXH SRVy HQ HO VXHOR HUD OD FDUWD HQ TXH PL SHTXHxD DEHMD PH HQYLDED OD PLHO GH VX FRQVXHOR ✟

FH :

La visita nel dipartimento Treinta y Tres, nel 1978, era con un banco di formica in mezzo. Un giorno mi toccò di andarci dopo di te. Nella parte in cui si sedeva la famiglia vidi una piccola pozzanghera sulla formica. Immaginai che fossero le lacrime di Alejandra. Quando tornai al FDODER]R te lo chiesi e mi dicesti di sì, che aveva pianto per tutta la visita. E io ti dissi che quelle lacrime un giorno le avrebbero pagate. Credo che stiano già iniziando a pagarle.

MR:

Gabrielita, ad un certo punto, si rifiutava di andare alle visite di 3XQWD GH 5LHOHV per vedere sua madre perché in quei giorni era diventato di moda, credo per un romanzo di Jorge Amado, quel braccialetto di lana che si metteva al polso di bambini e ragazzi con la convinzione che se si staccava da solo, si sarebbero realizzati tre desideri. Alla piccola la perquisivano, la spogliavano, le toglievano il braccialetto. Volevano togliere anche i sogni ai nostri figli.

´&RPSDJQRµ

MR:

A Melo c’era quel medico magro, molto magro, evidentemente inserito di recente, e del quale non abbiamo mai conosciuto la voce. Noi lo informavamo dei nostri dolori, e lui taceva. Poi, definito il caso, ci faceva pervenire le medicine, sempre senza etichetta. Rispettava rigorosamente l’ordine del silenzio. Quel medico magro che rincontrammo in diverse occasioni, senza poter parlare, e che nel 1982, quando lo vedemmo per l’ultima volta, era ingrassato talmente tanto che l’adipe sovrastava la linguetta del mocassino.

FH :

Evidentemente gli era andata bene.

MR:

Durante quei giorni fu il tuo compleanno; fu il nostro primo compleanno senza poter comunicare.

FH :

14 marzo 1974. Te lo dissi alcuni giorni prima e tu hai composto una poesia per regalo. Me l’hai trasmessa attraverso la parete. Cominciava con 110


«E se questo fosse il mio ultimo poema ribelle e triste...» MR:

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FH :

Il giorno seguente ci fu un grande trasferimento di prigionieri; ce ne accorgemmo dal volume di casse, materassi, cose che si accatastavano davanti al nostro FDODER]R, le guardie che furono coinvolte, il rumore dei veicoli. Lo stesso giorno, il 15 marzo 1974, si ripeté la routine che avevamo già vissuto a Santa Clara de Olimar. Improvvisamente il barbiere ci fa la barba e ci rade i capelli; improvvisamente il medico, ancora magro, ci controlla. Il trasferimento ci sarebbe stato all’alba del 16.

MR:

Ma prima, qualcosa che abbiamo dimenticato di raccontare, ovvero in che cosa consisteva il piano che avevamo elaborato. Fondamentalmente era formato da due punti: uno, far conoscere la nostra situazione; due, provare a farci trasferire in ospedale e al tribunale.

FH :

In qualsiasi luogo in cui potessimo parlare con qualcuno.

MR:

Dove potessimo trasmettere quello che ci stava succedendo e anche per poter raccogliere informazioni. Affrontammo il trasferimento con questo piano sotto il braccio. Quel trasferimento in cui fanno sedere tutti e tre su un veicolo ausiliario con le mani dietro la schiena, legate con fil di ferro, ognuno separato dall’altro, ma i tre insieme, cosa che ci ha permesso, a te e a me, di entrare in contatto con le mani, di utilizzare un secondo tipo di comunicazione: con una lieve pressione del mio dito sulla tua mano o del tuo sulla mia, commentavamo il viaggio.

FH :

Uno dei più lunghi. In questo viaggio ci fu l’episodio della tua pisciata. Iniziasti a chiedere, ma non ti davano retta, ed alla fine, quando alla guardia che stava con noi nel cassone risultò evidente che non ti trattenevi più...

MR:

... ci fu uno, tra i meno autorevoli, che suggerì: «Facciamolo pisciare». «Ma ho le mani legate dietro la schiena, non posso». Loro non avevano l’autorizzazione per liberarmi. Allora iniziarono quell’operazione che al 111


principio mi spaventò, perché non sapevo cos’avrebbe potuto seguire: mi sbottonarono il pantalone! Frugarono all’altezza dell’inguine alla ricerca dell’“arnese”, lo tirarono fuori, quell’uomo fece battute sull’arnese e io potei, nel bel mezzo delle risate delle guardie, eliminare l’urina che secondo i miei calcoli avevo accumulato in circa 10 ore. FH :

Comunque credo che questo gesto che fece il soldato...

MR:

... fu confortante.

FH :

Sì, perché si comportò come un infermiere...

MR:

... fu un segno d’umanità.

FH :

La guardia, dopo averci ferito con i suoi commenti ed essersi divertito con noi, da quel momento, credo perché suggestionato dal gesto del collega, rimase in religioso silenzio fino a che non arrivammo a destinazione.

'RYH L FLYLOL VRQR ´SLVFLDVRWWRµ

FH :

Tutti quelli che sono stati nelle carceri militari uruguaiane sanno che qualsiasi prigioniero, per i soldati, è un “pisciasotto”.

MR:

C’era una seconda parola in graduatoria: “tisico”, ma “pisciasotto” era quella che si usava di più. “Pisciasotto” è sinonimo di povero, di sporco, di morto di fame... in una parola: civile.

FH :

“Pisciasotto” è, nel gergo di qualsiasi uruguaiano, sinonimo di paria, emarginato, mendicante. Ma io ebbi la riprova, ascoltando i soldati, che la parola, per loro, aveva un’accezione diversa. Non significava solo questo ma, con mia grande sorpresa (perché credevo che quest’insulto fosse diretto solo a noi, i prigionieri WXSDPDURV ), la parola “pisciasotto” era sinonimo di “civile”. ✟

MR:

Volevo raccontare proprio questo. Come fa T. E. Lawrence in Lo Stampo, racconti brevi che scrive quando si arruola come soldato semplice nonostante fosse colonnello: la differenza che c’è tra quando le reclute entrano in caserma e quando indossano l’uniforme e cadono le barriere. Allora rilevano la presenza di una razza diversa dall’altro lato: i civili. Questa differenza è universale.

112


FH :

Nella nostra Nazione il servizio militare non è obbligatorio. Il nostro esercito è tecnicamente un esercito mercenario; i soldati entrano volontariamente a farne parte, firmando un contratto di due anni. Sono tutti professionisti. Questo fa sì che abbiano una nozione o un’idea di corpo e di casta, o comunque di qualcosa di molto diverso dal mondo dei civili. Ci sono, inoltre, caste militari tra soldati semplici, perché generalmente riescono a entrare tramite padri, zii, cognati e a volte nonni.

MR:

Famiglie intere.

FH :

Sono moltissimi quelli che “ereditano” la professione. Non solo di ufficiale, non solo della classe...

MR:

Così si crea una mentalità distorta. Una legge morale, essenziale persino per gli emarginati dalla malavita, come il “non colpire”, si proietta nell’ambito militare. Dentro la caserma la legge da rispettare è che se qualcuno commette un’infrazione, chi lo vede deve denunciarla immediatamente. Perché in caso contrario sarebbe punito severamente. La legge immorale della delazione è una virtù. Ho sentito i soldati ripetere che dentro la caserma non ci sono amici. L’altra cosa assolutamente irrazionale, ma che forma una mentalità speciale, è la “legge” secondo la quale «il superiore ha sempre ragione». Il superiore non sbaglia mai, anche se sta ordinando di compiere un sopruso, cosa che, si sa, è usuale. E questo bisogna dirlo non in tono dispregiativo: nell’esercito bisogna ordinare cose assurde per coltivare “scientificamente” la disciplina.

FH :

C’è un’altra frase che usano costantemente, non solo i soldati semplici, ma anche gli ufficiali, che dice «il soldato che pensa, sbaglia». Non bisogna pensare. Anche questo è tecnicamente necessario per loro.

MR:

La mancanza di creatività, la mancanza d’iniziativa e di flessibilità che hanno gli ufficiali e i soldati è effettiva, perché quando entrano nell’Accademia Militare e in caserma, mettono loro i paraocchi. Non possono uscire dagli stretti confini tracciati. Prendere un’iniziativa è un’impresa da “civile” o da “pisciasotto”, che dir si voglia.

FH :

La parola “pisciasotto” ha un’accezione diversa da quello che pensavamo, al punto che, da Rocha in poi, durante il resto degli anni la sentivamo utilizzata in tutte le caserme per riferirsi non solo ai prigionieri, ma perfino al Presidente della Repubblica; qualsiasi civile che per qualche motivo visitava la caserma, ministri o grandi personaggi come Bordaberry e Aparicio Méndez16, per i soldati erano “pisciasotto”. E se si scatenava una rissa in un bar, per strada, o in un postribolo, dicevano «abbiamo avuto problemi con dei ‘pisciasotto’». 113


MR:

O, con lo stesso significato, “con dei civili”. Non voleva dire solamente “con degli emarginati”, nel senso di poveri (perché potevano essere anche molto ricche le persone a cui si riferivano), ma tutto l’insieme di civili che abitano nella Repubblica Orientale d’Uruguay per i soldati sono: “i pisciasotto”. Un paradosso psicologico: molte volte usiamo, per insultare, la parola di cui abbiamo più paura. L’altra parola che per loro ha un’accezione diversa da quella che le diamo normalmente è “comunista”.

FH :

Un giorno, mentre i soldati uscivano in licenza dalla caserma – la caserma era ubicata su una strada importante –, un’auto di lusso passò a grande velocità davanti alla porta, quasi investendo un soldato che usciva in bicicletta. Allora tutti gli altri che uscivano in licenza gli gridarono «comunista!». La parola è, come dire, spogliata del suo contenuto ideologico e sociale, e diventa un aggettivo offensivo, che descrive ciò che c’è di peggio. Quando si vogliono riferire a un comandante con il quale sono in disaccordo perché fa fare troppa ginnastica o li mette in riga troppo spesso, dicono «’sto comunista».

MR:

Quando parlano tra di loro di alcuni problemi sociali, come il latifondo (sono tutti originari delle zone interne e qualcuno è stato bracciante), sanno bene quant’è ingiusto e nefasto, ma non credono che sia un’invenzione della “sinistra”, sinonimo di “comunista” nella loro mentalità.

FH :

Pensano sia un’idea giusta e niente più.

MR:

E qui tocchiamo una questione molto interessante. Quando diciamo che la maggior parte dei soldati sono reclutati dai latifondi, dobbiamo aggiungere che lo sono anche quelli che entrano nelle caserme di Montevideo. Una caratteristica molto interessante è che è davvero difficile che uno di Montevideo – dove la coscienza e la lotta di classe sono molto sviluppate – si arruoli in una caserma. Su una vetrina di un barbiere di Cerro c’era un cartello che diceva: «non si tagliano i capelli a soldati e crumiri». Provengono quasi tutti dalle zone interne, come dire, il latifondo li emargina socialmente e assopisce la coscienza. La caserma diventa l’unica attività che possa assorbirli, e il suo meccanismo distrugge l’istinto di solidarietà sociale, perfino tra di loro.

FH :

È l’unica possibilità di lavoro per molti paesi delle zone interne.

MR:

In Paso de los Toros ce n’erano quattro. Diecimila abitanti vivevano grazie alle caserme.

FH :

Quattro caserme, più la polizia, più i soldati in pensione, su una popolazione di 10.000 persone fanno sì che la città sia, praticamente, 114


militarizzata.

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☞☎✌

FH :

Da quando l’attività militare è una professione, il soldato ha diritto alla pensione; vanno in pensione dopo 25 anni di lavoro. È una professione che include non solo quelli che sono in servizio; quelli che sono in pensione sono vincolati attraverso la cassa pensioni e i servizi sociali che presta loro l’Esercito.

MR:

E devono restare agli ordini, perché se vengono convocati, devono presentarsi. Quando si calcola che nella nostra Nazione ci sono 70.000 effettivi nelle Forze Armate, non si include nella cifra questa massa di militari impegnati in attività civili. In questo periodo iniziamo a osservare nelle caserme un miglioramento consistente delle condizioni di vita delle truppe. Licenze, benefici, regali. Il tipo di alimentazione che veniva loro offerto fu di livello accettabile fino all’82 circa, anno in cui i comandi militari iniziano a pensare di gettare la spugna. Finché per i loro piani, sentivano la necessità di una truppa che dipendesse da loro, la alimentavano come se fossero gladiatori. A partire da quella data, approssimativamente, il menù per la truppa si abbasserà al livello dei canili.

FH :

Il fatto che abbiano potuto commettere tante atrocità in tutte le caserme sconvolse i membri della Croce Rossa Internazionale, quando nel 1984 riuscirono a parlare con i capi delle Forze Armate. Queste persone (erano europei) non riuscivano a spiegarsi come l’esercito potesse permettersi un locale per le torture in ogni unità militare. Non si spiegavano come noi, che ne girammo tante, avessimo potuto vivere nelle condizioni in cui vivemmo. Loro pensavano a una Nazione in cui si effettuava il servizio militare obbligatorio nel carcere per uno o due anni; e questo ricambio sarebbe stato un enorme canale di denuncia. Ma qui ogni carcere è una casta di professionisti mercenari, e quindi gli ufficiali potevano fare tutto quello che hanno fatto. Solo così nella nostra Nazione la tortura potè essere applicata massivamente in tutte le unità militari.

MR:

Il professionismo crea uno spirito di aggregazione e unisce alla disciplina militare, che possiede qualsiasi esercito, anche la disciplina che emerge dai vincoli lavorativi. Per il soldato l’ufficiale non è solo un ufficiale, cioè chi comanda militarmente. È anche un padrone. 115


FH :

Dal momento in cui il soldato inizia a indebitarsi (con la Banca per comprare casa, o con il bar, o con quello che sia), sente la minaccia di essere licenziato. Il che significherebbe non solo una sanzione di carattere disciplinare, ma anche l’interruzione della situazione lavorativa; in un Paese con un alto tasso di disoccupazione come l’Uruguay, implicherebbe mettere il soldato e tutta la sua famiglia in mezzo alla strada. Questo fa sì che abbia una relazione di sudditanza molto maggiore rispetto a quella che si ha in un esercito in cui il servizio militare è obbligatorio.

MR:

La truppa ha davanti a sé una grande prospettiva. Dopo 15 anni di servizio, un soldato che è entrato in caserma a 18 anni, può andare in pensione a 33, 34 anni e le stesse Forze Armate lo inseriscono in uffici pubblici o in industrie private.

FH :

Ricordo che la Coca-Cola era un’industria che assorbiva molti pensionati dell’esercito, soprattutto sergenti o capitani, perché quest’industria, come dicevano gli stessi interessati, pagava senza problemi lo stipendio, e anticipava denaro in cambio di qualche concessione. E poi c’erano molti ex colonnelli nella Coca-Cola, nel dipartimento degli addetti al personale.

MR:

Negli Stati Uniti c’è un “General Electric” e un “General Motors”. Noi qui, modestamente, abbiamo un “Colonnello Coca-Cola”.

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FH :

Prima di continuare, conviene che racconti il tuo trasferimento all’Ospedale Militare.

MR:

La sala 8 dell’Ospedale Militare, destinata ai prigionieri, era l’anticamera dell’obitorio. Lì portavano i torturati per rimetterli in sesto in modo da poterli torturare ancora. Fu così anche per me durante il primo ricovero nel maggio del ’72. Nelle due occasioni in cui fui ricoverato lì, ho assistito alla morte di vari compagni. Era un obitorio. Ma prima di entrare nel pieno dell’argomento, vediamo gli antefatti che culminarono con il mio secondo ricovero nell’aprile del ’74. A Melo avevamo ipotizzato l’utilizzo di una tecnica di resistenza, che nel gergo del carcere si chiamava “caduta”. La “caduta” è la simulazione di una malattia che permette al recluso un periodo di sollievo, perché lo ricoverano nell’infermeria o va in ospedale. 116


FH :

E gli permette anche di crearsi dei contatti, cosa che nel nostro caso era uno degli obiettivi.

MR:

Ovviamente, e l’altro era crearsi una possibilità di fuga. Pepe ci aveva già provato nel ’70, e quando l’operazione stava per andare in porto, lo riportarono in carcere.

FH :

Ti dava anche la possibilità di denunciare in qualche modo l’aggressione che stavamo soffrendo.

MR:

E di far parlare della nostra situazione. La mia era stata una “caduta” molto particolare, che aveva illustrissimi antecedenti storici. È un’invenzione che risale alla Bibbia: Davide quando fugge l’ira di Saul e si rifugia tra i filistei...

FH :

... mentre è prigioniero inventa una tecnica...

MR:

... sbava, fa l’idiota, dice sciocchezze. La simulazione lo rende inoffensivo e così ha salva la vita.

FH :

C’è una cosa che si deve sottolineare per quanto riguarda la “caduta”. Generalmente si simula sulla base di reali malattie. Sono e non sono una bugia. Sono e non sono una simulazione.

MR:

Si finisce per dubitare del confine. Si sviluppava in qualche modo la tecnica più vicina alla malattia che si aveva realmente.

FH :

Chi ha un leggero mal di stomaco finge che sia grave. Ma quando la prigionia si prolunga per così tanto tempo come la nostra, risulta che il malessere lieve diventa realmente grave. Come dire, quello che inizialmente era una simulazione finisce per diventare realtà. Nel mio caso simulai un’ulcera. Oggi ho una gastrite cronica e un’ernia iatale.

MR:

Qualsiasi malattia era giustificabile. I medici, anche se avessero potuto dubitare sul grado di veridicità del disturbo – io simulai fondamentalmente disturbi di carattere psichico – rimanevano sempre col dubbio che potessero essere reali, perché nella situazione in cui eravamo ciò che era anormale diventava la normalità. Pianificammo tutto perché non potevamo fingere entrambi la stessa “caduta”. Se io facevo quella psichica, tu non potevi farla e perciò scegliesti l’ulcera. Con un piccolo pezzo di latta ti facesti un taglio sul pollice e quando arrivava la razione, dopo averla ingerita, aprivi la ferita, succhiavi il dito, ingoiavi il sangue e dopo, con tutto il dolore dell’anima e della fame, vomitavi nel piatto, in modo che qualsiasi infermiere avesse la prova dell’ulcera. Questo ti offrì, certo non grandi cose, ma almeno un po’ di latte e la nobilitante certezza che li avevi presi in giro.

117


FH :

Sì, la cosa più incredibile fu questa. Loro avevano la certezza che io avessi l’ulcera, ma non mi mandavano all’ospedale. Se l’avessi avuta realmente, avrei tirato le cuoia.

MR:

Però avevi ottenuto qualcosa, una cosa che aveva un significato formidabile; ti alimentarono con un litro di latte al giorno; anche se scaduto e sporco.

FH :

Quello che ti volevo dire, prima che iniziassi a parlare del trasferimento propriamente detto, e dei suoi antefatti, è che tutti i carcerieri sanno che i prigionieri sono dei grandi simulatori. Ma qualsiasi psichiatra sa che molte malattie iniziano con la loro simulazione.

MR:

Tanto uno minaccia il suicidio, che diventa un potenziale suicida.

FH :

Fino al punto che quando eravamo nell’isola del 3HQDO GH /LEHUWDG, nel 1984, portarono un compagno che stava fingendo. Siccome io ero vicino al luogo in cui davano gli ordini, sentii chiaramente che dicevano: «Questo detenuto non è in punizione, viene qui per un periodo di tregua. Trattatelo bene, sta fingendo di essere pazzo, ma non sa di esserlo realmente».

MR:

E a quel punto ognuno di noi, senza arrivare al knock out, già era fuori combattimento. Io avevo un’infezione renale, l’acido urico si accumulava nelle articolazioni; con l’umidità e il freddo mi facevano male le anche, che erano a contatto con il pavimento di cemento, senza niente su cui stendersi, i bagni freddi, l’umidità dei FDODER]RV... C’era, pertanto, una manifestazione organica della malattia. E allora io dovevo dimostrare, a partire da questa malattia reale, che la sua manifestazione organica era di origine psichica. Mi venne in mente di creare uno stato d’incontinenza delle vie urinarie. Cioè che avevo perso il controllo dello sfintere. Spiegai che soffrivo di momenti di alienazione in cui si annebbiavano i pensieri e, improvvisamente, quando ritornavo in me, non sapevo quanto tempo era passato. Avevo la sensazione che un altro essere abitasse il mio corpo in quel momento e controllava il mio organismo, soprattutto lo sfintere. Era per questo che dovevo farmela sotto, nel letto. Quella era una “piscio-room”. Su questa base e dopo il racconto di alcuni sintomi che avevo assimilato in qualche modo nelle mie letture, riuscii a creare l’atmosfera necessaria. A questo scopo contribuiva un altro concetto, cioè che sebbene il medico e il comandante fossero d’accordo e condividessero il tipo di reclusione alla quale eravamo sottoposti, non volevano che disturbi gravi si producessero sotto la loro giurisdizione.

FH :

Volevano che ci ammalassimo, che impazzissimo e che ci suicidassimo, ma non a casa loro.

118


MR:

Quando facemmo questo piano ci dicemmo, attraverso la parete, che da quel momento in poi avremmo dovuto avere nel FDODER]R un cartello immaginario che diceva: «Anche qui si lotta».

FH :

Il fatto che loro portassero la situazione fisica e psichica a tali estremi e poi si fermassero, aveva anche un’altra spiegazione: gli ostaggi servono se sono vivi. Quello che volevano era farci soffrire, e una persona soffre finché vive, finché è lucida e in condizioni fisiche più o meno decenti. Per soffrire bisogna essere vivi.

MR:

Durante quei giorni a Rocha non avevamo possibilità di comunicare. Ma siccome avevamo già elaborato il piano a Melo, quando mi ricoverarono in ospedale cercai di lasciarti un messaggio.

FH :

Se ti portano via come faccio a sapere che è per la “caduta”? Era probabile che portassero in qualsiasi momento in ospedale uno qualsiasi di noi per una malattia vera. O alla tortura o da un’altra parte. Allora concordammo che se il trasferimento fosse stato conseguenza della “caduta”, prevedendo che probabilmente non avremmo avuto materiale per scrivere...

MR:

... nel bagno che avevamo in comune avremmo dovuto lasciare una lettera “C” dipinta con le feci.

FH :

L’unico materiale pittorico che riuscivamo ad avere a portata di mano e che non potevano toglierci.

MR:

E fu così che un giorno lasciai stampata, con questa sostanza plastica e inerte, il segno convenuto: una incoraggiante “C”.

FH :

Cosa che mi riempì di entusiasmo e di speranza, perché il piano stava prendendo forma. Avevo la certezza che tu, nell’Ospedale Militare, avresti potuto entrare in contatto con altri compagni, trasmettere informazioni su quello che ci stava succedendo e scoprire qualcosa. Noi arrivammo a Rocha il 16 marzo, ti devono aver trasferito all’ospedale poco dopo. Sai perché? Perché il 2 aprile già non c’eri, te n’eri andato uno o due giorni prima; non lo dimenticherò mai, perché quel giorno Rocha si trasformò in un inferno, più di quanto lo fosse già. Per strada stava succedendo qualcosa, non so cosa. Alle 8 di sera, un 2 aprile, aprirono il FDODER]R mio e di Pepe e ci comunicarono: «È morto un soldato e adesso voi la pagherete». La pagammo per settimane...

MR:

Credo di sapere cosa successe: lo venni a sapere in ospedale. Te lo racconto.

119


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MR:

Diretti all’ospedale, facemmo scalo al Battaglione Florida. In quel momento mi assalì la paura che mi lasciassero lì. Iniziai a registrare informazioni. Sentii commenti che dicevano che la quantità di reclusi che tenevano lì era tale che dovevano alzare un tendone enorme in mezzo alla Piazza d’Armi; i sottoscala erano sovraffollati. Alla fine svanisce il mio dubbio e avanziamo verso l’Ospedale Militare. Allora mi pervase la sensazione di recuperare la famiglia e i quartieri perduti, quando da sotto il cappuccio sentii il grido degli “strilloni” per strada, il rumore del traffico, la sensazione della vita dimenticata.

FH :

La “musica” di Montevideo...

MR:

Eravamo nella zona vicina al mio quartiere, a otto o nove isolati dalla casa dei miei genitori, vicino al campetto dove giocavo a calcio da ragazzino. Tutto ciò mi diede una sensazione di allegria e familiarità formidabile. Quando mi lasciarono in ospedale mi portarono nella sala 8 che già conoscevo, perché a causa delle torture mi avevano già dovuto ricoverare in barella...

FH :

In quale anno?

MR:

Dopo poco che ero caduto. Caddi nel maggio del ‘72 e a giugno, dopo interrogatori in unità sconosciute, che avevano in comune lo stesso voltaggio, mi trovai in questa stessa sala 8, dove dopo aver ripreso i sensi, camminai un paio di giorni su una sedia a rotelle, delle più comode. La doppia fila di letti era stracolma di compagni, quasi tutti ricoverati per le torture. Mi misero in un letto, tra le lenzuola. Dormii tra le lenzuola! Perché abbiamo dimenticato di raccontare che dormivamo con i pantaloni e la maglietta. Il contatto con le lenzuola era scomparso dalla mia memoria. Entrò per visitarmi uno specialista in questioni renali che mi fece un esame che non riuscì a concludere perché a metà della visita lo lasciarono senza paziente. Mentre mi facevano queste analisi mi visitò lo psichiatra che era un chiaro, chiarissimo dirigente della -XYHQWXG 8UXJXD\D GH 3LH18.

FH :

Un’organizzazione fascista.

MR:

È strano; era un’organizzazione che in quel periodo sembrava di “sinistra”, se paragonata alle forze che si stavano consolidando al potere.

FH :

Mi trovai allora in una sala enorme, in cui c’era l’ordine del silenzio; non si 120


poteva parlare tra reclusi. Ci saranno stati una quarantina di letti. Un tramezzo di lenzuola divideva la sezione delle donne da quella degli uomini, con un bagno in comune. Lì vidi il “0XxHFR” Selves, un compagno che era caduto un anno prima. Venimmo a sapere che era stato preso quando eravamo nel 3HQDO GH /LEHUWDG; lo stavano ancora torturando. FH :

Che malattia aveva in quel momento?

MR:

Un’infezione renale molto grave, provocata dai colpi. Aveva la febbre tutti i giorni. Seppi che lo tenevano da mesi nudo in un FDODER]R che inondavano in continuazione. Era caduto insieme a due compagni che, come ci dissero poi, erano morti sotto tortura. La sala 8 era custodita dalla truppa della Sezione d’Ingegneri I, unità da cui procedeva e dove sarebbe tornato Selves. Nel settore delle donne c’era una vecchia compagna, María Elena Curbelo. Aveva una malattia molto grave che la stava portando alla paralisi: la spina bifida. Già era stata torturata dagli ufficiali, appena presa; conoscendo la sua malattia e constatando che in quella zona aveva un tumore, quando le applicavano la SLFDQD , avevano l’acutezza e l’intelligenza sufficiente per puntarla lì. Anche nelle carie. Doveva camminare con un “girello”; era praticamente paralitica. Ma il sorriso, tenero ed energico, non la lasciava mai. ✟

Un giorno ricoverarono una compagna che si era tagliata con una bottiglia. L’aveva rotta e se l’era piantata nel collo. FH :

Soluzione comoda per uscire dalla tortura...

MR:

Veniva dalla sezione di Artiglieria I di La Paloma, in cui il capo in seconda era il maggiore Gavazzo. Il fratello di questa compagna fu crivellato dopo uno scontro in cui perse la vita un soldato. Mi chiedo se non sia stato questo a provocare le codarde rappresaglie a Rocha. Lei l’avevano ricoverata moribonda. Dopo 24 ore, ancora con il dispositivo per la tracheotomia posizionato nel collo, ordinarono di portarla via, e la portarono, in barella, alla sezione di Artiglieria I per continuare l’interrogatorio. Questa compagna, quando passò davanti al mio letto, nonostante il suo stato – era una donna molto magra, molto piccola –, alza il suo minuscolo braccio con grande dignità e chiude il pugno, come a voler dire “forza compagno”. Lei, che veniva dalla tortura e alla tortura tornava, con una tracheotomia nel collo lacerato...

FH :

Io inaugurai questa sala; mi portarono il 14 aprile, ed il 16 sarebbe stato dichiarato lo “stato di guerra interno” e sarebbe iniziato questo processo dantesco che stai raccontando. Caddi ferito. Mi spararono diversi colpi al momento della cattura. Fu necessario un intervento chirurgico. La mia vita è stata salvata miracolosamente da una serie di casualità. Dico “è stata 121


salvata” perché assistetti, da ferito, a come uccisero a terra, il 14 aprile 1972, il compagno Martirena e sua moglie. Dopo averlo crivellato a colpi di pistola gli chiedevano come si chiamasse (era a terra, moribondo) solo per sapere se era vivo; rispondeva con un filo di voce, che io non riuscivo a sentire da dove mi trovavo. Allora quelli gli dicevano, immobili attorno alla sua pozza di sangue: «Allora non ti è bastato?» e ricominciavano a sparare. MR:

Ricordo molto bene quel giorno perché avevo seguito le vicende con altri compagni, e chiamai per parlare con Martirena. Mi rispose una voce che non era della casa. Poi i notiziari iniziarono a dare i nomi dei caduti. Tu non comparivi. Io conoscevo l’esistenza di quel “nascondiglio” e sapevo che potevate esserci tu e Cámpora. Allora iniziamo a organizzare un comando per riscattarvi quando si fossero ritirate le truppe e avessero lasciato solo un custode nella casa. Ma all’istante veniamo a sapere dalla radio che il nascondiglio era stato scoperto e che ti avevano catturato insieme a Cámpora, con un colpo nel collo e un altro nel piede.

FH :

Mentre mi dissanguavo nel “nascondiglio” sentii queste cose. Questo è quello che successe: la polizia speciale che stava cercando il nascondiglio e quelli che avevano collaborato alla morte di Martirena e sua moglie, lo trovarono. Ma per un motivo a me sconosciuto non lo aprirono. Ci rimase il dubbio se l’avessero scoperto o no. Allora un soldato dell’esercito, che andò in bagno (la porta del nascondiglio era lì) vide gli strani movimenti della polizia e li comunicò al suo capo. Gli disse: «Con permesso, capitano; nel bagno della casa succede qualcosa, sembra che abbiano trovato il portello del nascondiglio». Il soldato non si rese conto che c’erano due persone che parlavano con il capitano: una di loro era il giudice, l’altra il medico legale. Avevano scoperto il portello e stavano aspettando che se ne andassero il giudice e il medico per aprirla. L’“imprudenza” di quel soldato ci salvò la vita. Allora vengono il medico e il giudice insieme al capitano Campos Hermida. Solo questo mi permise di uscire vivo e di essere portato via dalla casa, non lo dimenticherò mai, passando sulla pozza di sangue di Martirena.

MR:

Ti ricordo una cosa che sicuramente potrai spiegare meglio, ovvero come riuscirono a trovare il nascondiglio. Il portello stava sul soffitto del bagno e portava a un piccolo spazio vicino alle tegole. Si vede che nella fretta, quando chiudeste il portello, rimase un filo pendente. Qualcuno lo vide e non riuscì a spiegarsi cosa fosse...

FH :

Si mossero per ucciderci, non per catturarci. Effettivamente loro, prima di entrare in casa, spararono con fucili e mitragliatrici. Noi stavamo dentro il nascondiglio, lavorando, quando inizia la sparatoria. L’unica cosa che dovemmo fare fu chiudere il portello. Avevamo una ricetrasmittente che captava le comunicazioni della polizia e sentivamo quando arrivava. 122


Chiudiamo il portello e immediatamente mi arrivano due pallottole. Perché? Perché il nascondiglio era costruito sul soffitto della casa. Quelli sparavano dalla strada e i proiettili che entravano dalla finestra attraversavano il soffitto. È un miracolo che non abbiamo ricevuto altri colpi, perché tutto il pavimento su cui stavamo era ridotto a un colabrodo. Dei proiettili che entrarono, tre mi colpirono. Aspettavo la morte (il sangue usciva a fiotti dal mio collo) e, allo stesso tempo, ascoltavo quello che stava succedendo a Martirena e che ti stavo raccontando. Tutto in pochi secondi. Per queste casualità vengo trasferito in un’ambulanza e mi accompagna il medico legale. Quell’uomo non condivideva le nostre idee ma, quando mi consegnò al “pronto soccorso”, disse: «Voglio un documento che attesti che lo consegno vivo». Credo che glielo diedero. Praticamente subito dopo passai nella sala operatoria e poi arrivai in questa sala numero 8 che stai descrivendo. C’erano pochi ricoverati: eravamo solo all’inizio. C’eravamo io e due o tre compagni che venivano dalle torture del Comando di Polizia. C’era anche un’altra persona. Un giorno portano, insanguinato, dalla sala operatoria, con diverse ferite sul corpo, un ragazzo di circa 17 anni, molto robusto, che aveva il corpo sudicio. Delle monache lo lavarono. Dopo seppi tutta la storia. Questo ragazzo, che non aveva niente a che vedere con il Mln-T né con nient’altro, stava incitando con il frustino un cavallo da corsa nella zona dell’ippodromo di 0DURxDV. Gli intimarono l’alt, ma siccome non lo sentì, continuò al trotto. Crivellarono lui e il cavallo. Quando lo trovarono e lo portarono all’ospedale si accorsero che non c’entrava niente; allora, in mia presenza, vidi e sentii gli ufficiali dell’Esercito dire che lo avrebbero curato, che sarebbe tornato sano, che gli avrebbero dato alcuni pesos perché si potesse riprendere, a patto che non andasse a raccontare a nessuno cosa era successo. Il giorno seguente arrivarono i due sopravvissuti dell’attentato che avevano fatto nella Sezione 20 del Partito Comunista. Credo che io e un altro compagno siamo stati gli unici testimoni della morte di Zerbino. Era in un letto, pieno di tubi, con un apparecchio che lo aiutava a respirare e che faceva molto rumore. Il rumore della sua respirazione, che ci accompagnava giorno e notte. A volte, drammaticamente interrotto. Avrei assistito, con molta rabbia, a come qualche infermiere militare si prendeva gioco di quell’uomo che stava morendo. MR:

Questo mi riporta alla memoria alcune immagini che vidi nella Sala 8. Un giorno portano un vecchio compagno che conoscevo, un operaio. Era in un nascondiglio quando fu catturato. Ci fu una sparatoria, a un certo punto i suoi compagni esaurirono i colpi e si consegnarono e lui, durante la tremenda agonia alla quale fui presente, raccontava, nel pieno di un’eccitazione delirante, che l’avevano mitragliato dopo averlo già 123


ammanettato. Aveva l’intestino perforato dalla raffica. Era Sanzó. L’avevano assistito in modo pessimo e quando videro che agonizzava, solo allora, lo portarono all’Ospedale Militare. Lo tormentava la sete, non poteva stare steso, l’avrebbero operato d’urgenza. Era pallido e chiedeva insistentemente acqua. A volte gli portavano un panno bagnato che poteva appena avvicinare alle labbra. Fu così che lo portarono. Fu così che morì. [...]

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MR:

Dopo pochi giorni mi vengono a prendere, un’altra volta direzione Rocha, dove, a causa di un cambio, tu che in quello stesso intervallo eri andato dal giudice, eri in un FDODER]R attiguo e così riuscimmo a ricominciare le conversazioni che fino a quel momento riuscivamo a mantenere solo con i nostri fantasmi.

FH :

Eravamo i negromanti del pozzo, lo popolavamo di spiriti.

MR:

Come dicevano tra loro Babieca e Rocinante: «Ti senti metafisico?» «È che non mangio». Cosa che mi ricorda un dialogo sconclusionato, ma nostro. Fu a Santa Clara. Avevamo la sensazione – la sensazione? – di essere giunti alla fine, logorati al massimo, e volevamo prendere provvedimenti disperati per farci trasferire in un altro luogo, in condizioni migliori. Sognavamo l’Ospedale. Ipotizzavamo la possibilità di attentare al nostro organismo, per procurarci una malattia o ferite tali che li obbligassero a trasferirci.

FH :

Il problema era trovare i mezzi per farlo.

MR:

Ovvio, non era semplice. Tu avevi una scorta, un arsenale, e un giorno mi chiedesti cosa ti sarebbe successo se avessi ingoiato un chiodo; ne avevi uno di due centimetri, piegato e arrugginito. Ti rispondo: «Niente, perché te lo tolgono con una sonda». Poi ipotizzasti la possibilità di tagliarti le vene con un piccolo pezzo di latta che era sicuramente di quelli con cui si chiudono i sacchetti di nylon nei supermercati. Io ti risposi immediatamente con un colpo che era un no secco. Scartato questo, ti chiedesti come utilizzare uno spillo, per un autovaccino, utilizzando il verderame del cesso, che da secoli non era stato pulito a fondo. Lo estraevi con le unghie quando ti era possibile; poi tornavi con questo materiale preziosissimo, te lo applicavi sul braccio e con 124


uno spillo ti facevi un auto-vaccino, con la speranza di prendere un bel tifo che, tra le altre cose, avrebbe generato la paura del contagio sia per il corpo di guardia che per l’intero comando. Avrebbero dovuto portarti in qualche luogo dove curarti per farti riprendere. L’altra cosa che sognavamo era una stupenda tubercolosi, che ci avrebbe portato al Saint Bois. FH :

A questo punto eravamo seriamente arrabbiati con i nostri corpi perché nonostante tutto quello che soffrivano...

MR:

... continuavano a rispondere, sembra uno scherzo.

FH :

Si mantenevano vitali...

MR:

... assolutamente intestarditi a continuare a vivere e a tirare avanti “in salute”.

FH :

Nonostante i calcoli che avevamo fatto a Melo, nel 1974, che così non avremmo potuto andare avanti per più di sei mesi, già erano passati diversi anni e i nostri corpi continuavano a funzionare.

MR:

Dopo quest’operazione di auto-vaccino, che continuasti quotidianamente per settimane, prendesti la febbre e...

FH :

... s’infiammò il braccio, mi uscì una specie di eczema dove conficcavo lo spillo. Mi vide l’infermiere. Mi prescrisse il dipirone.

MR:

In tutto questo, Pepe, con il quale non potevamo comunicare, viveva la sua agonia.

FH :

Drammatica, i fantasmi lo tormentavano.

MR:

Pepe si accorse di parlare ad alta voce, come facevamo noi. Di fronte alla paura di farlo anche in sogno, e di dire qualcosa di pericoloso, iniziò a pensare che avessero nascosto un registratore nel suo FDODER]R. Questo, che non fu mai vero, lo era per lui al punto che “sentiva” il ronzio del registratore e “credeva” che alzassero il volume per tormentarlo. Questo registratore inesistente iniziò a ronzare così tanto da non lasciarlo dormire e, a volte, Pepe gridava chiedendo che lo spegnessero. Per noi non c’erano frontiere tra la realtà e l’immaginazione. Era un tutt’uno.

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125


FH :

Un giorno iniziano a fare i preparativi di routine per un viaggio. Non so cosa stia succedendo in Uruguay all’inizio di giugno del 1974. Avevo sentito che, a metà maggio, la caserma era in stato d’allarme, e mi resi conto che la cosa non era contro di noi, ma a causa di problemi interni all’esercito. Questo trasferimento era organizzato con speciali misure di sicurezza. C’era una grande quantità di veicoli; mi portarono nel cassone di un URSHUR, solo, avvolto nel fil di ferro come un salsicciotto.

MR:

Come un fagotto in deposito.

FH :

Come un salsicciotto, così, e basta. Provarono le ricetrasmittenti dei vari veicoli, e gli ufficiali ordinarono di muoversi in “estremo stato d’allerta”. Viaggiamo tutta la mattina su strade pessime. Dopo una sosta sento ordini impartiti con grande durezza: «Allora, adesso sì, entriamo nella zona pericolosa, quindi tutti con gli occhi ben aperti e proiettili in canna». Inizio a sperare che il viaggio sia verso Montevideo, e ne ho la conferma quando vedo, grazie ad un foro nel cappuccio, che i raggi del sole s’inclinano su di un solo lato del camion. Inizio a sentire l’aumento del traffico sulla strada, il cambio nei rumori del motore, mi accorgo quando attraversiamo un ponte.

MR:

Cercavi di calcolare quale ruscello attraversavamo.

FH :

Sicuro, calcolavo; mi accorgevo che entravamo in un paesino e alla fine ebbi l’inconfondibile sensazione che eravamo a Montevideo.

MR:

Il traffico.

FH :

Il rumore dell’autobus, le urla di qualche ragazzino. Arriviamo in una caserma. Mi tolgono il cappuccio e le manette, e mi mettono in un FDODER]R grande, con inferriate. Viene un ufficiale e mi dice: «Qui siamo nel 13esimo di Fanteria, ti visiterà il medico per vedere come stai. Ti hanno picchiato? Hai qualche segno? Guarda che noi non vogliamo correre rischi con le stronzate che hanno fatto altri, su, mostrameli».

MR:

Già bastavano le loro.

FH :

Poi seppi che mi avevano trasferito perché il mio avvocato era finalmente riuscito a farmi portare davanti alla giustizia.

MR:

La convocazione del Giudice Civile.

FH :

Ma sembra che c’erano stati cambiamenti nel comando dell’Esercito in quel periodo, credo che se n’era andato Chiape Posse, che aveva assunto il comando Vadora, e che fu dato l’ordine che io non andassi, per nessun motivo, davanti al tribunale civile. Così quando ci fu Uruguay-Svezia per i Mondiali di calcio del 1974, fui trasferito di nuovo. Fu tale il grado d’immobilità al quale mi sottoposero, che un sergente del 13esimo di 126


Fanteria che assisteva a tutto, disse: «Ehi, per caso vi servono dei chiodi?» Il dettaglio “squisito” fu che quando mi tolsero il cappuccio del 13esimo per mettermi quello di Rocha, dissero: «No, no, aspetta, aspetta!»: si allontanarono, lo bagnarono con il gasolio, e me lo misero. E così passai il viaggio a vomitarmi addosso. MR:

Il lungo viaggio verso la giustizia non arrivava mai a destinazione. Tornava sempre al punto di partenza.

7HQHWH GXUR

MR:

Eravamo attaccati alla vita come l’edera al muro. Attaccati in modo tale che godevamo dei più piccoli segnali di una natura che ci era preclusa: la tela di un ragno, la fugace incursione di un’ape nel FDODER]R, la voce lontana di un bambino. Erano i grandi eventi del giorno e ne godevamo intensamente. Accadeva lo stesso con un piatto di cibo un po’ più pieno del normale, o un pomeriggio passato in tranquillità, senza maltrattamenti né insulti, o un’informazione che riuscivamo a pescare, o – quando avevamo a disposizione una lattina – la possibilità di pisciare con autonomia tattica. Tutto ciò nutriva insaziabilmente la nostra voglia di vivere. Come mi disse un giorno un soldato ubriaco (non mentono mai) davanti allo spioncino: «Quando la luce si spegne nessuno vuole morire». Non pensai mai al suicidio come un’alternativa. Perché, in qualche modo, sentivo che stavo sviluppando un atto di militanza che andava al di là di quella politicosociale ed era, in definitiva, una battaglia per la vita.

FH :

Le aggressioni che subivamo non erano più contro i militanti politici di un’organizzazione concreta. A quel punto, stavano aggredendo il genere umano tramite noi. Quello che stavano facendo andava al di là del fatto politico e della questione ideologica. Gli stessi soldati iniziano a rendersene conto, e una delle cose che per prima mi fa riflettere su quest’argomento – in mezzo a quella nebbia mentale in cui vivevamo –, fu la volta in cui un soldato disse: «Io non sopporterei quello che sopportano questi, io mi ucciderei». E allora io ragionai. Perché non mi uccidevo? Perché continuavamo a stare attaccati alla vita? Quando ci proponemmo di attaccare un cartello immaginario nel FDODER]R con su scritto: «Anche qui si lotta», stavamo dando un senso a questa vita. Ma poi, pensare di arrivare al suicidio, a mio avviso, è un problema di disperazione. Vivevamo aspettando un’azione dei compagni; io ti avevo consigliato, nel caso in cui se ne fosse andata la corrente, di provare a metterti in un angolo 127


della cella dove non potevano arrivare gli spari... MR:

In caso di allarme si avviava un’“operazione”; si aprivano le porte, ci facevano stendere a terra, e c’era una guardia in ogni cella con un proiettile in canna, che ci puntava.

FH :

L’ordine, in caso di attacco alla caserma, era annientarci. A Treinta y Tres l’ordine non solo era di spararci, ma anche di tirare una granata in ogni FDODER]R.

MR:

Granata a frammentazione. M66, che spaventava anche le guardie...

FH :

La guardia diceva: «Io non tiro niente, perché anche noi ci rimaniamo secchi».

MR:

Saremmo stati sempre attenti al minimo movimento anormale della truppa, soprattutto di notte, aspettando i compagni, aspettando il riscatto, sperando, soprattutto in quelle caserme in cui i FDODER]RV erano vicini alle guardie. Aspettando qualche incursione...

FH :

... una sparatoria o qualcosa del genere. Allora pensavo sempre, sognavo, mi mettevo nei panni dei compagni, cosa avrei fatto io...

MR:

Che era uno dei piani che avevamo quando riflettevamo sulla possibilità che ci trasferissero, a te al tribunale, a me all’Ospedale Militare; sapevamo che in una qualsiasi delle due situazioni, i compagni, se ne erano al corrente, avrebbero potuto trovare il modo di riscattarci.

FH :

E pensavo che di fronte a tali circostanze dovevo essere in uno stato di salute più o meno accettabile, perché altrimenti mi sarei vergognato di fronte ai compagni se avessi dovuto correre, saltare o fare uno sforzo fisico. Esattamente per questo, per questa speranza, non eravamo disperati: confidavamo nel popolo, confidavamo nell’Organizzazione.

MR:

Molti compagni fantastici si suicidarono o provarono a farlo per non affrontare la tortura. In questo caso è molto diverso. Nepo, per esempio, interrogato e minacciato da Gavazzo, sospettò che sarebbe stato torturato di nuovo a Paso de los Toros e riuscì a tagliarsi le vene. È una situazione diversa. Ho meditato molto su questo, e sono arrivato alla conclusione che tanto nella situazione in cui eravamo noi, tanto nella tortura, la questione fondamentale non era esclusivamente, anche se aveva il suo peso, la convinzione ideologica che potevi avere; ma che qualsiasi individuo, qualsiasi fosse la sua ideologia, cristiana, marxista, buddista, avrebbe trovato dentro di sé, perché è qualcosa che riguarda tutti gli uomini, le riserve sufficienti per difendere con le unghie e con i denti la vita e, inoltre, con dignità. Perché una delle motivazioni che ci faceva tirare avanti era resistere, ma resistere con dignità. 128


FH :

La cosa era diventata così estrema che una volta un soldato – dei pochi che incontrammo con la testa e le palle al posto giusto –, alcuni anni dopo visitò i nostri FDODER]RV, era solo, e le uniche parola che ci disse – era un soldato amico evidentemente – furono: «Tenete duro!» A bassa voce, come un sospiro, come un’esigenza.

MR:

Tenere duro per, tra le altre cose, fare quello che stiamo facendo ora e che ho pensato di fare molte volte: «Devo sopportare, devo resistere per testimoniare». Uno dei motivi, uno dei gradini a cui ci aggrappavamo per scalare il pozzo risalendo dal fondo, era che dovevamo comunicare ai compagni, alla famiglia e all’umanità quello che stavamo soffrendo, e che sentivamo la necessità di testimoniare non solo per noi, ma anche per tutti quelli che erano passati per una situazione simile o per quelli che avevano vissuto la nostra stessa situazione e non ce l’avevano fatta. Se dovessi sintetizzare quello che stiamo facendo in questo momento, direi che è un canto alla vita.

FH :

Questa è una testimonianza di vita. Qui non c’è rancore, non c’è desiderio di vendetta, non c’è alcun desiderio di aggettivare la violenza che capi, ufficiali e classi intere ci riservarono, ma prima di tutto è un canto alla vita, una riaffermazione vitale. [...]

, EHQL WHUUHQL

FH :

Ci avevano costretti a un altissimo livello di dipendenza. Ovvero: eravamo esseri talmente sottomessi che finanche per andare in bagno dovevamo dipendere da un soldato. In modo che ogni conquista per ottenere l’indipendenza era un passo verso livelli maggiori di libertà.

MR:

Questo comporta implicitamente una questione che fu cruciale per noi. Durante i primi tempi, ogni volta che riuscivamo a trovare un meccanismo che ci rendesse indipendenti, non ne potevamo più fare a meno. Se ci davano un libro, diventavamo dipendenti dal libro; se ci davano il mate, dipendenti dal mate; se ci davano mezzo pacchetto di tabacco, dalla tranquillità di poter fumare. Ma, ogni tot di tempo, sistematicamente, ci lasciavano senza niente, ci facevano sprofondare nella disperazione di aver perso i pochi beni terreni che avevamo. E questo ci portò per mano a 129


stabilire un criterio: non ci potevamo attaccare a nessun bene. Ci potevamo appoggiare esclusivamente a ciò che non ci potevano togliere: la nostra vita interiore, i sogni, le fantasie, le idee. Non ci potevamo innamorare di uno spillo, di un libro o dei quattro mozziconi che ci portavano ogni morte di papa. FH :

Arrivammo al punto di riscoprire lo stoicismo. Di scoprire l’atarassia e l’apatia. Di non gioire per una nuova conquista, né rattristarci per una perdita.

MR:

Dovevamo staccarci anche dalla famiglia e dal mondo esterno. Nell’“al di là” del muro non esisteva niente; quando arrivava il giorno delle visite, vivevamo in uno stato di grande tensione, aspettando la famiglia. All’improvviso non arrivava, o non l’avevano autorizzata. Lo stesso con la corrispondenza. Non potevamo vivere, come vivemmo durante i primi anni, aspettando costantemente qualche notizia, qualche lettera in cui leggere tra le righe, qualcosa che ti mandava la tua compagna, o la mia. Allora provavamo a metterci una corazza per non dipendere dagli avvenimenti esterni.

FH :

Ruso, credo che scoprimmo una delle emozioni più sconvolgenti per una persona, che è avere pena di se stessi. Non si deve cadere in questa tentazione, perché se qualcuno lo fa, crolla.

MR:

Siamo in attesa costantemente di una mano amica, una parola di conforto, un atteggiamento che ci restituisca alla nostra condizione umana. Ricordo lo strano stato di felicità che m’invadeva quando il sergente, il soldato che ci apriva la porta, per qualsiasi motivo, ci dava il buongiorno. Quelle due paroline saltellavano nel FDODER]R e ci cambiavano l’umore. Questo mi riportò alla memoria un’avventura di Oscar Wilde. Lui, che apparteneva alla più antica aristocrazia inglese, fu rinchiuso per due anni nel carcere di 5HDGLQJ, rasato, umiliato, obbligato ai lavori forzati. Un giorno, mentre lo portavano in tribunale, incrocia un vecchio amico che al suo passaggio, questo si scopre il capo e lo saluta come un signore. Wilde inserisce quest’aneddoto nella sua %DOODWD GHO FDUFHUH GL 5HDGLQJ Edt (Edizioni di Torino) 2009, ricordando la sensazione di recupero dell’integrità umana che aveva provato in quel momento. Ma non si deve dipendere da questi eventi eccezionali, perché sennò, sei morto.

FH :

L’insulto, la mancanza di rispetto, l’annientamento della dignità realizzano, in queste condizioni, l’obiettivo di distruggere la personalità. Se uno ha pena di se stesso, entra in questo gioco. Un compagno, che era un professionista, mi raccontava che aveva resistito perfettamente alle peggiori torture, ma non sopportava che lo insultassero. Sopportava i colpi, la SLFDQD, ma quando lo lasciavano in piedi e gli dicevano «Ehi, vecchio figlio di 130


puttana», questo lo demoralizzava a un punto a cui la tortura fisica non arrivava. Così, in tutti quegli anni, imparammo ad essere duri. Cancellarono il sorriso dai nostri volti. Ma dicevamo sempre, quando notavamo che non ci emozionavamo davanti alle buone o cattive notizie o davanti alle cose dolci, di fronte alle quali si sarebbe emozionato qualsiasi essere umano, che quell’irrigidimento era paradossale, perché circondava le cose più dolci – che erano di nostra proprietà, che nessuno poteva toglierci – con una corazza forte, protettiva, in modo che non ce le potessero strappare. MR:

Ovvio, non era insensibilità. Era una difesa. Qualsiasi novità arrivasse, rimbalzava tra le pareti del FDODER]R e poteva ingrandirsi fino alla depressione. Rielaboravamo le notizie cattive e arrivavamo a conclusioni funeste. Allo stesso modo la parvenza di una buona notizia ”dava corda” all’immaginazione che ci portava a passeggiare per le strade e, cosa sempre “inclusa nel prezzo”, a pisciare a discrezione in qualsiasi posto.

FH :

Quello che cercavamo di evitare erano le ripercussioni più dannose: le grandi demoralizzazioni o i grandi entusiasmi che facevano perdere allo stesso modo la nozione di cosa stesse succedendo. I nostri beni terreni erano quelli che conservavamo nel nostro intimo, più tangibili di quelli esterni. [...]

,O WHPSR TXHVWR VFLURSSR GHQVR

FH :

La maggior parte di questo racconto dovrebbe essere un silenzio totale e assoluto; perché quello che marcherà questo tempo prolungato sarà il silenzio, totale ed assoluto; è il NIENTE ; il non accadere niente; ne dobbiamo parlare...

MR:

È il tedio e l’incertezza.

FH :

Non so come dirlo, per far capire cosa significa stare più di un decennio in condizioni in cui non succede niente...

MR:

Il problema era non solo far passare i giorni e i mesi, ma bisognava scalare minuto per minuto, dalla sveglia alla consegna dei materassi, e anche durante la notte. Una lotta costante contro i minuti, perché ogni minuto 131


che arrivava era perfettamente uguale al precedente. Al quale si aggiungeva lo stato d’incertezza. Ogni volta che si sentiva il rumore metallico del portone di ferro o il passo di un ufficiale o di un soldato, ci chiedevamo: «E ora che ci faranno? Dove ci colpiranno?» 3HQDO

FH :

E quella sottile speranza che avevamo all’inizio di essere riportati al l’avevamo persa per strada.

MR:

Non aspettavamo niente, non succedeva niente.

FH :

Solo il passo lento del tempo, come uno sciroppo denso.

MR:

Quando un prigioniero sa che starà sei mesi in queste condizioni, o un anno, o tre, o dieci, condiziona l’animo e il pensiero in qualche modo, per sopportare questo periodo di tempo, sapendo che avrà fine. Ma nella nostra condizione, senza informazioni, senza notizie, con una condanna che poteva essere perpetua, fino alla morte o alla follia, non avevamo i mezzi per condizionare niente. In questo testo, logicamente, raccontiamo quello che si può raccontare: alcune cose, poche, che ci accaddero. Ma quello che ci accadde di più, ovvero, NIENTE , per anni NIENTE , questo, come, come lo raccontiamo?

FH :

Mentre il tempo si trasforma in un trascorrere lento (e a Minas si esaspera questa condizione), tutto sarà un’inutile routine, voi, ad esempio, tu e Pepe, che siete con me nello stesso reparto dei FDODER]RV, iniziate ad essere presenze lontanissime, perché, siccome non ci vediamo, né abbiamo l’opportunità di scambiarci qualcosa, nemmeno un occhiolino... È un fenomeno stranissimo. Con il tempo, voi, del FDODER]R affianco, iniziate ad essere lontani come la mia famiglia, la mia infanzia, il mio passato. Iniziate ad essere ricordi.

MR:

Anche noi eravamo esistenze spettrali...

FH :

... voci; che all’inizio erano voci molto presenti, «Lì c’è il Ruso che chiede di andare in bagno, o Pepe che si lamenta perché il fil di ferro è troppo stretto». Ma dopo, quando la voce del Ruso diventava routine, e anche quella di Pepe, iniziano ad essere rumori inglobati nell’atmosfera, come se tu e Pepe foste all’esterno. Erano in un altro mondo: dall’altro lato del muro; il che significava lontanissimo. Ognuno di noi inizia a sprofondare in se stesso. L’unico mondo abitabile...

MR:

Anche in queste condizioni, ascoltare i rumori che tu e Pepe producevate mi dava l’impressione di essere integrato nel mondo. Ricordo chiaramente nelle catacombe di Paso de los Toros, quando in mezzo a quel silenzio sentivo te e Pepe che ricorrevate alla lattina e producevate una cascatella che sembrava...

132


FH :

... il rumore di una pisciatina...

MR:

... l’indizio di un altro essere umano, di una coscienza con il desiderio di pisciare, ed era confortante. «Non sono solo, loro sono lì». Pisciano ancora. Questi suoni mi rallegravano in qualche modo, perché era la presenza di esseri umani amici.

FH :

Credo che la gente pensando a noi possa immaginare esseri che vivono nella solitudine più profonda, ed è un errore. Noi vivevamo nell’assenza di comunicazione più profonda, che è una cosa diversa. Appena la persi, capii che la solitudine è un attributo della libertà; come dire, la possibilità di essere solo. Se qualsiasi essere umano vuole rimanere solo questo pomeriggio o domani, lo fa.

MR:

Per ritornare a reintegrarsi, quando ne ha voglia, al mondo abitato. L’uomo è un animale sociale. La sua solitudine è transitoria.

FH :

Non solo transitoria, Ruso, ma volontaria. Lui è padrone di scegliere o no la sua solitudine. Ma noi non siamo stati mai soli; ci espropriarono della solitudine. Siamo stati sorvegliati per anni, giorno e notte, da più di un paio d’occhi che esaminavano tutto quello che facevamo. Persino quando andavamo in bagno c’erano persone che ci guardavano. Non avevamo il diritto di avere la proprietà privata della più elementare intimità. Leggevano le nostre lettere, esaminavano il nostro abbigliamento intimo... Raccontando l’esperienza di un prigioniero, in /D FRQGL]LRQH XPDQD, Marlaux dice che la cosa più atroce dev’essere doversi rifugiare in se stesso. Non stette abbastanza tempo solo, abbastanza tempo prigioniero. C’è un abisso ancora più profondo e di fronte a ciò l’unica salvezza è: rifugiarsi in se stessi. Quando tutto, tutto è ostile, e quando vogliono finanche entrare nella tua coscienza con le loro unghie sporche, rifugiarsi in se stessi è una conquista. Giorno per giorno bisogna lottare per questo.

MR:

È vero. Ti ricordi la parola d’ordine che c’era a ogni trasferimento? «Con il piccone e la vanga, compagno, scaveremo più profondo il rifugio della nostra solitudine». Unico modo per affrontare, integri, quello che sarebbe successo. Qualsiasi essere umano nella vita normale ha bisogno di un amico con cui sfogare preoccupazioni o sofferenze, operando una specie di catarsi, trasmettendo quello che sta soffrendo. Ma siccome noi non potevamo farlo, io sentivo che, ogni volta che mi portavo dentro un problema dall’incontro o da un interrogatorio, un trauma, un malessere, una malattia, un dolore reumatico, uno stato di angoscia o di tensione nervosa, non 133


potendolo comunicare, non c’era modo di uscirne. Allora la mancanza di comunicazione la sentivamo soprattutto in questo tipo di cose in cui non avevi l’opportunità di sfogare con nessuno, con un fratello, un amico, quello che stavi soffrendo. FH :

Ciò che accadeva cominciava ad assomigliare anche all’inutilità, alla totale mancanza di senso. Notavamo che anche la famiglia iniziava ad abituarsi; iniziava ad entrare in una dinamica nella quale non solo la nostra situazione, ma anche la dittatura nascevano e servivano a qualcosa, come una malattia naturale e incurabile. Lo notammo dalle cose più piccole.

MR:

Iniziava a sembrare normale l’anormalità della nostra situazione. Senza dubbio non si abituarono mai completamente, quella era una sensazione che avevamo noi. La famiglia non si rassegnava. Il popolo, di cui era parte, nemmeno. [...]

/D UHSXEEOLFD GHO *R\R VXO SLHGH GL JXHUUD

FH :

Un Capodanno, durante una visita, mia madre, spagnola, quando mi baciò riuscì a passarmi un’informazione importantissima. Mi disse all’orecchio: «È morto il generale Franco...».

MR:

«Tutte le volpi alla fine si rivedono in pellicceria...».

FH :

Fu una grande notizia per noi, e mia madre lo sapeva. Per questo corse il rischio di darmela. Durante quello stesso incontro mi portarono mia figlia, totalmente vestita di bianco. Immagino la fatica che dev’esser costata alla mia famiglia portarla da Montevideo fino a questa caserma lontanissima. La cosa più probabile è che l’abbiano cambiata per strada prima di entrare perché io la potessi vedere con il suo vestito migliore. Tenendo conto della sporcizia e dei calci con i quali mi portavano all’incontro, le manette ai piedi del tavolo, e tutto il resto, era un’incongruenza quella bambina vestita di bianco.

MR:

Mio padre doveva fare un percorso molto lungo e difficoltoso dalla stazione del treno alla caserma. Arrivava molto carico, perché i familiari portavano sempre viveri, frutta, mate, libri, vestiti per cambiarci, con la speranza che accettassero queste cose e ce le consegnassero. Il mio vecchio 134


mi raccontava che si erano avvicinati a lui alcuni cittadini di Nico Pérez, dove fermava il treno, e che ogni volta che arrivava (conoscevano più o meno la data) un ragazzino di campagna lo aspettava e lo aiutava a portare i pacchetti. E ricordo questa cosa perché il mio vecchio gli mandò il monopattino di mia figlia per posta. I nostri familiari incontrarono ovunque gente amica, gente solidale che li accoglieva in casa, che li manteneva al corrente... FH :

... correndo un grande rischio. Dobbiamo raccontare quelle misteriose mobilitazioni che ci furono il 13 gennaio, approssimativamente, del 1976, data in cui nella caserma di Santa Clara de Olimar si produsse...

MR:

... uno stato di guerra.

FH :

Veramente uno stato di guerra. L’allarme più importante di tutti quelli che sentimmo nelle caserme. Dove fu? Te lo ricordi? Perché fu all’improvviso.

MR:

Fu all’improvviso. Ricordo il primo commento della guardia: «Guarda che questa non è una finta. Questa volta si fa sul serio».

FH :

Credo che fu nel tardo pomeriggio. Improvvisamente (potrei tranquillamente ricostruire tutto), il telegrafista portò un messaggio in codice che il capitano di servizio decifrò e immediatamente iniziarono le urla, gli ordini per convocare urgentemente tutto il personale; posizionarono un tavolo vicino alla porta della caserma, che era vicina ai nostri FDODER]RV, per ricevere gli effettivi e indicare loro il compito o la missione cui erano assegnati.

MR:

Perché ci sarebbe stato uno spostamento di truppe verso un luogo...

FH :

... urgente. Ci si doveva anche equipaggiare per la guerra...

MR:

... credo fosse verso Montevideo.

FH :

Guarda, quello che sentii io fu che bisognava equipaggiarsi per la guerra, che bisognava disporre tutti i veicoli dello “stazionamento” con sufficiente benzina.

FH :

Che bisognava sequestrare camion nel paese, del comune, privati, e fu allora che sentimmo indicazioni date gridando nella Piazza d’Armi, quando la gente si allineava e partiva. Sentii che bisognava rafforzare la guardia a Nico Pérez e dare anche indicazioni a un capitano nello stesso senso che tu hai detto: «che la cosa 135


non era una tattica, ma che era vera, e bisognava prepararsi per combattere seriamente». Ed evidentemente non era contro di noi; questo sì era chiaro: noi non c’entravamo niente. MR:

Supponemmo, attraverso alcuni indizi e frasi spezzate, che poteva trattarsi di un conflitto tra comandi militari. Perché una delle espressioni più ripetute era “Repubblica del Goyo”, “La Repubblica dell’Est”. La divisione 4 dell’Esercito si era trasformata in una repubblica a parte, di cui era presidente il comandante in capo di quella divisione.

FH :

Sì, questo l’avremmo sentito ancora alcuni mesi dopo a Laguna del Sauce.

MR:

Sul fronte opposto, in una sessione del Comando Generale dell’Esercito, i generali Álvarez e Cristi avevano cambiato idea a frustate (non avevano altra scelta).

FH :

Questo movimento sarebbe durato tutta la notte. Anche sotto la nostra finestra in un determinato momento un gruppo di sottotenenti, armati per la guerra (me ne accorgo dal tintinnio che producono gli equipaggiamenti), dicevano: «Non può essere! Queste cose non devono succedere in nessun modo!» E un altro: «Però, che vuoi fare se succedono?». «Ma non devono succedere, non devono succedere in nessun modo». La cosa era grave.

MR:

Questo clima sarebbe durato alcuni mesi.

FH :

Questo accade il 13 gennaio. Dopo di che la tensione cala e noi rimaniamo con un grande punto interrogativo. Non sappiamo a cosa fosse dovuto. Qualcuno lo sa? [...]

,O EDVWDUGR

FH :

Il soldato, dopo aver “psicoanalizzato” tutta la truppa, scopre chi è “il bastardo” del gruppo, “quello che non serve”, a detta dell’intera truppa. E gli dichiara guerra, una guerra che generalmente finiscono per vincere i soldati. “Il bastardo” è un grande segugio; arresta per qualsiasi motivo, o perseguita uno o più commilitoni che ha “puntato”. Allora loro attuano una resistenza sorda; lo riconoscono, si sparge la voce e cospirano perché inizi a fallire. Generalmente, il bastardo identificato dai soldati coincide con il bastardo identificato dai prigionieri. Dà da pensare... 136


MR:

Ricordati di quello che fecero a Laguna del Sauce. C’era una guardiola vicino al “cellario”; una notte d’inverno, a quegli stessi commilitoni che aveva “puntato” disse che sarebbe andato un attimo a dormire, ma che quando si avvicinava il capitano in servizio di perlustrazione, dovevano avvisarlo in modo da rendersi presentabile. Quando sentirono che si avvicinava il capitano non fiatarono. Lo trovò che dormiva nella stanza degli interrogatori. Nella specie dei “bastardi” ce ne sono alcuni particolarmente ostili, con un alto livello di sadismo. Furono quelli che ci tormentarono di più.

FH :

Penso che non dobbiamo fare i nomi, no? Nel senso che basta che lo sappiamo, e meglio ancora che qualifichiamo ed identifichiamo i caratteri di quella mentalità, facendo notare che c’è anche gente che, nonostante tutte le pressioni di carattere sociale dalle quali sono circondati, conservano una loro linea di condotta corretta.

MR:

Non ne sono molto sicuro. Ne abbiamo parlato prima ed è opportuno che li teniamo presenti. Non si tratta di vendetta, né di mettere al rogo o di segnalare. Ma pensa che in fondo quelli che non nominiamo, di cui stiamo per raccontare prodezze e avventure, in questo momento probabilmente sono capitani, maggiori...

FH :

... tenente colonnello...

MR:

E sono al comando di qualche unità.

FH :

Non saranno cambiati?

MR:

Beh, questo lo devono dimostrare; la pratica è il criterio della verità.

FH :

Siamo uomini con i capelli bianchi e stiamo parlando di ragazzi che hanno compiuto orrori su di noi; orrori, ma l’hanno fatto in una tappa della loro vita; io penso (non so se sono troppo buono) che dovremmo lasciare aperta per tutti gli esseri umani la possibilità che si possa cambiare con il passare del tempo. E poiché io non so se ora continuino ad essere così “bastardi” com’erano in quegli anni, e inoltre, se dovessimo fare i nomi, dovremmo fare quelli di tutti, e ci fu gente che ci perseguitò molto, molto, molto, ma si preoccupò che non sentissimo il loro nome, potremmo commettere un’ingiustizia, ovvero segnalarne alcuni e ometterne altri. Per essere giusti, dovremmo fare anche i nomi di quelli che ci difesero, e credo che non convenga perché data la mentalità imperante nell’esercito ancor oggi, se li facciamo, li pregiudichiamo.

MR:

Che possano essere cambiati è solo un’ipotesi, anche se è possibile. Ma anche se così fosse, non cambia la condotta che tennero con noi e con le nostre famiglie... 137


FH :

E con i soldati, perché non dimenticare che chi era bastardo con noi era bastardo con i soldati.

MR:

In generale sì, ma non sempre. “XX” era un boia con noi e un padre per i soldati. Confessare e pentirsi non è abbastanza per gente che sicuramente partecipò ad azioni molto più vili nello stesso momento in cui altri sottotenenti più umani tenevano un comportamento corretto. Allora bisogna stabilire la differenza tra gli uni e gli altri.

FH :

Quando parliamo di trattamento corretto, non parliamo di un buon trattamento, blando o conciliante...

MR:

Vogliamo dire che se un sottotenente ha l’ordine di portarci in bagno una volta al giorno, incappucciati e ammanettati, ci porta. Ma gli altri ci mettevano pure lo straordinario.

FH :

Oppure non ci portavano.

MR:

O ci portavano nel FDODER]R dandoci un calcio con la pianta del piede al centro della schiena per farci sbattere contro la parete di fondo. L’argomento che stiamo trattando ci porta diritto alla questione della responsabilità individuale all’interno di quella collettiva che, in quanto corpo, hanno le Forze Armate. Sai che, molte volte, ufficiali e capi si comportarono violando norme che erano rigide, repressive, aggiungendo un di più personale. Nel recente dibattito che c’è stato sull’abominevole /H\ 20 GH ,PSXQLGDG votata dal Parlamento uruguaiano, si è fatto un riferimento esplicito al fatto che non sarebbero stati sanzionati coloro i quali avevano eseguito strettamente gli ordini stabiliti. Risulta che ci furono ufficiali e capi che andarono oltre quelle norme che loro stessi avevano fissato. È il caso anche di quei sottotenenti, non in quanto insieme, ma di molti di loro, che vedemmo aggiungere di loro iniziativa maltrattamenti, torture, comportamenti che in alcuni casi portarono alla morte. C’è una responsabilità collettiva che dev’essere giudicata storicamente come tale, ma ci sono anche individualità che aggiungevano la loro parte di ideologia fascista, di ambizione, di sadismo, che culminò negli eventi più atroci e negli omicidi più orrendi. [...]

138


%ORFFKL H DOWUH GLIHVH

FH :

Una notte, a Santa Clara de Olimar, un capo stava lavorando con una calcolatrice, di quelle vecchie, manuali. Mi svegliò quel rumore, mi rimisi a dormire, mi risvegliai, passai tutta la notte ad ascoltare quello sferragliamento che per me era molto familiare. Avevo lavorato per anni in banca. Mi portava alla mente una quantità di ricordi e rievocazioni; mi riportò all’epoca dell’ufficio, quando ero molto giovane, e mi successe, per la prima volta, un fenomeno molto strano, che poi si sarebbe verificato in forma reiterata. Il giorno dopo, quando mi svegliai, non potevo allontanare da me il suono di quella calcolatrice (il capo non stava lavorando più), cioè fondamentalmente, non potevo allontanare dalla mia testa i ricordi della banca. E allora mi ci “trasportai”; è molto difficile spiegare quello che successe, lo definisco simile a un processo di autoipnosi; la cosa sicura è che, non essendo mai stato bravo in materia di contabilità, mi misi a ricostruire il funzionamento dell’agenzia in cui lavoravo; sulla base di ricordi e deduzioni, riuscii a ricostruirla e ad apprendere la contabilità, cosa che non avevo mai saputo, come ho già detto, a parte le nozioni basilari. Inventai contabilità; sprofondai, per una settimana, in un mare di cifre, dati, deduzioni, calcoli, voci, bilanci, libri, con un’intensità e una profondità tali che non riuscii a dormire. Inoltre tutto quello che succedeva intorno a me passava inosservato. Persi assolutamente la nozione del tempo, come se non stessi nella caserma. Quando stavo a Punta Carretas21 avevo parlato con prigionieri comuni tenuti in detenzione già da molti anni; alcuni di loro, per la maggior parte pazzi, mi dicevano con totale convinzione che non erano prigionieri, perché evadevano quando volevano, uscivano attraverso il muro, andavano ai balli, al loro quartiere, passeggiavano con le persone che volevano e avevano anche delle donne; erano pazzi, evidentemente, e io li ascoltavo credendoli tali; non dubitavo che quello gli accadeva nella mente, ma io non l’avevo mai provato sulla mia pelle. È una sensazione piacevole, è una full immersion, giorno e notte, la cosa più strana è che si può stare cinque giorni senza dormire, anche se stai steso sul letto facendo calcoli. Iniziavo ad avere l’esigenza di prendere nota su qualsiasi supporto, prendevo nota sul sapone, su dei fogliettini, con dei piccoli pezzetti di grafite che avevo, e ne ero entusiasta al punto che mi dava fastidio, perfino, che mi portassero in bagno, che mi portassero la razione, nonostante la fame. Improvvisamente, questa situazione, che definisco di autoipnosi, perdeva d’intensità, iniziava a svanire; questi “ritorni” mi provocavano pena e dolore, perché era come ritornare in caserma. Questo fenomeno si verificherà molto spesso, e avrà, ogni volta, una durata quasi esatta di 139


quindici giorni; né più, né meno. Nonostante la sensazione gradevole che produceva, iniziai a temere che fossi sulla strada della pazzia. Mi fermai a riflettere; era proprio quello che mi era successo. Ne dedussi, analizzandomi con tranquillità e freddezza, che ci stavano facendo impazzire. Iniziai ad analizzare altri comportamenti che avevo nel FDODER]R, e quelli che avevate tu e Pepe; non ce ne rendevamo conto perché ci stavamo abituando gradualmente, tutti e tre stavamo manifestando sintomi evidenti, e ogni volta più acuti, di squilibrio. Nel mio caso queste “evasioni” che mi capitavano involontariamente e senza preavviso, si riempivano di calcoli e di numeri, o di piani molto complessi che richiedevano una grande concentrazione mentale. Pensai che, improvvisamente, il cervello vuoto per mesi, si lanciava a correre intensamente. MR:

Ricordo di averne parlato con Octavio, che si trovava nella nostra stessa condizione. Lui arrivò a praticare esercizi di autoipnosi. Una delle difficoltà che aveva era uscire dal trance, cioè non riusciva a ritornare alla normalità. Finché non s’impantanò. Ho l’impressione che fosse una specie di blocco che andava oltre la nostra volontà; si finiva per concentrare l’immaginazione su determinate cose come modo per evadere da quello che si stava vivendo. Ma le mie fantasie erano di altra natura. Quando mi portavano normalmente al bagno io avevo un pensiero di risposta: «non sanno che mi trovo in un altro luogo». Finivi per bloccare il rapporto con la realtà circostante, e la vita andava avanti nei pensieri, nell’immaginazione. I confini tra la realtà e la fantasia erano spariti; ricomporre situazioni nelle quali aveva vissuto era per me più reale, e mi dava l’impressione di vivere più intensamente. E quando le esaurii, iniziai a crearle: ad esempio, la relazione con una fidanzata dell’adolescenza, che terminò con la rottura: svanisce la rottura e continuo a creare peripezie con quella ragazza, e si consumano rapporti, e si avanza nella relazione, si crea una famiglia, nascono figli; e questo mi assorbiva così tanto che le cose che mi circondavano smettevano di esistere. Faceva giorno e il FDODER]R si popolava di fantasmi; arrivava la mia compagna per passeggiare con me, o mia figlia, e avevo l’impressione di potermi sdraiare a terra come se fossi sulle spiagge di Malvín22. Con un grado di compenetrazione tale che il colpo, o il richiamo, o il grido di una guardia che ti diceva qualcosa, ti sembrava anacronistico, esterno alla realtà. Iniziai a percepire, poi, un altro tipo di reazioni. Te ne racconto un paio. Nelle culture primitive, gli stregoni delle tribù praticano la magia. E la magia ha una costante: per invocare la pioggia imitano il suo suono o il suo comportamento. È un richiamo d’amore per un gatto in calore. Allora, con i loro sonagli, i loro rituali e con i talismani che hanno, imitano la caduta dell’acqua, in modo che l’acqua che non cade, inizi a cadere. 140


Quando avevo grande bisogno di andare in bagno, mi provocava tranquillità e allegria sentire che chiudevano il portone, perché era il segnale che ci avrebbero portato alla latrina; il colpo sulla porta, il cappuccio sulla testa, le mani indietro, il naso schiacciato contro il muro. Ma queste cose non succedevano: né il portone che si chiudeva, né il colpo sulla porta. Allora, nel pieno della necessità, io prendevo il cappuccio, me lo mettevo sulla testa, le mani indietro, contro la parete, e gridavo: «Sono pronto!». Questa magia primitiva la praticavo a volte consciamente, ma altre inconsciamente, per vedere se di fronte a questo richiamo si verificasse il colpo sulla porta o la chiusura del portone. Un’altra: mi ero convinto che le cose che si dicono non accadono. Allora ogni volta che avevamo un trasferimento o riflettevamo attraverso l’alfabeto morse del muro su dove saremmo andati, io trasmettevo sempre le ipotesi più nere, in modo che, al trasmetterle, non si verificassero. In qualche modo trasferivo a te il mio stato d’angoscia. Le possibilità più ottimiste sul trasferimento le tenevo nascoste per conservare la speranza, e provavo a dire le peggiori, perché «dicendole non sarebbero accadute». Poi iniziai ad avere delle reazioni che mi portarono a discutere e inveire, da solo e ad alta voce. Credo che l’impotenza provocasse una ricerca di “bersagli nevrotici” per transfert, in situazioni immaginarie. Litigavo immaginariamente con qualcuno. Stranamente, molte volte non erano soldati: mia madre, un amico, tu... Ma con un’intensità tale che, nel bel mezzo della passeggiata frenetica dell’alba, mi fermavo e urlavo un insulto all’interlocutore, o lo minacciavo con un pugno. Una volta che avevi fiutato cosa mi stava succedendo, e mi chiamasti quando già mi ero più o meno tranquillizzato, mi chiedesti: «Con quale fantasma hai litigato oggi?». FH :

Sì, ci fu un momento in cui sentivo le tue discussioni e quelle di Pepe nei affianco, mi chiedevo se voi non sentiste le mie, se a me non stesse succedendo la stessa cosa. Tu sai che quando ho raccontato l’aneddoto della calcolatrice, l’ho fatto per evidenziare una cosa: quasi tutti questi fenomeni si generavano a partire da un piccolo detonatore, poteva essere un odore, una notizia... FDODER]RV

141


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MR:

... o un sapore. È un’osservazione che fa Proust in Alla ricerca del tempo perduto. Il protagonista trae un racconto intero dal sapore di una madeleine, che per associazione risveglia in lui la memoria di episodi assopiti. Dice che il suono di un cucchiaino che cade evoca nella memoria un suono simile, con una storia che non ha niente a che vedere con il momento in cui l’evento si verifica. A me è accaduto una volta che mi portarono dei vestiti, sentii il profumo di casa, e questo mi riportò al patio verde con le piante e a mia madre. Alla base di ogni fantasia ci sono indizi di questa natura che sul momento non percepiamo, ma che sono quelli che ci trasportano, improvvisamente, da una situazione di tensione a una passeggiata per il Prado23.

FH :

Arrivai al punto di essere contento per il fatto che mi mettessero un cappuccio per portarmi al bagno; una volta messo, m’impedivano di vedere, e impedendomi di vedere, mi permettevano di continuare un calcolo che avevo fatto per metà.

MR:

Da un altro punto di vista iniziai a sviluppare, come i cani di Pavlov, un riflesso condizionato. Ogni volta che qualcuno entrava nel FDODER]R, ogni volta che bussavano alla porta, anche se venivano per consegnarmi educatamente la magra razione di cibo, il semplice fatto che bussassero, che entrassero, mi poneva in un atteggiamento teso di reazione. E questo mi fa venire in mente un episodio altamente rappresentativo. Un soldato, con il quale potevamo comunicare, mi raccontava che aveva un bambino di quattro anni, e che ogni volta che finiva il servizio e tornava a casa e il bambino stava giocando in mezzo alla strada, la sua reazione era di dargli due o tre schiaffi. Un bel giorno viene mezzo sorpreso a raccontarmi: «Senta che mi è successo ieri: era il suo compleanno e gli avevo portato una busta di caramelle. Lui mi vede arrivare, io allungo la mano per dargli il regalino e lui alza le braccia e mi dice: “Non mi picchiare, papino, non mi picchiare!”». Anche io alzavo la guardia, ma sull’offensiva.

FH :

In questo percorso verso la pazzia cresce la nostra aggressività. Questo lo potremo notare chiaramente quando faremo ritorno al 3HQDO. Con un semplice paragone. Non potevamo accorgercene quando eravamo nelle caserme, perché l’aggressività era uno strumento di difesa della vita. Nelle carceri ci abituammo a una condizione per cui se non eravamo aggressivi nella difesa delle nostre piccole ricchezze o nella conquista di nuove, non ci sarebbe stata soluzione. Per il resto: eravamo esseri ciechi, muti, quasi totalmente sprovvisti di sensi, del tatto, dell’olfatto...

142


MR:

... vivevamo in un mondo senza colori; ogni volta che iniziavo a fantasticare, cercavo freneticamente nel mio pensiero paesaggi con del verde, fioriti, e trovavo molte difficoltà, perché non riuscivo a pensare ai colori, o almeno mi costava molta fatica, e ci riuscivo poche volte; maledicevo i sogni, perché normalmente erano in bianco e nero.

FH :

Io conservavo i colori. Li conservavo in dei fogliettini, semplicemente per avere la possibilità di vederli, sempre gli stessi due o tre per mesi e mesi.

MR:

Era un’evasione.

FH :

Non potevamo “guardare lontano”; ci abituammo alla distanza che c’era tra una parete e l’altra, in modo che quando avemmo l’opportunità, qualche volta, di poter guardare l’orizzonte, fu con grande sorpresa, anche fisica direi, perché gli occhi non erano abituati a regolare le pupille...

MR:

Quando uscimmo, attraversare una strada ci confondeva. I suoni iniziarono ad avere un significato che in alcuni casi diventava il nostro servizio meteorologico. Usavo l’espressione, che apparirà poi frequentemente nelle mie poesie e nei miei scritti, “Nell’al di là del muro”. Stavamo vivendo in un mondo, e il nostro “al di là” andava dal muro verso l’esterno. Dall’esterno arrivavano messaggi che dovevamo interpretare. Passavano settimane, mesi, e a volte anche anni senza vedere la luce del giorno. Dimenticammo il prurito della pioggia sulla schiena. Quando sentivamo il cinguettio delle rondini capivamo che stava arrivando la primavera. Iniziavamo a sentire che sorgeva il giorno, prima della tromba, perché i passeri pigolavano e il EHQWHYHR24, che è molto mattiniero, iniziava il suo primo canto. Il nostro mondo si componeva di una serie di suoni che traducevamo mentalmente in immagini e situazioni. Un meraviglioso crepitio sullo zinco era una doppia festa: mi riportava a una stradina del quartiere, una notte d’autunno sotto la pioggerellina sottile. Poi i suoni ostili, il rumore dei tacchi...

FH :

... il rumore delle manette...

MR:

... quello straordinario, perché il rumore delle manette ci metteva allegria quando era ora di andare in bagno. Nelle catacombe di Paso de los Toros, il loro tintinnio era l’indizio che ci avrebbero portato all’“ora d’aria”. Quello era un suono allegro. Durante la mia infanzia, avevo un cagnolino. Ogni volta che sentiva il rumore della catena del guinzaglio con cui mio padre lo portava in strada, la sua coda diventava una risata. Era felice perché lo incatenavano. Poi c’erano suoni sgradevoli: l’apertura della grata del corridoio fuori orario, che preannunciava qualche punizione...

143


FH :

Come dire, Ruso, che eravamo come ciechi. Avevamo sviluppato un senso più degli altri: l’udito, l’unico che potesse offrirci qualche informazione e che potesse collegarci al mondo al di là delle pareti; gli altri sensi non erano in grado di farlo. Arrivai alla conclusione che l’udito, come senso, ha un grande difetto: non ha le palpebre; e una virtù: percepire al di là delle pareti. È uno svantaggio non poter “chiudere le orecchie”, come si fa con gli occhi quando non si vuole vedere. L’udito è un senso perfido, tra tutti i sensi è quello che ci rende più vulnerabili. Utilizzavano questo punto debole quando, ormai stanchi di danneggiarci nel fisico, si mettevano a parlare dall’altro lato della porta per martoriarci con le parole.

MR:

A Santa Clara, all’alba, sentivo con invidia il latrato frenetico che veniva dai canili. Era l’ora della razione, che i cani accoglievano con gran baccano. Arrivai a invidiarli e fui anche sul punto di presentare una richiesta al comando, reclamando per noi un trattamento da cani; sentii tutto quello che era loro permesso: potevano stare con le altre bestie, animali della stessa specie tuti insieme; potevano orinare e defecare a discrezione, stare al sole, avevano una razione intera, potevano abbaiare e ringhiare quando ne avessero voglia...

FH :

... o ululare.

MR:

Cosa che a noi era vietata.

FH :

Ricordo che una volta, a Minas, nel casino degli ufficiali c’era una grande festa, alla quale partecipavano anche civili, ragazze e ragazzi; alla fine di quel ballo, quando terminò il rumore dell’orchestra, saranno state le quattro del mattino, le persone si stavano ritirando e io ero ancora sveglio; una ragazza gridò, e il grido arrivò fin dentro al mio FDODER]R e mi sembrò identico a un altro, alla fine di un ballo della mia gioventù. Uno che avevo dimenticato. In quel momento, lo ricordai istantaneamente. Quel suono mi fece entrare in una “trance” in cui ricostruii quel ballo lontano e, a partire da quello, tutta una relazione della mia gioventù, proprio come fu e come avrebbe potuto essere. Ci rimasi quindici giorni.

144


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MR:

L’unica realtà era nei sogni. L’altra, quella quotidiana, era un incubo. Per sopravvivere invertivamo i termini realtà-fantasia. Quando immaginavo di passeggiare con mia figlia in un parco giochi, improvvisamente un suono, un colpo sulla porta, un rumore di tacchi, mi portava in una realtà che non era la mia realtà; «non di solo pane vive l’uomo»: anche di sogni. Una delle cose che ci diede forza fu questa capacità che avevamo, e che hanno tutti gli uomini (perché tutti in una situazione come quella si sarebbero comportati allo stesso modo), di aggrapparsi ai sogni, alle speranze, alle illusioni, alle esperienze vissute, come nel caso che hai appena raccontato, e al quale anche io mi riferivo.

FH :

La fuga dalla realtà era assolutamente inconscia, involontaria, purtroppo. Arrivava quando voleva. Dev’essere il rifugio dei pazzi. Suppongo che siamo arrivati a situazioni estreme per un motivo...

MR:

Sperimentammo (e non credo sia eccessivo) la telepatia.

FH :

Certo! Dobbiamo parlarne, ora che stiamo parlando di squilibri, o quanto meno, anormalità mentali.

MR:

Durante una visita, la mia famiglia m’informa che avevano sfrattato i miei genitori e che avevano dovuto trasferirsi in un ospizio. Arrivai al FDODER]R, tu ti aspettavi che ti chiamassi per vedere se c’era stata qualche novità, ma quello che ti risposi fu: «Sto piangendo...».

FH :

Melo, 1978.

MR:

A partire da quel momento ebbi mio padre affianco in ogni minuto. Durante il giorno parlavo con lui, consolandolo, tirandolo su; di notte lo sognavo. In sogno, il mio Vecchio mi dice una parola, una sola, non ricordo quale, che suppongo non esista in nessuna lingua, ma che io ovviamente interpretai: «Che ci fai qui? Siediti, mangia». Mi svegliai, te lo trasmisi con precisione. Durante la visita seguente, venti giorni dopo, mio padre arriva con la signora Carmen. Siccome non potevano entrare insieme, vidi per prima lei. Allora mi disse un po’ allarmata, ma non molto, per non angosciarmi, che papà ogni tanto aveva delle allucinazioni e mi raccontò quello che era accaduto nella mensa dell’ospizio: mio padre mi aveva visto entrare, aveva smesso di mangiare, si era fermato, era impallidito e mi aveva detto (nel racconto di Carmen): «Che ci fai qui? Siediti, mangia». Successero cose simili anche con mia figlia. In un’occasione, immagino una passeggiata con Alejandra: la porto a vedere la tomba di suo zio, mio fratello Leonel, che 145


avevo scelto come nome di battaglia nell’Organizzazione; percorriamo i sentieri del cimitero, tra cipressi e lapidi, fino ad arrivare alla tomba. In una delle visite successive, Alejandra mi racconta di aver avuto un sogno stranissimo, che più che un sogno era una specie di stato tra la veglia e il sonno, durante il quale si vedeva passeggiare con me in un cimitero. Dopo avermi raccontato ciò in poche parole, molto seria e un po’ spaventata, mi chiede: «In quale cimitero sta zio?». Possono essere coincidenze, ma come diceva Einstein: «C’è troppa armonia nello spazio perché sia opera del caso». FH :

Quando mi comunicarono, nel 1981, che la mia compagna, che era prigioniera a 3XQWD GH 5LHOHV e che non vedevo dal 1971, aveva un tumore alla colonna vertebrale, nell’angoscia della notizia sopraggiunse una situazione di quelle che definisco di autoipnosi. Ero in campeggio con Graciela in un &DER 3RORQLR che costruii con l’immaginazione. Non ero mai stato lì, ma lo immaginai puntigliosamente; ero indeciso su dove mettere le dune, le rocce, le cozze. Dopo aver sistemato la geografia (ci misi una settimana a costruire &DER 3RORQLR, sassolino per sassolino) ci misi un’altra settimana per decidere dove mettere la tenda, dove trovavo la legna, cosa cucinare ogni giorno e dove passeggiare con Graciela. Sono sicuro che quello che costruii era molto meglio della realtà, perché non c’erano sprechi. Quando terminai tutto questo tu ricevesti una visita; in quel periodo comunicavamo attraverso la parete. E tu mi raccontasti che Alejandra era stata a &DER 3RORQLR precisamente in quei giorni. Dopo aver notato che si verificava questo fenomeno telepatico, proponemmo che quando uno di noi si rendeva conto di star leggendo il pensiero dell’altro, avrebbe dovuto chiamarlo e comunicarglielo.

MR:

Esattamente...

FH :

... e che dovevamo essere obiettivi e non ci dovevamo mentire. Su dieci volte che ci chiamammo per questo, mediamente, otto avevamo ragione.

MR:

Quello che ci portò a questo punto fu che molte volte quando iniziavamo i nostri dialoghi mattutini, il pensiero che mi trasmettevi era lo stesso che avevo intenzione di trasmetterti io...

FH :

Io iniziavo a dirti qualcosa e tu mi interrompevi per dirmi quello che ti dovevo dire io. Sarebbe stato normale per te indovinare il mio pensiero all’interno di un dialogo su un avvenimento vicino a entrambi, o su qualcosa che fosse logico dedurre. Ma non era per niente normale che io iniziassi a dirti: «Stanotte pensavo che quando uscirò me ne andrò in campeggio...», e che molto prima di terminare mi interrompessi per dirmi: 146


«Sì, già lo so, sulle rive del &XIUp». C’era da crederci o impazzire... MR:

Una volta, nel 1982 (Alejandra era già una signorina di 17 o 18 anni e Gabrielita ne aveva quasi 10), eravamo a Paso de los Toros e le visite erano di domenica...

FH :

... ogni 21 giorni, approssimativamente.

MR:

Dalle 9 alle 10 di mattina, la tua famiglia; dalle 10 alle 11, la mia; dalle 11 alle 12, quella di Pepe. Non chiamarono te alle nove, ma me; questo succedeva abbastanza di frequente perché se la tua famiglia non veniva, anticipavano la mia. Salii per quella scalinata ammanettato, incappucciato...

FH :

Non era una scalinata, era una scala grezza; tu chiami finestroni le finestrelle e scalinate le scale...

MR:

Continuo a confondere realtà e immaginazione.

FH :

Era l’unica scala che c’era, ed era per noi come quella del 3DODFLR /HJLVODWLYR; una piccola scala cupa, sordida, sinistra, che portava a una cantina; di cemento grezzo.

MR:

Dove correvano i topi. Allora arrivo, mi fanno sedere sulla panca che era attaccata al bagno (la visita si teneva in mezzo ai suoi odori)...

FH :

... bagno di una caserma, e non aggiungo altro; è quanto dire...

MR:

Mi siedo dall’altro lato della doppia grata; c’erano sei guardie, armate con fucili, un militare, un soldato con il cane, il tenente con la pistola alla cintola... Improvvisamente si apre la porta, io mi aspettavo di vedere la mia famiglia, pensavo venisse Alejandra, ed entra una bambina – era estate – con una scamiciata, come un passerotto spaventato in mezzo a tutta quella situazione. La guardo e, per una frazione di secondo, anche se nella mia testa durò molto di più, feci fatica a collocarla; perché pensai: «È Alejandra; non può essere Alejandra, quanti anni ha Alejandra? Ma in che tempo sto vivendo?». Quasi immediatamente riuscii a rendermi conto che avevano commesso un errore e tornai al tempo reale. Allora le dissi: «Sei Gabrielita, vero? Sei bellissima, sono venuto io perché tuo padre si sta preparando e te lo portano subito».

FH :

Oggi dicevi che quando uscivi da alcuni di questi sogni ti costava fatica collocarti di nuovo nel FDODER]R e ti facevi domande come: «Che ci faccio qui?». Anche io, ogni volta che mi svegliavo, mi dovevo chiedere «Dove sono? Che ci faccio?».

MR:

Dovevo toccare gli oggetti per riconoscerli...

FH :

Mi spaventavo davanti alla realtà, nel ’79 facevo il conto degli anni: «Sono 147


un ostaggio dal ’73, tanti anni quanti quelli della scuola media». Quando ne erano passati già dieci, pensavo quest’altra cosa: «Sono ostaggio da tanti anni quanti quelli della scuola media e del Liceo insieme; con tutte le esperienze di vita di un bambino da quando nasce a quando inizia a spuntargli la barba e ha la prima fidanzata». MR:

Raccontando l’aneddoto di mio padre e delle parole enigmatiche che mi diceva, mi sono ricordato di un dialogo che ebbi con Engler. Mi raccontava i suoi disturbi, che erano molto acuti. Erano caratterizzati dal fatto che dentro il suo cervello, da come lui mi raccontava, si era formato un essere senza anima, che si chiamava “Alicia” ed era molto crudele e molto freddo, appunto perché non aveva un’anima. Lei era quella che gli ordinava le azioni che doveva compiere. Se gli diceva “mangia”, poteva mangiare, se gli diceva “non mangiare”, non mangiava. Una volta, gli disse una parola che lui non capì; pensò che Alicia stesse delirando; tempo dopo consultò un vocabolario e scoprì che quella parola esisteva e che in qualche momento l’aveva appresa; era archiviata in qualche neurone del suo cervello al quale aveva accesso Alicia ma non lui. I disturbi, di cui tutti soffrimmo in maggior o minor grado, erano prodotti del regime di reclusione al quale eravamo sottomessi, e non conseguenze di un trauma interiore. Svanite tali condizioni, recuperammo, per quanto fosse possibile, la normalità. [...]

5RVDULR :LOOL 7RED =HOPDU

MR:

Durante una visita il mio Vecchio inizia a parlare di come andava il quartiere, dei vicini che non lo lasciavano mai solo, della formidabile solidarietà della gente... E con quello stesso tono monotono, basso, sereno, tipico dei racconti banali, quando si rende conto che l’ufficiale non prestava molta attenzione, perché non sono notizie trascendentali, nello stesso tono mi dice «hanno ucciso Zelmar», e continua a parlare «hanno ucciso Gutiérrez Ruiz» e continua con il quartiere. Dopo avermi dato la notizia mi guarda con l’intensità di un padre, ma anche con quella di un compagno, con un gesto leggero della testa, come per dire «è stato un colpo di stato».

FH :

Io non lo venni a sapere in questo modo; l’unica cosa che sentii fu un commento: «Anche Michelini c’è rimasto». E il giorno dopo: «Anche in 148


Argentina ora comandiamo noi». Il tuo Vecchio parlava il castigliano con difficoltà, e se tu avevi difficoltà a capirlo, gli ufficiali non capivano un cazzo. MR:

Quello che successe con Zelmar mi ha riportato alla memoria qualcosa che con il passare del tempo riuscimmo a chiarire e che oggi è perfettamente trasparente. Ovvero che durante gli interrogatori ai quali fui sottomesso a Tacuarembó, sotto la direzione di Gavazzo, durante una delle sessioni lo chiamarono al telefono urgentemente dal Comando Generale dell’Esercito; al ritorno disse: «Mi hanno chiamato per dirmi di prendere misure di sicurezza perché il tuo amico Zelmar sta dicendo in Senato che io ti sto applicando la SLFDQD. Prenderò provvedimenti, ma sarà meglio che lo faccia anche lui». Come è noto e riconosciuto, partecipò in un ruolo di comando nell’operazione che attraversò il Río de la Plata e mise fine alla vita di Willi, Rosario, il Toba e Zelmar. Questo Gavazzo fu lo stesso che ci comunicò, in presenza del comandante di Santa Clara de Olimar, da parte del Comandante Generale dell’Esercito, che qualora si fosse prodotto qualsiasi tipo d’incidente fuori, ci avrebbero fucilato. La radio ha appena informato che il Presidente della Repubblica, don Julio María Sanguinetti, ha designato come Capo della Casa Militare il generale Ignacio Bonifacio. Lo stesso che, nel 1973, era comandante del 7° di Cavalleria a Santa Clara de Olimar.

FH :

Il 13 luglio del 1976 si crea un clima d’allarme generale come quello che si era verificato il 13 gennaio.

MR:

Il nervosismo penetrava attraverso le pareti, c’era inquietudine e passi leggeri in tutti i movimenti della truppa.

FH :

I soldati armati per la guerra, l’intera caserma convocata, lo stato d’allarme. Questo disordine durò parecchi giorni. Non fu come quello di gennaio che ebbe durata breve. I soldati ascoltavano la radio. Riuscii a sentire: “Bordaberry” e “partiti tradizionali”. Più o meno due settimane dopo l’inizio dell’allarme, approssimativamente il 27 luglio, ci prepararono per un nuovo trasferimento, che si produsse nello stesso clima.

MR:

Fu il più angoscioso e lungo: durò un giorno. Quando ci fanno scendere dai camion sento la voce di Pepe sotto il cappuccio, che dice «Guarda che cado, guarda, cado... cado». Nei FDODER]RV ci lasciano in piedi. Non ci portano in bagno.

FH :

Ci tennero così per diversi giorni. Da sotto il cappuccio riuscii a vedere che mi avevano tirato un pezzo di pane vicino al piede. Lo raccolsi da terra. Era molto duro ma lo mangiai; con grandi difficoltà e prima che mi mettessero 149


le manette di quell’Unità che ci riceveva. MR:

Nel corridoio c’era un casco d’acciaio con dentro un pacchetto di sigarette. Attirò la mia attenzione il fatto che gli agenti fossero in assetto da guerra, misura insolita per custodire prigionieri. Chiedo di andare in bagno e mi rispondono con un insulto e un colpo. Ne avevo un bisogno atroce. Noto che a questo giro c’è andata male perché sento la voce di Pepe che chiede la stessa cosa e gli rispondono nello stesso modo. Tu eri più lontano... Allora mi costringo a una di quelle contorsioni degne del Circo di Pechino. Ero ammanettato dietro. Riesco in qualche modo ad arrivare alle mutande, ad abbassare la zip con grande sforzo e dolore alle mani, ma con grande allegria, a tirarlo fuori in qualche modo e...

FH :

«Con molta grazia» come direbbe Don Chisciotte...

MR:

... a versare, come direbbe Sancho, «le mie acque minori». Mi percossero, mi picchiarono, ma non riuscirono a fermare il getto. Questo fu il mio ingresso a Laguna del Sauce.

FH :

Dove i materassi erano sacche che si aprivano in modo che potessero controllarne il contenuto. C’erano lana non lavata, pelli di animali; tiro fuori da lì gli sterpi e me li mangio uno a uno. Me li mangiai tutti.

MR:

Arrivammo a sviluppare il palato di una vacca, capace di mangiare il cardo senza pungersi.

FH :

È che con la fame che avremmo sofferto a Laguna de Sauce, Ruso, avremmo potuto masticare bulloni.

Fame e sadismo

MR:

Portarono un piatto fondo. Ci misero un cucchiaio nella mano ammanettata e ci servirono il brodo. Da allora in poi quel liquido avrebbe costituito la nostra unica alimentazione. Masticavo la carta igienica. Siccome era di origine vegetale, doveva pur nutrire. Provai il sapone, diventai insettivoro: gli insetti di terra erano croccanti, le mosche aspre.

FH :

Nel 1976, Laguna del Sauce è sinonimo di fame. Questa politica la applica un sottotenente, il cui nome non voglio ricordare, che incontreremo anni dopo in un’altra caserma. Entrava in servizio come guardia ogni due o tre giorni, ma siccome era della Sezione 2 (S2) dipendevamo da lui quotidianamente. Eravamo oggetti di sua competenza. Quell’uomo (a mio avviso è un malato di mente) decise – secondo me andando oltre quello che gli era permesso – di giocare con la fame senza sapere che era pericoloso. 150


Le ferite si possono curare; la sete non si può prolungare molto; la fame produce danni irreparabili e lascia segni evidenti: una magrezza disumana. MR:

Voglio parlare un po’ della patologia degli ufficiali che si sono così accaniti. Esiste la tesi che quelli che ce ne diedero di più erano coloro che avevano maturato dentro se stessi le tendenze sadiche che, in qualche modo, sono latenti in tutti gli uomini. Io evito di considerare malati quelli che si accanirono di più nelle torture, perché significherebbe ridurre il problema a livelli di patologia. L’ufficiale che adottava con noi questa condotta era, contemporaneamente, uno dei più stimati dalla truppa. Sentivamo i soldati dire che ogni volta che avevano qualche problema, rivolgersi a quell’ufficiale li tranquillizzava perché rispondeva loro in modo paterno e risolveva tutti i problemi. Era, come dire, un individuo che manifestava questa presunta patologia solo con noi. Penso che alla base ci sia una questione di fondo. Il metodo che utilizzò l’Esercito fu di far partecipare tutti: infermieri, medici, ufficiali, truppa; tutti si dovevano “sporcare” in qualche modo, come garanzia perché nessuno potesse dire: «È stato Tizio a farlo». Il secondo problema è che si creò un clima di degrado morale: i maltrattamenti, l’umiliazione, la tortura diventarono quotidiani e scontati. Esagerare era la normalità. Nella circostanza in cui agisce quell’ufficiale, quello che fa, in rapporto con i prigionieri, è superare leggermente la “normalità”, alla quale tutto l’Esercito era asservito. Per questo, senza nessun animo polemico, in qualche modo rifiuto l’idea largamente condivisa – succede lo stesso in Argentina – che Astiz e Suárez Mason siano dei sadici. No. L’essenza del sadismo, come patologia all’interno dell’Esercito, è assolutamente secondaria; secondo me la costante è la “normalità” in cui si converte una cosa “anormale”. Ci possono essere torturatori burocratici, fanatici e, in qualche caso, patologici. Ma non sono la norma.

FH :

Penso che valgano entrambe le interpretazioni. Ma ho visto in quell’ufficiale, e in altri, l’esacerbazione del sadismo; e penso che il clima, l’ambiente che lo circondavano, permettessero, come un vivaio, la proliferazione del microbo. Quell’uomo – io sentii successivamente commenti dei soldati – era molto stimato, come hai detto tu, dalla truppa, cosa che non significa niente, perché la gente rende le cose troppo semplici credendo che un sadico lo sia in ogni circostanza. Può essere un buon padre di famiglia, essere membro di associazioni per la protezione degli animali, essere un puritano e andare in chiesa ogni domenica, per alimentare poi il suo sadismo con qualcuno o qualcosa.

MR:

Ricordati che tutti gli ufficiali, tutto il personale della S2 in particolare, ricevevano lezioni in cui li manipolavano meticolosamente, attraverso fondamenti ideologici; dicevano loro che eravamo “traditori della patria”, “assassini”, “riprovevoli”; tutto ciò dava forma, in loro, a un criterio 151


ideologico. Ricordati che erano coerentemente fascisti. FH :

Sai che succede? Senza che mi avessero inculcato niente di tutto ciò, sono stato nel carcere di Punta Carretas con persone che avevano commesso crimini che vanno al di là di qualsiasi immaginazione; non entrerò nei dettagli. Tuttavia ho condiviso la cella con queste persone e non ho mai avuto questa tendenza...

MR:

Condivido quello che dici, che un sadico o un torturatore non lo è in qualsiasi situazione. E so che ci sono casi in cui il comandante di un’unità arresta sua moglie per una mancanza e usa questo trattamento anche con i suoi figli: è una proiezione in ambito familiare del criterio inculcato nella Scuola Militare e nelle caserme.

FH :

Nonostante io sapessi, senza che nessuno me l’avesse detto, che alcune delle persone che conobbi a Punta Carretas avevano commesso crimini orrendi, non mi venne mai in mente di esercitare con loro i miei picchi di sadismo.

MR:

Ma non dimenticare che i militari avevano un incentivo, che in te non potrebbe essere presente in nessun modo: nella loro ottica chi si comportava peggio con noi faceva carriera nell’Esercito. Procedere in questo modo significava accumulare meriti sul proprio ruolino di servizio. La condotta che ebbe quell’ufficiale con noi potrebbe esser stata disapprovata in qualche momento dal comando, perché perse il controllo e avrebbe potuto compromettere il capo; tuttavia gli servì, perché gli diedero una borsa di studio per un corso in Brasile su come vigilare e interagire con i prigionieri.

FH :

Attraverso i commenti che sentivamo venimmo a sapere che quando dava loro lezioni sul comunismo, diventava furioso e piangeva in mezzo all’aula. I soldati, che tenevano molto a lui, rimanevano allibiti. Il tipo era un fanatico, e faceva pensare a quei predicatori di certe sette religiose, che davanti al microfono si infervorano fino al parossismo, perché vedono il demonio ovunque. Quell’uomo che godeva dell’immunità nel gioco delle leggi delle caserme, ci teneva a sua totale disposizione. Cominciò a controllare strettamente che non ci dessero da mangiare.

MR:

Farà scuola. Nelle successive permanenze in Ingegneria 4 avremmo sofferto la fame allo stesso modo.

FH :

Tu mangiavi la carta, io il deodorante.

MR:

Il personale della caserma mangiava la carne due o tre volte a settimana. Ci portavano le ossa che loro avevano già rosicchiato e noi le rodevamo per 152


assumere un po’ di calcio, desiderando avere i molari di un cane per triturarle e ingerirle. FH :

La colazione, la chiameremo così, me la servivano in questo modo: arrivavano in punta di piedi perché non li sentissi; aprivano la porta del FDODER]R velocemente e mi tiravano un pane in faccia. La prima volta mi sorprese una violenta panata ma, nelle altre occasioni, raccoglievo rapidamente il proiettile e glielo tiravo indietro; poi continuai a sviluppare questa predisposizione alla lotta con il pane, perché quei tizi, sentendosi aggrediti, me lo tiravano di nuovo, chiudevano con violenza la porta e, a volte, come risultato di questa guerriglia, me ne ritrovavo due o tre.

MR:

La moltiplicazione dei pani.

FH :

Ma altre volte non ne rimaneva nessuno perché quelli che io tiravo uscivano dalla porta e non tornavano indietro.

MR:

La sottrazione dei pani. [...]

7DQWD PHVVD LQ VFHQD SHU WUH VFKHOHWUL

MR:

Arrivammo a Minas con i nostri scheletri.

FH :

Un luogo conosciuto.

MR:

Che ci risultava familiare.

FH :

Gli stessi FDODER]RV in cui eravamo già stati.

MR:

Mi collocano nel mio abitacolo; c’era un tappetino di gomma. Quella notte inizia a piovere e il FDODER]R comincia a gocciolare dalle pareti, si allaga.

FH :

Quando il comandante e altri ufficiali arrivarono al mio FDODER]R – già mi avevano tolto il cappuccio e slegato – vidi nei loro occhi il segnale inequivocabile dell’orrore e della sorpresa.

MR:

Per l’impressione che avevano avuto al guardarci.

FH :

Immediatamente il comandante iniziò a gridare, chiedendo che venisse il 153


medico, che portasse una bilancia e fece restringere una divisa in modo che fosse evidente lo stato in cui ci ricevevano; poi ci chiese di cosa avessimo bisogno e ci autorizzò – per la prima volta – a leggere. MR:

Dopo averci pesato, un ufficiale dice: «Ehi! Questi sono pronti per 0DURxDV, pesano quanto un fantino».

FH :

Questo trasferimento deve essersi prodotto intorno al 22 dicembre. Noi non comunicavamo nemmeno attraverso la parete dal 1975. Erano due anni. Fu alla vigilia di Natale del 1976 che, quando ti cambiarono il FDODER]R perché si allagava, ti misero in quello affianco al mio e allora, immediatamente, mi chiamasti.

MR:

Ricordo la tua prima preoccupazione: «Ti riporteranno nell’altro» mi dicesti. «No – ti risposi – sembra di no, perché l’altro non è abitabile». E così fu.

FH :

Ci rincontrammo dopo un lungo viaggio durato due anni che, paradossalmente, avevamo fatto insieme. In modo che quella vigilia di Natale del 1976 la trascorremmo molto bene, perché potemmo parlarci di nuovo e avevamo da raccontarci due anni della nostra vita.

MR:

Questo trattamento relativamente buono, a Minas, sarebbe durato un mese e qualcosa; finché non ci fossimo ripresi. Il nostro trasferimento si verificò perché le autorità della Divisione, quando ci videro dallo spioncino a Laguna del Sauce, si allarmarono perché ebbero paura di rimanere senza tre ostaggi. Avrebbe saldato il conto quel sottotenente. Che ci avrebbe tenuto nelle sue mani di nuovo nel 1983, e si sarebbe preso una vendetta lunga e adeguata. Fu un miglioramento transitorio affinché, dopo, tutto tornasse come prima. Gli ordini riferiti a noi dai comandi non sarebbero cambiati.

FH :

Non cambiarono mai.

MR:

Durante le prime ore del giorno ci sedevamo sul cappuccio, preparavamo il mate, rollavamo una sigaretta (due cose ricevute di recente), e ci mettevamo a “conversare” come se fossimo sotto un RPE~25 con vista sul fiume.

FH :

Parlavamo a grande velocità attraverso la parete, e così il dialogo era abbastanza fluido...

MR:

Lì affinammo il codice, semplificandolo.

FH :

Il re-incontro non si verifica solo attraverso la parete, lì inventano un nuovo sistema di “ore d’aria”. Per farci recuperare, per farci prendere il sole, danno l’ordine di tirarci fuori, a noi tre insieme, ma, attenzione, 154


portavano tutti e tre senza che potessimo assolutamente comunicare, in carovana, fino alla Piazza d’Armi; ci facevano sedere a una distanza di 6 o 7 metri l’uno dall’altro; non potevamo né parlare né farci segni, ma, per la prima volta dal 1973, ci vedevamo. Ricordo la terribile impressione che ebbi la prima volta – eravamo in piena estate –. Avevate l’aspetto di due ebrei in un campo di concentramento che erano stati liberati dalle truppe alleate. Tremendamente invecchiati. Io conservavo nella mia memoria l’immagine di prima, e avevo dimenticato che il tempo passa; canuti, scheletrici, con espressione di pazzi. MR:

Io ebbi l’impressione che a te il cranio si fosse ridotto. Eri smunto, di un giallo grigiastro.

FH :

Pensai, poi, a cosa potesse provare la famiglia quando ci vedeva in quello stato.

MR:

Le “ore d’aria” erano tre volte alla settimana. L’ordine prevedeva 45 minuti, ma le difficoltà burocratiche facevano in modo che molte volte non ci portassero fuori.

FH :

O che ci portassero dieci minuti.

MR:

Pepe, con una fame malata di sole, si sedeva, arrotolava i pantaloni fin dove lo permetteva la loro aderenza, si rimboccava le maniche della camicia fin dove poteva, apriva i palmi e rimaneva, faccia verso il sole, quieto, durante tutta l’ora d’aria. Quando ritornammo al FDODER]R e ci raccontammo come ci vedevamo, tu dicesti che Pepe sembrava una pubblicità della Nivea. Due o tre volte ci presero uno ad uno e ci fecero camminare nel quadrilatero della Piazza d’Armi, accompagnati da un soldato che ci pungolava e ci insultava durante il percorso. Era per farci allungare gambe e braccia, cosa che non avevamo fatto da quattro anni. Quando uscivamo insieme, posizionavano una mitragliatrice con i rispettivi tiratori, puntata verso di noi sulla porta di ogni Compagnia.

FH :

Oltre alla guardia che ci portava all’ora d’aria, e che sarebbe morta massacrata insieme a noi nel caso in cui a uno scappasse una raffica.

MR:

Insieme a ognuno di noi c’era un soldato con un manganello.

FH :

E tutto questo al lato della sala della guardia, con il suo personale armato, che prendeva il mate e ci guardava. Tanta messa in scena per tre scheletri!

155


*OL DUFKLWHWWL GHO GRORUH

MR:

Si avvicinava l’ora temuta di un altro trasferimento. Pepe conservava ancora la sua invidiata sputacchiera26, e noi, preparandoci per altre caserme, c’impossessammo di due vecchi contenitori di latta della cotognata. Li tenevano per metterci l’immondizia nel bagno. Prima io e poi tu, quasi di malavoglia, li portammo nel FDODER]R...

FH :

... preparandoci per il futuro minaccioso, perché a Minas non ne avevamo grande necessità. Però non per bontà militare, ma per un fenomeno che vale la pena descrivere. Un capriccio dell’architettura, il fatto che le latrine fossero di fronte ai FDODER]RV era un sollievo...

MR:

... moltissime percosse dipendono da se la porta del FDODER]R è massiccia, ha o no lo spioncino; se ha le sbarre e il prigioniero può guardare la faccia del carceriere... il trattamento cambia come dalla sera alla mattina. Per questo, tra le altre cose, serve il cappuccio...

FH :

Luoghi in cui questo fenomeno ti fa drizzare i capelli sono quelli come l’isola del 3HQDO GH /LEHUWDG. Chiunque sia stato nei suoi FDODER]RV potrà misurare la raffinatezza, la precisione, la scienza che l’architetto che disegnò l’isola mise al servizio del dolore: gli diedero il compito di far soffrire il più possibile gli esseri umani, e lo fece alla perfezione... senza toccarli con le sue mani. E mise nell’impresa tutto quello che gli avevano insegnato all’Università, la matematica, il calcolo, l’economia dello spazio, perfino l’arte...

MR:

Perché i FDODER]RV delle caserme sono grossolani. Anche quando sono disegnati per far soffrire, si vede la mano militare. La crudeltà. L’ignoranza. Come dicono loro stessi: tutte le cose si possono fare in tre modi: bene, male o alla militare. Alla militare significa farle male e rubare la metà.

FH :

Ma nell’isola del 3HQDO GH /LEHUWDG e nei FDODER]RV punitivi di Punta Carretas, si può apprezzare come sono fatte bene le cose, in modo da torturare semplicemente alloggiando i detenuti nei FDODER]RV.

MR:

Sono pensati, calcolati, misurati e creati su misura il buio, la sete, le correnti d’aria ghiacciata in inverno, il caldo soffocante dell’estate, lo sporco insormontabile, l’oppressione delle pareti, la solitudine, il silenzio profondo, i rumori terrificanti delle sbarre metalliche, le doppie grate, la pendenza del pavimento livellata ad arte per fotterti... frutto di un lavoro scientifico con un solo obiettivo: fare del male.

MR:

Ci sono dei Mengele dell’architettura, e la cosa peggiore è che forse non si rendono nemmeno conto di esserlo. Perché uno se li immagina nel loro 156


accogliente studio moquettato, contenti perché hanno vinto il concorso o la gara, mentre pensano, in tranquilla coerenza, a come rompere l’anima alla gente attraverso l’architettura. FH :

Violano i diritti umani nell’astratto. Alla cieca. Genericamente. Accada quel che accada, sotto a chi tocca.

MR:

Appartengono, in qualche modo, alla specie “Gavazzo”. Ci sono migliaia di carceri nel mondo: tutti hanno FDODER]RV concepiti per distruggere l’individuo. Sono opera sua.

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FDODER]RV

FH :

Rimaniamo sepolti, di nuovo senza niente, in quei già a noi noti del 7° Cavalleria, secondo un chiaro programma punitivo.

MR:

Durante quell’inverno e l’inizio della primavera, come gli anni precedenti, avveniva sotto le finestre dei nostri FDODER]RV l’istruzione delle reclute...

FH :

... a Santa Clara funzionava il Cir della Divisione dell’Esercito n. 4.

MR:

Venivano mandati lì ogni tre mesi gli aspiranti soldato di tutta quella regione dell’Uruguay.

FH :

E anche gli ufficiali responsabili della loro istruzione; per cui nel 7° Cavalleria c’erano sottotenenti, tenenti, capitani di tutte le Armi.

MR:

E una compagnia chiamata Cir, agli ordini di un capitano.

FH :

Ciò ci permise di conoscere la voce di molti ufficiali e di molti soldati, con i quali ci saremmo incrociati nei nostri trasferimenti nei diversi paesi e caserme.

MR:

Dovevamo “sopportare” non solo gli ufficiali e le classi del 7°, ma anche quelli che, dall’intera Divisione, venivano a passare diversi mesi della loro vita in quel luogo.

FH :

Gente che si annoiava in un paesino così piccolo...

MR:

... e che si divertiva un poco con noi.

FH :

Ci mettevano tre mesi a trasformare una recluta in un soldato. 157


MR:

Imparammo a memoria i comandi per le istruzioni quando erano in riga. Mattina e sera sentivamo continuamente grida...

FH :

Dal giorno in cui arrivava il nuovo gruppo, che si sapeva appena muovere, al giorno in cui se ne andava. Dai primi giorni pieni di “femminucce” e scherzi sarcastici sull’inesperienza degli ultimi arrivati, a quello del gesto finale di festa e congedo.

MR:

A volte, vicino ai nostri FDODER]RV, davano i corsi sulle armi, quelli di topografia, quelli di storia, quelli di lotta antisovversiva.

FH :

Sentivamo raccontare la storia del Mln, del Partido Comunista, del Frente Amplio...

MR:

Non sapevamo se piangere o ridere... Bisognava sentire quella versione della storia! Andava dal tragico al ridicolo.

FH :

Perché molti sottotenenti, che tenevano la lezione, non avevano la minima idea...

MR:

Nei corsi comparivamo noi e altri compagni di sinistra.

FH :

E c’erano soldati che perdevano l’anno per non aver saputo ricordare il cognome del temibile capo della Cnt27.

MR:

In fondo, ai soldati, non glie ne fregava un tubo. Non capivano un cavolo, e quando venivano di notte a sorvegliarci ripetevano a memoria i nomi della sinistra come la tabellina del tre.

FH :

O come la cantilena che elenca i confini dell’Uruguay dal Cuareim a Chuy, torrente per torrente, pietra per pietra.

MR:

Bisognava superare un esame. Ricordo quello a cui chiesero che cosa si festeggia il 28 febbraio, che rispose: «L’ultimo giorno del mese, signore...».

FH :

O quello che, interrogato sulle caratteristiche del Fal28, e avendo dimenticato la litania da regolamento, affermò senza esitazione che era «un fucile a doppia canna».

MR:

E con ciò era molto più vicino alla realtà che recitando il verso indecifrabile.

FH :

Ma lo bocciarono lo stesso.

MR:

Bisogna farsi un’idea di quelle che erano, allora, le risposte riferite alla realtà politica della Nazione. Non c’erano che due classi: militari e civili. Tra questi (i “pisciasotto”), nella rivolta erano incluse le suore segnalate dal Cremlino. 158


FH :

Poi c’erano gli scherzi e le punizioni corporali.

MR:

«Fermo sull’attenti!», per ore... «Faccia quaranta giri di corsa intorno alla caserma». A volte, perfino la notte sentivamo le misere scarpe che passavano ripetutamente sotto le nostre finestre.

FH :

«Faccia cinquanta flessioni!».

MR:

«Vada strisciando fino alle stalle e chieda ordini al tenente Tal dei tali».

FH :

E andava lì, strisciando, un ragazzo di 18 anni preso dai sobborghi delle zone interne o dal cuore di qualche latifondo.

MR:

Ricordo che una volta, dopo una punizione, un uomo che aveva già una certa età e stava facendo il Cir, decise di andarsene dall’Esercito... Finire l’addestramento e andarsene: «Non ce la faccio» diceva a un altro a bassa voce davanti alla nostra porta. «Per essere un militare uno deve perdere la poca decenza che gli resta, e io non ce la faccio».

FH :

«Recluta Tizo!», gridava un sottotenente, e arrivavano di corsa un paio di stivali bucherellati. – «Con permesso, signore. Recluta Tizio, Divisione Quattro, Reggimento di tale lato, Battaglione di tal’altro, compagnia Cir 4, agli ordini!». – «Lei ha paura di me?», gli chiedeva gridando l’ufficiale. Se rispondeva «sì» lo mandava di filato a fare giri di corsa; bisognava rispondere che non era paura, che quello che provavano per lui era brutale rispetto.

MR:

«Non mi guardi così, con questa faccia da civile!» gli gridavano. «Voglio una faccia da guerra, una faccia tosta, di un cane. Da soldato!»

FH :

E cambiavano faccia molti giovani disoccupati delle zone interne appena usciti dal guscio.

MR:

Quelle facce che poi avremmo visto per strada e che li avrebbero resi riconoscibili...

FH :

«Cosa credete», gridavano ripetendo sempre la stessa battuta che avevano imparato nella Scuola Militare, quando lo gridavano a loro, «di essere alunne del Carandon29?!».

MR:

Nessuna recluta aveva la minima idea di cosa fosse il Carandon e a volte, a bassa voce, lo chiedevano ai soldati più anziani: «Oh, ma che è?» – «È dove fanno il Cir le pazze di Montevideo», rispose uno con un tono d’intesa. [...]

159


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MR:

Tutti quelli che sono stati nelle carceri dell’Uruguay sanno che lì dentro esiste un detto comune e ricorrente, che usano tanto i soldati quanto i capi e gli ufficiali: «Che iella!»

FH :

Molto interessante e dobbiamo spiegarlo. Provare a descriverlo.

MR:

La battuta non è solo per i civili. Se lo appioppano fondamentalmente tra di loro. È parte inseparabile della struttura idiomatica dell’Esercito.

FH :

Forse di tutto l’Esercito... e questa è la cosa più triste.

MR:

Ad esempio, se le manette ti tagliano e ci rimetti un braccio: «Che iella!» Chiedi di andare dal medico e c’è l’ordine di non darti retta: «Che iella!» Soffri la fame: «Che iella!» Muore qualcuno a causa delle torture: «Che iella!»

FH :

All’inizio pensavamo che era un modo di “scherzare” che avevano solo con noi. Poi capimmo che non era così, lo usano tra di loro. Sei in punizione?: «Che iella!» Ti è toccato il turno di guardia proprio il giorno del ballo?: «Che iella!» Un ufficiale ti perseguita?: «Che iella!» Hai perso una gamba sul campo di battaglia?: «Che iella!»...

MR:

«Che iella!» è sinonimo di: «Fottiti, queste sono le regole del gioco». Non ci sono responsabili. Non esiste la responsabilità. Nessuno è colpevole di niente. Gli ordini si eseguono e il superiore ha sempre ragione...

FH :

«Quando io vi do un ordine – gridava un capitano agli ufficiali subalterni – ve lo sta dando DIO . IO sono più potente di Dio».

MR:

Un altro aveva cambiato il verso, si vede che era massone, e diceva loro: «Quando vi parlo io vi sta parlando L’ESSERE SUPREMO ». Hanno degradato Dio, Ñato: «Che iella!».

FH :

È ovvio, allora, che se come conseguenza di un ordine capita una disgrazia, si può solo dire: «Che iella!»... Visto che è un ordine di Dio, o di un suo superiore. Una forza della natura. Nessuno dà la colpa a nessuno per un temporale.

MR:

Ed è implicita la convinzione che non c’è niente di “supremo” davanti 160


all’Esercito. FH :

Deve essere così. E se lo analizziamo nei casi di guerra, in tutti quei casi in cui si conclude che è necessario applicare la PDQX PLOLWDUL, vediamo che è così. Qualsiasi ordine dato in tempo di guerra implica la vita per alcuni e la morte per altri, anche dentro l’esercito uruguayano.

MR:

E inoltre trasferiscono questa convinzione a tutte le attività della vita.

FH :

Quello militare diventa un dogma. Ideologia. Religione. E quindi, se ti hanno ucciso durante la tortura: «Che iella!». È stupido cercare un responsabile.

MR:

Non solo è stupido: per loro è anomalo cercarlo. Non gli entra in testa.

FH :

Il grande errore di molti moralisti è credere che tutti abbiano la stessa scala di valori. Sbagliano alla radice, vivono in una tragica illusione. C’è gente che ha scale di valori morali diverse, molto diverse, sacre quanto lo sono le nostre per noi. Ma c’è anche gente a cui manca completamente qualsiasi tipo di scala di valori.

MR:

E ancora: la loro scala di valori consiste nell’affermare che averne una è un’immoralità. Come dire, nell’Esercito, di fronte a un ordine, qualunque esso sia, avere una scala di valori per giudicarlo è, quanto meno, scomodo. Quelli che ce l’hanno, tacciono, tollerano. E quelli che la esternano, disertano, o “sono disertati”.

FH :

Che ci piaccia o no, questa è una morale. Sarà orribile, ma è così.

MR:

Chi non lo capisce e crede che, attraverso prolissi sillogismi, sommando A più B, può dimostrare che Tizio è stato assassinato e che potrà almeno moralmente condannare Caio, sbaglia da cima a fondo. Giustamente, e per gli stessi motivi, Caio, ufficiale dell’Esercito, si sentirà intimamente gratificato dalle stesse argomentazioni, e i suoi compagni, per queste stesse argomentazioni, ammireranno la sua altissima levatura morale, dimostrata dal fatto che ha torturato fino alla lenta liquefazione.

FH :

Chi non capisce questo, non capisce niente.

MR:

«Che iella!»

161


3XOL]LD UDGLFDOH

FH :

Nell’ottobre del 1977 siamo misteriosamente trasferiti, al di fuori di ogni routine, di nuovo all’11° Fanteria a Minas.

MR:

Una mattina, ci misero di gran fretta su un camion insieme ai nostri beni personali e, facendo parte di una lunga carovana di veicoli militari, in cui c’era anche il gruppo del Cir che terminava il suo corso a settembre, intraprendemmo un rapido viaggio verso sud.

FH :

Cosa poteva essere successo? Dove ci portavano? E perché? Non lo abbiamo ancora saputo.

MR:

Furono movimenti strani sulla scacchiera. Eravamo pedine in una partita nella quale, come sempre, fummo sconfitti.

FH :

Per prima cosa, insolita e fantastica: una volta arrivati e messi nelle mani dell’11° Fanteria ci dicono: «Faccia attenzione mentre scende, Tizio», e ci prendono dolcemente per un braccio e ci aiutano a scendere le scalette del camion, scalette che non erano mai state messe per noi. E questo ci fece paura.

MR:

All’inizio ci autorizzarono il mate due volte al giorno e, cosa più importante, controllavano che l’ordine fosse eseguito. Bevevamo, effettivamente, come qualsiasi cittadino, il mate la mattina e il mate la sera. Mi sembrava di essere allo Sheraton. Ma tutti i miei sensi erano all’erta... In attesa.

FH :

Ci davano da mangiare come si deve. Pasto completo, con il dolce e tutto: budino di pane. Era da non credere. A volte, nel budino, ci capitava perfino un pezzettino di cotognata!

MR:

Ma il colmo, l’apice, l’insuperabile fu quella pulizia che ci ordinarono, con gentilezza, di fare...

FH :

La più grande che avessimo visto fare nell’Esercito in più di tredici anni.

MR:

Arrivò a includere, nonostante sembri incredibile, del sapone in polvere.

FH :

Nemmeno al Presidente della Repubblica l’Esercito riserva, in materia di pulizia, sapone in polvere.

MR:

Il massimo che avevamo visto qualche volta era pessimo deodorante Perfumol.

FH :

Quando il sergente consegnò il materiale per la pulizia, tra cui, con mano 162


quasi tremante, il sapone in polvere, rimasi sbigottito guardandolo fisso negli occhi. Anche lui era sbigottito. Chi diavolo stava venendo? Il Dalai Lama? MR:

La schiuma nei FDODER]RV, in alcuni punti nel bagno e nel piccolo patio intermedio arrivò quasi a dieci centimetri. Topi, pulci, cimici, formicai interi fuggivano spaventati. Perfino una nube di formiche volanti si alzò in volo da un angolo del bagno.

FH :

I soldati dalla stanza di guardia guardavano, allarmati, affacciandosi con circospezione – era comprensibile –, fucile alla mano da dietro il muro, come aspettando un agguato. Non avevano mai visto una cosa simile.

MR:

E si chiamavano tra loro: «Guarda, sapone in polvere»

FH :

«Porca puttana!» dicevano. E rimasero, come noi, tesi e spaventati.

MR:

Ci diedero il permesso di fare il bagno e raderci a volontà. Per tutto il tempo di cui avevamo bisogno.

FH :

Venne un ufficiale, di alto grado, per esaminare bene la rasatura. Ci mancava solo che si portasse la lente d’ingrandimento. Esaminò i nostri visi come Rommel le mappe dell’operazione nel nord dell’Africa alla vigilia di una grande battaglia. «Si rada meglio qui, ci sono dei peli», mi disse.

MR:

Quella pulizia comprendeva tutti gli oggetti; anche i prigionieri. «Tenete la cella ben in ordine. Per favore», ci venne a dire un sergente. «Quella sacca, la metta più in qua», corresse, con evidente buongusto; sembrava uno scenografo.

FH :

Alla fine ce lo dissero: «Tenetevi pronti perché riceverete, qui dentro, una visita speciale».

MR:

Li abbiamo in pugno, Ñato!, ti gridai con l’alfabeto morse dal muro.

FH :

Avranno deciso di arrendersi, Ruso, ti risposi.

MR:

Ma passarono le ore, i giorni... E rimanemmo rasati ma senza visita.

FH :

Si vede che la visita decise di non venire... o chissà che successe. L’unica cosa certa fu che, in un determinato momento, drasticamente, arrivò “la notte”.

MR:

Qualcuno deve aver fatto qualcosa. Qualcuno era stato autorizzato a vederci. Ma questo qualcuno non arrivò. Qualcosa, non sappiamo cosa, non immaginiamo cosa, successe, e come dal giorno alla notte passammo dal sapone in polvere al più duro clima di sanzioni e repressioni, senza saper né leggere, né scrivere. Senza avere la minima conoscenza del perché. 163


FH :

Quando ci fecero salire, a calci, di nuovo sul camion del 7° Cavalleria con destinazione di nuovo Santa Clara de Olimar, al culmine di insulti e colpi, non ebbi altro rimedio che ricordare il racconto del gallego: «Colpite, colpite pure, che quante più ne date a me, più ne do a lui». [...]

$FTXD FRPH ULFHWWD

MR:

Buon Natale! Arrivammo alla fine dell’anno 1977 bevendo più pipì, mangiando pasta dentifricia e più insetti che mai.

FH :

I risultati degli attacchi di vomito e diarrea si accumulavano per terra...

MR:

«Le diarree si interrompono con 48 ore di digiuno», sentenziò con fare dottoresco il medico di Santa Clara, sempre “grande umorista”, e aggiunse alla fame che soffrivamo, e che lui conosceva molto bene, la sua battuta punitiva.

FH :

Perché «la smettessimo di rompere».

MR:

Tutte le nostre malattie, fino ad allora più o meno latenti, scoppiano in pochi mesi...

FH :

Un fenomeno curioso, come un’esplosione...

MR:

Come se una goccia in più di maltrattamento avesse fatto traboccare tutti i vasi. Una piccola goccia.

FH :

Bastò una piccola overdose per produrre qualcosa di simile al fenomeno chimico della saturazione...

MR:

Le nostre malattie si cronicizzarono. Durano fino a oggi. Quelle di cui soffriamo attualmente iniziarono, o meglio si esplicitarono, in quei giorni...

FH :

Mujica si ammalò gravemente. Il medico ci vedeva, quando andavamo in bagno, lanciarci sul lavandino alla ricerca di acqua per la nostra sete esasperata.

MR:

Quando Pepe si ammalò gli prescrisse: acqua! Questa fu la strana medicina. E, realmente, in quelle condizioni, lo era. 164


FH :

Appesero la ricetta, con il nome e cognome del dottore, come tutte le ricette, sulla solida porta del FDODER]R di Pepe, come l’INRI della croce...

MR:

I soldati e gli ufficiali, leggendola ad alta voce, morivano di risate. «Un litro al giorno», firmato: tal dei tali.

FH :

La grande battuta del dottore! Per la felicità dell’intera caserma che, sorridendo, diceva: «Questo tizio (il medico) è geniale».

MR:

«Sempre lo stesso...».

FH :

Allora portavano l’acqua a Pepe, a volte nel secchio per le pulizie.

MR:

«Devi bere il rimedio che ti ha prescritto il dottore – gli dicevano –, e lo devi bere tutto insieme».

FH :

«Andate a cagare», gridava Pepe, e lo immaginavo con la voglia di tuffarsi comunque nel secchio.

MR:

A volte gli portavano una brocca con l’acqua e se la passavano a calci davanti a lui.

FH :

Nell’Esercito del 1977, i medici militari davano l’acqua come prescrizione...

MR:

E non ci sono dubbi che fosse una medicina, una vera medicina. [...]

, SLFFROL DJX]]LQL

MR:

Un’altra delle raffinatezze a cui arrivarono, forse la peggiore, fu l’aver assegnato a dei bambini il compito di martorizzarci.

FH :

Sono pienamente d’accordo: l’orrore peggiore.

MR:

Per i bambini...

FH :

... e per noi.

MR:

Fu una delle cose che ci fece più male...

FH :

... di tutti i martiri, questo. 165


MR:

Psicologicamente, a quel punto erano molto poche le cose che riuscivano a sconvolgerci...

FH :

Pugni e calci già non avevano molto effetto su di noi.

MR:

Un giorno dei bambini si avvicinarono alle porte dei nostri nostri spioncini, per insultarci, per fare commenti...

FH :

Per contribuire con il loro granello di sabbia all’opera.

MR:

Come si poteva condividere la mentalità di padri – erano figli di ufficiali e capi – che come attività formativa davano ai figli questo compito?

FH :

Compito che, una volta svolto, era motivo di orgoglio paterno... stavano addestrando i figli, da bambini, alla tortura.

MR:

E non si rendevano conto che le vittime erano i loro stessi figli...

FH :

... che stavano commettendo una crudeltà contro se stessi e contro di noi.

MR:

Eravamo addolorati: per loro, per la nostra Nazione, per la nostra civiltà, per tutti.

FH :

Si era arrivati a questi estremi di inconcepibile bassezza. Era un’aggressione ai bambini il solo fatto che permettessero loro di vederci. Che vedessero lo stato in qui eravamo. Pensa a quando io pregavo la mia famiglia di non portare Gabrielita solo perché non mi vedesse.

MR:

Quelli non solo lo permettevano ai loro figli, ma li incoraggiavano pure. Sentire la voce di un soldato che ci sbeffeggiava e c’insultava faceva parte delle regole del gioco, ma sentire la voce dei bambini che ci minacciavano, deridevano, che esultavano come in un gioco, era macabro.

FDODER]RV

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[...]

166


/D 3DYRQFHOOD

FH :

Il 28 Febbraio...

MR:

... per «festeggiare l’ultimo giorno del mese»...

FH :

... del 1978, ci trasferirono a Melo.

MR:

Era la data giusta: ormai era una routine.

FH :

Non sapevamo che avremmo lasciato per sempre Santa Clara. Che non saremmo mai più tornati...

MR:

Perché il 7° Cavalleria si trasferiva a Río Branco, ma noi l’avremmo scoperto molti anni dopo. Intanto il fantasma di quella caserma – che volevamo con tutto il cuore che non rimanesse in piedi e che fosse cosparsa di sale – ci perseguitava durante ogni trasferimento.

FH :

Durante questi ultimi mesi a Santa Clara io sognavo ad occhi aperti i mille modi che un essere umano ha per farsi un bagno. Una volta arrivati a Melo, luogo che già conoscevamo, osserviamo durante la nostra prima esplorazione del bagno...

MR:

... che avevano messo, da poco, un piccolo scaldabagno, proveniente, logicamente, dal Brasile, come indicava l’imballaggio che stava buttato lì.

FH :

Uno scaldabagno per noi!

MR:

Ci doveva essere un cambio importante nella situazione politica...

FH :

Lo usavano le guardie e durò molto poco.

MR:

Come dicono gli stessi soldati, «Non c’è niente a prova di militare». Le mie unghie si erano ribellate: continuavano a crescere contro la mia volontà. E non avevamo con cosa tagliare queste escrescenze, ricche di proteine. Riuscii a prendere in un cestino della spazzatura diverse scatolette di fiammiferi usate, di quelle di un tempo, con la sabbiolina su cui sfregarli.

FH :

L’unico strumento per tagliare le unghie che continuavano a crescere... Io accumulai carta abrasiva per diversi anni. Dopo poco che ero lì, credo fosse stato aprile, lessi un titolo de (O 3DtV. Ricordi che per raderci andavamo in un FDODER]R vuoto che usavano come deposito?

MR:

Sì, ci facevano guardare in uno specchio che mettevano a terra perché vedessimo solo la nostra faccia e non quella di chi ci controllava da dietro. 167


FH :

Ti radevi in ginocchio o a quattro zampe.

MR:

Dopo tutto quel tempo senza guardarci, ci rallegravamo constatando che, anche se un po’ deteriorato, il viso rimaneva al suo posto. Avevamo ancora un’immagine da riflettere.

FH :

Un giorno andai a farmi la barba, e, siccome quel FDODER]R lo usavano come deposito, c’erano diverse cose ammucchiate lì, con un certo disordine e, tra quelle, per terra c’era un quotidiano che avevano dimenticato. Con la coda dell’occhio, mentre mi radevo, riuscii a leggere parte di un grande titolo. Parlava di un rapporto pubblicato negli Stati Uniti sulla situazione dell’Uruguay. Magari mi ero sbagliato, a causa della difficoltà di leggere in quelle condizioni, ma mi sembrò che si trattasse di un comunicato prodotto da una delegazione di avvocati, o qualcosa del genere, che aveva visitato l’Uruguay.

MR:

Me lo raccontasti attraverso la parete e lo collegammo, solo allora, con quello che ci era successo a Minas il giorno della grande pulizia. Ma potevano essere nostre ipotesi...

FH :

Sì, e proprio in quei giorni ci sarebbe stato l’episodio delle pavoncelle. Ti ricordi?

MR:

Quando il nuovo turno di guardia prese servizio, rimase sconvolto da qualcosa a cui avevano assistito. Erano stati quella mattina a esercitarsi al poligono di tiro, e un ufficiale, invece di mirare al bersaglio, puntò una pavoncella che stava lì vicino, e la uccise. Immediatamente tutto uno stormo di pavoncelle iniziò a volteggiare intorno all’uccellino morto, con delle urla terribili, come se la stessero chiamando.

FH :

Dicevano di non aver mai visto una cosa simile. Li impressionò la cattiveria dell’ufficiale, ma anche, in particolar modo, il misterioso comportamento degli uccelli, che non se ne andavano. Erano stati presi alla sprovvista. Ebbero paura.

168


´)LODQWURSLµ

MR:

In quel FDODER]R vuoto tenevano in deposito anche i nostri “effetti personali”. L’ordine era che dentro i nostri FDODER]RV non ci poteva essere niente, e quando avevamo bisogno di cambiarci i vestiti o cose del genere, dovevamo iniziare le pratiche, lunghe, perché ce li portassero. A volte, per risparmiarsi la fatica di cercare, ci portavano al deposito. Così potemmo vedere tutto quello che avevamo... e tutto quello che spariva misteriosamente...

FH :

Soprattutto il mate, quando la famiglia ce lo portava, o le sigarette.

MR:

Tutti avevamo, come abbiamo già detto, sviluppato un fine senso dell’udito. Riconoscevamo il rumore caratteristico della porta di ogni FDODER]R quando si apriva. Sapevamo, dal rumore dei passi, dove si dirigeva la guardia. Non bisogna meravigliarsi di questo: anni e anni non potendo far nient’altro che ascoltare sviluppano questa facoltà.

FH :

Attraverso le loro chiacchiere in tono complice, i loro passi colpevoli, il rumore sottile della porta del deposito aperta con una certa attenzione, lo scricchiolio delle borse e dei pacchetti, sapevamo quando, effettivamente, stavano rubando il mate o stavano frugando tra i vestiti.

MR:

Specialmente di notte. Una notte Pepe, che aveva il sangue al cervello per le tante “sottrazioni” dal deposito, si vede che o li spiava o era semplicemente sveglio, quando sentì iniziare quell’operazione. Aspettò, basandosi sul suo udito, che il capo della guardia fosse con le mani nel sacco.

FH :

O meglio nel mate.

MR:

E dal profondo del suo FDODER]R scuro, con una voce gutturale e solenne, come quella di Dio, gridò: «Che ci fate voi lì?!», e con il tono tagliente degli ordini militari: «Lasciate quel mate!».

FH :

Sentimmo gli stivali della cavalleria uscire di corsa inciampando tra le borse. Il cane che stava di guardia mezzo addormentato alzò le orecchie e iniziò il gemito ronco che era il preludio ai suoi scandalosi latrati. Non poteva fare altrimenti: c’erano i ladri.

MR:

Il resto dei soldati rimase immobile. Non sapevano cosa fare.

FH :

Bisbigliarono qualcosa, e subito dopo lo scricchiolio sottile dei grandi stivali in punta di piedi venne a controllare dai nostri spioncini, aprendoli molto lentamente... «Dormivamo». 169


MR:

Il giorno dopo, appena albeggiò, ci portarono al bagno. Erano logorati dalla curiosità.

FH :

Ci portavano uno ad uno e nel frattempo sentivamo che gli altri due controllavano meticolosamente, da dentro il FDODER]R vuoto, lo stato degli spioncini.

MR:

Cercavano il forellino dal quale potessimo vedere. Un forellino inesistente, che anche se fosse esistito non avrebbe permesso di guardare dal lato della porta del deposito. Perciò uno, più scienziato, sostenne a bassa voce: «Devono avere un periscopio nascosto».

FH :

Non ci dissero mai niente, ma divulgarono la notizia. Secondo uno, noi eravamo stupidi “neofiti”, cioè: tremendamente capaci.

MR:

E secondo un altro, eravamo “filantropi”. Quando un capo gli chiese che volesse dire, un altro capo, in prima, gli spiegò: «Filantropi, quelli che vanno sui palchi a carnevale e fanno parlare i pupazzi».

,O PHUDYLJOLRVR WUDVIHULPHQWR GHO $JRVWR

FH :

Nonostante fossimo “neofiti” e pertanto pericolosissimi, nessuna guardia eseguì l’ordine che un giorno diede un capitano: «Proiettile in canna ogni volta che li portate in bagno».

MR:

«Questo tipo è pazzo», dicevano.

FH :

Iniziammo a lasciarci alle spalle altri mondiali di calcio.

MR:

I nomi Luque e Kempes30 furono quelle che arrivarono più spesso alle nostre orecchie, e, attraverso dei commenti, un giorno scoprimmo che l’Argentina aveva vinto.

FH :

Quello fu tutto.

MR:

Poco dopo iniziammo a prepararci per un nuovo trasferimento, finché finalmente arrivò il tanto atteso ordine di routine.

FH :

Fu il primo agosto 1978. Contrariamente alle abitudini, uscimmo da Melo a mezzogiorno.

MR:

Una lunga carovana di veicoli che non conoscevano la destinazione... 170


FH :

Ci misero sul cassone di una camionetta con un telone, insieme al nostro bagaglio, che non era granché; nello stesso cassone c’erano due soldati, un sottotenente e un cane che, per fortuna, rimase tranquillo. Era Kati. Stavamo come sardine in scatola gli uni sugli altri. Davanti e indietro altre camionette armate fino ai denti.

MR:

C’erano anche le nostre due lattine, che avevamo riconquistato a Melo, e nelle mani di Pepe, la sputacchiera.

FH :

Il sottotenente e i soldati durante la prima parte del viaggio venivano a deridere i nostri cappucci legati stretti. Facendo commenti minacciosi sulla destinazione del nostro viaggio, con cattiveria. Come sempre.

MR:

Indovinammo, dai rumori, che la carovana entrava nelle strade di una città. Calcolando il tempo trascorso: Treinta y Tres. Proseguimmo senza fermarci. Sentimmo passare, è inconfondibile, le ringhiere del ponte Olimar. Continuammo...

FH :

Prima di arrivare a José Pedro Varela, la carovana sostò in un luogo isolato. Scesero tutti a pisciare e a sgranchirsi le gambe, specialmente quelli che stavano ammassati con noi.

MR:

Stavano per mettersi di nuovo in cammino quando sentimmo quello strano ordine: «Togliete i cappucci».

FH :

Si sentiva il pigolare degli uccellini e il vento fischiare tra il fil di ferro, quando improvvisamente si alzò il sipario e l’Uruguay, il mondo, la sua terra e il suo cielo, tutti interi, dopo anni, comparvero alla nostra vista.

MR:

E i volti di quelle voci che per tanti anni avevamo sentito ogni volta che eravamo a Melo. Le voci adesso avevano anche dei volti, ma non coincidevano. Erano incongruenti. I volti che avevamo immaginato non coincidevano con le voci che avevamo conosciuto.

FH :

Facemmo la conoscenza anche del viso di Kati, quella cagna che ci aveva abbaiato contro per tanti anni...

MR:

Facemmo la conoscenza dei nostri stessi volti invecchiati, e... della sputacchiera di Pepe. Veramente un monumento!

FH :

Pepe ci sorrideva dalla sua bocca già senza denti e indicava con gli occhi il recipiente come a dire: «Che te ne pare?»

MR:

Era proibito parlare, ma intanto gli occhi inseguivano il mondo.

FH :

La tensione psicologica prodotta da quella situazione, dentro un cassone stretto di una camionetta, loro e noi per la prima volta a volto scoperto, fu tremenda. 171


MR:

Loro diventarono muti. Guardavano a terra. Non l’avevano previsto. Era più strano per loro che per noi.

FH :

E molto più scomodo. Non sapevano che fare e che dire. Dove mettere le mani, i piedi, la faccia, ma soprattutto gli occhi.

MR:

A José Pedro Varela ci fermammo per fare rifornimento di carburante. Chiusero ermeticamente il cassone perché i civili non ci vedessero.

FH :

Lì, in quell’incrocio di strade, si giocava il nostro destino immediato: verso Rocha o verso Minas. Com’è diverso percorrere le strade con gli occhi aperti!

MR:

Le supposizioni morirono schiacciate dal peso della realtà dei fatti. Seguimmo dritto con direzione Minas. Fu riaperto il telone posteriore.

FH :

Il sottotenente, nervoso, tirò fuori il suo pacchetto di sigarette, tentennò, lo offrì ai soldati. I nostri occhi, indipendenti, andarono al di là di quel tabacco biondo con filtro, e qualcosa nelle sue mani fu più forte della sua volontà: tese il pacchetto verso le nostre, ammanettate. Fumammo tutti in silenzio.

MR:

La nostra cenere cadeva sulla sputacchiera di Pepe...

FH :

Passammo sopra al Cebollatí; le tue mani e le mie, incatenate insieme, parlavano a tutta birra con leggere pressioni, in codice. Commentavamo il viaggio senza smettere di guardare. Guardando con attenzione.

MR:

Una Nazione logora. Ci colpì la vista dello stato di José Pedro Varela, di Pirarajá, di Mariscala. La crisi, con la sua enorme carta vetrata aveva corroso quei paesaggi...

FH :

... sembravano paesi abbandonati. Faceva freddo, molto freddo, e iniziò a piovigginare.

MR:

Le nostre mani commentavano: «Siamo così sfortunati che proprio il giorno in cui possiamo guardare, diventa nuvoloso e piove. È possibile che siamo diretti, alla fine, a Montevideo. O per lo meno al sud...».

FH :

Stavano aggiustando la Statale 8; per lunghi tratti c’erano deviazioni.

MR:

Poco prima di arrivare a Minas, ordinarono di mettere i cappucci: andavamo di nuovo a Minas.

FH :

Un’altra volta, all’arrivo, il rumore delle lattine colpite e trascinate insieme a noi.

MR:

Annaspando, sudando nonostante il freddo, affannati, cademmo dentro quei, già nostri, FDODER]RV.

172


3URJUHVVL (GLOL]L ,

FH :

A Minas rimanemmo meno di tre mesi, perché alla fine di ottobre del 1978, in un trasferimento fuori dal normale... fummo portati per la prima volta al 10° Fanteria a Treinta y Tres.

MR:

Gli unici FDODER]RV della quarta divisione che non avevamo ancora conosciuto.

FH :

Quando arrivammo, caserma nuova, gente nuova, odio nuovo, vecchio desiderio di tenerci un po’ nelle loro mani, anche loro... «Adesso tocca a noi divertirci!», dicevano. Rimanemmo davvero sorpresi...

MR:

... avevano costruito, esclusivamente per noi, un piccolo “carcere” che chiamavano pomposamente “cellario”.

FH :

Era composto da tre FDODER]RV appena terminati, un piccolo bagno, un corridoio chiuso da una pesante cancellata di ferro che affacciava su di una piccola sala dove c’erano la sentinella armata e la guardia.

MR:

Venimmo poi a sapere che quella, anticamente, era stata la Sala d’Istruzione Elementare della caserma, poi divenne sotterraneo, e per finire, con diverse chiusure progettate da un architetto militare, un cellario per tre persone. Erano orgogliosi di quel progresso edile appena portato a termine. Lo mostravano a tutte le persone che venivano in visita, e fecero anche delle foto per stilare un rapporto diretto alle più alte gerarchie.

FH :

L’Esercito si rimodernava.

MR:

Il peggio per noi era la decisione implicita in quell’opera: l’Uruguay creava una struttura per tre individui.

FH :

E ancora peggio, eravamo parte di una infrastruttura “nazionale”, ci infrastrutturavano. Eravamo come la Statale 8 o il ponte sul ruscello Solís.

MR:

Come una volta disse un vecchio soldato: «Questi sono stati donati all’Esercito».

FH :

Eravamo inventariati.

173


7UH JUDQDWH

MR:

Gli ostaggi, la “condizione di ostaggi” s’istituzionalizzava al punto da esigere un’architettura carceraria adeguata.

FH :

Fino ad allora ci avevano messo in qualsiasi buco disponibile. Ora no. Ora erano diventati seri, formali, più educati, finanche progressisti.

MR:

E andarono fino in fondo: dietro ogni porta splendente, appena verniciata, avevano appeso dei prolissi “regolamenti” molto simili a quelli del 3HQDO GH /LEHUWDG, evidente fonte d’ispirazione, ma adatti alla “categoria ostaggi”. Erano regolamenti per tre persone.

FH :

Erano più brevi e sbrigativi. Taglienti e laconici; molto seri.

MR:

Sulla porta di guardia c’era la sentinella armata di mitraglietta, e dentro la sala un tavolo, le sedie e un fiammante Registro delle Novità, la cui prima pagina, sottoscritta dal capitano della Sezione 1, dal capo dell’unità e dal comandante della divisione, stabiliva le regole del gioco anche per le guardie.

FH :

Ed erano diventati corretti a tal punto che ci mandarono perfino alla sezione dello Stato Maggiore corrispondente, la Sezione 1, e non la S2 com’era stato fino ad allora... Sembravamo dei prigionieri!

MR:

In quegli ordini scritti nel Registro delle Novità, insieme all’inventario che includeva sedie, tavoli, scope, e anche tre prigionieri, figuravano tre granate a frammentazione e l’ordine tassativo di tirarne una in ogni FDODER]R in caso di attacco alla caserma, lasciando al capo della guardia, secondo quell’ordine firmato, l’incarico di prendere la suddetta decisione.

FH :

Che fortuna! Perché non conoscemmo nemmeno un capo che leggendo quegli ordini non avesse affermato che mai, in tutta la sua vita, cascasse il mondo, avrebbe tirato quelle granate... Era ovvio che sarebbero saltati anche loro con noi.

MR:

Erano ordini per un altro tipo di esercito.

FH :

Quando qualche soldato controllava la cassa in cui si tenevano gli oggetti inventariati, comprese le granate, quasi sempre il capo o qualche soldato al suo posto diceva: «Non la toccare. Lascia stare quella diavoleria!»

MR:

Un giorno una recluta, che non manca mai, annoiata, giocando tolse per sbaglio la chiave di sicurezza a una di quelle granate. 174


FH :

Uscirono tutti correndo, alla ricerca di qualcuno che la potesse rimettere a posto. La recluta, abbandonata a se stessa, gridava: «Che faccio?! Che faccio?!». «Non la lasciare, non ci pensare nemmeno. Aspetta che arrivi il tenente!».

MR:

Erano, anche quelle, granate con nome e cognome.

&RPH VSD]]DYD 6HQGLF

FH :

Siccome i FDODER]RV erano appena terminati, trasudavano umidità...

MR:

E, inoltre, l’architetto che si aggiudicò l’opera, progettò FDODER]RV ermeticamente chiusi. Senza finestre. L’unica finestra di tutto quel “carcere” affacciava sul corridoio, in modo che ai FDODER]RV, effettivamente, non arrivava né luce, né aria...

FH :

La regola era, poi, spegnere la luce dei notte.

MR:

Avremmo pagato molto cara la mancanza di aria. Con il tempo ce ne saremmo accorti.

FH :

Si appuntava tutto su quel Registro delle Novità, ma in un modo tale che sembrava un romanzo. Frutto dell’immaginazione.

MR:

Annotavano 45 minuti d’aria a testa tutti i giorni...

FH :

Ma i minuti d’aria reali consistevano nel portarci una volta ogni tanto legati e incappucciati a un punto lontano della Piazza d’Armi e a farci sedere su di una sedia, contro una parete, per dieci minuti. Senza slegarci, ma, questo sì, alzandoci il cappuccio, perché potessimo ammirare l’intonaco.

MR:

Per il resto era composto da sanzioni. Arrivava l’ordine quotidiano del sottotenente e ci sanzionavano in sequenza. Ovvero: oggi l’uno, domani il due, dopodomani il tre. Perché avevamo anche i numeri, come nel 3HQDO.

FH :

La cosa peggiore era che invece di annotare amministrativamente la sanzione, compivano il rito di, ad esempio, tirarci fuori per metterci al lavoro, sempre in sequenza, farci spazzare e poi rimetterci nella cella, aprire la porta di ferro, far entrare il capo, fargli esaminare il pavimento e ordinare, con tono solenne: «Comunichi al due che sarà punito per aver

FDODER]RV

di giorno e accenderla di

175


lasciato immondizia nel corridoio...». O per qualsiasi altra cosa.... MR:

Anni dopo, sempre lì, Sendic31 trovò la giusta risposta: quando lo tiravano fuori per metterlo al lavoro, lasciava mezzo corridoio senza spazzare. Consegnava la scopa e diceva: «Ecco fatto», «E l’altra metà?», gli chiedeva il capo, disorientato. «La lascio per la sanzione», diceva Raúl.

6 VH]LRQH FKLDYH

FH :

Quelle sanzioni significavano restare senza visita, senza il minimo sole settimanale di dieci minuti, senza vestiti, senza tutto.

MR:

E il Registro, tanto serio, un documento probatorio da un lato del loro buon trattamento e dall’altro della nostra cattiva condotta.

FH :

All’inizio fu un modello di disciplina; sembrava l’esercito britannico. Una settimana dopo era diventato già uguale all’esercito uruguaiano.

MR:

Dormivano, raccontavano storie, giocavano a carte, chiacchieravano.

FH :

Giorno e notte. Così, per la prima volta, potemmo scoprire l’importanza strategica che aveva la S1 nell’Esercito.

MR:

Anche se io credo che tra le quattro sezioni dello Stato Maggiore delle Forze Armate uruguaiane, la più strategica fosse la 4, Rifornimenti, il sogno dei sergenti dell’Esercito. L’incaricato della S4 a livello del Battaglione s’inchioda lì per tutta la vita.

FH :

Si destreggia tra formaggi, lattine d’olio, cotognata, prodotti per l’igiene... tutti i beni terreni.

MR:

«Ti rendi conto di cosa dev’essere la S4 della Divisione?», si chiedevano di notte i soldati, collocando, in un luogo talmente alto e lontano, il luogo delle più grandi ricchezze immaginabili. Sognavano il tesoro del tempio.

FH :

In ordine d’importanza dopo viene la S1, perché è padrona delle sequenze gerarchiche, e l’Esercito è il regno delle sequenze gerarchiche.

MR:

Perfino i cani iniziano ad abbaiare in rigoroso ordine sequenziale.

FH :

Le sequenze di tutti si decidono nella S1, senza diritto di protesta. Lì il dio degli eserciti, generalmente grasso, stabilisce quando entri di guardia, quale 176


notte ti perdi il ballo, ogni quanto te lo perdi... MR:

Allora, se per dopodomani hai un appuntamento improrogabile con la ragazza decisiva, devi portare all’altare della S1 le tue offerte e, secondo la loro entità, quegli dei possono o no esserti propizi.

FH :

Stecche di sigarette, bottiglie d’olio... erano queste le forme di pagamento in natura, quasi moneta, che evidentemente per la loro solida stabilità di valore, in quegli anni in cui l’oro era saltato in tutti i mercati mondiali a cifre record, quantificava il prezzo dei favori e delle guardie nei battaglioni uruguaiani.

MR:

Quando si tratta di un figlio malato, o di un obbligo inderogabile di questo tipo, i valori possono arrivare a cifre astronomiche. Come in qualsiasi mercato.

FH :

Per questo in ogni unità dell’Esercito uruguayano ci sono di solito almeno quattro uomini grassi che, come le api regine, sono identificabili a prima vista: il responsabile della truppa, il responsabile degli ufficiali, il sergente della S1 e il sergente della S4. Potere reale. Eminenze, o meglio: pance grigie di ogni caserma. Comandano più del capo perché tutti riconoscono loro il “fifty-fifty”.

MR:

Molto in basso nella scala d’importanza, nonostante quello che dicono gli osservatori superficiali, vengono le famose S2 – che si occupano solo delle torture, di una vera sciocchezza secondo l’opinione di tutti – e l’S3 – che studia i piani di guerra e l’organizzazione delle sfilate... Il colmo della sterilità. [...]

/D ORWWD GL FODVVH

MR:

Con il metodo della sequenza gerarchica, di fatto l’Esercito non è solo sostenitore della divisione in classi, ma anche della lotta di classe.

FH :

Però, all’interno di ogni grado, è sostenitore del comunismo primitivo: tutti mangiano la stessa cosa, s’inginocchiano allo stesso altare, si vestono allo stesso modo.

MR:

A questo livello il concetto di proprietà privata si esprime nel seguente 177


modo: «È mio tutto quello che riesco ad arraffare prima di un altro». FH :

Tutto quello che c’è in giro è del primo che lo prende. Non importa di chi sia, o di chi sia stato... fino al momento in cui è stato preso.

MR:

Si rubano a vicenda, ma la parola “rubare” non risulta essere usata nell’ambito dei parametri morali che vigono in ogni grado: tutto è di tutti o di nessuno finché uno non lo afferra con le proprie mani.

FH :

Questo spiega la vocazione al saccheggio che qualsiasi contingente militare mostra immediatamente ogni volta che si produce un DOODQDPLHQWR32. La gente è ingiusta: li giudica dei ladri anche se loro non hanno la benché minima consapevolezza di aver rubato. Si comportano come in caserma. Con totale naturalezza. E molto di più quando si tratta dei beni di persone che appartengono al grado inferiore nella gerarchia.

MR:

Credo sia il contrario: è lo spirito ancestrale del saccheggio, del bottino di guerra, il diritto di conquista quello che in fondo spiega questo comportamento. Qualsiasi esercito è essenzialmente saccheggiatore e se non lo è, non è un vero esercito.

FH :

Qualunque soldato davanti a una casseruola o a un televisore in una casa DOODQDGD dalla sua unità di combattimento, vede in quell’oggetto qualcosa di legalmente e legittimamente suo, fuori discussione, nella misura in cui lo afferri prima di un altro soldato o ufficiale.

MR:

Un comportamento diverso gli risulta inintellegibile e, soprattutto, ingiusto.

FH :

Chi li accusa di essere ladri, secondo loro non solo mente, ma calunnia anche, è come un sadico, e questo li fa soffrire atrocemente.

MR:

Non so se riusciamo a spiegare ai civili il perché di alcune reazioni a volte violente, a volte sofferte, che i militari hanno quando li si accusa di qualcosa. In fondo si parlano lingue diverse. Il trito “attacco alla morale delle Forze Armate”, ad esempio, quando si dà loro dei ladri per aver rubato secondo l’opinione morale dei civili, è una espressione ideologica di questo strano fenomeno.

FH :

Dobbiamo aggiungere che la gerarchia inculca nella testa dei militari un universo stratificato. Anche il mondo è una gerarchia...

MR:

Non solo lo “è”, ma “deve esserlo”. Se un ufficiale non fa rispettare gli attributi del suo grado, viene severamente punito per questo. Una delle accuse più comuni agli ufficiali giovani suona così: «familiarizzare con la truppa». È moralmente riprovevole trattare un essere umano di grado inferiore come un proprio pari. E chi condivide questa morale, chi se 178


la porta dentro dopo una gioventù e una vita intera vissute così, soffre fin dentro al midollo; sì, una sofferenza concreta come qualsiasi altra. FH :

Quando qualcuno dice che siamo tutti uguali davanti a Dio, o davanti alla legge...

MR:

... fa soffrire tutti gli esseri umani che portano un’uniforme. [...]

/D *XDUGLD FDQWD /RV 2OLPDUHxRV

✎✁✎

H UDFFRQWD OD EDUEDULH

MR:

In quei FDODER]RV venimmo a conoscenza, tramite le chiacchiere interminabili di centinaia di soldati che ci facevano la guardia, delle battute di caccia reali o immaginarie nei dintorni, del peso e della dimensione degli armadilli, delle tariffe di tutti i postriboli, delle più disparate forme di contrabbando – non c’era un solo uomo dell’Esercito di Treinta y Tres che non lo praticasse freneticamente –, del dibattito interminabile sull’esistenza, o meno, dei personaggi che vivono nelle canzoni de /RV 2OLPDUHxRV.

FH :

Perché il divieto del governo centrale, nonostante arrivasse alle caserme, non riuscì a impedire, nemmeno a loro, che /RV 2OLPDUHxRV – che erano di quel paese – non solo fossero ascoltati, ma anche che le loro registrazioni passassero di mano in mano.

MR:

Molte volte, di notte, a bassa voce, tra un mate e l’altro, qualche soldato che aveva portato un piccolo registratore, passava le loro canzoni.

FH :

«Dove sei riuscito a trovarle?», gli chiedevano gli altri. «Me le ha fatte copiare Tizio». «Di casa in casa...». Così passavano le canzoni, di contrabbando, clandestine, di mano in mano... perfino nelle caserme.

MR:

«Saranno WXSDPDURV o quello che vuoi tu – dicevano –, però nessuno canta come loro».

FH :

Lì sentimmo parlare anche di quel ragazzetto che avevi conosciuto... La sua 179


storia me l’avevi raccontata anni prima nei FDODER]RV di Santa Clara. Fu un colpo al cuore quando sentimmo una guardia raccontare la stessa storia. MR:

Molti anni prima, in un giornale in cui lavoravo, scrissi un articolo sulla sua tragica storia. Lo portò al giornale il SD\DGRU34 Carlos Molina. La cosa era avvenuta in una zona di Treinta y Tres vicina a Puntas de Olimar. Il ragazzo era figlio di una contadina. Viveva nella fattoria di un tale Batista. Durante la festa della marchiatura a fuoco, i padroni si ubriacarono e – molto allegri – montarono il ragazzino su un cavallo allo stato brado, nudo, legandogli i testicoli alla criniera del cavallo con una briglia: «Se riesci a stare in groppa, l’animale è tuo», dissero. Alla prima impennata il ragazzino rimase castrato. La madre sporse denuncia alla polizia, la minacciarono e finì per ritirarla. La cacciarono dalla fattoria, le diedero cento pesos e un consiglio: «Se parli di nuovo dell’accaduto, ti facciamo arrestare per calunnia». Quando lo conobbi, il ragazzo aveva su per giù 25 anni ed era reduce da un tentativo di suicidio: si era buttato sui binari di un treno, una notte di Natale.

FH :

Anni dopo, nei FDODER]RV di Treinta y Tres, i soldati, nelle triviali notti passate a bere mate, avevano l’abitudine di ricordare la sua storia.

MR:

E, da quello che raccontavano, il ragazzo si vedeva ancora in giro per le strade della città.

FH :

Uno dei tenenti che ci picchiava di più – erede della crudeltà del proprietario della fattoria – diede luogo, anche lui, ma nel 1978, mentre noi eravamo lì, a un incidente che rimase segreto... Lo venimmo a sapere tramite i commenti delle guardie.

MR:

Un bambino di 8 o 9 anni, giocando per strada con altri ragazzini, ebbe la sfortuna di lanciare una pietra che di rimbalzo, accidentalmente, finì sulla macchina di quel tenente, dal nome ricorrente nelle denunce per violazione dei diritti umani tra Argentina e Uruguay.

FH :

L’uomo, che era un karateca, imbestialito dal danno che era stato fatto alla vernice della sua macchina, scese, inseguì e colpì il bambino, che dovette essere portato all’ospedale con il volto irriconoscibile. La madre sporse denuncia alla polizia, ma risultò che lo zio del bambino era un sergente della stessa unità, che chiamavano “Puchito”. Allora fecero pressione sul sergente e sulla madre del bambino affinché ritirassero la denuncia alla polizia. Lo fecero e “non è mai successo niente”.

MR:

Il tenente era uno dei responsabili dell’Ocoa35.

FH :

Aveva comprovate capacità per prestare servizio lì. [...] 180


4XHLUROR IRUPDJJLR H GROFH

FH :

Anche per i FDODER]RV di Treinta y Tres passarono i fuochi d’artificio della vigilia di Natale e di Capodanno. Entriamo nel ’79.

MR:

L’anno di Queirolo.

FH :

La mancanza d’aria di quei tenace sui nostri polmoni.

MR:

Presto – verso febbraio – venne per la prima volta per un controllo il nuovo comandante in capo dell’Esercito.

FH :

Quando Queirolo arrivò al 10° Fanteria, si verificò il miracolo dei materassi.

MR:

Queirolo era un profeta.

FH :

In tutta l’unità, a causa di ripetuti furti, i materassi disponibili riuscivano appena a coprire i letti di due compagnie.

MR:

E tutti, dal capo all’ultima recluta, sapevano che quando un comandante in capo arriva in visita per la prima volta, viene a distribuire “noccioline” per fare una buona impressione.

FH :

La S3 attuò in pochi giorni un brillante piano per risolvere il problema.

MR:

Dopo che Queirolo ebbe visitato la prima compagnia, con i materassi “presenti”, e mentre visitava la seconda, nella parte posteriore si misero a lavorare freneticamente, come formiche in fila indiana, una processione di soldati che trasportavano materassi dalla prima alla terza compagnia.

FH :

La moltiplicazione dei pani e dei pesci. Miracoli dell’Esercito uruguaiano, abituato a produrne di questa natura.

FDODER]RV

stava realizzando un lavoro lento e

Durante alcune ore del giorno, tutti i giorni, non essendoci un ordine generale o altre attività, i soldati si distribuiscono per la caserma e si mettono a fare diversi lavori che non saranno mai portati a termine. MR:

Anche questo fa parte del regolamento reale. Delle leggi della fisica.

FH :

Il capo del 10° diceva abitualmente che lui faceva miracoli, perché i soldati 181


si moltiplicavano con il suo solo passaggio a piedi per la caserma. MR:

A volte lo sentivamo formulare questa domanda: «Dimmi, Tizio, quant’è il totale dei soldati effettivi del battaglione?». Mettiamo che l’interrogato rispondeva «Quattrocento». «Lei sa – diceva il capo – che a me sembra di no, che ce ne devono essere circa ottocento. Perché quando io vado di là, ne passano circa quattrocento marciando verso qui; e quando vengo di qua, ne vedo passare altri quattrocento verso lì...». Un altro miracolo.

FH :

La vita del soldato trascorre provando in mille modi a sfuggire al controllo superiore, specialmente quando c’è un lavoro da fare.

MR:

Noi non sapevamo, a quei tempi, che cosa fosse successo con Gregorio Álvarez. Sapevamo solo che c’era un nuovo comandante in capo. Nella Divisione 4 festeggiavano tutti.

FH :

Queirolo visitò i FDODER]RV, chiese di te...

MR:

Entrò nel corridoio con tutto il suo seguito, aprendo gli spioncini, e lì ci vide.

FH :

Di spalle alla porta, il naso contro il muro di fondo, le mani indietro e incappucciati.

MR:

Fu tutto e gli sembrò sufficiente. Potevano aver fatto con noi quello che avevano fatto con i materassi. In fondo non gliene fregava niente.

FH :

Il signor tenente generale aveva altre preoccupazioni, d’ordine fiduciario.

MR:

E culinario: quel giorno ci fu una grande abbuffata nella caserma.

FH :

Alla quale partecipammo anche noi. Queirolo ordinò che ci portassero, per la prima e ultima volta, una porzione di dolce.

MR:

Formaggio e dolce.

7L VHL SRVDWD VXOOD JUDWD SLFFROLQD

MR:

In quei giorni avevo provato a inviare una lettera alla mia famiglia. Dentro c’era una poesia per mia figlia. Il giorno stesso della visita venne al FDODER]R il tenente della S2, Sarli, con la poesia in mano: «Che ti passa per la testa!», mi gridava. «Che informazione vuoi passare alla tua famiglia?», chiedeva. «Che sono prigioniero, tenente». 182


La poesia recitava così: 7H KDV SRVDGR HQ OD UHMD KLMLWD ¢4Xp KDFHV DOOt" 9HWH $IXHUD FRUUHQ ORV ULVXHxRV DLUHV GH DEULO ¢3RU TXp URQGDV \ URQGDV FRPR XQD PDULSRVD HQ HVWH SR]R" (Q HO IROODMH YLEUD XQD WDUGH GH RWRxR ¢/D R\HV" 9HWH 9HWH TXH GRQGH W~ YD\DV \R YLYR HQ WL $QGD IDQWDVPLWD (OLJH XQ OXJDU DO VRO WyPDPH GH OD PDQR \ YHWH

36

Per un istante il tenente rimase pensieroso con il foglietto in mano: «La sua famiglia ci deve odiare», commentò tra sé. «Non vedo perché», dissi. E fece in quattro il foglio. I suoi resti giacciono sicuramente, nei fascicoli degli archivi segreti dell’Ocoa. [...]

183


)RQWL LQIRUPDWLYH

FH :

Il 28 marzo del 1980 – non lo dimenticherò –, il pomeriggio ritorni dal bagno e immediatamente colpisci, nervosamente, ansiosamente, la mia parete. Era evidente che avevi una grande notizia. Rompevi, ancor prima che io l’ascoltassi, il monotono lento ciclo del tempo, sempre uguale. Avevi catturato un pezzetto di quotidiano tramite il quale avevi scoperto che Jorge Pacheco Areco, un politico di destra, ma pur sempre un politico, era stato nominato ambasciatore negli Stati Uniti al posto di Pérez Caldas, ex comandante in capo della Forza Aerea. Non avevamo la benché minima idea della situazione politica. Solo quello che potevamo dedurre dalla durezza del nostro trattamento.

MR:

Dev’essere difficile per gli altri comprendere l’impatto che ebbe quella notizia in noi. Il solo fatto di trovare un pezzettino di giornale che invece di contenere il risultato delle corse di Maroñas riportasse informazioni politiche, già era un evento degno di un anniversario; se addirittura riportava una notizia intera... Per averne un’idea: un giorno un sergente aprì le nostre porte ermetiche per chiederci dei numeri da giocare al lotto. Bastò questo per dare adito a nostre intense supposizioni: «Se ha fatto questo è perché sa che siamo fortunati. Deve conoscere una notizia che ci favorisce». La questione era costruire la speranza con le nostre mani.

FH :

La speranza permette la sopravvivenza.

MR:

E così rimanemmo in attesa della cattura della stampa tra la merda, e un altro giorno, settimane dopo, troviamo una dichiarazione contro le Forze Armate di Manini, che rifiuta di partecipare alla farsa di una svolta politica.

FH :

Che Manini avesse questa posizione politica e che glielo lasciassero dire, ci dava l’impressione che dovessimo iniziare ad aspettarlo nel FDODER]R libero che avevamo accanto.

MR:

E ci lasciava interdetti.

FH :

Un pomeriggio mi diedero l’ora d’aria, che a Melo si faceva con il cappuccio in testa, gli occhi bendati e con le manette, in un angolo di un campetto di calcio. Quella volta, cosa strana e preoccupante, mi fecero sedere comodamente su un muretto e un ufficiale, che si vedeva che aveva molta voglia di farlo, iniziò a parlare con me in un tono inizialmente “amichevole”: «Che ne pensa – mi diede del lei – di quello che è successo in Polonia?»

184


All’inizio pensai che la domanda si riferisse alla scorsa Guerra Mondiale, o forse all’insurrezione del ghetto di Varsavia... Presto capì di no. Che mi trovavo di nuovo davanti a un “incidente” come quello del Nicaragua37. In questo caso, per me sarebbe stato l’“incidente Polonia”. Gli dissi che non ne sapevo niente e che pertanto non potevo avere nessuna opinione. «Sì, certo: voi non sapete quando non vi conviene», mi disse. E lo diceva sinceramente perché, ancora una volta, lui non poteva pensare che qualcuno ignorasse fatti così risaputi. Di nuovo: non aveva fiducia nel suo stesso dispositivo d’incomunicazione totale. Dando per scontato che io sapessi ma facessi il finto tonto continuò a parlare, e io, tra le righe, a provare a catturare informazioni e a rispondere. Scioperi eroici fino alle lacrime dell’ufficiale, minatori dietro le barricate, valorosi prigionieri politici maltrattati, operai avanguardisti nella lotta contro la feroce dittatura e l’esercito che reprimeva duramente e si appropriava di tutti gli strumenti del potere... Non potevo credere alle mie orecchie. «Che ne pensa?», mi chiese di nuovo. «E così secondo lei, tutto questo lo stanno facendo i comunisti in Polonia?» «Sì». «Allora lei è comunista, no? Perché è lo stesso che state facendo qui». Mi riportò al FDODER]R.

/D IRWR GL $OOHQGH

MR:

Un giorno di maggio nel 1980 ci ordinarono rasatura, bagno e una pulizia meticolosa che, ad ogni modo, non arrivò al livello del Perfumol. Qualcuno verrà, ma non troppo importante. Ciò nonostante, un attimo dopo, portarono un tavolo in ogni FDODER]R.

FH :

Un evento.

MR:

In tutti quegli anni non avevamo mai avuto un tavolo.

FH :

Non avevamo mai mangiato su un tavolo. L’ordine era di lasciarci il piatto a terra. 185


MR:

Erano tavoli di formica, enormi, brillanti, che occupavano la metà del FDODER]R e che avevano sotto una piccola griglia come per riporre le riviste. E ci portarono riviste e libri.

FH :

Che non erano nostri.

MR:

Ci ordinarono che dovevano stare sul tavolo e non sotto.

FH :

In vista.

MR:

Bene in vista. Ci portarono sedie...

FH :

... sedie buone.

MR:

Il termos e il mate, che dovevano stare anche loro sul tavolo...

FH :

... che iniziò a riempirsi di oggetti.

MR:

Mi sedetti sulla sedia, poggiai i gomiti sul tavolo: entrambi i gomiti, prima uno, poi l’altro. Assunsi bene tutte le posture dimenticate, come se ritornassi a una terra conosciuta, dopo un lungo viaggio. La sorpresa non mi lasciava il tempo per mettermi a pensare. Prima di tutto, approfittare di quello che avevamo. Aprii i libri. Li chiusi. Aprii le riviste: un’enorme finestra sul mondo... Quella notte mi addormentai tardi, per l’agitazione, insieme al mio tavolo e alla mia sedia che, ogni due e tre, aprendo un occhio dal mio materassino per terra, controllavo che fossero lì. Presenza monumentale, muta e indecifrabile.

FH :

Durante il mio riconoscimento di quei vecchi-nuovi oggetti arrivai perfino ad annusarli per recuperare l’odore dei tavoli e delle sedie. E nel mio giro per il mondo attraverso tre riviste, due delle quali sportive, inciampai nell’«ultima foto di Salvador Allende» – così era intitolata –, «una delle più importanti di questo decennio» – più o meno era questo il sottotitolo. Seguiva la spiegazione: era una foto scattata poco prima della sua morte. A Rocha, nel 1974, Viana era riuscito a passarci il titolo della notizia ma non conoscevamo nessun dettaglio. Soltanto nel 1980, grazie a quella foto, iniziammo a renderci conto dei dati sinistri del golpe militare in Cile. Allende, con un casco e un revolver, stava lì, sul tavolo, al di là di qualche lacrima.

MR:

Al di qua della morte, per sempre.

186


2SHUHWWD PXWD FRQ OD &URFH 5RVVD

MR:

Il giorno seguente spalancarono le finestre di ogni FDODER]R.

FH :

Era solo una finestrella, Ruso, non esagerare. E a metà mattinata, più o meno, ben ammanettati, fummo portati tutti e tre, in fila indiana, per una lunga scala ai piani superiori della caserma.

MR:

Ci misero in una piccola stanza. Un soldato per ciascuno e in più un sergente e un capo.

FH :

Tutti e otto osservavamo un religioso silenzio. Si udivano solo le otto respirazioni. Tutte in attesa.

MR:

La mano di quello che mi afferrava tremava. C’era una paura che abbracciava tutti.

FH :

Passammo lì più di un’ora. Era evidente che ci stavamo nascondendo, tutti e otto, da qualcuno.

MR:

Poi ci portano uno a uno in un’altra stanza. Ci mettono le manette davanti e ci tolgono il cappuccio...

FH :

Quando il capitano mi tolse il cappuccio, mi disse indicandomi la porta distante: «Lì c’è la Croce Rossa Internazionale, se ti azzardi a farti vivo ti tagliamo la testa».

MR:

Dietro quella porta c’era una sala enorme, forse una palestra chiusa. Lì avevano messo un tavolo lunghissimo su dei cavalletti. All’estremo lontano e opposto c’erano due o tre uomini vestiti da civili, due o tre capi militari e il “medico” di Melo, questa volta senza il suo travestimento bianco, mostrandosi tale nella sua splendente uniforme militare e sotto i suoi distintivi.

FH :

Lo sguardo dei civili era pieno di domande e sgomento.

MR:

Uno dei capi, con voce tuonante, gridò dall’altro lato: «Dica il suo nome completo!»

FH :

Noi uruguaiani già eravamo abituati al pericolo che ci minaccia quando ti chiedono il nome completo.

MR:

Quando terminai di pronunciarlo, la stessa voce tuonò: «Si ritiri!».

FH :

Alla sinistra di quella voce, con un cappello che gli stava come se fosse quello di un suonatore di banda, il “medico” sorrideva nervosamente... 187


MR:

Ritornammo al cappuccio, alle manette dietro la schiena, alla piccola stanza di prima, a una nuova attesa, alle scale e alla discesa nei FDODER]RV.

FH :

Poco dopo vennero prendendo a calci le porte e come una tromba d’aria si portarono via tutto: tavoli, sedie, libri, riviste, mate, termos.

MR:

Ricordo che a noi tre fece ridere... Che una tripla risata usci dalle “finestre spalancate”, che immediatamente furono chiuse di nuovo.

FH :

Durante quell’attesa silenziosa nella piccola stanza, avevano mostrato loro i FDODER]RV...

MR:

Poi ricostruimmo la scena, e anni dopo sapemmo. Intense trattative internazionali avevano preceduto quella visita. Furono necessari sette anni per riuscire a constatare quello che constatarono quel giorno: parlavamo ancora quanto basta per riuscire a pronunciare il nostro nome completo. Una parodia che la Croce Rossa non avrebbe dovuto accettare.

FH :

Erano riusciti a incontrare i prigionieri a Punta de Rieles e nel 3HQDO GH /LEHUWDG. Erano riusciti a parlare con loro. Ma ciò nonostante, è difficile spiegare come un organismo di quel rango abbia accettato una visita a prigionieri politici in condizioni che non garantivano nessuna certezza né miglioramenti per quei prigionieri, e che davano un avallo ai carcerieri.

MR:

Videro quello che volevano mostrare loro. Lo stato di salute lo comunicò lo stesso medico militare che avrebbe dovuto rendere conto delle sue pesanti responsabilità in molte cose.

FH :

Anni dopo, emissari della Croce Rossa Internazionale riconobbero che era stato un errore accettare la visita a tali condizioni. E che questa considerazione l’avevano fatta immediatamente dopo.

MR:

Ma anche le Forze Armate si erano sbagliate. Mostrarci così, dopo sette anni di trattative e denunce, era da operetta.

FH :

Era peggio di non permettere d’incontrarci, chiaro e tondo. Esibirci così, avaramente, solo una puntina, dava luogo a tutta una serie di supposizioni. Legittimava quello che l’immaginazione voleva supporre. Che spiegazione razionale si poteva dare? Eravamo così estremamente pericolosi che non potevano nemmeno parlare con noi? O eravamo così malati che non potevano autorizzare nemmeno una chiacchierata?

MR:

Era una goffa soluzione politica che solo persone di una certa mentalità sono in grado di commettere.

FH :

Bisogna fare i conti, nel bene o nel male, con queste goffaggini.

MR:

Pochi giorni dopo iniziarono i preparativi per un nuovo trasferimento, 188


anticipato, forse per quella visita stravagante, senza dubbio ben architettata. [...]

´1RQ IDWH WDQWH VWRULH µ

MR:

Per darci da mangiare doveva venire l’ufficiale del turno settimanale e consegnarci lui personalmente i piatti, verificando se mangiavamo e quanto mangiavamo. Era molto faticoso per quest’ufficiale (un sottotenente a settimana) venire dalla caserma a quel luogo isolato. Così che i piatti restavano davanti alla porta di ogni FDODER]R aspettandolo. La maggior parte delle volte molte ore.

FH :

Quando l’ufficiale arrivava, “surriscaldato” per il disturbo, ordinava di aprire la porta dell’“uno” e di consegnare il piatto, poi del “due”, poi del “tre”. Ovviamente non aspettava che i “pisciasotto” finissero di mangiare – ci mancava solo quello! – : chiusa la porta del “tre” dietro il piatto, ordinava di aprire quella dell’“uno” e ritirare il piatto, poi quella del “due” e poi quella del “tre”. Missione compiuta, se ne andava... con la razione.

MR:

Ci abituammo a mangiare a velocità supersonica. È questione di fame e nient’altro.

FH :

Il “caffè e latte” lo ricevevamo, secondo un ordine specifico, dopo che tutto il personale lo aveva preso, se e quando avanzava.

MR:

Diciamo la verità, avanzava sempre perfino per i maiali.

FH :

La questione è che secondo il suddetto ordine, il suddetto “caffè e latte” arrivava, facendosi largo tra le pratiche burocratiche, alle 10, alle 11, alle 12...

MR:

E arrivava in vecchie lattine della cotognata che non venivano mai lavate.

FH :

Rimanevano nella garitta della guardia, con i resti accumulati di diversi e vecchi caffellatte.

MR:

Qualche volta, non avendo trovato le lattine, lo portarono in una bacinella.

FH :

Ci mettemmo molto a scoprire la causa delle nostre diarree fino al giorno in cui, per la prima volta, riuscimmo a vedere la parte interna di quelle lattine. 189


MR:

La posa accumulata formava una striscia alta un centimetro e mezzo.

FH :

Con una strana e abbondante vegetazione.

MR:

Con loro grande sorpresa, scegliemmo di dire «no, grazie» quando a qualsiasi ora venivano a servirci la “colazione”. «Che se ne vadano a quel paese: con la fame che soffrono, non mangiano.»

FH :

Dovemmo anche abituarci a mangiare con estrema attenzione a causa dei vetri.

MR:

I piatti con il cibo, di alluminio o no, facevano un lungo viaggio dalla cucina al “cellario”. Erano alla mercé di molti. Diverse volte ci trovammo in bocca, nella semipenombra del FDODER]R, mangiando a tutta velocità, vetri frantumati delle lampadine bruciate.

FH :

Condimento di vetri. Quando restituivamo il piatto e mostravamo “le spine” accumulate accuratamente sul bordo, l’ufficiale della settimana rispondeva: «Non fate tante storie».

6XOO·DWWHQWL

MR:

C’era un nero – ricordi? – molto lecchino. (Credo fosse lo stesso che anni dopo, quando erano altri gli ostaggi che stavano lì, dopo una discussione con i suoi compagni andò nel corridoio del cellario molto preoccupato, dicendo a voce alta a Zabalza: «Dicono che sono un nero di merda e, in fin dei conti, essere nero è un difetto come un altro, vero don?»). Era fanatico e votato al vassallaggio, subdolo, cospirava indistintamente, mentre spazzava, contro tutto il genere umano.

FH :

Sorvegliava i suoi stessi compagni, e se commettevano un errore – attenuavano la loro violenza nei nostri confronti o dicevano qualcosa sugli ufficiali – andava di corsa, di fretta e con gusto, a riportare.

MR:

Con tali virtù così marcate non poteva non appartenere alla S 2 e, sfruttandole, presto l’avremmo visto salire nella scala gerarchica.

FH :

Gli costava molto lavoro fisico martorizzarci, ma lui, che non amava nessun tipo di lavoro, con noi non si risparmiava. Fino a rimanere estenuato.

190


MR:

Arrivava al colmo di chiedere di rimanere come volontario permanente nel corridoio, luogo che tutti i soldati evitavano per la noia e il freddo.

FH :

La prima cosa che faceva quando entrava era andare al bagno, pisciava e cagava sui nostri spazzolini da denti e sugli altri oggetti che, per ordine superiore, rimanevano lì. Poi passava le ore, minuto dopo minuto, a colpire con il manganello le nostre porte, marcando i passi rumorosamente, cantando – malissimo – 0L EDQGHUD e facendo dei peti fuori del comune. Giorno e notte, tutte e 24 le ore di guardia.

MR:

Ogni volta che il nero era di guardia, subivamo episodi di violenza, più o meno grave. Costantemente. Riusciva a farci perdere la serenità.

FH :

Un giorno, invece di cagare sugli spazzolini appena arrivato, lo fece prima di andarsene. Erano spazzolini che per questo motivo non usavamo da tempo, ma andavamo lo stesso su tutte le furie. Mujica scoprì la nuova impresa del nero quando se n’era già andato. Passarono alcuni giorni, e quando noi avevamo già dimenticato completamente la questione...

MR:

... toccò al nero un altro turno di guardia. Evidentemente Mujica aveva custodito gelosamente la sua offesa, durante tutti quei giorni, in attesa di una, una sola opportunità per vendicarsi, perché quando...

FH :

... il nero – come sempre, prendendo a calci le porte e picchiando sulle grate – arrivò...

MR:

... al FDODER]R in fondo dove c’era Pepe, trovò, con grande sorpresa, una gigantesca e rumorosissima bestemmia, di quelle che partono dalla radice delle cose e le ripercorrono tutte, e che iniziano con «La puttana di tua madre...».

FH :

Spaventato e sorpreso, il nero si fece indietro velocemente perdendo il manganello, che si mise a cercare a quattro zampe, mentre la bestemmia, sempre la stessa, terminava il suo percorso uscendo lentamente dal soggetto per entrare, come un sereno e ricco estuario, nel predicato...

MR:

Dopo quella, Mujica iniziò a sgranare un lunghissimo rosario d’insulti, infilati senza soluzione di continuità, uno dopo l’altro uscivano dalla sua bocca attraverso la porta del FDODER]R, il corridoio, e si perdevano oltre il filo spinato all’esterno, nel campo, e dentro tutta la caserma.

FH :

Il nero, stupefatto, ma ancor di più interessato a quello che gli stava dicendo, guardava fisso verso il FDODER]R di Pepe, con gli occhi fuori dalle orbite e la testa in avanti, provando a seguire, a una velocità che la sua mente evidentemente non riusciva a tenere, l’argomento che stava prendendo forma sulla sua persona.

191


MR:

C’erano insulti che non aveva mai sentito. Questo lo sorprese e, in fondo, saltando da una novità all’altra, era evidente che li apprezzava; essere oggetto di quegli insulti, poi, lo faceva sentire importante.

FH :

Presto i suoi occhi persero la visione globale e acquisirono l’acquosa inconsistenza bovina tipica di chi, dopo aver perso l’orientamento, è quasi “al tappeto”.

MR:

Tutti i mercati e le fiere di Montevideo stavano uscendo dalla bocca di Pepe. Era stupefacente! E a dire il vero nemmeno io avevo mai sentito un catalogo così esaustivo. Esaurì quasi tutte le alternative della lingua in materia.

FH :

Verso la metà di quella cantilena, più o meno, si verificò l’unica reazione del nero.

MR:

Si vede che notò qualcosa di strano e irregolare in Pepe mentre provava a seguire il suo discorso; colpendo delicatamente la porta con il manganello, discreto, per non interromperlo, gli disse imitando gli ufficiali: «Sull’attenti!», e continuò ad ascoltare.

FH :

Noi e le altre guardie che dietro porte e inferriate ci accalcavamo, trattenendo il fiato, per non perdere nemmeno un dettaglio, tutti insieme scoppiammo in una grande risata; civili e militari, nessuno escluso.

MR:

Pur di far osservare il regolamento, quel lecchino sopportava qualsiasi cosa.

FH :

I soldati che, come noi, gli portavano rancore, lo battezzarono da quel giorno “il capo Sull’Attenti”, e anni dopo – pur avendo fatto carriera – continuava a essere chiamato nello stesso modo [...]

(OH]LRQL H OH XRYD GHO WDFFKLQR

MR:

Con l’arrivo della primavera, alle nostre orecchie iniziarono a giungere, sorprendenti e isolate, mezze parole che si riferivano a elezioni. Non riuscimmo a capire se erano qui o in un’altra Nazione.

FH :

E iniziò ad arrivare il caldo. E le zanzare. Furono così tante che mi venne di inventare dei versi che ricordo ancora: 192


(Q HVWH FDORU SHVDGR OD FHUFDQD ODJXQD TXH HVWi YLYD \ WLHQH XQ UDELRVR SDMRQDO HQVRUWLMDGR MDGHD GHQVDV QXEHV GH PRVTXLWRV 3LFD \ UH]RQJD HO PDO KXPRU GH OD ODJXQD

38

MR:

Era inutile sperare di ottenere informazioni dai soldati ascoltando le loro conversazioni. Non perché loro si preoccupassero di non darcele, ma per un motivo un po’ più profondo. I soldati sono uomini che vivono a un alto livello d’incomunicazione. Simile al nostro, ma per altri motivi. S’interessano solo al calcio e, nella maggior parte dei casi, delle zone interne; concretamente, quello della loro zona. Solo di quello. Per quanto riguarda la musica, s’interessano alla FXPELD39. Della televisione, alle telenovelas. Al di fuori di questo, in quanto a notizie date dalla stampa, difficilmente qualcosa cattura il loro interesse, a meno che non sia “esplosivo”. Generalmente i soldati hanno difficoltà a leggere; lo fanno – quando lo fanno – sillabando.

FH :

E tra le cose alle quali sono meno interessati, c’è la politica. Hanno nei suoi confronti un atteggiamento di totale indifferenza, che viene da lontano, al di là della caserma, e va oltre, al di là dello scetticismo. Viene dalla loro infanzia, dal loro ambiente, dalle loro esperienze di vita... Non davano ascolto nemmeno a quei militari che facevano politica in quel momento. Partivano dalla base dogmatica e indiscutibile che «tutti i Vecchi sono dei grandi stronzi». Preoccuparsi di quello che dicevano i “Vecchi” in materia di governo era una sciocchezza.

MR:

Per il soldato, generalmente, non è incompatibile l’obbedienza all’ufficiale e al capo con la convinzione che loro costituiscono una delle piaghe più nocive del mondo...

FH :

... che esiste, creata dalla natura delle cose, e bisogna sopportarla come si sopporta il destino o il brutto tempo. Fa parte delle inesorabili miserie della vita.

MR:

Alla fine raggiungiamo la certezza che ci sarebbero state le elezioni in Uruguay. Quando chiedevamo a un soldato, “Sancho Panza”, incline al 193


dialogo e disposto a darci informazioni in totale buona fede, si fermava, ora su un piede, ora sull’altro, e si grattava il capo mentre ricomponeva una “spiegazione” di tali elezioni: che non lo erano, che servivano ma non servivano, che lui non sapeva perché si facessero. Finì col farci un quadro ingarbugliato della situazione, che naturalmente ci spinse a cercare altre spiegazioni che ci chiarissero il panorama. FH :

In realtà, in quei giorni la preoccupazione più grande della caserma, e concretamente di chi stava di guardia, era rivolta al nido del tacchino.

MR:

È vero! Quel tacchino che aveva il nido nel canneto, ai piedi del busto di Artigas40, vicino alla garitta dove vigilava la nostra guardia.

FH :

I soldati rubavano le uova al tacchino. E un giorno il capo se ne accorse.

MR:

Ordinò che le nostre guardie controllassero il nido del tacchino anche dentro il carcere, contro i ladri.

FH :

Ogni capo e ogni comandante di guardia che prendeva il posto, la prima cosa che faceva era contare i tre prigionieri per vedere se c’erano, e poi le uova nel nido. Ogni mezz’ora, nel Registro delle Novità del “cellario” si doveva annotare il controllo: «Nessuna novità nel nido del tacchino».

MR:

Figurati se potevano occuparsi del Plebiscito: il capo di guardia per ogni uovo GHVDSDUHFLGR si doveva sorbire 30 giorni di arresti di rigore...

/HWWXUD H LQWHUSUHWD]LRQH GHOOD &RQYHQ]LRQH GL *LQHYUD

FH :

Altri due grandi temi occupavano l’attenzione dei soldati durante quei mesi: la nuova corsa alle armi e il Sinai.

MR:

È a Laguna del Sauce che vediamo per la prima volta leggere i soldati, con difficoltà ma con impegno, un libricino sui trattati di Ginevra. Dovevano conoscerli tutti quelli che volevano andare nel Sinai per integrare le forze di pace.

FH :

È allora che, secondo quel catechismo, scoprono con sorpresa che i prigionieri vanno trattati umanamente.

194


MR:

«Ehi, e allora questi li dobbiamo trattare bene», disse una guardia sorpresa. «Non fare il cretino» rispose gridando il capo, «Non vedi che il libro è per il Sinai?». Ma “il libro” diceva anche che i soldati non possono ricevere punizioni corporali durante l’addestramento e nelle punizioni. E questo è quello che rimase più impresso nelle loro menti.

FH :

Riuscimmo a vedere dal luogo adibito alle ore d’aria la carovana di veicoli fiammanti stazionati nelle strade interne dell’enorme caserma per la sfilata delle “autorità civili e militari”.

MR:

E imparammo a memoria l’ordine «caricare e scaricare» del Fal argentino e la sua descrizione pezzo per pezzo...

FH :

Ordine che tutti i soldati dovevano memorizzare, pena l’arresto. Passavano ore a provarlo durante la guardia, e a inveire per la loro scarsa mira quando si esercitavano a tirare.

MR:

L’esercito uruguaiano si rimodernava, chissà quanto gli sarà costato.

FH :

Sui nostri FDODER]RV volavano i Pucará41 della vicina base aereonavale, anche loro fiammanti, mentre facevano le loro esercitazioni quotidiane, ora dopo ora, mitragliando e bombardando le acque della laguna.

MR:

Più o meno quando i soldati commentavano l’elezione di Reagan come il risultato di una partita di calcio, ricevemmo l’ordine di trasferimento.

FH :

Novembre 1980. Fu “Sull’attenti” l’incaricato di “impacchettarci”.

MR:

Ci stiparono in una camionetta, con più corde e cappi della Santa Maria di Colombo.

FH :

E le guardie, durante il lungo viaggio, ripassavano, tra un mate e l’altro, ad alta voce, i trattati della Convenzione di Ginevra.

MR:

Così arrivammo a destinazione. I nostri corpi, perché non eravamo altro, andarono a finire nei FDODER]RV già conosciuti di Treinta y Tres. Ma questa volta arricchiti dalla conoscenza delle leggi internazionali che ci tutelavano.

195


,O 3OHELVFLWR

✏✒✑

FH :

Fu durante quelle prime settimane di novembre a Treinta y Tres che venimmo a sapere, con le orecchie ben tese nella penombra del FDODER]R, che alla fine del mese si sarebbe votato per un Plebiscito costituzionale.

MR:

Non sapevamo che il regime militare cercava di legittimarsi attraverso alcune modifiche della Legge Fondamentale, e per questo si lanciava in una grande campagna con condizioni svantaggiosissime per chi volesse opporsi. Credeva ciecamente nel suo trionfo. Era credibile, considerate le circostanze.

FH :

Non conoscevamo i dettagli, ma non dubitavamo del carattere fraudolento e di parte della consultazione. Trovammo una spiegazione ai progressi edilizi della nostra detenzione forzata a Treinta y Tres e Laguna del Sauce. Così come volevano legittimarsi e istituzionalizzare la loro tirannia, istituzionalizzavano noi e pretendevano di legittimare la particolarità del nostro trattamento.

MR:

Sapevamo che si sarebbe votato per il SI o per il NO . Ma non conoscevamo il contenuto della proposta e il peggio era che non sapevamo quale alternativa, SI o NO , ci convenisse.

FH :

Ci sarebbero state “elezioni” ma non sapevamo per chi “tifare”.

MR:

Anche se calcolavamo – fortunatamente ci sbagliammo – la vittoria del “cavallo favorito”, provavamo in tutti i modi a verificare per chi dovevamo fare il tifo. Fu tutto inutile: non riuscimmo a saperlo.

FH :

Di notte le radio di Treinta y Tres trasmettevano i discorsi di un – credo – tale Saravia, che come dicevano i soldati «era un vecchio ruffiano dei soldati».

MR:

Alcune delle loro frasi arrivavano fino a noi: parlavano della democrazia e della libertà, dell’ordine e della sovversione.

FH :

Presto i soldati e gli ufficiali cominciarono a ricevere lezioni sull’istallazione dei seggi elettorali, la custodia delle urne, eccetera.

MR:

Per i più giovani era tutta una novità: la caccia al voto per loro era una tradizione preistorica.

FH :

Prendemmo atto del passare del tempo: per i soldati di 18 anni, l’ultima elezione era un vago ricordo d’infanzia. Nebuloso.

MR:

I soldati più vecchi raccontavano a quelli più giovani com’era la 196


“democrazia” e spiegavano loro che non dovevano innervosirsi né temere: ai seggi non si soffriva la fame, i delegati davano da mangiare in abbondanza. E lì iniziavano aneddoti pantagruelici, di destra e di sinistra, di tempi lontani, che producevano l’ammirazione e le delizie dei futuri scrutatori affamati. Questo era l’aspetto che preoccupava di più i soldati. Il resto non aveva importanza.

,O JLRUQR GHO 3OHELVFLWR

FH :

Uscendo dall’ombra del FDODER]R, andando al bagno attraverso il corridoio, riuscii a vedere che il giorno era spuntato in maniera splendida. La coda dell’occhio catturò in modo fugace la primavera dalla finestra.

MR:

La caserma, con tutto quel servizio di controllo nelle strade, rimase con la truppa decimata e quasi senza ufficiali.

FH :

Personalmente, non so perché, appena arrivata la sera di quel giorno, o meglio al tramonto, seduto in un angolo del FDODER]R, mi venne da pensare che quello che stava succedendo in quel preciso istante non era solo un evento storico, ma anche decisivo per me, per la mia famiglia, per i miei cari. Non avevo avuto, da quando venni a sapere del Plebiscito, né durante quel giorno stesso, un’idea come quella. Solo alla fine mi misi a pensare che nella migliore delle ipotesi...

MR:

... o nel peggiore dei casi, ad ogni modo un cambiamento ci sarebbe stato. A me successe lo stesso. Sentivo tutto, però continuavo con la mia routine carceraria. Senza entusiasmarmi e senza dare troppa importanza alla cosa.

FH :

Molte volte ci eravamo trasmessi speranze invano.

MR:

Eravamo architetti della speranza. Capaci di costruire castelli sul nulla. Troppe speranze si erano infrante fragorosamente per darci la possibilità ora, per una manovra militare, di rimetterci all’opera.

FH :

Opera che riprendemmo ugualmente.

MR:

Perché anche se la nostra costruzione non avesse resistito, l’esercizio dell’immaginazione avrebbe aiutato noi a resistere.

197


FH :

Era un meccanismo di sopravvivenza.

MR:

Questo comportamento, conscio o inconscio, era una difesa, sebbene da molto tempo non ci affidassimo alla speranza.

FH :

E alla nostra immaginazione.

MR:

Ci avevano dato troppe bastonate per poter entrare facilmente nei cortili della delusione.

FH :

Però quel pomeriggio qualcosa tornò a galla e ci distolse dalla routine di prigionieri, preoccupati solo di andare in bagno e mangiare, senza chiedere altro alla vita.

MR:

Sì, nella serenità della caserma ancora vuota. Sul calare di una notte tiepida dell’inizio dell’estate australe, qualcosa colpì la nostra coscienza, come un nuovo rintocco di campane: «Siediti e pensa. La speranza è ancora possibile».

FH :

In fin dei conti, quello che stava succedendo quel giorno, quella sera, quando ormai nell’urna quieta il dado era tratto, era la cosa più importante, politicamente, dal 1973. Il nostro paese sarebbe stato capace di un’impresa come quella che stiamo chiedendo a gran voce dal fondo della nostra disperata tragedia?

MR:

I fantasmi del nostro quartiere, dei nostri figli, delle nostre famiglie... dei nostri compagni, passarono per il FDODER]R in punta di piedi, in silenzio... Forse inutilmente.

/D QRWWH GHO 3OHELVFLWR

FH :

Tre tipi, diventati cose, seduti in un angolo tra due pareti e un pavimento.

MR:

Dopo il pasto quotidiano e fraudolento, l’ordine abituale di dormire. Come tutti i giorni, presto.

FH :

Le luci delle guardie si accesero sulle brande. I nostri occhi: come il due di denari, tra gli stracci.

MR:

Commenti allegri, festosi, giocosi, tornavano dai seggi elettorali riempiendo la caserma. 198


FH :

Gli ufficiali facevano gli spiritosi perfino con i soldati.

MR:

Erano di ritorno da una festa in cui si erano distinti, e si preparavano per godersene un’altra.

FH :

In una caserma di Fanteria era sorprendente uno spirito così festoso.

MR:

Ci umiliava ancora di più, tra le battute della truppa.

FH :

Autorizzarono l’ascolto, addirittura, della radio a basso volume nei posti di guardia, compreso quello del custode dei “pisciasotto”. In modo che tutti partecipassero agli attesi festeggiamenti. E in modo che soffrissimo un po’ di più.

MR:

La radio negata per decenni.

FH :

Ma la guardia in servizio era così tanto un’“anima nera” che nemmeno con l’autorizzazione degli ufficiali ci permetteva di ascoltare. L’ascoltava, a basso volume, solo lui, e passava informazioni a bassa voce, ridendo in maniera nervosa e sadica con i soldati che parlavano di postriboli e magnaccia.

MR:

E quando alzò un poco il volume, i soldati, con quello spirito indifferente che andava al di là di tutta la storia, siccome interrompeva l’ultimo racconto sulla brasiliana e l’omosessuale, gli rimproverarono: «Non essere pesante! Spegni o metti una FXPELD».

FH :

Durante tutta la notte, quei soldati non cambiarono tono. Non diedero la minima importanza a quello che stava succedendo. Dai vertici, fossero anche quelli del Paese, non potevano aspettarsi niente.

MR:

Solo il capo, che era sintonizzato su una radio di Treinta y Tres, prestava attenzione, chissà perché.

FH :

Spirito sportivo, niente di più.

MR:

Secondo i primi risultati trasmessi da una radio di Treinta y Tres, aveva vinto il SI. Lo sentimmo chiaramente. Il capo alzò il volume dicendo “ah ah” a bassa voce. Proprio allora scoprimmo che il nostro Paese dipendeva dal NO .

FH :

Festeggiavano il risultato atteso con il tono annoiato di una cosa risaputa, quasi senza piacere.

MR:

Faceva molto caldo e per questo i soldati delle tre compagnie montavano la guardia seduti sulla porta, sulla Piazza d’Armi, ognuno con la sua radio. Commentavano tra loro e con il capo della guardia, gridando, da un uscio all’altro. 199


FH :

Anche quando era già suonato il rintocco del silenzio... Ma quella notte la caserma era un carnevale. Radio, chiacchiere, risate, ritrovi affollati; l’infermeria, vicina ai nostri FDODER]RV, infornava e sfornava infermieri militari che andavano e venivano, facendo ripetutamente battute quando passavano vicino al capo della sorveglianza. Un’ora, o forse di più, durò quest’atmosfera. Improvvisamente, a partire dalle radio di Montevideo su cui si erano sintonizzati i soldati, in Fanteria iniziò a diffondersi, insieme ai risultati di Montevideo e Canelones, anche il silenzio.

MR:

Il capo spense la radio. Non la ascoltava nemmeno a bassa voce. Ma preso dalla curiosità chiedeva con mezze parole che non pensava fossero ovvie per oggetti così insensibili come noi. «Chi?» «No!», gli rispondeva una voce lontana. «Molto?», chiedeva. «Abbastanza», fu la prima tagliente risposta che arrivò insieme ad un’inondazione di lacrime catturata dal fondo degli indimenticabili bar di Montevideo...

FH :

Seggio dopo seggio, cicca dopo cicca, tavoli lucidati dai gomiti e dal vino. Le tribune di uno stadio pieno, le staccionate di un sentiero, le figurine, le trottole, le mattonelle dondolanti. Quei lampioni. e $QGHV43. La spiaggia del Buceo... Non so perché, dal silenzio profondo che stava attanagliando la caserma, i suoi usci, i suoi ritrovi, queste immagini sorgevano come da una nebbia della memoria.

MR:

Tre brandine festeggiavano piangendo in silenzio. «È vergognoso! È una sconfitta vergognosa», sentii esclamare al capo, sconfitto. «E che succederà ora?», gli chiesero, svegliandosi appena, quei dongiovanni di paese. «Qualsiasi cosa» rispose il capo. Non riuscii a dormire per tutta la notte.

FH :

Non dormì nessuno quella notte.

MR:

Poco prima dell’alba, gli infermieri e altre voci, senza freni, si intrattennero a commentare il fatto proprio davanti alla nostra porta. In fondo 200


desideravano che ascoltassimo. Eccitati, fuori di sé. Come se si stessero prendendo una rivincita contro i “Vecchi”. «Era previsto!» «La colpa è di quella manica di vecchi comunisti» (si riferivano ai generali dell’Esercito). «Che vadano a quel paese!» Inconsciamente, iniziavano a tifare per il nuovo cavallo favorito. I militari sono così.

8Q·HVSHULHQ]D RUULELOH

FH :

Fino a quel momento eravamo cose. O peggio: cose dimenticate. Si ricordavano di noi durante le ore d’aria quando, facendo uno slalom con il cappuccio, attraversavamo la Piazza d’Armi tra sgambetti e colpi, umiliazioni, offese e insulti.

MR:

Il maltrattamento continuò, ma la confusione cessò. La prima, la seconda e la terza volta che uscimmo per l’ora d’aria dopo il Plebiscito, lo facemmo con slalom, colpi e sgambetti, sì, ma in mezzo a un profondo silenzio.

FH :

Si affacciavano soldati, sottufficiali e ufficiali alle finestrelle dei nostri FDODER]RV e ci guardavano a lungo, in silenzio.

MR:

Nella mentalità brumosa che hanno i soldati sulle conseguenze politiche del Plebiscito, ci eravamo trasformati, eravamo diventati, per opera e grazia del popolo, da cose inanimate, quasi inesistenti, depositate nella caserma, di nuovo persone. Pericolosissime, ma pur sempre persone. Sapevano, e lo dicevano, che avevamo vinto noi nonostante a loro continuassero a dire e a spiegare il contrario. Nonostante tutto quello a cui loro avevano creduto ciecamente.

FH :

Da allora, il cinismo dei soldati verso i loro ufficiali e capi andrà crescendo gradualmente. In tutte le caserme. Arriverà allo scherno. E nel 1983, 1984 al disprezzo.

MR:

Un anno dopo, un tenente che chiamavano “uccello dell’immondizia” perché era solito gonfiare il petto, si degnò di dirci a Laguna del Sauce, riconoscendo la sconfitta: «È stata un’esperienza orribile che non si ripeterà 201


mai più». FH :

Noi rinascemmo. Quando la gente ci chiede come sopportammo tutto quello, è difficile rispondere brevemente. Solo raccontando tutta l’esperienza si può ottenere una risposta: «Con cose come questa». [...]

,O QRVWUR FDOHQGDULR ODWWLQH PRQGLDOL H SUHVLGHQWL

MR:

Nel freddo inverno del 1981 ricevemmo l’ordine di prepararci per un nuovo trasferimento.

FH :

Arriviamo di nuovo a Laguna del Sauce. Sembravamo destinati a vivere il resto dei nostri giorni tra Treinta y Tres e Laguna del Sauce. Le due “carceri” di recente costruzione.

MR:

Non c’era stato nessun miglioramento concreto per noi a partire dal Plebiscito, del cui risultato non sentimmo più parlare.

FH :

Non ci fu mai un evento esterno, variante politica né gestione interna, che cambiasse di una virgola il sistema del nostro trattamento.

MR:

Al contrario, come abbiamo già detto, le campagne esterne, specialmente quando erano importanti, lo peggioravano.

FH :

La vittoria popolare nel Plebiscito servì a darci forza, ma loro non mollarono. Erano implacabili.

MR:

Avevano un vantaggio su di noi per le torture: si davano il cambio. Era la posta in gioco dell’odio. D’altro canto, non ritengo possibile che gli esseri umani possano mantenere per tanti anni lo stesso livello di aggressione su tre persone.

FH :

A Laguna del Sauce ritornammo agli stessi FDODER]RV e allo stesso sistema. Durante l’ora d’aria constato che il mio problema agli occhi e alla vista aumenta in modo allarmante. Ora fatico a vedere a una certa distanza: guardie e ufficiali, orizzonti, colline, alberi, iniziano a trasformarsi in cose sfocate.

MR:

Il tempo continuava il suo inesorabile percorso senza che ce ne rendessimo conto... salvo per le cose concrete e materiali, come il fatto allarmante che le lattine per l’urina, salvate tenacemente in ogni trasferimento, iniziavano a 202


consumarsi per il semplice passare del tempo. Ossidazioni, logoramento, finivano per aprire un buchino sul fondo, che cercavamo invano di otturare con il sapone. Ognuno doveva iniziare la lenta e faticosa lotta per conquistare un “cambio” di lattina. FH :

Un elemento che in Uruguay – perfino in isolamento – serve a prendere coscienza del passaggio del tempo, sono i campionati mondiali di calcio. Nella nostra situazione, poco dopo essere arrivati a Laguna del Sauce, l’argomento che va e viene notte e giorno nelle chiacchiere dei soldati sono le eliminatorie per il Mondiale di Spagna.

MR:

Contavamo gli anni di quattro in quattro. Ci avvicinavamo a un altro Mondiale in carcere...

FH :

Io dicevo sempre, scherzando, che il successivo l’avrei visto in Libertad. La vita si preoccupava di smentirmi.

MR:

Uno pensava: Chissà quanti mondiali ci restano!

FH :

Quel nero inetto e viscido – del quale abbiamo parlato precedentemente – lo incontrammo di nuovo a Laguna del Sauce, asceso a capo, con sorpresa generale degli stessi militari che, nonostante sapessero che ce l’aveva il potere, e tanto, non potevano credere che la ruffianeria arrivasse a sviluppare così tanto potere nell’Esercito.

MR:

Ma quel capo era un caso inspiegabile...

FH :

E accadde ciò che doveva accadere: non ci dava tanto fastidio.

MR:

Ovvio: siccome adesso era lui il responsabile, non si dedicava a quel gioco impune. Ora, poiché doveva renderne conto almeno con una relazione ai suoi capi, l’impunità si ridimensionava un poco.

FH :

Uno strano paradosso da considerare: l’impunità nelle Forze Armate per molte cose e in molti casi aumenta in maniera inversamente proporzionale rispetto al grado.

MR:

La chiamano “legge dell’obbedienza dovuta”. I soldati bastardi e gli ufficiali sadici sanno trarne buoni vantaggi.

FH :

«Io ti faccio qualsiasi cosa e non c’è diritto di lamentarsi perché il responsabile è il superiore». Qualsiasi cosa: «Io sono solo un subalterno».

MR:

Durante questo periodo Gregorio Álvarez, odiato da soldati e ufficiali nella Divisione dell’Esercito n. 4, diventò Presidente della Repubblica.

FH :

Le masse militari in quella caserma appoggiavano l’ammiraglio, o qualcosa 203


del genere, Márquez. Quello che proponeva un cambiamento a 360 gradi nella politica della Nazione. È sua anche quella famosa frase: «La Nazione è sull’orlo dell’abisso; è necessario attraversarlo». MR:

I cambi di presidente e di lattine per pisciare si trasformano in pietre miliari del nostro calendario. La strana “ora d’aria” del 23 ottobre 1981

MR:

Nell’universo degli esseri umani probabilmente questa data non significa niente. Ma nel nostro ebbe un significato storico.

FH :

Quel giorno fecero uscire tutti e tre insieme per l’ora d’aria, con il permesso di parlare.

MR:

«Vediamo che succede!», «Parlano!», commentavano gli uni con gli altri gli ufficiali che, all’ora indicata, si accalcavano, come per una partita di calcio, dall’altro lato della recinzione.

FH :

Vennero a vedere che succedeva e a ridere di noi: «Otto anni senza parlare!, eh?!». «Oggi vi permettiamo di parlare un po’, pisciasotto!». Un ufficiale e un sergente, oltre alla sorveglianza normale, erano incaricati di controllare quello che ci dicevamo.

MR:

Tutti e tre, ammanettati dietro la schiena, senza cappuccio, seduti al sole, chiacchierando faccia a faccia. Loro controllavano. Avevano paura delle nostre conversazioni.

FH :

Pepe – allucinato – vedeva delle enormi antenne paraboliche quasi all’orizzonte, che registravano tutto e seguivano la nostra voce parola per parola. Tu chiedevi informazioni, a bassa voce, davanti a cinque o sei paia di orecchie. Io discutevo aggressivamente con voi il numero di tonnellate che un verme dopo l’altro i passeri sollevano all’anno e per ettaro.

MR:

Eravamo tre pazzi.

FH :

Me ne resi conto soltanto quando riuscii a scambiare parole e idee con altre persone per il piacere di farlo e non, come fino ad allora, per obbligo, difesa o aggressione.

MR:

Iniziavamo a perdere la facoltà di parlare. La parola parlata – non quella pensata – aveva acquisito un mero senso strumentale, per scopi ben definiti e limitati. Già non era più uno strumento per lo scambio di idee e affetti.

204


FH :

Quest’ora d’aria smosse le nostre vite.

MR:

A partire da una mezz’ora di chiacchierata rimanevamo tutto il giorno nella cella a preparare quella del giorno successivo e ricordando quello di cui avevamo parlato.

FH :

Senza dormire.

MR:

Facendo lunghi programmi di studio per gli anni a venire a mezz’ora al giorno.

FH :

Questo tipo di ora d’aria durò più o meno otto giorni.

MR:

Perché ce l’avranno data?

FH :

Ancora non lo sappiamo.

MR:

Dopo otto giorni ricevemmo un nuovo ordine di trasferimento, e andammo a parare a Melo, ai nostri vecchi FDODER]RV. Rimaniamo in attesa, inutilmente, dell’ora di chiacchiera. Mai più. Di quegli otto giorni ci rimase il ricordo e, nel mio caso, una perdita affettiva: una rotellina44 che mi accompagnava da Rocha e che avrei recuperato anni dopo, in circostanze drammatiche.

FH :

Perdemmo tutto quel poco che avevamo conquistato perché, tra le altre cose, quel trasferimento a Melo interruppe la routine Laguna del SauceTreinta y Tres.

MR:

All’arrivo a Melo ci presero tutto.

FH :

Un nuovo Natale con la fame. Ma per l’anno nuovo riuscii a trovare nel bagno l’ultima cicca necessaria per completare una sigaretta. Avevo la cartina e altre cicche nascoste nei pantaloni con uno zolfanello la cui capocchia era ben protetta dagli sfregamenti. Asciugavo attentamente con la carta igienica le cicche bagnate – orina e acqua. Quando ordinarono di dormire, il 31 dicembre, rimasi lunghe ore in attesa fino a mezzanotte. Uno sciame di farfalle venne a morire contro la potente lampada del FDODER]R, sempre accesa. Faceva caldo e gli insetti ronzavano. Quando sentii i fuochi d’artificio da lontano, rollai noncurante, come un gran signore, la sigaretta che mi era costata circa tre settimane d’intensa ricerca e fortuna, e implorando la sorte che lo zolfanello non sbagliasse, l’accesi.

MR:

Quegli zolfanelli che si accendevano strofinandoli contro qualsiasi tipo di superficie stavano scomparendo. Il cambiamento della tecnologia fu una catastrofe per noi. Quando iniziarono a diffondersi i nuovi, quelli che si accendono solo strofinandoli sulla loro scatola, non dovevamo nascondere solo il fiammifero, ma anche il pezzettino di scatola che dà la possibilità di 205


accenderlo. Trovare e nascondere entrambe le cose raddoppiava il rischio, il lavoro e la fortuna necessaria. FH :

Con l’Anno Nuovo, ebbi la fortuna di trovare un quaderno e una penna. Decisi di farci sopra una serie, la più inoffensiva possibile, di disegni diretti a mia figlia, che contenesse, per chi volesse leggere o guardare bene, un messaggio nascosto. Un messaggio che dicesse solo: AIUTO . Era davvero molto difficile che, nonostante tutto, lo facessero uscire dalla caserma. Lo finii e rimasi in attesa dell’opportunità di metterlo tra le mie cose, in qualche pacchetto destinato alla mia famiglia... Se passava, passava; se no: che iella! L’opportunità si presentò da sola. Più o meno a febbraio, tennero a lungo la mia famiglia in attesa al sole senza permettere loro la visita che mi spettava. E quando alla fine decisero di concederla, mi portarono perfino incappucciato, e mi misero così davanti ai miei familiari. Non prepararono prima, nella cornice di questo comportamento repressivo, il pacchetto con i miei vestiti sporchi. Lo vennero a prendere all’improvviso, a sorpresa; intuii che non l’avrebbero controllato. Riempii la borsa con tutti i vestiti che riuscii a togliermi e nella massa confusa, così sporca che nessun ufficiale ci avrebbe messo mano, ci misi il quaderno con la storia di “Schizzetto”. Come disegno valeva poco; come messaggio era il primo che riusciva a uscire da quelle tombe. [...]

/D JUDQGH LQFHUWH]]D

FH :

Con i precedenti dei due recenti trasferimenti fuori routine, questo nuovo viaggio fu più che eccezionale. Per la prima volta pensiamo seriamente che alla fine ci avrebbero portato al 3HQDO GH /LEHUWDG, massimo sogno al quale potevamo aspirare.

MR:

Anche se la data scelta era più propizia per una nuova stangata... E così fu.

FH :

Ci rasarono, ci controllarono, impacchettarono tutto e rimanemmo in attesa. Passò tutto il giorno 14, e anche il 15 senza novità.

MR:

La notte tra il 15 e il 16, ognuno sulla sua branda, la trascorremmo senza dormire, ricordi? Colpendo leggermente la parete con le nocche. 206


Il viaggio era imminente e all’inizio di quella notte, poco dopo mangiato, riuscimmo a catturare, in mezzo a una chiacchierata a bassa voce, il dato agghiacciante: “Paso de los Toros”. FH :

Non solo questo, ma anche che al nostro posto sarebbero venuti a Treinta y Tres altri tre ostaggi.

MR:

Il mondo ci crollava addosso, di nuovo.

FH :

Essere trasferiti a una nuova Divisione era come ricominciare tutto da capo.

MR:

No. Non era “come”, era ricominciare tutto da capo: andare in un luogo che non conoscevamo, prendere possesso del luogo, cosa che solo la conoscenza può consentire. I FDODER]RV della Divisione 4 non avevano più segreti per noi. Sapevamo a cosa attenerci in ogni luogo, con ogni soldato, sergente o ufficiale.

FH :

E un nuovo conto si faceva da sé: nove anni nella Divisione 4, altri nove nella 3... restano la 2 e la 1.

MR:

E se questo non bastasse, che viaggio lungo ci aspettava! Perfino i soldati che erano stati scelti per scortarci, e aspettavano come noi l’ordine di partire (che sarebbe venuto dalla Divisione), erano spaventati.

FH :

Sicuramente perché l’unico vantaggio che costituiva per loro il viaggio era togliersi di dosso il servizio di sorveglianza che giorno dopo giorno dovevano montare per noi a Treinta y Tres.

MR:

Così lo gestirono all’inizio.

FH :

L’unico lato negativo a cui pensarono era che, se noi ce ne andavamo, i FDODER]RV restavano per loro.

MR:

«Nemmeno con la forza mi mettono lì dentro», dicevano. «Ti ci mettono. Pensi che non ti ci mettano?!», dicevano altri.

FH :

Ma dopo vennero a sapere da fonti certe che non era così: noi ce ne andavamo ma ne venivano altri tre.

MR:

Avevano deciso ai “vertici” di mescolare i nove ostaggi cambiandoli di Divisione.

FH :

Era, come avevamo calcolato all’inizio, una nuova stangata.

MR:

Io ero già stato alla fine del ’72 e agli inizi del ’73 in quei luoghi, ma sempre incappucciato: non li conoscevo. Eravamo un gruppo di compagni e ci “interrogarono” lì, sotto la bacchetta dell’allora maggiore Gavazzo. È di 207


quell’epoca l’aneddoto raccontato che, dopo le denunce che formulò Zelmar Michelini in Senato, sul trattamento al quale mi stavano sottoponendo, mi concessero una visita affinché la mia famiglia constatasse che stavo bene. Stavo talmente bene che mio padre quando mi ebbe davanti non mi riconobbe e reclamò all’ufficiale che mi portassero al suo cospetto... FH :

Lì tornavamo, Ruso. Bisognava temere il viaggio e la destinazione.

$O GL Oj GHO PXUR QRQ HVLVWHYD QLHQWH

FH :

La notte del 16 aprile, quando mancava ancora molto all’alba, si mise in moto il macchinario feroce. Di nuovo. Sarebbe stato importante per noi. Era una mattina di autunno, faceva freddo e, lentamente, nel mondo del cappuccio passarono le ore e i kilometri. Non sono molto sicuro che in quel viaggio siamo passati per Melo e Tacuarembó; penso che forse siamo passati per le strade interne che vanno da Treinta y Tres a Paso de los Toros. Notammo che il sole si stava alzando all’orizzonte perché il giorno iniziò a infondere calore all’interno dei camion. Il viaggio fu molto lungo, il più lungo di tutti questi anni.

MR:

Tu lo sai bene, Ñato, che per me fu uno dei più pesanti, e non tanto per la durata, ma per il fastidio, l’impotenza che mi schiacciava: a quel punto eravamo sicuri di essere diretti a Paso de los Toros. Dopo aver girato nove anni per le caserme di una divisione, adesso lo avremmo fatto chissà per quanto tempo per quelle di un’altra. Eravamo intrappolati in una ruota. Venimmo a sapere, inoltre, che quel giorno eravamo stati mobilitati tutti noi ostaggi.

FH :

Sì, con quel viaggio anche per me fu come ricominciare tutto da capo. Si potrebbe dire che, dopo il Plebiscito del 1980, avrebbe potuto nascere in noi, come effettivamente fu, una grande speranza. Ma poi, nel 1981, quando scoprimmo che quel comandante della Divisione in cui eravamo stati sottomessi, e continuavamo ad esserlo, a trattamenti così brutali, ora era Presidente della Repubblica, significò per noi qualcosa che rientrava nella normalità: non avendo ottenuto dal Plebiscito il risultato che volevano, la nostra condizione ritornava un’altra volta al punto di partenza.

208


MR:

Vibrava nella nostra memoria la frase di quel tenente di Laguna del Sauce: «Abbiamo sbagliato una volta; non sbaglieremo una seconda». Io avevo esattamente la stessa sensazione: nonostante avessimo scontato una pena in una Divisione, dovevamo scontarla ora di nuovo in un’altra. E poiché sono quattro le divisioni del nostro Esercito, tutto ciò non avrebbe avuto mai fine. Tutti gli eventi, tutte le pressioni, tutte le gestioni, quell’assurdo colloquio con la Croce Rossa, il Plebiscito, il cambio di presidente... tutto dava l’impressione che non servisse a niente e noi continuavamo a essere gli stessi ostaggi del ‘73.

FH :

Io avevo, a quel punto, e credo anche tu, l’amara certezza che fuori non si muovesse niente in nostro favore. Erano anni che avevamo smesso di sperare nella fuga, erano anni che avevamo smesso di aspettare la notte in cui i compagni sarebbero venuti a liberarci. Dall’esterno non ci arrivava nessuna prova concreta che ci permettesse di valutare tutto quello che dopo avremmo saputo che, invece, accadeva.

MR:

Lo stato d’animo al quale eravamo arrivati in quelle circostanze ci faceva vedere, sentire, tutto ciò che stai raccontando. Ma nei momenti di lucidità, quando arrivavamo in un posto e sentivamo la prima notizia, e più o meno ci abituavamo, nasceva di nuovo la speranza, tornavamo di nuovo a provare quello che provammo la notte del Plebiscito. Arrivati al fondo del pozzo, come in quel trasferimento, sentivamo come se tutto cominciasse di nuovo, come se niente ci fosse accaduto, come una pallina della roulette che a ogni giro cade su un numero qualsiasi, perché già non ricorda il numero della giocata precedente: ogni volta è la prima, perché non ha memoria. Diventavamo una pallina nel gioco di una grande roulette, nel quale tutto era nella propria casella e noi andavamo a finire in una qualsiasi. Avevamo questa sensazione: niente che fosse successo fuori aveva significato un miglioramento, di nessun tipo. Facevamo anche una battuta: che tutta la presidenza di Carter, la sua campagna per i diritti umani, la denuncia della situazione dell’Uruguay, l’arrivo del suo delegato personale, che mio padre mi aveva raccontato che era un nero che aveva parlato in televisione – «e che aveva parlato bene» –, per noi aveva significato la conquista di una lattina per fare pipì.

FH :

Sei sicuro che quel delegato venne?

MR:

No, non ne sono sicuro, come non ero sicuro di niente in quei momenti, nemmeno di esistere, ma credo che venne. Mio padre me l’aveva raccontato in una visita: «Non sai come ci rimasero», mi disse.

FH :

Perché noi stiamo vivendo, oggi, ancora dentro i

FDODER]RV

, non ne siamo 209


ancora usciti, nel senso che non abbiamo potuto sapere, definitivamente, ancora oggi, tutte le cose che sono successe in quell’epoca. Ed è probabile che non sia venuto nessun delegato di Carter in Uruguay, o è probabile il contrario. MR:

Vorrei chiarire due cose in questo dialogo: la profondissima sensazione d’angoscia, di avvilimento, nei momenti in cui sentivamo di essere assolutamente soli al mondo. Perché c’è qualcosa che ci siamo dimenticati di aggiungere e che è proprio questo, forse: arrivammo a dubitare della nostra famiglia. Che la nostra famiglia si fosse abituata già a una vita in cui noi eravamo quello che eravamo e stavamo come stavamo, e che loro dovevano fare il sacrificio di venire, ovunque ci trovassimo, per non lasciarci senza mate, senza medicine e senza carta igienica. Arrivammo a pensare che anche la famiglia si fosse abituata, che fossimo entrati in uno stato infernale che non era più modificabile, e che il mondo esterno, le organizzazioni politiche, le organizzazioni di solidarietà e anche le famiglie, si fossero abituate a una situazione di fatto in cui non restava che adattarsi. Ma nello stesso modo in cui sprofondavamo quando succedeva una cosa come questa, quando si verificava un episodio di qualsiasi altro tipo, come quello del sergente che venne da noi a chiedere un numero per il lotto, allo stesso modo si modificava immediatamente lo schema, ci arrampicavamo e uscivamo dal pozzo.

FH :

Io ero arrivato ad uno stato d’animo in cui sentirmi un oggetto dimenticato dal mondo dentro i FDODER]RV mi entrava da un orecchio e mi usciva dall’altro. Penso che ci sia una predisposizione d’animo che, anche in mezzo alle più evidenti e crude sconfitte, dipinge un panorama ottimista: «Dai, non ti preoccupare compagno, la vittoria è nostra»...

MR:

«Se ci cacciano dalla strada, conquistiamo il marciapiede; se ci cacciano dai marciapiedi, conquistiamo i portoni»...

FH :

«La lotta continua, la lotta persiste e se ci hanno sconfitto qui, ad ogni modo c’è il campo socialista; e se sparisce il campo socialista, c’è l’alleanza di forze a livello storico, che fa in modo che, prima o poi, la vittoria sia nostra». Tutto ciò molte volte si dice e si fa per rincuorare quella gente che non ci pare molto convinta o sulla quale abbiamo dei dubbi.

MR:

L’iniezione di ottimismo necessaria.

FH :

Perché si pensa che se così non fosse, se non si desse questa “mano”, la gente non rimarrebbe ferma nelle sue convinzioni. Potrebbe essere, io non 210


lo so. Quello che so è che nel mio caso specifico, credo che intorno al ‘76 conclusi che tutto era andato in malora per quanto riguardava le possibilità di una fuga programmata dalla nostra organizzazione. E, sì, presi coscienza di ciò. Notai il silenzio e il terrore generali, lo notai oggettivamente dentro le caserme... Lo stesso terrore e silenzio che, mi hanno raccontato, c’era al di fuori delle caserme in quegli anni. Mi feci carico della realtà, e non mi sconvolgeva troppo quello che stavo vivendo. Ciò non toglie che quando avevo un elemento, un dato per essere contento e per costruirci intorno una speranza gigantesca, lo facevo. E viceversa. MR:

Ci eravamo fatti carico, inoltre, della solitudine. Avevamo anche dimenticato che avevamo una famiglia. Dovemmo spogliarci di tutti gli oggetti. Non ci potevamo affezionare a niente, perché se ci impossessavamo di una lattina, la potevamo perdere in qualsiasi ispezione; se un giorno ci portavano un libro, non vi ci potevamo attaccare, non poteva essere l’asse di sostegno; nemmeno se ci davano carta e penna, potevamo farci affidamento. Non potevamo nemmeno contare sui vestiti che portavamo addosso. Allora iniziammo a costruirci l’idea che, al di là del muro, al di là della nostra interiorità, non esisteva assolutamente niente. Dovevamo vivere con quello che avevamo dentro. E quello era ciò che faceva in modo che finissimo con l’abbassare un’enorme tenda sul mondo che ci circondava. I pensieri, le idee, le nostre fantasie, era impossibile che le requisissero. Non ti potevi attaccare a niente, né alla visita, né alla famiglia, né al mondo esterno. Molte volte ci hanno chiesto: «E cos’era che ti sosteneva? La fiducia nel popolo, vero?» Io rispondo di no. Non è che non avessi fiducia nel popolo, nella lotta, nei compagni, ma eravamo in una situazione nella quale l’unico posto in cui recuperavamo le risorse per continuare a sopravvivere era nell’uomo che portavamo dentro. E questo era quello che ci induceva a dire che qualsiasi individuo nella nostra situazione si sarebbe fatto forza, perché quest’uomo è dentro ognuno di noi. Le risorse che l’individuo porta con sé sono quelle che fanno in modo che, in ultima analisi, possa affrontare qualsiasi tempesta.

FH :

Non c’è dubbio che bisogna avere fiducia e fede nella gente, nel popolo, negli esseri umani, ma bisogna averla anche in se stessi. Chi perde la fiducia in se stesso è sconfitto. Questa fiducia coltivata nelle masse, nel popolo, nella sua crescita, nel fatto che la vittoria è sicura perché si basa su leggi storiche, è giusta. Ma quando si coltiva artificialmente, si sta sostenendo la mancanza di fiducia in se stessi.

MR:

Esattamente.

FH :

Quando un militante, un uomo, ha fiducia in se stesso non ha bisogno di tutto il resto. Noi eravamo arrivati oltre il punto in cui una notizia, buona o 211


cattiva, potesse agire in modo decisivo sulla nostra condotta. Agiva, come no! – una notizia cattiva agiva male, una notizia buona agiva bene –, su questo non ci sono dubbi, ma non al punto di sconfiggerci, perché ci eravamo creati una specie di corazza. Tu dicevi che ci abituavamo a prescindere dagli oggetti e arrivammo anche a credere nell’idea che non avevamo una famiglia né niente; questa fu per noi una decisione razionale. Bisogna possedere le cose, quando si possiedono, e far finta di non possederle; come se all’indomani non ce le avessimo più. Quest’allenamento nei periodi tranquilli serve a sopportare le contraddizioni nei periodi bui. Una critica che si fa agli stoici è: «Elaborate una filosofia tremendamente difficile da sostenere, inventate una montagna che è di difficile accesso per la maggior parte della gente». A questa obiezione gli stoici potrebbero rispondere: «Il grande problema non è che qualcuno inventi montagne di difficile accesso, a volte le montagne vengono su di te senza consultarti». MR:

Le montagne esistono.

FH :

In quei momenti, se non sei preparato, se ad esempio non ti sei abituato a non avere pena per te stesso – che è uno dei sentimenti che può maggiormente disintegrare una persona in un FDODER]R...

MR:

... uno dei più distruttivi. Quando iniziamo ad avere necessità dell’affetto, dell’attenzione, quello è il primo passo verso l’autodistruzione.

FH :

Non si tratta di perdere la tenerezza, né niente di simile, quando diciamo «facciamo finta di non avere una famiglia»; si tratta, giustamente, di difendere quella tenerezza e quella condizione umana in modo che rimangano intatte di fronte agli attacchi del nemico che usa la tua famiglia come punto debole per spezzarti.

MR:

Avevamo fiducia nella gente, nel nostro popolo, nei nostri compagni. Non la perdemmo mai. Ma non ci facevamo facili e stupide illusioni sull’esito della lotta. Pensavamo che saremmo stati lì fino alla morte; ci eravamo abituati all’idea che saremmo rimasti lì fino all’ultimo giorno... L’avevamo assunto come la linea del fuoco della militanza, come un atto di resistenza. Sopravvivere con dignità era l’unica ragione della nostra vita.

FH :

Dovevamo pensare: qual è la cosa peggiore che ci può capitare? E dovevamo prenderne atto. Se non mi uccidono prima e resto vivo, qual è la cosa peggiore che mi può capitare? Marcire in questo FDODER]R; che il nostro popolo abbia il triste destino di trent’anni di tirannia come in Spagna o in Paraguay. Lo pensai, ne presi atto e mi dissi: «Se questo è il destino: che iella. Ma qui continua a respirare un uomo, continuerà a respirare un rivoluzionario fino a quel giorno» e, come dici tu, «c’è una cosa che non mi possono togliere: la mia libertà interiore, le mie idee, la mia fantasia, tutto quello che il nemico non mi può togliere». E questo è diventato la proprietà 212


privata che abbiamo conservato; il resto: il mate, il termos, la lattina, il paio di mocassini, la possibilità di bere un poco d’acqua... a questi beni non ci dovevamo attaccare. MR:

Dopo le visite generalmente rimaneva ad aleggiare nel nostro animo un problema che veniva da fuori: un figlio minacciato, la malattia di un padre... Allora, quegli angoscianti problemi rimbalzavano in modo inutile e sterile tra le pareti del FDODER]R. Senza poterne uscire. Alla fine, imparammo che terminata la visita doveva terminare tutto. Non potevamo fare niente. Dovevamo isolarci. Sai che bel favore che avremmo fatto alla famiglia se dopotutto ci fossimo ammalati o fossimo impazziti, per aver pensato inutilmente a quello che non potevamo fare! Questo, che serve, e anche tanto, nelle condizioni in cui vivevamo, lo apprendemmo poco a poco con il tempo. E pagammo un prezzo alto per capirlo. Quando seppi che i miei genitori, sfrattati dalla casa in cui avevano vissuto la loro vita insieme, se ne andarono con le loro povere ossa in un ospizio, rimasi traumatizzato un mese e mezzo. Non risolsi niente. Non potetti dare loro neanche la minima consolazione. Bisognava assumere tutte quelle cose con freddezza perché altrimenti la disgrazia era doppia. E, inoltre, ci indeboliva davanti a un nemico che ci aggrediva senza tregua.

FH :

Ad esempio, nonostante quel nuovo trasferimento ci aprisse davanti una prospettiva nera, continuare ad essere interi, continuare con prudenza, minimamente lucidi, non era battaglia da poco. Lottare contro il disturbo mentale che vedevamo tangibilmente avanzare su ognuno di noi tre. Difendere l’equilibrio fino alla morte. Non tanto per noi ma per la famiglia e i compagni.

MR:

Più o meno ci riuscimmo. Più o meno, non esageriamo. Controllavamo la nostra condotta alla ricerca di indizi di pazzia.

FH :

Sarebbe stata una sconfitta.

MR:

In altri locali per le torture – perché quello era un lungo e lento luogo di tortura –, in Argentina, ad esempio, sono arrivati a “sviscerare” gente dall’ano o dalla vagina.

FH :

A noi, quelli, con i loro attrezzi di vario tipo, vollero sviscerarci l’anima. Cosa per cui, generalmente, c’è bisogno di tempo... Lentamente. Tenacemente. Alla ricerca di una distruzione sistematica, asfissiante e angosciante...

MR:

Alla quale per di più mancava l’oggetto. 213


FH :

Mancava anche il fine. La soluzione.

MR:

La motivazione. Non volevano niente da noi. Solo distruggerci lentamente.

FH :

«Questi devono soffrire ancora, molto di più», dicevano continuamente, ripetendolo così tanto che alla fine era come una battuta vecchia e conosciuta.

MR:

Nove anni in una divisione significa che ogni ufficiale finisce per conoscerti intimamente. Per conoscere i nostri parenti. Le nostre debolezze. Approfittarne. Affondare lì i freddi coltelli.

FH :

Ci conoscevano meglio dei nostri parenti più prossimi.

MR:

Ci tennero a loro completa disposizione per nove anni.

FH :

Se sapevano che un insulto ti feriva più di un altro, entravano da lì, cercando di colpire e distruggere.

MR:

Avevano settimane, mesi, anni, lustri, decadi per farlo.

FH :

Di fronte a ciò, cosa ci restava? Non avevamo informazioni per difenderci; loro sapevano molto più di quanto sapessimo noi. A questo punto, allora, cosa avevamo da difendere?

MR:

La nostra integrità psichica e morale. Provare a continuare a essere quello che eravamo. E ogni minuto era una battaglia. Una montagna difficile da scalare, fino a comporre un anno, vari anni... Senza vedere nient’altro che pareti. Senza sperare niente...

FH :

Senza data, nemmeno una remota come quella dei condannati a lungo termine, per vedere la luce.

MR:

Era un tunnel eterno e senza uscita.

FH :

Nel quale ci misero a calci, sempre più in fondo, una volta scesi dai camion, tremanti, a Paso de los Toros.

214


/$ 1277(

1HOOH FDWDFRPEH

FH :

Paso de los Toros, 16 aprile 1982.

MR:

Odore di combustibile sotto il cappuccio.

FH :

Eco di passi pesanti...

MR:

... come se fosse un salone vuoto.

FH :

Poi il cigolio di una grande porta di ferro.

MR:

E la scala, così angusta che non ci entravamo insieme alla guardia.

FH :

Sui gradini non entrava tutto il piede.

MR:

«Abbassati!», mi gridarono, e con l’urlo arrivò la spinta. Mi piegai fino a cadere in un corridoio, o qualcosa del genere. A terra era umido, appiccicoso.

FH :

Attraverso il cappuccio intravedemmo una maggiore oscurità.

MR:

E l’odore di catacomba.

FH :

Entrare nei FDODER]RV costava fatica. Quasi in ginocchio...

MR:

Dietro, il forte rumore quando facevano scendere la saracinesca che sbatteva contro la parete.

FH :

E quello della grossa catena quando la alzavano e mettevano il lucchetto.

MR:

Quei lucchetti enormi di Paso de los Toros!

FH :

«Spogliati!», ordinarono. Alla fine riuscii a togliermi il cappuccio e vedere.

MR:

«Questo è il peggior pozzo tra tutti quelli che conosco», mi dissi al vederlo.

FH :

La prima cosa da fare: conquistare una lattina.

MR:

La seconda: riconoscere il luogo. 215


FH :

Con l’esperienza di vecchi prigionieri, capaci di leggere tra le pareti e nelle macchie: se in quel luogo aveva vissuto qualcuno, quanti, quando; se avevano sofferto molto, se mangiavano, se pisciavano.

MR:

Ci vollero giorni per completare quella prima ricognizione. Le porte erano formate da grandi tavole; una griglia di travi rinforzate; fermate con bulloni ai ferri di una vecchia branda da caserma.

FH :

Diventava la griglia di un letto mostruosamente rinforzato e le due uniche gambe, lunghe, attraversavano la parete da parte a parte sulla cornice della porta.

MR:

Lì sopra, due grossolani cardini di ferro permettevano di alzare e abbassare la saracinesca per entrare e uscire.

FH :

Questo spiegava le difficoltà...

MR:

... e il rumore al cadere.

FH :

Sotto, quel ponte levatoio s’incastrava in diversi ferri dentro i quali era tesa da lato a lato una catena pesante e grossa.

MR:

Il punto finale: i lucchetti.

FH :

Si poteva far uscire la mano da quelle sbarre di legno. “Vedere” fuori... e dentro.

MR:

Non c’erano finestre nei FDODER]RV.

FH :

Presto notai che diversi bulloni della mia porta erano allentati; che qualcuno li aveva allentati.

MR:

Era d’importanza vitale riconoscere il luogo. Sapevamo che avremmo vissuto lì per anni.

FH :

Riconoscere il nuovo mondo. La Nazione.

MR:

La nostra Nazione... Sempre più piccola: quelli erano i FDODER]RV più piccoli della nostra vita. Forse quelli di Santa Clara erano di dimensione simile.

FH :

Una branda sconquassata, dentro, toglieva la maggior parte dello spazio disponibile.

MR:

Avevano la lunghezza della branda, ed era chiaro che li avevano accorciati. Avevano messo le porte-saracinesche quasi mezzo metro in dentro.

FH :

Avanzava un pezzo di parete verso l’esterno. Qualcuno li aveva ritenuti troppo grandi. 216


MR:

Quel pezzo di parete che avanzava impediva, guardando tra le sbarre, di vedere le porte dei FDODER]RV vicini e il resto del corridoio.

FH :

Avevano la larghezza della branda più due mattonelle. In quello spazio bisognava camminare come meglio si poteva.

MR:

Non c’erano mattonelle: il pavimento era di cemento, lucidato da interminabili “pattinate”.

FH :

Corte. Ci abituammo a “pattinare” a passi brevi.

MR:

Lì aveva vissuto qualcun altro per molti anni.

FH :

Come quel falegname che passeggiava per il bosco e vedeva negli alberi cose che gli altri non vedevano, così i nostri occhi, guardando a terra, ad esempio, notavano la parte lucida dove si camminava e la parte rugosa del cemento sotto la branda. Si vedevano anni di camminate.

MR:

Il luogo non era precisamente un sotterraneo. Era stato costruito in un grande dislivello del terreno.

FH :

Aveva un tetto di zinco senza rivestimento, in pendenza evidente, e i FDODER]RV si trovavano nella parte più bassa della pendenza.

MR:

Doveva essere un forno d’estate. Aveva tutti i difetti di un sotterraneo e nessuno dei suoi vantaggi.

MR:

Presto venimmo a sapere che lì c’erano dieci corridoio più ampio dei FDODER]RV stessi.

FH :

Per arieggiare il tutto: una finestrella all’estremità del corridoio.

MR:

C’erano, quindi, sette FDODER]RV vuoti. Misero Pepe nel 4, me nel 7 e te nel 9.

FH :

Gli unici tre FDODER]RV in cui non pioveva a dirotto.

MR:

Pioveva moderatamente, se non c’era molto vento.

FH :

Presto trovai altre impronte e messaggi...

MR:

Sì; c’erano stati altri lì. Poche ore prima del nostro arrivo.

FDODER]RV

uguali, lungo un

217


/H WUDFFH GHL ´9HQHUGuµ

FH :

La prima cosa che trovai nel FDODER]R, appeso a una delle gambe della portasaracinesca, fu un filino con una pallina. Solo un vecchio prigioniero, e con un obiettivo, poteva avere quel marchingegno...

MR:

Rilevatore di vento. Di brezza. Un filo piccolissimo perché nessuno lo vedesse e perché il più lieve soffio lo muovesse.

FH :

Anche noi l’avevamo inventato...

MR:

Servizio meteorologico di FDODER]RV senz’aria.

FH :

Di chi è prigioniero da molti anni e ha sofferto molto la mancanza d’aria.

MR:

Lo stesso marchingegno che facemmo noi. Pertanto la stessa tipologia: ostaggi.

FH :

Come le rovine in un bosco permettono di dedurre il grado di civilizzazione, cultura, sogni e catastrofi di chi le avevano abitate, così quelle tracce ci permettevano...

MR:

... di ricostruire il passato. Il rilevatore di brezza era ingannevole, ma psicologicamente tranquillizzante. Quando d’estate respiravamo fango, il filino si muoveva per il nostro respiro o per l’andirivieni dei passi. Allora immaginavamo brezze inesistenti. Nel mio FDODER]R trovai una piccola buccia d’arancia legata con due filini. Un sistema ingegnoso per indicare l’umidità dell’ambiente: all’arricciarsi o distendersi, la buccia azionava un piccolo ago su un minuscolo rilevatore, di cartone. Pensai: l’Ingegner Manera45.

FH :

Io trovai sotto la branda, dove solo un prigioniero può trovarlo, un piccolo ago fatto in casa con un filo d’acciaio, pazientemente affilato, al quale, non so come, avevano fatto un occhiello. Un filino fatto in casa intrecciato con un altro di lanuggine, meglio di quello per cucire, era arrotolato intorno all’ago e “sistemato” perché un altro prigioniero – vecchio – lo potesse trovare e usare. Pensai: Marenales.

MR:

Julio che ti lanciava un messaggio: «Qui ti lascio questo strumento in eredità; so, come te, che può essere di vitale importanza». Nel mio FDODER]R trovai un ago fatto con una spina di pesce.

FH :

L’umanità costruisce strumenti e passa attraverso le ere: pietra, osso... Anche i naufraghi. Anche Robinson con il suo Venerdì. 218


MR:

Pensai: «Come possono aver sopportato quasi nove anni qui?», e presi coscienza di me: se tu l’hai sopportato, anche loro l’hanno sopportato.

FH :

Quasi nove anni lì! Sapevamo che in quella Divisione non erano previsti trasferimenti.

MR:

Il FDODER]R che ti era toccato, ti era toccato per sempre.

FH :

Nei giorni successivi trovammo ancora più tracce e più donazioni solidali, lasciate lì, “per il primo che arriva”.

MR:

Erano le tracce degli altri Venerdì.

6RWWR LO SDOFR GHO 3DSD

MR:

Lì non vedemmo mai fare nessun tipo di pulizia.

FH :

Lì dentro pioveva e l’acqua, che non sapeva nemmeno dove scorrere, rimaneva giorni e a volte settimane a stagnare nel corridoio e nei FDODER]RV, imputridendosi. Venivano le rane e cantavano come in uno stagno.

MR:

Il tetto sembrava estremamente debole e siccome era così basso, ci si poteva arrivare dai FDODER]RV arrampicandosi tra i ferri che uscivano dalla porta-saracinesca.

FH :

La sua debolezza era apparente. Gli altri ostaggi avevano tentato di togliere i chiodi delle lastre ed erano riusciti ad alzarle un poco... Anche noi ci provammo, te lo ricordi?, cercando una fuga impossibile.

MR:

Ma sulle lastre era posato, schiacciandole, il famoso “ponte Bailey”46, smontato. Decine di travi di ferro schiacciavano, con le loro tonnellate, qualsiasi tentativo. E questo ponte fu...

FH :

... lo stesso che servì, portato da Paso de los Toros, a costruire il palco del Papa nella sua recente visita.

MR:

Il Papa tenne la messa sul ponte che aveva schiacciato per decenni i prigionieri.

FH :

I FDODER]RV erano stati costruiti alla buona. Forse nella fretta del 1972. Senza intonaco, irregolari, con le loro porte improvvisate, grossolane. 219


MR:

Quello che era provvisorio rimase così per sempre. Ora, molti anni dopo, rimanevano lì inutilizzati sette FDODER]RV sinistri, dove non entrava mai nessuno.

FH :

Bui: avevano rubato il materiale per l’allaccio elettrico. Lì morivano e marcivano i topi; lì i soldati buttavano gli avanzi del cibo; lì, una volta, quando erano alla ricerca di un FDODER]R in cui spostare uno di noi, trovarono perfino dei preservativi usurati.

MR:

Ci furono periodi, memorabili per i soldati, nei quali quel posto era stato pieno di prigionieri fino al corridoio. Ora ne rimanevano solo tre, e sempre più vecchi e usati.

FH :

La scala era estremamente angusta. Quasi un tunnel. Molto ripida, conduceva ai bagni e alla stanza di guardia.

MR:

I bagni erano due tazze da cui entravano i topi. Bisognava mettersi lì a mezz’asta. Era un pericolo accovacciarsi. Più di una volta i topi saltarono tra le nostre parti intime scoperte.

FH :

C’era un rubinetto. L’unico. In estate, meta delle nostre drammatiche peregrinazioni alla ricerca del rivolino d’acqua che la bassa pressione del sistema idrico faceva scendere.

MR:

C’era anche una doccia con uno scaldabagno di contrabbando, brasiliano.

FH :

Che rubarono...

MR:

Ma ne portarono un altro dopo aver punito l’intero corpo di guardia.

FH :

E dopo 48 ore lo rubarono di nuovo!

MR:

Lasciando il “contenitore” al suo posto.

FH :

Era uno scaldabagno finto. Figurava ma non c’era.

MR:

Anche tutto il circuito elettrico dei FDODER]RV vuoti era stato divorato come da uno sciame di locuste.

FH :

Vicino al bagno, in un ripiano della scala, avevano luogo le visite.

MR:

E lì, una porta enorme con una doppia grata e con i rispettivi lucchetti.

FH :

Dietro cui si apriva l’arieggiata stanza di guardia dove rimanevano i sorveglianti “in libertà”.

MR:

Ogni giorno per occuparsi di noi entravano due capi e otto soldati, dei quali soltanto uno, armato di manganello, rimaneva fisso, ora dopo ora, nel 220


corridoio inferiore. Gli altri prendevano il mate nella stanza... FH :

... dove c’era un dormitorio per loro, e un’altra porta con la grata, doppia, che comunicava con la caserma. In modo che tutto il blocco fosse isolato all’interno dell’Unità.

MR:

Un carcere in miniatura.

FH :

Nel quale il sole s’infiltrava, in alcuni periodi dell’anno, dalla finestra della cantina e, muovendosi, un giorno riuscì perfino a entrare nella cella 9 per alcuni minuti. Mi sedevo a “prendere il sole”: uno sprazzo grande come una mattonella che fugacemente mi colpiva in petto. Alcuni giorni, di un tale mese, di una determinata stagione, ogni anno.

MR:

In quei minuscoli stanzini regnava l’eterna luce di una lampada accesa giorno e notte.

FH :

Siccome il tetto era così basso, diventava insopportabile agli occhi.

MR:

Iniziammo una dura lotta, prolungatasi per mesi, per riuscire a spegnerla o almeno per metterle sopra qualcosa, anche se solo di notte.

FH :

Alla fine, mezzo impazziti e ribelli per intero, decidemmo di coprirla con qualsiasi cosa: carte, tela, cartoni... Duravano poco.

MR:

Io lottavo con tutto me stesso per l’aria, specialmente quando i soldati chiudevano l’unica finestrella del corridoio. Soffocavo. Una volta, dopo molte lotte, vinsi la battaglia e i soldati l’aprirono. Immediatamente sentii una raffica che alleviò il mio soffocamento. Di notte, quando andai in bagno, verificai che mi avevano ingannato e la finestra rimaneva chiusa ermeticamente... La raffica di vento veniva dal mio cervello.

FH :

I topi, una piaga lì, ci rubavano il sapone e salivano sulle brande.

MR:

Dovevamo tenere il sapone appeso alla parete in una sacca di nylon.

FH :

Erano grassi, enormi. Per sterminarli, un comandante offrì un giorno di licenza ogni tre topi che gli avessero portato.

MR:

I soldati uscivano a caccia di topi per tutto Paso de los Toros e li portavano nella loro sacca come se li avessero catturati nell’Unità.

FH :

Le parti in legno erano invase da strane formiche pazze, grandi, dall’odore molto penetrante. Si annidavano nelle travi del tetto.

MR:

In primavera grossi formicai si formavano sulle nostre teste, lasciando cadere una segatura sottile come pioggia permanente.

221


FH :

Quando la loro fatica raggiungeva l’apice, su di noi cadevano anche formiche, pezzettini di foglie, e quei semini piccoli di eucalipto che io collezionavo. Un giorno li trovarono: «Dove li hai presi?» Quando risposi che me li avevano portati le formiche, mi volevano ammazzare. Devono aver passato giorni e giorni a controllare quale soldato me li avesse portati e a che scopo.

MR:

Quella polverina delle formiche copriva anche la tela del letto.

FH :

Per questo e per la pioggia, tenevamo sulla branda, legato alle pareti, un piccolo tetto fatto con sacche di nylon, che non attirava l’attenzione dei soldati perché dovevano averlo avuto così tutti i precedenti abitanti di quelle catacombe. Quando pioveva, gocciolava sul nostro telo una pioggerellina romantica di seconda mano.

MR:

Da lì l’importanza dell’ago e del filo. Iniziammo a cucire pezzi di nylon per il telo.

FH :

In inverno il nostro stesso calore faceva la condensa sul tetto di zinco, e “pioveva”.

MR:

Non c’era modo di asciugare i vestiti e i materassi.

FH :

In estate l’unico modo per sopravvivere era bagnare per terra e buttarcisi sopra nudi.

MR:

Lo chiamavamo “la spiaggia”.

FH :

Sentimmo una volta Charles Aznavour e dietro la sua voce un messaggio del Ministero del Turismo che diceva «Punta del Este ti aspetta...».

MR:

Passasti mesi a cantarlo a bassa voce...

FH :

Prendevamo il mate, freddo come lo bevono i paraguaiani. Un giorno un soldato mi stava guardando. Allora mi rovesciai una parte dell’acqua del termos sulla testa; poi ne versai nella zucca del PDWH e lo bevvi. Lui non sapeva che l’acqua era fredda.

MR:

Corse di sopra a dire che “il pazzo della 9” si versava l’acqua addosso prima di servirsi il mate.

222


´1RQ F·q XRPR FKH WHQJDµ

FH :

A quel punto già pensavano di noi le cose più strane e per questo i capi non davano grande importanza a queste storie.

MR:

Secondo loro, secondo la maggior parte di loro, tutto il cellario era “stregato”.

FH :

Di notte sentivano passi e corse sulle lamiere del tetto. Andavano e non trovavano niente.

MR:

Noi sapevamo che erano i topi.

FH :

Poi sentivano piovere a dirotto. Andavano a vedere e ancora niente.

MR:

Noi sapevamo che erano dei grandi eucalipti che in alcuni periodi dell’anno, mossi dal vento, lasciavano cadere una pioggia di frutti come palline.

FH :

Ma ci furono altri eventi che non trovarono mai una spiegazione.

MR:

Ad esempio, quando la panca destinata ai prigionieri per le visite iniziava a muoversi da sola.

FH :

O quando il rubinetto del bagno, mentre loro erano nel pieno di una partita a carte, si apriva da solo... Più volte; da solo.

MR:

O quando all’alba sentivano lavorare nell’officina accanto: colpi sull’incudine, scoppiettii del fuoco. Andavano e niente.

FH :

A volte ci venivano a chiedere cosa stava succedendo.

MR:

Allora, un po’ per saperlo, e un po’ per farli preoccupare, chiedevamo: «Qui è morto qualcuno?».

FH :

«Sì», era la risposta...

MR:

«Sì», in quelle catacombe avevano torturato qualcuno fino alla morte. «E allora, di che vi lamentate?».

FH :

Una volta raccontai a una recluta preoccupata che una voce dalla cella 10 (vuota da anni) chiedeva acqua e anche che dall’oscurità un braccio aveva raggiunto il mio termos.

MR:

Molte guardie, di notte, non scendevano nel corridoio. Restavano avvolte nel loro mantello, cercando di dormire in un pianerottolo curvo della scala.

223


FH :

Quando arrivava la guardia per dare il cambio sentivamo la sua raccomandazione a chi entrava: «Non scendere nel corridoio perché lì non c’è uomo che tenga».

/D YLVLWD

MR:

Ogni 15 giorni in un periodo, e ogni 21 in un altro, ricevevamo visite. Di domenica e uno alla volta.

FH :

Portavano la panca “stregata”.

MR:

Un soldato con un manganello si appostava dietro di noi. Poi c’era una doppia grata nel cui spazio intermedio si metteva di solito l’ufficiale per sorvegliare meglio. A più di un metro si sedeva la famiglia. Parlavamo quasi gridando.

FH :

Dietro la famiglia, armati fino ai denti, gli altri sei soldati, due capi, il sergente della S2, una poliziotta e un cane con il suo soldato aggiunto.

MR:

Totale militare: quattordici soggetti.

FH :

Per sorvegliare pericolose donne di ottanta e settant’anni e bambine di nove e quattordici.

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MR:

L’ora d’aria si teneva in un patio tra quattro mura, situato al lato del “cellario”. Per fortuna, lì batteva il sole.

FH :

Ci portavano uno a uno, ammanettati e incappucciati, ma una volta nel patio ci toglievano manette e cappuccio e ci lasciavano camminare per un sentiero o sederci al sole.

MR:

Venivano con noi un capo e tre soldati armati. Il resto del corpo di guardia ci osservava da una finestra.

224


FH :

Per qualsiasi cosa l’ora d’aria veniva cancellata; per pioggia, per presenza di civili nella caserma, per un maestro che teneva lezione nella sala d’istruzione di primo grado, per spettacoli del gruppo folkloristico. I buoni motivi non mancavano mai.

MR:

Insomma, potevamo ritenerci contenti se uscivamo una o due volte a settimana, dieci minuti ogni volta. Lì nacque questa breve poesia:

8QD PRQHGD GH VRO SHQHWUD HQ PL DOFDQFtD 7LQWLQHD HQ ODV SDUHGHV GHVSDELOD ODV VRPEUDV $O FDER GH ORV DxRV VXPDURQ XQ GtD

47

)DPH

FH :

Il cibo scarseggiava. Per tutti. Molte volte anche i soldati rimanevano affamati. Perciò, se c’era la carne, ci davano le ossa, dello stufato, la brodaglia.

MR:

Dicevano, «A ciascuno il suo! I prigionieri sono prigionieri».

FH :

Dei tre pezzi di pane destinati a noi, ce ne davano uno diviso in tre parti e si tenevano gli altri due.

MR:

Reclamavamo, lottavamo, protestavamo, organizzavamo manovre.

FH :

Tutto inutile.

MR:

Non potevamo immaginare che quella situazione potesse diventare ancora più dura, come avvenne. Alcuni giorni più, altri meno, avremmo sentito la mancanza di quelle ossa.

225


/D PLQDFFLD

FH :

Presto scoprimmo che c’era un’ombra minacciosa all’orizzonte. Quello stesso ufficiale che ci aveva reso la vita impossibile a Laguna del Sauce nel 1976, ora, nel 1982, si trovava a Paso de los Toros.

MR:

Logicamente, con un grado in più; e aspettava l’opportunità per prendersi una rivincita su di noi, perché abbiamo sempre pensato che nel 1976 doveva aver ricevuto qualche sanzione per colpa nostra.

FH :

Nell’aprile del 1982 era il secondo capo della S2 del Battaglione. Dopo un capitano – capo della S2 – sarebbe toccato a lui!

MR:

Si leccava i baffi all’idea di averci a sua disposizione. Per il momento si limitava a rubarci il tabacco dai pacchetti che ci mandava la famiglia e cose di questo tipo.

FH :

Se il capitano se ne andava... Dio ce ne scampi e liberi!...

MR:

E se ne sarebbe andato, prima o poi.

*OL RVWDJJL

MR:

Era categoricamente proibita la solidarietà tra noi. Per loro questo divieto era una questione di principio.

FH :

Controllavano molto bene che se uno di noi aveva qualcosa e gli altri no, non lo condividesse. Era considerato sovversivo che i prigionieri dividessero un pezzo di pane.

MR:

Era “sbagliato”. Strano. Andava contro il carattere nazionale, secondo loro.

FH :

«In questa Nazione chi sta bene sta bene, e chi sta male, si fotta», era il loro motto.

MR:

Durante questi primi mesi riuscimmo a captare chiacchiere tra soldati riferite agli altri ostaggi, e così potemmo ricostruire approssimativamente un panorama. 226


FH :

Gli altri sei passarono di lì in periodi diversi. I soldati credevano che noi lo sapessimo. Non concepivano, nonostante ne fossero gli artefici, tanta carenza di comunicazione.

MR:

Lì sentimmo parlare per la prima volta della pazzia di Engler. Del tentativo di suicidio di Wasem nel 1974 e della sua attuale malattia: un enorme protuberanza sul collo.

FH :

Cancro, dicevano. Ma noi non potevamo fare totale affidamento sulle parole ascoltate.

MR:

In uno di quei FDODER]RV visse la convalescenza da due operazioni.

FH :

Scoprimmo che componeva canzoni.

MR:

Ma i racconti più impressionanti erano quelli che si riferivano a Engler. Pesava 50 chili, non ingeriva altro che latte e una strana galletta che gli mandavano “da fuori”. Passava il giorno in atteggiamento di preghiera.

FH :

Diceva di esser stato scelto da Dio come profeta per la salvezza degli ebrei... Studiava ebraico, autorizzazione concessa a causa del suo stato mentale e per intercessione di un vescovo mormone.

MR:

Un essere fantastico si era impossessato del suo cervello: si chiamava Alicia. Era una donna fredda, con una vocina neutra e gelida, che gli diceva quando doveva mangiare e quando no. Per molto tempo gli ordinò di non farlo e lui non lo fece. Alicia era crudele. Siccome era stata creata dal suo cervello e non da Dio, non aveva anima.

FH :

Raccontavano che una notte un ufficiale karateka venne a picchiarlo. Engler cadeva dopo ogni colpo e si rialzava in silenzio. Molte volte...

MR:

Dicevano: «In silenzio, sereno e guardando fisso l’ufficiale...».

FH :

Finché questo si scocciò e se ne andò.

MR:

Nelle caserme della Divisione 2 gli riempivano il piatto di feci e gliele facevano mangiare.

FH :

I racconti sugli altri tre ostaggi erano più vecchi.

MR:

Venimmo a conoscenza approssimativamente delle condizioni della Divisione 2 perché i soldati le avevano sapute dagli stessi ostaggi.

FH :

Anche noi iniziavamo a sperimentare disturbi psicologici.

MR:

Mujica lottava intensamente contro qualcuno che maneggiava una macchina infernale che lo stordiva. Produceva una vibrazione che lo 227


tormentava. FH :

Era evidente che Pepe soffriva tantissimo...

MR:

Non gli prestarono mai la minima assistenza finché un giorno, quando fuori il processo politico era già in fase avanzata, venne il generale Medina per un controllo: quando arrivò al FDODER]R di Pepe, lui protestò adirato contro l’uso che facevano di quell’apparecchio spettrale che lo tormentava.

FH :

Lo portarono all’ospedale militare per qualche giorno.

MR:

In poche parole, né il generale Hontou, né Medina, che conoscevano la nostra situazione – perché ci videro –, la modificarono. Perché farlo? Se alla fine dei conti erano stati loro a disporla...

0RQWHYLGHR

FH :

Un giorno, maggio 1982, portarono Pepe dal giudice e mi comunicarono che il giorno seguente sarei andato io. Una cosa del genere, a quel punto, ci sembrava insolita. E ancor di più che ci portassero a Montevideo, come poi sapemmo al ritorno di Pepe.

MR:

Tornare a Montevideo era come ritornare ai sentieri dell’infanzia e dietro l’angolo degli appuntamenti dell’adolescenza, al territorio della nostra militanza. E uno degli aspetti essenziali della repressione contro di noi consisteva nel tenerci il più lontano possibile dallo scenario montevideano in fermento.

FH :

Abbiamo già raccontato come, nel 1974, una volta fui trasferito al 13° Fanteria per una convocazione del giudice che alla fine non ci fu. Otto anni dopo mi preparavo nervosamente a ritornare a respirare l’aria della mia città. Di mattina, legato ben bene e incappucciato, mi fecero salire su una delle tre camionette che intrapresero a tutta velocità il viaggio verso sud per la Statale 5. La riconoscevo per la velocità e per la qualità della strada. Faceva freddo. Era notte. Si fermarono a fare rifornimento in un luogo pieno di molti rumori e motori. Con molta probabilità si trattava di Florida, anche se mi risultava difficile credere che fossimo arrivati così presto. Lì riuscii a sentire una radio. Il giornale radio della mattina raccontava l’affondamento della nave da crociera argentina Gen. Belgrano a opera di alcuni 228


sottomarini inglesi. Voci di gente normale si lamentavano del freddo, facevano battute, chiacchieravano... Ci mettemmo nuovamente in cammino. Le mie orecchie erano totalmente disabituate al tumulto crescente che m’investiva mentre avanzavamo verso la grande città. Non volevo perdermi nessun dettaglio. Chissà per quanti altri anni ancora non sarei tornato. Prendemmo la strada per Propios. Lo seppi quando girammo, salimmo la rampa e attraversammo la strada dopo aver aspettato che alzassero le barriere. Non me l’aspettavo, ma un altro senso iniziò a servirmi per riconoscere le strade di Montevideo: l’olfatto, un altro dei sensi che era diventato molto sensibile. Vecchi odori dimenticati tornarono a me, odori diversi da quelli del FDODER]R: arrivò l’odore caratteristico che esce dalle porte dei magazzini, quello dei cappuccini che esce dai bar negli angoli dove le camionette sostavano, quello del pane fresco... Persi la nozione delle strade. Mi aspettavo di arrivare al tribunale militare in 8 de Octubre e Jaime Cibilis. Arriviamo. Le tre camionette stazionano. C’è una lunga attesa. I soldati e l’ufficiale ai quali eravamo affidati scendono. Improvvisamente, proprio lì, all’altro lato della strada, uno strillone passa gridando: «(O 3DtV, (O 'tD, /D 0DxDQD, giornaliiii!». Che urlo! Come il canto di un uccello... L’urlo di Montevideo mi riempì gli occhi di grossi lacrimoni. Proprio lì, all’altro lato della strada. Improvvisamente mi fanno scendere e l’ufficiale mi avvisa che se voglio andare in bagno devo farlo ora, perché quella sarebbe stata l’ultima opportunità nella giornata. Mi portano velocemente attraverso diversi corridoi fino a quello che credevo fosse un ufficio. Lì una voce legge a tutta velocità quella che credo fosse la mia pratica. Io pensavo solo di approfittare dell’andata in bagno per bucare il cappuccio. Non era possibile andarmene da Montevideo senza vederla. Quello che leggeva terminò e disse: «Firmi qui». Mi alzarono appena il cappuccio perché potessi vedere dove era la matita. Mi tolsero le manette. Mi portarono in bagno. L’ufficiale, come me, andava di fretta. Il cappuccio che mi avevano messo in quell’occasione era una fodera di cuscino, lunga e piegata all’infuori perché il doppio strato mi impedisse di vedere. L’unica cosa che feci in bagno fu piegarla verso l’interno. Non se ne accorsero. Feci le cose in modo che la piega non arrivasse all’altezza degli occhi, davanti ai quali rimase un solo strato; attraverso la trama si vedeva come attraverso una nebbiolina. Mi ammanettarono di nuovo. Chiusi gli occhi per sbattere contro la parete se così volevano loro, e mi portarono di nuovo sulla camionetta. Nuova attesa. L’ufficiale, di fretta, fece diverse telefonate. Ora sì, aprii gli occhi. Alla mia destra, di sbieco, una finestra di vetro smerigliato. In fondo, la parte aperta della camionetta. Silhouette e profili attraverso una maglia. Dov’ero? Quello non sembrava l’incrocio tra 229


8 de Octubre e Jaime Cibils. La camionetta partì, uscì sulla strada e io non mi orientavo. Alla fine ci riuscii: andavamo per Bulevar Artigas, all’altezza de La Española! Il Periera Rossel... L’Obelisco... Entrammo in 18 de Julio! MR:

Non era 18 de Julio, era il tunnel del tempo. Del tempo proibito, dal quale uscii e che esisteva in un’altra dimensione.

FH :

Sì. C’erano operai all’inizio di “18”. Io mi aspettavo un’altra strada. Dove andavano quei pazzi? Erano più di dieci anni che non passeggiavo per quelle strade. I miei occhi non bastavano. Attraverso un setaccio, come una nebbiolina, passavano in rassegna vetrine, semafori, macchine, autobus pieni, gente... Sorprendentemente stazionammo di fronte al *DXFKR48. Che stavamo facendo? Rimanemmo fermi lì per un pezzo. L’ufficiale entrò in un negozio. Dall’altro lato del marciapiede passava la gente, i venditori... A volte due persone si fermavano a parlare e proseguivano... Nessuno avrebbe mai potuto immaginare che dentro quella camionetta militare senza importanza ci fosse un uomo legato, incappucciato, che veniva da un profondo FDODER]R e per lungo tempo...

MR:

La vita scorreva oltre una tenda sottile, ma separata da un muro spesso anni di distanza.

FH :

Che ci facevamo lì? Che ci facevo io dietro quell’amalgama di lacrime, setacci e nebbiolina, fermo in 18 de Julio? Che facevano loro?

MR:

Caricavano televisori!

FH :

Sì, poi te lo raccontai – lettera dopo lettera – a lungo: portavamo televisori.

MR:

Il fatto è che c’è una strana simbiosi tra le tue esperienze di vita e le mie in questi tredici anni. I racconti di queste “memorie” possono cambiare indistintamente il soggetto senza cambiarne il senso. Questo libro è scritto da uno: noi due. O forse da nove...

FH :

O da tutti. L’ufficiale approfittò del trasferimento dal giudice. Questo era il motivo di tutta quella fretta quando eravamo in tribunale: c’erano molte cose da fare più importanti, per lui, della farsa della giustizia militare.

MR:

E tutto si era trasformato in una farsa... In un grottesco nello stile di Discepolo49. Non c’è una parola in lingua spagnola che esprima il desiderio simultaneo di ridere e piangere. E in te s’intrecciavano entrambe le sensazioni.

FH :

Presto passammo alla tappa successiva lungo “18”, prendendo Ejido, poi 230


Colonia fino a Convención. Lì giriamo e, a pochi isolati, ci fermiamo in doppia fila. A lungo. L’ufficiale si affannava trascinando a fatica pacchi davanti a un negozio. I soldati aiutavano, solleciti. Poi prendemmo Canelones di nuovo verso la periferia e di nuovo stazionammo di fronte a un altro negozio. Si caricavano e scaricavano cose. Caricarono cose anche dove stavo io, e mi obbligarono a sedermici sopra. MR:

Meglio per te.

FH :

Potevo vedere molto di più. Ormai di pomeriggio, prendendo l’Agraciada, passammo di fronte al Palacio Legislativo.

MR:

Che giro stupido. Ci mancava solo la voce del cicerone: «... e alla nostra destra, il Palazzo della Legge, dove senatori e deputati convocarono le Forze Armate nell’anno ’72 per ristabilire l’ordine nella Nazione».

FH :

Più avanti ci scontrammo con un’auto privata.

MR:

Ci mancava solo questo...

FH :

Chiamarono la polizia, per sporgere denuncia. Dopo lungo tempo venne un soldato e ristabilì l’ordine. Non mi mancarono diversivi. Alla fine prendemmo Garzón e ci dirigemmo verso Paso de los Toros a tutta velocità. Passai per Colón, Las Piedras. Mi allontanavo da quei luoghi appena ritrovati... Prima di arrivare, bucammo una gomma e quasi ci ammazzammo tutti.

MR:

Un’“odalisca”, come diceva un amico del quartiere, invece di odissea.

FH :

Ci misi due mesi per raccontarti, in quel corridoio delle catacombe, quando la guardia si distraeva, a voce molto bassa o a colpi sulla parete, il mio viaggio a Montevideo.

MR:

Diverse volte, molte, anni dopo, ti facemmo ritornare sull’argomento, per sentire di nuovo com’era Montevideo: «E così ci sono operai a “18”, eh? Che giornali vendevano? Quali mancavano?»

FH :

E a volte inventavo. La nebbia del cappuccio ha questo vantaggio... puoi immaginare a piacere tutto quello che non hai visto.

MR:

O forse non hai visto, hai immaginato tutto. Nell’universo in cui vivevamo era tutt’uno.

231


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FH :

Presto iniziarono ad arrivarci dati di un nuovo Mondiale di Calcio.

MR:

Spagna ’82. Venimmo a sapere che vinse l’Italia e, rispetto ai campionati del ’74 e del ’78, avemmo molte più informazioni.

FH :

Fu in quel periodo che, potendo guardare attraverso la porta, rimanemmo sconvolti dagli orologi al quarzo che si muovevano senza fare nessun rumore.

MR:

Un giorno riuscii a far smontare il coperchio a un soldato: non c’era niente!

FH :

Io avevo immaginato un sistema meccanico con le rotelle, miracolo d’ingegneria micrometrica e pensai: «Non durerà molto questa moda».

MR:

Rimanevamo perplessi quando la tecnologia al di là del muro arrivava alle catacombe. Ci sentivamo come gli indios davanti agli specchietti che portò Colombo.

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MR:

Rimanemmo ancora più perplessi quando scoprimmo che un chilo di peperoni in Uruguay valeva più di un orologio in Brasile.

FH :

Mano a mano notiamo che i soldati perdono il potere d’acquisto... E il loro status sociale.

MR:

Non peggiora solo il loro salario, ma anche il loro cibo, il loro trattamento, la loro assistenza.

FH :

L’avvertono e lo commentano.

MR:

Man mano che la Nazione si avvicinava a un’apertura, di cui noi non sapevamo assolutamente niente, i comandanti s’impossessavano anche, con avidità crescente, dei beni destinati al personale della truppa.

FH :

I soldati, come mai prima, parlavano della quotazione del dollaro.

MR:

Le ragazzine dei postriboli aumentavano la tariffa e davanti alle proteste 232


della clientela, una di loro, con fare dottorale, rispose: «Devo adeguarmi, tesoro».

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FH :

Il sabato, secondo il regolamento, ci spettava la carne, ma il maggiore dell’Unità, approfittando dei distaccamenti del Battaglione appostati in entrambe le dighe, Bonete e Baygorria, li obbligava a pescare e sostituiva la carne di mammifero con quella di pesce, a volte fresco, a volte no.

MR:

I soldati se ne infischiavano e compravano salsicce che cucinavano nei caschi da guerra, recipiente che nell’esercito uruguaiano non ha altra utilità. Quando non c’erano salsicce, cucinavano uova.

FH :

A occhio di bue, la maggior parte delle volte.

MR:

Noi facevamo festa il sabato quando mangiavamo pesce d’acqua dolce anche crudo. Che in fin dei conti, come veniva veniva, erano proteine. Quando c’è la fame, Ñato, nessun pane è troppo duro.

FH :

E quel maggiore, Ruso, in tema di “appropriazioni” era fuori concorso.

MR:

Superò tutti i record per ciò che riguarda l’appropriazione indebita, per dirlo con un eufemismo. Non era un “maggiore”, era un “massimo” in materia.

FH :

Il rifornitore della officina della caserma era un uomo del Partido Nacional e a un certo punto gli tagliò i crediti per mancanza assoluta di pagamenti.

MR:

«Quando vinceranno i Bianchi, salderemo il conto» diceva il signor maggiore.

FH :

Persino i soldati ne avevano vergogna! Il maggiore era un mago della finanza e del petrolio...

MR:

Un emiro. Faceva fruttare la benzina dei depositi a livelli incredibili.

FH :

«Come possono camminare i camion dopo averli spremuti tanto?», si chiedevano sconvolti i soldati.

MR:

Distribuiva combustibile in diverse stazioni di servizio. Lo chiamavano “Mr. Esso”. 233


FH :

«Questo finirà presto, ne ho ancora per poco», si vede che si era detto il signor maggiore, sottile analista politico, e perciò si impegnò al massimo.

MR:

Vendeva coperte “obbligatorie” ai soldati e le detraeva dal temibile “falso rendiconto”... Incentivava l’industria tessile.

FH :

Era il padrino del gruppo folkloristico della caserma.

MR:

Incentivava il folklore nazionale.

FH :

Registrarono un disco a Montevideo grazie a lui.

MR:

E ordinò a tutto il Battaglione di comprarlo. Uno per ogni soldato.

FH :

«E io che lo compro a fare se non ho il giradischi?», dicevano, guardando indignati la detrazione obbligata. «E poi, già mi sono rotto di ascoltarli tutto il giorno in caserma. Figurati se me li porto a casa questo manipolo di gatti affamati...».

MR:

Il giorno della paga 400 soldati uscirono con il folklore sotto il braccio.

FH :

Amico dell’igiene, il maggiore mandava a lavare gli enormi sacchi “americani” a una lavanderia di Montevideo.

FH :

Da detrarre dal “falso rendiconto”.

MR:

Amico dell’eleganza, ordinò di comprare e stampare centinaia di magliette bianche.

MR:

Adidas...

FH :

E tutto il Battaglione era in agitazione ma, come sempre, dovette obbedire.

MR:

Si dedicò all’avicoltura a partire dal giorno in cui da Canelones arrivarono a Paso de los Toros alcuni camion per vendere galline di scarto, a bassissimo prezzo.

FH :

Le guardò all’inizio con rabbia, ma poi, evidentemente dopo aver riflettuto, andò e comprò l’intero carico.

MR:

Che vendette al triplo alla dispensa della caserma e nessuno fiatò.

FH :

Ma mormoravano.

MR:

Era tuttofare: portava verdura da Montevideo.

FH :

Diventava fruttivendolo.

MR:

Un paradosso... 234


FH :

... un paradosso...

MR:

... in un Paese dove i recinti dei latifondi erano a pochi isolati dal centro, si faceva arrivare la verdura dalla capitale.

FH :

Realizzò un’inflazione tale con la verdura che arrivò a sbaragliare la concorrenza.

MR:

Era il fruttivendolo delle Unità d’Ingegneria, Artiglieria e del Quartier Generale della Divisione dell’Esercito n. 4.

FH :

Ma quelli d’Ingegneria invidiavano quelli di Artiglieria perché il loro capo aveva organizzato l’affare per tutti.

MR:

Mandava i camion a scadenze settimanali alla frontiera con le richieste del personale. Perfino case prefabbricate.

FH :

Il maggiore non era molto amico della fauna autoctona.

MR:

Un capo precedente, con santissima pazienza, aveva creato un ottimo zoo autoctono nel Battaglione. Mandava i soldati a caccia di varie specie. Era uno zoo che valeva la pena vedere. Venivano i ragazzini del liceo e i turisti.

FH :

Caimani, procioni, garze di tutti i colori, capibare...

MR:

Ma il maggiore venne, vide e stimò il prezzo per la carne vaccina socchiudendo i suoi occhietti...

FH :

Pensò alle salsicce... impegnato a migliorare l’industria uruguaiana degli insaccati. Per reggere la competizione con Cattivelli e Ottonello50...

MR:

S’illuminò e ordinò di passare lo zoo per il tritacarne e di metterlo tenacemente dentro chilometri di budella.

FH :

Addio fauna autoctona.

MR:

Lentamente ma irreversibilmente iniziarono a passare per il tritacarne in una tragica carovana le capibare, i procioni, i caimani, i serpenti... Tutto!

FH :

Stiamo descrivendo la parte industriale dell’episodio. Il signor maggiore era – o è – un Cavaliere d’Industria. Un uomo all’avanguardia. Alla Nazione iniziano a mancare uomini così. Quando il maggiore vide che lì, conservata in ampi cortili, c’era materia prima in abbondanza, scortato da un altro militare che deve aver considerato un vero e irrimediabile imbecille...

MR:

... inventò una macchina per insaccare che tra i vari elementi era formata da tubi di deodoranti usati.

235


FH :

E reclutò il personale tra i più risaputi ubriaconi del Battaglione e, pertanto, di Paso de los Toros.

MR:

Uno squadrone alcolizzato da combattimento.

FH :

Un’armata Brancaleone della salsiccia.

MR:

«D’ora in poi voi siete i miei uomini di fiducia», li apostrofò nella Piazza d’Armi. «Avete una missione», disse, indicando lo zoo.

FH :

Mandò a prendere un camion di birra chiara alla frontiera.

MR:

E ogni mattina, a partire dalla prima scampanata del giorno, mise varie bottiglie a disposizione di questi squadroni, risolvendo così, non il problema del salario, che era risolto in bilancio, ma la questione degli straordinari per la produttività e i rischi di guerra.

FH :

E quell’industria iniziò a navigare col vento in poppa.

MR:

Molte volte il personale, ubriaco, finiva, sotto i nostri stessi occhi, a riempire intestini nel sotterraneo dei prigionieri.

FH :

Perché ricevevano straordinari sulla giornata.

MR:

Alcuni di quegli stacanovisti della salsiccia in avanzato stadio etilico, dovendo iniziare la sorveglianza dei prigionieri e mancando ancora dieci metri di budella da riempire per raggiungere la quota corrispondente a quel giorno, spargevano la carne tritata che avevano nello zaino sul pavimento appiccicoso dove passavano i topi...

FH :

Li sentivamo inveire e lamentarsi e – compatendoli – chiedevamo: «Che sta succedendo?». «E che deve succedere? Sono in ritardo con il lavoro e me la vedrò nera se non finisco questi cinque metri...».

MR:

A volte questo personale, disperato, arrivava correndo fino alla porta dei FDODER]RV perché gli si era rotta la macchina per imbottire, a chiederci per l’amor di Dio il tubo di deodorante usato per riparare i danni.

FH :

«Non si preoccupi». Ci passavamo in fretta l’ultimo pezzo sotto le ascelle e gli consegnavamo il tubo della salvezza.

MR:

Paso de los Toros mangiò, senza saperlo, uno zoo alla brace condito al Sanidor.

236


*RPRUUD VL VDOYD SHU LO URWWR GHOOD FXIILD

FH :

Il maggiore amava lo sport: era presidente del Club Wanderers locale.

MR:

Mandava a fare distintivi che vendeva per disciplina, scontandone il costo, come sempre!, dal “falso rendiconto”.

FH :

Forse la gente ricorda un ragazzo di Paso de los Toros che si era distinto in un campionato di giovani che c’era stato in quel periodo. Il club Nacional di calcio era interessato a comprarlo.

MR:

Ma il maggiore parlò con il padre – che era poliziotto – e lo “convinse” che l’intermediario doveva essere lui.

FH :

Impresario.

MR:

Manager.

FH :

Gli offrì un posto in caserma, senza ulteriori passaggi, per tenerlo a portata di mano.

MR:

E lì rimase. Ti ricordi quando arrivò a Paso de los Toros la selezione del Brasile? Dopo i Mondiali di Spagna scoprimmo, con sorpresa, che tutte le radio di Paso de los Toros stavano annunciando con rullo di tamburi che la notte del Venerdì Santo avremmo avuto nello stadio della zona, niente di meno che la squadra di Telé Santana51.

FH :

Niente di meno! Non ci potevamo credere. Dovevamo credere o morire.

MR:

Pensavamo che forse l’influenza politica dei militari uruguaiani in contatto con i loro pari brasiliani, era riuscita a portare quella squadra a Paso de los Toros.

FH :

Addirittura a giocare contro la squadra di Paso de los Toros!

MR:

C’erano soldati che giocavano nella squadra e si preparavano a marcare Sócrates. E arrivò il giorno “X”.

FH :

Quando videro entrare in campo la squadra del Brasile!

MR:

Volevano morire!

FH :

Alcuni con pantaloncini champion.

237


MR:

Altri con il costume da bagno.

FH :

Le maglie diverse.

MR:

Senza denti!

FH :

Ci fu una denuncia da parte dei civili.

MR:

Attentarono contro la morale delle Forze Armate...

FH :

Un pienone allo stadio.

MR:

Tutte le radio, il canale televisivo, la stampa.

FH :

Iniziarono a urlare quando dopo 10 minuti Paso de los Toros stava battendo il Brasile 5 a 0.

MR:

Emerse che la famosa squadra non era altro che una serie di ragazzi di Santa Ana do Livramento che il maggiore era riuscito a portare d’accordo con il suo compagno di stanza del Reggimento 3 di Cavalleria a Rivera52.

FH :

Tutti questi aneddoti e altri ancora che potremmo continuare a raccontare all’infinito, fecero sì che a un certo punto la truppa fosse sul punto di insorgere.

MR:

«Sta mettendo le mani nelle nostre tasche», mormoravano.

FH :

Colpiva duro!... se oltre alla crisi ci si metteva anche il maggiore... Noi non capivamo il perché di tutto quel movimento. Di tanta inquietudine.

MR:

Poi avremmo capito: la “cosa” era giunta al termine e bisognava urgentemente fare qualcosa.

FH :

Era tempo di saldi...

MR:

La festa era finita e lui, che non era riuscito a godere della direzione di un ente...

FH :

Lui, che aveva avuto la sfortuna di arrivare un po’ in ritardo per colpa della maledetta gerarchia...

MR:

Al maggiore mancavano anni per diventare colonnello.

FH :

Che è il grado ideale per prendersi un po’ tutto.

MR:

... intanto all’orizzonte si profilava una catastrofe: l’apertura politica.

FH :

Con uno sguardo d’insieme sul Paese, il maggiore ci vide chiaro. 238


MR:

Tanto che calcò troppo la mano.

FH :

Un giorno, dopo che era sparita una somma di denaro da una scrivania, convocò tutto il personale nella Piazza d’Armi all’ora del tocco della ritirata: tutti prigionieri con il divieto di uscire in licenza finché il denaro non fosse comparso.

MR:

Fece un’arringa e nella perorazione li trattò tutti come ladri.

FH :

Diverse voci – già in rivolta – dal buio crescente della notte gli gridarono: «Sanguisuga!».

MR:

E si produsse un profondo silenzio. Lui meditò sulle alternative che gli restavano: una sanzione di massa o...

FH :

... fingere. Ordinò di rompere le file e diede una licenza generale.

MR:

Gomorra si salvava per il rotto della cuffia.

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MR:

Un giorno ci fu una rapina in un magazzino civile. Tutto Paso de los Toros sconvolto. Per poco non uccidono il proprietario con due pallottole.

FH :

Unica traccia: un paio di scarpe abbandonate velocemente dai malfattori.

MR:

Scarpe che la polizia vide, erano marcate: “Battaglione d’Ingegneri n. 3”. Seguiva un numero.

FH :

Si erano perse mentre erano in servizio.

MR:

Il commissario era arrivato al Battaglione con la prova del delitto tra le mani.

FH :

A consegnarla. E, trovandosi, a chiedere di chi erano...

MR:

Il proprietario delle scarpe disse che le aveva prestate al capo Tal dei Tali.

FH :

Quando arrivano a casa del capo, lo sorprendono di ritorno a tarda ora, con un cappone morto sulle spalle, insieme ad altri soldati, che portavano, a loro volta, un altro cadavere ovino.

239


MR:

L’indagine iniziò ad avere risvolti tali che decisero di chiuderla lì. Meglio così.

FH :

Sì, perché di là spuntò una banda di soldati che rubavano provviste e che, da quello che emerse, agivano per ordini superiori nella cornice di uno strano piano di guerra.

MR:

Il maggiore, in quei giorni, faceva incursioni anche nel campo dell’architettura.

FH :

In qualità di dirigente del Club Wanderers organizzò una grande colletta per ampliare la sede.

MR:

E si preoccupava per lo sviluppo edilizio all’interno della caserma.

FH :

L’utilizzo di cemento Portland era tale che i soldati dicevano: «Meno male che me ne vado dall’esercito prima che terminano di costruire i nuovi padiglioni, perché possono crollare da un momento all’altro».

MR:

Ogni tre sacche, due andavano a finire in saccocce private.

FH :

E in tutto questo, che faceva il comandante dell’Unità?

MR:

Senza dubbio e ovviamente: fifty-fifty. Senza esporsi.

FH :

Ci mancherebbe altro...

MR:

E i comandi della Divisione, che facevano?

FH :

Si facevano i fatti loro, molto più importanti, logicamente. Ad esempio costruendo nella città di Tacuarembó la nuova sede della Divisione.

MR:

Il cui deposito era conosciuto dalla truppa come “La grotta di Alì Babà”.

FH :

Da qui l’aneddoto del sergente che aveva caricato a tal punto il suo carro con palle di ferro, che il cavallo poteva giocare a pallone.

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MR:

Ti ricordi di quel soldato falegname che operarono alla mano nell’Ospedale Militare?

240


FH :

Si era ferito alla mano sinistra lavorando nella falegnameria e gli era rimasta danneggiata. Fu per questo che poi lo mandarono all’Ospedale Militare perché gli riparassero il danno.

MR:

Era, a quanto pare, un’operazione abbastanza semplice.

FH :

Arrivò all’Ospedale, lo ricoverarono, lo videro i medici, lo prepararono e un giorno, previa anestesia totale, lo operarono.

MR:

Quando si svegliò dall’anestesia, vide la sua mano destra bendata: «Che mi avete fatto a questa mano?»

FH :

«Stia in silenzio», gli ordinarono.

MR:

«Ma avete sbagliato mano!»

FH :

«Lei vuol saperne di più dei medici?».

MR:

Non solo gli operarono la mano sana, ma gliela lasciarono anche peggio dell’altra.

FH :

E, come diceva lui stesso, senza possibilità di aggiustarla.

MR:

Disabile a vita.

FH :

Gli promisero che se si fosse comportato bene e non avesse fatto molto rumore, lo avrebbero mandato in pensione con il grado di capo.

MR:

L’altro caso di cui venimmo a sapere fu quello del soldato che lavorava nella panetteria della caserma. Fu mandato anche lui all’Ospedale Militare perché gli curassero un lieve dolore che aveva al piede...

FH :

Un callo sul tallone.

MR:

Glielo tagliarono, e con lui anche qualcosa che non dovevano, credo un tendine. Rimase appeso.

FH :

In ultima analisi valutarono la possibilità di amputargli il piede all’altezza della caviglia.

MR:

Ma gli promisero che gliene avrebbero portato uno, nuovo nuovo, di alluminio, dagli Stati Uniti. [...]

241


7UHV ÉUEROHV

✓✒✔

MR:

Un pomeriggio di ottobre del 1982, quando il caldo sotto quelle lamiere di zinco era insopportabile, sentimmo, in lontananza, che andava e veniva con il vento, la marcia 7UHV ÉUEROHV.

FH :

Che si muoveva per le strade di Paso de los Toros. Era evidente che si trattava di un camioncino di propaganda.

MR:

Tu mi avevi già detto, giorni prima, che ti era sembrato di averla ascoltata da molto lontano.

FH :

Ma quel pomeriggio la portò, inconfondibile, il vento.

MR:

A quel tempo, proibita la marcia, proibito il Partido Nacional...

FH :

... per nessun militante di quel partito quella melodia di guerra ebbe un significato così grande come per noi, quando la sentivamo dall’oltretomba, dove non poteva arrivare niente.

MR:

Trattenemmo il fiato per molte ore tendendo ancora di più l’udito nella nervosa aspettativa di un altro messaggio.

FH :

E poco dopo la sentimmo un’altra volta.

MR:

Che senso aveva? Chi era il temerario che la suonava per le strade?

FH :

«Ci sarà una campagna politica? Di che? Su cosa? Perché?».

MR:

Non avevamo informazioni. Rimanemmo disorientati.

FH :

Restammo tenacemente in campana per avere notizie, tracce sottili di informazioni abilmente catturate.

MR:

E fu peggio.

FH :

Scoprimmo, sì, che c’erano delle elezioni.

MR:

Ma così strane...

FH :

Pensavamo che fossero elezioni riservate... che gareggiasse solo “il cavallo favorito”.

242


&RUWHFFH OHJQRVH

FH :

In quel periodo durante una visita di Gabriela ebbi un duro incidente con le guardie. Poi, il 26 ottobre del 1982, scrissi questa lettera a Graciela, mia moglie, prigioniera a Punta de Rieles:

Vedere mia figlia non sarà mai, per me, un mero atto burocratico; e se non può essere diversamente, meglio non vederla, perché non voglio nemmeno che sia semplicemente un vederla con gli occhi del viso e a qualunque costo. No, perché se io voglio essere per Gabrielita quello che sono e niente più, le devo restituire completamente la stessa ansia di vederla, e se lei non può essere per me quello che è, allora sia per lei che per me sarà meglio per tutta la vita, molto meglio, che rimanga addormentata nel paese delle principesse dove me la immagino insieme a te e dove posso andare a chiacchierare con serenità tutti i santi giorni. Guardare all’interno di una persona è, sempre e per tutti, come guardare in fondo a una ferita. Ma ci sono circostanze in cui guardare da fuori una persona significa anche guardare nient’altro che ferite, e uno non può toccare continuamente ferite perché, quando ci sono, anche le carezze fanno male. Non significa fuggire dalla realtà, ma scalarla. L’uomo a volte costruisce montagne che non esistono; altre volte può, o no, andare verso una che si vede all’orizzonte, e ci sono altre volte in cui sono le montagne che ti vengono incontro. È pericoloso travestire la realtà tanto per chi inventa cordigliere di vento, quanto per chi crede che siano di vento quelle così concrete che si rompono sulla sua testa. Per una strada ricoperta di pezzi di vetro, le scarpe di freddo ferro, anche se fanno male, sono imprescindibili se si vuole avere salvi i piedi e continuare a camminare. Per le cose estremamente delicate, bolle di sapone, soffioni, ali di farfalla, Gabrielita ...proprio per loro sono state create le cortecce più legnose.

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MR:

Avevamo stabilito con i nostri figli una relazione che, essendo distorta dalla realtà concreta, girava quasi esclusivamente all’interno dei territori della fantasia. Con Alejandra ci eravamo messi d’accordo che avremmo guardato ogni notte la stessa stella, che ci avrebbe comunicato i nostri pensieri. Mia figlia la osservava dalla terrazza di casa sua; io, nei miei sogni. Solo lì la vedevo. Ed è strano: dal cielo dell’immaginazione, quell’astro rispondeva. 243


Le tue lettere e le mie, Ñato, erano pervase di queste fantasie protettive. In una serie che inviai ad Alejandra durante il denso trascorrere degli anni, le inclusi racconti innocenti. Alcuni, come questo, che ancora conservo:

I SOFFIONI DI VENERE Stanca d’inseguire farfalle, la Bambina uscì dal bosco. Davanti ai suoi occhi si estendevano dolci colline verdi. La brezza primaverile le spettinò i capelli e le venne voglia di correre. Contemplò l’aria alla ricerca di ali colorate ma le farfalle non erano uscite dal bosco. L’aria era vuota e la Bambina si rattristò. Voleva giocare, rincorrere qualcosa, ma non c’era Niente. Senza dubbio quel tappeto ondulato la tentava così tanto insieme al vento così fresco, che iniziò ugualmente a correre, quasi allegra: perché correre è molto bello, ma correre da soli, no. Allora successe che i Bianchi Cardi di Venere, che si trovavano a contemplare i prati della Terra con il loro Grande Telescopio, videro la Bambina che correva per le dolci colline, da sola. «Non è possibile», si dissero... «Questa Bambina è triste». Perché gli Anziani Cardi di Venere già a quel tempo sapevano che correre da soli è un po’ triste. Fu allora che si resero conto che l’aria del prato era vuota e quindi decisero di mandare i loro nipoti sulla Terra. E fu così che un giorno di settembre, in un anno molto lontano, si imbarcò in un porto di Venere con destinazione Terra la prima spedizione di Soffioni. Era uno stormo di piccoli soli, bianchi e leggeri. Le loro madri li avevano pettinati a lungo e i nonni avevano spiegato loro la missione da compiere. Avevano nel cuore un piccolo seme azzurro. Orgogliosi di compiere una missione così bella, sorrisero alla partenza e cantarono durante tutta l’escursione canzoni piene di brezza. Una Barca di Vento li condusse per i Cieli. Quando la Bambina vide quella nuvola di bianchi batuffoli brillanti, si fermò e non si spaventò nemmeno un pochino. Allora osservò come la Barca di Vento si fermava in alto, quasi sulla sua testa, e scoppiava senza nessun rumore. Era un pugno di coriandoli che si disperdevano, volando da tutte le parti. Molti iniziarono a cadere attorno a lei, lentamente, come una pioggia tiepida di fiocchi di neve, e ne volle raccogliere uno. Ma era primavera, e la brezza soffiava, e ogni volta che la punta delle sue dita sfiorava la capigliatura di un Soffione, quello si rialzava birichino. All’inizio la Bambina si sorprese. Ma dopo aver provato a toccarne diversi, le piacque. E iniziò a rincorrerli, e i Soffioni danzavano intorno a lei giocando a “toccami toccami”. Erano come piccoli agnellini dell’aria che saltellavano con leggerezza, girando intorno alla Bambina, che ora correva seminando allegria, perché non si sentiva più sola. I Soffioni che oggi si vedono di solito nei pomeriggi soleggiati delle 244


domeniche di primavera, discendono da quelli che un giorno arrivarono da Venere per far compagnia alle Bambine che giocano da sole. Nacquero dai semini azzurri che i loro antenati avevano deposto nella Terra e, come narra la Leggenda, quando Venere brilla nelle notti di aprile, i cardi sussurrano il canto del viaggio, e i soffioni dell’aria, come bambini col grembiulino durante la ricreazione, escono a volteggiare per i prati e i sentieri.

6WUDQH HOH]LRQL EULQGLVL

MR:

Quella domenica così importante, il 28 novembre 1982, fece giorno con una pioggerellina leggera. Poi fece molto caldo.

FH :

Un giorno rovente nei FDODER]RV. Si era librato nell’aria come l’imminenza di un incendio. «Deve succedere qualcosa», pensai.

MR:

Sapevamo che quel giorno c’erano delle strane elezioni. E anche se non l’avessimo saputo, l’alta tensione era palpabile all’interno della caserma...

FH :

... per il silenzio che regnava. Per l’assenza degli ufficiali. Per l’interruzione della routine.

MR:

Non avemmo la stessa fortuna della notte del Plebiscito del 1980, del quale sapemmo subito il risultato.

FH :

Questa volta rimanemmo a digiuno per settimane.

MR:

Alla fine scoprimmo una cosa essenziale: loro si consideravano sconfitti.

FH :

Avevamo vinto di nuovo, ma non sapevamo cosa.

MR:

Ci arrivavano dati bizzarri, quando riuscivamo a ottenerne qualcuno: liste elettorali con lettere al posto dei numeri, nomi, come quello di Tarigo, che volevano dire molto ma che a noi, disinformati, non dicevano niente. Ci rendemmo conto delle conseguenze, ma senza conoscerne le cause. Solo che...

FH :

... erano stati sconfitti ancora una volta.

MR:

Festeggiammo come Dio comanda: succhiando l’alcool del deodorante.

FH :

Johnny Walker. 245


7(1(7( '852

,HOOD

MR:

L’anno 1982 si chiude per noi con questo grande evento di cui non possedevamo la chiave.

FH :

E si apre il 1983 con una grande disgrazia: quell’ufficiale, che ci aveva quasi uccisi a Laguna del Sauce nel 1976, quello che aspettava con ansia la possibilità di rifocillare nuovamente la sua sadica vigliaccheria, ora con un grado maggiore e con più potere, passò, nel 1983, a occuparsi di noi.

MR:

Restammo completamente nelle sue perfide mani. Con un maggiore e un capo come quelli che abbiamo descritto, avrebbe goduto di pieni diritti e totale impunità.

FH :

Lo sapevamo in anticipo. Ce l’aspettavamo, ma rimanemmo ugualmente sconvolti e sorpresi dall’insistente iella che da anni segnava il nostro cammino.

MR:

Ci succedeva sempre il peggio: avevamo «molta fortuna per le disgrazie».

FH :

La iella non ci dava tregua. Pensando a questo, scrissi, in forma di poema, la seguente bestemmia che ancora conservo per ricordo:

+D\ FDVXDOLGDGHV GHO D]DU WDQ IHURFHV 7LHQH WDO SHUVHYHUDQFLD OD PDOD VXHUWH &RPR SDUD QR FUHHU PiV HQ HOOD ² TXH VLHPSUH HV LQRFHQWH ² < FUHHU VLQ GXGDU HQ GLRV (Q OD H[LVWHQFLD GH GLRV

246


8Q GLRV DYLHVR PDOYDGR KLMR GH XQD JUDQ SXWD

54

MR:

Mezz’ora dopo aver assunto l’incarico, era già nelle catacombe a capo di un’orda di soldati, tirando furiosamente fuori dai nostri FDODER]RV i pochi e miserabili beni che, anche se in quello stato, erano vitali. Rompendo alcune cose, rubandone altre, sparpagliando tutto.

FH :

Rimanemmo senza niente. Di nuovo al punto di partenza.

MR:

Come se fossimo appena diventati prigionieri.

FH :

Come se, a partire da allora, fossimo in un nuovo carcere. Molto più duro.

MR:

Rimase lì tutta la mattina. Divertendosi. Perdemmo il telo di nylon, la lattina, il tabacco. Ci requisì il “whisky”, il dentifricio e le compresse di aspirina.

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FH :

Durante la prima visita, cercò l’opportunità per applicare sanzioni anche ai familiari.

MR:

Già le subivano. Percorrere centinaia di chilometri per vederci pochi minuti al mese, dover sottostare all’umiliazione delle perquisizioni, all’angoscia al vederci in quello stato, all’incertezza che li invadeva a ogni nostro trasferimento, perché non dicevano loro dove erano andate a parare le nostre ossa e ci tenevano – come effettivamente era – GHVDSDUHFLGRV, era una forma programmata di sanzioni.

FH :

Alle quali questo capitano “Bastardo” della S2 aggiunse il suo granellino di sabbia.

MR:

Le condizioni delle visite a Paso de los Toros fino al suo arrivo erano dure. Ma generalmente c’erano anche momenti di tranquillità, attribuibili, più che all’intenzione, alla burocrazia. Ad esempio, una sciocca poliziotta normalmente giocava con il suo piedino in aria durante la visita, guardandolo come se fosse distratta. Il giovane sottotenente di guardia, soggiogato e ansioso di attirare la sua attenzione, sfoderava la sciabola, si 247


esercitava nelle posizioni, lanciava colpi in aria. Allora, senza un controllo severo, era possibile dialogare con la famiglia, con cautela – questo sì – ma tranquilli. FH :

Ma arrivò il “Bastardo” e finì tutto.

MR:

I miei genitori avevano allora quasi 80 anni, ed erano anni che non potevano venire a farmi visita. Il cellario era situato a diversi isolati dall’entrata della caserma e quel tratto lo dovevano fare a piedi. Carmen, la nonna di mia figlia, era quella che veniva a vedermi con maggior frequenza e in quei giorni stava facendo le pratiche, davanti ai comandi dell’Unità e della Divisione, perché i miei genitori potessero vedermi, sollecitando l’autorizzazione affinché potessero percorre il tratto dall’ingresso della caserma al cellario in un veicolo privato o militare. Era l’unica possibilità. Durante una visita, Carmen mi stava spiegando queste pratiche, quando il “Bastardo” la interrompe con tono insolente: «Come si permette di dare informazioni a un prigioniero!». E non solo cancella quella visita, ma ritira l’autorizzazione per le successive. E, ovviamente, la pratica perché i miei genitori potessero vedermi fu negata dal capo della Divisione, che allora era il generale Medina.

FH :

Un giorno veniamo tirati fuori dal FDODER]R e portati, uno alla volta, salendo le scale, al salone di guardia. Lì avevano organizzato una sorta di consultorio medico d’urgenza con lo stesso tavolo su cui i capi bevevano il mate, al quale accostarono due sedie.

MR:

Il medico, che viveva a Durazno, era seduto solennemente dietro il tavolo sudicio.

FH :

In piedi dietro il medico, con le braccia incrociate, l’ufficiale incaricato.

MR:

Il medico tremava come una foglia.

FH :

Si era comprato una macchina nuova da poco e la stava pagando a rate.

MR:

Poteva perdere il suo incarico nella Sanità Militare e, quindi, avere difficoltà nel pagamento della “chilometro zero”.

FH :

Con il dolore che avrebbe provocato a sua moglie.

MR:

«Come sta?», mi chiese, abbozzando una specie di sorriso a metà.

FH :

Gli raccontai le mie malattie, che lui già conosceva abbondantemente.

MR:

Quelle che lui stesso aveva curato e diagnosticato.

FH :

Quelle che lui stesso ci medicava. 248


MR:

«Vediamo – disse – apra la bocca».

FH :

«Dica A».

MR:

Mi applicò lo stetoscopio.

FH :

E mi auscultò petto e schiena in vari posti.

MR:

Mentre mi faceva respirare con la bocca.

FH :

E dire “trentatré”.

MR:

Mi prese il polso.

FH :

Guardò il suo orologio.

MR:

Palpò le mie varici...

FH :

Guardò i miei occhi.

MR:

Auscultò i bronchi...

FH :

... che cigolavano come portoni vecchi.

MR:

«È guarito», esclamò.

FH :

«Come la trovo bene!», mi disse.

MR:

In meno di quindici minuti curò tutti e tre...

FH :

... da tutte le malattie.

MR:

Ci sospese le medicine.

FH :

Fu un “alt” collettivo.

MR:

Miracolo della medicina.

FH :

E annotò quel miracolo, di suo pugno, nella nostra scheda medica.

MR:

Con grande serietà e una Parker dorata.

FH :

Scrisse a lungo e a chiare lettere e ci tolse l’ora d’aria.

MR:

Firmò rapidamente con la sua sigla e respirò tranquillo: le rate della sua “chilometro zero” non sarebbero rimaste inevase per stupidaggini... [...]

249


$QDOLVL SROLWLFD H SLDQR GL ORWWD

MR:

Questo insieme di cose accadute nel 1983 ci fece trarre delle conclusioni politiche.

FH :

Tenendo conto che le umiliazioni della S2 avvenivano con il pieno consenso dei comandi, i risultati elettorali del novembre 1982, contrari agli interessi militari, avevano prodotto la stessa reazione di sempre...

MR:

... l’irrigidimento. Quello del racconto del gallego: «Colpite, colpite, che quante più ne date a me, più ne do a lui».

FH :

Non potevamo dedurre altro, considerato quello che ci era capitato immediatamente dopo novembre.

MR:

Quasi subito e dopo aver intravisto lo scenario che ci veniva addosso, disponemmo un programma di lotta che contemplava diversi aspetti. Il primo di tutti: non morire di fame.

FH :

Già durante il 1982 avevamo potuto osservare che con alcune e ovvie limitazioni, Paso de los Toros offriva possibilità per guadagnarsi da vivere.

MR:

Sì: “guadagnarsi da vivere” perfino in quelle catacombe.

FH :

Piccoli episodi avevano creato quella convinzione. A volte mi avevano chiesto un disegno; a te alcune lettere d’amore.

MR:

Nel 1983, messi con le spalle al muro, li trasformammo in una vera e propria industria della salvezza.

FH :

Stabilimmo un prezzo, in viveri, per le nostre produzioni plastiche e letterarie.

MR:

Di necessità virtù.

FH :

Pepe, per consigli sull’orto di famiglia...

MR:

Era un perito in materia.

FH :

Di tutti i disegni che facevo, quello che aveva più successo, in quel periodo di grande trionfo giallo-nero, era Morena55. All’inizio lo vendevo per un po’ di mate. 250


MR:

Un regalo!

FH :

Finché un pomeriggio in cui riuscisti a dirmi poche e veloci parole, protestasti adirato: «Li stai regalando, pensa se un giorno Morena scopre che lo vendi per un po’ di mate! Devi chiedere di più». «Credi vada bene un quarto di chilo?», ti chiesi. «Non esagerare», mi dicesti. «Chiedi una somma a piacere e vedrai che ti daranno molto di più».

MR:

E fu così. A me interessava molto il prezzo dei tuoi prodotti, perché mettevamo in comune i proventi.

FH :

Il quadro del Peñarol completo valeva un chiletto di mate.

MR:

Siccome per il tuo problema alla vista non vedevi bene, ti arrampicavi sulla spranga della porta.

FH :

Sì, per stare ben davanti alla lampadina. Sembravo una scimmia lì sopra. Mentre il cliente controllava che non venisse alcun ufficiale, tu scrivevi lettere d’amore, poesie e specialmente acrostici.

MR:

In cambio di uova sode e tabacco.

FH :

Avevi sviluppato una velocità fantastica per gli acrostici e un giorno in cui riuscii a parlarti, protestai anch’io brevemente: «Non glieli fare subito; non vedi che così ti pagano poco perché sembra molto facile?».

MR:

Da quel momento in poi ci mettevo un giorno per quel lavoro, chiedevo il nome della tizia o del destinatario, chiunque fosse, il colore degli occhi, quello dei capelli, caratteristiche psicologiche, eccetera, e davo l’appuntamento al turno successivo. Avevo una lunga lista di richieste e di clienti in attesa.

FH :

Una volta vendesti una moto. Si trattava di una Honda che un soldato aveva messo in vendita. Gli chiedesti le condizioni di pagamento, lo stato del veicolo e le carte. Poi, per giorni ti sentii offrirla a chi passava: «Ho una moto in vendita», dicevi, e la maggior parte dei soldati ti ascoltavano con serietà e attenzione, finché un giorno uno s’interessò all’affare. Quella volta mangiammo tutti quando riuscisti a chiudere la trattativa.

MR:

Nel frattempo il “Bastardo” non immaginava nemmeno che tutto questo accadeva sotto il suo naso. Al contrario, godeva pensando che eravamo già al limite del crollo e aspettava il momento di portarci all’ospedale in barella.

FH :

Io devo aver venduto Morena più di sessanta volte. Alla fine lo sapevo fare a memoria. Lo ringraziavo sempre: Grazie, Nando, grazie.

MR:

Nessun tifoso del Peñarol ne rimase privo. 251


FH :

Le tue lettere d’amore e in particolare le tue poesie d’amore, quando le recitavi ad alta voce al cliente, mi costringevano a mordere il cuscino per non scoppiare. Non te ne ricordi nessuna di quelle che hai fatto?

MR:

No, ma la invento per te. Vale una grappa: 0XHUR GH DPRU SRU YRV ÉQJHO GH HQFDQWRV IDWDOHV 5RJDQGR DO HWHUQR 'LRV ,QWHUYHQJD SD· TXH YRV $OLYLHV PLV ODFULPDOHV

56

FH :

La maggior parte aveva questo tono. E se erano di altro tipo non piacevano. Si avvicinavano allo stile delle telenovele che passava la televisione e che tutti i soldati di tutte le caserme commentavano vita natural durante. Ogni due e tre arrivava qualcuno e ti chiedeva: «Mi puoi fare un “acrilico”?».

MR:

Tu facesti una fortuna con l’incisione su mate e ossa.

FH :

Generalmente facevo scudi nazionali, ferri di cavallo, iniziali, motivi floreali... Ma a volte qualche cliente esigente mi chiedeva lavori speciali. Ad esempio, qualcuno che giocava a calcio, voleva che disegnassi lui sul mate mentre dribblava il “3”, poi il “2” che gli faceva fallo, poi mentre cadeva, mentre faceva goal e che si vedesse la gente che esultava...

MR:

... e la sua ragazza nella folla...

FH :

Temi difficilissimi da riprodurre sul mate.

MR:

Le lettere d’amore le dettavo, perché fosse riconoscibile nella scrittura la mano del mittente.

FH :

E per dettargliele dovevi chiedere precedenti, obiettivi e situazione attuale dell’idillio.

MR:

Più di uno finì per sposarsi. Il problema è che dopo la donna gli chiedeva poesie...

FH :

Grazie a tutto ciò mangiavamo. Bevevamo mate ogni tanto e a volte fumavamo. 252


[...] 2FXOLVWD

FH :

Dopo anni di lotte, verso settembre del 1983, più o meno, ricevo alla fine la visita di un oculista. Fu necessario che la famiglia avviasse una pratica, credo perfino presso qualche ambasciata straniera. La cosa certa è che si rifiutarono di trasferirmi all’Ospedale Militare e, contrattando, alla fine decisero che l’oculista militare avrebbe dovuto viaggiare da Montevideo per visitarmi a Paso de los Toros.

MR:

Tu stavi perdendo la vista in maniera allarmante.

FH :

L’oculista improvvisò una visita nella stanza del corpo di guardia, mi guardò il fondo degli occhi, mi misurò la pressione, mi fece guardare le lettere sul tabellone... E si ritirò senza dirmi una parola. Tutto ciò avvenne in mezzo a un’orda di ufficiali e soldati che controllavano, a capo della quale c’era il signor maggiore.

MR:

Forse studiando una ricetta di massa per occhiali neri per la truppa, da scaricare dal “falso rendiconto”.

FH :

Durante una visita della mia famiglia, quasi un mese dopo, vengo a sapere che dovevo portare gli occhiali. Che avevano consegnato loro una ricetta rilasciata dall’oculista e che me li avrebbero portati presto.

MR:

Un’altra battaglia: farli passare...

FH :

Alla fine un giorno gli occhiali arrivarono nelle catacombe. Me li misi e recuperai un mondo di cose che avevo perso poco a poco senza rendermene conto. Mi stavo abituando a vedere tutto sfocato. Si può dire che solo allora conobbi bene le catacombe.

MR:

Questo evento, aver ottenuto l’assistenza medica per i tuoi occhi, coincise con una commemorazione: settembre 1983, compivamo dieci anni da ostaggi. Mario Benedetti scrisse allora qualcosa sull’argomento. Qualcosa che anni dopo potemmo leggere e che ora ci permette di risparmiare parole.

FH :

Fu pubblicato nell’edizione spagnola de (O 3DtV il 5 settembre 1983.

253


DIECI ANNI DI SOLITUDINE Il 7 settembre è il decimo anniversario di un fatto poco comune, direi quasi eccezionale, nella storia mondiale delle carceri. In Uruguay ci sono attualmente più di un migliaio di prigionieri politici, la maggior parte dei quali in condizioni di estrema durezza; ma in questo vasto gruppo ci sono nove detenuti, i cosiddetti ostaggi, che in questi giorni compiono 10 anni di isolamento. Durante questo lasso di tempo hanno occupato sempre celle individuali, non nelle carceri speciali che ospitano i prigionieri politici, ma in caserme o altri luoghi dislocati in tutto il paese. In alcuni casi hanno utilizzato come FDODER]RV spazi che originariamente erano cisterne sotterranee. In generale, le celle erano sprovviste di finestre e delle minime condizioni sanitarie. Per lunghi periodi a questi reclusi è stato proibito qualsiasi tipo di visita, e nei periodi in cui permettevano loro d’incontrare esclusivamente familiari diretti (coniuge, genitori, figli), gli incontri, che rare volte superavano i 10 minuti ogni quindici giorni, avevano luogo davanti a un registratore e in presenza di guardie armate, e nel dialogo era espressamente vietato qualsiasi riferimento all’attualità nazionale e internazionale. Inoltre, il luogo di detenzione cambiava continuamente, e a volte passavano mesi angoscianti prima che i familiari riuscissero a saperlo. La cosa più normale era che si trovassero a 300 kilometri o più dalla capitale, e questo aggiungeva una nuova difficoltà alla situazione dei familiari. Durante i primi periodi, gli avvocati potevano visitare regolarmente i loro clienti; poi i permessi iniziarono a dilazionarsi in maniera considerevole. Successivamente questi professionisti iniziarono a ricevere sempre più frequenti minacce o subirono diversi attentati, e alcuni di loro furono perfino incarcerati. In definitiva, a causa di questa sistematica persecuzione, quasi tutti sono dovuti andare in esilio e di conseguenza questi prigionieri così speciali sono ora assistiti dai difensori di ufficio (che, ovviamente, sono militari), cosa che nell’attuale Uruguay significa chiaro e tondo mancanza di difesa. Durante questo decennio, gli ostaggi non hanno potuto parlare con nessun altro prigioniero (è raro che ci sia più di un ostaggio in ogni luogo di detenzione, ma nel caso in cui coincidano due o più non possono mai vedersi né parlarsi) e, come se non bastasse, è proibito rivolgere la parola ai propri carcerieri, e questi naturalmente non possono parlare con loro. Nemmeno nei casi in cui ricevono una precaria assistenza medica possono parlare con il professionista che li visita. Alcune delle celle sono così piccole da impedire quasi il movimento del recluso. Per lunghi periodi non hanno avuto nemmeno la luce elettrica e, di conseguenza, qualsiasi possibilità di lettura è stata esclusa. Il divieto include giornali e radio. Durante il processo, questi reclusi non compaiono in nessun tribunale e non è nemmeno permesso loro di confrontarsi con i testimoni dell’accusa. Questi sono i nomi dei nove ostaggi, con indicazione della loro professione e occupazione: Henry Engler (studente di Medicina), Eleuterio Fernández Hiudobro (impiegato in banca), Jorge Manera (ingegnere), Julio Marenales 254


(docente di Belle Arti), José Mujica (venditore ambulante), Mauricio Rosencof (drammaturgo e poeta), Raúl Sendic (procuratore), Adolfo Wasem (studente di Diritto) e Jorge Zabalzaba (apprendista Notaio). Tutti loro, prima dell’isolamento, erano già stati brutalmente torturati. Appartengono al 0RYLPLHQWR GH /LEHUDFLyQ 1DFLRQDO

SFRUTTARE IL TEMPO In una relazione presentata a Washington davanti alla Camera dei Deputati il 27 giugno del 1976 da Eddy Kaufman, di Amnesty International, si cita questa opinione dell’allora direttore del 3HQDO GH /LEHUWDG: «Non avemmo il coraggio di liquidarli tutti quando ne avemmo la possibilità, e in futuro dovremo liberarli: dobbiamo sfruttare il tempo che abbiamo per farli impazzire». A quanto pare l’hanno sfruttato. In un’altra relazione di Amnesty International (sezione francese) si segnala che le condizioni di isolamento hanno danneggiato la salute mentale di almeno due prigionieri. Aggiungiamo che ciò che è veramente strano è che non siano impazziti tutti e nove, che non si siano trasformati in bestie. Non elencherò qui le aberrazioni giuridiche di questi nove casi. Esperti di livello internazionale hanno già segnalato l’impressionante collezione di violazioni alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, alle più elementari norme giuridiche e alla stessa costituzione uruguaiana che si accumulano in questa situazione anomala. E non è questa l’occasione di spiegare le ragioni, o le non-ragioni, dell’azione rivoluzionaria di questi combattenti politici. Tuttavia, né il lettore né io dobbiamo essere degli esperti in materia per valutare l’orrore di questa circostanza. Si pensi per un istante che questi prigionieri sono senza possibilità di comunicazione da quattro giorni prima del golpe di Pinochet e si percorra mentalmente l’elenco di alcuni eventi accumulati in questi ultimi 10 anni. Due Olimpiadi e tre coppe del mondo; crisi petrolifera e guerra del Libano, inclusi i massacri di Sabra e Chatila; Rivoluzione dei Garofani in Portogallo; l’apogeo della CommissioneTrilaterale e il fallimento della Scuola di Chicago; premi Cervantes a Carpentier, Onetti, Rulfo, e premi Nobel a García Márquez e Pérez Esquivel; la morte di Franco e l’arrivo della democrazia in Spagna; la deposizione di Idi Amín, Bokassa I, Somoza, lo scià di Persia, Galtieri, Ríos Montt; rivoluzioni vincenti in Angola, Mozambico, Etiopia, Iran, Nicaragua, Granada; i trasferimenti di Maradona a Barcellona e di Julio Iglesias a Miami; gli omicidi di Michelini, Anwar el Sadat, monsignor Romero, John Lennon; la trasformazione della Guyana Olandese in Suriname e di Karol Josef Wojtyla in Giovanni Paolo II; Brizola a Río e il Guernica in Spagna; la scomparsa di Henry Miller e la ricomparsa dell’uomo di Orce; schiaccianti plebisciti contro la dittatura uruguaiana; guerra delle Malvinas e requiem per il panamericanismo; truppe sovietiche in Afghanistan e statunitensi ovunque; Haroldo Conti GHVDSDUHFLGR in Argentina insieme ad altri 30.000; la pubblicazione de /D JXHUUD GHOOD ILQH 57 GHO PRQGR e un’orgia di missili per confermarlo; sparisce la P2 e appare il gas nervino; morte di Mao, Perón, Makarios, Tito, Agostinho Netov, Boumedienne, Kenyatta, Breznev; fine della sindrome dell’olio di colza e inaugurazione dell’immunodeficienza; morte di Neruda, Ingrid Bergman, 255


René Clair, Carpentier, Buñuel; crisi polacca, crisi centroamericana, crisi del Ciad; seconda generazione di FDFHUROHDGDV58 in Cile e prima in Uruguay. Questo e molto altro è successo nel mondo dal 1973 al 1983 senza che i nove prigionieri potessero rendersi conto di niente. 10 anni di prigionia sono molto tempo, ma 10 anni di solitudine sono una punizione che nessuno al mondo merita. Ognuno di questi esclusi dall’umanità, ridotto al suo infamante isolamento, conosce già a memoria le ombre sul muro, le rughe del pavimento, le macchie sul tetto. Forse lotta con se stesso per non ammuffire, per non cedere alla prostrazione o al delirio, mantenendo accesa una speranza come una candela quasi senza moccolo; cosciente, tuttavia, che cedere alla disperazione significherebbe il trionfo dell’altro, del nemicoaltro. Bisognerebbe retrocedere di varie tappe nella storia per trovare esempi di un sadismo così esplicito. In un concetto moderno di giustizia, nemmeno i criminali più atroci e irrecuperabili sono sottomessi a questo tipo di tortura morale, di punizione senza tregua. Solo nove ostaggi, ognuno dei quali probabilmente non sa nemmeno cosa è successo agli altri otto. Si parla sempre meno di loro. Perciò, questa nota vuole solo essere un memorandum, un promemoria. Non dimentichiamo che se i rivoluzionari trionfanti ricevono onori e ammirazione, e perfino i loro nemici sono obbligati a rispettarli, i rivoluzionari sconfitti meritano almeno di essere considerati come esseri umani.

*ULGR GL JXHUUD 6LDPR YLYL

MR:

Il “Bastardo”, dopo averci tolto tutto, dai lacci delle scarpe alla visita, finì per annoiarsi, sicuro com’era che eravamo all’ultimo stadio e senza risorse.

FH :

Ci fu possibile allora pensare ad altre attività che integrassero il piano di lotta tracciato.

MR:

Ci dedicammo, più che in altri luoghi e in altre epoche, a scrivere con l’obiettivo di far uscire dal carcere la nostra produzione.

FH :

Obiettivo molto difficile.

MR:

Anche scrivere lo era. Dovevamo recuperare il materiale di base: foglio e matita. Nasconderli.

FH :

Scrivere in gran fretta nei momenti adatti.

MR:

Con una scrittura molto piccola. 256


FH :

Temevano la matita nelle nostre mani.

MR:

Perquisivano la cella a questo scopo.

FH :

Noi nascondevamo tutto.

MR:

Lanciavamo l’esca al “Bastardo”, che abboccava euforico. Ma molte volte perdemmo. In quel periodo mi requisirono, per sempre, opere di teatro, romanzi, poesie... Era quasi una terapia legare i fantasmi del FDODER]R a strutture letterarie. Ed era, inoltre, un modo per arrivare al di là del muro con il nostro grido di guerra: «Vivo ancora!», che scrivemmo con una scrittura molto piccola su cartine per sigarette, nascoste nelle pieghe dei vestiti sporchi. Così riuscimmo a “far uscire” alcune cose. Altre, a farle e conservarle. Le poesie, ad esempio, avevano il pregio di occupare poco spazio e di essere memorizzabili.

FH :

Per l’aguzzino eravamo pacchi depositati in tre pozzi. E ne era convinto.

MR:

A Paso de los Toros scrissi (O KLMR TXH HVSHUD (O VDFR GH $QWRQLR (O FRPEDWH GHO HVWDEOR. Un’opera in versi per bambini, in due atti: (O JUDQ ERQHWH; una raccolta di sonetti: 0L DPRU SRU OD 0DUJDULWD, &RQYHUVDFLRQHV FRQ OD DOSDUJDWD. Tu sei stato nello stesso tempo tutto il mio pubblico e il mio critico letterario.

FH :

Bisognava pensarle, scriverle, meditarle, correggerle e “farle uscire” quanto prima.

MR:

Quasi impossibile.

FH :

Obiettivo primario: «Siamo vivi».

MR:

Questo era il nostro messaggio verso l’esterno. E verso l’interno: il nostro “interno”. Tra le prime cose che feci ci fu &RQYHUVDFLRQHV FRQ OD DOSDUJDWD. Versi brevi, sintetici, compressi. Dialogo con le mie scarpe, che a volte erano tali, altre volte erano un gatto, o me stesso. Molte di queste poesie si persero, altre riuscirono a schivare la vigilanza.

(O VDFR GH $QWRQLR era l’espressione della nostra situazione, in una metafora e un’affermazione: l’uomo non vive di solo pane, ma anche di sogni. Il macchinario che tormentava Pepe lo tormentava realmente... Esisteva! Anche i sogni possono ammazzare.

FH :

Funzionava come se esistesse. 257


3RVWXODGR

MR:

Ma i sogni ci permettevano di vivere. Tu scrivesti un romanzo, basato su una serie di racconti, che mi narrasti negli anni.

,

FH :

Io ero pragmatico e concreto, o almeno lo fui in due occasioni in cui scrissi qualcosa per provare a farle uscire dal carcere. Già ho raccontato come nel 1981, verso dicembre, feci un quaderno di disegni. Ora nel 1982, grazie all’aguzzino che ci rendeva la vita impossibile, iniziai a riunire in una sola opera la serie di racconti che conservavo nella memoria. In entrambe le occasioni inseguivo un obiettivo concreto e abbastanza extra-letterario: inviare “fuori” un messaggio sulla nostra situazione reale. Era un espediente per la militanza, un modo di combattere contro l’aguzzino. Farlo arrivare fuori nello stesso modo in cui un naufrago lancia a mare una bottiglia con un messaggio. Perché ne rimanesse traccia.

MR:

Specialmente pensando alla possibilità di dover imputridire lì.

FH :

Sì. Che rimanesse qualcosa. Ma dare anche un senso al tempo morto e dare a quelli di “fuori” qualcosa che servisse per lottare. I racconti furono scritti, dovettero essere scritti in modo che se passavano sotto gli occhi del carnefice, questi li considerasse inoffensivi... Ecco un passo da quel libro scritto nel 1982:

GEOMETRIA (NON EUCLIDEA)

Tutte le cose sono collocate nel futuro. Viviamo circondati dal futuro. Dire “là” è come dire “dopo”. Tutto è tempo/ non c’è spazio/ Dire “ti bacerò” significa “non ci riesco”/ Dire “è piccola” è come dire “ha dieci anni”/ Dire “è lontana” significa sentire la lancetta dell’orologio che cammina, cammina, cammina... Punto: luogo che non si estende. Linea: luogo che si estende solo in lunghezza, senza guardare ai lati. Fanaticamente... Superficie: luogo che si allunga e si allarga. Spazio: luogo che si estende su tutti i fronti. Bacio tuo: luogo che durò vent’anni. Si può accorciare il tempo che ci si mette per percorrere uno spazio, come dire, possiamo comprimere lo spazio. Ma non possiamo comprimere il tempo in nessun modo. Il tempo perso è irrecuperabile. Lo spazio perso 258


no. Il passato serve solo per comporre lo spazio attraverso la memoria e non ha esistenza propria: è la memoria a dargli vita. Di conseguenza, lo spazio è una struttura della memoria. Al di fuori della memoria esistono solo punti. L’oblio è il contro-spazio, l’antimateria, la dissoluzione dell’Universo. Disintegrare l’atomo non è altro che dimenticarlo. Liberare la sua energia non è altro che lanciare il passato, il presente e il futuro nel caos dell’oblio: SPEZZARE LE FORTI ALI DEL RICORDO . Teorema: essendo la distanza futuro, il futuro non è altro che distanza. Io sarò vecchio nell’arco di venti chilometri. Allora io sono vecchio lì, ora. Dimostrazione: Non conosco il luogo dei miei 90 anni solo perché non lo vedo, ma esiste lì, e mi aspetta, allo stesso modo di come esiste ora Montevideo anche se non la vedo. In una diga da qualche parte esiste ora una turbina nel mio futuro (a “x” quantità di chilometri). Ma già esisteva da quando un ingegnere la mise in un progetto: esisteva a “x” chilometri di spazio che fu necessario percorrere per unire, un tassello dopo l’altro, le cose che servirono per costruirla. Come una cristallizzazione. Tutto ciò che esiste, costruito dall’uomo, la mucca compresa, è opera del movimento. Dello spazio percorso da ogni mattone che si è dovuto, inevitabilmente, muovere. Ci sono cose che esistono perché sì, e ce ne sono altre che esistono perché l’uomo se lo mette in testa. In modo che l’uomo, capace di fare progetti, è in grado di collocare già le turbine nel futuro. L’idea, questo niente etereo, sta mettendo turbine colossali, da sola, ovunque voglia. Commettiamo l’errore di credere che il futuro sia simile al passato, cioè: che non esiste, che è un sogno, un’immaginazione, un figlio del delirio e nemmeno questo, opera della memoria. Ma no: questo, tutto questo, è tipico del passato e non è lecito generalizzarlo irresponsabilmente. Il futuro è spazio perché lo spazio è tempo. Lo spazio è curvo, perché il tempo è curvo. Il passato sta nel futuro. Credo che la dimostrazione sia convincente... e se non lo è, possiamo desiderare che lo sia. Quando non si può prevedere né calcolare il futuro, non c’è altro rimedio né altro dovere che desiderarlo. 259


I desideri sono esclusi da ogni logica. Che ingiustizia! È uno spreco! Uno sperpero. Ci sarà un motivo per cui abbiamo piantato i desideri... Per qualcosa. “Si può credere solo desiderando”. Bisogna creare la “Logica del desiderio”; la Desideria, una Desideriologia... arrivare al Desiderismo se ce n’è bisogno... Perché ci sia il tempo è imprescindibile il movimento. Per il movimento e il tempo non c’è bisogno dello spazio (Io posso misurare la durata della sofferenza tra due uomini). Allora, a che serve? Ma per il tempo e il movimento la memoria è imprescindibile. E l’energia? Deve fare sempre il terzo incomodo. Un punto di riferimento, intorno al quale stabilire tutte le relazioni, è così misteriosamente necessario per l’essere umano, che senza qualcosa che lo faccia funzionare non può vivere. Ci sono tanti punti di riferimento arbitrari, che si può tranquillamente postularne qualcuno che produca come frutto il bene. Si possono dare dimostrazioni di qualsiasi cosa partendo dai risultati. Qualcosa come: “sarebbe bene che fosse vero anche solo per le pure conseguenze pratiche a cui darebbe luogo”. Il desiderio, la volontà, il batticuore, la scelta, e l’“installarsi”. In molte cose e in molte circostanze non c’è altro rimedio che installarsi per avere una prospettiva, per poter dare inizio a qualcosa che poi si giustificherà da solo, o che troverà la chiave della sua spiegazione lungo la strada... Mi contraddico? E che fa? Oggi è il 17 novembre. Soffia un forte vento dal nord. Questo vento mi fa saltare i nervi... Ho il vento... Mi fa male il vento... Ho il vento irritato...

MR:

Dure limitazioni le nostre e anche così era come giocare alla lotteria. Scrivere qualcosa che, anche se lo vedono, possa passare...

FH :

Ma quali lettori attenti, fini lettori, di quelli che sanno leggere tra le righe, avrebbero colto nel modo più completo possibile la nostra peripezia...? Ci lavorai su per mesi.

MR:

Molte volte bisognava sospendere, rompere, nascondere, fermarsi, reperire materiale...

FH :

I miei racconti uscirono sotto il naso del carnefice, ed erano centinaia di 260


pagine... MR:

Cercavano le pulci e affianco gli passavano gli elefanti.

FH :

Una cosa simile a quella che successe con gli assassini dell’esercito argentino quando dovettero combattere alle Malvinas. Fuori, chi riuscì a leggere i miei racconti, ricevette il messaggio in essi contenuto perché sapevano da dove proveniva. Un libricino come quello risulta incomprensibile se non si conosce la sua origine. Forse oggi un lettore comune può interpretarlo perfettamente dopo aver letto queste memorie che entrambi stiamo scrivendo, perché qui ci sono le chiavi della nostra letteratura. Altrimenti le tue &RQYHUVDFLRQHV FRQ OD DOSDUJDWD sarebbero una cosa da pazzo.

MR:

In un certo senso, lo sono. Tutte quelle produzioni non sono molto più che questo stesso racconto poeticizzato e travestito.

/H FKLDYL GHOOD QRVWUD OHWWHUDWXUD

FH :

L’epopea dei FDODER]RV plasmata in opere letterarie...

MR:

Ma bisogna conoscere molto bene il mondo dei FDODER]RV per comprendere profondamente e nel giusto senso questa letteratura.

FH :

Ogni uomo che fa letteratura la fa legato al mondo in cui vive. Non può fare diversamente.

MR:

Il problema è che quel mondo lo conoscevamo solo noi e tutti quelli che passarono di là.

FH :

Un mondo inspiegabile. Anomalo.

MR:

Teatro e romanzi per ostaggi. Per uomini nel FDODER]R.

FH :

Ma il mondo, e in particolare l’America Latina ha avuto migliaia, decine, centinaia di migliaia, di abitanti di questo mondo.

MR:

Queste opere sono la testimonianza di una parte del mondo.

FH :

Fanno parte, che lo si voglia o no, che piaccia o no, della cultura forzata di questo secolo. 261


MR:

Perché queste cose esistono. Sono una realtà del nostro tempo. Inoltre, per noi l’“al di là” del muro fu in un determinato momento nient’altro che una questione di fede.

FH :

Il volume del debito esterno contratto dall’Uruguay e la guerra delle Malvinas, che ci arrivavano come dati isolati, sembravano cose dell’altro mondo. Bisognava avere molta fede in quei dati. Vaz Farreira dice di aver conosciuto una donna anziana che «credeva nella Vergine con la fede semplice con cui noi credevamo al mondo esterno».

MR:

Il nostro era un mondo di pazzi, ma quello al di fuori non era da meno.

FH :

Noi possiamo aver mentito o inventato tutto ciò. Quello che i GHVDSDUHFLGRV vissero qui ed anche in Argentina è una cosa che si stenta a credere se non si è passati per situazioni simili.

MR:

Pensa alla camionetta che ti portò a Montevideo stazionata in 18 de Julio...

FH :

Se avessi raccontato ai passanti cosa mi stava succedendo...

MR:

«No!», avrebbero esclamato. «Lei è pazzo!»

FH :

Infine, perfino le leggi fisiche che regnavano nei spiegate per capire la nostra letteratura.

MR:

Il sole lì non sorge a est. Sorge da un buchino, quando sorge.

FH :

Lì piove dalle infiltrazioni.

MR:

La primavera è annunciata da fastidiose mosche.

FDODER]RV

devono essere

´7HQHWH GXUR µ

FH :

Fu durante quella primavera che arrivò quel soldato mezzo ubriaco a perlustrare uno per uno i nostri FDODER]RV e a dirci solo due parole: «Tenete duro».

MR:

Con gli occhi pieni di lacrime e guardandoci fissi: «Ragazzi, tenete duro».

FH :

«So io perché ve lo dico. Manca poco. Forza! Tenete duro!»

MR:

Non credevamo che mancasse poco. 262


FH :

Era mezzo ubriaco.

MR:

Per questo scrivevamo testimonianze.

FH :

Testamenti.

MR:

Per sopravvivere attraverso le nostre parole.

FH :

E quello che stiamo facendo ora, non è nient’altro che questo: una testimonianza.

MR:

Perché non c’è giudice né giustizia che possa riparare quello che il popolo ha sofferto.

FH :

Le carceri di Libertad e Punta de Rieles, tutti i FDODER]RV, i locali delle torture, le caserme, la sala 8 dell’Ospedale Militare...

MR:

Portare una testimonianza che vada oltre la semplice denuncia con finalità amministrative o giudiziarie.

FH :

È nell’anima del popolo e delle generazioni future che bisogna imprimere la denuncia.

MR:

Unico e vero risarcimento che possono ricevere coloro che sono rimasti lì per sempre, perché il loro sacrificio non sia stato vano...

FH :

Questa cosa, quello che stiamo facendo ora, è sì una vera fantasia.

MR:

Un canto alla vita. Come quello di quell’uomo mezzo ubriaco e sincero: «Tenete duro!».

263


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'L FDFHURODV H FRUWHL

FH :

È più o meno verso gli ultimi mesi del 1983 che alle nostre orecchie iniziano ad arrivare strani commenti fatti a voce bassa e in tono preoccupato: menzionavano la parola FDFHUROD, come se dicessero veleno.

MR:

Generalmente si trattava di soldati malati che erano andati a Montevideo all’Ospedale Militare e ritornavano...

FH :

... portatori di notizie insolite.

MR:

Si formarono intorno a loro, nelle lunghe ore di guardia, crocchi vociferanti. Noi, dopo tanti anni nelle carceri, percepivamo chiaramente quando l’argomento che attirava l’attenzione dei soldati era fuori dall’ordinario.

FH :

Cominciammo a tendere le orecchie con attenzione e timore.

MR:

Così dando tempo al tempo, con un dato pescato qui, un dato pescato lì, venimmo a sapere delle FDFHUROHDGDV.

FH :

Come una misteriosa e collettiva attività notturna di alcuni quartieri di Montevideo... questa era la versione che interpretammo da alcuni dati molto frammentari.

MR:

Non credo che i soldati avessero una versione molto più esauriente della nostra, ma quello che effettivamente si poteva percepire, perché era nei loro occhi, nei loro gesti, nel sottile clima che regnava, era lo sgomento.

FH :

E un disorientamento crescente.

MR:

Un altro degli indizi che ci arrivò fu quella strana sfilata militare a San Gregorio de Polanco.

FH :

Noi sapevamo sempre quali erano le grandi attività della caserma perché era impossibile nasconderle. Comprese le sfilate militari. Bene: sapevamo che ci sarebbe stata una sfilata a San Gregorio de Polanco.

MR:

Quando i soldati tornarono da quella parata militare erano agitati, polemici, sorpresi, arrabbiati. 264


FH :

Così iniziammo a capire.

MR:

Risultò che, da quello che dicevano loro, tutto il paese di San Gregorio aveva chiuso le porte al loro passaggio.

FH :

Sfilarono in un paese con le strade deserte.

MR:

«Non c’era neanche un cane», commentavano.

FH :

Il colmo, dicevano, fu che l’unico civile del paese che uscì al loro passaggio era un ragazzo malato, malato mentale, a quanto pare molto conosciuto a San Gregorio, che nel suo delirio si mise a capo delle truppe imitando gli ordini di comando dei capi e i gesti rituali degli ufficiali, alzando un palo come una sciabola e gesticolando in maniera grottesca.

MR:

Cosa che provocava nei soldati, al suono del severo passo di marcia, una risata che erano costretti a contenere e, allo stesso tempo, li invadeva un’altra sensazione che non sapevano spiegare bene...

FH :

... il senso del loro stesso ridicolo.

MR:

Inviarono, durante i giorni seguenti, nutriti gruppi militari travestiti da civili a misurare la grandezza dell’oltraggio popolare.

FH :

San Gregorio era piena di sediziosi. [...]

/·2EHOLVFR

FH :

Un giorno, di totale routine, ricevetti la visita familiare che mi spettava. Venne mia figlia accompagnata fino a Paso de los Toros da mio cognato. Parliamo delle cose che erano autorizzate ma io notavo in lei, nei suoi occhi, in tutti i suoi gesti, un grande allegro nervosismo. Doveva raccontarmi qualcosa. Qualcosa di grande. Qualcosa che la riempiva d’ansia. Alla fine – la visita era di mattina e abbastanza presto – riuscì, in un momento di distrazione della guardia e del cane che non capiva niente, a trasferirmi qualcosa che io seppi che era riferita a quest’ansia enorme: «Ce ne andiamo di corsa da qui perché vogliamo andare all’evento». Forse credeva che sapessi a che evento si riferiva. Ma fu altrettanto evidente che questa e nient’altro che questa frase fu quello che riuscì a trasferirmi attraverso la grata. E che era solo una piccola parte di quello che doveva raccontarmi. 265


Scesi nei FDODER]RV meditando. Appena ci riuscii, ti comunicai la strana visita. MR:

Perciò quel giorno provammo a prestare attenzione ai movimenti del carcere, e percepimmo una tensione crescente durante il pomeriggio, e ancor di più durante la notte.

FH :

Il giorno dopo, completi, sì, arrivarono i commenti.

MR:

Fu così grande l’evento dell’Obelisco che non si presero neanche il disturbo di parlare a bassa voce.

FH :

«La colpa di tutto questo ce l’hanno i generali che sono una manica di comunisti!», esclamavano.

MR:

«E questo tale Alberto Candeau saranno ore che l’hanno appeso per le palle alle travi di qualche caserma».

FH :

«Non hai visto le cose che ha detto?» E utilizzavano, iniziavano a utilizzare la parola “quelli” al posto della parola “noi“.

MR:

Vennero perfino a mostrarci, orgogliosi, delle foto enormi pubblicate in una grande doppia pagina di (O 3DtV, in cui i militari dimostravano che l’evento dell’Obelisco era stato organizzato dal )UHQWH $PSOLR, le organizzazioni di sinistra e perfino i WXSDPDURV.

FH :

Erano così contenti di quelle due pagine di propaganda che gli ufficiali avevano distribuito rapidamente che, senza saperlo, ci vennero a portare con quelle, alla porta di ogni FDODER]R, il popolo uruguaiano, il nostro gigantesco popolo, sparpagliato intorno all’Obelisco.

&RQ OD PXVLFD GD XQ·DOWUD SDUWH

MR:

A partire da quel momento iniziamo a riscontrare nei soldati un altro sentimento. Non era più, come prima, disorientamento o sorpresa. Nemmeno rabbia. Iniziava a essere paura.

FH :

«Non ci riguarda», ci dicevano in tono convincente. «Non ci ha mai riguardato. Eseguivamo ordini».

MR:

Il 24 dicembre, la vigilia, e il 31, Capodanno, come sempre, diedero balli nei principali club del paese.

FH :

Il giorno dopo parte del personale della banda prese servizio per la sorveglianza dei detenuti. 266


MR:

Avevano anche un’orchestra per allietare le feste dei civili.

FH :

Si chiamava Bainco: Battaglione d’Ingegneria di Combattimento.

MR:

Bel nome per una FXPELD!

FH :

Loro stessi raccontavano che quando toccò a loro suonare...

MR:

... perché per quel ballo, in uno dei club di maggior prestigio di Paso de los Toros, c’erano diverse orchestre...

FH :

... quando arrivò il loro turno per la prima volta, la gente iniziò a recitare in fila e a cantare con tutta la voce possibile...

MR:

«Se va a acabar, se va a acabar, la dictadura militar»59.

FH :

E dopo, quando l’orchestra nonostante tutto provò a intonare alcuni brani, la gente saltava e diceva: «El que no salta es un botón»60.

MR:

Quelli del Bainco, sul palco, guardavano e non saltavano. Erano gli unici.

FH :

Se ne dovettero andare con la musica da un’altra parte.

MR:

In caserma commentarono quella vergogna per diversi giorni.

FH :

Erano feriti nel loro intimo. Durante un ballo, e vestiti da civili!

MR:

In pieno centro di Paso de los Toros.

FH :

Gente di tutte le categorie, offesa.

MR:

Il generale Medina emise un ordine per il Bainco, che senza la sua esplicita autorizzazione non poteva partecipare a nessun ballo.

FH :

A Tacuarembó si verificarono incidenti simili ma più duri, stando ai commenti che arrivavano per via militare ai nostri FDODER]RV.

MR:

Il sentimento predominante ora, un sentimento che sarebbe cresciuto in loro, era la vergogna.

FH :

Il disprezzo e le larvate proteste contro gli ufficiali responsabili.

MR:

Entrammo così nell’anno 1984.

267


/H WULEROD]LRQL GL DSULOH

FH :

Eravamo stati portati a Paso de los Toros il 16 aprile del 1982, mese che non potevamo dimenticare e che pendeva sempre su di noi come una spada di Damocle.

MR:

Quando ci avvicinavamo alla data, tanto nel 1983, quanto adesso, iniziavamo a prendere precauzioni per il possibile trasferimento di routine.

FH :

Cercavamo di captare tra le guardie indizi che ci potessero permettere d’indovinare se si preparava un trasferimento.

MR:

Non respiravamo mai tranquilli fino a un mese dopo quella data.

FH :

Che coincideva con il 14 aprile, data che loro sceglievano sempre per martoriarci in qualche modo con un extra.

MR:

Questo era il nostro stato d’animo. Stato di allerta, potremmo dire.

FH :

Allora arrivò quella notte, quella di mercoledì 11 aprile del 1984. Saranno state approssimativamente le...

MR:

... stavano dando il segnale di adunata. Non avevano ancora dato il segnale di ritirata. Lo ricordo bene perché io stavo pulendo dei pezzetti di patate che ero riuscito a salvare dal piatto di interiora marce.

FH :

Continuavamo a mangiare interiora.

MR:

E cercavo di fare in fretta per oscurare il mio FDODER]R.

FH :

Io stavo facendo precisamente questo, collocando un sottile foglio di carta davanti all’eterna lampadina e appendendo il sapone al muro perché i topi camminavano già per il corridoio in attesa del silenzio e del nostro sonno.

MR:

Come si suol dire, stavamo facendo le faccende domestiche.

FH :

Aggiustando i tiranti del telo per la pioggia...

MR:

Quando improvvisamente cigolarono, inattesi, i cardini della porta.

FH :

E sopra, nella sala del corpo di guardia, calò un nefasto silenzio.

MR:

Rimanemmo tesi, con le orecchie puntate in quella direzione.

FH :

Presto risuonarono, metallici, duri, crudeli, i cardini dell’altra porta di ferro, quella che portava direttamente al bagno o ai FDODER]RV. 268


MR:

I topi del corridoio corsero in tutte le direzioni rifugiandosi nei bui FDODER]RV vuoti. Qualcuno, estraneo alla routine delle catacombe, arrivava.

FH :

Scendeva con passi non abituati alla caverna.

MR:

Sentimmo immediatamente la voce conosciuta di un capo della S2 nel pozzo di Mujica: «Non dormire! Aspetta ordini!».

FH :

Non ci serviva altro: avevamo perso di nuovo!

MR:

Lo stesso ordine tagliente e secco fu vomitato nel mio FDODER]R e nel tuo.

FH :

Rimanemmo sospesi. Era evidente che quel capo non era di guardia: gli avevano ordinato di venire da casa sua a quell’ora apposta per questo...

MR:

Gravissimo.

FH :

Subito, ci consegnarono tutte le nostre cose. Quelle che ci avevano tolto nella furiosa perquisizione di quasi un anno prima.

MR:

Ce le consegnavano solo perché le impacchettassimo come per... un viaggio. Un viaggio importante.

FH :

... e perché facessimo un inventario, per il quale a ciascuno diedero carta e matita: «Una lattina per pisciare, due rotoli di carta igienica, una saponetta usata...».

MR:

E ciao. Così s’intitola la poesia di addio: <D KLFH PL HTXLSDMH FKDX &RELMD WDEDFR \ ODWD 7XUELR FRWRUULWR GH GRV SRU XQR FKDX <D YHQGUi ² YHQGUp ² D RFXSDUWH DOJXQR WUD\HQGR HPEROVDGD XQD HVSHUDQ]D &KDX $UDxDUi ² DUDxDUp ²

269


OD LQLFLDO HQ HO PXUR \ DOJ~Q GtD FRPR KR\ GH DSXUR WDPELpQ pO ² \R ² FRWRUULWR FKDX 2WUR FKDUTXLWR GH SHUUR QRV HVSHUD OD YLGD HV YLGD FRWRUULWR KDVWD LQPXQGD &KDX &KDX FRWRUULWR £4XH 'LRV WH KXQGD

61

FH :

Secondo la routine, ci toccava andare alla Divisione dell’Esercito n.2, quella del deposito a Durazno, quella dove gli ostaggi uno a uno giravano per diverse caserme.

MR:

Era, inoltre, la data giusta. Quella prevedibile.

FH :

Che casualità! Pensavamo di nuovo al racconto del gallego: le FDFHUROHDGDV, gli slogan, l’evento dell’Obelisco, quegli indizi che ci confermavano che il popolo era in lotta, suscitavano la loro reazione, come sempre: «Colpite, colpite, che quante più ne date a me, più ne do a lui».

MR:

Dalla finestrella del corridoio che dava sul parcheggio arrivavano rumori a cui eravamo disabituati: motori che si mettevano in moto, voci di comandi perentori, movimenti inquietanti a quell’ora della notte.

FH :

Aveva suonato il rintocco del silenzio e continuavano... «Col piccone e con la vanga, Ñato, scaviamolo profondo il rifugio della nostra solitudine», mi continuavi a sussurrare dalla porta molto a bassa voce mentre impacchettavamo le nostre poche misere cose.

MR:

«Nunca se acaban los males; van poco a poco creciendo»62; il verso di Martín Fierro era uscito dalla bocca di Mujica da diverse carceri, di fronte a ogni circostanza simile.

270


FH :

Non mancava nemmeno qualche battuta macabra tra di noi: «Preparate gli unguenti, ragazzi».

MR:

«L’acqua ossigenata».

FH :

«Hai qualche cerotto?».

MR:

Tu ci cantavi in quei momenti il MLQJOH del Ministero del Turismo: «Punta del Este è tua, chilometri di spiagge ti aspettano...».

FH :

Credo che fu quella notte che, per la prima volta, da una radio che accesero nell’officina, sentimmo $ UHGREODU.

MR:

«Sì, ragazzi, questa notte a raddoppiare...».

9DFLOODPHQWL

FH :

Avevano aperto l’officina in piena notte e ci stavano lavorando. Evidentemente aggiustavano in fretta un veicolo o qualcosa del genere.

MR:

L’ordine del trasferimento aveva colto di sorpresa il Battaglione.

FH :

La notte trascorreva senza novità. Noi, nel frattempo, svegli, aspettando, con tutto impacchettato.

MR:

Mancava la visita medica e la rasatura, ma visto che con molta probabilità il trasferimento si sarebbe prodotto all’alba, avevano tutto il tempo.

FH :

Già alto il sole, sentimmo quel dialogo inusuale.

MR:

Gridando, tra un soldato che stava nell’officina e uno che stava nel parcheggio. Entrambi lavorando a quell’ora. «Per dove?», chiese quello dall’officina.

FH :

«Montevideo», rispose quello dal parcheggio.

MR:

«Hai sentito? L’hai sentito?», ci chiediamo a vicenda e saltiamo verso la porta del FDODER]R. I soldati stavano parlando ancora.

FH :

Il cuore non stava nel petto...

MR:

«È possibile?» 271


*LRYHGu DSULOH

FH :

Incredibilmente, arrivammo al giovedì senza novità.

MR:

Una situazione strana. Non sapevamo se spacchettare tutto o continuare ad aspettare un viaggio che, non essendo iniziato la mattina, difficilmente si sarebbe realizzato quel giorno.

FH :

Ci sono alcune norme militari che permettono di fare tale affermazioni.

MR:

Il dialogo ascoltato all’alba, il significato che per noi aveva la parola Montevideo e, soprattutto, il desiderio enorme di poter arrivare ad avere una speranza, ci lasciava...

FH :

... in mezzo a due forze contrarie: le speranza di un trasferimento che ci facesse uscire dalla condizione di ostaggi e il timore che invece ci sprofondasse – come sempre – nei più profondi pozzi della sofferenza. Nel primo caso il viaggio era auspicabile; nel secondo no.

MR:

Il nostro destino quella mattina era una moneta lanciata in aria...

FH :

... che non voleva cadere.

MR:

Verso mezzogiorno, ottenni un’informazione che ci fece quasi impazzire di gioia.

FH :

«Dove ci portano?», chiedesti con una faccia di bronzo a un soldato che non aveva motivo di mentirti e che non sapeva – era nuovo – che doveva tenerci nascosta la destinazione. Con grande naturalezza, in modo molto convincente, ti rispose: «A Libertad».

MR:

Quel giorno ci tagliarono i capelli e ci visitò il medico per compilare la scheda di routine del trasferimento.

FH :

Questo voleva dire che il viaggio si sarebbe effettuato nella mattinata del venerdì.

MR:

Era successo qualcosa la notte precedente.

FH :

Forse avevano ricevuto solo l’ordine di tenerci pronti e quelli, frettolosi come tutti i soldati, pensarono che la notte stessa sarebbe arrivato il secondo ordine, il trasferimento effettivo. Ipotizzavamo questa e altre 272


possibilità dopo aver ricevuto la notizia bomba della mattinata, a conferma del dialogo della notte. MR:

Eravamo in preda a una grande allegria. Volevamo intraprendere il viaggio quanto prima. Ma dal fondo emergeva un dubbio tremendo. Sapevamo che i dati in nostro possesso erano quasi inesistenti. Una vasta esperienza a riguardo ci permetteva di sapere che erano orribilmente inesistenti.

FH :

E che la data era la più indicata e la più prevedibile per un trasferimento non solo di routine, ma anche repressivo.

MR:

«Non corriamo», ci dicevamo mille volte.

FH :

Ma ci piaceva correre un poco... Finalmente!

9HQHUGu DSULOH

MR:

Passò tutto il giovedì, la notte, venne l’alba, momento dei trasferimenti...

FH :

E continuammo ad aspettare a lungo con la caserma immersa in una completa calma.

MR:

Era evidente che non c’era nemmeno l’ombra di un trasferimento.

FH :

E quella mattina, sempre a metà mattinata, facesti a un altro soldato, con la stessa faccia di bronzo, la stessa domanda di giovedì.

MR:

E lui, del tutto spontaneo, con totale certezza e in modo molto convincente, mi rispose: «Florida».

FH :

E ci cadde il mondo addosso. Questa notizia sì che coincideva con la data e il luogo più probabile di arrivo.

MR:

«È sicuro?», gli chiesi, con finta calma. «Sì, sì», mi disse. «Andate a Florida».

FH :

Ora non ce ne volevamo più andare. Desideravamo la sospensione del viaggio. Ci tranquillizzava la serenità della caserma. Avevamo paura di sentire il più lieve rumore di motori.

273


6DEDWR DSULOH

MR:

Il sabato 14, giorno indicato per un trasferimento punitivo, passò in santa pace.

FH :

Noi eravamo rimasti con le “valigie” pronte e quel giorno iniziammo a disfarle pensando che forse si trattava di un trasferimento fallito o di un ordine dato male.

MR:

Ma si avvicinava la data del 16 aprile, giorno in cui avremmo compiuto esattamente due anni a Paso de los Toros, e pertanto si aggiungeva un altro motivo per il viaggio, in quel frangente tanto temuto.

'RPHQLFD DSULOH

FH :

Fu la domenica 15, appena fatto giorno, dopo il caffè, che ottenemmo il primo dato decisivo, indiscutibile e indubbio.

MR:

Ti portavano, in massa, mate da incidere.

FH :

Ora sì: i soldati sapevano che ce ne saremmo andati il lunedì e che, pertanto, l’ultima possibilità perché io incidessi qualcosa sul loro mate era la domenica.

MR:

Non ci dicevano niente. Ma questa sfilata di “clienti” frettolosi fu molto eloquente. Ci mancava l’altra informazione: dove.

FH :

Noi sapevamo che quelle guardie, per essere così sicure che il nostro trasferimento sarebbe stato effettuato il lunedì all’alba, dovevano conoscere la destinazione.

MR:

Ma non ci dicevano niente.

FH :

Nonostante tu e Pepe cercaste di tirarglielo da bocca, mentre io incidevo mate in quantità.

MR:

Il pomeriggio di quella domenica ritornò il barbiere per farci di nuovo la barba.

FH :

Doveva essere qualcosa di grave per richiamarlo in servizio di domenica. 274


MR:

E già abbiamo parlato dello scombussolamento che provocano questi eventi in questi giganteschi carrozzoni pubblici uruguaiani che sono l’esercito e le Forze Armate.

FH :

C’erano i finestroni spalancati quando mi portarono nella stanza della guardia per radermi, mi legarono alla sedia e mi tolsero il cappuccio: era un serenissimo e soleggiato pomeriggio di un inizio d’ottobre uruguaiano. Dalle radio portatili i soldati, che bevevano mate, ascoltavano le partite.

MR:

Andammo a dormire sicurissimi che, ora sì, quell’alba, saremmo stati trasferiti. Ce ne andavamo. Ma... dove?

DSULOH

FH :

E, giustamente, quando compimmo esattamente due anni di permanenza a Paso de los Toros, il 16 aprile 1984, prima dell’alba, cigolarono tutti i cardini e le catene.

MR:

Accesero i motori dei vari veicoli nel parcheggio.

FH :

I cani militari abbaiarono e ringhiarono.

MR:

Sentimmo il tintinnio delle manette mentre le provavano.

FH :

Aggiustavano il mordente dei loro crick.

MR:

Scesero capi, soldati e sergenti in assetto da combattimento.

FH :

Irriconoscibili, con caschi d’acciaio, granate, ben riposati e allenati.

MR:

Armati fino ai denti.

FH :

Presero i nostri fagotti.

MR:

Rimanemmo nei FDODER]RV vuoti, desolati, a guardarli per l’ultima volta, pensando che forse un altro ostaggio sarebbe arrivato ad abitarli dopo poche ore; che forse noi, dopo un giro di anni e lustri, vi saremmo ritornati.

FH :

Si portarono Pepe su per le scale. Il suo FDODER]R rimase vuoto.

MR:

Non correre, Ñato! Prima di portarsi Pepe, quando avevano caricato già i fagotti, chiesi la destinazione a uno di quei soldati che andavano avanti e 275


indietro per le catacombe a quell’ora: «A Libertad», mi disse a voce molto bassa. FH :

Ricordo che in un brevissimo istante in cui lì, nel corridoio, non rimase nemmeno un soldato, mentre salivano con un fagotto e scendevano con delle chiavi, ci chiamasti nervosamente e dicesti solo una parola: «Libertad».

MR:

Ci portarono via quasi subito.

FH :

Lasciavamo due anni della nostra vita in quei FDODER]RV.

MR:

In quali avremmo lasciato i prossimi?

,O WUDVIHULPHQWR

MR:

Mi buttarono in quella che poi seppi era un’ambulanza, legato e incappucciato a dovere, e allarmato perché constatai che voi due non eravate con me. Questo coincideva perfettamente – ed era inquietante – con un trasferimento ai FDODER]RV della Divisione 2, in cui gli ostaggi erano divisi uno per caserma.

FH :

Io finii in un veicolo che non avevo mai visto prima. Uno di quelli che la gente, i prigionieri almeno, chiamavano FXFDUDFKD. Seppi, una volta entrato, legato e incappucciato, che c’era almeno un altro prigioniero. La posizione era pessima: questi veicoli hanno dietro uno scompartimento blindato poco più grande di un portabagagli di un’auto qualsiasi, provvisto di qualche feritoia longitudinale per respirare, in cui si poteva portare, scomodamente, un solo prigioniero. Ci misero lì, schiacciandoci, me e Pepe. Eravamo in posizione fetale, ginocchia contro ginocchia, ammanettati dietro la schiena e testa contro testa. Avevamo la certezza che non c’era nessun altro, e che eravamo in uno scompartimento molto piccolo, solido, isolato. I veicoli erano fermi. Si sentivano chiacchiere fuori.

MR:

Ma non il cinguettio degli uccelli: era notte fonda.

FH :

Per verificare che eravamo soli, Pepe dice a bassa voce: «Guardia! Guardia!». Non risponde nessuno. «Mi sto strozzando, guardia!», continuava Pepe a bassa voce. Silenzio. «Siamo soli, mi pare, Pepe», gli dissi. Ci aspettavamo una manganellata per aver parlato e poiché non arrivò, «Toglimi il cappuccio», dissi a Pepe, quando i veicoli si misero in marcia. Pepe, con la testa e difficilissime contorsioni, che gli permisero di 276


usare le mani, me lo alzò fino a scoprire gli occhi, perché io potessi vedere per me e per lui: eravamo soli. Dalle feritoie longitudinali di dietro, che stavano quasi contro la mia faccia, si riusciva a vedere un pezzo della strada che la FXFDUDFKD si lasciava alle spalle, dieci o quindici metri al massimo. Non di più. Piovigginava. Ci potevano sorvegliare attraverso un piccolo occhio di bue che collegava lo scompartimento con la cabina dei soldati davanti. Ma ora tutto il personale stava parlando e il nostro scompartimento era molto scuro. Sull’asfalto bagnato, illuminato dai fari di quelli che venivano dietro, passava la luce rossastra intermittente del lampeggiante che i veicoli militari avevano sul tettuccio. Percorrevamo la Statale 5 verso sud. Albeggiava molto lentamente per la pioggerellina. Commentammo il percorso con Pepe: per andare a Libertad, il percorso migliore sarebbe stato passare per Trinidad. Prima di arrivare a Durazno la carovana si ferma in mezzo alla strada. Pepe mi abbassa il cappuccio. Sentiamo conversazioni fuori. Il maggiore, il famoso maggiore di Paso de los Toros, che veniva in direzione contraria, aveva intercettato la colonna e aveva chiesto: «Andate via Trinidad, vero?» «Sì, signor maggiore». Attraversiamo Durazno di nuovo con il mio cappuccio alzato. Usciamo. Albeggiava quando entriamo in un’altra città: non poteva che essere Trinidad. Eravamo quasi certi che tu eri nell’altro veicolo, visto che non c’era spazio per un altro prigioniero. FH :

Entrammo in una strada importante – la 3, supponemmo – e i veicoli andavano a forte velocità, direzione sud. Ora aspettavamo di girare a sinistra, direzione Libertad, all’incrocio della Statale 3 con la 1. E invece girarono a destra, direzione Colonia! «Quella puttana di sua madre!», esclamiamo. «No, fermati, non ti scaldare Pepe, questa non è la Statale 1, entriamo in una strada piccola... è asfaltata, è in buone condizioni, ma non è la Statale 1, non può essere, è molto stretta... Stiamo entrando a Libertad, Pepe!» Avevamo superato l’incrocio senza rendercene conto perché era una curva lunga. La carovana si fermò. Pepe mi abbassò il cappuccio. Silenzio. Passi. Chiamate via radio: «Sauce 2 a Sauce 1...».

MR:

Nel frattempo io, nell’ambulanza e con sollievo, avevo sentito “Sauce 1” chiedere all’altro “Sauce” che comunicasse allo Stabilimento Militare di Detenzione n. 1 che stavamo entrando nella strada. Arrivammo e rimanemmo fermi per un lungo lasso di tempo. Più di un’ora. Poi ci fecero 277


entrare, ci fermammo di nuovo e ci spostarono in un altro veicolo, scoperto, con un motore rumoroso: sento aria fredda attraverso il cappuccio. Soffiava un vento forte. Mi fanno scendere, legato, incappucciato, e mi portano in quello che mi sembra un grande magazzino dove tengono la radio a tutto volume, come nel “locale delle torture”. Temo altre violenze. Fuori da questo lungo magazzino, cammino sulla paglia, si abbassa il volume stridente delle persone che parlano alle mie orecchie, sento che aprono una porta di ferro, cammino per corridoi, si apre un’altra porta di ferro, mi tolgono le manette, poi il cappuccio, chiudono, c’è una grande penombra, non riesco a riconoscere... FH :

Mi fanno scendere e improvvisamente sento una musica molto forte. Mi sembrava che qualcuno camminasse affianco a me con una radio grande, o un mangiacassette portatile, a tutto volume. Pensai, come te, che mi avrebbero picchiato. Il colmo a conferma del sospetto: quell’aggeggio stava emettendo il famoso FDQGRPEH63 6LJD HO EDLOH VLJD HO EDLOH , cantato da Alberto Castillo. Mi sembrava uno scherzo da collegio. Sentivo che dietro portavano Pepe. Improvvisamente entriamo in un luogo chiuso e ci lasciano in piedi alcuni minuti. Riconosco il 3HQDO GH /LEHUWDG, l’ingresso di fronte alla cucina, sento il suo rumore inconfondibile e mi arriva l’odore del cibo. Aspetto per salire per una delle due scale. Sto fermo nello stesso luogo in cui quella tremenda alba di settembre del 1973 ci fermarono per portarci via da lì e trasformarci in ostaggi, ricordi? Impazzisco di gioia. Contentissimo. All’improvviso mi prendono di nuovo per il braccio e mi portano dall’altro lato, continuiamo a camminare e mi rendo conto... Ci portano all’“isola”!

/·´LVRODµ

MR:

Avremmo concluso un lunghissimo percorso.

FH :

La ruota dai piccoli giri ora ne faceva uno enorme.

MR:

Ritornammo al luogo da cui eravamo partiti undici anni e sette mesi prima.

FH :

Noi tre fummo gli ultimi ostaggi ad arrivare. Poi venimmo a sapere che gli altri sei li avevano spostati quella prima notte, quella di mercoledì 11 aprile 1984. Evidentemente nel nostro caso si doveva esser rotto qualche veicolo o qualcosa del genere.

278


MR:

I giorni d’incertezza vissuti dal mercoledì al lunedì.

FH :

La nostra famiglia, informata del trasferimento degli altri, festeggiato come un grande trionfo, girava e rigirava nei diversi uffici cercando noi, che in quei giorni eravamo GHVDSDUHFLGRV poiché non eravamo né a Paso de los Toros, né a Libertad.

MR:

Io dubitavo ancora di essere nel 3HQDO. Non ci potevo credere. Mentre il medico mi controllava, gli chiesi: «Sono a Libertad?». «Certo», mi disse. E nemmeno così riuscii a crederci completamente.

FH :

Il destino ci aveva teso troppi trabochetti.

MR:

Non identificavo quei FDODER]RV con quelli del 3HQDO. Vedevo il tavolo di cemento, il vaso... Chiesi, pretesi lo stesso la mia lattina per pisciare. Me la negarono con determinazione. Continuo a chiederla urlando. Viene il medico. Non capisce: «Che le succede?». «La lattina», dico. «Voglio la lattina!»

FH :

L’“isola” del 3HQDO GH /LEHUWDG, di triste fama, sembra, da fuori, un edificio inoffensivo. Sorridente. Dall’interno è sinistro. Oltre a una tripla cancellata di ferro che controlla l’ingresso, c’è un piccolo salone nel quale sfociano tre corridoi, uno per ogni lato e un altro esattamente al centro. Ognuno chiuso da una poderosa porta di ferro. E quello al centro, da due. L’“isola” è divisa in tre parti totalmente isolate le une dalle altre e con sbocco all’esterno. In ognuna di queste tre parti, alle quali si accede dal rispettivo corridoio, ci sono cinque FDODER]RV. Totale: quindici.

MR:

È magistralmente sadica l’inclinazione ascendente della sofferenza calcolata dall’architetto. I cinque FDODER]RV più “comodi” sono quelli in fondo. Hanno un tavolo, un letto, una panca di cemento. Vaso sanitario e una colonnina con il rubinetto. Ad ogni modo l’acqua si regola da fuori. Cioè per la più piccola necessità – bere, lavarsi, lavare il vaso – bisogna ricorrere alla guardia che, a seconda dell’ordine, della voglia o del caso, la concederà o no.

FH :

I FDODER]RV del fondo godono di una finestra alta di vetro comune, con grosse sbarre da cui si vede il cielo e dalle quali in alcune ore, in alcuni periodi dell’anno, può riuscire a entrare il sole.

MR:

I cinque FDODER]RV del lato sinistro già sono fatti per far soffrire un po’ di più. L’architetto ha messo qui colonne più grezze, ha tolto tutte le finestre e ha messo vetri spessi e opachi molto ben studiati per far passare il minimo della luce, talmente minimo che non serve a niente, o meglio, a molto: tormentare. In questi FDODER]RV regna, giorno e notte, la penombra. Le pareti non sono in contatto con l’esterno, come dire, le loro quattro pareti affacciano sull’interno dell’“isola”. 279


FH :

I cinque del lato destro sono il gradino supremo della sofferenza. Qui l’architetto è arrivato all’apice...

MR:

Al sublime...

FH :

Ci è riuscito. Non c’era la colonnina, non c’era il tavolo, né la panca, né il letto di cemento; solo un buco e un tubo per l’acqua del vaso sanitario, che serve a tutto. E che quando si apre da fuori, su richiesta del prigioniero o per capriccio della guardia, lancia un forte zampillo d’acqua che bagna tutto il FDODER]R. Oltre alla porta di ferro hanno una cancellata che lo divide a metà. In modo che il prigioniero non ha quasi spazio per muoversi.

MR:

A completare quest’opera d’arte, la ventilazione è stata pensata in modo che durante l’inverno entra, da alcuni bocchettoni diretti verso il pavimento, una raffica di vento gelato. Bocchettoni che durante l’estate non sono sufficienti per procurare l’aria per quindici FDODER]RV totalmente isolati dall’esterno.

FH :

Noi nove ostaggi venimmo messi lì. Tre in ogni settore da cinque FDODER]RV, lasciandone tra un ostaggio e l’altro uno vuoto. Continuammo a non comunicare; né con il resto del carcere né tra di noi.

MR:

In qualche modo, quell’“isola” dove avevano “suicidato” tanti compagni, era per noi, che venivamo da dove venivamo, come le stanze dello Sheraton con bagno in camera.

$ WXWWD ELUUD

FH :

Ti ricordi quando portarono la prima razione?

MR:

Dopo un lungo anno a mangiare interiora marce, vedere quelle minestre di tagliolini grassi in piatti fondi e pieni fino all’orlo, fu una cosa indimenticabile... E oltretutto ti chiedevano se ne volevi ancora! Rispondevamo sempre di sì. Di sì tre o quattro volte, fino a scoppiare, temendo che all’indomani non sarebbero tornati...

FH :

Portarono, quella prima volta, un vassoio con pezzi di manzo.

MR:

Tombola! Meravigliose ossa invitanti, con carne cartilaginosa e filamentosa, un piacere per i nostri molari anchilosati.

280


FH :

Tombola! E io cominciai a dividere uno di quei pezzi in tre parti. «Che fa?», mi disse il soldato. «No, no! Prenda tutto quel pezzo e faccia in fretta», mi ordinò. Io non ci potevo credere: questo pezzo solo per me! Un pezzo normale di bollito solo per me! Ma il colmo fu quando mi portarono un’arancia. A partire da quel momento iniziai a lottare per averla, perché al mezzogiorno seguente non me la diedero. Pensai che, come in qualsiasi caserma, me la stavano rubando. Iniziai a picchiare sulla porta. «Voglio la mia arancia!». «Non c’è», mi rispondevano.

MR:

Vatti a fidare!

FH :

«Comunichi al sergente o all’ufficiale incaricato che qui ho carta e penna e scriverò bene tutto quello che mi danno a ogni pasto, e lo mostrerò al primo capo che passa di qui. Non mi piace “mettere i bastoni fra le ruote” a nessuno, ma se mi rubano il cibo non c’è altra soluzione...».

MR:

Era per prevenire la fame da cani delle caserme che iniziavano sempre con queste ruberie.

FH :

Sento che il soldato chiama a bassa voce: «Tenente, tenente». E subito la voce dell’ufficiale, bassa anche quella, verso la porta di ferro del corridoio: «Che succede?». «Il vecchio della 6 dev’essere pazzo...».

MR:

Usavano la parola “vecchio” per riferirsi a noi, e questo ci disorientava: «Questi figli di puttana tengono un vecchio nell’“isola”», pensai. Ma no. Era che ieri, dieci anni prima, ci avevano tirato fuori da lì ancora con i capelli...

FH :

«Dev’essere pazzo: dice che scriverà tutto quello che gli diamo da mangiare...». Si fece un silenzio nel quale io immaginavo il tenente che si grattava la testa e poi sentii la sua voce: «Ok, se vuole scrivere, lasciagli scrivere tutto quello che vuole...». Lì mi resi conto che non mi stavano rubando nessuna arancia, e che anche se me la stavano rubando, non era un motivo sufficiente per fare tutto quel casino...

MR:

O sì. Un’arancia è una sfera, colore, vitamina C, un sole che nasce per purificare, bucce per il tè. «Placa la sete e profuma l’alito», Ñato. Una panacea.

FH :

Avevamo una condotta davvero appropriata alla difesa della vita nelle caserme, ma che iniziava a non esserlo all’arrivo all’“isola” del 3HQDO.

MR:

Dove, come le bestie deboli d’allevamento, ci avevano messo “all’ingrasso”. Per un osservatore qualsiasi, la nostra oggettiva condotta era “anormale”.

FH :

Quantomeno nevrotica.

281


MR:

Ma senza quella saremmo crollati nei FDODER]RV delle caserme. Ciò che c’era di “anormale” nelle nostre reazioni era “normale” nel contesto da cui venivamo.

/H XQLIRUPL

FH :

Durante i primi giorni comprendemmo il fenomeno di quegli altoparlanti stridenti del giorno in cui ci avevano portato lì.

MR:

Trasmettevano musica per i prigionieri in alcune ore!

FH :

Non ci potevamo credere... E così ti fanno ascoltare la musica?

MR:

Recuperammo Gardel. La domenica mattina trasmettevano tanghi di Gardel che arrivavano a fatica fino a noi, attraversando campi e mura, dagli altoparlanti delle celle.

FH :

La prima volta che accadde, feci una sigaretta molto sottile (per risparmiare) e mi accovacciai sul tavolo per stare più vicino ai bocchettoni da cui s’infiltrava un filino della voce del Mago. Avevo un duro groppo in gola.

MR:

La cella si riempiva di piccole cose, e un giorno ci portarono le uniformi. Con quelle, solo dopo averle indossate, avemmo l’esatta sensazione di ritornare alla categoria di prigionieri. Che non eravamo di passaggio a Libertad. Che eravamo venuti per restare. Riceverle fu come ricevere una credenziale. Un mazzetto di diritti e garanzie. Conciso. Però molto di più di quanto avevamo fino ad allora.

FH :

Inoltre ci restituirono la nostra vecchia numerazione. Io ritornavo ad essere il 787, tu l’813, Nepo l’812, Pepe l’815, Engler il 795, Sendic il 794, Marenales l’803 e Zabalza il 70 – perché era stato uno dei primi abitanti del 3HQDO.

MR:

Ricordammo allora le stesse uniformi, le prime, quelle che si distrussero nei percorsi da ostaggio.

FH :

La ruota continuava a girare...

MR:

Noi non sapevamo se c’eravamo noi tre o se c’era altra gente nell’“isola”. Con il passare dei giorni, abituando le nostre orecchie, riuscimmo a percepire la loro presenza. La presenza di altri compagni. Quella degli altri ostaggi. Alla fine, ritrovati. Eravamo ancora nove. 282


1HSR

FH :

Eravamo all’inizio dell’inverno. Fine aprile, inizio maggio, quando ci portarono dopo diversi giorni all’ora d’aria. Lo facevano immediatamente dopo pranzo, e per questo dovevamo mangiare di fretta.

MR:

Ci portavano attraversando il campo, di lato all’enorme edificio del 3HQDO perché i prigionieri non ci vedessero, e in due gruppi: uno da quattro e uno da cinque.

FH :

Nello spazio tra le poderose colonne che sorreggono l’edificio, sempre perché i prigionieri non ci vedessero. Lì passavamo la nostra ora d’aria. Soffiava il vento, non c’era il sole e dovevamo passeggiare uno dietro l’altro davanti a una folta e attenta vigilanza con il divieto espresso e tassativo di mandarci segnali.

MR:

Lì potemmo vedere, per la prima volta, gli altri ostaggi. E riuscimmo a vederci, tutti interi, tra di noi.

FH :

Non ci vedevamo da quell’ora d’aria fugace e insolita a Laguna del Sauce nel 1981.

MR:

Il vostro aspetto era come quello degli abitanti di Treblinka. Magrissimi; Pepe con il naso affilato e le labbra schiacciate; tu scheletrico, giallino e con il cranio ridotto, perso dentro un cappello del Peñarol.

FH :

Il tuo non era da meno. Il tuo scheletro ballava nell’uniforme e il tuo colore era come il suo: grigio.

MR:

Nel gruppo di quattro uscivamo noi tre con Nepo e, il primo giorno, mi toccò camminare vicino a lui. Nel libro $GROIR :DVHP LO WXSDPDUR ho raccontato così il mio re-incontro con lui:

Si era lasciato i baffi, aveva lo stesso sguardo stupito e sereno di sempre, e sulla testa rasata, sotto il cappello che si tolse perché la vedessi, un’enorme cicatrice che gli attraversava il cranio e formava un angolo sulla nuca. Scarponi neri e quel cappello a scacchi che alla fine mi avrebbe lasciato in eredità. L’uniforme grigia da regolamento gli andava larga, per quanto era magro, e sul cuore lo etichettava il numero regolamentare: 812. Il mio era 813. Ci guardammo da lontano, senza poter parlare. Cercavamo prima di tutto i segni dell’equilibrio psichico, quelli che si riconoscono per primi in uno sguardo. Se era spento le cose non andavano bene. Invece faceva scintille. 283


Fermo nel passo, dritto il busto, iniziamo a camminare piano nonostante il freddo per trarre beneficio dalla situazione. Poi io affrettai il passo con energia e lui fece lo stesso. Era un modo per comunicare il livello di sanità mentale. Fu proprio allora che ci facemmo quel segnale carcerario dell’indice e il pollice tesi ed orizzontali sotto il naso, questo segnale che a forza di usarlo, parla: «Bene». Nepo, con un cancro che gli tormentava la testa, faceva il segnale «Bene».

/D SULPD YLVLWD

FH :

Il 26 aprile permisero la prima visita familiare.

MR:

Come fai a sapere la data?

FH :

Perché tengo conservati i calendari “fatti in casa” che avevo nel FDODER]R, piccoli, sui quali segnavo gli eventi principali, tra le altre cose, per non perdere la nozione del tempo.

MR:

Ci portavano tre alla volta, attraversando il campo, lontano dal cellario e dai campi di calcio, perché gli altri prigionieri non ci vedessero. Bebe, Pepe ed io, in fila indiana, con le mani dietro la schiena e una numerosa sorveglianza con l’espressione di un plotone d’esecuzione...

FH :

... anche se da lontano, era la prima volta che vedevamo altri compagni.

MR:

Ce n’era una quantità impressionante! I campi erano pieni.

FH :

Non potevamo riconoscere nessuno per la distanza, ma anche per il tempo.

MR:

Le visite erano in un enorme parlatoio sigillato: una cabina ciascuno, non sia mai detto che stessimo seduti vicini.

FH :

Ci separava dalla famiglia una lastra di vetro e ci parlavamo attraverso il telefono. Gli ufficiali dei Servizi Segreti ascoltavano attentamente.

MR:

E registravano.

FH :

Nonostante tutto, in una di quelle prime visite la famiglia riuscì a farmi sapere che avevano ucciso un altro compagno durante le torture.

MR:

Roslik. Nella Divisione dalla quale venivamo, comandata dal generale Medina.

284


/D WHOHYLVLRQH D FRORUL

FH :

Poco a poco avremmo visto gli altri ostaggi. Durante la visita, ad esempio, a me toccava andare con Engler. La prima volta che ci vedemmo fu lì. A lui, che era mentalmente disturbato, lo fecero sedere in un altro parlatoio, con diversi vetri in mezzo, ma di fronte a me. Mi iniziò a fare le boccacce e io a lui, in una gara seria per vedere chi riusciva a far ridere prima l’altro. Vinse lui. «Non è così pazzo», pensai. Però era uno scheletro con l’uniforme.

MR:

Una notte vennero con un ordine tassativo: «Prenda una coperta ed esca».

FH :

Che paura mi prese! Pensai immediatamente a un trasferimento...

MR:

Ci misero in piedi contro un muro e portarono gli altri ostaggi. Con la coda dell’occhio vidi che anche loro portavano coperte.

FH :

A quell’ora della notte e con lo schieramento di guardie che c’era, la cosa sembrava nera. Io mi aspettavo da un momento all’altro la benda sugli occhi, il cappuccio, le manette ai polsi.

MR:

Con un tono secco, stonato ed energico, un ufficiale alle nostre spalle, come se parlasse al muro, ci disse che... andavamo a cinema.

FH :

«Ah, fDWLWR, le mazzate che ti stanno per dare!», pensai.

MR:

Da film!

FH :

Che avrà fatto la gente fuori?, mi chiesi.

MR:

Ci portarono in fila indiana, in due gruppi un’altra volta, circondati da uno sciame di soldati.

FH :

Non arrivarono né le manette né i cappucci. Al contrario, recuperammo la notte...

MR:

Erano dieci anni e mezzo che non vedevamo le stelle...

FH :

E quella notte – ricordi? – era cosparsa di stelle. Io le guardavo, approfittando, chissà, dell’unica possibilità che mi avrebbero dato per imprimerle di nuovo nella memoria. Inciampavo in tutti i fossi e le dune del campo. Ricordai quella volta, l’unica, che ero riuscito a vedere la luna a Santa Clara.

MR:

Anche io, finché non inciampai in quello che stava avanti a me e capii che tutta la fila di ostaggi stava facendo la stessa cosa. 285


FH :

«Che state facendo? Smettetela di guardare le stelle», ordinarono invano.

MR:

Era una fila di ubriachi barcollanti, instupiditi, persi nelle stelle.

FH :

Tirammo un profondo sospiro di sollievo quando vedemmo che era la verità. Che non ci stavano portando in nessun posto strano ma, al contrario, salivamo le scale entrando nell’edificio del cellario, quello da cui ci avevano tirato fuori da più di un decennio.

MR:

Tutti i prigionieri erano rinchiusi. Le luci delle celle erano ancora accese. Regnava il silenzio.

FH :

Ci divisero in due gruppi: quattro per un’ala; cinque per l’altra.

MR:

Al primo piano del carcere.

MR:

Ci fecero sedere a terra sulle coperte, ben separati gli uni dagli altri, per evitare la minima comunicazione, davanti a un televisore che pendeva dal tetto.

MR:

Un manipolo di soldati ci squadrava.

FH :

Alcuni giorni dopo ci autorizzarono a scrivere lettere, e io ne mandai una a Graciela, mia moglie, prigioniera a Punta de Rieles. Conserviamo ancora quella lettera. Lì le raccontavo quello che stiamo descrivendo:

La prima volta nella mia vita che ho visto la televisione a colori ero seduto davanti a uno schermo spento, con il cappello di lana del Peñarol, che mi avete fatto tu o mia madre, e improvvisamente (io non sapevo cosa avrei visto lì), si è accesa questa meraviglia. Un signore augurò ai telespettatori la buonanotte, disse che quello era un programma sportivo e, allora, a una velocità di cose e di colori insolita per i miei occhiali che cercai di pulire frettolosamente, scoppiò davanti ai miei occhi la bocca del tunnel che viveva nella mia memoria più recondita, così recondita come la coscienza di me stesso, perché si perde agli albori della mia infanzia, e da quel buco nero iniziarono a uscire folletti gialli e neri, undici ragazzi che potevano essere miei figli, e io, tifoso accanito, non ne riconoscevo nessuno perché non li avevo mai visti. Come se non bastasse, tu, che conosci la mia passione per il ciclismo, capirai che fortuna avevo avuto che quella registrazione (perché era una registrazione) coincidesse con il Giro di Ciclismo e quindi potessi vederne alcuni pezzetti. Poi, più tardi, a letto, meditavo e mi rimproveravo perché per guardare i goal, per non perdere il minimo dettaglio, avevo dimenticato di guardare lo Stadio del Centenario che era il dettaglio più grande da vedere per uno che da un sacco di anni non lo vede. [...]

286


8QD JUDQGH FRQTXLVWD

MR:

Quel sistema per l’ora d’aria era assurdo e noi continuavamo a reclamare in mille modi una situazione normale. Anche le nostre famiglie. Era evidente che fuori la situazione politica migliorava perché un giorno, il 21 maggio 1984, riusciamo a ottenere un nuovo pezzettino di libertà strappata ai comandi: ci avvisano che passeremo l’ora d’aria nei campetti; e siccome lì affacciano le 250 finestre delle celle che danno su quel lato, correvano il rischio tremendo – si noti il loro grado di generosità – che i prigionieri rinchiusi lì ci vedessero. Questo sì: saremmo usciti in due gruppi, in orari diversi, e saremmo andati ciascuno su un campo: i due di calcio, quello di basket, quello di pallavolo, isolati gli uni dagli altri da filo spinato. Siccome uno dei gruppi era di cinque, non c’era altra soluzione se non che due ostaggi condividessero il campo di calcio, separati dalla linea di campo che, ci avvertirono, non doveva essere superata per nessun motivo.

FH :

In quel caso mettevano due soldati a controllare la linea come due guardalinee. Mancavano solo la bandiera e il fischietto.

MR:

Severi, energici e minacciosi ci avvertono con insistenza che non possiamo per nessun motivo guardare verso le finestre, alzare lo sguardo, gesticolare.

FH :

Ad ogni modo era un grand’evento. Ora potevamo camminare, prendere il sole, correre, fare flessioni.

MR:

Stavano cedendo, molto lentamente. Ogni concessione era un parto cesareo.

FH :

Ci disposero, quelli del primo gruppo, in fila indiana. Tu, Pepe, Nepo e io.

MR:

Fu una sorpresa per gli altri prigionieri. Mentre la fila avanzava diretta verso i campi, sembra che il primo compagno che la vide colpì con il cucchiaio la parete o il tavolo di cemento della sua cella in modo che il vicino guardasse. Il picchiettio iniziò a crescere alla nostra sinistra. Lieve, ma consistente. Noi non potevamo guardare, ma la guardia lo faceva, allarmata, cercando responsabili per la sanzione.

FH :

Mi pervase un sentimento simile alla vergogna. Sapevo di essere osservato molto attentamente da migliaia di occhi silenziosi.

MR:

Perché presto calò un grande silenzio.

FH :

In quella situazione assurda si sentivano solo i passi delle nostre scarpe e 287


dei loro stivali. Nepo, con le mani dietro la schiena come gli altri tre, mi precedeva. La sua cicatrice davanti ai miei occhi. MR:

Quando ci lasciano liberi su quei campetti enormi, l’assurdo si mischiò al ridicolo. Che ci faceva lì uno solo?

FH :

Impossibile rispettare l’ordine di non guardare le finestre. Non c’era bisogno di alzare lo sguardo. Davanti a noi si alzava quell’enorme blocco di finestre.

MR:

In ognuna, due o tre compagni che ci guardavano. Tranquilli. Muti.

FH :

Io pensavo: «Che colorito dobbiamo avere! Che aspetto!»

MR:

Tutti e quattro ci dedicammo, ognuno nel proprio territorio, a fare un giro di campo.

FH :

Con passi che ora, per la prima volta, potevano essere lunghi, pieni.

MR:

Un’uniforme grigia in ogni campetto moltiplicava l’impressione di solitudine assurda e simbolica. Dava l’idea di quello che avevano fatto.

FH :

In seguito i compagni lasciarono lì la palla e allora a volte ognuno nel suo campetto le correva dietro, giocando un’allucinante partita di calcio solitaria.

´$GLRV PXFKDFKRVµ

✕✁✖

MR:

Per tornare, ci misero di nuovo in fila indiana. Nepo, il più temerario, fu il primo a fare a tutti i compagni il segnale che poi uno dopo l’altro riproducemmo: «Bene».

FH :

Mentre noi ci mettevamo in marcia, da una cella del secondo piano qualcuno iniziò a fischiettare, come se niente fosse, /·,QWHUQD]LRQDOH. Poteva essere un prigioniero di qualsiasi organizzazione politica. Era un compagno. L’inno generico questo ci comunicava.

MR:

Una volta tornato nel mio FDODER]R mi assalirono le impressioni di quella memorabile uscita. Si era creato un enorme dislivello tra i campetti e il terreno esterno al filo spinato: migliaia di scarpe, chilometri e chilometri di anni, decadi di sofferenze collettive avevano consumato la superficie dei campetti.

288


FH :

Iniziammo ampi programmi di ginnastica, ora che si poteva. La sfida maggiore era, semplicemente, provare a correre.

MR:

Dovevamo imparare a farlo di nuovo, un pomeriggio iniziai, piano piano. Non riuscii a fare più di un giro di campo.

FH :

Non importava. Poco a poco, con pazienza, avremmo aumentato il nostro respiro.

MR:

Anche Nepo.

FH :

Finché un giorno non venne all’ora d’aria, io non sapevo perché. Non venne più.

MR:

Io lo seppi. Avevamo una cella in mezzo e comunicavamo “colpo a colpo, verso a verso...”. Così mi cantò le sue composizioni dal FDODER]R: “El sapito Manuel”, “Cipó-cipó”, una poesia mia messa in musica da Engler, dedicata a Candán, Joaquín, Marquitos, Martirena, indimenticabili compagni: «Veo pasar por la clara savia de abril, la bravura de los que hundieron en tierra su quilla aquel catorce...»65. E seppi delle sue ultime ore nell’isola. Tutti i giorni il medico lo andava a visitare. Per la prima volta aveva un’assistenza metodica. Gli stavano facendo le analisi e io pescavo qualcosa dai dialoghi. «La settimana prossima», gli dissero un giorno, «va all’ospedale». Già gli avevano prelevato il sangue. La ferita era andata in suppurazione e ogni due e tre chiedeva che lo portassero pochi minuti alla porta dell’isola perché il sole gli seccasse la cicatrice. Faceva ginnastica tutti i giorni e si lavava nello zampillo di acqua fredda del bagno del FDODER]R. Una volta chiese di farsi cambiare il materasso di poliestere, che gli dava dolori, con uno di lana. Non so se glielo diedero. Fino a quella mattina, che non fu della “settimana prossima”, nella quale vennero a dirgli di raccogliere i prodotti igienici e un cambio. Lo portavano all’ospedale d’urgenza. Era un cattivo segno e lui lo capì subito. Allora mi cantò l’addio mentre raccoglieva le sue cose. Senza drammatizzare, chiaro, quasi allegro, iniziò a sciogliere i versi: «Adiós muchachos, compañeros de mi vida/ barra querida de aquellos tiempos...»66. Lo ascoltai con rabbia ed ero sul punto di rispondergli a tono con un 9ROYp GH WDUGHFLWD67, ma qualcosa – che ne so? – mi disse che era fuori luogo e lui non ne aveva bisogno. Quando se lo portarono rimase nell’aria l’ultima frase del suo tango. Poi, niente più. Solo la sua presenza per sempre. Colpo a colpo, verso a verso:

289


, 7HQtD XQ JDUDEDWR HQ OD FDEH]D \ HO DQGDU WUDQTXLOR 1RV PLUDPRV GH OHMRV VLQ SRGHU KDEODU 6yOR HVD VHxD GH ´ELHQµ TXH GH WDQWR XVR WLHQH YR] ´%LHQ KHUPDQR ELHQµ GHFtD FRQ OD PXHUWH HQ ORV ODELRV %LHQ KHUPDQR ELHQ $GLyV

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,, 8Q GtD OR YLQLHURQ D EXVFDU (Q ORV DQiOLVLV KDEtD DOJR IXOHUR (PSDTXHWy WUDQTXLOR HQ OD FHOGD YHFLQD \ HQWRQy HO ´DGLyV PXFKDFKRVµ QtWLGR \ FDVL DOHJUH /R TXH VRQ ODV FRVDV 1HSR 7H IXLVWH YRV < D~Q VRPRV QXHYH

69

290


/D YLWD FRQ LO FXFFKLDLQR

FH :

Alcune notti dopo, l’11 giugno 1984, arriva l’ordine di preparare tutto per un trasferimento.

MR:

Con la giusta dose di terrore, angoscia, incertezza: movimenti di soldati, rumore di tacchi degli stivali, cigolio delle inferriate.

FH :

E questa volta non si trattava solo della coperta di lana: ci ordinarono di impacchettare tutto.

MR:

Ma quando ci ordinarono di portare anche il materasso, che non era nostro, ci rendemmo conto che – finalmente! – andavamo nelle celle... Respiriamo.

FH :

Poi sapemmo che quel trasferimento fu dovuto al fatto che Engler aveva provato a suicidarsi nel FDODER]R del settore peggiore dell’isola.

MR:

Dopo tanti anni di peripezie tra caserme, malato e ora illuso con il ritorno al 3HQDO, si scontra con l’orrore dei FDODER]RV con doppia porta e l’ordine di non comunicare, che continuava restrittivo e vigente.

FH :

Ci fecero prendere tutte le nostre cose e portarle in un solo viaggio attraversando il campo fino al “cellario”, salendo le scale fino al primo piano.

MR:

Non ci permisero nemmeno di aiutarci a vicenda. Si formò una fila indiana lunghissima e sfilacciata di ostaggi e fagotti caduti durante la notte.

FH :

Gridavano e ci mettevano fretta ma non gli davamo retta, semplicemente perché non ci riuscivamo. Cademmo diverse volte e altrettante rotolarono per il campo o giù dalle scale materassi e altri fagotti.

MR:

Alla fine arrivammo. Tutti i prigionieri stavano dentro le loro celle. Il primo piano, totalmente vuoto. Lì ci toccò andare.

FH :

Ci misero uno a uno a celle alterne, in modo che ci fossero celle vuote tra di noi.

MR:

Celle le cui finestre affacciano sul retro del carcere, in modo da non poter nemmeno vedere i compagni nell’ora d’aria.

FH :

In quest’ala del primo piano c’erano cinquanta celle. Le svuotarono per isolarci ben bene. Rimasero occupate solo otto. Anche le cinquanta dell’altra ala erano vuote.

MR:

Giorni dopo svuotarono anche le celle del secondo piano, le cui finestre 291


erano sopra le nostre. FH :

Tutti questi movimenti in un carcere sono complicati. Implicano rumori, trasferimenti di persone e di oggetti.

MR:

Tanto rumore per non farci comunicare con nessuno in nessun modo.

FH :

Zuppo di sudore, affannato, rimasi seduto sulla molla di una branda recuperata, in mezzo a una cella tipica di Libertad, sul cui pavimento rimasero a lungo a riposare le mie cose. «Ha un’ora di tempo per mettere in ordine le sue cose perché poi spegniamo la luce», mi gridarono prima di chiudere con un strepitio la porta metallica e passare con un colpo secco, come quello di uno sparo, la spranga. «Andate a quel paese» pensai, «Resto qui tranquillo, a riposare...».

MR:

E ne avevamo ben donde! Dopo un viaggio molto più lungo di quanto i soldati potessero immaginare. Esausti ma contenti. Con isolamento e tutto, soli e tutto, quel trasferimento significava una grande vittoria per noi. Proprio quella notte dell’11 giugno 1984, eravamo tornati, miracolosamente vivi, al 3HQDO GH /LEHUWDG dopo il fantasmagorico e fantastico viaggio intrapreso un’altra notte, quella del lontano settembre 1973.

FH :

Quell’alba terribile ci avevano tirato fuori dalle celle del piano superiore. Tornavamo adesso. TORNAVAMO ! Questa parola aveva, lo sappiamo, un significato vastissimo. Non solo per noi.

MR:

Ora abbiamo una finestra! Una finestra nostra! Tutto il giorno! Una finestra sul campo, una finestra sul mondo!

FH :

E gli altoparlanti che trasmettevano Gardel, e i notiziari registrati e censurati del Cx 20, che in materia di censura è quanto dire... Ma a ogni modo era qualcosa.

MR:

Improvvisamente spensero le luci e aprirono le cancellate che danno accesso al piano. Arrivò un rumore di passi e di voci: portavano compagni di un altro piano a vedere la televisione. Venivano i compagni!

FH :

Tossivano, si schiarivano la voce, erano lì!

MR:

«Fate silenzio!», ruggivano gli ufficiali.

FH :

Non ci potevamo credere!

MR:

Provai a guardare fuori la finestra, ma i riflettori e le luci al neon che sorvegliavano il carcere accecavano e non lasciavano vedere quasi niente.

FH :

Nemmeno i nostri occhi erano abituati. 292


MR:

Misi in ordine sommariamente le mie cose nella penombra della cella. Mentre la voce della televisione – un programma comico – arrivava alle mie orecchie.

FH :

Avevamo tavolo, davanzale, panca di cemento, lavandino con rubinetto dal quale usciva acqua quando volevi.

MR:

E quel trono, quel vaso che garantiva la nostra libertà di fare quello che tutti gli esseri umani fanno, quando ne hanno bisogno...

FH :

Non riuscii a dormire aspettando l’alba, per usare la finestra. Per aspettare il giorno.

MR:

Anche se il sole sorgeva dall’altro lato. Per adesso eravamo padroni solo del crepuscolo. Ci stavano restituendo la vita con il cucchiaino.

/D SULPD ILQHVWUD

FH :

Una lettera che mandai alla mia compagna descrive con le parole di allora l’esperienza di avere una finestra. Te la leggo. Dice così:

Libertad, 23 giugno 1984 Cara Graciela: è mattina presto. Fa freddo ma il giorno è sorto splendente e un sole radente si estende sotto la mia finestra fino a un orizzonte immenso. Siccome ti scrivo vicino alla finestra, posso dirti che a fianco del foglio diretto a te, dietro nient’altro che un vetro sottile, vive un cielo gigantesco, il sole, il campo, gli uccelli, e tutto ciò, come si suol dire, riposa alla portata della mia mano. Vorrei raccoglierne un pugno e mandartelo avvolto in questa lettera. La coperta di lana tutta colorata ha assunto una nuova vita da quando mi sono trasferito qui. Ai piedi della finestra illuminata sono riuscito a scoprire la completa realtà dei suoi colori che, fino a ora e da molto tempo, arrivavano ai miei occhi solo attraverso una penombra torbida e permanente. Sono giorni che la sbatto, e la sbatto ogni mattina per far uscire dalle sue trame piccolissimi trucioli, quasi segatura che si è infilata lì dentro durante gli ultimi anni in cui avevo, giusto sopra il mio letto, annidato nella trave di legno del soffitto, un popoloso formicaio. Non mi ero accorto di tutta la polvere che mese dopo mese fanno piovere le ore di un formicaio. Qui si nota, perché si vede e allora la devo sbattere sperando che con pazienza e perseveranza un giorno la coperta torni di nuovo pulita.

293


Ho avuto un’avventura che devo raccontarti. La prima alba di questo nuovo domicilio, ancora di notte, quando mi sono alzato senza occhiali, ho visto che un riflettore m’illuminava dalla finestra. Ma era molto alto e non poteva essere vero. Mi dovetti mettere gli occhiali per convincermi che era la luna e che non la riconoscevo. Era grande e grossa a causa di aloni di nuvole e umidità che la amplificavano. Rimasi a memorizzarla finché non scese sull’orizzonte, ormai giorno, davanti a me. Nelle albe successive mi trovò sempre lì, aspettandola a bocca aperta e mi misi in testa di doverti raccontare che avevo visto la luna. Ora che non c’è più a quest’ora, impegno la mia sorpresa a bere mate ripassando grazie agli occhiali la luce delle stelle. Malgrado le nuvole, altrettanto incredibili, che hanno popolato il cielo quasi tutti questi giorni, sono riuscito a pescare un numero abbastanza grande di stelle. 'HVDSDUHFLGRV

MR:

Ogni ostaggio fermo, per ore e ore davanti alla finestra. Le pupille sconvolte per aver recuperato le immagini perse, quasi fino all’oblio. Una collina con fattorie sulla cresta, un tratto di fiume torbido all’orizzonte, gente lontanissima, allegri panettieri, compagni che brandiscono la zappa in un orto... Rasati, grigi, con la fronte argentea... era difficile riconoscerli. «Chi sarà quel vecchio?». E quell’uomo magro era Rodríguez Beletti, con il quale avevamo iniziato la militanza durante l’adolescenza al liceo.

FH :

La nostra memoria li ricordava giovani perché giovani li avevamo lasciati in quel carcere l’ultima volta.

MR:

Riconoscevamo il nostro volto invecchiato nei volti degli amici. E ci furono volti che cercammo invano: il carcere stava riscuotendo i suoi tributi, e continuava a farlo. In quei giorni io dovevo andare quotidianamente in infermeria per delle applicazioni di raggi infrarossi, durante le ore in cui gli infermieri militari uscivano con i vassoi delle medicine da ripartire nei padiglioni. Lì sentii l’inventario: praticamente non c’era un prigioniero che non ricevesse psicofarmaci, prescritti in abbondanza. Il 3HQDO era un manicomio. Alcuni compagni venivano a prendere le loro pillole in infermeria. Erano i casi gravi e c’era l’ordine di controllare che ingerissero la medicina. Lì vidi i pazzi. Era faticoso per loro riconoscermi. Avevano un sorriso blando, uno sguardo neutro. Li avevano distrutti, quello che avevano era irreversibile. I colpi, le persecuzioni, il trattamento medico a base di violenza e isolamento, lo scherno, che lì riproponevano gli infermieri, li avevano trasformati in esseri senza sostanza, deboli, come se fosse stato loro estirpato lo scheletro. Si potrebbero aggiungere alla lista di compagni GHVDSDUHFLGRV... 294


FH :

... e di quelli che, giorno dopo giorno, continuano a morire. [...]

&RQGDQQDWL D PRUWH

FH :

Una volta a settimana gli altoparlanti trasmettevano un comunicato dettagliato sullo stato di salute dei compagni ricoverati nell’Ospedale Militare – preceduto da uno stacco musicale – dal *XJOLHOPR 7HOO di Rossini, che alla fine risultò per tutti i prigionieri sinistro e di mal auspicio.

MR:

Ogni volta che iniziava quella musichetta tetra, si produceva un silenzio carico di tensione.

FH :

Che non lo era di per sé, ma a causa di quello che dicevano dopo.

MR:

Una lunga lista di nomi e malattie. Lista dei condannati.

FH :

Quelli che sarebbero morti – dopo un lungo calvario – a pochi passi dalla libertà.

MR:

Suicidi, malati mentali, in una lista da incubo. Le metastasi di Nepo e di Angelito Yoldi.

FH :

Compagni di tutte le organizzazioni politiche.

MR:

Sentimmo il nome di Rosario Pietrarroia e non ci potevamo credere... Che ci fa qui? Di che lo accusano?

FH :

Non avevamo idea della quantità di militanti del Partido Comunista incarcerati a Libertad, e quando l’avemmo, non ne capivamo il perché.

MR:

Da quando? E quando venimmo a sapere il tempo: «Tanto?».

FH :

Quanto eravamo lontani dal sapere cosa era successo in tutti quegli anni!

MR:

Presto iniziammo a vedere dalla finestra o in altre occasioni, compagni disturbati, anziani, altri rinchiusi lì ingiustamente. I nostri occhi non smettevano di meravigliarsi.

FH :

I giornali radio erano praticamente tagliati. Trasmettevano solo le notizie della polizia; quelle che la “radiomobile 4” manda attraverso il Cx 20.

MR:

Eravamo al corrente di tutti gli incidenti di traffico. 295


FH :

Non capivamo il perché di tanta censura.

MR:

Lo scoprimmo presto: stava per arrivare Wilson.

´3RVVR DQFRUD IDUH TXDOFRVD SHU L PLHL FRPSDJQLµ

FH :

Gli altoparlanti iniziarono a trasmettere informazioni dopo lo sciopero generale del 27.

MR:

Dissero che la Unión Cívica, il Partido Colorado e il Frente Amplio avevano deciso d’iniziare le trattative con le Forze Armate senza il Partido Nacional.

FH :

Iniziarono le dichiarazioni del Club Navale70 e con quelle, notiziari censurati, ma un po’ più particolareggiati.

MR:

Gli eventi esterni e quelli del carcere, a ogni modo, ci confondevano, ci distraevano, erano, per noi che eravamo disabituati, di una velocità che ci superava.

FH :

Eravamo fuori allenamento e ci chiedevamo: «Come fa la gente a vivere tranquilla con tante sollecitazioni esterne? Come fa a concentrarsi? Come fa a pensare?»

MR:

Iniziammo a scoprire alcuni vantaggi della solitudine quando il mondo iniziò a irrompere, a invaderci.

FH :

Il 2 luglio, per un errore della guardia, Marenales, Zabalza, Engler e io usciamo insieme per l’ora d’aria.

MR:

Il capo e i soldati appena arrivati non avevano idea dell’assurdo sistema individuale per l’ora d’aria.

FH :

Passammo più della metà del tempo a parlare a tutta velocità per scambiarci, oltre al primo saluto diretto in un decennio, la maggior quantità possibile d’informazioni. Così riuscii a scoprire che Nepo aveva iniziato uno sciopero della fame il 30 giugno nell’Ospedale Militare. Chiedeva l’amnistia generale e illimitata, il ritorno di tutti gli esiliati e un miglioramento concreto della nostra situazione, degli ostaggi, nel 3HQDO GH /LEHUWDG.

MR:

Condannato per un cancro che non fu mai curato, Nepo iniziava, dalla sua tetra nicchia dell’Ospedale Militare, uno sciopero della fame. Non poteva 296


aspirare a niente per se stesso. Lo sapeva. Tanto che la sua frase di quei giorni è oggi – deve esserlo oggi e per tutti – la parola d’ordine che marchia a fuoco la lotta per l’unità di tutti i combattenti, WXSDPDURV e popolo, per la meta definitiva: «Posso ancora fare qualcosa per i compagni», scrisse in una lettera clandestina diretta a tutti. Se ogni nostra azione di ogni giorno fosse segnata da questo indomabile spirito di fratellanza, lo stesso che campeggia dalle pagine del Vangelo a quelle del 0DQLIHVWR, saremmo più vicini al Nuovo Patto per un futuro migliore e comune. «Posso ancora fare qualcosa per i compagni». &URFH 5RVVD

FH :

Quando salimmo nelle celle dopo quella miracolosa prima ora d’aria con la possibilità di parlare, eravamo già tutti puniti con l’ordine di ritornare all’isola. Tornammo di nuovo lì. Mentre eravamo nei FDODER]RV dell’isola, un giorno aprono la doppia porta ed entrano due civili. Uno con la barba e un altro alto e biondo. Sul petto una croce rossa. “Comitato Internazionale della Croce Rossa”, diceva in francese la coccarda che portavano. La prima cosa che mi uscì fu un’esclamazione incontenibile: «Come hanno fatto ad arrivare qui?». «Glielo spiegheremo poi», mi dissero.

MR:

Finalmente, dopo più di un decennio di trattative infruttuose, nel luglio 1984 la Croce Rossa Internazionale riuscì a vedere e parlare con gli ostaggi. Quando nella mia cella risposi alle loro domande e raccontai la nostra storia, senza esagerare, semplice semplice, quell’uomo biondo pianse. Pianse in silenzio. Ed era un uomo che aveva visitato le carceri di mezzo mondo. Mi promisero che sarebbero tornati dopo tre mesi con un omaggio: una macchina da scrivere, che effettivamente un giorno portarono, e che ancora conservo. Con quella stiamo scrivendo questo libro.

FH :

Il mio primo lungo colloquio con loro fu il 13 luglio, una volta tornato nella mia cella, dopo aver scontato la punizione nell’isola. Fu in quella occasione che riuscii a sapere dettagliatamente qualcosa sulla malattia di mia moglie, che loro avevano visto a Punta de Rieles. Dovevano venire dei medici dalla Svizzera per comunicarmelo. Ricordo anche di aver detto che se noi eravamo stati male, erano state molto male anche le nostre famiglie. Lo dimostrai con il calcolo seguente: la distanza media da Montevideo alle caserme nelle quali ci avevano detenuto durante quegli anni, era di 200 chilometri. La visita si effettuava mediamente ogni 18 giorni. Pertanto, 21 visite annuali, per 11 anni, furono 223 visite di 400 chilometri ognuna. Circa 90.000 in totale, percorsi dalle 297


nostre modeste famiglie con l’odio in corpo per portarci un pacchettino di baci, vestiti e viveri, che la maggior parte delle volte non ci facevano prendere. Due volte e rotti il giro del mondo. MR:

Altrettanto, o qualcosa in più, avevamo camminato noi nei FDODER]RV, da un angolo all’altro in diagonale, tre passi brevi-mezzo giro-tre passi brevi, con i nostri figli e andando loro incontro.

FH :

Loro erano nelle nostre camminate come noi nelle loro.

MR:

Giorni dopo quella visita della Croce Rossa, riuscimmo a riconoscere dalle nostre finestre, sorpresi, Pepe Mujica che lavorava in un orto.

FH :

Un poco al giorno.

MR:

Era un orticello abbandonato. Pepe strappò le erbacce, smosse la terra, curò alcune piante che ancora sopravvivevano e poi iniziò a piantare fiori: calendule (conosciute anche come “meraviglie”).

FH :

Era una conquista della Croce Rossa. Più tardi Pepe mi raccontò che lui preferiva lavorare lì, come tutta la vita, con i fiori, invece di camminare nell’assurda ora d’aria che ci davano.

MR:

Un pomeriggio dopo l’altro vedemmo come Pepe si riprendeva lentamente, allo stesso ritmo del suo orticello.

FH :

Calcolavamo la forza con cui zappava.

MR:

L’altra conquista della Croce Rossa fu che ci permisero di avere un avvocato.

FH :

È vero! E ce lo fecero perfino scegliere.

MR:

Sissignore, uno ciascuno, anche se ci riusciva difficile crederci.

FH :

E un’altra: che i medici ci assistessero. Mi visitò di nuovo l’oculista. Continuavo a perdere la vista. Gli occhiali mi duravano sempre di meno. Il medico assegnato venne, mi guardò il fondo degli occhi, mi misurò la pressione, non mi disse il risultato, mi fece leggere da lontano le famose lettere appese al muro, mi prescrisse occhiali nuovi e poi: «Sarebbe meglio che lei controllasse la pressione degli occhi, sa?», mi disse. Niente più.

MR:

Già sapeva che avevi il glaucoma?

FH :

Doveva aver visto la lesione, perché quando recuperai la libertà, me lo disse il primo oculista civile che guardò il fondo dei miei occhi. E mi chiese se mi avevano mai detto qualcosa.

298


MR:

L’immagine della violenza, Ñato, è generalmente quella del soldato che porta lo stendardo. Ma ce ne sono altre più sottili, per le quali c’è bisogno di un certo livello scientifico. E nell’esercito uruguayano, con marce prussiane e portamento impettito, Mengele tenne lezioni e fece scuola.

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FH :

Violenze che nel mese di agosto ottengono grossi risultati: muoiono Jorge Leivas, poi Angelito Yoldi, e un po’ prima Félix Nieto.

MR:

Abbiamo una lettera di Nepo mandata clandestinamente dall’Ospedale Militare, nella quale si riferisce a questi e altri argomenti. Dice così:

Compagne, Salve! Come state? Io bene. Una cattiva notizia che spiega quelle date dagli altoparlanti. Yuyo Leiva, che alcuni mesi fa era qui, fu portato a La Española per fargli una coronografia e da quello che si diceva fuori, il risultato fu tale che gli specialisti comunicarono ai soldati che non lo potevano muovere di lì perché la situazione delle coronarie era critica. Non diedero peso alla faccenda, lo portarono qui e dopo poche ore era al Pronto Soccorso. Credo che morì nel pomeriggio. Era grave. Da pochi giorni è scomparso anche Pocholo Nieto, WXSDPDUR liberato sei mesi fa. Una cosa dopo l’altra e la rabbia della gente cresce. Poi c’è anche il caso di Yoldi, il cui stato di salute continua stabile o in peggioramento. Per quanto riguarda la mia situazione: quando intrapresi la protesta, lanciai come parola d’ordine “Amnistia Generale e Illimitata per Tutti i Prigionieri Politici e il Ritorno Libero di Tutti gli Esiliati”; poteva essere considerata una condizione, ma io non l’ho mai considerata tale, non volevo imbrigliarmi ma mantenere margini di manovra per radicalizzarla o lasciarla cadere a seconda dello sviluppo degli eventi, giacché in nessun momento ho immaginato uno scontro come mezzo individuale, ma semplicemente come un primo passo per la mobilitazione. Se fosse stata scelta come bandiera dal popolo, sarebbe stata la sua mobilitazione, e unicamente quella a poter ottenere questi obiettivi, strappandoli totalmente o parzialmente alla dittatura. La risposta popolare fu molto ampia, tanto qui come fuori, e il PUNTO DEI PRIGIONIERI POLITICI SMISE DI ESSERE UN ELEMENTO IMPORTANTE MA MARGINALE PER DIVENTARE UNO DEI PUNTI CENTRALI in

qualsiasi programma di trattative, cosa che era il mio primo obiettivo. Con gli esiliati succede qualcosa di simile. A partire da lì iniziarono ad accavallarsi una serie di eventi che sfuggirono alle mie previsioni, tanto per quel che riguarda la rapida liberazione di un buon numero di prigionieri (vedremo quanti) come per quel che riguarda il ritorno degli esiliati. Tutto questo, inquadrato nel contesto più ampio dei negoziati in cui la conquista degli obiettivi previsti dai partiti politici è stata praticamente totale, anche se alcuni punti (ad esempio la revoca della proscrizione ai vari partiti, Pc71; 299


Pvp72; 26 Marzo73, etc) rimandati a dopo il 25/ 11. Nei fatti già sono scesi da cavallo e già hanno proclamato l’Atto n. 19 dalla cui bozza è stata cancellata la proibizione di una Legge di Amnistia. In questo contesto seguire la protesta non aveva senso e me ne convinsi quasi una settimana fa. La sospesi il 1°agosto con un comunicato ai miei familiari in cui dichiaravo chiaramente che avevo previsto di essere più radicale (digiuno totale), chiedendo la cessazione delle persecuzioni agli ostaggi e la libertà dei compagni gravi dalla cui lista mi escludevo se questo poteva costituire un ostacolo per l’uscita degli altri. Da quello che mi dissero in una visita, la gente aveva capito il mio atteggiamento, quello di smettere di essere un focolaio marginale di agitazione quando tutto il clima della Nazione tendeva ad incentrarsi sulla trattativa in cui il tema dei prigionieri aveva acquisito collocazione e dimensione reale in un nucleo di problemi ai quali bisognava trovare una soluzione. E resto qui. La sorveglianza non è diminuita ma comincia ad ammorbidirsi.

FH :

Il 3 agosto si firma il Patto del Club Navale e inizia la campagna elettorale. Nepo interrompe il suo sciopero della fame. Fino a lui è arrivato il grido delle manifestazioni che sfilano davanti all’ospedale: «Wasem escucha, tu lucha es nuestra lucha!».74

MR:

Le compagne di Punta de Rieles ricoverate nell’Ospedale Militare, riescono, come abbiamo visto, a interrompere l’isolamento comunicativo di Nepo.

FH :

Per farlo corrono alti rischi e mettono in gioco tutto il loro ingegno, la loro pazienza, la loro tenacia, il loro coraggio.

MR:

Trovano dal loro carcere il modo per approfittare di ogni trasferimento all’ospedale, di ogni ricovero, per creare il percorso segreto che arriva fino a Nepo. Un lungo cammino pieno di cameratismo.

FH :

Loro gli portano il loro saluto a nome di tutti. Il loro respiro.

MR:

Lui consegna a loro messaggi, che oggi sono reliquie.

FH :

Che loro raccolgono, nascondono, difendono, si portano fin dentro il carcere e un giorno porteranno per strada.

MR:

Lotta e scrittura. La scrittura minuta di Wasem. [...]

300


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27/ 8/ 84 Compagne, salve! Come procede? Spero bene. Io qui, pensando che forse posso dare un contributo raccontando cosa sono stati i miei ultimi due anni a Durazno, tenendo conto del dettaglio che ero in pieno trattamento della mia malattia e che mi comparvero le prime metastasi sul collo – alla fine di maggio dell’83 – durante la mia permanenza in quella unità. E cioè, che sono sempre stato un convalescente di una malattia grave che in qualsiasi momento avrebbe potuto sfociare in quello che è attualmente il mio stato, situazione di cui era a piena conoscenza il Comando di questa caserma: il Reggimento di Cavalleria Blindato 2 “Pablo Galarza”. Fui trasferito lì nell’aprile dell’82. Il comandante dell’unità, tenente colonnello Conti, mi ricevette in persona insieme al 2° capo, il maggiore Álvarez – nipote del presidente – e al tenente Mangini. Dopo aver avuto una chiacchierata molto corretta, nella quale s’interessò dettagliatamente al mio stato di salute, improvvisamente cambiò tono e, per la prima volta in tutti questi anni, mi comunicò ufficialmente le condizioni della nostra detenzione: «Non si confonda. Lei non ha nessun diritto ed è totalmente alla mercè della discrezionalità dei miei ordini. Se le cose funzionassero al contrario, non le avremmo spiegate. Così che, quindi, lei deve ringraziare perfino di essere vivo. Di conseguenza ogni ordine che io impartisco per quanto la riguarda, lo deve considerare una concessione, che può essere revocata in qualsiasi momento lo decida io. È chiaro?». Gli risposi di sì, cosa che non implicava che io accettassi questo modo di agire. Perché io avevo dei diritti che dovevano essere rispettati, indipendentemente dalla sua presunta volontà onnipotente (lì, quando disse che dovevamo ringraziare di essere vivi, ebbe il coraggio di affermare che era dovuto al fatto che vivevamo in una democrazia). Nel nostro ultimo colloquio, un paio di mesi prima di andare al 3HQDO, si tolse totalmente la maschera: nel pieno di una discussione molto “urbana” ma molto violenta, gli sfuggì: «Sì, in realtà con voi avremmo dovuto farci sapone». Il tenente Mangini era ufficiale della S2, ovvero il responsabile generale di tutto quello che mi riguardava. L’alloggio era un FDODER]R ampio – di 3x3 – il più grande tra quelli in cui vissi in quegli anni e aveva una serie di comodità insolite: un tavolo di formica e una sedia. I contro erano quelli che aveva in comune con quasi tutti gli altri luoghi: l’umidità, incominciava a pioverci dentro e un quarto della superficie si allagava con qualsiasi acquazzone, la ventilazione era pessima. Il giorno dopo il mio arrivo, vennero a comunicarmi per iscritto che sarei stato portato in bagno due volte al giorno – alle 6,30 e alle 14 – e che avrei avuto un’ora d’aria al giorno; che nell’ora d’aria del venerdì (e del martedì) avrei potuto farmi il bagno con l’acqua calda e lavare i vestiti; il tempo che avanzava mi avrebbero portato all’ora d’aria. Ovviamente avrei dovuto espletare le mie necessità in un secchio, nella cella, secchio che avrei portato a svuotare in ogni andata al bagno. Tutto sembrava perfetto e, in un certo senso, a parte la solitudine, addirittura migliore di Paso de los Toros: il cibo era migliore, mi portavano l’acqua per il mate due volte al giorno, le cure mediche erano 301


molto migliori e i trasferimenti all’ospedale li effettuavano nell’ambulanza del carcere, cosa che non avevo mai immaginato che potesse succedere. L’idillio terminò il primo venerdì: mi portarono in bagno, mi fecero insaponare il corpo e i vestiti e improvvisamente mi comunicarono che il bagno era terminato – già l’ordine dell’ora d’aria era stato rispettato molto saltuariamente nei giorni precedenti –. Ovviamente, primo casino. Finché ci fu Mangini non mi mancò mai né da leggere né lettere: mi consegnavano il pacchetto poco dopo aver terminato la visita insieme all’elenco fatto dai miei familiari (nessun pedaggio da parte della S2 come a Flores e a Colonia). Quindi: il riassunto statistico stabilisce che in totale sono uscito, mediamente, sei volte al mese per l’ora d’aria, sommandole tutte, un’ora e mezzo al mese. Il massimo fu quando s’incaricò dell’ufficio della S2 il tenente in seconda Albornoz nel giugno dell’82, il quale, a parte che mi consegnò solo un libro al mese, bocciò l’arrivo e l’uscita di lettere, mi fece uscire una volta a giugno per cinque minuti, una volta a luglio dieci minuti e una ad agosto cinque minuti. Erano già venti giorni del mese di settembre che non uscivo quando decisi di creare uno scandalo che arrivasse al capo. La questione era molto grave perché non mi portavano nemmeno in bagno: per quasi cento volte stetti senza andare al bagno tra le quaranta e le settanta ore, sopportando le emanazioni tossiche del secchio mentre la materia fecale fermentava, e vivendo in mezzo a un’aria così viziata e un odore tanto nauseante che mi provocavano malesseri permanenti allo stomaco che m’impedivano di mangiare o mi provocavano vomito; a parte ciò, il secchio si riempiva e dovevo usare diversi recipienti: bacinelle dove lavavo i piatti. In un determinato momento mi vidi costretto a defecare nel piatto in cui mangiavo, perché se l’avessi fatto a terra, avrei dovuto sopportarne permanentemente l’odore – come mi successe a Colonia, dove per mesi obbligarono Révori e me a pisciare a terra nel FDODER]R. Quando non uscivo per l’ora d’aria, o uscivo per cinque, dieci o venti minuti, il FDODER]R continuava ad avere permanentemente un’aria viziata. L’odore che usciva dai recipienti era tale che diverse volte i soldati dovevano chiedere il cambio della guardia in anticipo perché si era rivoltato loro lo stomaco, e loro stavano all’aria aperta... Un altro indice statistico dice che durante il primo anno presi due ore di sole, il resto delle ore d’aria me le concedevano all’ombra. I soprusi degli ufficiali subalterni furono sporadici, come le provocazioni messe in atto dai tenenti in seconda, specialmente Barrios e Albornoz. Indipendentemente dal fatto che il Comando conosceva a fondo le irregolarità, è evidente che tenessero tutto sotto controllo. L’igiene era pessima. Se fosse dipeso da loro per mesi mi sarei fatto il bagno una volta ogni venti giorni, ma siccome facevo ginnastica quotidianamente o quasi (senza grande fanatismo o masochismo) m’inventai una pioggia come il flauto di Bartolo – con un buco solo nel coperchio del recipiente di plastica di detergenti e deodoranti – e in questo modo mi mantenni più o meno decentemente, lavandomi quasi ogni giorno. Qualsiasi trasferimento fuori dal recinto avveniva con manette e cappuccio. L’ordine alle guardie era di avere un colpo in canna senza la sicura. Ancora non capisco come sono vivo dato che in condizioni simili è molto facile che si verifichi un incidente, e parta un colpo. Due volte mi sono salvato per miracolo: una a Durazno, nel ’76, in cui partì un colpo dalla carabina di un soldato che fino a un secondo prima mi stava puntando addosso l’arma. Un’altra a Colonia, quando all’attuale sergente 302


Chavaza – un tipo niente male – che allora era capo, scappò una mitragliata dalla Thompson 45 a tre metri da me. Ancora non mi spiego come mi funzionarono i riflessi e uscii dalla linea del bersaglio. Nel muro, nella linea in cui io era fermo, rimasero i segni di due buchi così... Bene: sei mesi prima del trasferimento al 3HQDO, si vede che arrivò l’ordine dall’alto di allentare la presa e migliorare il trattamento. Iniziai ad avere dieci, quindici e perfino venti ore d’aria al mese, finirono le manette fuse con i polsi e le spinte. Andavo al bagno almeno una volta al giorno e l’igiene migliorò un poco. Se ne incaricò il tenente Gómez della S2. Non bloccavano più né lettere né libri, anche se erano quasi sei mesi che non ricevevo più lettere da Sonia, né lei da me, ma era un problema di Punta de Rieles. A questo vi riferite quando parlate di testimonianze, di dettagli o di aneddoti, o vi ho frainteso? Astraendomi da me stesso, assegno a queste cose una grande importanza come testimonianza, tenendo conto dello stato di salute della persona sottoposta a questi trattamenti. Ma Bebe lo tennero, lo tengono, da dieci anni con un’ernia inguinale; Manera da più di un anno con un calcolo nella vescica (in entrambi i casi senza preoccuparsi di niente); il tedesco Engler nove anni con la testa alterata e quasi senza mangiare. Alla fine, il mio caso non sfugge alla linea generale. Con noi avrebbero dovuto farci sapone... ,O YHFFKLR FRQWDGLQR

MR:

Subito dopo la firma del Patto del Club Navale, praticamente iniziarono a verificarsi numerose liberazioni.

FH :

Per la prima volta nella tenebrosa storia del 3HQDO, ogni settimana venivano messi in libertà molti compagni.

MR:

Ma eravamo tanti, e nonostante il Club Navale, erano così poche le liberazioni, che quello sprazzo, quel filino di liberazioni, non riusciva a rendere evidente lo svuotamento dell’enorme carcere.

FH :

Noi iniziamo a vedere quel processo dal luogo dell’ora d’aria.

MR:

Perché l’orario della nostra camminata, poco dopo mezzogiorno, coincideva con quello delle liberazioni.

FH :

Giorni prima, il candidato per la liberazione era trasferito con tutte le sue cose all’isola.

MR:

E si creava un contrasto: l’isola, nella quale erano approdati tante volte per scontare lunghe punizioni, era il luogo al quale quei compagni andavano, contenti, in attesa della liberazione. 303


FH :

Ce ne accorgevamo dal sorriso, dalla quantità di cose che il prigioniero portava, se si trattava di un punito o un liberato.

MR:

Il giorno stesso della liberazione, durante la nostra ora d’aria, la famiglia, avvisata, si avvicinava al recinto del 3HQDO portando una borsa con vestiti “civili”.

FH :

Dal luogo dell’ora d’aria vedevamo i piccoli gruppi familiari e i veicoli privati in attesa.

MR:

Un capo, quasi sempre lo stesso, andava per la strada interna, fino all’isola, e portava quei benauguranti pacchetti con i vestiti.

FH :

Poi passava per la direzione opposta portando, la maggior parte delle volte nel “rimorchio” agganciato a una jeep, le proprietà dei liberati.

MR:

Borse numerate, chitarre, utensili, telai, pezzi di legno per sostituire le molle saltate delle brande. Cose che trascinarono insieme ai prigionieri per FDODER]RV, locali delle torture, caserme, carceri di tutta la Nazione... Per anni.

FH :

Poi l’ufficiale con i documenti andava verso l’isola. I documenti fraudolenti della cosiddetta “giustizia militare”. Pedanteria della burocrazia.

MR:

Che i prigionieri dovevano firmare prima di andarsene, includendo la dichiarazione di aver ricevuto un magnifico trattamento.

FH :

Non sapevamo se era uno scherzo di cattivo gusto o un’ostentazione d’incommensurabile stupidità. Pensavano realmente che un giorno qualcuno avrebbe creduto a quelle carte ammuffite? Era possibile tanta stupidità?

MR:

Poi si vestivano da “persone”, lasciando da parte per sempre quelle eroiche uniformi.

FH :

E allora ogni giorno, dal lunedì al venerdì, tre o quattro compagni percorrevano da civili in fila indiana, con le mani dietro la schiena, custoditi gelosamente dal personale della truppa e qualche cane, per l’ultima volta il percorso all’interno del 3HQDO, dietro i campetti, il più lontano possibile dal “cellario”, perché gli altri non li vedessero troppo da vicino.

MR:

Nel comando, con i documenti in mano, l’ufficiale vigilava sui “pisciasotto”, i soldati e i cani.

FH :

Quella fila passava vicino a noi, che a quell’ora eravamo ognuno in un campetto.

MR:

Quasi tutti, nonostante i divieti, ci salutavano in un modo o nell’altro. 304


FH :

Saluti appena accennati ma eloquenti. Sorrisi che parlavano da soli.

MR:

L’ufficiale e i soldati scrutavano i gesti più impercettibili, e diverse volte fecero tornare indietro la fila, applicando l’ultima sanzione.

FH :

Dal “cellario”, come quel giorno in cui uscimmo per la prima volta per l’ora d’aria nei campetti, arrivava il picchiettio dei compagni che si dicevano da una cella all’altra: «Se ne vanno...!»

MR:

«Se ne vanno»... verso la strada, verso la vita... Verso la lotta.

FH :

Sicuri che nonostante quello che avevano subito, avrebbero rafforzato le colonne in marcia del nostro popolo.

MR:

Proprio perciò, un mese prima delle elezioni quel filino di libertà era stato interrotto. Per non favorire troppo le forze popolari.

FH :

Uno di quei pomeriggi ci portarono all’ora d’aria ordinandoci di camminare da qui a lì, uno a uno, in una strada interna, poiché, siccome aveva piovuto, i campetti e il terreno intorno erano allagati e infangati. Si produsse tutto quel processo ormai di routine che abbiamo già descritto, ma quella volta vidi uscire dall’isola diretto verso la libertà un anziano, talmente tanto anziano che i miei occhi non ci potevano credere. Non poteva quasi camminare. Un passettino dopo l’altro veniva dall’isola e sarebbe passato in mezzo a noi. Ci mise lunghissimi minuti per percorrere quel tratto finale del suo calvario sotto le finestre dei compagni muti, circondato da soldati che lo sorvegliavano strettamente, seguito da un ufficiale impaziente che aveva già rinunciato a gridargli ordini secchi per mettergli fretta – era inutile gridare ordini contro la vita – e batteva nervosamente i documenti contro le sue gambe, assai infastidito. Attraverso gli occhiali già inutili, e attraverso gli ostinati lacrimoni, riuscii a vedere, senza smettere di camminare, che il vecchietto portava un paio di scarpe e una ERPEDFKD75 da contadino, vecchia e pulita. I vestiti che gli aveva portato la famiglia. Quando passò di fronte a me lentamente, decisi che valeva la pena di tornare un’altra volta ai FDODER]RV dell’isola: immaginai tutto quello che quel compagno doveva aver passato e mi ribellai, semplicemente, fermandomi e togliendomi il cappello davanti a tanta dignità. Pensai che quell’anziano rappresentava l’indole e la figura di tutto il popolo uruguaiano. Incredibilmente, quella volta, si dimenticarono di punirmi. Avevano già abbastanza da fare con il vecchietto. Quello stesso popolo uruguaiano, non so come, dopo quella mia lettera in cui raccontavo la prima volta che vidi la televisione a colori e che era passata di mano in mano, mi fece arrivare qualcosa, in un pacchetto, a mo’ di messaggio solidale. Lo raccontavo in una lettera che mandai a mia figlia in quel frangente. 305


&RQ LO JLDOOR H QHUR VXO SHWWR

LIBERTAD , 18 AGOSTO

1984

Gabrielita del mio cuore, ti racconto cosa successe quando ricevetti il pacchetto che mi portasti durante la scorsa visita. Aprii la busta; quella in cui per più di quattordici anni mi è arrivato, chissà a volte come, il lungo e caloroso monticello d’amore, che per ogni prigioniero è un filo che ricongiunge alla vita, agli affetti, alla fede... e al mondo; quella che porta, percorrendo lunghe distanze, l’indimenticabile odore di casa, che solo noi riconosciamo: la aprii, e allora, tra il mate e delle gallette, vidi qualcosa simile a un nido. Né le mie dita né i miei occhi riuscirono a crederci quando distesero quel nido, giallo e nero, e videro che si trasformò in una maglietta del Peñarol. E che maglietta! Proprio del Peñarol; di seta; con un numero enorme e bellissimo dietro la schiena e un logo in francese. Rimase qui, con me, nella stessa cella, riposando tranquilla sulla branda e guardandomi a bocca aperta, forse come uno sconosciuto. Come ci sarà arrivata?, mi chiesi. Come ci sarò arrivata? Si sarà chiesta lei. Come è avvenuto questo miracolo? Chi aveva letto così bene nei miei pensieri? La penultima birichinata di un uomo che sta diventando vecchio. E mi assalì l’infanzia. Molto tempo fa irruppe nella mia solitudine la vecchia foto della Nazionale protagonista di una tenera storia nella vita della nostra terra. Lì, insieme a uomini che emozionano ancora chi adesso ha i capelli bianchi, c’erano, intrufolati, diversi bambini di quelli che scendevano – e speriamo che continuino a farlo! – nel campo dello Stadio del Centenario per, tra le altre cose, uscire nelle foto, uscire sui giornali. Scarpe rotte, toppe, vestiti grandi, o piccoli... e delle risate enormi che, con loro, rivivevano nelle foto dei vecchi giornali... I bambini della foto avranno oggi più o meno la mia età e anche io come loro a volte realizzai il mio sogno e scesi nel campo per vedere da vicino il Peñarol, sentire la sua voce, parlare con lui, sentire il suo odore di pomate, calciare la palla, passargliela, pestare quell’erba, toccare la sua maglietta... Toccarla! Poi rimanevamo tranquilli come restano i bambini che non sanno ancora chiedere e se la fanno ancora sotto. Perché non ci cacciassero. E non ci cacciavano. Se fosse stato solo per i sogni e i canti a bassa voce di un mezzo pazzo come me, quello stesso pomeriggio in cui arrivò il pacchetto con il nido, il campetto desolato di qui si sarebbe popolato con altri piedi e altri petti, giovani, di chi non diventò vecchio sul campo e di quelli per i quali fu solamente questo: un campo di calcio. Almeno tra tutti i sogni che mi ribollivano dentro nel rincorrere la palla, c’era qualcosa di concreto, reale, tangibile e che tutti potevano vedere: una maglietta originale, proprio del Peñarol, la penultima birichinata di un uomo che sta diventando vecchio. Grazie mille.

MR:

Ti vedemmo tutti quel pomeriggio, magro, nei pantaloncini troppo lunghi, correndo da solo per il campetto dietro la palla, con un fior di maglietta del Peñarol, con il numero 18 che brillava dietro la schiena. Era una scena da manicomio.

306


E quel contadino, davanti al quale ti sei tolto il cappello, quell’uomo, e uomini come lui, sono i nostri &KXUULQFKHV76 della montagna. Le mie lettere di quei giorni comprendevano racconti brevi e innocenti, che sublimavano le esperienze di vita che nel linguaggio diretto non potevamo – causa censura – trasmettere. Da lì /DV OH\HQGDV GHO $EXHOR GH OD 7DUGH che, mese dopo mese, lettera dopo lettera, continuavo a far arrivare a mia figlia.

/HJJHQGD GHO &KXUULQFKH

MR:

«Questa fiamma rossa che brilla da un albero all’altro e viene qui per posarsi in questa mano, dove berrà sorsi d’acqua che le conservo nella conca del mio palmo, è un uccellino che nacque dal Fuoco. Si chiama &KXUULQFKH». Fece una pausa nel suo racconto al vento l’$EXHOR GH OD WDUGH, mentre la fiamma, senza bruciarlo, piegava le sue ali e si posava sul pollice. Negli occhi del passerotto brillavano le scintille della sete. Le piume gli davano calore e il suo palato chiedeva acqua che un pomeriggio dopo l’altro il Nonno gli offriva. Bevve piccoli sorsi con gusto e senza fretta; e dopo aver sospirato un canto dolce, mantenne un silenzio rispettoso, perché il Nonno parlava:

C’era un tempo in cui l’aria non era turbata da nessun volo. Gli uccellini non erano ancora apparsi sulla Terra. Gli uomini contemplavano con tristezza quello spazio vuoto e con tristezza ascoltavano il silenzio dell’alba. Durante la notte si rallegravano seduti intorno al fuoco, dove crepitavano i tronchi e le fiamme si perdevano nell’oscurità, come petali ardenti azzurri, arancioni e gialli. Fu così grande il desiderio di quegli uomini che l’aria del giorno si riempisse di canti e voli, che il Fuoco che adoravano, una notte di Luna Rossa, sbadigliò uno stormo miracoloso, che come foglie in un turbinio di venti volteggiarono sul Fuoco Primigenio, scuotendo le profondità della notte con la loro luce. Furono prima un gomitolo fiammante, poi splendide rose infuocate: era il cuore del fuoco che spiegava le sue ali. Un pugno di piume incandescenti di gorgheggi crepitanti e volo di lampi accecanti. Gli Uomini si rallegrarono con la nascita degli uccelli. All’alba ascoltarono i loro canti e videro come le stelle scarlatte disegnavano i cieli. Così nacque il &KXUULQFKHV per l’allegria delle mattine. 307


Ma i suoi primi giorni non furono facili. Quando l’uccello cercò di fare il suo nido, non ci riuscì, perché la paglia si bruciava al minimo contatto con il suo corpicino incandescente. E gli Uomini lo videro. Allora, siccome l’Uccellino dava calore e luce, decisero di rinchiuderlo per creare lampioni o perfino fornelli su cui cuocere il pane. E l’Uccellino fu perseguitato. Per non far notare la sua presenza smise di cantare, e si rifugiò nelle saline. Lì le Maghe del Mare coprirono le sue fiamme con cristalli tiepidi. Allora poté tornare sulle montagne, da cui esce poco, e costruire il suo nido senza il rischio di dare fuoco alle pagliuzze. Ma raccontano che nelle notti di Luna Rossa, quando i fuochi si spengono, nelle profondità della radura i &KXUULQFKHV si accendono con piccole fiammelle, conservando il segreto del loro fuoco nascosto.

,O UH LQFRQWUR FRQ OD SDUROD

MR:

Il 14 settembre del 1984 di notte ci danno un avviso. Si tratta di un evento favoloso: il giorno seguente due ostaggi potranno stare nella stessa cella.

FH :

Arrivò il capo del notizia.

MR:

Avremmo potuto parlare. Le Forze Armate con una solenne decisione, facendo sfoggio di tutta la loro magnificenza, ci autorizzavano a parlare. Ci restituivano la voce, la compagnia, la possibilità di comunicazione.

FH :

Per adesso esclusivamente con un altro compagno nelle stesse condizioni, ma a ogni modo la loro generosità era evidente...

MR:

... solo con un altro, sì, ma che te ne pare? per più di un decennio avevano messo tutto l’impegno, il coraggio, le armi, i mezzi, le infrastrutture, i piani, l’intelligenza, le loro squisite conoscenze professionali, quelle di tutto un esercito, a servizio dell’obiettivo supremo, ovvero che non parlassimo mai con nessuno e, quella notte storica, ci vengono a dire che ora possiamo...

3HQDO

in persona, cella per cella, a dare la colossale

Dopo la notizia, così surreale, così fantastica, rimasi intontito... un cambiamento così importante nella mia vita si poteva realizzare così semplicemente! Così, niente di più, una notte qualsiasi, con parole prosaiche sullo stile di quelle che usa la maggior parte delle persone per qualsiasi altra cosa... 308


FH :

Poco prima di mezzogiorno del 15 si produsse questo trasferimento epocale. Il re-incontro con il compagno... E con la parola. Anni interi a parlare con noi stessi senza proferirne una, o parlando ad alta voce da soli come pazzi. A partire da quella notte, a partire dal momento della notizia, per una settimana quasi non riuscimmo a dormire; anzi, di più: non avevamo voglia di dormire. Il corpo sopportava tutto, fresco come una rosa. Parlando parlando, senza riuscire a smettere fino a diventare rauchi... [...]

6HQGLF =DEDO]D H 0DUHQDOHV

MR:

In quei giorni anche Marenales mi raccontò l’odissea che avevano vissuto loro tre. La sua esperienza personale, i suoi giri da una caserma all’altra della Divisione 2 dell’Esercito e la sua permanenza di quasi cinque anni in quei FDODER]RV di Paso de los Toros, gli stessi che poi occupammo noi.

FH :

Nella Divisione 2 si usavano per la reclusione degli ostaggi le caserme di Colonia, Durazno e Flores; ogni tanto San José.

MR:

Colonia, la caserma con la sua prigione sotterranea di 1 metro e 70 d’altezza, di cemento, ermetica, in un magazzino...

FH :

La caserma delle “gabbie”, di 80 centimetri di larghezza e 2 metri d’altezza, senza porta, sempre dentro un magazzino, dove i prigionieri dovevano rimanere mesi e mesi con la benda sugli occhi, seduti di spalle alla “porta”.

MR:

La caserma dei FDODER]RV senz’aria costruiti in un seminterrato, con una sola finestrella nel corridoio, dove una volta Nepo butta a terra un custode, riesce ad aprire la cella di Révori e in un atto di audacia e coraggio saltano dalla finestrella stretta e iniziano a correre attraversando la Piazza d’Armi dove la truppa già allertata dà il via a una sparatoria che mette fine al disperato tentativo di fuga.

FH :

Durazno, con il deposito trasformato in prigione sotterranea.

MR:

Era un deposito antico ed enorme; quadrato, 8 per 15 e circa 6 metri d’altezza. Sostenuto da colonne e arcate, diviso in reparti in cui erano alloggiati i prigionieri; ventilato solo dalla finestrella che affacciava sulla piccola scala all’aperto dove montavano la guardia i soldati. In quel deposito li tennero isolati per la maggior parte del tempo, anche se a volte s’incrociavano con altri compagni, viaggiatori dell’inferno.

309


FH :

A Durazno c’erano altri FDODER]RV, anche quelli usati per gli ostaggi, di 2 metri e 50 per 3, tetto basso – circa 2 metri – con le tegole che lasciavano davvero poco spazio per la ventilazione, che diventavano veri e propri forni in estate. Lì si svolgevano le ore d’aria e le visite con fucile spianato.

MR:

E, tuttavia, con il solito comunicato ricopiato e pronto per essere riempito: «Nel caso in cui il sedizioso (tal dei tali) avesse tentato la fuga...».

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FH :

A Trinidad, dove i FDODER]RV erano di 2 per 2, c’era il giovane tenente Queirolo, nipote del comandante dell’Esercito. Aveva una mentalità molto particolare. Ad esempio, quando ci fu il Plebiscito, uscì tutto appiccicoso dal FDODER]R dell’unico prigioniero che stava lì, Zabalza, lasciando ben in vista manifesti in cui si faceva propaganda contro il NO . I soldati si divertirono tantissimo.

MR:

Specialmente quando ordinò di portarlo all’ora d’aria ammanettato e con catene alle caviglie. Una catena doppia con il catenaccio di un portone.

FH :

Zabalza aveva i segni...

MR:

Doveva andare così in bagno e doveva anche lavarsi in quelle condizioni.

FH :

Il giorno del Plebiscito tennero gli altoparlanti della caserma accesi tutto il giorno, dando per scontato i festeggiamenti. Perciò il detenuto riuscì a tenersi informato quasi minuto per minuto del risultato, finché non li spensero quando il NO iniziò a vincere – nonostante quello che dicevano i manifesti appesi nel suo FDODER]R.

MR:

Zabalza, Marenales, Sendic stettero prima nella Divisione 2, poi a Paso del los Toros, poi di nuovo nella Divisione 2 e il 16 aprile del 1982 furono portati a Treinta y Tres nella Divisione 4, negli stessi FDODER]RV che noi avevamo lasciato vuoti. In quella divisione fecero il loro pellegrinaggio passando per Rocha, Minas e Laguna del Sauce, fino a essere trasferiti l’11 aprile del 1984 all’isola del 3HQDO GH /LEHUWDG.

FH :

I tre contrassero, durante questo periodo, diverse malattie, la maggior parte delle quali croniche. Zabalza ai polmoni. Marenales al fegato e ai polmoni. Raúl un’ernia, prodotto delle sue lotte, i colpi ricevuti a mani nude o con il calcio di una pistola in diverse caserme. Oltre alla ferita sulla testa, che stava ancora curando... Mai curata a dovere. 310


MR:

A Durazno si azzuffò a terra con il maggiore dell’Unità mentre diversi tenenti e soldati cercavano di dividerli.

FH :

Aveva distrutto a calci diverse porte dell’esercito nazionale. Al punto che quando Zabalza, da solo, arrivava in un FDODER]R della Divisione 2 – mi raccontava lui stesso – sapeva se Bebe era stato lì per lo stato a volte disastroso a volte eccessivamente rinforzato della porta.

MR:

Anche se una volta – me lo raccontò Raúl tempo dopo – a Minas riuscì, dopo molta fatica, a rompere a calci le assi della porta con una sfortuna tale che nel calcio finale la gamba restò, con tutto il resto, fuori, e perse la scarpa che le Forze Congiunte non gli restituirono.

FH :

Rimase scalzo.

MR:

Anche Julio arrivò alle mani a Colonia e organizzò diversi scioperi della fame.

FH :

Ma il migliore fu l’ultimo che iniziarono...

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MR:

Sembra che tutto fosse iniziato in occasione di un trasferimento, di quelli di routine, nel luglio del 1982 a Minas. Appena arrivarono, e senza dire nemmeno “buongiorno”, li portarono a bastonate trascinandoli fino al terrazzo (dove davano “il resto”) con la scusa di un’ora d’aria.

FH :

Si vede che volevano divertirsi o infliggere una sessione di “rodaggio” ai nuovi arrivati.

MR:

Poco dopo, con la scusa di andare a prendere qualcosa, ripeterono l’operazione. Ma si scontrarono con la resistenza violenta di Sendic, che cominciò, appena lo slegarono, una lotta senza speranza. Mentre un’orda di ufficiali gli si scagliava contro (stivalate sul collo, tenenti a cavalcioni su di lui, colpi con il calcio della pistola, con il manganello), Zabalza e Marenales, chiusi nelle loro celle, iniziarono una meticolosa opera di distruzione come unico gesto possibile di solidarietà: lampadine, vetri che trovarono a portata di mano, e poi le porte: le prime cose che volarono furono le cerniere delle finestrelle dalle quali facevano passare il cibo. Così riuscirono a vedere quello che succedeva fuori.

FH :

Zabalza raccontava che era talmente tanto numerosa la montagna di militari ammonticchiata su Sendic che di lui si vedevano solo due piedi 311


scalzi sui quali un ufficiale, che non riusciva a colpire da altre parti Bebe, si concentrava a colpirgli le piante... Era l’unica parte rimasta disponibile. MR:

Poco dopo li trasferiscono stranamente a Colonia fino al giorno stesso delle elezioni del novembre dell’82, data in cui li riportano a Minas.

FH :

Allora Marenales dichiara... “Sciopero della barba!” Non si sarebbe raso fino al conseguimento della seguente piattaforma rivendicativa: – Incontro con l’avvocato. – Consegna dei libri che portano i familiari e che restano impilati nella S2. – Luce spenta almeno per dormire, quella stessa che rimaneva accesa tutte le 24 ore. – Cure mediche per la fotofobia, la diarrea e l’asma cronica contratte nei FDODER]RV

– Ora d’aria tutti i giorni, e al sole. – Bagno con acqua calda. – Lavori manuali. Coordinano con Zabalza un piano di riserva che lasciano da parte per un secondo momento: lo sciopero della fame, unica cartuccia realmente disponibile. MR:

La caserma rimase attonita davanti al programma presentato alle autorità per iscritto. Formalmente.

FH :

Lo sciopero della barba aveva l’obiettivo di valutare il grado di forza della loro reazione. Per quindici giorni non succede niente finché una mattina vengono e portano Zabalza, che era come gli altri in sciopero dichiarato, all’ora d’aria!

MR:

Era una trappola per cogliere impreparato Julio. Perché quando lo vanno a prendere, crede che portino anche lui a quell’insolita ora d’aria.

FH :

Invece, lo portano alla S2, e in silenzio, un tetro silenzio, lo mettono con violenza nel bagno della sala delle torture.

MR:

E il capitano Arbiza gli applica il rasoio elettrico nelle narici, riassumendo magistralmente la dottrina delle Forze Armate: «Non rompa le palle, Marenales; si faccia la barba o gliela facciamo noi». 312


Julio non perse tempo a rispondere. Con la poca agilità che gli rimaneva, si tuffò ai piedi del lavandino e si attaccò al tubo abbracciandolo con braccia e gambe, disposto a morire piuttosto che cedere. I soldati gli si lanciarono dietro, con l’intento di farsi belli davanti al capitano, e lo rasarono maldestramente sulla nuca, mentre agitava la testa in tutte le direzioni sbattendo contro ferri, pareti e lavandino. Uno dei soldati, più furbo, gli prese i testicoli facendogli lanciare un grido... «No!», ordinò Arbiza. «Le palle no». Il Vecchio Julio fece un respiro profondo. Aveva vinto la battaglia. L’ordine del capitano dipingeva il panorama: solo un grande fallimento della dittatura poteva obbligare Arbiza a essere così, ma così tanto umano. Bastava sopportare un altro paio di colpi. Pieno di escoriazioni, tagli, ferite e bernoccoli, lo rinchiusero in una stanzetta della S2. E quando pensava già che si sarebbe dovuto sorbire tutto il freddo fino all’alba, gli portarono un paio di coperte per passare la notte. Julio non riuscì a contenere il desiderio e gridò con tutta la voce che aveva in corpo: «Consegnatevi! Non rompete più e arrendetevi!». [...]

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MR:

Questi racconti e moltissimi altri furono quelli che ci fecero Marenales e Zabalza in quei primi giorni di “re-incontro” con la parola.

FH :

Tutto il loro calvario, quello che anche loro devono raccontare.

MR:

Come abbiamo detto all’inizio di questo libro: vogliamo anche che sia un appello agli altri ostaggi e per gli altri prigionieri perché diano anche la loro testimonianza.

FH :

Anche perché è impossibile che lo facciano altri.

MR:

Noi ci siamo limitati a ricordare alcune delle cose che ci raccontarono.

FH :

Ma torniamo al principio: appena ci misero due a due nelle celle, cercammo di rimanere così più tempo possibile. E per questo era molto importante evitare sanzioni. Perché la punizione per chi veniva inviato all’isola, pregiudicava anche chi rimaneva solo.

MR:

Inoltre, avevamo bisogno di sfruttare quel tempo per raccogliere informazioni su più di dieci anni di vita. Stare due a due semplificava il raggiungimento dell’obiettivo di provare a metterci in contatto con gli altri ostaggi e con il resto dei prigionieri del 3HQDO, per ottenere maggiori 313


informazioni e pensare al futuro. FH :

Potenti motivazioni, tutte, perché tutti cercassimo di evitare sanzioni. Decidemmo di “comportarci bene”. Sopportare il più possibile senza reagire. Nel nostro caso, il proposito durò un attimo. Dopo una settimana che stavamo insieme, precisamente il 22 settembre, Zabalza fu maltrattato da un capo durante l’ora d’aria e, non riuscendo a contenersi, reagì forse proprio come voleva il capo. La sanzione era l’isola. Zabalza si rifiutò di andarci per il suo stato di salute. Quel rifiuto non era previsto. Si vede che non erano state pianificate soluzioni alternative per questi casi. Finsero di accettare a patto che io tornassi nella mia vecchia cella, in modo che Zabalza scontasse da solo nel piano la sanzione che gli spettava nell’isola.

MR:

Ma una notte, in silenzio, in molti andarono a prenderlo. Zabalza resistette lottando senza pronunciare un grido. «Se io avessi gridato, voi avreste reagito facendo un casino e non conveniva. Sia io che loro eravamo interessati a non fare casino, e così lottammo corpo a corpo dalla mia cella fino all’isola in profondo silenzio». Lo rinchiusero per settanta giorni.

FH :

Rimasi di nuovo solo, fino al mese di dicembre.

MR:

Pensammo la stessa cosa io e Julio, ma ci organizzammo. Siccome ci conoscevamo e sapevamo quanto in molte occasioni sarebbe stato difficile contenersi, ci organizzammo in modo che lui si “sfogasse” il lunedì, mercoledì e venerdì; io reagivo il martedì, giovedì e sabato. Questo ci permetteva di fare un gioco di squadra: quando uno esplodeva, l’altro lo conteneva e moderava. La domenica riposavamo: sopportavamo qualsiasi cosa.

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FH :

Era più forte di noi, e loro lo sapevano.

MR:

E, siccome lo sapevano, ci provocavano per toglierci con una mano quello che ci davano con l’altra.

FH :

Durante quei giorni, dopo che Zabalza se n’era andato, riuscii, in una mattina di calma, a parlare a bassa voce dalla mia finestra del primo piano, con una voce che veniva da una finestra del secondo. Era la prima volta, e quindi la mia prima domanda fu: «Chi è morto?»

314


MR:

A che pro chiederlo!

FH :

Chissà perché l’ho fatto! Una lunga lista di compagni iniziò a scendere dal secondo piano in quella serena mattina, a bassa voce. Non c’era il tempo di piangere per uno, che subito ne arrivava un altro.

MR:

Per chi suona la campana? «Non lo chiedere: suona per te». I compagni caduti dal 1973 per le strade e nelle stanze delle torture... quelli caduti nelle carceri. In Cile, Argentina, in Uruguay. I GHVDSDUHFLGRV... I bambini GHVDSDUHFLGRV. Erano i nostri morti, ed erano, come scrissi quando uscii, per i &DQWDUHV GHO FDODER]R, la nostra divisa:

Fu una lontana e nitida notte d’aprile. Un giorno di sangue e fuoco. Erano morti diversi compagni e la repressione consegnava tardi, molto tardi, i corpi alle famiglie. Le Forze Congiunte si comportarono come quello che erano e, come per uno scherzo crudele, distribuivano nelle case a lutto i corpi sbagliati. Le madri andavano di casa in casa e in questo triste pellegrinaggio s’incontrarono due in un abbraccio. Allora sentii quello che, tra le lacrime, una disse all’altra: «Che importa, signora, mio figlio nella sua casa e il suo nella mia... No, non importa, sono tutti nostri figli.» Questa frase brucia ancora, e nella stessa fiamma bruciano l’idea e il sentimento: sono tutti nostri figli. Quelli che perdemmo nelle manifestazioni studentesche e negli agguerriti scioperi, quelli che morirono con l’indice contratto nell’azione coraggiosa e quelli che soffocarono l’ultimo grido rispondendo col silenzio alle torture. Tutti, tutti sono nostri figli. Quelli che alzarono bandiere rosse, i seguaci del 77 )UHQWH $PSOLR, gli anarchici di ferro, i PLULVWDV i bianchi di Aparicio, i 78 79 EDWOOLVWDV e quelli che fecero brillare una stella nel cuore. Tutti, tutti sono nostri figli. I morti non hanno divisa, i morti, compagno, sono la nostra divisa.

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FH :

Arrivammo a ottobre e avanzava la campagna elettorale. Gli altoparlanti ce ne portavano dei pezzettini.

MR:

E con loro una serie di sigle nuove che noi non conoscevamo: Pit, Serpaj80, Fucvam81, Asceep82. Una nuova lingua di cui non conoscevamo il codice completo.

FH :

E questo non succedeva solo a noi: un giorno gli altoparlanti trasmisero un 315


pezzo di un intervento dell’ineffabile Gabito Barrios nel Consiglio di Stato della tirannia: “Pit )UHQWH $PSOLR Serpaj Fucvam $VFHHS 0RYLPLHQWR GH 5RFKD... ma in che Nazione siamo, signor Presidente?”, esclamava adirato Gabito Barrios. MR:

Ecco! Giustamente: in che Nazione eravamo?

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FH :

Più o meno il 16 ottobre ricoverano Manera nell’Ospedale Militare, gravemente ammalato: un glaucoma in stato molto avanzato. Lo operano. Per questo motivo Mujica, che nella migliore delle ipotesi sarebbe rimasto solo per alcuni giorni, inizia le pratiche per poter venire nella mia cella dato che io mi trovo nella stessa situazione. Inaspettatamente autorizzano questo incontro ed è così che per la prima volta possiamo parlare tranquillamente per alcuni giorni. Io gli trasmetto tutte le informazioni ricevute da Zabalza e lui quelle che gli aveva fornito Manera. Gli chiedo anche della gloriosa “sputacchiera” rosa. Ce l’aveva in cella. Non se ne separava mai. Ci aveva messo della terra e ci aveva piantato delle bellissime calendule.

MR:

Manera, molto malato, arrivò in punto di morte per omissione di soccorso.

FH :

A Paso de los Toros, nel 1981, Manera viene portato all’Ospedale Militare e operato per un calcolo alla vescica. Lì prende una forte infezione per un virus molto resistente agli antibiotici. Gli furono fatte più di cento iniezioni. Ne conseguirono danni alle orecchie e agli occhi. Gli prescrissero un trattamento permanente per controllare l’infezione siccome non si poteva debellare. Viene riconsegnato alla caserma in queste condizioni e trasferito poco dopo – aprile 1982 – a quella di Trinidad.

MR:

Dove finisce nelle mani dello stesso tenente Queirolo, quello delle catene, e del dottor Forno, un Mengele dislocato presso la Sanità militare uruguaiana.

FH :

Come primo assaggio, il dottore sopprime il trattamento. Di fronte alle lamentele di Manera, che si sentiva sempre peggio, fingeva di effettuare diverse analisi che immancabilmente confermavano come risultato che Manera stava “bene”.

MR:

Peggiorò: la febbre salì stabilmente a 40. Brividi costanti, gambe infiammate. Alla fine un’intossicazione generale causata dall’infezione.

316


FH :

Qualsiasi tipo di protesta rimbalzava tra Queirolo e il diabolico Forno.

MR:

Finché le difficoltà sempre crescenti per orinare portarono al blocco praticamente totale, durante la quale lo lasciarono senza assistenza per mesi.

FH :

Il capo dell’Unità, di fronte alla valanga di sintomi evidenti, mandò a chiamare uno specialista da Montevideo, dall’Ospedale Militare...

MR:

Che ordinò di trasferirlo urgentemente all’ospedale e di ricominciare la cura.

FH :

A dicembre del 1983 Manera dovette essere operato nuovamente: un’uretrotomia e un’altra cura intensa.

MR:

Conseguenze definitive di tutto ciò: un rene atrofizzato e ostruzione cronica dell’uretra. In queste precarie condizioni di salute, Manera continuò il pellegrinaggio e sopravvisse penosamente nei FDODER]RV più aggressivi. A Colonia, per un lungo periodo gli piazzarono permanentemente due soldati di guardia con l’ordine di non farlo dormire. Venivano pagati per questo. Dovevano passare la notte a dare calci alla porta. Durante il giorno gli lanciavano addosso acqua, escrementi, immondizia marcia.

FH :

Grazie alla testimonianza di Manera e di altri detenuti, Forno, il presunto medico, fu radiato quando il popolo uruguaiano recuperò la sua libertà.

MR:

Ma continua a esercitare il mestiere.

MR:

Continuando a essere, com’è, pericolosissimo per la salute degli esseri umani.

FH :

Civili, Ñato, civili. [...]

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FH :

Più o meno intorno a quella data di ottobre, un mese prima delle elezioni, si ferma il flusso delle liberazioni.

MR:

Il carcere si chiude di nuovo: non esce nessuno.

FH :

E il 17 novembre del 1984 muore Adolfo Wasem. 317


MR:

Ritornavamo dall’ora d’aria quando un compagno dal secondo piano ci fece il segnale inconfondibile e definitivo.

FH :

La notizia corse di ostaggio in ostaggio e arrivò anche nell’isola, dove era in isolamento Zabalza.

MR:

Quella notte ci toccava la televisione. E decidemmo di non uscire; dicemmo alla guardia, quando ci aprirono la porta, che non saremmo usciti.

FH :

Era proibito rispettare il lutto nel 3HQDO GH /LEHUWDG e loro reagirono lasciando il resto dei compagni senza televisione tutta quella settimana. In punizione per il dolore.

MR:

Fuori, una moltitudine di gente mostrava il proprio dolore e la propria protesta nelle strade. Giorni dopo venimmo a sapere delle ultime tre ore di Nepo. Lo tenevano in una cella di due metri per uno, solo. Verso le dieci di notte sentì che stava arrivando la sua ora e si alzò dal letto. Disponeva di uno spazio libero di sessanta centimetri di larghezza. Qualcuno gli ordinò di rimettersi a letto. «Sto per morire», rispose, «devo combattere». Verso l’una di notte, quando semincosciente sbatteva contro le pareti, lo misero a letto. Aveva combattuto l’ultima battaglia.

FH :

Pensai a quel giuramento che io e te ci eravamo fatti, ora avremmo dovuto rispettarlo: se qualcuno cade, l’altro testimonierà.

MR:

Nepo ci richiamava alla lotta. Bastò guardarci da lontano il giorno seguente per capirci e metterci d’accordo: un giorno avremmo fatto quello che stiamo facendo ora.

FH :

Fuori risuonava il canto della gente: «Wasem, escucha, tu lucha es nuestra lucha!».

/H HOH]LRQL

MR:

Poco dopo ci furono le elezioni. Da alcuni giorni non avevamo più notizie. Gli altoparlanti avevano smesso di darle.

FH :

Le radio tacciono...

MR:

Il carcere era pervaso da una serenità tale che sembrava impossibile che fuori stesse succedendo qualcosa di così importante: che tutta la Nazione stesse votando. Dall’alba iniziai a pensare ai nostri vecchi che, in fila, 318


tenevano strette le carte d’identità nelle loro mani ottuagenarie. FH :

Faceva molto caldo nelle celle e quando uscimmo per l’ora d’aria il sole era allo zenit. Mi toccò il campo grande; la passionaria, arrampicata sulla rete di recinzione, era già fiorita, o aveva già i frutti, non ricordo, ma attirò la mia attenzione.

MR:

Quel giorno il carcere era più tranquillo del solito: sospese le visite e altre attività.

FH :

Ritornammo dall’ora d’aria e ci facemmo un bagno da nababbi.

MR:

Senza la minima informazione, cercandola ovunque, scrutando invano gli orizzonti vuoti dalla finestra.

FH :

Il giorno seguente, quasi insonni, molto presto, eravamo in piedi camminando nella cella da un lato all’altro. Iniziava a nascere un giorno senza vento, che si annunciava più caldo di quello precedente.

MR:

Splendente come la nostra speranza che, non sapendo i risultati, era ancora intatta.

FH :

Se c’era qualcosa degna di nota quella mattina nel carcere, era la serenità. Ebbi la sensazione che tutti fossero stati svegli fino a tarda ora, fino all’alba, e ora dormissero.

MR:

Un ufficiale, vestito con la tuta da ginnastica, lontano, faceva IRRWLQJ.

FH :

L’Uruguay e il mondo già sapevano i risultati. Noi nel carcere eravamo a digiuno.

MR:

Al ritorno dall’ora d’aria qualcuno ci passò un dato molto generico: ha vinto il Partido Colorado.

FH :

Il vero problema era sapere chi.

MR:

Solo il giorno seguente s’interruppe il “silenzio delle radio” e a mezzogiorno gli altoparlanti lanciarono un riassunto dei risultati, che ognuno di noi nella cella trascrisse rapidamente e attentamente.

FH :

Poi, ognuno iniziò a studiare il futuro in quelle cifre.

319


68/ )$5 '(/ *,2512

'DO FDODU GHOOD QRWWH DO IDU GHO JLRUQR

FH :

Dopo le elezioni, alcuni giorni dopo, iniziò di nuovo il piccolo rivolo di scarcerazioni. Nuovi gruppi di compagni iniziarono a uscire.

MR:

Liberarono anche Wilson Ferreira Aldunate.

FH :

Il due o tre dicembre ci trasferirono dalle celle che affacciano sul tramonto alle celle che affacciano sull’alba.

MR:

Grazie a ciò riuscimmo a vedere, dopo undici anni e alcuni mesi, come si affaccia il sole all’orizzonte d’estate...

FH :

Il trasferimento straordinario coincise, per me e Zabalza, con un’altra festa, un altro grande evento: finì di scontare la sua punizione e ritornammo di nuovo insieme, e ricominciammo, con il sole all’alba, i racconti che avevamo interrotto a settembre.

MR:

Quando albeggiava, il sole ci stava di fronte, entrando dalla finestra come un torrente.

Nella cella che abbandonammo, lasciai una poesia: /D VDYLD YLQDGD GHO DWDUGHFHU DQHJD PL YHQWDQD \ EHER \ EHER KDVWD OD HPEULDJXH] DKRJDQGR OD QRFKH TXH GHVWLOy OD QDGD

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E in quella nuova incisi quest’altra: 0L FHOGD HV XQ OXJDU

320


FRQ XYDV EODQFDV /DV SLVR VLQ FHVDU \ HO YLQR GHO VRO GHVWLOD HPEULDJDGRU XQD HVSHUDQ]D

✗✙✚

FH :

Nella nostra, la cella 12 dell’ala destra del settore B del piano 1 dello Stabile Militare di Reclusione n. 1, il sole batte giusto sulla parete dove ci sono il tavolo e il banchetto.

MR:

Dove ti siedi a prendere il mate.

FH :

Ci toccava un giorno ciascuno.

MR:

Con il far del giorno, irruppero dalla nuova finestra le sfilate giornaliere di quasi cinquecento uniformi grigie che uscivano per l’ora d’aria.

FH :

Io mi mettevo gli occhiali vecchi sopra i nuovi per poter aumentare la risoluzione delle immagini e nemmeno così riuscivo a distinguere i compagni che cercavo, o quelli che vedevo.

MR:

Conversazioni a mani nude con Julio per cercare di unire i ricordi alla realtà: Chi sarà quel veterano?

FH :

Figure inconfondibili e modi di camminare, di ridere, gesti comunicativi, queste sottigliezze erano i migliori segni di riconoscimento.

MR:

Permettevano di riconoscerli a loro insaputa, come chi cattura un segreto: «Ma sì, quello è Tizio!».

FH :

Riuscimmo a riconoscere tutto Paysandú dai gesti e dalle camminate.

MR:

Quartieri di Montevideo, angoli, fabbriche, paesini, epopee.

FH :

Alcuni erano identici, immutati, come se il tempo per loro si fosse fermato aspettando pazientemente di poter continuare il suo percorso.

MR:

Altri avrebbero potuto rimanere anonimi ai nostri occhi se non fosse stato per qualche risata indimenticabile che ci portò il vento.

FH :

C’erano magliette di tutti i club, cappelli di tutti i tipi, in cui si notava, molte volte, il modo di cucire di Punta de Rieles.

321


MR:

Alcuni rammendi sui pantaloncini da calcio erano un segno inconfondibile.

FH :

Facevano venire la voglia di tirar fuori le braccia dalle sbarre e abbracciare i campetti stracolmi.

MR:

Stringendo a noi questa quantità di ricordi vivi che acquisivano, improvvisamente, carne e ossa. La memoria ritornava alla vita.

FH :

Da lontano, da quella finestra, si vedeva Gabrielita quando veniva per la visita e così, da lontano, Gabrielita sembrava una Graciela...

MR:

Che arrivava alla spalla della tua uniforme quando camminavate vicini.

FH :

Sì, arrivava, già ci stava arrivando...

MR:

Al ritorno dall’ora d’aria i compagni formavano una lunga fila sulla strada interna che passa davanti al cellario. Molte volte i gatti del carcere venivano a strusciarsi contro le gambe prigioniere immobili in fila.

FH :

Gli stessi gatti che fuggivano spaventati quando si avvicinava qualcuno con un’uniforme diversa.

MR:

Le uniformi grigie non erano aggressive, non davano calci, non inventavano torture per passare il tempo...

FH :

Le uniformi verdi e gli stivali facevano male, e i gatti, come i cani di Pavlov, avevano interiorizzato molto bene i propri riflessi.

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MR:

Poco dopo, a metà dicembre più o meno, mi mandano di nuovo nell’isola, punito per non aver accettato l’umiliazione alla quale un tenente provò a sottopormi davanti alla mia famiglia: nel parlatorio, davanti ai guardiani, eravamo solo Sendic (che parlava con suo fratello per telefono e con un doppio vetro in mezzo) e io, che parlavo con mia figlia nelle stesse condizioni; l’ufficiale si mette al mio fianco e davanti ad Alejandra mi ordina di mettermi in piedi, con il cappello in mano. Mi rifiuto; insiste. Ci scambiamo grida, insulti. Improvvisamente mi alzo, mi scompongo e, ribaltando la logica, sono io quello che mastica l’ordine: «Si ritiri!», e vai a sapere per quale collegamento mentale, il tenente obbedisce davanti allo sguardo spaventato di Alejandra e il sorriso cameratesco di Raúl, che aveva girato la testa per osservare l’incidente. Esco dalla visita e mi mandano direttamente all’isola, FDODER]R di massima punizione il n. 14. 322


FH :

Quando ti diedero questa punizione, a dicembre, eri l’unico abitante dell’isola.

MR:

Lì passo “le feste” di fine anno. Il FDODER]R 14 era uno dei 5 dell’isola che aveva la doppia porta: quella metallica che dà sul corridoio e la cancellata. Una cancellata nera enorme che va da terra al soffitto e da una parete all’altra restringendo ancora di più il poco spazio disponibile. Lì non puoi tenere assolutamente niente nel FDODER]R; il materasso lo consegnano di notte, e poi, all’alba, te lo tolgono. L’acqua la controllano loro da fuori. La luce, accesa permanentemente, giorno e notte. Da uno spioncino sulla porta possono controllarti senza che tu te ne accorga. Non so perché quella volta il FDODER]R fosse completamente buio. Barlumi leggerissimi infiltrati da sotto la prima porta e da un bocchettone collocato a terra mi permisero di vedere qualcosa nella penombra una volta che gli occhi si furono abituati. Ma già non m’impressionava tutto ciò: ero un vecchio abitante di quel mondo. Avevo passato parte della mia vita in luoghi peggiori. Esplorai quel territorio sapendo che lì, per la natura della punizione, avrei dovuto trascorrere molto tempo. Proprio sotto la cancellata, in un posto in cui solo i prigionieri sanno che un altro prigioniero lo troverà, c’era una sigaretta, pazientemente rollata e, dentro, due fiammiferi. Regalo dell’ultimo abitante che, chissà come, era riuscito a mettere insieme quel banchetto. Me la fumai alla salute dello sconosciuto compagno solidale e dopo mi misi a leggere... l’unica cosa disponibile: la letteratura delle pareti dei FDODER]RV.

FH :

Tutti gli uomini che passarono per quegli antri, per qualsiasi motivo, lasciarono la loro testimonianza.

MR:

Con chiodini, pezzetti di matita, il piccolo tizzone in cui si trasforma un fiammifero spento, penne miracolose... le unghie.

FH :

Nei FDODER]RV con il tetto basso è utile il fumo dei fiammiferi: li accendi e li avvicini al tetto: il “fumo nero” che rilascia la fiammella imprime lettere grosse, un vero lusso.

MR:

Per leggere, mi arrampicai sulla cancellata. All’altezza della testa scoprii nella penombra la nitida esclamazione di Vallejo: «Viva i compagni!». Molto sopra ne intravvidi un’altra. Salii più che potei e lì, profondamente incisa con un ferro nella parete, lessi: “CELLA DI HORACIO RAMOS”.

FH :

Sapevamo in quel periodo che Horacio Ramos era stato trovato appeso a una sbarra nell’isola.

MR:

Le mie mani erano aggrappate a quell’asta e ricordai la storia. Sfollarono l’isola quando lo portarono lì. Era solo. Circondato da soldati. In quelle 323


condizioni, nell’isola può succedere qualsiasi cosa senza che nessuno si accorga di niente. FH :

Tutti i compagni sono unanimi nel dire che Horacio non aveva nessun motivo per suicidarsi. Che il suo stato d’animo era dei migliori. Che era abituato alle punizioni e ai FDODER]RV. Fino a oggi non si è saputo niente. Chissà se un giorno si saprà. [...]

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FH :

Durante quasi tutto il mese di dicembre, fino a più o meno il 22, tornarono a verificarsi una serie di scarcerazioni quotidiane come quelle che c’erano state dal Patto del Club Navale (ad agosto) fino a ottobre.

MR:

Durante le feste e fino all’anno nuovo, il carcere si richiuse. L’isola era particolarmente tranquilla quei giorni.

FH :

E intorno al 10 gennaio iniziò a risentirsi lentamente il reticente “filino” della libertà.

MR:

In quella data sanzionarono Julio, che venne a farmi compagnia.

FH :

Sì, Marenales ha l’onore di essere stato l’ultimo abitante dell’isola del 3HQDO GH /LEHUWDG.

MR:

Perché quando tornai al cellario, scontata la mia punizione, a lui mancava ancora la metà o più della sua.

FH :

In quel frangente anche io ero nell’isola, scontando una nuova punizione che risultò essere di circa una settimana. In modo che gli feci anche io compagnia per alcuni giorni. Da quella volta conservo nella memoria il ricordo dantesco di alcuni compagni “disturbati”, che erano stati portati all’isola non per scontare una pena ma, come dicevano loro, “in deposito”...

MR:

Perché non dessero fastidio nel “cellario”.

FH :

Sentivo le loro urla giorno e notte: «Sono marxista leninista... e rivoluzionario, e lo sarò fino all’ultimo giorno della mia vita!», recitava uno gridando, come un’interminabile litania.

MR:

«Che venga a vedermi il maggiore... A passo svelto!», esigeva un altro. 324


FH :

Diceva di avere il progetto per la ricostruzione della Nazione tutto ben rifinito. Un altro comunicava solennemente che per indicazione medica poteva vivere solo in luoghi ben riscaldati. Restava più tranquillo quando gli comunicavano che quello lo era.

MR:

Tragici residui della repressione militare che si apprestavano a uscire, come testimonianze vive, in libertà... Per continuare a scontare lì la loro pena...

FH :

La mia fu leggera, perché ebbe caratteristiche molto peculiari. Un pomeriggio un tenente vide la nostra cella e iniziò, attraverso la finestrella, a provocare Zabalza per indurre una sua reazione. Io avevo appena finito di chiedere a Jorge che, per le ragioni che abbiamo già menzionato, mantenesse la calma. Piovevano su di lui, sadicamente e vigliaccamente, gli insulti. Vidi che stava per esplodere e, prevenendolo, mettendomi davanti all’ufficiale, dall’altra parte della finestrella, lo mandai, il più tranquillamente possibile, a cagare. «Come dice?», chiese incredulo. «A ca-ga-re». «Sa con chi sta parlando?», chiese mostrando le sue spalline graduate. «Con un culo rotto», conclusi, e rimasi ad impacchettare i prodotti per l’igiene per andare all’isola mentre quel tipo se ne andava con il viso rosso come un pomodoro per la rabbia. Subito dopo mi vennero a prendere e, per puro caso, riuscii a sapere che la “causa” formalmente addotta nel quaderno delle sanzioni era: “Un incidente con un capo durante l’ora d’aria”.

MR:

Il tenente non poteva applicarti la sanzione dichiarando l’accaduto perché, evidentemente, non era autorizzato a entrare nel primo piano; allora, vigliaccamente, ricorreva a una bugia e dava un’altra versione dell’accaduto. Pensando che, inoltre, siccome tu non ti saresti accorto dell’inganno, nessun altro avrebbe protestato e lui ti avrebbe fatto sorbire quella punizione interamente...

FH :

Non aveva nemmeno il coraggio di affrontarmi e subire le conseguenze della sua “bravata”. [...]

325


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MR:

Gli eventi iniziano a precipitare. La lotta popolare inizia a fare breccia nelle mura del carcere. Un giorno portano il Pelato Balmelli all’isola pronto per la liberazione...

FH :

Lui, che aveva tante volte alloggiato in quel luogo per le punizioni...

MR:

... ora era una delle tante scarcerazioni che si stavano producendo. Secondo lo schema delle precedenti procedure di routine, gli vogliono far firmare il famoso documento di “buon trattamento”, quelli che si conservano a tonnellate, archiviati negli uffici della S2, e che includono perfino quelli che morirono sotto tortura.

FH :

Il Pelato era stato gravemente malato e senza ricevere l’adeguata assistenza medica. Nel suo caso, come per molti altri, quel documento era uno scherzo di cattivo gusto.

MR:

E si rifiutò di firmarlo. Disse di no.

FH :

«Se non lo firma, non se ne va», gli dissero.

MR:

«Non me ne vado», disse loro. E lo rimandarono dall’isola alla cella.

FH :

Con un piede già nella libertà tanto attesa... Sapendo che in poche ore avrebbe potuto unirsi alla militanza attiva, cosa che – chi come noi conosceva il Pelato lo sapeva –, era la sua stessa vita e molto di più.

MR:

Vinse lui la partita. Il vento soffiava a favore del popolo: due o tre giorni dopo non ebbero altra alternativa che liberarlo.

FH :

Senza aver firmato il documento.

MR:

Che, a partire da allora, non si preoccuparono più di far firmare a nessuno, perché sapevano che dopo quello che aveva fatto il Pelato non ci sarebbe stato un prigioniero disposto a firmarlo.

FH :

Se ne andò, ferito a morte dagli aguzzini. Se ne andò a militare e a morire militando.

MR:

Alcuni mesi dopo, i medici aprirono il suo petto e vi trovarono i segni invecchiati e fatali della tortura. Tracce invisibili ma indelebili.

FH :

Il cuore, il suo enorme cuore, disfatto.

326


/D PXVLFD ULVFDWWDWD

MR:

Mentre si avvicinava la data del 15 febbraio, momento in cui si sarebbe insediato il parlamento eletto a novembre, iniziando a chiudere il lungo ciclo di dittature, la morale dei soldati – se ne avevano mai avuta una – si stava sgretolando, e noi prigionieri, al ritmo della pressione popolare, stavamo rompendo le nostre catene dentro le carceri.

FH :

Nonostante lasciassero uscire noi ostaggi solo quattro alla volta all’ora d’aria, nel piano Uno eravamo già riusciti, per vie non ufficialmente autorizzate, a vivere quasi in contatto permanente tra noi otto.

MR:

Ne approfittammo, tra le altre cose, per recuperare le canzoni perse, ti ricordi?

FH :

In diversi ostaggi si era manifestato uno strano fenomeno durante quegli anni nei FDODER]RV. Credo prodotto del silenzio. Personalmente mi successe che, improvvisamente, dopo aver cantato a bassa voce migliaia di volte le canzoni ricordate, iniziarono a nascerne altre. Una notte a Paso de los Toros sognai di essere su una spiaggia seduto insieme a una quantità di amici intorno al fuoco e sotto le stelle. Qualcuno, un brasiliano, cantava e suonava la chitarra. Quando mi svegliai, ricordavo la canzone. La canzone che non avevo mai sentito prima. La canzone del brasiliano sconosciuto in una spiaggia del sogno. La ricordo ancora. Esiste. Più o meno così altre canzoni.

MR:

A Nepo successe la stessa cosa e anche a Raúl. Composero musica. Musica per loro e per gli ostaggi dei FDODER]RV vicini. Musica per un mondo che ne era privo. O meglio: che vollero privare della musica. Come se la musica non fosse opera degli uomini e come se bastasse spegnere la radio per sopprimerla.

FH :

La nascita delle poesie nel tuo caso era naturale, visti i tuoi precedenti. In Engler, musicista, lo era ugualmente la nascita delle canzoni. Ma in altri era strano...

MR:

Allora approfittammo di quei giorni di attesa per intonare le canzoni e per recitarci le poesie.

FH :

Raúl ed Engler dalla loro cella organizzarono un festival di “musica di ”, con giuria e tutto.

FDODER]R

MR:

Gli autori, il pubblico e i giurati erano formati da una folla di nove persone. 327


Ci fu un primo, un secondo e perfino un terzo premio... FH :

È giusto quello che hai detto: nove persone, perché anche Nepo presentò le sue canzoni.

MR:

Il miracolo della musica, che ci portava il sorriso e l’ottimismo di Wasem.

FH :

Engler, l’unico che sapeva comporre musica, dopo aver sentito tante canzoni scritte nient’altro che nell’aria della memoria, preoccupato di perderle, mise mano all’opera e pretese da noi che le cantassimo.

MR:

In particolare, tra tutte, iniziammo a recuperare dalla memoria le canzoni di Nepo.

FH :

Tutti, perché diversi di noi le avevano sentite quando Nepo le cantava o le fischiettava.

MR:

Alcuni ricordavano canzoni intere. Altri qualche brano.

FH :

Iniziavamo a recuperare Nepo.

MR:

Era rimasto vibrante nelle nostre orecchie.

FH :

Il lavoro era difficile. Lascia che lo racconti: Zabalza e io eravamo i “camerieri” del piano in quegli ultimi giorni. Quando uscivamo per distribuire la razione, Zabalza continuava con il carrello e io rimanevo affacciato alla finestrella di Raúl ed Engler fischiettando una canzone. Engler tendeva le orecchie e cercava sulla chitarra, con un’abilità sorprendente, la nota giusta. A volte mi faceva ripetere un pezzo fino a quando non la trovava. Allora la dettava a Raúl che, foglio e matita alla mano, segnava: do, mi, fa diesis... scrittura che poi Engler trasferiva sul pentagramma. Durante un’altra distribuzione della razione, Engler suonava alla chitarra o al flauto, tutta la canzone. «Va bene così?», chiedeva. E le rifinivamo. Altri compagni le cantavano durante l’ora d’aria finché lui non le imparava a memoria.

MR:

Così rimasero registrate quelle di Nepo e quelle degli altri compagni. Per qualsiasi evenienza. E così furono portate via dal carcere e lanciate ai quattro venti.

FH :

Tu terminavi un’opera di teatro su Artigas... Nella quale dimostravi che la sconfitta non esiste.

MR:

< QXHVWURV FDEDOORV VHUiQ EODQFRV

FH :

Come quell’altra, (O FRPEDWH GHO HVWDEOR, che mi raccontasti nei FDODER]RV di Paso de los Toros e che in quei giorni avevano rappresentato nella sala

, opera che miracolosamente, attraverso meccanismi che sarebbe imprudente raccontare, riuscii a portare fuori.

328


dell’Associazione Cristiana dei Giovani.

/D OHWWHUD D 6DQJXLQHWWL

FH :

Il giorno in cui sentimmo dagli altoparlanti che, nel caso in cui il 3HQDO GH /LEHUWDG fosse stato svuotato dai prigionieri politici, sarebbe tornato a essere un carcere per criminali comuni, decidemmo di inviare una lettera al presidente eletto Julio María Sanguinetti.

MR:

La indirizzammo a: Hotel Colombia. Lì stava formando il governo.

FH :

In questa lettera, diretta con rispetto a chi il 1° marzo avrebbe preso possesso del Potere Esecutivo, chiedevamo il carcere per trasformarlo in un monumento. Perché non ci fosse mai più un carcere a /LEHUWDG, perché questo paradosso della nomenclatura non si trasformasse nemmeno in un paradosso della realtà.

MR:

Ci offrivamo volontari, con l’aiuto di chiunque fosse d’accordo, per trasformarlo in un istituto agrario, in una cooperativa di alloggi, in una scuola, in un liceo, in un parco.

FH :

La lettera era molto bella.

MR:

Insieme alla lettera presentammo alle autorità del 3HQDO una richiesta formale e regolamentare perché fosse inviata, come qualsiasi altra lettera, al suo destinatario.

FH :

Non c’era nessun motivo perché non fosse possibile farlo. Era una prassi di routine che si effettuava tutti i giorni con centinaia di lettere.

MR:

Avevamo osservato, inoltre, la speciale precauzione di non violare nemmeno un articolo del complesso regolamento per la corrispondenza, vigente nel carcere.

FH :

Ci furono diversi giorni di profondo silenzio, fino a quando arrivò, sempre rispettando tutte le norme del regolamento, una risposta netta: “Richiesta rifiutata”.

MR:

Ovviamente a nessun prigioniero del tutto sano di mente passò per la testa di chiedere spiegazioni né per questa, né per nessun’altra lettera rifiutata. Il regolamento stabiliva questo: le autorità faranno quello che vorranno, senza spiegare niente a nessuno.

329


FH :

Conservammo la lettera proibita.

MR:

Simbolo perfetto: la corrispondenza diretta al Presidente della Repubblica era censurata dal comando del 3HQDO.

IHEEUDLR ,O 3DUODPHQWR

MR:

Intorno al 15 febbraio interruppero le scarcerazioni.

FH :

Noi che restavamo, non saremmo stati liberati dai militari. Erano totalmente contrari. La nostra liberazione poteva essere frutto esclusivamente della lotta popolare tramite una legge del nuovo Parlamento.

MR:

Al popolo non regalarono niente. Non gli risparmiarono nessuno sforzo.

FH :

Con questo ottennero di dare più valore alla sua vittoria.

MR:

Ma diciamo la verità: d’accordo con le informazioni che a quel punto, o forse da poco prima, avevamo a disposizione, la possibilità della nostra liberazione si collocava al di là di lunghe lotte e complesse negoziazioni politiche, oltre l’inverno del 1985, verso giugno.

FH :

E questo fu comunicato come una notizia allettante ai nostri familiari e ai nostri avvocati da importanti ambasciatori politici.

MR:

Di modo che ci preparammo a questo.

FH :

Pieni di pregiudizi, apprensioni, sospetti...

MR:

... il terrore che la situazione politica si complicasse e rimanessimo lì chissà per quanto tempo ancora.

FH :

Impossibile chiedere a un prigioniero, in una situazione di questo tipo, di comportarsi in modo diverso. Le sbarre erano lì: imponenti.

MR:

Ma gli eventi progredirono rapidamente verso una situazione che ci riempiva di allegria. L’impressionante pressione popolare pose come primo argomento, urgente, al Parlamento appena formato il 15 febbraio, la legge di amnistia generale e illimitata, nonostante l’opposizione del Potere Esecutivo. Non ci esaltavamo, avevamo troppa esperienza per metterci a gonfiare la speranza... 330


FH :

Quel 15 febbraio, nello stesso momento in cui s’insediava il nuovo Parlamento, morì Manuel Flores Mora.

MR:

Fu parte attiva e protagonista della lotta popolare contro la dittatura. Quella che rese possibile la libertà dei prigionieri politici. Ricordiamo quella lettera scritta da Maneco nell’Ospedale Italiano, già ferito a morte, e diretta a un familiare di Adolfo Wasem: Cara Iris, Lasciami spiegare a questa gente chi sei. Questa bellezza è la cognata di Wasem Alaniz. Dalle un bacio. Iris: ti ringrazio molto per il telegramma della famiglia Wasem e ti ringrazio per la sua grandezza. In questi giorni mi vergogno così tanto, quando mi vedo così, così, così accudito, a pensare a persone che morirono come Adolfo! Ti rendi conto che abbandonare un malato al proprio dolore è mille volte peggio di sparagli un colpo? Racconta come, dopo chemioterapie o cose del genere, lo legavano al pavimento della camionetta, tra mille schifezze, e lo riportavano in carcere, sbattendo a ogni buca! Tu Iris, che ne parlasti con lui, sei una testimone attendibile. Come sta il vecchio Wasem? Dai un bacio ciascuno a tutta la famiglia. E per le “madri”, che stiano tranquille. A Esperanza un bacio meno un quarto. Quando uscirò dall’Ospedale andrò a trovare Wasem il vecchio. Un abbraccio Maneco

FH :

Trascriviamo questa lettera come sincero omaggio a tutti quelli che, pur non condividendo tutte le nostre posizioni, ebbero la grandezza d’animo di aggiungersi alle file di combattimento del popolo e rendere possibile la liberazione di tutti i prigionieri politici!

331


,O FDUFHUH VYXRWDWR

MR:

Ora sì che si nota lo svuotamento del carcere, conseguenza delle successive scarcerazioni. In un carcere per cui passarono, secondo dati dei militari, circa 3.000 torturati, in un carcere che arrivò a ospitare per molti anni quasi duemila prigionieri, ne rimanevamo solo 250, più o meno.

FH :

Le sette stecche erano vuote da tempo. Ma ora lo erano anche diversi piani del “cellario”.

MR:

In questo grande edificio ci sono in totale 500 celle. Se si tiene presente che i prigionieri stavano, per la maggior parte, in due, solo 120 celle erano occupate.

FH :

Praticamente solo un piano: il secondo.

MR:

Ricordo che nel quinto, a un certo punto, rimasero solo due prigionieri, isolati, che ci guardavano desolatamente da quell’altezza!

FH :

Quanti e quali tragici ricordi sarebbero rimasti rinchiusi tra quelle pareti!

MR:

Lo svuotamento causava una strana, opprimente sensazione di solitudine.

FH :

Numerosi dettagli uditivi, visivi, di qualsiasi tipo, erano cambiati sostanzialmente ed erano per noi assolutamente nuovi. Fuori allenamento.

MR:

I luoghi per le ore d’aria vuoti, quasi senza le persone necessarie per una partitella a calcio, i lavori che non faceva già più nessuno, la campagna abbandonata, l’erba che cresce perché nessuno la taglia, la distribuzione di acqua calda che viene meno perché nessuno sa usare bene la caldaia, la cucina mal funzionante... Non ci sono prigionieri!

FH :

Non ci sono i compagni che facevano tutto. Se n’erano andati quelli che sapevano aggiustare e usare certe cose.

MR:

Non si accendevano le luci delle celle vuote, e il buio in quell’enorme edificio lungo quasi duecento metri s’impossessa poco a poco di tutto.

FH :

I corridoi dei piani sembrano tunnel, soprattutto all’alba, quando usciamo per scaldare l’acqua per il mate e distribuirla.

MR:

La stessa isola era vuota; il suo ultimo abitante, Marenales, chiuse la porta e spense la luce, come si suol dire... Ritirarono il corpo di guardia. Rimase lì come un tugurio.

FH :

Tutto il carcere si stava trasformando in un tugurio. Il deterioramento 332


avanzava giorno dopo giorno e si notava a occhio nudo. L’immondizia nei patii, i campi, l’abbandono... MR:

La sensazione di vuoto, di solitudine, si moltiplicava data la grandezza dell’edificio e la densità di popolazione carceraria che c’era stata fino a poco tempo prima.

FH :

La cosa che opprime di più è il silenzio...

MR:

Quei rumori a determinate ore: il ritorno ai piani dall’ora d’aria, il cigolare dei carrelli con il cibo, il suono metallico durante la distribuzione delle posate... Tutta quella confusione è sparita.

FH :

Ora, durante quelle ore, si sente appena il rumore di uno o due carrelli, e qualche finestrella che si apre e si chiude. Silenzio.

MR:

Il carcere è tranquillo e muto.

0DU]R

FH :

E come lavora la tetra ambulanza!

MR:

I suoi andirivieni marcavano lo scorrere del tempo durante il giorno.

FH :

Ci avvicinavamo al 1° marzo.

MR:

Portavano velocemente all’Ospedale Militare una quantità di compagni.

FH :

Tutte le analisi e le cure che per anni erano state negate le volevano fare ora all’ultimo momento.

MR:

Perché quei prigionieri sarebbero usciti, e molto probabilmente sarebbero stati visitati da medici reali.

FH :

Volevano “risolvere” in fretta...

MR:

Era tragico sentire, in quei giorni, i bollettini dello stato di salute di alcuni compagni ancora ricoverati.

FH :

Continuava in Parlamento il dibattito sulla Legge d’Amnistia.

MR:

A noi arrivavano echi lontani e non molto precisi.

FH :

L’ambulanza serviva anche per trasferire pacchi dal “cellario” al parlatorio. 333


MR:

Molti prigionieri inviavano cose a casa: tele, arnesi, chitarre. Prima che se le divorasse durante l’ultima vampata di bestialità quello sciame di locuste verdi.

FH :

Preparandosi a uscire il più leggeri possibile.

MR:

L’ambulanza andava avanti e indietro...

/D IXPDWD

FH :

I soldati smantellavano faticosamente il carcere.

MR:

Sapevano che sarebbe passato al Ministero degli Interni e quindi bisognava portarsi tutto!

FH :

Stavano smantellando perfino i tetti delle baracche!

MR:

Sembravano formiche, locuste, salite su quei tetti, con i camion che aspettavano, rosicchiando il carcere fino al midollo.

FH :

Portavano via anche gli archivi, in fretta. Come un esercito in ritirata, allo sbando, alzandosi in volo, con il vento a favore. Quello che non potevano portare via, lo bruciavano. Tonnellate di carta venivano trasportate coi camion all’inceneritore. Bruciavano gli archivi.

MR:

La fumata era densa. S’infiltrava attraverso le finestre. Nei patii faceva lacrimare.

FH :

A volte il vento, che accerchiava sempre quella collina desolata, apriva i faldoni furtivamente trasportati sui cassoni dei camion e, come se li leggesse, spargeva i fogli sopra l’erba incolta, fino a rimanere come incollati sui numerosi fili spinati di questo Paese!

MR:

Come incollati dal vento... In qualche ora d’aria di quei giorni, annoiati, prendiamo qualcuno di quei fogli: “DOCUMENTO DI CONDOTTA. RECLUSO N °...”.

FH :

Sanzioni. Migliaia, centinaia di migliaia. Volavano per i campi di San José o diventavano fumo al di là del dolore e al di qua del crimine.

MR:

Erano destinati alla “giustizia militare” per dimostrare la contumacia sediziosa dei prigionieri.

FH :

Fu tutto inutile. 334


MR:

E una farsa, alla fine della tragedia.

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FH :

Il cambiamento fu così rapido che li prese alla sprovvista.

MR:

Evidentemente avevano previsto un’evoluzione diversa. Ma l’inizio della discussione in Parlamento della Legge d’Amnistia già a partire dal 15 febbraio e la velocità con cui si procedeva...

FH :

... la pressione popolare fu la causa scatenante di questo intoppo per i militari.

MR:

Ci schedano tutti di fretta. Foto frontali, di profilo e anche di spalle!

FH :

Per farcele ci mettono vestiti civili e, a volte, perfino il cappello.

MR:

Quando fu approvata la Legge d’Amnistia, hanno distrutto anche quelle schede?

FH :

È possibile che persone che hanno beneficiato dell’amnistia compaiano in un qualche schedario dei Servizi Segreti statali?

MR:

Per cosa?

FH :

Al primo piano, dove eravamo noi, già non si poteva quasi camminare, nonostante fosse un largo e piatto piano terra.

MR:

Avevano stipato lì, per l’intera lunghezza, tutti i materassi. Migliaia.

FH :

Le pile, una affianco all’altra, arrivavano fino alla barriera che limita e isola il piano 1 dal piano 2.

MR:

Fecero lo stesso con cucchiai, forchette, coltelli, piatti, tazze, coperte, cuscini, uniformi.

FH :

Alte montagne separate. Un tipo di oggetti qui, un’altra lì...

MR:

... tutto ben classificato.

FH :

Come ad Auschwitz. Ricordi quelle foto nelle quali appaiono migliaia di occhiali, migliaia di scarpe da uomo; più in là quelle delle donne, qui quelle 335


dei bambini? MR:

Io ci sono stato, Ñato, sulle tracce della mia famiglia: erano lì confuse in quelle montagne di oggetti.

FH :

Dovevamo passare con enorme difficoltà tra quelle montagne con il carrello.

MR:

Quello del cibo, che ora, per la prima volta, era abbondante e iniziava ad avanzare.

FH :

Anni di sofferenze, migliaia di compagni ci parlavano dalle ammaccature dei piatti, dagli strappi delle coperte, dai buchi ai gomiti delle maniche delle uniformi.

FH :

E tutto aveva un numero. Ogni compagno poteva parlarti dal suo numero identificativo. Varie celle vuote di quel primo piano erano anche deposito di oggetti.

MR:

Il vento, entrando dalle finestre aperte delle celle vuote, spingeva le pile di materassi che cadevano a rallentatore...

FH :

Senza fare rumore... Spettrali. Improvvisamente, qualcosa uscì fuori da quella pila.

MR:

Cadde rotolando da una di quelle montagne: era un pacchetto di quelli, tipici, che mandano le famiglie. Vestiti puliti, bacinelle di plastica.

FH :

Con il numero e il nome del prigioniero: ÁNGEL YOLDI.

MR:

Non lo ricevette mai... Lo buttarono nel deposito. Noi lo trovammo e lo riscattammo dall’oblio.

FH :

Portammo via anche l’uniforme numero 812, tutta strappata...

MR:

Quella di Nepo.

/D ILQH GL 3XQWD GH 5LHOHV

1° marzo Tutto il giorno l’altoparlante spento. Né di notte né di giorno c’è stato un giornale o un radiogiornale. Di pomeriggio venimmo a sapere che alle compagne del B avevano tolto la Tv del settore, e a quelle del settore A avevano proibito di accenderla fino alle 5. Bagno sbarrato per non 336


permetterci di comunicare con il B. Così il Comando di questo carcere inaugura il governo democratico. 18:30. Veniamo a conoscenza della cancellazione del decreto che dichiarava illegali tutte le organizzazioni politiche e sindacali. Che enormità! Ci sentiamo parte del popolo che festeggia quello che aveva conquistato con le proprie mani. 4 marzo In questi giorni non c’è stato il tempo di scrivere; c’è stato un mondo, una valanga di eventi, ma oggi, OGGI CE NE ANDIAMO DA QUESTO CARCERE ! Ci dicono di preparare le nostre cose, perché questo pomeriggio ci trasferiscono a “un’altra unità”. Non ci sono altre informazioni, ma questo basta. FINE DI QUESTO MALEDETTO CARCERE ! (“Diario di bordo di Punta de Rieles”, diario degli ultimi giorni scritto da alcune compagne prigioniere).

,O PLQLVWUR GHOOD 'LIHVD

FH :

Un carcere in meno.

MR:

Il 6 marzo la Camera dei Deputati approvò con 54 voti su 97 la Legge d’Amnistia Generale e Illimitata. Mancava ancora l’approvazione del Senato.

FH :

Il Potere Esecutivo era in disaccordo ed era disposto a porre il veto.

MR:

S’inaugurò la vetocrazia. Già nelle prime ore del nuovo governo e, concretamente, proprio per la Legge d’Amnistia.

FH :

Durante quei giorni, non ricordo esattamente la data, venne a trovarci il nuovo ministro della Difesa.

MR:

La mia cella era quella più vicina alla porta del piano, ragion per cui mi toccò ricevere per primo la visita. Aprirono la porta della cella ed entrò un vecchietto, fragile, che inciampò e dovette essere sorretto da un segretario militare vestito da civile. Dietro si era formata una caterva di alti gradi.

FH :

Un’orda.

MR:

Chiarino guardò sconvolto l’ambiente. 337


«Sa chi sono?». «Sì», risposi. Allungò la mano. Fece piccoli passi e quasi all’orecchio, come per non farlo sentire ai suoi accompagnatori: «Ve la siete passata molto male, vero?» «E... sì». «Che pensa di fare?». «Cercare di passarcela meglio» gli risposi. Mi guardò un po’ sconcertato. Allungò di nuovo la mano, e mormorò: «Così sia». «Per tutti», aggiunsi, e lui uscì, com’era entrato: inciampando. FH :

Nella nostra cella si ripeté la cerimonia con alcune varianti. Anche questa volta a bassa voce, con tono confidenziale, ci chiese: «Dove si trova la famosa isola?». «Alla fine di questa strada», gli indicammo dalla finestra, «ma non c’è più nessuno. È troppo tardi». Allora gli mostrammo la lettera che avremmo voluto inviare a Sanguinetti. L’anziano tolse le mani da quella busta, come se la carta bruciasse. «No, no, no», disse nervosamente. «Meglio che gliela portiate voi... Quando potrete...».

MR:

Che non si dicesse che il Ministro veniva usato dai sediziosi per portare messaggini proibiti fuori dal carcere...

FH :

Il vecchietto se ne andò. Né lui, né noi, né il presidente Sanguinetti eravamo ancora autorizzati.

/D OHJJH YRWDWD

MR:

Il clima generale lasciava intendere che la nostra liberazione era questione di giorni.

FH :

Mancavano i dettagli.

MR:

Non saremmo stati amnistiati.

FH :

La legge, modificata, era stata votata finalmente il venerdì 8 marzo e inviata 338


al Potere Esecutivo per la sua promulgazione. MR:

Il sabato, quando non conoscevamo ancora il risultato della discussione, ricevemmo la notizia e quasi contemporaneamente, il testo della legge approvata.

FH :

Non fummo amnistiati. Ma per lasciarci in libertà, ci tassarono moltiplicando per tre ogni anno che avevamo passato nelle mani dei militari: CHE SPILORCI!

MR:

Tredici anni per tre: 39. La mia condanna era di 30 se non calcoliamo i 15 di “sicurezza” che mi diedero in aggiunta, me ne avanzano nove per la prossima (Dio ce ne scansi e liberi!), se ci sarà...

FH :

Io scontai molti più anni di quelli che richiede la sentenza massima. Chi mi restituirà il resto? Come?

MR:

Come avranno stabilito i senatori la tassazione dell’inferno? Chi avranno consultato? Qualche medico? Chi?

FH :

Il testo della legge, analizzato a fondo da tutti noi che restavamo prigionieri, stabiliva diverse scadenze per le liberazioni.

MR:

Dopo massimo 48 ore dalla promulgazione, dovevano essere liberati quelli che avevano ottenuto l’amnistia. E in un lasso di tempo massimo di cinque giorni “lavorativi”, gli altri, noi che non rientravamo nell’amnistia.

FH :

E quello era il punto: il sabato è o non è un giorno lavorativo? Chi ha ricevuto e chi no l’amnistia? Molti non ricordavano di che crimini erano accusati. Altri non lo avevano mai saputo.

MR:

Ma c’era una cosa che era chiara a tutti: i soldati ci avrebbero lasciato lì fino all’ultimo secondo di quel lasso di tempo. Non ci avrebbero regalato niente.

FH :

E potevano farlo perché tutto dipendeva dal momento in cui la “giustizia militare” avrebbe mandato le pratiche alla giustizia civile.

MR:

Ricordo i due compagni che rimanevano lassù, al quinto piano, soli, isolati, che provavano a commentare urlando tutto questo con noi. Rimanevamo 225 prigionieri: 228 compagni nel 3HQDO GH /LEHUWDG e 27 compagne al quarto piano della Questura di Montevideo, appena trasferite dal carcere abbandonato di Punta de Rieles.

FH :

Era spuntato il sole della speranza. Ora speravamo...

MR:

... che si alzasse completamente. [...] 339


,/ *,2512

%DQGLHUH DOO·RUL]]RQWH

MR:

La domenica 10 marzo del 1985, di mattina, noi ostaggi uscimmo per l’ora d’aria e facemmo ginnastica. Nessuno di noi si aspettava la libertà quello stesso giorno.

FH :

E la maggior parte dei prigionieri, quelli che potevano aspettarsela, in generale non la credevano possibile di domenica.

MR:

Conoscendo i ritmi e decretata la libertà, il tempo diventava più lento che mai. Le ore erano lunghissime...

FH :

Tutti i prigionieri sanno che questo succede quando la data si avvicina.

MR:

Avevamo tutto pronto. Avevamo anche concordato con la famiglia, durante l’ultima visita, di andare, tutti insieme, alla parrocchia dei Conventuales il giorno in cui ci avrebbero liberato.

FH :

L’avevamo deciso così, considerando la situazione dei compagni delle zone interne che sarebbero stati liberati a sorpresa, come noi, creando una grande difficoltà alle loro famiglie che venivano ad aspettarli tutti i giorni davanti alla porta del carcere.

MR:

Considerammo anche i rischi che avremmo potuto correre per strada. Non sapevamo quali erano esattamente la situazione politica e il clima dominante. Indifesi, potevamo essere facili vittime per gli squadroni.

FH :

Per cui sarebbe stato meglio non rimanere nelle nostre case mettendo in pericolo anche le nostre famiglie.

MR:

E stando tutti insieme, almeno per alcuni giorni, in un luogo solo, qualsiasi attentato sarebbe stato più difficile.

FH :

E sarebbe dovuto essere più grande.

MR:

Quei cari fratelli, i frati, spalancarono la porta della loro casa, che era stato il nostro primo rifugio.

FH :

Dunque, era più o meno l’ora della siesta. Diversi ostaggi, quasi tutti, eravamo in una cella. Altri, pochi, erano in dormiveglia nella loro.

MR:

Noi due eravamo seduti sulla branda di sopra di una cella, prendendo il mate. Marenales era seduto sulla panca del tavolo, “in posa”, mentre tu gli 340


facevi un ritratto; Engler strimpellava la sua chitarra, e un altro, o altri due, ora non ricordo chi, erano seduti sulla branda di sotto. Chiacchieravamo. FH :

In quel momento il pomeriggio era soleggiato.

MR:

Regnavano la pace e la tranquillità più assolute nel carcere e nei dintorni.

FH :

Tu fosti il primo a vederle...

MR:

... le bandiere...

FH :

Mi dicesti, indicando dalla finestra verso la lontana Statale 1: «Quella non è una bandiera?». Io continuai a disegnare e risposi: «Non rompere, Ruso. Sempre con fantasticherie per la testa!». «Guarda che è una bandiera», continuasti. Mi misi gli occhiali “da lontano”, ma siccome erano già insufficienti...

MR:

Engler lasciò la chitarra: «Certo che sono bandiere! E non solo una... ce ne sono tante!».

FH :

Voi, che vedevate bene, vi affollaste alla finestra e doveste andare anche a quelle delle celle vuote per poter vedere bene: stavano arrivando bandiere!

MR:

Discutevamo sul colore, la quantità...

FH :

Presto diventò un bosco di bandiere in marcia...

MR:

Di tutti i colori, c’erano anche cartelli e striscioni.

FH :

Una moltitudine crescente di gente tagliò la Statale 1, in poco tempo, come un fiume uscito dal letto. Vedevamo i pullman e i camion che si fermavano e iniziavano a formare una lunga carovana, sempre più grande.

MR:

Avvisammo subito i compagni del secondo piano, che per la maggior parte occupavano celle le cui finestre non affacciavano sul lato della strada.

FH :

E suonò l’allarme stridulo del carcere. Il gemito ululante delle sirene e la roca intermittenza di altri richiami a prendere i posti di combattimento. Arrivava il “nemico”.

MR:

Centinaia di soldati armati fino ai denti correvano di qua e di là, appostandosi stesi a terra in diversi luoghi e piazzando mitragliatrici e mortai in altri...

FH :

Andarono a prendere i cani, anche loro entrati in uno stato d’allerta, che abbaiavano disciplinatamente. 341


MR:

«Perché viene la gente?». «Sanno che ci saranno delle scarcerazioni!».

FH :

Non poteva essere altro il motivo di quella folla.

MR:

I sergenti, che evidentemente non sapevano niente, venivano a chiedere a noi e agli altri prigionieri cosa stesse succedendo. A cosa era dovuto tutto ciò.

MR:

Preoccupati, perché non avevano ordine di liberare nessuno...

MR:

... e perché l’ordine poteva arrivare da un momento all’altro, urgente, e non c’era nessun prigioniero pronto.

FH :

E già si sa come vanno le cose: la cosa più probabile era che li fermassero perché non l’avevano previsto...

MR:

In ogni caso controllavano i quaderni e registri degli ordini, per verificare che non fosse sfuggito loro qualcosa...

6ERFFLDQR OH FDOHQGXOH QHOOD VSXWDFFKLHUD URVD

FH :

Presto li avvisarono dal comando che si preparassero a ricevere comunicazioni via radio nelle quali venivano comunicate le scarcerazioni.

MR:

Avrebbero “liberato” gli amnistiati che erano ancora prigionieri.

FH :

Non sognavamo nemmeno la possibilità che quel giorno avrebbero liberato qualche ostaggio, c’era qualche possibilità solo nel caso di Zabalza.

MR:

La folla non solo cresceva a vista d’occhio, ma iniziava anche a entrare nel tratto laterale che porta dalla strada al 3HQDO.

FH :

Avvicinandosi pericolosamente alle prime barriere militari.

MR:

Vedemmo come uscirono in quella direzione diversi veicoli provvisti, tra le altre cose letali, di gas.

FH :

Improvvisamente iniziarono ad arrivare i benedetti comunicati via radio: ognuno comprendeva dieci o dodici nomi. Venivano dalla Suprema Corte di Giustizia.

MR:

E ogni comunicato via radio, con ogni gruppo, arrivava a intervalli regolari.

FH :

Quando arrivò il primo, non ci furono grandi problemi: il sergente, aiutato 342


da un capo, andò al secondo piano, cella per cella, “tirando fuori” il detenuto da rimettere in libertà. MR:

La frase fantastica: «Scendi con le tue cose!»

FH :

Ma quando le comunicazioni via radio continuarono a succedersi, iniziò a prodursi una specie d’imbottigliamento delle scarcerazioni.

MR:

Perché questi soldati volevano, ancora, compiere determinate procedure e formalità che ormai non avevano alcun senso.

FH :

Secondo logica, finirono per rinunciare a quei documenti assurdi e liberare la gente come capitava.

MR:

Gli unici vestiti “da civili” che avevano i prigionieri, erano quelli da ginnastica. Non è stato possibile organizzare tutto quell’altro dispositivo di routine delle liberazioni precedenti, che si facevano con il contagocce, per le quali era possibile anche che la famiglia portasse vestiti da civili.

FH :

No. Ora le liberazioni sono di massa, come avrebbero sempre dovuto essere.

MR:

Così vestiti, i prigionieri uscivano dal carcere a piedi, trasportando sulle spalle tutte le loro cose.

FH :

Dovevano percorrere fino alla strada principale, in quel modo, quasi cinque chilometri.

MR:

I nostri occhi non riuscivano a seguire tutto. Non sapevamo nemmeno dove guardare prima: lì nella strada, da lontano, c’era una massa che sventolava le bandiere; sotto le nostre finestre, la grande carovana dei compagni che se ne andavano, uno a uno, due a due, tre a tre... Come una fila di formiche verso la libertà, ci salutavano con le loro cose sulle spalle. Salutavano quelli che restavano.

FH :

Pugni alzati, grida.

MR:

E dentro l’edificio del cellario c’erano i compagni liberati che venivano portati al primo piano, dove eravamo noi, per firmare un foglio prima di andarsene. Lì potevamo stringerci le mani attraverso le sbarre.

FH :

Alcuni con il volto bagnato dalle lacrime, «Torneremo a prendervi!», ci dicevano, andandosene.

MR:

All’improvviso la grande notizia: tra i nomi di un gruppo Jorge Zabalza! Corremmo a dirglielo.

FH :

Si vestì rapidamente e rapidamente raccolse le sue cose, e quando avevamo 343


finito... MR:

... l’altra grande sorpresa: se ne andava anche Pepe Mujica!

FH :

E questa davvero non se l’aspettava nessuno. Dovemmo aiutarlo a impacchettare le cose e a vestirsi, con il rischio di arrivare tardi alla liberazione...

MR:

«Tu, Zabalza, devi aiutare Pepe a portare le cose».

FH :

Più giovane e non così malato.

MR:

Sotto la finestra continuava ad allontanarsi la piccola carovana di prigionieri mentre faceva sera: alcuni molto vecchi, altri debilitati...

FH :

Si aiutavano reciprocamente a portare i fagotti.

MR:

Si fermavano per riposarsi un attimo al lato della strada guardando verso la moltitudine che li aspettava al di là delle barriere.

FH :

Molti fagotti rotolavano nelle cunette.

MR:

Zabalza e Mujica uscirono.

FH :

Pepe portava, ben stretta a sé, la sputacchiera rosa.

MR:

Che un giorno dovrà essere esposta in una vetrina del Museo della Rivoluzione. Ci aveva piantato dentro le calendule che coltivava negli orti del carcere. Ed erano sbocciate. Come quei caschi da guerra abbandonati nella campagna, in cui qualche uccellino aveva fatto il nido.

FH :

Li vedemmo dalla finestra andar via. Entrambi che aiutavano altri. Mischiati con gli altri.

MR:

Fiammeggiavano le calendule in fiore.

FH :

Le vedemmo andarsene nella sputacchiera, tutta una simbologia, con Pepe e Zabalza.

MR:

Finché non le perdemmo di vista.

FH :

Iniziò una pioggerellina sottile sulle calendule e sulle bandiere.

MR:

C’era una pioggerellina, sottile, anche dentro di noi.

344


/XQHGu PDU]R

FH :

Il gruppo di scarcerazioni della domenica 10 fu il più numeroso: 173 compagni.

MR:

Il processo del loro rilascio terminò col buio, sotto una pioggerellina insistente. Tuttavia, la moltitudine non si muoveva dal suo posto.

FH :

Si vedevano da lontano luci al posto delle bandiere: brillavano le stelle.

MR:

La lunga marcia dei prigionieri liberati nel frattempo percorreva gli ultimi chilometri.

FH :

Quello stesso pomeriggio dalla Questura furono liberate, anche loro davanti a una folla di gente, 20 compagne.

MR:

Quasi 200 rilasciati in totale quella grande domenica.

FH :

Rimanevamo solo in 55 nel 3HQDO GH /LEHUWDG.

MR:

Al primo piano 6 ostaggi, 47 compagni nel secondo e 2 lissù, sul tetto, nel quinto.

FH :

Nella Questura rimasero solo sette compagne al quarto piano. Mi raccontarono che quando si videro così sole e in poche, decisero di trasferirsi nelle celle in fondo per stare tutte insieme.

MR:

Noi rimanemmo affacciati alla finestra finché da lì, da lontano, non sparì l’ultima lucetta. Continuava a piovere. Chiudemmo la finestra. Rimanemmo più soli di prima.

FH :

Più tardi nella notte, già all’alba, arrivarono alcuni ufficiali al primo piano. Avevano le uniformi da lavoro zuppe.

MR:

Venivano come pulcini bagnati, dalla barriera sulla Statale. Avevano coscienza degli avvenimenti a cui avevano assistito.

FH :

Perché una cosa è sentirli raccontati da altri, e una molto diversa è vederli... e sentirli direttamente.

MR:

Dopo tutta quella farsa, tutte quelle menzogne servite sistematicamente dalle reti radiofoniche e televisive per decenni, da grandi giornali sempre al loro servizio, da libri e stampa di ogni tipo e colore, quando perfino loro avevano iniziato a credere nelle loro stesse menzogne... Assistere a tutto ciò!

345


FH :

Sì, vederlo con i propri occhi. E sentirlo con i propri timpani. Una folla che aspettava “i peggiori”, quelli che, come dicevano loro, erano “la feccia”.

MR:

Un ciclopico e solido edificio di certezze era crollato quel pomeriggio. Di notte erano solo macerie.

FH :

Non rimase nemmeno una pietra sull’altra, soprattutto per i più giovani.

MR:

Era inutile per loro andare alla ricerca di qualche spiegazione nel gabbiotto degli ufficiali o nell’ufficio dei capi. Sapevano molto bene che, ad ogni modo, l’unica cosa che avrebbero trovato erano le cause e le responsabilità di quel disastro, che li colpiva personalmente e intimamente. Li additava un popolo intero...

FH :

Li stavano indicando con un dito accusatore che non si lasciava piegare.

MR:

Allora vennero a vedere se tra i pochi prigionieri che restavano, i piùchepeggiori, avrebbero trovato una risposta. Qualche spiegazione almeno.

FH :

«Che cosa era successo?»

MR:

Forse lì, nella solitudine di quell’enorme carcere, vuoto, tra i “grandi saggi”, qualche vecchio prigioniero custodiva una cosa molto semplice: la ragione.

FH :

Qualcuno di loro venne con un odio esasperato: «Fuori sarà più semplice farvi fuori», ci comunicarono.

MR:

I soldati e le reclute già da un po’ di tempo avevano tutto molto più chiaro: «Io non c’entravo niente», ci dicevano. «Eseguivo ordini».

FH :

O ci venivano a chiedere cosa provavamo. Qualcuno si segnava il nostro numero per giocarlo al lotto.

MR:

Molti penseranno che noi, a quel punto, eravamo sulle brandine, pancia all’aria, a riflettere...

FH :

... pensando che tutto quello che avevamo patito stava per finire... La tortura... Santa Clara nel 1973... Le peripezie fantasmagoriche di un lungo decennio...

MR:

Non potevamo. Semplicemente, non potevamo.

FH :

Queste cose sono tipiche delle serie televisive, non della realtà.

MR:

Ci cadeva sulla testa una massa tale di avvenimenti vertiginosi che...

FH :

... non c’era tempo per pensare al passato. 346


MR:

O per pensare e basta.

FH :

La libertà a volte ha questo inconveniente.

MR:

Non fa pensare. Il mondo moderno con le sue richieste, le sue esigenze non lo permette.

FH :

Ti porta da qui a lì. Colori, chiacchiere, propaganda, musica, discorsi, folle.

MR:

E noi non eravamo abituati a tutto questo.

FH :

Eravamo stati, per anni, uomini senza futuro. Con un presente orribile. Avevamo solo il passato.

MR:

Ora era il contrario: il passato che avevamo era inaccettabile. Il presente fugace e vertiginoso. Mutevole. Inafferrabile.

FH :

Ora eravamo puro futuro...

MR:

«Domani potrei andarmene», pensavamo quella notte senza riuscire a dormire.

FH :

«Che mi porto? Che lascio? Che faccio? Dove vado?».

MR:

«Che vestiti mi metto? Che scarpe?».

FH :

«Come saranno le carezze? E la mia donna?».

MR:

«E la birra? E le patate fritte?».

FH :

«Chi mi darà da mangiare domani, nel caso in cui non sia qui e non passi all’ora della “razione” il carrello con i compagni che la distribuiscono?».

MR:

Il futuro era incerto... Misterioso.

FH :

E molto pericoloso.

MR:

Avevamo, inoltre, grandi responsabilità. Lo sapevamo.

FH :

Solo molto tempo dopo avemmo la calma necessaria per fermarci a pensare – come adesso – a come erano state le ultime ore di quel calvario.

MR:

Il lunedì seguente trascorse senza che succedesse niente. Eccetto che i compagni del secondo piano – il più popolato – protestarono e chiesero che noi e gli altri compagni che vivevano isolati in altri piani, fossimo mandati al secondo e passassimo insieme quei giorni.

FH :

Le autorità militari accettarono la richiesta per quanto riguardava gli altri piani. Gli ostaggi no. Dovevano rimanere isolati fino all’ultimo minuto. 347


0DUWHGu PDU]R

MR:

Il martedì mattina, ricordo, noi ostaggi, quelli rimasti, andammo a fare l’ora d’aria in uno dei campetti e giocammo a calcio.

FH :

Non ci aspettavamo novità fino al giovedì, giorno in cui terminava, secondo i nostri calcoli, il lasso di tempo che potevano usare per tenerci prigionieri.

MR:

Tuttavia quel giorno, durante le ultime ore del pomeriggio...

FH :

È vero! Quel giorno la grande notizia arrivò all’ultim’ora!

MR:

Una nuova ondata di scarcerazioni.

FH :

Questa volta piccola: 13 compagni.

MR:

Tra loro, un altro ostaggio: Manera.

FH :

Iniziarono a uscire dal 3HQDO quando era già calata la notte. Li vedemmo andarsene sotto le nostre finestre, illuminati dai lampioni della stradina interna.

MR:

I familiari, la stampa, l’opinione pubblica avevano protestato e commentato negativamente che avessero fatto camminare i liberati della domenica per chilometri con il bagaglio sulle spalle.

FH :

Questa volta offrono loro un carrello... Un “rimorchio” di quelli che di solito si agganciano a una jeep.

MR:

Ma non fornirono la jeep.

FH :

Quei tredici si allontanarono nella notte salutando le pochissime finestre abitate del 3HQDO, spingendo il carrello sul quale avevano ammassato le loro cose.

MR:

Poco più in là, al di là del recinto, li aspettava un URSHUR di sinistra memoria, sul quale caricarono i fagotti e salirono.

FH :

Li portarono fino alla strada dove il tremolio delle luci di una nuova carovana li stava aspettando.

348


MR:

Nel frattempo, dalla Questura erano state liberate altre due compagne.

FH :

Quelle che rimasero, solo cinque, ricevettero l’ordine di trasferirsi a un altro piano. O meglio: diedero loro una spiegazione. Dissero che al quarto piano della Questura sarebbero stati portati una serie di prigionieri comuni e che, quindi, loro dovevano andare al sesto, che, inoltre, era più comodo.

MR:

Furono portate in una specie di appartamento (due stanze, bagno e cucina).

FH :

Stanche di tutti quei giorni di tensione, le ultime cinque prigioniere quella notte dormirono senza dubitare della “spiegazione” che avevano dato loro.

MR:

Nel 3HQDO rimanevamo 42 prigionieri. In Questura, cinque.

FH :

Gli ultimi 47 prigionieri.

0HUFROHGu PDU]R

MR:

La mattina di mercoledì 13 ci furono delle visite di familiari e avvocati. Davvero poche: tre o quattro.

FH :

Il messaggio essenziale che ci portarono: «La vostra libertà è questione di ore».

MR:

Ma non c’erano dati precisi.

FH :

Sopra, i compagni del secondo piano, con più libertà ora di muoversi per il carcere, inauguravano dopo molti anni le chiacchierate in gruppi un po’ più grandi di quelle che prima erano autorizzate.

MR:

E le giocate a carte...

FH :

Le carte! Fabbricarono carte da gioco e qualcuno, per ammazzare il lentissimo e teso trascorrere del tempo dell’attesa, organizzò in alcune celle vuote, tornei di carte...

MR:

... da sei.

FH :

Dopo la liberazione a scaglioni dei prigionieri seguite all’approvazione della legge, stavano preparando le condizioni per una grande accoglienza popolare degli ultimi.

MR:

Quelli che i comandi militari odiavano di più.

349


FH :

Sono sadici, ma così sadici, che pur di farci rimanere fino all’ultimo momento...

MR:

... le cattiverie si ritorsero contro di loro... Loro stessi stavano preparando così accuratamente la nostra uscita che non sarebbe riuscita così bene nemmeno se l’avessimo pianificata noi.

FH :

Lo fecero per odio.

MR:

A mattinata inoltrata arrivò la notizia: «Preparate tutte le vostre cose!».

FH :

Porca miseria! Come salta il cuore in gola!

MR:

«Preparate tutti i fagotti, indossate tute da ginnastica e tenete in tasca solo la carta igienica!».

FH :

Rimanemmo in attesa. Tesi. Un fosco mondo misterioso di libertà si rivelava davanti a noi.

MR:

Poco dopo ordinarono di consegnare i fagotti.

FH :

Ce ne andavamo! «Ci portano a sorpresa a casa nostra».

MR:

Ci eravamo lavati e rasati per bene.

FH :

E avevamo usato tutto il deodorante a disposizione. Unico profumo a portata di mano.

MR:

«Dovevamo puzzare di FDODER]RV», ci dicevamo.

FH :

Sarebbero stati necessari diversi mesi di bagni come quelli della gente normale per toglierci da dosso tutto lo sporco accumulato... &DODER]R dopo FDODER]R.

MR:

I soldati portarono di sotto i nostri fagotti.

FH :

Quelli di tutti i prigionieri.

MR:

Avvertivamo la strana sensazione di rimanere nudi, inermi, senza niente...

FH :

È una sensazione orribile per un ostaggio vedere che si portano via i fagotti...

MR:

Una lunga lotta per la sopravvivenza, nella quale acquistano valore vitale certi piccoli e imprescindibili oggetti... l’andamento delle cose non ci lasciava tranquilli, nonostante l’enorme promessa di libertà definitiva... Ci sarebbe piaciuto andarcene verso la libertà ben aggrappati a quelle cose. Nel caso in cui... 350


FH :

Le tute da ginnastica... Nessuno aveva una tuta completa poiché siccome quelle disponibili era necessario dividerle tra tutti, alcune tute si dovettero completare con magliette da calcio. Le tute da ginnastica e nient’altro. Ci sentivamo nudi.

MR:

Caricarono i fagotti su di un camion e li portarono fuori dal carcere.

FH :

«Dove li portano?». «Dove stanno portando le mie cose?!».

MR:

Improvvisamente il camion si mise in marcia...

FH :

Se ne andava!

MR:

Un attimo dopo lo vedemmo, accompagnato da una camionetta, da lontano, sulla Statale 1 diretto a Montevideo.

FH :

Che succedeva? Che significava? Ci assalì un mare di dubbi. Ci interrompevamo per ipotizzare, chi più chi meno, una possibile spiegazione.

MR:

Improvvisamente arrivammo a una conclusione chiara ed evidente: «Portano i fagotti in un luogo. In quel luogo porteranno anche noi... appena saremo liberati...».

FH :

C’era solo un luogo possibile: la Questura.

MR:

Evidentemente non volevano più carovane né folle davanti al /LEHUWDG.

FH :

E volevano agire di sorpresa. Confondere la gente.

MR:

Dopo aver visto passare il camion da lontano diretto a Montevideo, allora sì che ci sentimmo nudi.

FH :

Iniziò a passare il tempo senza che ci fossero novità. Portarono il pranzo come se fosse tutto normale.

MR:

Già stavamo pensando a come avremmo fatto per prendere il mate quel pomeriggio e il giorno seguente senza erba, recipiente e tutto il resto.

FH :

Pranzammo insieme in una cella noi cinque. Raúl con la ferita sul volto aveva tremende difficoltà per mangiare. Quel giorno toccava a me lavare i piatti di tutti. Me li portai in una cella vuota, lontano, per non dare fastidio a voi, che continuavate il “dopo pranzo” chiacchierando. Gli scherzi erano all’ordine del giorno. Era una situazione propizia per farli. Stavo lì, lavando, quando tu stesso venisti a cercarmi e mi dicesti: «CE NE ANDIAMO ! LASCIA STARE CHE CE NE ANDIAMO !». Io non ti credetti, Ruso, perdonami, pensai che fosse uno dei tuoi scherzi, continuai a lavare e per togliermi il dubbio

3HQDO GH

351


mi affacciai alla porta: era vero. Allora mi successe una cosa strana. Stavo per finire... e continuai a lavare. Il soldato che mi controllava, burocraticamente, manganello in mano, da fuori mi dice: «A che pro li lavi?». Lo guardai; ero invaso da quella strana calma che ci assale, forse in difesa del cuore, quando ci danno una grande notizia, buona o cattiva: «Per quelli che verranno», risposi. Il tipo scosse la testa meravigliato. «Io uscirei di corsa», disse. Ma io sapevo molto bene come sono gli ordini militari. Non avevo niente da fare. Non avevo altro bagaglio oltre al rotolino di carta igienica nella tasca destra dei pantaloni della tuta. Dovevo solo lavarmi le mani e uscire. Uscire! Quando sentii che la porta di ferro si apriva, già asciugati i piatti, me ne andai; chiudendo la vostra fila. Gli ultimi cinque piatti del 3HQDO GH /LEHUWDG, ben lavati, rimanevano vicino al lavandino di una cella, a scolare.

/·XOWLPR WUDVIHULPHQWR

MR:

Nel frattempo, noi quattro, guardando dalla finestra, vedemmo arrivare un autobus che si fermò dall’altro lato del filo spinato, vicino ai grandi portoni dei corridoi con doppie grate che danno sul perimetro del 3HQDO propriamente detto. Un autobus con i fiocchi! Un lusso per noi! Però tutto intorno si stava formando un feroce convoglio di veicoli militari da combattimento e da trasporto truppe; una massa, armata fino ai denti con uniformi mimetiche degne di miglior causa... «Tutti giù!», fu l’ordine finale. Si concludeva un’epoca. Lì, da lontano, sulla strada principale, non c’era nessuno. Contavano sull’effetto sorpresa.

FH :

Per le scale ci scontrammo con i compagni che scendevano correndo dal secondo piano, cercando il nostro abbraccio.

MR:

Venivano da piani così lontani che ci mettemmo tredici anni per percorrere la strada che ci portava all’abbraccio; da lì scendemmo abbracciati inciampando, fino alla strada interna del 3HQDO che passa davanti all’edificio centrale. Un sole pieno ci colpì. Tuta sportiva, maglietta da calcio...

FH :

Stavamo uscendo in una tumultuosa fila indiana di saluti. «Come stai, fratello?». «E tu?». «Come state voi?». Tu notasti che mancavano persone: «E Biorse?», dicesti. «E Falucho? Dove sta il Bolita?».

MR:

Stavano giocando a carte! Mancavano solo loro!

FH :

La fila di 36 prigionieri e qualche soldato si fermò. Davanti, l’imponente edificio ci mostrava le sue poderose colonne e le 250 bocche sbarrate delle 352


celle vuote che affacciano su quel lato. MR:

Impossibile sapere in quali di quelle si trovassero quei pazzi! Iniziammo a gridare tutti verso il monumentale edificio vuoto: «Falucho! Biorseee!».

FH :

Ci stavano facendo perdere dieci minuti di libertà!

MR:

A una finestra del secondo piano comparvero il torso nudo e la testa rasata di un compagno, poi un altro, poi un altro ancora...

FH :

Con tre carte sgualcite nelle mani...

MR:

«Che succede?», chiesero. «C’è l’ora d’aria?».

FH :

«Ma che ora d’aria e ora d’aria, cretini! Ce ne andiamo!».

MR:

Uscirono sgomenti e improvvisamente li vedemmo comparire dalla nera bocca vuota delle scale, gli ultimi sei, seminudi, che si mettevano all’ultimo momento le magliette e i pantaloni.

FH :

Il maggiore che guidava la “squadra” stringeva le labbra e sbatteva nervosamente sulle gambe i fogli con la lista.

MR:

Lista che non gli venne in mente di controllare per vedere se mancava qualcuno.

FH :

E chi avrebbe pensato che qualcuno sarebbe mai mancato a quell’appuntamento?

MR:

Iniziammo la marcia allegramente, sotto il sole. Faceva caldo. Ci lasciavamo alle spalle i campi, i campetti deserti, alcuni fogli vecchi intrappolati nel fil di ferro delle recinzioni.

FH :

Io avevo fatto una scommessa con Marenales: chi se ne va per ultimo? Lui ne aveva vinta una, quando fu l’ultimo ad abbandonare l’isola.

MR:

Per Marenales era una questione personale, essere sempre il primo nelle situazioni peggiori e l’ultimo nelle migliori.

FH :

Ma io lo conosco bene. È logorroico, e ora sta parlando con un gruppo di vecchi compagni nella fila. Parlando non ricordo con chi, rimasi indietro, come chi rifiuta la libertà, sempre più indietro. Quando arrivammo all’ultimo portone mi fermai ad “allacciarmi le scarpe”. Il pullman era a venti metri. Allora lo chiamai: “Julio, Julio!”. E lasciando col mio piede un’impronta sull’ultimo portone scorrevole, che come una frontiera delimita il dentro ed il fuori della libertà, gli dissi: «Ultimo!». Marenales si buttò indietro e si picchiò la fronte: «Mi hai 353


fottuto!». Accelerai il passo per salire sull’autobus che stava ingoiando i 41 compagni. MR:

Era moderno, di una impresa privata, con 44 posti a sedere. Noi eravamo 42.

FH :

Mi toccò il primo posto, l’ultimo disponibile, di fronte al parabrezza. Diedi un bacio a Paquito Sclavo che era seduto dal lato del finestrino e iniziò a parlare di politica...

MR:

Fuori ruggivano vari motori e si mettevano proiettili nella canna di un’orda di fucili e mitragliatrici.

FH :

Il colonnello, capo del 3HQDO, ci diresse le ultime parole augurandoci buon viaggio e chiedendoci di non aprire le finestre né le tendine...

MR:

Ci annunciò che con noi sarebbe venuto il “signor direttore dei reclusi”.

FH :

Un tenente colonnello vestito da civile, apparentemente disarmato, che si sedette vicino all’autista.

MR:

E io abbracciato a Lalo Gallinares in mezzo all’autobus. «Raccontami che è successo a Horacio Ramos nell’isola», gli chiesi, mentre i veicoli avanzavano.

FH :

Era il primo trasferimento della nostra vita di prigionieri senza cappuccio, senza manette, seduti comodamente e chiacchierando con i compagni.

MR:

I finestrini chiusi durarono pochi secondi. Tirammo le tende e li aprimmo. Lo schieramento militare ci circondava: davanti, dietro e ai lati. Era inspiegabile! Che cosa controllavano? Siamo già liberi! Temevano una fuga? Un riscatto? Forse un attentato?

FH :

Vedemmo per la prima volta il 3HQDO da fuori. Il luogo in cui per anni erano venuti i nostri familiari; la stradina attraverso la quale entravano sotto il sole e il freddo, il bel tempo o la pioggia, con i loro pacchetti.

MR:

Quella strada che percorrevamo per uscire era vuota. Deserta.

FH :

Era un trasferimento a sorpresa.

MR:

I pochi abitanti guardavano, straniti, quella formidabile carovana militare, con un autobus in mezzo. L’ultima.

FH :

Ma quando arrivammo all’incrocio con la Statale 1, mentre i veicoli prendevano velocità, vedemmo arrivare (specialmente noi che eravamo davanti) due o tre macchine a tutta velocità che frenarono mettendosi di lato. 354


MR:

Scesero diversi civili e con gli occhi aperti e le braccia alzate ci salutarono al passaggio, sorpresi, sventolando delle enormi bandiere uruguaiane.

FH :

I compagni non si erano distratti. La sorpresa non fu totale.

MR:

«Guarda, il Mudo!», mi disse Lalo. Lo sciopero bancario del ‘69, le caserme, la cattedrale e lo sciopero della fame erano lì, al lato della strada, gridando la loro vittoria dopo diverse caserme e sconfitte a tradimento.

FH :

Avremmo potuto ricostruire la storia del nostro Paese e delle sue lotte negli ultimi venti anni guardando la gente che alzava il pugno al cielo.

MR:

Dietro ogni pugno alzato, un’epopea.

FH :

Le sirene ululanti annunciavano il nostro passaggio. Le macchine stracolme di compagni che venivano da Montevideo verso il carcere si fermavano e, dopo il nostro veloce passaggio, si aggiungevano dietro, nella crescente carovana di bandiere e grida.

MR:

Loro cercavano di seminarli. I veicoli militari si fermavano dietro l’autobus per impedire il passaggio.

FH :

A volte tirando fuori il braccio con la pistola in mano. Finivano nel vortice anche le auto con targa argentina, che non capivano niente.

MR:

I soldati potevano perdere un’occasione in cui fare mostra della loro “efficienza”.

FH :

La gente accorreva ai lati delle strade e salutava.

MR:

Lalo urlava con tutta la voce: «Siamo i WXSDPDURV! Siamo i WXSDPDURV!». Io mi distraevo e mi astraevo ogni secondo, guardando i bambini... Era la prima volta dopo tanti anni che li vedevo per strada.

FH :

Quando arrivammo al ponte de La Barra, entrando nel comune di Montevideo, c’era già un grande contingente di compagni ad aspettarci. Come l’avevano saputo? Miracoli del popolo.

MR:

Prendiamo la nuova Statale 1 e rimaniamo totalmente disorientati.

FH :

Si fermarono qualche minuto mentre si univano varie pattuglie e moto della Polizia Stradale che avrebbero aperto la strada.

MR:

Durante quella parata in aperta campagna, soldati e ufficiali di tutti gli altri veicoli si lanciarono nelle cunette e da lì, stesi a terra, puntavano in direzione di lontane fattorie indifferenti.

FH :

Impossibile provare a interpretare i meccanismi mentali che li portarono a 355


quei gesti ridicoli. Temevano una fuga? Temevano un attacco? MR:

Iniziammo a entrare a Cerro. Quanta miseria! Le sue casette proletarie arrugginite.

FH :

Il campetto di Cerro... Carlos María Ramírez: che povertà!

MR:

Accesero tutte le sirene. La marcia diventò più lenta. Il traffico e la folla erano più fitti.

FH :

Passammo per Heredia, il barbiere dove si fondò il 0OQ 7. Era un comitato di base del )UHQWH $PSOLR!

MR:

I volti della gente erano un poema. Sentivano le sirene venire da lontano e guardavano con odio e disprezzo, ma all’improvviso vedevano tra i veicoli militari l’insolito autobus con i pugni chiusi che uscivano dai finestrini, e allora, metri prima, i volti s’illuminavano, correvano verso il ciglio della strada, alzavano i pugni, le bocche si spalancavano per gridare cose che passavano velocemente affianco a noi. Le donne alzavano i propri figli per farceli vedere.

FH :

E così chilometri e chilometri. Miglia e miglia...

MR:

Nella fabbrica La Aurora, occupata come tutte le fabbriche tessili in quei giorni, gli operai che prendevano il mate sulla porta si prendevano la testa tra le mani, perché l’emozione li faceva piangere di gioia e di rabbia...

FH :

Vicino al 3DODFLR GH /X] prendono una strada laterale e si fermano vicino alle rotaie della ferrovia. Ora è la polizia stradale che aggiunge moto e sirene.

MR:

Un’altra volta lo spiegamento incomprensibile. Si lanciano sulla strada, si nascondono nei portoni puntando sui terrazzi. Che uno psichiatra ce lo spieghi!

FH :

Ricominciando la marcia prendono la strada portuale, e una volta arrivati alla Stazione Centrale della Ferrovia, invece di proseguire dritto verso la Questura, proseguono verso la Dogana.

FH :

Ci assale di nuovo l’incertezza!

MR:

«Dove ci portano? Al Fusna85? No!». Continuano dritto e fanno tutto il giro per quella strada prendendo l’altra, quella verso sud, in direzione opposta.

MR:

Per convocare con le sirene più persone all’evento. Più gente alla massa che si affolla già davanti alla Questura.

FH :

Sono geniali!...

356


MR:

Ci stavano organizzando un fior fiore d’evento!

FH :

È l’odio e la convinzione delle loro stesse bugie. Ora siamo sulla strada verso sud, verso Parque Rodó.

MR:

Vanno verso la Questura dall’altro lato. Per depistarci... Sono in vena di episodi romanzeschi! Su questa strada vedo una cosa che mi rimarrà impressa. Inspiegabile. Era un bel pomeriggio di sole. C’era molta gente che pescava. Improvvisamente uno di quei pacifici pescatori, con la canna e la scatoletta in mano, apre la scatola quando sente le sirene, tira fuori una bandiera del )UHQWH $PSOLR, la sventola e si ferma immobile per salutarci al passaggio.

FH :

Come lo sapeva? Era andato a pescare con la bandiera? Dalla Dogana non potevano venire prigionieri del 3HQDO GH /LEHUWDG, tuttavia quell’uomo non ebbe la minima incertezza. Forse stava ascoltando la radio che annunciava la nostra liberazione...

MR:

Poi girammo verso la Questura.

FH :

L’autobus e le sirene si fermarono insieme, all’ingresso dell’enorme sotterraneo.

MR:

C’era una folla che gridava. Ammassata su entrambi i lati un isolato più in là. Scendemmo nel sotterraneo, a piedi, uno alla volta.

FH :

La gente urlava slogan in coro. Un cordone di poliziotti tentava di contenerli. Alzammo i pugni.

MR:

Alle nostre spalle si chiusero i portoni che tremavano per le voci, come le mura della città di Gerico di fronte agli inni guerrieri.

´)RUVD FKH PDQFD SRFRµ

FH :

Ci concentrarono in uno dei patii del piano terra del Carcere Centrale.

MR:

Qualcuno della polizia ci rivolse la parola: «Qui ci sono i fagotti con i vostri effetti personali. Dobbiamo rilasciare una ricevuta all’Esercito e voi sapete come vanno queste cose... Volete controllare e vedere se manca qualcosa?».

FH :

Pensavamo che ci avrebbero lasciato subito in libertà, e sembrò una tremenda perdita di tempo metterci ora a controllare fagotto per fagotto.

MR:

Non c’interessava un furto in più o in meno! 357


FH :

«Lo firmi, lo firmi», dicemmo all’ufficiale della polizia.

MR:

«D’accordo», dissero, «ma se poi manca qualcosa...».

FH :

Erano sicuri che mancasse qualcosa.

MR:

È come una legge naturale... Ma perché avremmo dovuto perdere altro tempo!

FH :

Firmammo e la polizia diede ordine di consegnarci le nostre cose.

MR:

Poi passammo alla visita medica e lì ci cadde il mondo addosso.

FH :

Qualsiasi vecchio prigioniero sa che se in un carcere ti visitano all’arrivo, è perché ti stanno per internare.

MR:

«Ci lasciano qui!».

FH :

«Di nuovo in gabbia!».

MR:

«Ah no! Non ne hanno il diritto!».

FH :

«Stavamo entrando e non uscendo...».

MR:

«Qui restiamo», dicevano i compagni. «E chissà per quanto tempo!».

FH :

Ci portarono al tetro quarto piano della Questura, di tristissima e tragica memoria.

MR:

Che moltissimi di noi, quasi tutti, conoscevamo.

FH :

Altri schedari ci aspettavano lì. “Fascicoli” dei Servizi Segreti...

MR:

I FDODER]RV, sufficienti per ospitare ognuno di noi, ci aspettavano lì con le fauci aperte...

FH :

Portavamo compagni malati.

MR:

Ci eravamo già organizzati per la loro assistenza.

FH :

Alcuni di loro, tristemente pazzi.

MR:

Insorgiamo.

FH :

«Nei FDODER]RV non c’entriamo più!».

MR:

«Ci devono ammazzare a manganellate!».

FH :

Gli addetti iniziarono ad avere qualche dubbio e andarono ad informarsi. 358


La situazione era tesa. MR:

Alla fine arriva il sollievo: «Va bene», dissero. «Potete stare nel quarto piano dove volete».

FH :

Presto arrivarono i nostri fagotti. Quelli che avevano portato via dal 3HQDO GH /LEHUWDG qualche ora prima di noi.

MR:

Ci accampammo. Sfoderammo la chitarra – sei o sette –, il mate...

FH :

Ai compagni pazzi, tragiche vittime, superstiti, che un tempo erano stati compagni valorosi, allegri, spiritosi e giovani, a ciò che era rimasto di loro dopo la tortura, cercavamo di far capire...

MR:

«Fratello, andiamo verso la libertà. Ci lasciano andare... È finita...».

FH :

E loro, con le loro mani nelle nostre, ci guardavano senza riconoscerci, con gli occhi spenti, e credendo, chissà come, a quello che dicevamo, balbettavano: «Sì. Sì.».

MR:

Provavamo in tutti i modi a strappare loro un sorriso.

FH :

Li facevamo sedere vicino alle chitarre.

MR:

Da dove iniziarono ad uscire le canzoni proibite. Quelle vecchie. Quelle quasi dimenticate.

FH :

E le nuove, quelle di Nepo... Le stavano imparando.

MR:

Nel frattempo le compagne che stavano al sesto piano, ci hanno detto dopo, quella notte credettero di sentire un mormorio lontano... «Senti». «Cosa?». «Non senti una cosa strana?».

FH :

Tesero le orecchie. Stettero in silenzio. Il mormorio era ritmico e cadenzato.

MR:

Si sentivano colpi. La gente, sempre più numerosa davanti alla Questura, picchiava sulle colonne metalliche della strada: «Sono slogan!».

FH :

Dicono che quella notte, un’altra volta, non riuscirono a dormire: fuori stava succedendo qualcosa.

MR:

Improvvisamente iniziano ad arrivare pacchetti nuovi. La famiglia! 359


FH :

C’era cibo. Cose buonissime. Fino ad allora proibite!

MR:

E non era la famiglia. Era la gente che ci mandava cose.

FH :

E in Questura non facevano misteri. Non era più proibito il cibo.

MR:

Organizzammo un fior fiore di tavolata comune: tutto è di tutti!

FH :

Era evidente che quella notte non ce ne saremmo andati. Era evidente che nessuno avrebbe dormito.

MR:

Chi suonava la chitarra, chi chiacchierava. Turni di mate ininterrotti. Ricordi, progetti, canzoni, abbracci che si ripetevano...

FH :

Se facevamo silenzio, potevamo anche sentire, come le compagne, un ritmo cadenzato che non si fermò per tutta la notte. La folla gridava, instancabile.

MR:

Poi lo scoprimmo: si accamparono per strada... Tutta la notte. La famiglia, i veterani, i nostri figli, le guardie più giovani.

FH :

Dai piani superiori (il quarto piano era un pianoterra del sistema carcerario della Questura e del Carcere Centrale), iniziarono a piovere fischi e fogliettini.

MR:

Cadevano lievemente come piume.

FH :

Raccogliemmo quei messaggi. Quelli “volanti” scritti con errori d’ortografia e lettere tremolanti: «FUORI UNA FOLLA CHE VI ASPETTA». «AL SESTO PIANO CI SONO CINQUE ». « CHE MANCA POCO ». «SE VI SERVE QUALCOSA CHIEDETECELO »... &(

&203$*1,(

)256$

MR:

Erano i prigionieri comuni, quelli che avevano un po’ più di libertà e informazioni di noi, e che ci facevano arrivare la loro solidarietà.

FH :

«EL PUEBLO UNIDO JAMAS SERÁ VENCIDO ».

*LRYHGu PDU]R &LHOLWR GH ORV WXSDPDURV

MR:

Il giorno seguente scoprimmo qual era l’ora della colazione perché iniziarono ad arrivare, da fuori, nuovi pacchetti con altro cibo.

FH :

Biscotti del forno! 360


MR:

Pasticcini secchi!

FH :

Pane con il burro!

MR:

Fumanti...

FH :

Quella mattina, le compagne riuscirono a farci arrivare – miracoli del carcere – una radio.

MR:

Ci mettemmo vicino una “guardia” permanente di compagni che c’informavano sulle novità.

FH :

Non potevamo stare tutti lì ad ascoltare!

MR:

Improvvisamente mi chiamano: dalla Cx 30 stavano mandando in onda, dalla porta del carcere, un’intervista a mia figlia Alejandra. Come si sentiva bene! E come sottofondo il coro degli slogan: «Tupa, hermano, aquí los esperamos!». «Tupa, escucha: tu lucha es nuestra lucha!»87.

FH :

In quel momento chiamano me e un altro compagno. Ci tirano fuori dal quarto piano e ci portano verso l’ascensore. Una volta lì ci comunicano che avremmo avuto un breve incontro con le nostre mogli.

MR:

La Petisa! Che non vedevi dal 1972!

FH :

Lei era al sesto piano e mi raccontò poi che all’alba del giovedì qualcuno le svelò l’arcano: al quarto piano non c’erano prigionieri comuni; c’erano “quelli di /LEHUWDG”.

MR:

Iniziarono immediatamente manovre per farci arrivare una delle radio che avevano, e le due compagne che avevano i propri uomini due piani più sotto presentarono energicamente alle autorità la richiesta di un colloquio.

FH :

Così vedo la Petisa. All’uscita dell’ascensore del piano terra del Carcere Centrale. Seduta su una panchina. Tredici anni dopo. Rimasi senza parole. Spaventato. Lei mi calmava, mi calmava. Per la prima volta nella mia vita – dico, moltissimi anni – qualcuno mi calmava... Io m’informavo, in modo incoerente, sulla sua malattia e le chiedevo di venire insieme a noi e alle altre compagne a Conventuales. «Come sei magro!», ripeteva e ripeteva senza smettere di accarezzarmi. Guarda, Ruso: ci sono cose che non si riescono a raccontare. Ci sono momenti in cui, inoltre, le parole sono di troppo. Non servono. E ci sono emozioni, questo lo sai bene quanto me, più grandi di te, al punto tale, che... semplicemente resti senza parole. Ora come in quel momento, senza parole. Semplicemente zitto, accarezzando e lasciandoti accarezzare... «Come sei magro!».

MR:

Iniziarono ad arrivare pacchetti con vestiti e verso mezzogiorno qualcuno con pollo! Erano diverse notti che, tra un’emozione e l’altra, non avevamo 361


quasi dormito. Se continuava così, non avremmo dormito neanche quella notte. FH :

Continuava ad ammassarsi gente.

MR:

Di questo passo, ci avrebbero liberati di pomeriggio: non potevano fare scelta migliore; proprio quando in centro la gente esce dal lavoro.

FH :

Rimandando la liberazione, creano maggiore aspettativa in pieno centro.

MR:

La stampa estera, presente quando fu trasmesso l’ordine del 1°di marzo, era lì, insieme a quella che era venuta per la liberazione.

FH :

Durante il pomeriggio arrivò l’ordine: «Tutti giù!».

MR:

Un’altra volta!

FH :

Ci portarono al piano terra. I fagotti rimasero al quarto piano. Da un lato c’eravamo noi 42 prigionieri del 3HQDO GH /LEHUWDG; di fronte, le cinque compagne di 3XQWD GH 5LHOHV. Ci fecero passare in un ufficio vicino, in piccoli gruppi, a firmare la libertà. Vibravano le pareti e tremavano i vetri della Questura in quel pianoterra, per i colpi ritmici degli slogan: «LIBERAR, 88 LIBERAR, A LOS PRESOS POR LUCHAR!» .

FH :

Nell’ufficio, dove il personale della Corte Suprema ci faceva firmare, era quasi impossibile parlare. «Con quale documento – gridavi – uscirò per strada?». «Per qualsiasi cosa chiami questo numero», rispondevano, anche loro gridando. Il popolo, da fuori, faceva arrivare la sua voce incontenibile che dominava tutto: «TUPAS, HERMANOS, AQUÍ LOS ESPERAMOS!».

MR:

Dopo aver firmato, ormai liberi, ci mandarono di nuovo al quarto piano. Da lì vennero presi i bagagli che caricarono su un camion.

FH :

Ora sì, arrivava il momento.

MR:

Prima, rispettando una norma sacra tra i prigionieri, togliemmo dalle borse tutto quello che fuori non sarebbe stato imprescindibile, insieme a tutto quello che potevamo regalare. Con tutto ciò che non era un ricordo caro e personale, facemmo grandi pacchetti che mandammo sopra, a quelli che restavano in carcere, ai prigionieri comuni.

HF:

E loro ci mandarono l’ultimo messaggio. Era un ordine: «PRIMA DI “SIELITO ”»; e insieme all’ordine, c’era il testo completo!

ANDARVENE CANTATE IL

MR:

Mezza dozzina di chitarre fecero vibrare le loro corde e 42 gole le loro, cantando mentre se ne andavano: 362


<R KH YLVWR DO iJXLOD PRUD YRODQGR VREUH HO FKLOFDO \ HUD HO DOPD FLPDUURQD FDPSHDQGR OD OLEHUWDG

89

FH :

Sono state forse le ore più felici della nostra vita.

MR:

E del popolo. Perché con la nostra uscita festeggiava il culmine di una grande vittoria.

FH :

Ricordo che cantando il &LHOLWR, abbracciati sulla scala, mi facesti vedere la rotellina...

MR:

La rotellina e Nepo erano con noi...

'DO FDUFHUH DO FRQYHQWR

FH :

Nel sotterraneo della Questura i veicoli con i motori accesi. Fuori una folla che ruggiva: «TUPA, ESCUCHA, TU LUCHA ES NUESTRA LUCHA!».

MR:

Violenti colpi risuonavano contro i portoni metallici...

FH :

Facevano paura.

MR:

Da quello che dicono alcune registrazioni della radio che abbiamo ascoltato, la liberazione iniziò il 14 marzo 1985 alle 19 e 10 minuti e avvenne in tre gruppi successivi. Prima le cinque compagne. Alle 20 e 4 minuti, esattamente, uscì dal sotterraneo della Questura il camion della polizia n. 550 portando i nostri fagotti. Dietro, due blindati di Fanteria nei quali eravamo noi. Uno aveva il numero 567.

FH :

Altre fonti dicono che tutto terminò alle 20 e 45... In fin dei conti non importa molto. Noi lo vivevamo senza orari. Persa totalmente la nozione del tempo. Ammassati nell’ultimo furgone vedemmo come, con grande difficoltà, chiusero dall’interno il grosso palo della porta scorrevole blindata.

MR:

L’autista della Polizia, disarmato e solo, era nervoso.

FH :

Era comprensibile. 363


MR:

«Non ti preoccupare, non ti succederà niente», gli dicemmo.

FH :

Il veicolo iniziò a salire la ripida rampa che va dal seminterrato alla strada.

MR:

I fari illuminavano il furgone davanti. Si aprirono le porte e la luce dei flash e della televisione accecarono tutti. Quasi non vedevamo più niente.

FH :

La polizia era stata messa da parte. Un cordone di compagni conteneva la folla e – paradossalmente – manteneva l’ordine.

MR:

I veicoli avanzavano a passo d’uomo.

FH :

La gente gridava: «Gli orientali non si piegano né con le torture, né con le catene».

MR:

Colpivano i blindati. Ci salivano sopra.

FH :

Improvvisamente un violento boato, e la porta scorrevole laterale, poderosa e blindata, del nostro furgone, fu sradicata dall’esterno.

MR:

Rimanemmo esposti attraverso una grande breccia laterale alle migliaia di braccia che cercavano di toccarci.

FH :

Volti bagnati dal pianto.

MR:

Qualcuno, credo Marenales, ci gridava: «Non mettete fuori le braccia! Non mettete fuori le braccia!».

FH :

Altri dicevano ai compagni che erano saliti sul furgone: «Scendi, fratello... Scendi!».

MR:

Temevamo un incidente. Le luci accecanti, le sirene, le grida, quel mare di uomini...

FH :

La leggerezza del materiale delle nostre tute da ginnastica di notte...

MR:

Alla fine i veicoli riuscirono a staccarsi dalla gente e, invece di dirigersi direttamente a Conventuales, che era molto vicino, iniziarono un percorso sinuoso per il centro e parte della Città Vecchia, per depistare la stampa e la folla.

FH :

In un determinato momento, ritornando sui nostri passi, il camion con i fagotti e il nostro furgone dietro presero contromano Canelones e si fermarono esattamente sulla porta di Conventuales.

MR:

I compagni in attesa lì si lanciarono sul cassone del camion e iniziarono a scaricare i bagagli.

364


FH :

Altri, con la fascia del 3LW Cnt90, vennero verso di noi formando una catena: «Presto compagni! Entrate presto!».

MR:

Scendemmo in un soffio, ma riuscii a vedere la gente che veniva correndo verso di noi. Per le scale di Conventuales alcuni compagni si stringevano in un abbraccio con familiari ed amici. Attraversai una stanza dopo l’altra, stritolato dalle braccia emozionate di vecchi compagni, fino a che, improvvisamente, mi trovai di fronte una ragazza alta, matura, con un sorriso splendente e lacrime sulle guance. «Quando una bambina piange e sorride» le dissi allora come tredici anni prima «fa nascere l’arcobaleno». E per la prima volta, dopo tanto tempo, io e mia figlia riuscimmo a stringerci in un abbraccio che fino a quel momento avevamo solo potuto inviare attraverso una stella.

FH :

Alcuni giovani militanti, troppo giovani per essere WXSDPDURV – io non lo potevo immaginare; ma lo erano –, responsabili dell’organizzazione di tutto, insieme ai compagni del 3LW &QW, responsabili di mantenere l’ordine fuori, ci accompagnarono...

MR:

... già erano lì Manera, Zabalza, Pepe...

FH :

... a una conferenza stampa. Qualcosa che non avevamo mai fatto nella nostra vita. Come si fa? Ti domandai. E ti chiesi di organizzare tutto per quanto fosse possibile.

MR:

Ci sedemmo tutti noi “teste rasate” su diverse sedie, e mettemmo insieme a noi, tra gli ostaggi, il figlio di Nepo, Adolfito Wasem, al posto di suo padre.

FH :

Il padre che lui non aveva potuto abbracciare quel giorno, come i nostri figli avevano abbracciato noi.

MR:

E dopo una lunga attesa iniziò la conferenza. Perché era difficile staccarsi dagli abbracci e organizzare tutto quanto.

FH :

«Tu sei Semproni?», chiesi a un uomo grosso che camminava per di là. «No», mi disse. «Io sono Tizio». E mi disse lo pseudonimo di un’antica clandestinità condivisa. «E così tu eri Semproni!», gli dissi. E gli chiesi di presentare la conferenza stampa e, siccome non avevamo nessun tipo d’esperienza, che l’interrompesse se andava male. Ci bombardarono di domande, i nostri occhi si fermavano ogni tanto sull’uomo grasso che, contro una colonna, con le braccia incrociate, alzava il pollice in segno di “bene”... E non ci interruppe mai!

MR:

Quando alla fine terminò, le nostre domande erano per la famiglia, che doveva essere da qualche parte in quella massa di gente. Gente giovane che, calcolavo, dovevano essere bambini quando tutto era iniziato. 365


FH :

Tra gli abbracci e i microfoni io ripetevo e ripetevo le domande senza una risposta precisa: «Dove sono le nostre compagne? Dov’è la mia famiglia?».

MR:

E la risposta invariabilmente era: «Non ti preoccupare, non ti preoccupare...».

,O TXDUWLHUH HUD LQ IHVWD

FH :

In tutto questo le cinque compagne erano state portate dalla polizia ognuna a casa sua e io pensavo: «Tutta la mia famiglia dev’essere qui. La povera Petisa starà bussando alla porta di una casa vuota...». I compagni che non capivano la mia preoccupazione, perché sapevano tutto, non avevano fretta di fermare abbracci e saluti. Alla fine mi portarono fuori da una porta laterale e mi fecero salire su una macchina. La folla non se ne accorse. Attraversiamo Parque de los Aliados nel pieno di una notte serena e, per la prima volta per me, tranquilla. Ebbi di nuovo la sensazione di essere totalmente nudo. Non avevo nient’altro al di fuori di quello che avevo addosso, e non era una frase fatta. Non un soldo. Non un documento. Niente. Quando dissi ai miei accompagnatori che avevo paura che la Petisa stesse sola, morirono dal ridere. «Sta a casa da un pezzo. C’è tutto il quartiere lì». Io non potevo credere che ci fosse ancora altra gente mobilitata, ma quando la macchina girò l’angolo del quartiere... C’era l’isolato pieno di gente! ... Neri con i loro tamburi. Mi tirarono fuori da dentro la macchina come un tappo dalla bottiglia, e in un solo abbraccio, da cuore a cuore, mi sollevarono, portandomi così fino alla casa di mia madre. «El que no salta es un botón» gridavano. Cantavano e ballavano, e io non sapevo cosa stesse succedendo. I miei piedi non toccavano terra. Il mio viso era zuppo di anonime lacrime. Un enorme cartello vicino alla bandiera uruguaiana attraversava casa mia: BUON COMPLEANNO . Sotto: mia madre, vecchietta, che mi aspettava. Affianco mia moglie, appena liberata, e mia figlia, in attesa. Decenni aspettando... Era il giorno del mio compleanno. Guarda, Ruso, che regalo. Alla fine arrivai fino a loro e sprofondai in quel triplice abbraccio. Poi, quella notte, senza dormire, provai a parlare con tutti. Pepe Guerra mise nelle mie mani un bicchiere di vino: il primo bicchiere della mia nuova vita. E raccontai, per sommi capi, fino all’alba, questa stessa storia che ora stiamo concludendo. La loro storia. Ma anche la nostra.

366


/D VPRUILD GHO YHFFKLR

MR:

Da Conventuales feci tre o quattro incursioni per strada. Conservo per il finale la prima: il re-incontro con donna Rosa e don Isaac, i miei genitori. Appena ti portarono via, Ñato, portarono via anche me, la terza notte, per andare alla riunione che avevano organizzato i miei amici teatranti. L’appartamento era stracolmo della “crema” delle scene montevideane. Arriva Atahualpa del Cioppo, con i suoi verticali e giovanili 80 anni... Questo vecchio formidabile non smise mai di andare a una prima e poi passare a salutare gli attori, anche quando l’opera non gli piaceva. E aveva, per quelle occasioni, una frase diventata proverbiale nell’ambiente: «È stata un’esperienza molto interessante...». Il Vecchio entra, mi vede, e ci stringiamo in un abbraccio emozionato fino alle lacrime, in mezzo a un silenzio teso. Allora, per interrompere la sua commozione, lo allontano un poco, lo prendo per le spalle e gli dico: «Don Atahualpa: abbiamo vissuto un’esperienza... molto interessante». Sciolse la sua risata silenziosa, quella degli altri fu rumorosa, e tornarono a gocciolare le bottiglie nei bicchieri tintinnanti.

FH :

Ma ci fu una notte, Ruso, nella quale sparisti da solo.

MR:

Sì... La notte in cui tornai a camminare per le strade della mia infanzia, Palermo, dov’è ancora in piedi, in rovina, il Gonzalo Ramírez 1395, vicino al Boxing Club, un edificio con patio aperto, nel quale mia madre stendeva il bucato, accendeva il braciere, innaffiava le sue piante... Da lì, a passo lento, fino ad Ansina. Lì ci eravamo sistemati in una stanza quando arrivammo da Florida, i miei genitori, mio fratello Leonel, il cane e la Singer di papà. E camminai per Ansina... Sembravano le rovine di Stalingrado. Rimaneva in piedi qualche facciata, finestrelle di mansarde come nidi di colombi, balconcini con archi. Rovine, sterpaglia, silenzio, un gatto. Camminai lentamente per il quartiere di Las Llamadas...

FH :

... risvegliando ricordi da ogni mattonella... e durante questa passeggiata da negromante arrivasti più lontano...

MR:

... fino al quartiere dello Stadio del Centenario. Lì girai per Garibaldi, la casetta dei miei genitori, con il mio borsello in spalla, mate, scarpe... tabacco.

FH :

Mancava solo la “lattina”, Ruso. Continuavi a vivere “i trasferimenti”.

MR:

Era ormai buio e iniziai a tamburellare piano. 367


FH :

Mancava solo una fisarmonica perché fosse un tango.

MR:

La casa era lì, con i balconi di marmo rotto, dove si affacciava il mio Vecchio per controllare la strada, quando ci riunivamo nel giardinetto sul retro con Bebe e il Flaco. Sembrava una bocca a cui mancavano i denti. La porta era chiusa. Accarezzai il platano della strada, che mi diede la misura del tempo: il chiodino che il mio Vecchio aveva conficcato col martello per appenderci la gabbia del cardinale, non era più alla mia altezza. Allora si aprì una porta e si affacciò una bambina. Si fermò lì, impalata, sorpresa. Un estraneo, un vecchio con una borsa, si era fermato sulla porta di casa. Sorrisi al suo timore; non disse niente. Si affacciò la madre, mi guardò come se niente fosse, fece entrare la bambina («Andiamo che fa freddo») e chiuse la porta.

FH :

I tuoi genitori già non vivevano più lì... Li avevano sfrattati da anni, e le loro povere ossa erano finite in un ospizio. Lo scopristi a Melo, ti ricordi? E quel giorno piangesti...

MR:

Tu mi dicesti qualcosa attraverso la parete.

FH :

Sì. «Un giorno la pagheranno».

MR:

Dopo la conferenza stampa chiesi di nuovo al Pelado Balmelli: «E...?». «Dai», mi rispose con un sorriso, mentre un paio di ragazzi della leva giovanile m’indicavano la strada verso una porta laterale del Convento. E in due auto ce ne andammo mia figlia, Germán Fito e il Flaco Beletti. La via Burgues era deserta, le luci della Pensione Israelita per Anziani, spente. Solo l’ingresso era illuminato, e il portiere si agitò quando arriviamo alla porta: avevano ricevuto telefonate anonime che minacciavano di mettere una bomba in quel luogo se non avessero cacciato i miei genitori, per il fatto che erano i miei genitori. Loro non lo avevano mai saputo. Le autorità della Pensione non vollero allarmarli e avevano disposto alcune misure di sorveglianza. Riconobbero mia figlia, aprirono, e ci fu una stretta di mano: «Sono mille anni che l’aspettano», mi disse la direttrice. E venimmo condotti fino alla stanzetta dei miei genitori. Entrai senza ansia né fretta, come se me ne fossi andato da casa il giorno prima. Fito mi precedette: «Glielo abbiamo portato, don Isaac... donna Rosa, è arrivato vostro figlio». I miei genitori erano a letto. Germán si trattenne a controllare il cesto delle posate cercando un apribottiglie. Aveva portato una bottiglia di grappa.

FH :

Prevista in quella poesia che anni prima avevi scritto nel FDODER]R di Minas, ti ricordi?, “Brindisi col mio Vecchio”.

<R Vp TXH ORV GRPLQJRV FDVL DO PHGLRGtD

368


DEUtV FRQ FDXWHOD HO YLHMR DSDUDGRU \ YHUWtV HQ XQ YDVR GHO PLVPR OLFRU TXH HQ ORV EXHQRV WLHPSRV FRQ YRV FRPSDUWtD <R Vp TXH D HVH WUDJR OH IDOWD DOHJUtD \ TXH DO WRPDUOR QR OH KDOOiV VDERU SRUTXH D YHFHV VXHOH ERUUDU HO GRORU VX JXVWR DO YLQR \ OD OX] DO GtD 3HUR YRV VDEpV TXH OD WRUPHQWD SDVD \ TXH HO LPSODFDEOH VRO QR VH GHWLHQH FXDQGR XQ QHIDVWR QXEDUUyQ OR WDSD 3RU HVR Vp TXH YROYHUp D WX FDVD DOJ~Q GRPLQJR TXH HO DOPDQDTXH WLHQH SDUD EHEHU FRQ YRV XQD ULVXHxD JUDSD

91

MR:

Mi fermai ai piedi del letto. I miei genitori sorridevano con serenità, e mamma disse la prima parola. Fu una domanda, quella, quella di sempre fin dai tempi del cordone ombelicale: «Hai mangiato?». «Siediti», aggiunse papà. «Sei molto magro». Quella piccola camera da letto conservava alcuni mobili e oggetti della mia infanzia, salvati dalla distruzione quando ebbero lo sfratto. Lì c’erano cinquant’anni della mia vita. Ad esempio, quella sediolina di legno fatta in casa quando io non andavo ancora a scuola, dove si è sempre seduta mia madre per il rituale mate dolce del pomeriggio. Il mio Vecchio toccò leggermente le lenzuola alla sua sinistra perché mi sedessi lì. E così feci, come quando, da ragazzo, Leonel e io di notte ci mettevamo come principini sotto il piumino che veniva dalla Polonia, e papà ci leggeva la Bibbia e parlava di Mosè, «colui il quale sollevò gli schiavi per renderli liberi». Allora mamma, con mani tremanti, prese le mie, e il mio Vecchio, ridendo con la sua risata celeste da bambino dispettoso, mi fece una smorfia.

FH :

Con cui chiudiamo, Ruso, questa lunga storia.

369


1RWH

1. Celle di isolamento costruite e utilizzate durante la dittatura in Uruguay, ricavate quasi sempre sottoterra, e quindi senza finestre, sia all’interno delle carceri di sicurezza che all’interno delle caserme, di circa un metro e ottanta di altezza e centoventi centimetri di lato. 2. Camion con cui si effettuavano i trasferimenti, nonché unità militare responsabile dei trasferimenti, che aveva tra le sue componenti anche un medico e un barbiere. 3. Si riferiscono a José Mujica, il compagno del 0RYLPLHQWR GH /LEHUDFLyQ 1DFLRQDO 7XSDPDURV (MLN) che viaggiò insieme a loro in tutti i trasferimenti. 4. Carcere civile di massima sicurezza di Montevideo. 5. 'RY·q LO WXR XFFHOOLQR SLXPD" LO PLR XFFHOOLQR q XQ VRJQR Ë YRODWR YLD 7RUQHUj" 1RQ VH QH YD PDL YROD H UHVWD FRPH YRODQR H UHVWDQR L VRJQL

6. Politico e leader militare, capo del 3DUWLGR 1DFLRQDO. 7. Acronimo di 8QLyQ *HQHUDO GH 7UDEDMDGRUHV. 8. Il 3ODQWHO &RQYHQWRV dell’ottavo Reggimento di Cavalleria di Melo si occupava dell’allevamento di bestie per l’alimentazione dell’esercito, di cani poliziotto ecc. 9. José Fructuoso Rivera: primo presidente dell’Uruguay (1830-1834; 18391843). Dopo aver partecipato alle guerre d’indipendenza della Banda Oriental contro i domini spagnolo e portoghese, nel 1824 fu nominato comandante generale delle forze uruguaiane. L’episodio si riferisce al periodo in cui fu esiliato in Brasile, nel 1847. 10. Zucca o recipiente in cui si beve l’infuso delle foglie dell’albero ,OH[ SDUDJXD\HQVLV, chiamato comunemente “erba mate” o “mate”, considerato una bevanda sana ed eccitante. Il rito del mate si svolge con un termos d’acqua calda, l’erba da mettere in infusione, una zucca come recipiente e una cannuccia metallica. 11. Pianta simile all’acacia utilizzata per le infusioni. 12. Gregorio Conrado Álvarez Armelino è stato dittatore dell’Uruguay dal 1 settembre 1981 al 12 febbraio 1985. Il 17 dicembre 2007 è stato incarcerato per violazione dei diritti umani. 13. 6FULYHVWL VX XQ ELJOLHWWLQR ´WL YRJOLR EHQH SDSjµ H ODQFLDQGROR LQ DULD FRQ XQ VRIILR

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370


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14. ( VH TXHVWR IRVVH ,O PLR XOWLPR SRHPD ULEHOOH H WULVWH ORJRUR PD SUHJQR VROWDQWR XQD SDUROD VFULYHUHL &RPSDJQR

15. 7XSDPDUR è l’appellativo con cui si definiscono i militanti del 0RYLPLHQWR Il sostantivo deriva dal nome dell’ultimo re Inca, Túpac Amaru II, scelto come nome di battaglia dell’ultimo capo di un’insurrezione indigena del Settecento. L’appellativo veniva dato ai nativi durante il periodo della dominazione spagnola, ma è poi passato a indicare ogni sorta di rivoluzionario. GH /LEHUDFLyQ 1DFLRQDO

16. Entrambi Presidenti dell’Uruguay durante il periodo della dittatura. 17. Questo brano è stato selezionato dalla prima edizione di 0HPRULDV GHO &DODER]R (1989) perché mancante nell’edizione ultima, in un unico volume, edita nel 2006. 18. Movimento studentesco nato in Uruguay negli anni Sessanta che comprendeva giovani di diverse tendenze politiche anti-marxiste, dal nazionalismo al fascismo, dai cattolici ai popolari, che condividevano però l’idea di un Uruguay democratico. 19. La SLFDQD è un pungolo usato per incitare il bestiame dai JDXFKRV argentini negli anni trenta. Durante le dittature sudamericane la SLFDQD HOpFWULFD è stata utilizzata come strumento di tortura durante gli interrogatori. 20. Legge che permise una transizione blanda senza punire chi aveva solo eseguito gli ordini obbedendo ai superiori. 21. Carcere “normale” dove fu rinchiuso appena “caduto”, prima che i militari “inventassero” la condizione di ostaggio. 22. Quartiere periferico di Montevideo a ridosso della spiaggia. 23. Quartiere residenziale di Montevideo, con un grande parco. 24. Pitango solforato, uccellino di 22 cm dalla testa striata. 25. Grande albero tipico della Pampa. 26. Nel capitolo “Storia di un sputacchiera rosa” si racconta che Mujica riuscì ad ottenerla con l’astuzia, un giorno in cui in caserma si celebrava una festa militare, gridando dalla finestra del suo FDODER]R di aver bisogno del bagno. Per evitare altre interruzioni nella manifestazione, gli consegnarono la sputacchiera, che sarebbe stata difesa con le unghie e con i denti fino all’ultimo giorno di reclusione. 27. &RQIHGHUDFLyQ 1DFLRQDO GH 7UDEDMDGRUHV principale sindacato uruguayano. 28. Il Fusil Automatique Léger, Fal, è un fucile d’assalto. 29. Collegio femminile. 30. Calciatori della Nazionale argentina che vinse i Mondiali di calcio nel 1978. 31. Fondatore del 0OQ 7. 32. Pratica istituzionalizzata durante le dittature del Río de la Plata: irruzione, occupazione, sopralluogo e, spesso, saccheggio e devastazione 371


del domicilio del sospettato in attesa che rientrino tutti gli appartenenti al nucleo familiare. 33. /RV 2OLPDUHxRV è il nome di un gruppo di musica e canti popolari formato da Pepe Guerra e Braulio López intorno al 1962. 34. Cantastorie della pampa. 35. 2UJDQLVPR &RRUGLQDGRU GH 2SHUDFLRQHV $QWLVXEYHUVLYDV 36. 7L VHL SRVDWD VXOOD JUDWD SLFFROLQD &KH FL IDL Ou" 9DL YLD )XRUL FRUURQR L ULGHQWL

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37. L’incidente del Nicaragua, raccontato in un capitolo precedente dal titolo “Un tale Daniel Ortega” si riferisce alle richieste d’informazioni che tre soldati avanzarono a Eleuterio Fernández Huidobro, riguardo un capo della JXHUULOOD del IUHQWH VDQGLQLVWD in Nicaragua, poi diventato Presidente. 38.

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39. La FXPELD è una musica popolare, un canto e una danza colombiana, oggi in uso come ballo di coppia in Colombia e nella zona amazzonica del Perù. 40. José Gervasio Artigas, eroe dell’indipendenza uruguaiana. 41. L’Fma Ia-58 Pucará, in lingua quechua )RUWH]]D, è un bimotore ad ala bassa da attacco al suolo leggero e con compiti antiguerriglia. 42. Si tratta del Plebiscito Costituzionale del 30 novembre 1980. La vittoria del NO avrebbe dato luogo all’eliminazione del bipartitismo semplice, dando la maggioranza assoluta al partito che usciva vincente dalle elezioni. 43. Incrocio tra Avenida 18 de Julio, arteria principale di Montevideo, e Andes. 44. In un capitolo più avanti, che non abbiamo selezionato, Rosencof racconta la storia di questa rotellina che aveva trovato a Rocha nel 1979 e che aveva perso durante una delle poche ore d’aria a Laguna del Sauce nel 1981. In realtà la rotellina durante gli anni era stata ritrovata e conservata da tutti gli ostaggi in tempi e luoghi diversi, cosa che avrebbe permesso in un secondo momento agli ostaggi di ricostruire gli spostamenti di tutti i gruppi nelle varie Divisioni e Caserme. 45. Qui e successivamente si riferiscono agli altri ostaggi: Raúl Sendic (Bebe), José Mujica (Pepe), Adolfo Wasem (Nepo), Julio Marenales, Henry Engler, Jorge Manera e Jorge Zabalza. 46. Il ponte Bailey è un tipo di ponte costituito di elementi modulari, prodotto durante la seconda guerra mondiale per sostituire i ponti distrutti nelle operazioni belliche. 47. 8QD PRQHWD GL VROH (QWUD QHO PLR VDOYDGDQDLR 7LQWLQQD WUD OH SDUHWL ULVFKLDUD

OH RPEUH 6RPPDQGROL SHU WXWWL TXHJOL DQQL DUULYDURQR D XQ JLRUQR

48. Monumento montevideano nel centralissimo incrocio tra 18 de Julio e Constituyente. 49. Armando Discepolo fu il creatore del “grotesco criollo” nella drammaturgia rioplatense. 50. Industrie nazionali di insaccati. 372


51. Telê Santana da Silva è stato un calciatore e allenatore di calcio brasiliano. 52. Rivera e Santa Ana do Livramento in precedenza erano una sola città, divisa poi dalla linea di frontiera tra Brasile e Uruguay. 53. 7UHV ÉUEROHV è la marcia che evoca la battaglia del 17 marzo del 1897 sul ruscello Tres Árboles, nella quale l’esercito rivoluzionario argentino, con a capo il colonnello Diego Lamas, sconfisse le forze governative. La marcia, solo strumentale, appartiene al repertorio dell’esercito argentino ma in Uruguay, con il testo di Julio Casas Araujo, divenne emblema del Partido Nacional. 54. &L VRQR FRPELQD]LRQL GHO FDVR FRVu IHURFL Ë FRVu SHUVHYHUDQWH OD PDODVRUWH 'D QRQ FUHGHUH SL LQ OHL FKH q VHPSUH LQQRFHQWH ( FUHGHUH VHQ]D GXEELR LQ GLR 1HOO·HVLVWHQ]D GL GLR 8Q GLR FUXGHOH PDOYDJLR ILJOLR GL SXWWDQD

55. Fernando Morena, calciatore della squadra uruguaiana del Peñarol, una delle due squadre della città di Montevideo (maglia giallo-nera). 56. 0XRLR G·DPRUH SHU WH $QJHOR G·LQFDQWL IDWDOL 3UHJDQGR O·HWHUQR 'LR '·LQWHUYHQLUH SHUFKp WX $OOHJJHULVFD OH PLH ODFULPH

57. /D JXHUUD GHO ILQ GHO PXQGR (1981), romanzo dello scrittore peruviano Mario Vargas Llosa. 58. Forma di protesta popolare consistente in percuotere pentole e coperchi. Nata in Cile, in un primo tempo era effettuata di notte nelle singole case, e poi in cortei e manifestazioni. 59. “Finirà, finirà, la dittatura militar”. 60. “Chi non salta è uno sbirro”. 61. +R JLj IDWWR LO PLR EDJDJOLR FLDR &RSHUWD WDEDFFR ODWWLQD 7RUELGR SR]]R GL

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62. “I mali non finiscono mai; crescono poco a poco”, dal poema JDXFKHVFR di José Hernández.

0DUWtQ )LHUUR

63. Ballo dal ritmo vivo, di origine africana, frequente in alcuni carnevali dell’America del Sud. 64. Tango di Gardel “Addio ragazzi”. 65. “Vedo scorrere nella chiara linfa di aprile, il coraggio di chi conficcò la sua chiglia nella terra quel quattordici...”. (14 aprile 1972, i primi WXSDPDURV morti in uno scontro con la polizia). 66. “Addio ragazzi, compagni della mia vita/ amici cari di quel tempo...” 67. Tango di Adolfo Wasem “Torna all’imbrunire”. 68. $YHYD XQR VFDUDERFFKLR VXOOD WHVWD H XQ·DQGDWXUD WUDQTXLOOD &L JXDUGDPPR GD 373


ORQWDQR VHQ]D SRWHU SDUODUH 6ROR TXHVWR VHJQDOH ´%HQHµ &KH D IRU]D GL XVDUOR

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69. 8Q JLRUQR OR YHQQHUR D SUHQGHUH 1HOOH DQDOLVL F·HUD TXDOFRVD GL VWUDQR )HFH

IDJRWWL WUDQTXLOOR QHOOD FHOOD YLFLQD H LQWRQz O·´DGLyV PXFKDFKRVµ QLWLGR H TXDVL DOOHJUR &RVu VWDQQR OH FRVH 1HSR 7H QH VHL DQGDWR WX ( VLDPR DQFRUD LQ QRYH

70. Il “Patto del Club Navale” fu firmato tra i comandanti delle Forze Armate e i rappresentati dei partiti da poco eletti, per garantire nuove elezioni che avrebbero permesso la restaurazione della democrazia. 71. Partido Colorado. 72. Partido por la Victoria del Pueblo. 73. Movimiento 26 de Marzo, braccio ‘legale’ del Mln-T 74. “Wasem, ascolta, la tua lotta è la nostra lotta!” 75. Pantaloni larghi, stretti alla caviglia, tipici dei JDXFKRV e dei contadini. 76. Uccellino bianco sul petto e rosso sul dorso. Secondo la leggenda, nato da una fiammella. 77. 0LU forza militante che riuniva tutti i partiti di sinistra. 78. Seguaci di Battles y Ordóñez, Presidente della Repubblica agli inizi del Novecento, che ‘creò’ l’Uruguay laico e liberale. 79. Bandiera del Movimiento 26 de Marzo. 80. Servicio Paz y Justicia. 81. Federacíón Uruguaya de Cooperativas de Viviendas por Ayuda Mutua. 82. Asociación Social y Cultural de Estudiantes de la Enseñanza Pública. 83.

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84.

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VROH GLVWLOOD LQHEULDQWH XQD VSHUDQ]Dµ

85. )XFLOHURV 1DYDOHV. 86. Poema/ canzone di forma popolare. 87. “Tupa, fratello, qui vi aspettiamo!”, “Tupa, ascolta, la tua lotta è la nostra lotta!”. 88. “Liberate, liberate i prigionieri che erano stati catturati a causa delle loro lotte”. 89. “+R YLVWR O·DTXLOD DUDED FKH YRODYD VRSUD &KLQFDO HG HUD O·DQLPD OLEHUD VRUYRODQGR OD OLEHUWjµ (&LPDUUyQ: schiavo nero fuggito dalle piantagioni). 90. Plenario Intersindical de Trabajadores – Convención Nacional de Trabajadores. 91. ´,R VR FKH OD GRPHQLFD TXDVL D PH]]RJLRUQR DSUL FRQ FDXWHOD LO YHFFKLR FRPz H

YHUVL LQ XQ ELFFKLHUH OR VWHVVR OLTXRUH FKH QHL WHPSL EXRQL FRQGLYLVL FRQ WH ,R VR FKH D

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374


SDVVD H FKH LO VROH LPSODFDELOH QRQ VL IHUPD TXDQGR XQD QXEH QHIDVWD OR QDVFRQGH

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375


0HPRULDV GHO FDODER]R $QDOLVL 7UDGXWWLYD

Da quando, intorno agli inizi del novecento, ha iniziato a svilupparsi un particolare fermento intorno alla traduzione come disciplina accademica, affrancandola dal semplice utilizzo nell’insegnamento di lingue straniere come metodo pratico per verificare l’apprendimento delle strutture linguistiche di un’altra lingua, diversi studi sui metodi traduttivi hanno dato luogo ad una scienza nuova che prende il nome di traduttologia. È stato lungo e faticoso il percorso che questa scienza ha compiuto per cercare di risolvere problematiche frequenti nelle pratiche traduttive, passando da un’iniziale impronta formalista, che si basava su una tecnica che ricercava equivalenti grammaticali e lessicali dei testi da tradurre, spesso tralasciando l’insieme del testo e quindi dando un prodotto finale che non aderiva alla lingua di arrivo; fino ad approdare ad un tipo di traduzione che possiamo definire “comunicativa”, che si muove analizzando una serie di aspetti correlati alla lingua ed al testo per “comunicare” al nuovo lettore le stesse informazioni ma anche le stesse sensazioni comunicate al lettore di L1. È questa, senza dubbio, la tecnica traduttiva maggiormente utilizzata attualmente, ed ancor di più quando bisogna cimentarsi con traduzioni di testi contemporanei. I parametri da seguire per tentare di avvicinarsi il più possibile ad una buona traduzione sono molteplici, innanzitutto in base al tipo di testo da tradurre, sia esso di un genere specialistico tecnico-scientifico, e pertanto abbia un lessico specifico, di un genere storico-referenziale, o un testo letterario. Ad ogni modo, la prima mossa di un buon traduttore dev’essere quella di documentarsi sull’argomento, qualsiasi esso sia. Entrando nello specifico, analizzando le difficoltà traduttive di 0HPRULDV GHO FDODER]R, dobbiamo innanzitutto evidenziare che si tratta di un testo ibrido, letterario e referenziale al tempo stesso, e quindi le problematiche riscontrate appartengono a entrambe le tipologie. Si tratta, infatti, di un testo narrativo che appartiene al filone della narrativa di denuncia, pertanto conserva un livello linguistico colloquiale, accentuato maggiormente dalla struttura dialogica in cui sono narrate le vicende. I protagonisti, che coincidono con i due autori-narratori, raccontano le peripezie di tredici anni di detenzione vissuti insieme, separati da una parete. Pertanto la loro complicità e confidenza rende ancor più colloquiale il linguaggio utilizzato, al punto da sfociare spesso in espressioni gergali, oppure da omettere spiegazioni riguardo vicende vissute insieme, perché ritenute informazioni condivise non solo dai due protagonisti, ma anche dal pubblico uruguaiano a cui l’opera è diretta. 376


È a questo punto che deve intervenire la qualità più importante di un traduttore: la curiosità. Un traduttore, infatti, nel momento in cui decide di trasferire un testo da una lingua di partenza ad una lingua di arrivo, non deve solo avere dimestichezza con entrambe le lingue, ma deve immaginare di trasferire nella lingua di arrivo tutto il bagaglio culturale di cui il testo di partenza è pregno. È pertanto necessario porsi continue domande di fronte a concetti non espressi esplicitamente ed arrivare a capire cosa c’è dietro l’ermetismo con cui a volte sono trattate alcune informazioni nel testo di partenza, per poter evitare che il lettore del testo di arrivo trovi lacunoso e incomprensibile il testo di arrivo. Nel caso dell’opera in questione, fondamentali sono state delucidazioni riguardanti eventi storici specifici del periodo della dittatura uruguaiana, ritagli di giornali raggiunti tramite internet che hanno aiutato a comprendere anche l’attuale posizione politica di personaggi ancora vivi e su cui non vi è molto materiale a disposizione. Dal punto di vista linguistico sono stati indispensabili dizionari specifici sul lessico dell’America Latina, quale “Marcos A. Moríngo, 'LFFLRQDULR GHO (VSDxRO GH $PpULFD, Milhojas, Madrid, 1996”, insieme al dizionario specifico del linguaggio Rioplatense “Jose Gobello, 'LFFLRQDULR /XQIDUGR, A. Peña Lillo, Buenos Aires, 1982”, quello di termini ispanoamericani “Renaud Richard (Coordinador), 'LFFLRQDULR GH +LVSDQRDPHULFDQLVPRV Catedra, Madrid, 2000” e a molti altri dizionari di lingua spagnola, poiché sono stati numerosi i casi in cui ho riscontrato diversità di significato di alcuni termini nei dizionari specifici dello spagnolo parlato in America Latina e in quelli dello spagnolo di Spagna. Ulteriore difficoltà lessicale è stata provocata dalla precisione minuziosa della narrazione, che spesso si muove in ambiti linguistici specifici di cui personalmente non ho padronanza nemmeno nella mia lingua. Il linguaggio specifico più frequentemente utilizzato è stato senza dubbio quello militare, al quale si riferisce la maggior parte della narrazione, ma numerose sono le incursioni in altri linguaggi specifici quali quello medico, attraverso descrizioni di malattie, quello naturalistico, con la menzione di razze animali inesistenti nella cultura di arrivo, quello culinario, ed altri ancora.

377


In alcuni casi, ad esempio per quanto riguarda le specie animali, si è pensato di sostituire il nome della razza specifica con il suo iperonimo, quindi con il sostantivo indicante la specie.✛✙✜ Così ad esempio la frase: «FRPLHQGR WDUDULUDV FUXGDV \ FRODV GH YLHMDV GH DJXDª diventa in italiano «quando mangiavamo pesce d’acqua dolce anche crudo», onde evitare di spiegare le caratteristiche di queste due razze di pesci d’acqua dolce, che non sembravano indispensabili ai fini della comprensione del testo globale. Diversamente mi sono comportata, ad esempio, nella traduzione di «EHQWHYHR», all’interno della frase ©SRUTXH ORV JRUULRQHV SLDEDQ \ HO EHQWHYHR TXH HV 71 PX\ PDGUXJDGRU PDQGDED VX SULPHU FKLOOLGR» . L’autore ha già esplicitato nella frase la caratteristica dell’uccello di essere il primo che compare all’alba e dà il primo grido di risveglio. La prima logica equivalenza in lingua italiana, cultura nella quale questa specie è sconosciuta, sarebbe stato il gallo, anch’esso primo a svegliarsi con il sorgere del sole, e che con il suo grido avvisa che è arrivato un nuovo giorno. Alternativa questa esclusa sia per le diversità fisiche ( il EHQWHYHR è più simile ad un passero - già nominato nella stessa frase - JRUULyQ sia per alcune connotazioni indirette presenti nel nome EHQWHYHR EHQ WL YHGR EXRQJLRUQR: infatti %HQWHYHR è un sostantivo che manifesta palesemente una carica semantica e sonora che va al di là di qualsiasi traduzione, che può essere resa solo ed esclusivamente da questo sostantivo. Evidente è la valenza onomatopeica, che sembra lasciarci immaginare il suo canto, ed intraducibile la caratteristica di QRPHQ RPHQ radicata dal sostantivo, che ci trasferisce l’immagine complessiva di un piccolo uccello che dà il buon giorno al mondo: ho preferito quindi inserire una nota a piè di pagina e lasciare il nome spagnolo. Si è scelto d’inserire note a piè di pagina e non un glossario, poiché sono pochi i termini in lingua spagnola che restano non tradotti poiché carichi di una valenza semantica che li rende unici e senza equivalenza nella lingua di arrivo. Subito risalta alla vista il sostantivo lasciato immutato nel titolo: FDODER]R. Con il termine FDODER]R ci si riferisce ad un particolare tipo di cella d’isolamento, sviluppata in verticale, dall’altezza di 180 cm, lunghezza e larghezza di 120 cm, che si trovava sia all’interno delle carceri che all’interno delle caserme. Erano celle quasi sempre sotterranee o seminterrate e potevano avere, a seconda del luogo, una porta frontale con spioncino, o una botola all’estremità superiore, a volte formata da grate di ferro, quindi aperta al passaggio di corrente e pioggie, a volte chiusa.

70

Mauricio Rosencof, pag. 240. 71

,YL

0HPRULDV GHO FDODER]R

Ediciones de la Banda Oriental, Montevideo, 2006,

pag. 106.

378


Non esiste un equivalente nella cultura italiana, e soprattutto, considerando la centralità del OXRJR all’interno del quale si svolge l’intera narrazione, non era possibile scegliere un termine sostitutivo che non corrispondesse effettivamente al significato di FDODER]R La scelta della traduzione del titolo è complessa anche perché legata a vincoli commerciali, che attribuiscono al titolo il primo impatto con il possibile compratore-lettore. Pertanto, per sopperire alla mancanza di un equivalente del termine spagnolo, si è pensato d’introdurre un sottotitolo che richiamasse l’ambito semantico indicato dal termine FDODER]R e che contemporaneamente, fornendo le coordinate generali della storia, ne anticipasse vagamente l’argomento: Tredici anni sotto terra. Sono rimasti in spagnolo i vezzeggiativi impossibili da tradurre, quali «Ñato» riferito ad Eleuterio Fernández Huidobro e «Nepo» riferito ad Adolfo Wasem. Un altro termine lasciato in spagnolo con nota a piè di pagina è “URSHUR”, che incontriamo virgolettato nel testo. È il termine che i due autori usano in confidenza per riferirsi all’Unità dell’esercito che si occupava del rifornimento delle uniformi, da cui URSHUR-armadio, ma che si occupava anche dei loro trasferimenti e dei controlli precedenti al trasferimento (all’interno dell’Unità vi erano anche un medico ed un barbiere). “5RSHUR” è anche in camion con cui avvenivano i trasferimenti. Per evitare un equivalente italiano troppo specifico e ridondante agli occhi di un pubblico non esperto, si è pensato a questa soluzione, per sottolineare che il sostantivo utilizzato non equivaleva al nome specifico dell’Unità. Ulteriori note a piè di pagina sono di tipo esplicativo, riferite a nomi propri di uruguaiani, soprattutto politici e calciatori, che gli autori spesso utilizzano, sconosciuti nella cultura d’arrivo del testo. Altre note si riferiscono a sigle di partiti politici, ad avvenimenti storici solo accennati e che senza una spiegazione limiterebbero la comprensione delle vicende, o ancora ad eventi relativi ai capitoli del volume che non sono stati selezionati per la traduzione. Un ulteriore problema di comprensione legato allo spagnolo rioplatense, è l’utilizzo del YRV alla seconda persona singolare, al posto del W~ spagnolo, accompagnato dal verbo in terza persona (variante conosciuta con il nome di YRVHR). Ad una prima lettura superficiale, non riconoscendo questa variante regionalistica si sarebbe potuto fraintendere il piano comunicativo dell’intera opera, traducendo con il “lei” formale italiano tutte le terze persone, al posto del colloquiale “tu” che rappresenta la forma corretta. Il testo, oltre a presentare problemi lessicali, gergali e di forma, presenta anche problemi legati ai generi testuali, poichè all’interno dell’opera non si trovano solo dialoghi, bensì amche altri generi letterari quali la poesia, la letteratura infantile, gli articoli di cronaca. 379


Pertanto la ‘lettura’ di un testo durante una traduzione si modifica in continuazione in base alla multiformità del testo stesso. Di fronte alla traduzione di brevi poesie si è inizialmente proceduto con una traduzione, nel rispetto delle rime e della struttura originali. Ma dopo aver constatato che la traduzione avrebbe svilito l’originale, si è deciso d’inserire nel testo la versione in lingua originale, in modo da non tradire le scelte dell’autore in quanto a musicalità, lessico ed impatto sul lettore. Le poesie sono state poi tradotte in modo letterale in nota, in modo da mantenere da un lato la poeticità attraverso le parole dell’autore stesso, e dall’altro di permettere la comprensione del testo – anche in questo caso un testo di denuncia attraverso una traduzione fedele, proprio perché non ha dovuto confrontarsi con le limitazioni imposte da una ‘gabbia’ formale. Allo stesso modo si è agito con gli slogan, gridati dal popolo davanti alle carceri per sostenere i prigionieri/ ostaggi e per far sentire la propria voce all’interno della situazione politica nazionale. Gli slogan contengono un messaggio stringato, contenuto all’interno di una breve frase, che assume cadenza ritmica se ripetuto più volte di seguito. Non potendo raggiungere lo stesso effetto nella trasposizione in un’altra lingua, anche gli slogan sono stati lasciati nel testo in spagnolo, con la traduzione inserita nelle note a piè di pagina. Per quanto riguarda i testi di letteratura infantile, si è preferito smorzare i toni utilizzando una terminologia fantastica ma pur sempre semplice, immaginando i testi in questione effettivamente diretti ad un pubblico infantile. Al contrario, per quanto riguarda alcuni articoli di giornale, firmati da Mario Benedetti, si è ritenuto opportuno utilizzare uno stile più erudito, lineare e sintetico, tipico appunto della cronaca. Un altro dettaglio da sottolineare nella scrittura di Rosencof e Fernández Huidobro è il passaggio repentino da un tempo verbale passato ad uno presente e viceversa, licenza poetica che aiuta il lettore a calarsi nella vicenda, nella sua immediatezza, e che pertanto è stato rispettato nella traduzione italiana, insieme a ripetizioni dello stesso termine in frasi attigue, quando presenti, poiché ritenute precisazioni e sottolineature dell’autore. Tradurre, spesso, vuol dire reinterpretare ma anche un testo perché arrivi ad essere compreso nella lingua di arrivo, ma questi casi travalicano il dibattito riguardo la scelta di una traduzione libera oppure letterale, ancora non risolto. Se tradurre vuol dire interpretare le parole dell’autore, comprendere il suo messaggio e trasmetterlo nel miglior modo possibile nella lingua di arrivo, può essere necessario modificare delle espressioni, dei modi di dire, a causa di una mancata corrispondenza nella lingua di arrivo, senza che questo siginifichi che si è optato per una traduzione libera. Ci si è solo preoccupati di rendere lo stesso messaggio con una formula equivalente ma non uguale.

380


È questo il caso della seguente traduzione del modo di dire «(V FRPR VL »72 all’interno del seguente periodo: «(Q OD FXOWXUD SULPLWLYD ORV EUXMRV GH ODV WULEXV SUDFWLFDQ OD PDJLD < OD SXGLHUD HVWDU HQ FHOR \ DFi KXELHUD XQ OODPDGR DPDWRULR

PDJLD WLHQH XQD FRQVWDQWH SDUD LQYRFDU D OD OOXYLD LPLWDQ VX VRQLGR R VX FRQGXFWD (V FRPR VL SXGLHUD HVWDU HQ FHOR \ DFi KXELHUD XQ OODPDGR DPDWRULR

», che è stato tradotto con: «È un richiamo d’amore per un gatto in calore», creando cioè una frase che richiami la struttura del proverbio originale e che indichi la stessa corrispondenza tra il richiamo e l’effetto, cioè trasmetta lo stesso messaggio. Simile il caso della frase spagnola «De allí era la anécdota del sargento que había cargado a tal punto su carro con varillas de hierro, que el caballo quedó suspendido por las varas, en el aire73», che presentava un gioco di parole tra YDUDV e YDULOODV, reso in italiano con un gioco tra “palle di ferro” e “bocce”, che riuscisse a mantenere sia il gioco della ripetizione, ma anche la stessa fantasiosa caratteristica dell’aneddoto che circolava all’interno della caserma, attraverso la frase: «Da qui l’aneddoto del sergente che aveva caricato al punto tale il suo carro con palle di ferro, che il cavallo poteva giocare a bocce». È doveroso ancora sottolineare che la presente traduzione di 0HPRULDV GHO FDODER]R non è una traduzione integrale dei tre volumi dell’opera, ma è una selezione di brani che si sono ritenuti fondamentali e che conservano linearità e consequenzialità, senza interruzioni o lacune narrative. Sono stati utilizzate due edizioni diverse: quella in tre volumi separati del 1989 e quella ultima, in volume unico, del 2006, editi entrambi a Montevideo dalla casa editrice Banda Oriental. Confrontando le due edizioni ho riscontrato alcuni errori di stampa della prima versione, a volte corretti nell’edizione più recente, ed ho soprattutto riscontrato l’assenza, nell’ultima edizione, di un capitolo che invece ho scelto di tradurre e d’inserire nella raccolta, dal titolo “&RURQHO &RFD &ROD”. Per concludere vorrei evidenziare quanto si possa ritenere 0HPRULDV GHO opera chiave della letteratura di Mauricio Rosencof ed Eleuterio Fernández Huidobro, punto nevralgico da cui tutto parte ed a cui tutto torna. Perché tradurre “memorie” significa riscattare una storia, un’identità, una nazione, un episodio, anche una sola vita, e le atrocità, spesso dimenticate, spesso sottovalutate, in una nazione così piccola e ‘bianca’, europea’, da non essere considerata nell’immaginario collettivo europeo scenario di barbarie.

FDODER]R

72 73

,YL

, pag. 103. ,YL pag. 246.

381


&RQFOXVLRQL

Al termine di questo viaggio all’interno di un ramo della letteratura Latino Americana, ed ancor più nello specifico all’interno della vita di un uomo, della sua esperienza e dei processi consci ed inconsci che l’hanno spinto a rompere il silenzio non solo all’interno dei FDODER]RV della dittatura, ma anche nel mondo esterno, quello contemporaneo, ancora all’oscuro di tali atrocità, ci resta la consapevolezza che la denuncia, la testimonianza, non è solamente un grido per squarciare le tenebre dell’indifferenza e della paura. È un mezzo attraverso il quale riportare alla memoria persone, esperienze, azioni, positive o negative, e così rendere giustizia alla memoria di chi non è riuscito a sopravvivere. Il viaggio condotto sulle traccie di Mauricio Rosencof e delle sue molteplici vite ed identità, ci aiuta a percepire quanto sia vincolante il rapporto tra un autore, la propria opera e la realtà circostante. Il contesto di un’opera letteraria, qualsiasi sia il filone di appartenenza, non dev’essere mai sottovalutato al momento di una traduzione, poichè sono tante le tematiche che, non approfondite, lascerebbero vuoti evidenti all’interno della narrazione. La traduzione di un’opera può avvenire solo previa analisi tematica, testuale e contestuale, e l’esperienza di 0HPRULDV GHO FDODER]R manifesta proprio questa necessità. La necessità di indagare nel sottosuolo d’informazioni condivise in una cultura di partenza, che non appaiono così ovvie alla cultura di arrivo. La necessità di scoprire le condizioni reali descritte dall’autore, che a primo impatto confondono per l’atrocità, e lasciano interdetto un traduttore, quasi ostile alla riproduzione di descrizioni così crude, così irreali, così ‘incomprensibili’. È risultato senza dubbio utilissimo il confronto, al momento della traduzione, con il testo tradotto in italiano, /H OHWWHUH PDL DUULYDWH, a cura di Fabia Del Giudice e quello in corso d’opera &RQYHUVD]LRQL FRQ OH HVSDGULOODV a cura di Martha Canfield, in quanto entrambe le traduttrici hanno affrontato problematiche linguistiche e lessicali simili a quelle riscontrate da me all’interno di 0HPRULDV GHO FDODER]R. È sembrato logico pertanto analizzare in particolare la traduzione di /DV FDUWDV TXH QR OOHJDURQ, unica attualmente edita, e seguire le stesse scelte lessicali, per creare una continuità letteraria all’interno delle opere dell’autore tradotte in italiano.

382


Ma al termine di questo viaggio, sviscerando da diverse prospettive le due opere che maggiormente rappresentano le esperienze di vita pregnanti di Mauricio Rosencof, ci accorgiamo di quanto la vita di un uomo possa essere rappresentativa della propria cultura, ovvero culture, di appartenenza, e di quanto sia necessaria una corrente letteraria che si dedichi alla denuncia, alla testimonianza, alla diffusione di tutte quelle informazioni che molto spesso giacciono riposte in schedari, faldoni, dimenticate da Dio e da tutti, ma che conservano le sofferenze, i massacri, la morte di qualcuno che in passato ha gridato, come Rosencof, come i suoi familiari e come i suoi compagni, affinchè una testimonianza, un insegnamento, una speranza, rimanessero vivi e servissero da monito e insegnamento.

383


%LEOLRJUDILD H VLWRJUDILD

%LEOLRJUDILD

Bertinetti P., 119-238

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Campodónico, Miguel Ángel, Montevideo, marzo 2001. Campodónico, Miguel Ángel, junio 2001.

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Rosencof, editorial fin de siglo,

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7UDGXFWRORJtD

LQWURGXFFLyQ

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384


Rosencof Mauricio, Montevideo, 1989.

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DOOi HQ ODV QRYHODV GH 0DULR

6LWRJUDILD

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$EVWUDFW

El trabajo tiene como objetivo analizar, describir y desarrollar la figura de Mauricio Rosencof, autor uruguayo de piezas teatrales, novelas y testos narrativos, y proponerla como enlace entre dos culturas y dos realidades históricas tan lejanas, pero tan parecidas. Me refiero con precisión a dos casos historicos del siglo XX: la deportación de los judíos polacos en los campos de concentración de Aushwitz, y las torturas que fueron infligidas a los militantes de partidos revolucionarios durante la dictadura uruguaya. Mauricio Rosencof ha recientemente llegado a Italia con su literatura, a consecuencia de la primera traducción en italiano de su obra. Se trata de /DV FDUWDV TXH QR OOHJDURQ, una novela autobiografica que describe las realidades a las que el autor ha tenido que enfrantarse durante toda su vita, pero que las describe con un estilo literario que no había alcanzado en ninguna obra precedente. /DV FDUWDV TXH QR OOHJDURQ

son cartas escritas por el autor en su madurez para relatar, descubrir y llevar a la memoria la historia de su familia, y de la famila de los padres que había decidido no escaparse de su tierra, de su ciudad, Varsavia, y de tal manera no salvar su vida de las deportaciones. Lo que Maurcio Rosencof puede testimoniar sobre el holocausto está formado por recuerdos, percepciones, detalles que había conseguido durante su infancia, y por lo tanto las cartas, breves mensajes densos de cariño, emoción y de un número equilibrado de informaciones que no consiguen describir de manera concreta la situación de los deportados, pero sí consigue dejar una huella en el lector a través de una serie de imagenes que dejan un vacío interior sin par. A través de este elaborado podríamos reproducir un viaje en la conciencia del autor, que se enfrenta, en dos distintos momentos de su vida, a la escritura como rescate de la vida, de las torturas, de la muerte. Y este viaje, a través de /DV FDUWDV TXH QR OOHJDURQ y de la recuperación por un lado de su infancia, y por el otro de toda su vida, nos conduce a otra obra de denuncia: 0HPRULDV GHO FDODER]R Este texto narrativo, escrita por Mauricio Rosencof y Eleuterio Fernández Huidobro, compañero militante, preso y “rehen” que con él compartí trece añs en un calabozo de la dictadura uruguaya, se propone como crónica histórica de la temporada de la dictadura, y de sus horrores, a los que los narradored estuvieron sumisos por un tiempo tan largo.

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0HPRULDV GHO FDODER]R, publicada en 1989, poco después de la liberacón de los presos de la dictadura, es según mi opinión la más importante y lograda que escribieron los dos autores, ambos escritores ja en la época precedente a su “caída”, porque guarda y transmite al mismo tiempo informaciones sobre la realidad ocultada de la época, pero constituye también un testimonio que con su grito desesperado lleva a la vida los compañeros que nunca salieron de allí, y todos los demás presos, en las mismas condicciones, aun en paises distintos, que no tuvieron la posibilidad de sacar el grito aquel que para los autores es un canto a la vida.

La denuncia, la memoria, la vida sono los hilos que unen las dos obras, y la vida del mismo Rosencof entre Uruguay y Polonia, aunque él nunca vivió allí. El trabajo, sin embargo, no se desarrolla alrededor de las dos obras, sino alrededor de un estudio traductivo del español al italiano, de 0HPRULDV GHO FDODER]R como obra central de la produción de Mauricio Rosencof y de una experiencia trágica que cambió la historia del Uruguay. Un capítulo bastante denso está dedicado, por lo tanto, a la historia de este país tan pequeño, que abarcó revoluciones y masacres dignas de una superficie territorial mucho mayor. Tradución de un texto, por supuesto, significa respetar el camino literario que el mismo texto persigue en su propria lengua y cultura. Por eso se ha considerado tan determinante y necesaria la tradución de un texto de denuncia abierta de horrores desconocidos todavía a un publico italiano, que no está acostumbrado a mirar más allá de sus confines. Traducir 0HPRULDV GHO FDODER]R en particular ha significado descubrir un mundo de horrores, torturas, matanzas, pero también un mundo hecho por personas, emociones, sentimientos, colocados en un contexto histórico que no se debe poner al lado. La historia debe ser el centro de las informaciones, la Biblia para un traductor, y el mensaje final de las dos obras: el original y el texto traducido. Porque traducir un texto de la memoria significa prolongar la memoria de la gente, de todos los paises, para que se conozcar lol horrores, pero también la vida de muchoos que lucharon para borrarlos para siempre.

387


,QGLFH

Introduzione .........................................................................................................3 Breve storia dell’Uruguay ....................................................................................7 /H 2ULJLQL ............................................................................................................7 /·8UXJXD\ DJOL LQL]L GHO ¶ ...............................................................................8 /D *UDQGH &ULVL ............................................................................................... 11 , 7XSDPDURV...................................................................................................... 13 /D 'LWWDWXUD ..................................................................................................... 16 ,O 3RWHUH GHO 3RSROR ............................................................................................ 18 -XOLR 0DUtD 6DQJXLQHWWL H OD 5HVWDXUD]LRQH GHOOD 'HPRFUD]LD ............................. 20 /·8UXJXD\ 2JJL ................................................................................................ 21 La vita o le vite di Mauricio Rosencof ............................................................ 23 0RLVKH .............................................................................................................. 24 ,O 5XVR .............................................................................................................. 25 /HRQHO ............................................................................................................... 30 0DXULFLR ........................................................................................................... 34 La letteratura di Testimonianza/ Denuncia .................................................... 36 come genere letterario ...................................................................................... 36 Memorias del calabozo: analisi tematica......................................................... 45 «Ya que no pudimos matarlos cuando cayeron, los vamos a volver locos» ......................................................................................................................... 47 L’assenza......................................................................................................... 56 La musica dei FDODER]RV .................................................................................. 65 La riappropriazione ....................................................................................... 69 Una ulteriore trasposizione dell’esperienza dei FDODER]RV: /DV FDUWDV TXH QR OOHJDURQ.................................................................................................................. 73 Memorie del Calabozo...................................................................................... 81 “Li faremo impazzire” .................................................................................. 81 Le leggi dell’irrealtà ....................................................................................... 82 “Pommery” .................................................................................................... 84 La Luna nel pozzo......................................................................................... 86 “Se dovete tenerli così, è più umano fucilarli”........................................... 89 Lacrime di una bambina ............................................................................... 90 Colpo dopo colpo: 1-19-7-15-9................................................................... 93 Un altro trasferimento dei 45 che affrontammo ....................................... 97 Il Signor Comandante dà disposizioni su quale posizione dobbiamo adottare per defecare..................................................................................... 98 Resistere........................................................................................................ 105 “Mio padre non ha le mani” ...................................................................... 108 388


“Compagno” ................................................................................................ 110 Dove i civili sono “pisciasotto” ................................................................. 112 Colonnello coca-cola17 ................................................................................ 115 Anche qui si lotta......................................................................................... 116 Ospedale Militare, sala 8 ............................................................................. 120 Dialogo tra pazzi ......................................................................................... 124 Un lungo viaggio verso la giustizia............................................................ 125 Tenete duro!................................................................................................. 127 I beni terreni ................................................................................................ 129 Il tempo: questo sciroppo denso ............................................................... 131 La repubblica del Goyo sul piede di guerra ............................................. 134 Il bastardo .................................................................................................... 136 Blocchi e altre difese ................................................................................... 139 Il mondo dei sensi ....................................................................................... 142 Quando la realtà è nei sogni....................................................................... 145 Rosario, Willi, Toba, Zelmar ...................................................................... 148 Tanta messa in scena per tre scheletri!...................................................... 153 Gli architetti del dolore............................................................................... 156 Centro Istruzione Reclute (Cir) ................................................................. 157 “Che iella!” ................................................................................................... 160 Pulizia radicale ............................................................................................. 162 Acqua come ricetta...................................................................................... 164 I piccoli aguzzini.......................................................................................... 165 La Pavoncella ............................................................................................... 167 “Filantropi” .................................................................................................. 169 Il meraviglioso trasferimento del 1° Agosto ............................................ 170 Progressi Edilizi I ........................................................................................ 173 Tre granate ................................................................................................... 174 Come spazzava Sendic................................................................................ 175 S1: sezione chiave ........................................................................................ 176 La lotta di classe .......................................................................................... 177 33 La Guardia canta /RV 2OLPDUHxRV .............................................................. 179 e racconta la barbarie .................................................................................. 179 Queirolo: formaggio e dolce...................................................................... 181 Ti sei posata sulla grata, piccolina ............................................................. 182 Fonti informative......................................................................................... 184 La foto di Allende ....................................................................................... 185 Operetta muta con la Croce Rossa............................................................ 187 “Non fate tante storie...” ............................................................................ 189 Sull’attenti!.................................................................................................... 190 389


Elezioni e le uova del tacchino .................................................................. 192 Lettura e interpretazione ............................................................................ 194 della Convenzione di Ginevra ................................................................... 194 42 Il Plebiscito ................................................................................................ 196 Il giorno del Plebiscito ................................................................................ 197 La notte del Plebiscito ................................................................................ 198 Un’esperienza orribile ................................................................................. 201 Il nostro calendario: lattine, mondiali e presidenti .................................. 202 La grande incertezza ................................................................................... 206 Al di là del muro non esisteva niente ........................................................ 208 LA NOTTE ..................................................................................................... 215 Nelle catacombe .......................................................................................... 215 Le tracce dei “Venerdì” .............................................................................. 218 Sotto il palco del Papa ................................................................................ 219 “Non c’è uomo che tenga” ........................................................................ 223 La visita......................................................................................................... 224 Monete di sole ............................................................................................. 224 Fame.............................................................................................................. 225 La minaccia .................................................................................................. 226 Gli ostaggi .................................................................................................... 226 Montevideo .................................................................................................. 228 Specchietti colorati ...................................................................................... 232 “Devo adeguarmi, tesoro” ......................................................................... 232 L’ineffabile signor maggiore ...................................................................... 233 Gomorra si salva per il rotto della cuffia.................................................. 237 Le scarpe indiscrete..................................................................................... 239 Sanità delle Forze Armate .......................................................................... 240 53 Tres Árboles .............................................................................................. 242 Cortecce legnose.......................................................................................... 243 I soffioni di Venere ..................................................................................... 243 Strane elezioni: brindisi............................................................................... 245 TENETE DURO! .......................................................................................... 246 Iella................................................................................................................ 246 Miracoli della medicina ............................................................................... 247 Analisi politica e piano di lotta .................................................................. 250 Oculista......................................................................................................... 253 Grido di guerra: Siamo vivi!....................................................................... 256 Le chiavi della nostra letteratura................................................................ 261 “Tenete duro!” ............................................................................................. 262 L’ALBA ............................................................................................................ 264 390


Di FDFHURODV e cortei....................................................................................... 264 L’Obelisco .................................................................................................... 265 Con la musica da un’altra parte.................................................................. 266 Le tribolazioni di aprile............................................................................... 268 Vacillamenti.................................................................................................. 271 Giovedì 12 aprile 1984................................................................................ 272 Venerdì 13 aprile.......................................................................................... 273 Sabato 14 aprile ........................................................................................... 274 Domenica 15 aprile ..................................................................................... 274 16 aprile 1984............................................................................................... 275 Il trasferimento ............................................................................................ 276 L’“isola” ........................................................................................................ 278 A tutta birra.................................................................................................. 280 Le uniformi .................................................................................................. 282 Nepo ............................................................................................................. 283 La prima visita ............................................................................................. 284 La televisione a colori ................................................................................. 285 Una grande conquista ................................................................................. 287 64 “Adios muchachos” .................................................................................. 288 I...................................................................................................................... 290 II .................................................................................................................... 290 La vita con il cucchiaino ............................................................................. 291 La prima finestra.......................................................................................... 293 Desaparecidos.............................................................................................. 294 Condannati a morte .................................................................................... 295 “Posso ancora fare qualcosa per i miei compagni” ................................. 296 Croce Rossa.................................................................................................. 297 Il Patto del Club Navale ............................................................................. 299 “Con voi avremmo dovuto farci il sapone” ............................................. 301 Il vecchio contadino .................................................................................... 303 Con il giallo e nero sul petto ...................................................................... 306 Leggenda del &KXUULQFKH .............................................................................. 307 Il re-incontro con la parola ........................................................................ 308 Sendic, Zabalza e Marenales ...................................................................... 309 Il tenente e le sue catene............................................................................. 310 “Non rompete più: Arrendetevi!” ............................................................. 311 Sfogarsi uno alla volta ................................................................................. 313 La prima domanda ...................................................................................... 314 In che Nazione siamo, signor presidente?................................................ 315 Attenzione! Il Dottor Forno esercita ........................................................ 316 391


“Wasem, escucha, tu lucha es nuestra lucha!”.......................................... 317 Le elezioni .................................................................................................... 318 SUL FAR DEL GIORNO ............................................................................ 320 Dal calar della notte al far del giorno........................................................ 320 Cella “Horacio Ramos” .............................................................................. 322 Anno nuovo: 1985....................................................................................... 324 Balmelli e il “buon trattamento” ............................................................... 326 La musica riscattata ..................................................................................... 327 La lettera a Sanguinetti................................................................................ 329 15 febbraio 1985: Il Parlamento ................................................................ 330 Il carcere svuotato ....................................................................................... 332 1° Marzo 1985 ............................................................................................. 333 La fumata...................................................................................................... 334 Auschwitz ..................................................................................................... 335 La fine di Punta de Rieles........................................................................... 336 Il ministro della Difesa ............................................................................... 337 La legge votata ............................................................................................. 338 IL GIORNO ................................................................................................... 340 Bandiere all’orizzonte ................................................................................. 340 Sbocciano le calendule nella sputacchiera rosa........................................ 342 Lunedì 11 marzo 1985 ................................................................................ 345 Martedì 12 marzo 1985............................................................................... 348 Mercoledì 13 marzo 1985........................................................................... 349 L’ultimo trasferimento ................................................................................ 352 “)RUVD, che manca poco” ............................................................................ 357 Giovedì 14 marzo 1985: &LHOLWR GH ORV WXSDPDURV86 .................................... 360 Dal carcere al convento .............................................................................. 363 Il quartiere era in festa ................................................................................ 366 La smorfia del vecchio ................................................................................ 367 Note .................................................................................................................. 370 Memorias del calabozo: Analisi Traduttiva .................................................. 376 Conclusioni ...................................................................................................... 382 Bibliografia e sitografia................................................................................... 384 Bibliografia ................................................................................................... 384 Sitografia....................................................................................................... 385 Indice ................................................................................................................ 386 Abstract ............................................................................................................ 386

392


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