GARIBALDI E L’EUROPA

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STATO MAGGIORE DELL'ESERCITO UFFICIO STORICO

ANGELO TAMBORRA

GARIBALDI E L'EUROPA IMPEGNO MILITARE E PROSPETTIVE POLITICHE

ROMA

1983



PRESENTAZIONE

L'« anno garibaldino » ormai trascorso, che ha visto presenti e attivi in saggi, mostre e convegni, studiosi italiani e stranieri - non pochi dei quali militari - ha contribuito a mettere a fuoco in Garibaldi soprattutto la figura del generale. Comandante militare - trascinatore di uomini, capace e umano - fra i più completi, egli è un personaggio sensibile, come pochi, ai problemi nazionali e sociali della sua epoca. Giusto per questo Garibaldi non è patrimonio esclusivo degli Italiani ma, come molla interiore e prospettive di azione, appartiene a ogni popolo e a qualsiasi ceto. Ripensamento complessivo, fondato su ampie ricerche in Italia e all'estero della «presenza» europea di Garibaldi, essa è stata colta dall'autore di queste pagine quale caratteristica fondamentale di un personaggio vivo e ben vivo: dalla storia egli è passato anche nel « mito », perché generazioni di italiani e stranieri in lui hanno creduto e si sono detti «garibaldini». Tale significato è stato avvertito dall'Ufficio Storico dello Stato Maggiore Esercito che con questo contributo originale intende onorare, nel comandante militare, l'uomo italiano ed europeo. IL CAPO DELL'UFFICIO STORICO



PREMESSA

« Liberato e restltruto negli antichi diritti il popolo suo, conciliati i popoli intorno, fermata la pace la libertà la felicità, l'eroe scomparve: dicono fosse assunto ai concilii degli Dii della Patria. :Ma ogni giorno il sole, quando si leva su le Alpi tra le nebbie dcl. mattino fumanti e cade tra i vapori del crepuscolo, disegna tra gli abeti e i la1·ici una grande ombra, che ha rossa la veste e bionda Ja capelliera errante su i venti e sereno lo sguardo siccome il cielo. Il pastore straniero guarda ammirato, e dice ai figliuoli - E' l'eroe d'Italia che veglia su le Alpi della sua Patria » ('k). Così, con questi accenti ancora caldi e vibranti del clima rirnrgimentale Giosuè Carducci, da poeta civile e con parole che trascinarono all'entusiasmo, nel 1882 additava ai contemporanei ed ai posteri il significato profondo, italiano ed europeo, di Giuseppe Garibaldi. Era il «mito » che subito, nel momento stesso della morte, si impadroniva della sua figura, già esaltata ai quattro angoli della terra. Ma oggi, nella nostra epoca disincantata e cosl tormentata, l'esaltazione magari affettiva e irrazionale così cara ai nostri padri, non è più di casa, in nessun luogo. Tuttavia, mai come oggi rimane ferma e indiscussa la necessità di capire per quali vie Garibaldi ha toccato cosl profondamente gli animi della gente, italiani e no. Chiunque voglia accostarsi alla figura e all'opera di Giuseppe Garibaldi con abito di storico - ben attento ai valori risorgimentali da tener vivi nella loro integrità più completa - può toccare con mano una realtà senza uguali : capitano di mare, condottiero e guerrigliero, come mentalità, istinto, modo di affrontare i problemi, senso profondo della disciplina individuale e collettiva, sino alla

(*) G. Carducci, Per la morte di Giuseppe Garibaldi, in Discorsi letterari e storid. Opere, VII, Bologna 1935, p. 456.


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fine dei suoi giorni egli rimane un vero capo militare. Non amava, certo, « il mestiere di soldato », cui si era piegato - come confesserà a Herzen - per cacciare « i briganti » dalla casa paterna. Ma il segno del comando, quel particolare carisma che distingue il trascinatore di uomini verso il supremo sacrificio non lo abbandoneranno mai. Secondo un dubbio che aveva sfiorato Engels all'indomani della impresa dei Mille, egli finisce per rivelarsi un pessimo politico nella lotta ravvicinata, angusta, molto simile all'intrigo: uomo di idee, ma soprattutto di ideali da calare nella realtà e da servire con il massimo impegno, sino all'ultimo Garibaldi si rivela largamente aperto e sensibile ai grandi problemi politici e sociali della sua epoca e, in fondo, di tutti i tempi. Giusto per questo, l'aspetto della sua complessa personalità che più salta agli occhi è, senza dubbio, il muoversi suo e di quanti si dicono « garibaldini » sulla più ampia &rena internazionale, oltre che italiana: gli sguardi rivolti da lui e dal movimento garibaldino verso i problemi di ascesa nazionale e di elevazione sociale dell'Europa; l'esempio che egli rappresenta; certa « attesa » di iniziative e di aiuti che partano da lui e dai suoi; la presenza politica ed anche armata nei problemi nazionali della Media Europa e dei Balcani; tutto questo ed altro ancora sta a testimoniare come egli sia un personaggio di primo piano, attivo per molti anni sulla scena del Continente. Su questa prospettiva europea - ampia, articolata e molteplice - si vuole richiamare l'attenzione di quanti hanno a cuore i valori perenni della Patria, cui uniscano una comune coscienza di europei: Garibaldi non è solo un « mito» o, peggio, una immagine oleografica, cui si renda omaggio per obbligo morale, civile e patriottico, tanto che i nostri padri non esitavano a bollare d'infamia, indignati, chiunque avesse « detto male » di lui. Al contrario, egli è un personaggio vivo e ben vivo. E Io studio attento della sua « presenza » europea può tradursi in una retta comprensione anche del presente e in quella fiducia nell'avvenire della Nazione italiana e dell'Europa che mai abbandonò Giuseppe Garibaldi.


I. LE IMPRESE GARIBALDINE IN ITALIA DAL 1848 AL 1866: PRESENZA E CONSENSI EUROPEI

Quando ci si accosti con sensibilità di storici alla figura e al1'opera di Giuseppe Garibaldi, non senza sguardi alla continuità di una tradizione che da lui prende nome, l'aspetto che più colpisce è, senza dubbio, il suo ampio muoversi sull'arena europea ed anche mondiale, oltre che italiana. L'esperienza morale, politica e umana sua e di quanti - Italiani e no - credettero in lui e chiamarono sè stessi in varie lingue e diverso accento, garibaldini, si dipana per mezzo mondo: dalle piane di Russia sino alle lontane Americhe, dall'Italia e dall'Europa occidentale ai Balcani, all'Europa centrale e alla Polonia, con risonanze vaste di consensi e di entusiasmo, la presenza di Garibaldi sulla scena sentimentale e politica Jell'Ottocento rappresenta un lievito fondamentale la cui importanza non sarà mai abbastanza sottolineata. Per arrivare a questi risultati Giuseppe Garibaldi doveva percorrere un ben lungo cammino. E tutta la sua dolorosa esperienza di marinaio, di proscritto, di condottiero fra il Rio Grande e Montevideo, si può dire che rappresenti la lunga vigilia di preparazione per la grande stagione non solo italiana ma più ampiamente europea che si accenna nel '48-49 ed esplode nel 1859-60. Iniziato in una bettola di Taganrog, ai primi del 1833, da quegli che diverrà uno dei suoi primi garibaldini, Giovanni Battista Cuneo, « ai supremi misteri della Patria », la Giovine Italia di Giuseppe Mazzini fu il primo porto di approdo per il suo ideale civile e politico. Già nel luglio di quell'anno, a Marsiglia, egli si presentava a Mazzini, ne abbracciava la causa, inserendosi nella grande corrente mazziniana, così ricca di agganci e collegamenti europei. Successivamente, pur rimanendogli idealmente vicino per la


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comune fede nella rivoluzione nazionale europea, la sua natura concreta, il senso di vuoto che saliva sino a lui dall'insurrezionismo inconcludente assimilato dal Mazzini soprattùtto nei suoi contatti con gli esuli polacchi, tutto doveva allontanarlo dalla Patria e farlo sbarcare, in cerca di pane e <li fortuna, a Rio de Janeiro: così, mentre maturano, in Europa, le condizioni della rinascita in nome del principio di nazionalità, la sorte conduce Garibaldi a maturare se stesso al servizio di un popolo sudamericano, quello dell'Uruguay, in lotta contro il tiranno Rosas, governatore generale della Provincia di Buenos Aires. A capo, quale condottiero dalle concezioni geniali , di una Legione italiana che rappresenta già, in nuce, la unità della Patria, Garibaldi combatte nell'America latina in nome di un principio, quello di nazionalità, di derivazione tipicamente europea. Ed in Europa e soprattutto in Italia - le ripercussioni delle sue gesta e la sua ascesa nella scala dei valori militari e politici, sono tali che già negli ambienti sotterranei dei cospiratori - vi è una « attesa » per quello che un simile uomo potrà compiere a favore della sua Patria e, quindi, anche di « altre » patrie. Il suo ritorno e lo sbarco a Nizza il 21 giugno 1848 con sessantatre uomini (fra cui Giacomo Medici, il Sacchi e l'Anzani) riportano G aribaldi sulla scena europea: l 'America che nel 1836 aveva raccolto « un oscuro marinaio e un disertore proscritto, dopo undici anni restituiva all'Italia un ammiraglio provetto, un capitano invitto, un eroe glorioso » (1 ). La « primavera dei popoli » che sboccia in Europa nel 184849 creando speranze di rinascita nazionale ed anche di ascesa sociale fra Polacchi e Italiani, Cechi, Serbi, Croati, Bulgari, l\1agiari e Romeni, o fra i primi populisti russi, rappresenta in certo modo il prologo della più ampia « presenza » europea di Garibaldi degli anni successivi. La breve, sfortunata campagna dell'agosto 1848 a capo dei volontari lombardi raccoltisi tra Milano e Bergamo; l'epico suo contributo alla difesa della Repubblica romana nel 1849, la ritirata fortunosa verso San Marino e la costa adriatica (dove a Magnavacca - ora Porto Garibaldi - perse la diletta Anita), quindi la campagna del 1859 al comando dei « Cacciatori delle Alpi » che da Varese a San Fermo vide formarsi i quadri del futuro esercito garibaldino; poi - momento fondamentale - l'impresa dei Mille del ( l )i G. Gue.t'.roni,

Garibaldi, Firenze 1982, vol. I, p. 206.


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1860, su su sino alla terza guerra per l'indipendenza del 1866: questi nell'arco di circa un ventennio le vicende politico militari che fanno di Garibaldi uno dei personaggi risolutivi del processo unitario italiano. E in questo ventennio o poco meno di costante e ricorrente impegno militare italiano (sotto le bandiere del Regno di Sardegna, poi d'Italia e fra le file garibaldine) i vari movimenti nazionali europei guardano anche verso gli Italiani, attuano una collaborazione spesso non facile. Sin dal 1848-49 l'impegno nazionale e unitario che parte da Torino aveva ricercato e dato vita a contatti fruttuosi con i movimenti nazionali della Media Europa e dei Balcani, con Magiari, Polacchi e Serbi; e la concreta azione governativa, diplomatica e anche militare, aveva condotto allora a una collaborazione che sarà l'inizio di una tradizione mantenuta in vita sino alla prima Guerra mondiale: gli accordi stipulati a Torino nel 1848-49 con i rivoluzionari ungheresi, guidati nella lotta contro l'Austria da Lajos Kossuth (affiancati da analoghe intese dei Governi provvisori di Venezia e di Lombardia) si traducono anche in un preciso impegno militare, con l'invio in Ungheria del tenente colonnello di S.M. sardo Alessandro Monti che nel 1849 mise in piedi una «Legione» italiana con prigionieri e disertori, usciti dai reggimenti austriaci; a Belgrado, il console sardo Marcello Cerruti, con la collaborazione del commerciante Carosini, cercherà nel 1849 - senza riuscirvi di mettere d'accordo Serbi e Magiari in un comune impegno contro l'Austria. Si trattava, dunque, di collegare la « questione » italiana ormai sul tappeto con i problemi nazionali della Media Europa: una zona dove Polacchi e Magiari, Serbi e Romeni e, più tare.li, Cechi, Bulgari e Albanesi, Croati e Montenegrini, Greci dalla « primavera dei popoli» del 1848-49 in avanti si impegnano a fondo per la propria definizione nazionale, libertà, indipendenza. Il loro obbiettivo comune è quello di rompere le cornici dinastiche che da secoli li rinserrano in Imperi multinazionali, quali l'Austria asburgica, la Turchia ottomana e, per i Polacchi, la Russ-ia zarista. Il cosiddetto « risveglio delle nazionalità non storiche » (così definite da Otto Bauer, perché inserite e subordinate in più ampi Imperi) rappresenta il dato fondamentale dell'intero secolo XIX, con momento decisivo appunto il '48-49 e per giungere poi , in un trentennio, alla crisi d'Oriente del 1875-78. A questo fenomeno storico di vasta portata aveva guardato l'intera classe dirigente subalpina, e più ampiamente italiana: Carlo Alberto - che al quartiere generale


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di Roverbella nel 1848 vuole sapere dal polacco conte Zamoyski « molto degli Slavi» e Giuseppe Mazzini, Vittorio Emanuele, C:ivour e Garibaldi, con tutti i personaggi minori che li affiancano con sostanza di pensiero politico ben maturo, tutti sono concordi magari in concordia discors - a rendere operante e fruttuoso per l'unità italiana la collaborazione con i movimenti nazionali della Media Europa. Se infatti, in tutta l'Europa occidentale, da secoli consolidata in Stati nazionali, i successi del 1859 e poi l'impresa dei Mille o la fortunosa guerra per il Veneto potevano suscitare solo valutazioni politico-diplomatiche circa il processo unitario italiano, ben altre conclusioni finiscono per farsi strada nell'Europa centro orientale. Qui i grandi complessi dinastici multinazionali sono ormai in crisi, minati da un generale e irresistibile processo di ascesa nazionale, che investe tutte le loro strutture e li condurrà a morte. Giusto per questo, i fermenti nazionali che si fanno strada nella Media Europa sin dal 1848 sono sentiti come gli alleati naturali del moto risorgimentale italiano, e da essi si guarda, spontaneamente, verso l'Italia e gli Italiani. Ecco dunque una osmosi feconda, un dare e ricevere di alto valore morale e politico prendono a svolgersi fra una Italia in pieno sforzo unitario e i singoli movimenti di ascesa nazionale dell'Europa centro-orientale. Quanto a Garibaldi, egli va ben al di là di questo collegamento; anche per lui, la « redenzione » e la libertà nazionali sono un assoluto, secondo l'insegnamento ricevuto da Mazzini, per il quale nessun popolo può ritenersi veramente libero se altri sono oppressi, ma da capo militare qual'è egli sente tutto questo in termini concretamente operativi. Così, sin dal 1859 egli intende fare in modo che la presenza in Italia di volontari garibaldini, appartenenti alle varie emigrazioni centroeuropee, abbia una contropartita ben precisa. In un colloquio della fine del 1859 con Ladislao Mickiewicz - figlio del grande poeta romantico polacco Adam - egli si era lasciato andare a una promessa esplosiva: « Noi Italiani ci gettiamo sull'Austria per portarle via la Venezia. Che i Polacchi ci aiutino e noi da Venezia marciamo più lontano; insieme a voi noi arriveremo in Polonia, perché si avvicina il tempo in cui ciascuna nazione non sarà sicura della sua indipendenza, qualora un'altra nazione gema nella schiavitù » (2).

(2) W!.

Mickicwb, Emigracia

polska (1860-1890), Cracovia

1908, p. 12


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Questo orientamento di Garibaldi, forse in lui maturato gia a Roma sin dal 1849, fu espresso occasionalmente a un esponente della emigrazione polacca di parte « democratica », ma fu avvertito anche da altri e per diversi problemi nazionali. Cosl non deve recare meraviglia se non pochi Polacchi, Magiari, Cechi, Slavi meridionali, Greci, o qualche Russo sentissero l'impulso di arruolarsi sotto le bandiere di Garibaldi, nel '59, nel '60, nel 1866; mentre altri volontari provenienti dall'Europa occidentale - francesi, inglesi, svizzeri - si presentarono nel '60 all'impresa meridionale come a un appuntamento europeo . In questo contesto generale, europeo, l'alveo garibaldino diventa di colpo, soprattutto con l'impresa dei Mille, il punto più importante di incontro e di collaborazione: non a parole - alla Mazzini - ma nei fatti, in sede militare. La presenza nella campagna verso il Mezzogiorno di volontari usciti da vari popoli, ma uniti tutti nella comune concezione « democratica » e nell'aspirazione alla libertà nazionale, aveva cunft:ritu acl essa il crisma Ji protesta armata europea, fatta in nome del principio di nazionalità; soprattutto essa rappresenta agli occhi dell'Europa delle sette, delle rivoluzioni, il primo grande successo della rivoluzione « <li popolo », del principio insurrezionale, dopo le delusioni del 1848-49. Le cose stanno, a ben vedere, in maniera un po' diversa, perché per quanto riguarda l'Italia e la « questione » italiana è l'innesto vigoroso dell'iniziativa rivoluzionaria sul tronco dello sforzo diplomatico-militare del Piemonte di Vittorio Emanuele II e di Cavour quello che dà frutti veramente durevoli. Come ha ben messo in luce Luigi Salvatorelli, fra il 1850 e il 1870 (e, in parte, sino al 1878), ci si trova in presenza, in Europa, di una situazione sirnmlflte e apparentemente paradossale: fallite le rivoluzioni « di popolo » del 1848-49, « i moti nazionali, scrive Luigi Salvatorelli, pur seguitando a fermentare entro i popoli, passano sul piano governativo, combinandosi in ciò la pressione risorgente dal basso e la premeditata iniziativa dall'alto » (3). La « rivoluzione », i moti di carattere nazionale rivoluzionario divengono così, particolarmente per l'Italia ma non solo per essa, un mezzo, una « pedina » di politica estera; d'altro canto, la stessa « rivoluzione », dopo l'esperienza insieme cavouriana e garibaldina (3) L. Salva torelli , La politica estera, in L'Italia dal 1861 al 1870, Atti del X Convegno Storico Toscano, Cortona 25-28 aprile 1957, in Rassegna storica toscana, anno III, fase. III-IV, luglio-dicembre 1957, p. 201 e segg.


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del 1859-60, pungola il Governo e ne ricerca l'appoggio. Ed in una Italia, ancora tutta fremente di slanci risorgimentali, cui da più parti, specie da Magiari e Polacchi, all'indomani del 1860-61 giungerà il rimprovero di essersi « fermata » sulla via della emancipazione nazionale di altri popoli, una volta raggiunto un risultato tangibile per se stessa; in questa Italia, dunque, il momento « rivoluzionario » europeo coesiste, persino nelle coscienze, col momento di iniziativa responsabile, governativa. Giuseppe Garibaldi - Camicia Rossa ma, come egli stesso teneva a ricordare nell'uniforme, anche generale del Re - rappresenta fisicamente la sintesi fra questi due « momenti »: se da un lato egli guarderà all'Europa dei fermenti nazionali inappagati e da questa si guarda a lui come ad un oracolo e un vessillo; dall'altro lato per re Vittorio Emanuele e Cavour, in primis, e poi per Ricasoli, Rattazzi e Parini, Minghetti e Lamarmora, per tutta la classe dirigente del nuovo Regno, egli rappresenterà la cerniera d'obbligo per continuare a wllegare all 'Italia, duè ai residui problemi italiani, primo fra tutti quello della Venezia, le questioni e i fermenti nazionali della Media Europa. Dal 1848-49 in avanti, volontari provenienti da tutta la Penisola, emigrati e proscritti giuliani e dalmati o quanti appartengono all'emigrazione centro-europea - soprattutto Magiari e Polacchi - non senza la presenza di francesi, inglesi, prussiani ecc., cominciano a militare nelle file garibaldine ed anche nell'esercito regolare sardo, poi italiano; ed ogni gruppo propone e fa vivere agli occhi dell'Europa, oltre che dell'Italia, il suo particolare problema nazionale o protesta politica. Le formazioni garibaldine sin dalle origini sono varie e composite e la camicia rossa diventa la divisa che unisce uomini di varia origine, di diversa estrazione nazionale, ma tutti consapevoli di lottare, con Garibaldi, per un ideale comune, quello della libertà, della unità e dell'indipendenza nazionali: solo poco meno di due generazioni prima, i Polacchi, sempre così presenti in Italia e poi nelle stesse formazioni garibaldine, nell'inscrivere sui vessilli delle loro Legioni al servizio della Repubblica cisalpina il motto famoso Per la vostra libertà e la nostra, non intendevano forse combattere in I talla per far risorgere la Polonia dalle ceneri delle spartizioni? Come dunque meravigliarsi se da essi e più tardi da Ungheresi, Romeni e Bulgari e Greci e Boemi si finisca per trovare un punto di raccordo in Garibaldi, sempre in nome del principio di na7.ionalità?


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Il 1848-49 a Roma, che si concluderà con la difesa della Repubblica Romana condotta da Garibaldi, rappresenta un momento importante anche per il contatto con l'Italia e i problemi italiani degli esponenti delle varie emigrazioni. Gli avvenimenti di quegli anni al centro della Cristianità e capitale dello Stato pontificio avevano avuto testimoni e partecipi di rilievo alcuni Russi di recente passaggio al cattolicesimo. Accanto al principe Fedor Golicyn (che benché malato partì volontario nella I Legione romana, partecipò allo scontro di Cornuda e morì a Bologna il 7 luglio 1848), gli avvenimenti di quegli anni, a Roma e in Italia, furono seguiti con sofferta partecipazione e su posizioni chiaramente liberali da Grigorij P. Suvalov (1804-1859), in contatto con i patrioti romagnoli Luigi Almerici e Gaspare Finali (4). Da un punto di vista chiaramente reazionario e contrario à des brigands tels que G aribaldi et Cie, si trova invece il principe Grigorij P. Volkonskij (1808-1882), attento osservatore degli avvenimenti come ministro di Russia presso i Botboni e che finisce per accogliere con sollievo l'intervento francese (5). Naturalmente, i più pronti a presentarsi a Roma, con una autonoma iniziativa politica e militare sono i Polacchi dell'emigrazione « democratica ». Già nella primavera del 1846 era stata da essi affacciata l'idea di collegare i moti di Galizia con una diversione nella penisola italiana, facendovi giungere emissari polacchi; ma la caduta di Cracovia nelle mani dell'Austria fece abbandonare queste chimere di tipico stampo mazziniano, anche se Mazzini facesse sempre affidamento sulla partecipazione di elementi polacchi ad una insurrezione del Lombardo Veneto. In questo senso a seguito di intese fra il Comitato di Parigi dell'emigra7.ione polacca (di patte democratica) e Giuseppe Mazzini, ancora nell'estate del 1847 si progettò di dare vita a una formazione militare italo-polacca che dalla Svizzera doveva calare su Milano e appoggiarvi una insurrezione contro gli Austriaci. Dopo questi antefatti, chi rompe gli indugi e intende soprattutto guadagnare alla causa polacca il pontefice Pio IX è Adam Mickiewicz. Massimo poeta romantico polacco e fra i capi di maggior prestigio della corrente democratica della « grande » emigra(4) Su di lui v. A. Tamborra, G rigori; P. Suvalov e l'Italia, in « Rassegna Storica del del Risorgimento», 1978, pp. 286-305. (5) F_ L ey, La révolution romaine et l'intervention française vues par le prince Volkonsky, Parigi 1981, passim.


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zione polacca; legatissimo a Mazzini, cui dà e riceve idee e ideali; egli è più che mai deciso a perseguire un compito immane: calare nella realtà politica e nazionale europea la sua fede in una « missione » della nazione polacca a favore di tutti gli altri popoli per la loro redenzione nazionale; e per lui, ancora tutto preso dalle idee del mistico polacco Andrzej T owianski, solo da Roma poteva avere inizio « il regno di Cristo », cioè l'era della fratellanza fra i popoli. Il 21 gennaio 1848 parte da Parigi e giunge a Roma nel momento più promettente delle speranze liberali e costituzionali nella penisola. Il 5 marzo egli ha un colloquio con Pio IX, cercando di guadagnarne un appoggio deciso alla causa della Polonia e il 25 marzo diede vita ad una Legione polacca; essa fu ricevuta dal pontefice che ne benedisse la bandiera senza tuttavia impegnarsi né ad appoggiarla, né a sostenere in genere la causa polacca. A Roma il Mickiewicz pubblicò il 29 marzo 1848 il cosiddetto Simhnln politico polacco che rappresentava 1a sintesi del suo pensiero e relativo programma politico tendente a raccogliere nella Legione altre forze slave: premesso che il Vangelo doveva essere la legge civile e sociale degli Stati, spettava alla Polonia - nazione « crocifissa» come il Cristo e « deposta nel sepolcro cento anni fa » - la missione di risuscitare « come persona libera e indipendente », offrendo « ai popoli consanguinei » di Boemia « aiuto politico di parentela », ai popoli russi « aiuto cristiano», «ad ogni nazione da prossimo», agli ebrei « rispetto, fratellanza, aiuto nella vita nel suo bene eterno e terrestre, eguaglianza del tutto nei diritti politico-civili»; tutto questo garantendo libertà di culto, di associazione, di parola, eguaglianza di diritti anche alla donna, in un regime democratico retto cioè da « magistratura elettiva, liberamente consegnata, liberamente accettata »; rispetto infine del diritto di proprietà, garantendo ad ogni famiglia « un agro domestico », nel segno di un socialismo agrario alla Bakunin, « sotto la custodia della commune » rurale. Pur esigua come numero di soli 14 «legionari» - la «Legione» di Mickiewicz, nel partecipare alla campagna del Lombardo Veneto avrebbe poi dovuto irrobustirsi di nuove forze polacche e, con esse, raggiungere i territori della Polonia. Da Roma a Civitavecchia la piccola formazione polacca raggiunse via mare Livorno; di qui proseguì attraverso Firenze, Bologna, P arma sino a Milano, ovunque accolta da grandi manifestazioni. Abbandonata l'idea di raggiungere la Polonia, Mickiewicz il 3 maggio chiedeva


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iu un memoriale diretto al Governo provvisorio di Lombardia la creazione di una Legione polacca, cui avrebbero dovuto arruolarsi disertori cechi, croati e serbi dell'esercito austriaco, oltre che emigrati polacchi. Si formarono infatti due compagnie polacche, una che al comando del Kamienski, combatté ai confini del Tirolo alle dipendenze delle truppe del gen. Durando, l'altra che, al comando del Siodlkowicz, partecipò alla difesa di Milano. Entrambe finirono in Piemonte e una parte dei volontari, rafforzati da un centinaio giunto da Marsiglia con M. Chodzko, giunsero a Livorno. Qui essi combatterono valorosamente e il 10 ottobre il Chodzko concluse con il Governo provvisorio toscano di Guerrazzi e Montanelli un accordo per mettere a disposizione di esso 800 volontari per due anni, liberi di tornare in Polonia qualora qui fosse scoppiata una insurrezione. Il Mickiewicz, che rappresentava sempre la mente direttiva di queste iniziative di collaborazione armata all'ombra del motto Per la vostra libertà e la nostra scritto sulla bandiera della Legione, riuscì a mettere insieme 150 uomini. Questi, diretti a Livorno da Marsiglia, sbarcarono a Genova e al comando del capitano Alessandro Fijalkowski presero parte alla sommossa della città. Imbarcatisi in tutta fretta dopo la dura repressione, per Livorno e Firenze - ormai in mano della reazione - essi proseguirono per Roma dove si misero a disposizione della Repubblica Romana. Il Triumvirato di C. Armellini, G. Mazzini e A. Saffi con un decreto del 29 maggio 1849 riconobbe ufficialmente la Legione, cui si a~sicurò il diritto di tornare in Polonia in caso vi fosse scoppiata la rivoluzione; un nastro tricolore fu aggiunto allo stendardo polacco. Entrata cosl a far parte delle forze della Repubblica romana quale armée republicaine et socialiste come scrisse Mickiewicz a Mazzini, la Legione al comando del col. Milbitz combatté valorosamente a Villa Pamphili con Garibaldi sino al 3 giugno e, quindi, sino al 15 giugno tenne la difesa del ponte Milvio. Dopo il crollo della Repubblica romana i Polacchi si arresero al Generale Oudinot che, disarmatili, li imbarcò per Corfù. Va infine ricordato che artiglieri polacchi avevano preso parte alla difesa di Venezia nel 1848; altri, fra cui il capitano Pawel Bielski e 13 compagni, avevano combattuto agli ordini di Garibaldi (che vi accenna nelle sue Memorie) nel duro scontro di Morazzone contro gli Austriaci (26 agosto 1848); mentre era tale il prestigio goduto in Europa dai militari polacchi che nella campagna del 1849 il comando dell'esercito del .Regno di Sardegna contro le agguerrite forze di Radetzki fu affidat~ al gen. Chrzanowski. In Sicilia, infine, il comando


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delle forze rivoluzionarie siciliane contro i Borboni fu tenuto dal gen. L. Mieroslawski, appena reduce dalla sfortunata insurrezione della Posnania nel 1846. Per meglio individuare tante e significative « presenze » europee, l'impegno militare garibaldino negli anni dal 1859 al 1866 è indispensabile sia considerato in modo unitario, anche sotto i] profilo della continuità di uomini, problemi, idee. E una posizione centrale, per importanza militare e risonanze e consensi europei occupa naturalmente l'impresa dei Mille. L'improvvisa partenza di Garibaldi il 5 maggio 1860 dallo Scoglio di Quarto aveva colto di sorpresa l'opinione pubblica europea. Quando poi lo sbarco a Marsala , la sanguinosa vittoria di Calatafimi e l'entrata in Palermo misero sotto gli occhi dell'Europa una realtà militare, politica e umana di altissima suggestione; quando ci si rese conto, dagli appelli per la raccolta di volontari, che la stessa spedizione, ove non fosse stata aiutata sarebbe entrata in una crisi seria in conseguenza delle gravi perdite subite, ecco che da ogni parte del continente volontari entusiasti affluiscono a Genova, vengono inquadrati nelle divisioni Medici e Cosenz, in attesa dell'imbarco sui piroscafi Washington, Oregon e Franklin, su altre navi e persino su piroscafi di linea per andare giù alla spicciolata o, infine a Livorno nell'unità posta al comando di Nicotera. Nella massa di volontari che affluiscono a Genova per imbarcarsi e accorrere fra le file garibaldine, sia con i Mille sia con le successive spedizioni, numerosi sono i Triestini ed Istriani e i Dalmati. Appartenenti alle ultime propaggini della nazione italiana, ad una « italianità marginale posta cioè agli estremi limiti della espan. sione territoriale della italianità, là dove viene a contatto e con· trasto con altre stirpi e altre lingue, e illanguidisce, e muore» (6), la loro rinnovata presenza fra le file garibaldine o nell'esercito regolare continua ad avere un significato inconfondibile: attestazione di volontà nazionale, coscienza di un legame, esistenza in tutti di una spinta interiore che li fa partecipi della vicenda unitaria della patria comune. Già presenti a Venezia nella difesa della repubblica nel 184849, non pochi sono i garibaldini dalmati: gli zaratini Giuseppe (6) E. Sestan, Venezia Giulia. Lineamenti di Storia etnica e culturale, Roma 1947, pp. 10-11.


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Zmaich (7), Giovanni Maggiorato, il futuro storico del Risorgimento Carlo Tivaroni, Giacomo de Zanchi, Costantino Venturini, Daimo de Hoebert, Spiridione Galateo, Enrico Matcovich di Stretto, De Giovanni di Sebenico; Cattalinich, Giuppani, Carrara, Giorgio Giovannizio di Spalato; Lorenzo Girotta di Spalato, entrato nel '59 nell'esercito regolare, combattè poi a Bezzecca nel '66 e a Mentana nel '67; Eugenio Popovich, di Antivari (futuro protagonista dell'intervento garibaldino in Bosnia nel 1875-77); il col. Cossovich, i due Millanovich, Spiridione Sirovich di Cattaro; Lisovich di Budua; Luigi e Federico Seismit Doda, di Ragusa; alcuni combatteranno con Garibaldi nel Trentino, a Mentana e in Francia del '70-71 (8). Quanto ai triestini e agli istriani, dopo la loro massiccia presenza nella difesa di Venezia nel 1848-49 o nelle operazioni dell'esercito regolare, le file garibaldine si accrescono di numerosi volontari; il 22 giugno 1849 cadeva nella difesa della Repubblica romana Giacomo Venezian, dopo essersi distinto nel Veneto con lo Zucchi e con lo Zambeccari; pure a Porta San Pancrazio furono feriti il poeta triestino Filippo Zamboni e Giovanni Bruffel; a Porta Cavalleggeri combatte Sansone Levi e sempre alla difesa di Roma presero parte, accanto a Garibaldi, i triestini Domenico Salvi, Roberto Marocchino, Ignazio Hocnigmann, Giorgio Sanzin, nonché Francesco Mitis di Cherso; Ercole Baccalari di Dignano d'Istria, promosso maggiore durante la difesa di Roma. Nel '59 le file dei « Cacciatori delle Alpi» si arricchiscono di volontari istriani e dalmati, ma soprattutto l'impresa dei Mille e le successive spedizioni vedono un afflusso in massa di triestini e giuliani. Due dei Mille sono noti: Cesare Michieli di Campolongo, che combatte a Calatafimi, poi a Palermo al Ponte dell'Ammiraglio, quindi a Milazzo e al Volturno; Marziano Giotti di Gradisca, della compagnia Cairoli, decorato al valor militare . Poi nelle successive spedizioni, tanti altri: il capitano mercantile Enrico Maffei, triestino, Giovanni Bertossi, decorato al valore al Volturno, Gustavo Biichel, Gioacchino Sibel, Daniele Wertheimer, Arminio Wurmbrand, Federico Cuder di Capodistria; tre di Rovigno si distinsero in modo particolare: Luigi Casarsa, Giorgio Moscarda che dopo la presa di Palermo fu imbarcato sulla fregata « Ti.ikory », partecipando all'assedio di Milazzo; e Baldassarre Manzoni, distintosi (7) Archivio di Stato, Mantova, Carte Acerbi. (8) M. Cace, I patrioti dalmati e l'unità d'Italia, in « Il Messaggero Veneto», 16 man.o 1861.


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quale sergente dell'artiglieria garibaldina, a Palermo, ai Ponti della Valle, a Capua; ai Ponti della Valle cadde il triestino Enrico Oreste Appel e al Volturno si distinsero i triestini Giuseppe Andreoli, Demetrio Basiliadis, Gioacchino Bertin, Giovanni Bertossi, Giovanni Coen. Una partecipazione massiccia, dunque, di giuliani e dalmati presenti in quasi un centinaio anche nell'esercito regolare. Alcuni rimarranno accanto a Garibaldi ad Aspromonte (come Eugenio Popovich di Antivari, Gustavo Biicheler, Gian Luigi Vidali, Pietro Arbanassich e Grusovin di Trieste, Antonio Mertel di Capodistria, Antonio Rota di Pirano ed altri ancora); un gruppo folto combatterà poi nel Trentino nel '66 affiancandosi a tanti altri dell'esercito regolare; una ventina furono presenti a Monterotondo e a Mentana nel 1867 ed altri infine, da Trieste e dall'Istria raggiungeranno Garibaldi in Francia nel '70 combattendo a Digione (9). Senza con questo fare riferimento ad un fatto nazionale ma solo p er completare il quadro italiano cd europeo dell'impresa dei

Mille, va notata la presenza fra i garibaldini di vari Israeliti italiani, che si possono cogliere del resto già fra i difensori della Repubblica romana del 1849 o fra i « Cacciatori delle Alpi » dieci anni più tardi: da Giacomo Venezian al giovanissimo Ciro Pinzi (che aveva combattuto quindicenne a Milano durante le Cinque Giornate e cadrà poi il 16 giugno 1849 a Roma col battaglione della Speranza); da Saul Prato a Raffaele Teglio, da Cesare ed Enrico Guastalla (autore di una biografia di Garibaldi) ai fratelli Alessandro, Isacco e Israele Levi; per giungere ai nomi certi di partecipanti all'impresa dei Mille quali il tedesco Adolph Moses, gli italiani Abramo Alpromi, Donato Colombo, Giuseppe d'Ancona, Angelo Donati, Antonio Godberg, Riccardo Luzzatti, Eugenio Rava, Guido Rovighi, Davide ed Enrico Uziel e forse altri (10), a non parlare di Giovanni Acerbi, capo dell'Intendenza dell'Esercito meridionale. Soprattutto poi, e con riferimento a certe situazioni europee in cui si dibattevano le minoranze ebraiche, bisogna riconoscere che solo nel clima di larga, generosa umanità che caratterizza l'ambiente garibaldino poteva nascere un progetto prematuro, di significato europeo e di singolari riflessi attuali. Nel momento in cui, soprattutto (9) P. Sticotti, La Regione Giulia nelle guerre per l'indipendenza, Trieste 1932, pp. 15 e segg. (10) G. De Angelis, Garibaldi romanziere de « I Mille » e gli ebrei in La Rassegna mensile di lsraet, vol. XXV, n. 11, pp. 453 e segg.; i fratelli Uziel sono ricordati da Garibaldi, ne I Mille, Ed. Naz., vol. II, pp. 88, 91, .345.


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in Russia e nell'Europa centro-orientale, periodici pogrom facevano inorridire la coscienza europea e riproponevano l'urgenza di risolvere quello che già veniva chiamato come problema ebraico, un patriota calabrese, garibaldino a Roma nel '49, combattente il 30 aprile sul Gianicolo contro i Francesi, e poi esule negli Stati sardi, a Parigi e a Londra, Benedetto Musolino, nel 1851 lanciava per primo una idea che doveva avere lunga vita: nello scritto Gerusalemme e il popolo ebraico (Roma 1951, a cura di F. Musolino), egli proponeva la creazione di uno Stato ebraico in Palestina quale mezzo per una vera e propria « ricostituzione nazionale giudaica ». Questo progetto nasce da un ambiente garibaldino; arricchito dalla attenta analisi dei rapporti fra religione e nazione nell'ebraismo, si inquadra in quelli che sono gli ideali mazziniani e garibaldini nel sec. XIX e sino alla prima guerra mondiale: desiderio e volontà di veder promossi gli ideali nazionali presso tutti i popoli; impegno morale e all'occorrenza azione pratica, per servire questi ideali; senso dell'incompiutezza della propria stessa « missione » nazionale, ove altri popoli non fossero stati disinteressatamente aiutati. Infine, per il loro patriottismo e coscienza nazionale italiana - affinata dalla lotta continua contro il dominio borbonico - e insieme per la loro funzione di legame ancestrale e di sangue con l'antica patria di là dell'Adriatico, l'Albania (di cui auspicano la rinascita nazionale), va sottolineata la presenza fra le file garibaldine dell'esercito meridionale di una nutrita schiera di Italo-Albanesi. Il passaggio dei garibaldini attraverso la Calabria sollevò il più alto entusiasmo; un appello a Garibaldi dei« discendenti di Skanderberg » fu preparato, per il suo transito da Castrovillari, da Gabriele Frega, ben pronto a indicare come mete ulteriori, dopo l'unità italiana, la Polonia e l'Ungheria. Un reggimento di Italo-Albanesi, si formò al comando del colonnello Domenico Damis di Lungro, fra cui un gruppo di giovani scappati dal Collegio di Sant'Adriano. Furono oltre cinquecento i volontari che combatterono ai Ponti della Valle e al Volturno e fra i più noti citiamo Raffaele e Domenico Mauro di San Demetrio Corone, Giuseppe Pace di Castrovillari, il maggiore Gennaro Placco, di Civita, già compagno di Luigi Settembrini nel penitenziario di Procida, Gennaro Mortati di Spezzano Albanese (11 ).

(11) S. Groppa, Gl'Italo-Albanesi nelle lotte dell'indipendenza, Bari 1912, pp. 41 e segg.


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Non a torto Garibaldi, il 2 ottobre, poteva in un ordine del giorno proclamare: « Gli Albanesi sono eroi che si sono distinti in tutte le lotte contro la tirannide », e concedeva poi al Collegio di S. Adriano a S. Demetrio Corone una somma di 12.000 ducati. Soprattutto, per la spinta che gli veniva dagli Italo-Albanesi, egli accarezzò a lungo « le projet des Albanais », indubbiamente per uno sbarco oltre Adriatico: esso fu « mis de còté » solo dopo la battaglia del Volturno, ma come Luigi Carlo Parini riferì a Cavour 1'11 novembre 1860, « il était un des reves creux de Garibaldi» (12). Grande, anzi massiccio, l'afflusso di volontari francesi, soprattutto emigrati, che si era subito iniziato già all'indomani della partenza dei Mille: per questi giovani, schierarsi sotto le bandiere di Garibaldi possedeva il chiaro significato di una protesta, rivolta contro gli equivoci e i soprusi della politica di Napoleone III. Difficile è stabilirne il numero e l'orientamento politico. Tuttavia, attenti studi di Ferdinand Boyer portano a individuare ben cinquantanove garibaldini francesi, i cui nominativi risultano dagli archivi, dai giornali e dalle pubblicazioni Jell'epoca; ma è molto probabile che, attraverso successive partenze per il Mezzogiorno d'Italia, si possa fare l'ipotesi di un numero ben maggiore da lui stesso indicato fra i 350 e i 500 volontari: secondo le carte Acerbi capo esperto e capace dell'Intendenza dei Mille - conservate all'Archivio di Stato di Mantova, fra la fine di giugno o primi di luglio del 1860 a Parigi funzionò una mission Sicilienne, diretta da Charles de la Varenne; una sua lettera a Giovanni Acerbi, del 14 agosto 1860 segnala come disponibile il medico dr. Leullier, poi effettivamente avviato in Sicilia. Il gruppo più importante e numeroso fu la « Legione » comandata dal visconte Paul de Flotte (cui fu assegnato il Leullier) un uomo politico di un certo rilievo di nobile famiglia brettone, già deputato all'Assemblea nazionale francese del 1848, poi esule dopo il colpo di Stato di Luigi Napoleone del 2 dicembre. Egli è il garibaldino francese di maggiore rilievo, se - dopo aver comandato due vapori tolti ai borbonici per sbarcare a est di Palermo - la (12) A. Lorecchio, Il pensiero politico a/,banese in rapporto agli interessi italiani, Roma 1904, pp. LXVII-LXVIII. Archivio Storico del Ministero degli Esteri (ASME), Registre des pièces déchiffrées du 8 octobre au 31 décembre 1860, n. 26, telegr. n. 1406, Luigi Carlo Farini, Commissario regio a Napoli, a Cavour, Napoli 11 novembre 1860.


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sua unità, inquadrata nella 15a Divisione Tiirr raggiunse da sola i 260 effettivi; lasciò la vita a Solano il 22 agosto 1860, durante lo sbarco in Calabria e Garibaldi per ricordarne la figura volle che l'unità di garibaldini francesi prendesse il nome di Compagnia La Flotte (13 ). Altra figura di rilievo per le sue capacità tecniche, oltre che militari è quella di Philippe-Toussaint-Joseph Bourdon, comunemente chiamato Bordone. Nato a Bordeaux nel 1821, di sentimenti repubblicani e medico di marina, nonostante questa formazione sanitaria ebbe l'incarico da Garibaldi di dirigere la fonderia di cannoni in bronzo di Palermo, mettendo sugli affusti diverse batterie; da Milazzo in avanti fu nello Stato Maggiore di Garibaldi, rivelando qualità natevoli quale sovraintendente al materiale di artiglieria; in tale veste lo seguì sino al Volturno, dove schierò nuove batterie e 1'11 ottobre, su un ponte di barche da lui improvvisato, una parte dei garibaldini riuscì a passare sulla riva destra del fiume. Un uomo di qualità notevoli, dunque, che per « l'intelligenza aperta e attiva, un cuore caldo e appassionato, il gusto dell'autorità e dello zelo » finirà col mettersi agli ordini di Garibaldi, con l'Armata dei Vosgi, nella guerra franco prussiana del 1870-71 {14). Di notevole significato la presenza di un gruppo di Nizzardi mentre i ricordi personali di Ulric de Fonvielle e Maxime du Camp recano un contributo di grande interesse: pittore desideroso di avventure, ardente repubblicano il Fonvielle si imbarcò a Sestri il 10 giugno 1860, legandosi ai volontari garibaldini toscani fra cui ricorda Malenchini e Caldesi e alla fine di giugno viene inquadrato con i suoi compagni nella Divisione Medici, in marcia verso Milazzo. Proseguì la campagna risalendo la Calabria, dove - fra Scilla e Bagnata - ebbe notizia personalmente da Garibaldi - triste e commosso - della morte di Paul de Flotte il 22 agosto, a Solano. Infine l'entrata trionfale a Napoli: i Souvenirs d'une Chemise rouge del FonvieUe danno un quadro vivo e mosso della campagna meridionale, dell'impegno e del valore militare dei garibaldini, come delle (13) F. Boyer, Les volontaires français avec Garibaldi en 1860 in « Revue d'Histoire moderne et contemporaine », aprile-giugno 1860, pp. 126-27; A. Colocci, Paul de Flotte, Torino 1912; è stato ricordato da Garibaldi ne I Mille, Ed. Naz. cit. vol. II, p. 146 e nelle Memorie, pp. 405, 486, 560; C. Pecorini Manzoni, Storia della 15• Divisione Tiirr nella campagna del 1860 in Sicilia e Napoli, Firenze 1876, pp. XI, 135, 290. I · ~~ (14) F. Boyer, art. cit., pp. 132-33; id. id., Un garibaldien français: le général Bordone in « Rassegna Storica del Risorgimento», 1971, pp. 267-76.


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privazioni e delle difficoltà sopportate per la mancanza di viveri e la penuria di ricoveri. Parimente preziosa la testimonianza di Maxime du Camp (Parigi, 1822-1894): scrittore già noto, egli giunse in Sicilia alla metà di agosto del 1860, come ufficiale di Stato Maggiore della divisione Tiirr, partecipando alle operazioni sino alla sua partenza da Napoli il 10 novembre 1860. I suoi ricordi affidati all'autorevole Revue des Deux Mondes (marzo-maggio 1861) furono poi riuniti in volume col titolo Expédition des Deux Siciles (Parigi 1881), ed egli ritornò poi su questa esperienza nei suoi Souvenirs littéraires. Combattente e testimone, il du Camp offre un racconto vivo e spontaneo, ricco di notazioni umane, dell'impresa garibaldina, vista nell'ambito di quella Divisione Tiirr, che raccoglieva volontari provenienti da mezza Europa: « Pendant quatre mois passés à l'état-major du général Tiirr - nota significativamente il du Camp - où les éléments italiens, anglais, hongrois et francais étaient melés dans d'inégales proportions, je n'ai pas assisté à une seule dispute; je n'ai pas intendu un mot plus vif qu'il n'aurait convenu » (15). Ma chi dà all'epopea garibaldina una vasta risonanza europea è soprattutto Alexandre Dumas: scrittore già celebre, partito da Marsiglia sulla sua goletta Emma per una crociera nel Mediterraneo orientale il 9 maggio 1860, « per una sorta di rimorso » alla notizia della caduta di Palermo diresse la prua verso la città siciliana dove giunse il 9 giugno. La scelta era fatta, e come primo atto si mise a disposizione di Garibaldi, imbarcandosi su un vapore per Marsiglia a comprarvi armi: mille fucili rigati, cinquecento cinquanta carabine, diecimila cartucce ecc. raggiunsero Messina il 15 agosto. Ma come Garibaldi - precedendo il grosso delle truppe aveva già passato lo ~tretto - Alessandro Dumas « incapace di assistere a grandi avvenimenti senza prendervi parte », tornò sulla sua goletta, prua verso Napoli: il suo intendimento era quello di preparare il terreno all'arrivo di Garibaldi, prendendo contatto con gli ambienti contrari a: Borboni. Così, dalla Emma che aveva gettato l'ancora a Salerno ed era strettamente controllata dalle truppe borboniche, croate e bavaresi, suoi emissari presero contatto con i patrioti locali e napoletani, che lo accolsero con grande calore. Come sottolinea F. Boyer, « aux yeux des patriotes italiens, Dumas n'était pas seulement le bienvenu en (15) M. du Camp in « Revue des Deux Mondes », 15 aprile 1861; F. Boyer, art. cit., p. 139.


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tant que citoyen d'une nation libératrice. Il était aussi Alexandre Dumas, l'auteur d'ouvrages lus ou représentés en Italie, presqu'autant qù'en France. Et cet écrivain célèbre venait de tracer de Garibaldi, dans ses lettres de Milazzo, une enthousiaste image de légende, aussitot répandue dans toute la péninsule par les journeaux et les feuilles volantes. Ceux qui avaient luce texte n'avaient pas besoin que Dumas leur présentat d'autres lettres de créance ». Di più, fra i patrioti napoletani da lui conosciuti in Francia e rientrati in patria grazie alla amnistia concessa da Francesco II di Borbone il 25 giugno 1860, egli aveva trovato certo Muratori: grazie a questi egli riusci a prendere contatto con lo stesso ministro dell'Interno e di Polizia del governo costituzionale Liborio Romano e con lo zio di Francesco II, conte di Siracusa, uomo di spiriti liberali, contribuendo cosl per la sua parte all'ingresso trionfale di Garibaldi a Napoli il 6 settembre 1860. Grazie a questi contatti, fra il 24 agosto e il 3 settembre la goletta Emma - ancoratasi. in rada a Napoli - divenne ricorda Dumas, <.< un véritable bureau d'enròlement », per disertori e volontari che egli invia sotto le bandiere di Garibaldi. Soprattutto, in sede politica, secondo i rapporti del ministro di Francia a Napoli Brenier al ministro degli Esteri Thouvenel (28 agosto) esponenti del governo provvisorio napoletano si erano riuniti a bordo dell'Emma; lo stesso Liborio Romano - come riferisce Dumas nei Les Garibaldiens (p. 273) - non esitò a seguirne l'esempio, tanto che pare fosse uscito dalla penna dello scrittore francese persino il testo del proclama indirizzato da Don Liborio ai Napoletani. Non senza motivo, Dumas a una delle sue corrispondenze da Napoli dà il titolo di Conspiration à ciel ouvert. Non assistette all'arrivo di Garibaldi a Napoli, perché, dato il segnale della rivolta ad Avellino ai primi di settembre, Dumas mise la prua al sud, dirigendosi a Messina per avere notizie e caricare armi. Tornò poi indietro e a Napoli, alla fine, l'incontro e l'abbraccio di Garibaldi: « Ah! te voilà, s'écriait-til en me voyant. Dieu merci, tu t'es fait assez attendre! C'était la première fois que le général me tutoyait. Je me jetai dans ses bras en pleurant de joie » (16). Non romanzo, ma testimonianza diretta di partecipazione concreta all'impresa dei Mille, sia quanto a rifornimento di armi e come azione politica nell'atto finale del Regno delle Due Sicilie, Les Garibaldiens di Alessandro Dumas sono dunque un documento di prima (16) F. Boyer, « Les Garibaldicns » d'AJexandre Dumas: roman ou choses vues, in « Studi Francesi», n. l(l, 1960 .(Turino), :PP, 26-34.


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mano; ed il puntuale riscontro nei dispacci diplomatici o dei comandanti di marina francesi fa giustizia dello scetticismo con cui questo ed altri scritti (come l'introduzione alle Mémoires de Garibaldi) fu. rono considerati in Francia, ad esempio da André Maurois (17) quasi una « invenzione », cioè ben lungi dal documento storico. Si tratta invece della testimonianza diretta, non ampollosa, di una partecipazione attenta e sofferta a una vicenda irripetibile, resa col nerbo di un autentico scrittore di razza . Non è senza significato, infine, se sulla scia autorevole del Dumas si muovessero i consensi di altri scrittori di grido, come Victor Hugo, George Sand, Edgard Quinet ecc. Naturalmente, accanto alle sottoscrizioni a favore dei volontari e dell'impresa non mancarono, in Francia, anche gli slanci poetici: oggi questi componimenti possono farci sorridere, ma allora erano presi molto sul serio e servono anch'essi a collocare Garibaldi nel clima romantico dell'epoca . Per tutti vanno ricordate Les Garibaldiennes di P. Caillet, una raccolta di poesie uscita a Parigi nel 1861 o il poema La Garibaldiade di Th. Veron, stampato a Parigi nel 1863 con prefazione di Victor Hugo. Nel complesso, una partecipazione corale, viva e sentita se fra i Francesi che spontaneamente, per un moto dell'animo o per soddisfare alle proprie convinzioni politiche si schierarono con Garibaldi o lasciarono la propria terra per combattere ai suoi ordini, vi furono uomini di ogni ceto, politici e intellettuali, nobili e popolani, professionisti e contadini, ex militari ed operai giunti da ogni dove: da Parigi come dalla Provenza, dalla Bretagna come dalla Corsica e dall'Algeria ecc., oltre a Nizzardi e Savojardi da poco entrati a far parte dell'Impero francese. E a tutti erano comuni quegli ideali non solo francesi, ma divenuti patrimonio europeo, proclamati dalla Rivoluzione francese, primo fra tutti quello della libertà.

Quanto agli Inglesi, non c'è dubbio che lo sbarco dei Mille e lo slancio dei successi iniziali creano di colpo la unità della pubblica opinione verso la questione italiana. Ormai le discussioni circa i limiti e gli sviluppi territoriali del nuovo Stato italiano vengono abbandonate, poiché ci si rende conto come l'unità intera della penisola è virtualmente un fatto compiuto dal momento che la Sicilia e i mari meridionali vengono uniti al resto del paese.

(17) Gr. A. Maurois, L cs trois Dumas, Parigi 1957, pp. 318-24.


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Per questo largo consenso di pubblica opinione ( 18) l'afflusso dei volontari fu subito spontaneo e immediato, appena si aprirono gli arruolamenti e il concentramento a Genova per la seconda ondata della spedizione. Il numero dei volontari è stato veramente cospicuo. Secondo la testimonianza di Carlo Pecorini Manzoni, capitano di Stato Maggiore della 15° Divisione Tiirr, la « situazione organica » della Legione Inglese (giunta sul teatro delle operazioni sul finire della campagna) al 6 ottobre 1860 raggiungeva la cifra di 456 unità di cui 24 ufficiali, al comando del maggiore Carlo S. Smelf (19). Con la divisione Medici che prende il mare il 9 giugno sui tre piroscafi già citati, si imbarca il colonnello brigadiere Giovanni Dunne, che è al comando di una propria brigata e finirà per fare una sua piccola guerra personale, nell'ambito delle operazioni generali. Egli n ella sua formazione o, come verrà anche chiamato, reggimento, riuscì ad inquadrare molti Siciliani, in questo coadiuvato dal tenente colonnello Percy Wyndham come dai conna7.ionali Patterson e Dowling: quelle che erano solo delle impromising Sicilian Squadri divennero, saldamente comandate, delle unità vigorose e combattive. Un altro Inglese, che era stato già a Roma con Garibaldi nel 1849, Hugh Forbes (20) - autore fra l'altro di un interessante scritto The Campaign of Garibaldi - si imbarcò anch'egli con la spedizione Medici, insieme a John Whitehead Peard; anche questi - chiamato scherzosamente The Garibaldi's Englishman - dopo avere reso una testimonianza preziosa delle gesta dei « Cacciatori delle Alpi » nel 1859 - ha lasciato delle note di estremo interesse scritte « sul tamburo » (written on the spot) e pubblicate, in parte, cinquant'anni fa dal Trevelyan {21). Il Peard viene inquadrato nella II compagnia Pavia, composta quasi esclusivamente di studenti ed armata di revolver rifles, l'arma

(18) Scritti e discorsi politici e militari Ed. Naz. vol. I, pp. 274, 275, 337. Risposta di Garibaldi ad un indirizzo giuntagli da Shefficld, Palermo, 13 luglio 1860; analog. al Comitato di Glasgow, Caprera, 30 novembre 1860. (19) C. Pecorini Manzoni, op. cit., p. XI e p. 454. (20) Archivio del Risorgimento, Roma, Busta 45, fase. 27. Traduzione dell'epoca del Rapporto del Colonnello Forbes intorno agli affari della Legione inglese venuti sotto la sua immediata attenzione, inviato da Napoli al Comitato di Londra il 28 novembre 1860. (21) The war ]ournal of Garibaldi's Englishman, II, Sicily and Naples, in « The Cornhill Magazine», giugno 1908, p. 812 e segg.; sugli Inglesi vedi anche G. Garibaldi, I Mille, cit., p. 12 e il vol. II delle Memorie, pp. 405, 467.


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nuova inviata a Garibaldi in numero di circa un centinaio dall'inventore Colt, perché la sperimentasse nel combattimento. Distintisi tutti a Milazzo, il Forbes vi fu lasciato, con vivo rammarico di Garibaldi, come governatore della città; il Peard, invece, prosegul tutta la campagna per la Calabria sino al Volturno accompagnato da un captain Royal Navy, a nome C.S. Forbes; egli finl per unirsi ed assumere il comando di quella British Legion, giunta in Italia troppo tardi, ::iddirittura dopo la battaglia del Volturno, per poter essere utilmente impiegata. Nell'insieme si deve ritenere che alla fine della campagna gli Inglesi abbiano raggiunto il migliaio circa. Quella del Peard è indubbiamente la figura più romantica ed interessante ed essa, come ricorderà Cesare Abba, aveva « con buona ragione colpito l'immaginazione degli Italiani, quale simbolo dell'Inghilterra vittoriana e le sue simpatie per l'Italia e la Libertà» (22). Giornali come il «Times» di cui era corrispondente il garibaldino ungherese colonnello Eber (23) che veramente « facevano » l'opinione pubblica non solo inglese, ma europea non esitano a esprimere giudizi entusiasti: « Siffatta impresa è fuori dei limiti, sia del biasimo, sia della lode. E' inutile giudicarla secondo le regole comuni applicate alla politica. Accusare il Generale d'aver violate le leggi internazionaH, prendendo le armi contro un paese con cui si è in pace sarebbe, secondo l'opinione de' suoi ammiratori, tanto puerile quant-, volerlo fare reo di pirateria, per essersi impadronito dei vapori della Compagnia. L'uomo, la causa, le circostanze sono tanto straordinarie, che debbono esser giudicate dai loro risultati. La riuscita proclamerà Garibaldi generale e uomo di Stato di primo ordine; la distatta, la ruina, la morte, lo farebbero ricordare ai posteri come un avventuriero alla Don Chisdotte, e come un uomo di coraggio indomito, ma di giudizio poco sano, che avrà perduta la vita in un tentativo disperato, degno di filibustiere. La spedizione in Sicilia sarà in avvenire paragonata o allo sbarco di Guglielmo d'Orange in Inghilterra, o a quello di Murat in Calabria. Quello intanto di cui possiamo essere certi si è che il coraggio dell'uomo che tenta questa impresa è veramente eroico. Garibaldi ha spiegato, durante gli ultimi avvenimenti della guerra d'Italia, tratti di carattere, che ritraggono assai di quelli che la credenza popolare attribuisce a Carlo Giacomo (22) C. Abba, in « Il Corriere della Sera», 6 mano 1907. (23) Garibaldi, I Mille, Ed. Naz. cit., p. 114; M. Jaszay, Un cronista ungherese delle gesta garibaldine: Ferdinand Eber in « I1 Risorgimento in Sicilia•, 1%7, n. 3, pp, 331-35'1.


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Napier. Prode come la sua spada, audace, intrepido e capace delle più malagevoli imprese » (24). Nè va dimenticato l'appoggio offerto dai comandanti delle navi inglesi al momento dello sbarco e poi durante le trattative seguite al duro bombardamento di Palermo. Ma i volontari inglesi non erano soli; non si erano lanciati nel solco avviato dall'impresa dei Mille per solo spirito di avventura, ma dietro di essi, oltre al consenso della pubblica opinione, vi è anche l'aiuto concreto, in armi e denaro; accanto alle sottoscrizioni presso i giornali, un particolare significato assume la vera e propria mobilitazione delle masse operaie inglesi, scosse dall'impresa garibaldina. « Già il 22 maggio 1860 si tenne il primo comizio popolare per Garibaldi alla St. Martin's Hall di Londra_ La sottoscrizione per l'invio di volontari inglesi ai Mille aveva i suoi perni ne] giornale « Independent » di Jersey, diretto dal vecchio « cartista » Harney, l'amico di tutti i fuorusciti rivoluzionari e soprattutto nel « London Trades Council » che teneva insieme i sindacati operai della capitale. Il segretario di questo organismo, Georges Howell, ricordò più tardi l'enorme interesse con cui gli operai inglesi avevano seguito la marcia di Garibaldi. Per via di quegli eventi, Howell entrò nel 1861 in corrispondenza con la Società Operaia <li Napoli, fondata e <liretta da uomini della Sinistra d'azione garibaldina» (25). Fra i volontari della 15° divisione Tiirr, brigata Eber, Maxime clu Camp ricorda una « compagnia svizzera» (26) e si conoscono i nomi del maggiore Luigi de Niederhausern e del capitano Carlo d'Almen, che già prestavano servizio nell'esercito borbonico dal 1850 al 1859; vi sono dei Prussiani, a cominciare dal colonnello Wilhelm Riistow, che dopo aver seguito la campagna del 1859, finì per diventare, al Volturno, capo di stato maggiore della divisione Ti.irr e lascerà il miglior resoconto critico militare dell'impresa, la testimonianza più valida delle capacità militari e trascinatrici di Garibaldi; (24) Testo in G. Sylva, La VIII Compagnia dei Mille (ristampa a cura di A_ Agavi), Bergamo 1959, pp. 129-130; il gen. Napier (1782-1853) si distinse soprattutto in India per la conqui~ta <lel Sindh e del Belucistan e nella repressione della rivolta dei Sikh. (25) L. Valiani in « Atti del XIII Convegno Storico Toscano. Porto Santo Ste. fano 29 maggio-1° giugno 1960 » pubbL in « Rassegna Storica Toscana», fase. IV, 1960, pp. 227-28. (26) M. du Camp, Expédition des Deux Siciles, Parigi 1881, p. 329,


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o un Augusto de Cloudt, luogotenente, arruolatosi volontario dopo essersi dimesso dall'esercito prussiano. In genere, finirono per passare nell'esercito meridionale alcuni militari « di mestiere » - specie prussiani o svizzeri - appartenenti ai Cacciatori esteri dell'esercito borbonico; disertano, secondo il Pecorini Manzoni, in numero di 105 e, conservando il nome di Cacciatori esteri, andarono a ingrossare le file della 15" divisione Tiirr (27). Se questa partecipazione di volontari provenienti dall'Europa occidentale aveva già un suo significato e collocava l'impresa garibaldina su di un piano europeo, ben più vasto e di valore durevole per l'avvenire fu l'afflusso di volontari provenienti dall'emigrazione centro-europea. Presenti in Italia già prima del '48-49, a mezza strada - come posizione politica - fra l'insurrezionismo armato diciamo autonomo e l'inquadramento negli orientamenti di guerra del Regno subalpino; presenti in Europa, ovunque vi sia da far vivere - con le armi o nei conLatti diplomatici sotterranei - una « questione » polacca o il « problema » magiaro, l'impegno a far risorgere la Polonia dalle ceneri delle spartizioni della fine del Settecento o ridare l'indipendenza all'Ungheria « storica », sottraendola al dominio asburgico; tenuti insieme, i Polacchi della « grande emigrazione » succeduta alla rivoluzione del 1830-31 contro lo zar Nicola I nella corrente conservatrice facente capo al principe Adam Czartoryski, o che si riconoscevano nell'indirizzo «democratico» che ha come capi ed esponenti principali il grande poeta romantico Adam Mickiewicz {così legato a Mazzini), il gen. Ludwig Mieroslawski (combattente in Sicilia contro i Borboni nel 1848), lo storico Joachim Lelewel ed altri; rifugiati in Italia, soprattutto a Torino, i capi della rivoluzione ungherese del 1848-49 Lajos Kossuth, il gen. G. Klapka, Lajos Teleki, F. Pulszki ed altri; queste due emigrazioni - polacca e magiara - sono pronte a dare, a prodigarsi per la causa italiana, sicure che domani potranno ricevere un aiuto concreto dall'Italia e dagli Italiani. Polacchi e Magiari, dunque, sono ben presenti con :primo fra tutti il gen. Stefano Tiirr, a capo della sua 15a divisione, e poi, numerosi nella divisione Medici; fra i Polacchi, numerosi ~da nella lY divisione Tiirr, sia nella 18• divisione e che raggiunsero complessivamente la cifra di una settantina ricordiamo M. Langiewicz,

(27) C. Pecorini Manzoni, op. cit., p . XI.


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uno dei capi della insurrezione polacca del 1863-64, e il gen. Alessandro Jzensmid de Milbitz (1800-1871): quest'ultimo, dopo aver combattuto valorosamente a capo della legione polacca con la Repubblica romana nel 1849, il 13 luglio 1860 aveva avuto da Garibaldi il comando della brigata che prese il suo nome e si distinse soprattutto nella battaglia del Volturno con la valorosa difesa della linea di S. Maria Capua Vetere; qui si distinse anche Edward Iwage, mentre la prima batteria garibaldina fu comandata in Sicilia da Konstanty Ordon, esaltato poeticamente da Adam Mickiewicz, ed al Volturno cadde il tenente Sierawski, figlio di uno dei comandanti della insurrezione del 1830-31. Per questa significativa presenza polacca, fra tutte vale la pena di ricordare la testimonianza di Kasimierz Wolski, che così descrive il trionfale ingresso a Palermo: « ... siamo entrati in trionfo a Palermo fra le rovine delle chiese, dei meravigliosi palazzi e delle case, l'entusiasmo col quale fummo accolti è indescrivibile, tutte le campane suonavano, i sacerdoti ci vennero incontro con gli stendardi e ci benedissero, le donne ci coprivano di fiori, tutta la città era illuminata e dappertutto sventolavano le bandiere tricolori... Pochi giorni fa fui da Garibaldi: egli mi ricevette molto affettuosamente e disse che dopo la questione italiana deve essere sollevata la questione polacca, che per lui la causa della libertà è l'unico dovere della vita e che a questa causa ovunque si dedica volentieri » (28 ). Si possono citare anche altri nomi: il cap. Markowski e il maggiore Borzyslawski; il caporale Szoke e i soldati Zawadzki e Rzewuski decorati di medaglia d'argento, e tanti altri. Una legione ungherese fu costituita dopo la presa di Palermo, nell'ambito della lY divisione Tiirr; essa raggiunse le 440 unità e ad essa si affiancarono gli usseri ungheresi, già in servizio nell'esercito borbonico. Fra i nomi dei comandanti si ricordano, oltre il generale Tiirr i ten. colonnelli F. Eber, K. Eberhardt e F. Pulszky, i CO· mandanti di brigata maggiori Gustavo Frigyesy e Szakmary, i tenenti colonnelli Rudolf Magyor6dy (che si distinguerà al Volturno) e Filippo Figyelmesy a capo della Legione ungherese, il ten. colonnello M. Kiss, già capo di stato maggiore di Omer Pascià nella guerra del Montenegro e Alessandro Teleki; il nome del valoroso maggiore Lodovico Tiikory, accorso in Italia nel '59 e caduto con

(28) A. Colombo, Il generale de Milbitz nel Risorgimento itaUano, in Atti del Congresso storico internazionale di Varsavia, 1933. A. Lewak, Co"ispondenza polacca di G. Garibaldi, Cracovia 1932, p. 84.


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la Legione ungherese all'attacco di Palermo, per espresso volere di Garibaldi fu dato alla prima fregata napoletana che alzò bandiera italiana. Come ricorda il du Camp e conferma il Pecorini Manzoni, fu presente anche il ten. colonnello Lajos Winkler, che a Venezia, il 18 marzo 1848, quale luogotenente di una compagnia di confinari, « s'était résolument jeté devant, ses hommes prèts à faire feu sur la foule et leur avait crié: Vous me tuerez avant de tirer sur ce peuple sans armes ». Passato a comandare la legione magiara creata dal governo provvisorio di Venezia, accorre poi in Sicilia e comanda il 4° reggimento, brigata Sacchi, della lY divisione Tiirr (29). Nell'insieme, una partecipazione massiccia, questa degli ungheresi che dall'Italia guardano come meta all'Ungheria, ben consapevoli di poter contare sulle parole dette da Garibaldi il 16 ottobre 1860: « Ad essi non solo dobbiamo gratitudine, ma è nostro dovere aiutare la loro causa e farla nostra ... La libertà d'Italia è slreLLamenLe legala all'imlipemleuza e alla libertà d'Ungheria» (29). Un certo numero di Romeni - forse una cinquantina - presero parte ai combattimenti fra le file della Legione ungherese dalla caduta di Palermo sino alla battaglia del Volturno, sottolineandosi cosl un impegno di collaborazione nazionale e militare, in significativa armonia con la politica di Cavour a favore della unità dei Principati Danubiani di Valacchia e Moldavia (30). Il movimento rivoluzionario contro gli Asburgo in Ungheria e nelle terre boeme come aveva aperto la strada a una emigrazione magiara e rafforzato quella polacca, ampie come numero e di grandi esperienze militari, fu anche il terreno di coltura di una attiva emigrazione politica boema. Essa, con Josef Vaclav Friç alla testa, prese a muoversi attivamente in Germania, a Parfgi, a Londra, e poi in Italia. E qui - in collegamento con Kossuth, con il polacco gen.

(29) Stefania Tiirr, L'opera di Stefano Tiirr nel Risorgimento italiano,· Firenze 1928; C. Pecorini Manzoni, op. cit., pp. XI, 100-101, 328; G. Falzone, Ritratto di Luigi Tiikory, Palermo 1938; G. Falzone, Memorie e tradizioni di Garibaldinismo ungherese in Sicilia, in « Corvina », anno XXVI, serìe III, vol. I, pp. 18-22; Lukacs L., A magyar garibaldistak utia (I garibaldini ungheresi da Marsala a Porta Pia 1860-1870), Budapest 1971, .pp. 73-74 e seg.; A. Vigevano, La legione ungherese in Italia (1859-1 867), Roma 192 4; Koltay-Kastnor, J. A Kossuth-emigraci6 olaszorszagban (L'emigrazione <li Kossuth in 1talia), Budapest 1960, p. 294-95. (30) C. l sopescu, Italia e Romania nella guerra di Crimea e nella gloria del Risorgimento; cfr. A. Tamborra, Cavour e i Balcani, Torino 1958, pp.. 243-30.


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Mieroslawski ecc. - avverti subito l'attrazione di Garibaldi e del movimento garibaldino: per proseguire l'opera che in Boemia era stata soffocata dall'Austria, occorreva inserirsi in questa grande forza dalla potente carica rivoluzionaria europea. Così, probabilmente fra le schiere magiare oppure polacche che combatterono con Garibaldi sino al Volturno, troviamo alcuni patrioti cechi che avevano partecipato con Fric al movimento rivoluzionario in Boemia: lo scrittore e giornalista Eduard Riiffer (1835-1878) che più tardi, nel 1870, pubblicò a Praga sulla sua rivista di studi militari Zizka interessanti pagine del suo Diario di un ex-garibaldino; insieme a lui fu con Garibaldi in Sicilia nell'estate del 1860 Jindfich Podlipsky (1832-1892), il più giovane dei collaboratori di Fric nel 1849 e che aveva condiviso con lui i ceppi nella prigione di Komarom: dopo essersi distinto a Milazzo, Messina e Reggio, partecipò alla battaglia del Volturno nello stato maggiore del generale Bixio e, infine, alle operazioni contro il brigantaggio in Abruzzo e in Calabria; altri Cechi noti furono Karel Vymar di Letohrad, Rudolf Gasparovsky Ji Pardubice, medico allo stato maggiore di Bixio, Jan Machacek, Jan Steinbach, un certo Sedlo e altri di cui non si conosce il nome; fra tutti, i cechi che avevano combattuto con Garibaldi nell'impresa meridionale sarebbero stati una quindicina, di cui sei caddero in Sicilia. Ed era tale il culto di Garibaldi in Boemia che quando nel 1862 Jindfich Fiigner diede vita alla organizzazione nazionalistica giovanile dei Sokoli (Falchi), fu spontaneo in lui adottare come uniforme la camicia rossa garibaldina. E non è senza significato che Garibaldi stesso, al termine della visita compiuta a Caprera nel maggio del 1864 da Josef V. Fric, gli avesse reso testimonianza che « nelle sue legioni aveva avuto soldati cechi che sapevano combattere bene » ( 31). La presenza di Greci fra le file garibaldine riprende il filo di una tradizione di rapporti con l'Italia del movimento nazionale ellenico sin dalla rivoluzione del 1821 cui parteciparono volontari non pochi italiani, primo fra tutti Santorre di Santarosa. Ma essa si muove sulla scia anche di più vicine premesse di collaborazione: « esule in libera terra greca », dopo aver combattuto con Garibaldi a difesa della Repubblica romana del 1849, il mazziniano Marc'Antonio Canini vi era giunto con altri esuli da Venezia; e da Atene

(31) V. 2acek, Josef Vaclav Fric, Praga 1979, pp. 149-50; 357-58; J.V. Fric, Pameti (Ricordi), a cura di K. Cvejn, Praga 1963, vol. III, p. 26.


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con l'utopismo degli esuli, auspica a Niccolò Tommaseo che giunga

il momento in cui « gli Italiani e i Greci uniti pianteranno il vessillo della libertà in Costantinopoli », collegando così in un sogno grandioso la rivoluzione nazionale italiana alla « grande idea» panellenica di ricostituire l'Impero bizantino (32); oltre a lui, rimasto sempre legato alla Grecia e ai suoi problemi di ascesa e completamento nazionale, un altro personaggio di rilievo, Francesco Crispi: il suo viaggio in Grecia dal 2 al 26 ottobre 1859 gli dà occasione per mettere a fuoco nei contatti con i patrioti greci idee e prospettive di stampo mazziniano che diverranno patrimonio anche del movimento garibaldino: l'unità italiana non è fine a se stessa, ma l'Italia - secondo quanto riferisce Demetrio Gheorghiadis Loghios, testimone di un discorso di Crispi al « Circolo per la riforma politica » di Atene - « cerca di creare rapporti con gli Stati vicini » in modo da diventare « protettrice di tutti quei popoli che vedono insoddisfatte le loro aspirazioni nazionali »; e nel suo Diario del viaggio in Grecia, Crispi esprime l'idea che « se si riunissero al nuovo regno, come sarebbe giustizia, le isole dell'Arcipelago, Creta, la Tessaglia, l'Epiro », uno Stato ellenico di un più sicuro avvenire « sarebbe un pegno di pace nell'Oriente». Naturalmente, egli non ignora - secondo un colloquio con l'amico Andrea Rigopulos, anch'egli mazziniano e conosciuto a Londra - l'esistenza di seri problemi di convivenza nei Balcani, per cui auspica la formazione di Stati nazionali: « tutti uniti poi, Greci, Serbi, Rumeni, Bulgari, Macedoni dovrebbero costituire una confederazione con Costantinopoli capitale » (3 3). Così, come dall'Italia si guarda alla Grecia e al suo completamento nazionale ed ai più vasti problemi balcanici con spirito di collaborazione, era naturale che patrioti greci accorressero sotto le bandiere di Garibaldi. Fra i primi vi fu Elias Stecoulis: partito con i Mille dallo Scoglio di Quarto, non raggiunse subito la Sicilia ma a Talamone rimase a terra inquadrato nel reparto del colonnello Zambianchi, che con la diversione sulla costa maremmana e verso lo Stato pontificio dei livornesi di A. Sgarallino, aveva il compito di

(32) Biblioteca Nazionale, Firenze, Fondo Tommaseo Cassetta 186, Canini a Tommaseo, Atene 9 settembre 1849; cfr. A. Tamborra, Canini Marco Antonio, in Dizionario biografico degli Italiani, voi. XVIII, 1975, pp. 108-116; F. Guida, Marco Antonio Canini e la Grecia: un mazziniano suo malgrado, in « Balkan Studies i., Thessaloniki 1979, pp. 343-92. (33) B. Lavagnini, Grecia 1859 nel diario di Franc.:sco Crispi, Palermo 1967, pp. 7-50.


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rendere incerto lo Stato Maggiore borbonico circa il vero obbiettivo di Garibaldi; lo Stecoulis partecipò allo scontro di Grotte di Castro contro i Pontifici, fu fatto prigioniero e poi liberato per intervento del console greco a Livorno; insieme ad altri Greci, come Stamatis Tipaldos, Dionisios Mavropulos e Sotirou Zisis, raggiunse Garibaldi in Sicilia, partecipando alle operazioni sino al Volturno con la 16a Divisione Cosenz. Altri due Greci, Alessandro Dosios (nipote di Alessandro Mavrocordato, uno dei protagonisti della rivoluzione ellenica del 1821) e Spyros Sassellas (Spiridion Sasselo), parteciparono alle operazioni con la Divisione Tiirr (34). Tutti rimasero poi legati a Garibaldi e al movimento garibaldino, se Stecoulis insieme ad altri Greci combatteranno in Francia dal dicembre 1870, nella brigata comandata dal col. Menotti Garibaldi.

Quanto ai Bulgari, proprio perché i pm m ritardo fra tuttl 1 popoli dell'Europa centro-orientale nel lungo processo che si concluderà con l'unificazione e l'indipendenza della Bulgaria solo nel 1908, i loro maggiori esponenti nazionali si sentono subito sensibili alla predicazione mazziniana e poi partecipi dell'impegno garibaldino: così da Vasil Levski al grande rivoluzionario e « risvegliatore » nazionale Georgi Sava Rakovski, dallo scrittore e poeta Ljuben Karavelov a Marko Balabanov, a Hristo Botev ed altri ancora, per tutti il binomio Mazzini-Garibaldi entra a far parte del patrimonio comune dell'intellighenzia rivoluzionaria bulgara. L'impegno di individuazione nazionale, la lotta per l'affermazione della lingua bulgara e di una Chiesa e gerarchia ecclesiastica strettamente bulgare - sottratte al predominio religioso, culturale e anche politico del clero greco trovano ispirazione e ricercano aiuti in sede europea: il populismo russo degli Herzen e dei Bakunin, anch'essi così vicini a Mazzini e Garibaldi, trova consensi nei territori bulgari e nell'emigrazione, intrecciandosi con i motivi fondamentali del pensiero mazziniano e dell'azione garibaldina. In queste condizioni fu spontaneo e naturale che giovani Bulgari, legati al movimento nazionale e rivoluzionario del loro paese, sentissero l'impulso di entrare a far parte delle schiere garibaldine.

(34) C. Kerofilas, La Grecia e l'Italia nel Risorgimento italiano, Firenze 1919, pp. 75, 117, 252 e segg.; G. Falzone, Lettere di Garibaldi a Elia Stekuli, in « Il RisorgimenLo », Milano 1965, pp. 17-31.


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Il primo garibaldino bulgaro pare sia da individuare in quel Dimitar Dobrovic Pehlivanov (Sliven, 1816) che, giunto a Roma nel 1848 per perfezionarsi negli studi di pittura avviati a Costantinopoli e ad Atene, si batte agli ordini di Garibaldi alla difesa della Repubblica romana; partecipò poi nel 1860 alla spedizione di Sicilia, e tornato a Sliven il racconto della 5ua presenza fra le file garibaldine, la rievocazione di Garibaldi e delle camicie rosse alimentarono a lungo in Bulgaria il « culto » dell'eroe. Fra i garibaldini ,a difesa della Repubblica romana si sarebbe trovato Georgi Kapcev, che avrebbe seguito Garibaldi nella sua ritirata verso il litorale ravennate: a ricordo di questo Ricciotti Garibaldi gli inviò il proprio ritratto con dedica, conservato a lungo fra gli Italiani di Sofia e pubblicato il 31 dicembre 1937 sul giornale « Zora » (L'Aurora). Si ricorda ancora Gjuro Nacev (n. 1827 presso Karlovo) che, esule in Valacchia, nel 1858 parte per l'Italia con un gruppo di esuli italiani; nel 1859 si arruola con essi nei « Cacciatori delle Alpi » per poi trovarsi a Malta, nel 1862, con alcuni esuli garibaldini, forse giunti per preparare lo sbarco in Calabria verso l'Aspromonte; durante la guerra del 1866 contro l'Austria accorse di nuovo dalla Bulgaria insieme a Neno Marinov, I van Hagidimitrov di Stara Zagora, noto col nomignolo <li « Garibaldito » e D. Nikolov Obst, tornando a combattere fra le file dei « Cacciatori delle Alpi »; la stessa esperienza sembra sia stata condivisa anche da certo Varli nel '59, nel '62 e nel 1866, o da Nikola Mitri, combattente con i garibaldini nel 1866 e a Creta nel 1867. Pure a Malta, in preparazione dello sbarco in Calabria, troviamo nel 1862 Teofan Rajnov che - inviato in Italia dal maggiore esponente del movimento rivoluzionario nei territori bulgari Gcorgi S. Rakovski, a studiare organizzazione e metodi di combattimento dei garibaldini - sembra abbia preso parte allo scontro di Aspromonte; Torna Nikolov, detto lui pure Garibaldito e pure presente nel '66 fra i « Cacciatori delle Alpi »; dopo Aspromonte certo Petko Kirkov visita Garibaldi a Caprera, partecipando con i garibaldini all'insurrezione di Creta del 1867; e poi Nikola Vojvodov, giunto in Italia nel 1865 per studiarvi la lavorazione della seta, raggiunge Garibaldi nel Trentino nel 1866 insieme a Neno Marinov. Ma il più importante garibaldino bulgaro-romeno è senza dubbio Stefan Dunjov: uscito da una colonia di Bulgari rifugiatasi nel Banato di Timisoara nella seconda metà dei Seicento, insieme al fratello Iosif e altri due, combatté con la Legione ungherese nell'Esercito meridionale e, ferito nell'ottohte del 1860, durante la battaglia del Volturno al Ponte della


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Valle, fu decorato di medaglia d'argento; promosso colonnello sul campo, per la perdita di una gamba ebbe la pensione di guerra dal governo italiano, rimase in Italia dove si sposò, finendo i suoi giorni a Pistoia nel 1889 (35). Circa i Russi, risulta che dalla campagna del 1859 all'impresa dei Mille e avvenimenti successivi non pochi di essi furono presenti fra le file garibaldine. E questo non può recare meraviglia, se « l'idolo dei radicali russi d'allora» come era sentito Garibaldi, sin dal suo primo incontro con Herzen a Londra nel 1854 aveva cominciato a colpire le fantasie e mosso le coscienze; punte emergenti del primo populismo - quale espressione russa del nascente socialismo europeo - idealmente essi avevano come punto di riferimento la grande, fascinosa personalità di Aleksandr I. Herzen, che da Londra faceva sentire sin nella lontana Russia i rintocchi del suo « Kolokol » (la Campana). Difficile, anzi impossibile valutarne il numero. Tuttavia non si è lontani dal vero se si accettano, come minimo, le indicazioni di Maxime du Camp che per la impresa dei Mille e successive spedizioni verso il Mezzogiorno parla di una diecina di Russi (36). Ma anche prima qualcuno si era indirizzato verso Garibaldi: i figli di un Russo, residente a Firenze nel decennio fra il 1850 e il 1860 certo I.I. Bernov, già maresciallo della nobiltà nel governatorato di Saratov - scapparono di casa per arruolarsi con Garibaldi, forse già nel 1859; lo scrittore V.G. Korolenko nel suo racconto O slepom musikante (i] musicante cieco) rievoca la figura di un Ucraino, certo Massimo, originario della Volinia che per ostilità all'Austria si arruolò in Italia con Garibaldi, rientrando dopo molti anni in Russia come « invalido garibaldino ». E un altro scrittore, del gruppo di radicali populisti che faceva capo al « Sovremennik » (Il contemporaneo) di Cernysevskij, in una delle sue rassegne pubblicate su tale rivista scrive testualmente: « Si sente che diversi nostri compatrioti sono in qualità di soldati con Garibaldi». Secondo N.V. Berg (1824-1884) - corrispondente del liberale « Russkij Vestnik » che preferì seguire nel 1859 le operazioni dei « Cacciatori delle Alpi » garibaldini - fra i volontari vi era anche

(35) I. Petkanov, Riflessi del Risorgimento in Bulgaria in « Rassegna Storica del Risorgimento », 1966, pp. 371-416; in dissenso circa l'appartenenza nazionale bulgara di Dunjov, v. L. Lukacs, Osservazioni sull'attività del garibaldino Stefano Dunyov, ibidem 1967, pp. 268-271. (36) M. du Camp, op. cit., p. 47.


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una russa, moglie di uno degli aiutanti di Garibaldi, originaria di Mosca (37). Fra tutti i garibaldini russi presenti in Italia, l'unico noto con nome, patronimico e cognome è Lev Il'ic Mecnikov. Nato a Pietroburgo nel 1838 (e fratello di I.I. Mecnikov, poi divenuto biologo di fama europea), dopo un decennio passato in Palestina e Asia Minore quale interprete di missioni diplomatiche russe, forse dopo la guerra di Crimea scelse la via dell'emigrazione politica; nel 1859 lo troviamo in Italia, fra Milano e Venezia, passando quindi in Toscana verso il 1860. Non gli riuscì di imbarcarsi con i Mille, ma entrato a far parte della formazione garibaldina comandata dal colonnello Giuseppe Nicotera, partl con questa da Livorno il 30 agosto 1860 sbarcando a Napoli il 7 settembre, contemporaneamente all'arrivo di Garibaldi dal sud. Quando Mecnikov gli fu presentato, ordinò che gli venisse dato un incarico di rilievo nel suo Stato Maggiore. Nella battaglia del Volturno, Mecnikov ebbe il compito di rafforzare le importanti posizioni presso Santa Maria Capua Vetere e nella battaglia del 1° ottobre 1860 rimase gravemente ferito. Non è dunque senza significato se, fra i numerosi pseudonimi di cui è punteggiata la sua vita di proscritto specie nell'attività pubblicistica, vi siano quelli di Garibal'dec o l'altro di Leone Brandi (traduzione italiana del suo cognome, visto che mec in russo significa « brando » ). Ormai rivolto verso l'indirizzo più radicale del populismo, cioè verso Bakunin, nel 1862 a Siena collaborerà al foglio « Il Flagello », attendendosi in Italia sviluppi rivoluzionari, a sfondo anarchico. Definito come « repubblicano rosso e individuo pericoloso» dal Ministro di Russia presso il Regno delle Due Sicilie, principe Grigorij P. Volkonskij (rifugiato a Roma), in un dispaccio dell'8 dicembre 1860, il Mecnikov affidò più tardi il racconto delle sue vicende italiane alle interessanti Memorie di un garibaldino. Chi non giunse in tempo fu un militare di carriera, l'anziano colonnello N.P. Ditmar, che chiesto il permesso di recarsi in Italia per ragioni di salute, giunse a Napoli quando l'impresa meridionale era ormai conclusa. Il Ditmar si recò a visitare Garibaldi al quartier generale di Caserta il 9 ottobre 1860, in alta uniforme e con decorazioni; al suo saluto e come ricordo della visita Garibaldi scrisse (37) Ju. M. Steklov, N.G. Cernysevski;, ego fan' i de;atel'nost (1828-1889) (N.G. C., Vita e attività, 1828-1889), Pietroburgo 1909, cit. da F. Venturi, L'immagine di Garibaldi in Russia all'epoca della liberazione dei servi, in « Rassegna Storica Toscana», ottobre-clic. 1960, p. 316; V .E. Nevler, Echo garibaldirkich sraienij (Eco delle battaglie garibaldine), Mosca 1963, pp. 41-44.


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un biglietto con le seguenti parole: « Ammiratore del popolo russo e del grande Emancipatore dei servi », sottolineando cosl tutto il suo consenso per la liberazione dei contadini disposta dallo zar Alessandro II e che andrà in vigore nel 1861. E quando, tornato a Pietroburgo, volle pubblicare il racconto del suo viaggio e dell'incontro con Garibaldi sul settimanale di lingua tedesca « Montagsblatt », con l'autografo e la fotografia del generale, la censura vietò la pubblicazione, comunicandogli che la sua conoscenza di Garibaldi gli avrebbe creato dei fastidi. Il povero Dhmat ne fu davvero spaventato, visto che il suo incontro con un « terribile rivoluzionario », considerato nei circoli militari come un « atamanno di rivoluzionari », un « bandito», poteva avete come conseguenza l'allontanamento dall'esercito. Non si giunse a tanto e all'anziano colonnello fu negato solo il permesso di espatrio (38). Nell'insieme, forse, il numero di russi può essere fatto risalire a una cinquantina. A Firenze, infine, la colonia russa doveva manifestare aperte simpatie garibaldine se il personaggio più in vista di essa, la contessa Nesselrode {che si fa chiamare « principessa Drousckoy ») è considerata una « famosa arruolatrice garibaldina»; nel febbraio del 1861 è sospettata dalla diplomazia pontificia di volersi recare a Roma - dopo essere andata a Gaeta a far visita al gen. Cialdini « con altre signore e signori russi » - col proposito di farsi « seguire in Roma da molti de' suoi arruolati » (39). Di fronte a tante testimonianze - o significative « rivendicazioni » di appartenenza alle Camicie rosse - è difficile e anzi impossibile dare delle cifre complessive attendibili. Tuttavia, a titolo indicativo si può ritenere abbastanza vicino alla realtà un insieme di almeno 2.000 o 2.500 volontari stranieri, visto che il Pecorini Manzoni fa risalire il numero degli uomini inquadrati nelle « piccole legioni estere» solo della lY Divisione Tiirr a 1.261 volontari tutti affluiti dopo la prima ondata dei Mille. Un numero cospicuo, dunque, che testimonia quale sia stato ampia, corale, vivamente sentita la presenza europea fra le file dei combattenti con Garibaldi, soprattutto nell'Impresa meridionale. (38) F. Venturi, L'immagine di Garibaldi in Russia..., cit., pp. 316 e seg. V .E. Nevler, op. cit., pp. 61-62; 73-75. (39) Archivio Segreto Vaticano, Segreteria di Stato, Firenze 165, Lorenzo Bruschi, cancelliere, a mons. Alessandro Franchi, Firenze 22 febbraio 1'861; da parte sua il ministro di Russia a Roma P. Kiselev tiene a sottolineare di non avere nessuna obiezione contro le misure di polizia che la S. Sede dovesse prendere (ibid., Konnett, segretario della Legazione russa a Roma, a mons. Franchi, s.d., ma fine febbraio o marzo 1861).



II. L'ESEMPIO E L'ATTESA

La guerra del 1859 e, soprattutto, l'impresa dei Mille hanno avuto nella pubblica opinione europea e più ampiamente internazionale, ripercussioni vastissjme, quali neppure si immagina: era l'Italia, un paese e un popolo ben conosciuti per aver dato al mondo una grande civiltà artistica, letteraria, religiosa, di cultura ecc., che nel breve spazio di un paio d'anni giungeva all'unità e all'indipendenza. Come non esserne sbalorditi e come non specchiarsi negli avvenimenti italiani, esaltandone i protagonisti? I più grandi giornali inglesi, francesi, spagnoli, tedeschi, svizzeri, russi, <Scandinavi, serbi, bulgari, greci, romeni, polacchi, boemi o negli Stati Uniti, sulla « New York Daily Tribune» del Dana (dove una personalità di rilievo come Federico Engels segue da vicino, con competenza, gli aspetti militari), sono in molti a guardare con attenzione alle fasi decisive del processo unitario italiano: i commenti e le corrispondenze, scritte a volte « sul tamburo », come quelle di Alessandro Dumas in Francia, i consensi quanto a valutazioni politiche e l'apprezzamento sotto il profilo militare della condotta di guerra di Garibaldi e dei garibaldini destano ancor oggi un singolare interesse, anche per certo calore umano. Così, anche in paesi apparentemente lontani dai tormenti nazionali, come quelli scandinavi, Garibaldi è qualcuno ed evoca sentimenti di ammirazione. Mentre l'avanzata dell'esercito garibaldino era in pieno svolgimento, il 4 luglio 1860 gli abitanti di Halsingborg, in Svezia, decisero di far pervenire a Garibaldi una spada d'onore, già offerta dal re Carlo Giovanni XIV ad un generale svedese. Questo non poteva recare meraviglia perché tutta la corrente politica nazional-liberale, che aveva nell' « Aftonbladet » il suo organo di stampa e più delle altre era sensibile ai movimenti nazionali europei, fu pronta nel cogliere il significato europeo e non solo italiano dell'epo-


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pea garibaldina: dagli scrittori e uomini politici August Blanche, grande ammiratore di Mazzini e Garibaldi, e Lars Johan Hierta, ad August Sohlman, uno dei maggiori esponenti dello scandinavismo, tutti uomini che nel 1864 si legheranno a Bakunin e all'Internazionale. E si arriva anche a manifestazioni di carattere popolare, come battezzare i figli col nome di Garibalder o dare il nome dell'eroe a navi mercantili. Naturalmente, come vi erano stati calorosi messaggi di augurio da Stoccolma al Varignano dopo Aspromonte, ai quali Garibaldi risponde il 2 ottobre 1862 attestando fra l'altro la propria ammirazione per gli ideali scandinavi della pace e del movimento pacifista degli Svedesi e di tutti gli Scandinavi, Garibaldi si ricorderà per raccomandare loro, un anno più tardi , di non abbandonare la Polonia e di inviare aiuti agli insorti polacchi (40). Né manca a Garibaldi il consenso che gli giunge dagli Svizzeri che, tramite una associazione, gli fanno pervenire nell'agosto del 1861 una carabina d'onore a mezzo del maggiore Ott. Sempre poi idealizzata come « città della libertà europea, asilo sacro e inviolabile degli uomini liberi, esempio meraviglioso dei popoli che aspirano all'emancipazione », sarà poi sempre la Svizzera a rappresentare per Garibaldi l'esempio di « nazione armata » valevole anche per l'Italia, dove la preparazione di una guerra all'Austria per le terre « irredente » si avrà per lui solo quando, attraverso le Società di tiro a segno, « dai 17 ai 50 anni ogni Italiano saprà colpire un bersaglio a 500 passi» (41). Anche in Boemia si avverte che Garibaldi è, insieme a Mazzini, uno dei punti di forza dell'ascesa nazionale europea. Ma l'amara esperienza del 1848-49 e le effimere speranze suscitate dal Congresso slavo di Praga del giugno 1848 avevano finito per dare validità, per bocca di F. Palacky, al quadro asburgico per i timori della politica « panslava » della Russia zarista. Cosl, l'opposizione dei Cechi al regime asburgico - a parte l'impegno rivoluzionario di un J .V. Fric - diventa nella sostam:a lealista e legalitaria, cioè passiva. Tale durerà sino al 1879, quando un partilo dei Giovani Cechi comincerà a emergere e troverà capi di prestigio in Kaizl, Kramaf e T.G. Ma(40 ) S. Furlani, La Svezia, lo scandinavismo e il Risorgimento italiano in « Rassegna Storica del Risorgimento», 1976, pp. 283-303; G. Garibaldi, Scritti e discorsi, cit., voi. V, pp. 154-155. Ibidem, p. 184, « Ai popoli d'Europa», Caprera, 15 febbraio 1863, p. 188; « Agli amici di Svezia», Caprera, 3 marzo 1863. (41) E.E. Ximenes, Epistolario di G. Garibaldi, Milano 1885, vol. I, pp. 120121; vol. Il, p. 163, lettera del 13 marzo 1878; vol. I , p. 238, lettera del 29 luglio 1878 « Al direttore della Capitale » per l'I talia irredenta.


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saryk. Ma la partecipazione di garibaldini boemi all'impresa dei Mille e più tardi, nel 1864, i contatti di J.V. Fric con Garibaldi e col movimento garibaldino, diventano una delle componenti della opposizione agli Asburgo nelle terre boeme. Di qui i messaggi che giungono a Garibaldi, cui questi risponde il 25 settembre 1861 « alle coraggiose donne boeme»; di qui, dieci anni più tardi, il 5 agosto 1869, la presenza « in ispirito » di Garibaldi alle celebrazioni a ricordo di Giovanni Hus, mentre nello stesso torno di tempo i Sokoli (Falchi), le società ginnastiche sorte in Boemia con chiaro indirizzo nazionale e antiasburgico, assumono come loro divisa la camicia rossa, « in segno d 'unione ideale con le legioni di Garibaldi» (42). A sud dei Carpazi, nel cuore della pianura danubiana, i Magiari sono interamente al fianco di Garibaldi che è atteso, invocato, mitizzato: le tradizioni di collaborazione diplomatico-militare fra il governo rivoluzionario ungherese di Lajos Kossuth con il Regno di Sardegna e i governi provvisori di Vene-.da e di Lombardia, come la formazione in Ungheria di una «Legione» italiana al comando del ten. colonnello Alessandro Monti,. nel 1848-49, avevano lasciato un segno nelle coscienze; la stessa emigrazione ungherese aveva scelto la via dell'Italia dopo la disfatta e l'internamento in Turchia; nel 1859-60 - attraverso capi decisi e lungimiranti che rispondevano ai nomi di Kossuth e Klapka, Pulszky, Teleki e Tiirr ccc. - dopo l'impresa dei Mille, continuava a guardare verso la patria. Cosl Garibaldi e i garibaldini ungheresi e italiani in nessun luogo come nei territori della Corona di Santo Stefano sono esaltati e mitizzati, avvolti da un clima di attesa. Questa si esprime, significativamente, anche attraverso canti popolari, specie in quei katona-dalok o canti soldateschi, che formano tanta parte della poesia popolare magiara. Dopo l'impresa dei Mille, risale al 1862-63 un canto popolare che meglio offre il senso di questa « attesa » di Garibaldi:

Millottocento sessanta Garibaldi è a Napoli Di là andrà a Venezia e da Venezia verrà in soccorso dei Magiari. L'aquila bicipite ha dei grossi artigli glieli taglieremo un pochettino la spennacchieremo un pochettino e con le piume ci orneremo il cappello. (42) G. Garibaldi, Scritti ... , cit., vol. IV, pp. 408-409; vol. VI, p. 27; G. Stuparich, LA nazione ceca, Napoli 1922, p. 110.


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Andai al mercato di Debrecen Vi comperai un cavallo dalle briglie coi colori nazionali: io sarò l'ussaro di Garibaldi.

E ancora, nel 1862, si comincia a cantare:

Sporca è la mia camicia sporchi i pantaloni: ne avrò di nuovi da Kossuth e un fucile mi darà Istvan Turr Evviva Garibaldi. V erranno tutti insieme: Kossuth Klapka e T urr, alla testa d'una grande armata di venti o trentamila eroi. Evviva Garibaldi. I corvi sono molti qui da noi pochi sono invece le spade e i cavalli: Da qui a poco ce li porteranno, a morire pronti già siamo! Evviva Garibaldi.

E come una impresa di liberazione garibaldina non può giungere altro che dai Balcani, sempre a partire dal 1862 si canta:

Ad Als6nyék con un treno del Sud Garibaldi e Lajos Kossuth han recato il tricolor nazionale gli austriaci potranno tremare.

Poiché l'Ungheria è spesso simboleggiata da una dolce fanciulla bruna, si è pronti a cantare:

A gran velocità s'avvicina a Buda il grigio destriero di Garibaldi corri, fanciulla bruna, a portargli acqua tra poco Garibaldi sarà già qui.


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E lo stesso motivo ricorre nella canzone Il cappello di Garibaldi pure del 1862: Garibaldi ha un piccolo e curioso cappello cucito v'è un nastro coi colori nazionali cucito v'è un nastro coi colori nazionali e sopra vi brilla il nome di Lajos Kossuth. La palla della torre di Vienna si è spezzata Ha sete il cavallo di Garibaldi, a lui porge dell'acqua una fanciulla magiara Ha fretta di andare alla battaglia Garibaldi (43). Anche i Serbi cominciano a muoversi, con prudenza ma con determinazione e guardano all'Italia e a Garibaldi. Dentro e fuori il Principato di Serbia, essi sono ben consapevoli di una loro « missione » unificatrice, rivolta verso tutti gli Slavi meridionali; essa era stata definita per la prima volta, nel 1844, nel Nacertanije o Programma, .fatto proprio dietro suggerimento del polacco principe Adam Czartorysk.i, dal knez di Serbia Alessandro Karagjorgjevié e dal suo ministro Ilija Garasanin: in questo compito di unificazione, i Serbi dovevano dirigere i loro sforzi soprattutto contro l'Austria, poi contro la Turchia, ricercando appoggi presso l'Inghilterra e la Francia. Per questa analogia di posizioni rispetto al processo risorgimentale italiano, i Serbi sono fra i primi a specchiarsi negli avvenimenti italiani, a rallegrarsi dei risultati raggiunti. Così, dopo gli articoli complessivi dedicati alla campagna del 1859 e usciti sul « Srpski Dnevnik » (il Giornale serbo) di Belgrado il 24, 28, 31 gennaio e 4, 7 febbraio 1860 col titolo Napoleon, Kavur, Italija, Jasa Ignjatovié si applica a illustrare il 26 e 30 maggio « l'insurrezione siciliana e Garibaldi (Pokret sicilijanski i Garibaldi): scrittore politico di notevole prestigio e legato ai circoli dirigenti magiari, con cui aveva ricercato una politica d'intesa contro l'Austria grazie alla sua carica di « segretario nazionale» presso il metropolita serbo di Srem Karlovci, le sue fonti di informazione sono essenzialmente ungheresi e, dunque, di prima mano. Per questo l'lgnjatovié si rivela ben al corrente, sia in sede politica che militare, di tutti gli svolgimenti dell'impresa dei

(43) R. Ruspantì, L'eco e il mito del Risorgimento italiano in alcuni scritti e canti popolari ungheresi, in « Rassegna Storica del Risorgimento», 1980, pp. 149-152; L. Salvini, L'Italia nei canti popolari magiari, Roma 1932, pp. 34-37.


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Mille, sulle forze messe in campo dai Borboni e da Garibaldi, sui criteri strategici da questi adottati. Il resoconto dell'impresa garibaldina prosegue nei successivi articoli del 18 e 21 agosto 1860 sullo stesso giornale sotto il titolo Novi pohod Garibaldov (La nuova spedizione di Garibaldi), che descrive il passaggio dello Stretto di Messina e la marcia verso Napoli e, infine, il 1° settembre 1860 nell'articolo Voino poforiste u Italii (Il teatro della guerra in Italia) si presenta un quadro complessivo degli avvenimenti del 1860. Come si vede, siamo in presenza di un interessamento vivo e sentito; e questa sensibilità è tanto più accesa ove si pensi alla tradizione insurrezionale che vive da secoli presso i Serbi e gli altri Slavi meridionali, nella lotta contro il Turco; Garibaldi, su una scala più vasta e con pieno successo politico oltre che militare, ha seguito il « metodo » della insurrezione armata, che agli occhi esterni appare in quel momento esclusivamente « di popolo »; i risultati raggiunti segnano dunque una via da seguire anche per gli Slavi meridionali. L'impresa dei MilJe a giusto titolo viene considerata come la prima « guerra di popolo » che sia stata coronata dal successo, anche se per certa spinta emotiva si è portati a svalutare il peso determinante del Regno subalpino, cioè di Vittorio Emanuele e di Cavour. Essa possedeva una tale carica di suggestione che subito, all'indomani stesso della battaglia del Volturno, interrogativi di grande momento si fanno strada in Europa: poiché i problemi di unificazione nazionale in talune zone del continente erano analoghi a quelli italiani - tanto che fra gli uni e gli altri sin dal '48 erano in vita significativi collegamenti - perché non seguire l'esempio di Garibaldi? Iniziative analoghe potevano essere valide anche in un quadro politico diverso, con differente impegno strategico-militare e non senza prospettive di rinnovamento sociale. Infine, ci si chiede, chi potra essere il Garibaldi serbo o bulgaro o russo o romeno ecc. cioè l'uomo carismatico che ogni singolo popolo presto o tardi doveva pur esprimere dal suo seno? A veder bene, non si tratta di domande retoriche, sollecitate da suggestioni emotive del momento, ma di aspirazioni concrete, legate a problemi di ascesa nazionale e di rinnovamento sociale da troppo tempo sul tappeto per non reclamare una soluzione: solo l'iniziativa per una guerra « di popolo » di tipo garibaldino e un uomo che avesse la statura di Garibaldi sarebbero stati all'altezza del compito.


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Idee, aspirazioni simili emergono e si fanno strada principalmente in area balcanica, una zona dove l'impegno di esponenti politici e nazionali e la stessa complessità dei problemi determinano tensioni molto vive: la volontà di veder alleggerito e poi eliminato il peso del dominio turco, che grava su questa parte dell'Europa dalla metà del Quattrocento nonostante attenuazioni e timide riforme è il denominatore comune che unisce tutti i popoli balcanici. Questo, anche se contrasti nazionali, divergenze circa il carattere nazionale di talune zone fortemente miste e conseguenti problemi di futuri confini, avvelenano e rendono precaria ogni vera, fiduciosa collaborazione. Anche l'Impero asburgico è toccato da vicino dagli ·stessi problemi, emersi in luce meridiana durante la crisi del 1848-49, coinvolgendo essi Magiari e Romeni in disputa sulla Transilvania, Serbi e Magiari per il Sirmio (uno dei poli del scrbismo), mentre le aspirazioni nazionali di Croati e, più tardi, di Sloveni o degli stessi Italiani minano alle basi l'esistenza stessa del vetusto impero multinazionale. In questo clima politico, la suggestione a seguire l'esempio di Garibaldi viene per la prima volta affacciata nei Balcani, già prima dell'impresa dei Mille, dall'agitatore mazziniano Marc'Antonio Canini. Per Jui i Romeni - alle cui lotte nazionali egli rimarrà costantemente vicino sino alla fine dei suoi giorni - dovranno pure esprimere un loro « Garibaldi », se in una biografia del Generale pubblicata a Bucarest il 7 giugno 1859 sul suo « Buletinulu resbelului din Italia » (Bollettino della guerra d'Italia) cosl scriveva: « Se il giorno della insurrezione e dell'unione di tutti i Romeni suonerà presto, voglia Iddio che anche i Romeni abbiano un Garibaldi! Spero, anzi son sicuro che non possa mancare un cuore magnanimo in un paese che in tempi più tristi dette vita a un Tudor Vladimirescu ... [l'eroe dell'insurrezione del 1821 contro la Turchia nei Principati danubiani di Valacchia e Moldavia n.d.r.]. Questa speranza è dolce e consolatrice per i Romeni nelle presenti miserie». (Cfr. C. I sopescu, La stampa periodica romeno-italiana in Romania e in Italia, Roma 19 3 7, p. 19). I Serbi del Principato come erano stati i primi a muoversi con la rivoluzione del 1804 e poi a raggiungere un livello di Stato semiindipendente dalla Sublime Porta, sono i primi a obbedire a suggestioni garibaldine. Garibaldi non è ancora sbarcato sul continente che già nel luglio del 1860 un progetto molto ardito nasce giusto in ambiente serbo. Scarsamente realistico in rapporto al livello di maturazione politica e militare del Principato di Serbia, esso viene proposto da uno scrittore e uomo politico serho di Ragusa (Dubrovnik),


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Matija Ban (1818-1903). Egli aveva dietro di sè notevoli precedenti di attività politica, anche quanto a problemi di relazione con gli Italiani: a Ragusa nel 1849 aveva dedicato alcuni articoli alla « questione italo-slava» sul giornale «L'Avvenire» (in lingua italiana ma di sentimenti nazionali slavo-meridionali); si era poi distinto al servizio del principe Alessandro Karagjorgjevié e nei contatti col console sardo Marcello Cerruti, quando questi era stato inviato a Belgrado ai primi del 1849 col compito di favorire una intesa fra Magiari e Serbi, ma non riusd a indurre questi ultimi a intervenire contro l'Austria al fianco dei rivoluzionari magiari (44 ). A dieci anni di distanza, l'esempio dei successi garibaldini è troppo eccitante perché Matija Ban non aspiri a muoversi, sull'esempio di Garibaldi. (Più tardi, nel 1867, senza riferirsi a lui il console generale italiano a Belgrado, Stefano Scovasso, significativamente esprimerà il convincimento che prima o poi la classe dirigente del Principato esprimerà un « Garibaldi slavo » ). Così, verso la metà di luglio del 1860 il Ban, nell'incontrare a Belgrado l'acceso slavofilo russo K.I. Aksakov - esponente di rilievo di quel Comitato slavo di Beneficenza sorto a Mosca nel 1857 per sostenere con ogni mezzo la « causa » slava - gli propose senza ambagi di organizzare un movimento di liberazione di tipo garibaldino fra gli Slavi del sud. Contemporaneamente, però, egli non esita, con singolare disinvoltura, ad avanzare una proposta analoga all'Austria, ma da Vienna la sfiducia verso il Ban è troppo viva perché la risposta possa essere positiva. L'Aksakov, intanto, il 17 agosto comunicava a Matija Ban il consenso e l'appoggio del Cmnitato slavo di Mosca, indicando come obiettivo principale una insurrezione che fermasse l'Austria nella sua espansione verso la Bosnia. Creato un apposito Comitato per dirigere l'insurrezione, il Ban ottenne dagli slavofili russi solo 10.000 rubli, invece dei 100 mila ducati richiesti; ma la cosa non procedette oltre, anche se successivamente le insistenze del Ban si volsero al principe di Serbia Michele Obrenovié: per non avere complicazioni con la Turchia e con i consoli stranieri, nel maggio del 1861 gli fu anzi ordinato di sciogliere il Comitato e di evitare ogni attività politica (45). (44) Cfr. A. Tamborra, Cavour e i Balcani, Torino 1958, pp. 71-109. (45) V.J. Vuckovié, Neuspela politiéka akciia Mati;e Bana 1860-1861 (Un mancato tentativo politico di M.B. nel 186~1), in « Istoricki casopis », 1959, vol. IXX, pp. 387 e scg.


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Comunque sia, l'influenza garibaldina su questi propositi è singolarmente interessante. Quell'Italia farà da sè che nella sua concreta attuazione stava sotto gli occhi dei Serbi, spingeva ormai gli spiriti più arditi e spericolati e, come il Ban, più a contatto con gli Italiani ed i Magiari, a prospettarsi una strada non diversa. I tempi, però, non erano maturi perché la Serbia - ancora soggetta alla Sublime Porta - potesse appoggiare dall'esterno, come il Piemonte, una impresa analoga a quella garibaldina. Del resto il Principato di Serbia - che in fondo è già uno Stato e ha un suo peso nei calcoli delle Potenze - è ben lungi dal volersi inserire e farsi trascinare sull'onda portante della rivoluzione nazionale europea: i difficili problemi di relazione con i Magiari e con i Croati; la consapevolezza di poter erodere e scardinare il residuo potere turco e la necessità, soprattutto, di non mettere in pericolo i risultati già conseguiti, tutto conduce i Serbi ad un atteggiamento di prudenza. In altri termini il rivoluzionarismo nazionale cospiratorio e barricadiero, come li aveva lasciati freddi, attenti ai loro interessi, nel 1848-49 e poi nel 1859, così è ben lungi dal fare presa su uno Stato e una classe dirigente che non vuole mettere a repentaglio i risultati già raggiunti. Più decisi, anche per maggiore maturità culturale-nazionale sono i Serbi della Vojvodina che dalla « Atene del serbismo », Novi Sad, conducono da anni una dura lotta contro Vienna e, soprattutto, contro i Magiari. Così, quando il 26 gennaio 1864 i maggiori esponenti del movimento nazionale dei Serbi d'Ungheria - il liberale Vladimir Jovanovié, insieme a Svetozar Miletié e Svetozar Markovié diedero vita a Novi Sad all'associazione patriottica Ujedinjena Omladina Srpska (Gioventù serba unita) quale socio onorario pensarono a Garibaldi (cui furono affiancati Richard Cobden, SaintMare Girardin e i populisti russi A.I. Herzen e N. C:ernysevskij). E non è senza significato che giusto il Miletié proclamasse a gran voce la necessità di prepararsi a una insurrezione: « Sì, la madre ha generato l'eroe che per la liberazione delle terre serbe ... tradurrà in azione l'idea di Garibaldi: 500.000 fucili e la questione d'Oriente è risolta » ( 46), chiaro trasferimento in area balcanica dell'idea di Garibaldi sulla « nazione armata», espressa l'll aprile 1862: « La carabina è l'arma dei popoli liberi e intelligenti... », e rinno-

{46) Uiediniena Omladina Srpska. Sbornik radova (La gioventù serba unita. Raccolta di Studi), Marica Srpska, Novi Sa<l 1968, pp. 244, .395, 598.


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vata in sede parlamentare il 3 giugno (47). Vi sono già tutti i convincimenti - di ispirazione garibaldina - che un decennio più tardi, nel 1875, animeranno l'insurrezione in Bosnia Erzegovina e la conseguente guerra contro i Turchi. Se l'esempio di Garibaldi è particolarmente suggestivo e spinge a prendere iniziative analoghe, non vi è da meravigliarsi se, sempre all'indomani della vittoria sul Volturno, in Occidente si faccia strada la convinzione - o per Austria e Turchia il timore - che egli non possa o non debba rimanere relegato a Caprera. La eco, vastissima, dei successi garibaldini e della particolare « anima » impressa da Garibaldi al moto risorgimentale italiano, non erano ancora spente che già da una parte all'altra del continente ci si chiede con vivo senso di attesa: cosa farà Garibaldi, in quale direzione lancerà i suoi volontari in camicia rossa? Verso quali lidi vorrà egli recare la scintilla della rivoluzione nazionale, accettando di mettere la sua spada a servizio di altri movimenti, di altri popoli? « Le nom de Garibaldi retentit com.me un appel à l'indépendance dans le coeur de soixante millions d'hommes courbés encore sous le joug de l'Autriche, de la Russie, de la Prusse et des Osmanlis » scriveva nel '61 Alexandre Bonneau, nella prefazione a Les Garibaldiennes, il volume di poesie d'ispirazione garibaldina di P. Caillet. Ecco dunque come veramente grave o addirittura ossessiva è la preoccupazione di potenze come l'Austria, la Turchia e in parte la Russia zarista le quali, nel racchiudere entro i propri confini tutto un ribollire di problemi nazionali, avvertono che il fermento garibaldino non può essere tenuto a lungo lontano. La paura di iniziative e di sbarchi sulla costa dalmata per raggiungere anche l 'Ungheria e di là la Polonia o il collegamento di Garibaldi con l'endemico rivoluzionarismo ellenico, tutto sollecita l'Austria asburgica, la Turchia ottomana e la Russia zarista a tenere gli occhi bene aperti. La paura o la preoccupazione sono tali che il pericolo viene esagerato e si vedono agenti di Garibaldi un po' dovunque: alla fine del '60 d'accordo fra Russia e Turchia - per iniziativa di Vienna - si stabiliscono delle crociere navali lungo le coste adriatiche e ioniche per impedire possibili sbarchi, chiamati garibaldini; tutto questo anche in relazione con una spericolata iniziativa di Cavour di inviare armi sul Basso Danubio, confidando nella collaborazione del principe

(47) G. Garibalcli, E<l. nazionale, V, pp. 60-61

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Alexandru J. Cuza (sovrano eletto nel 1858 sui troni di Valacchia e Moldavia): queste armi dovevano servire a una futura insurrezione contro l'Austria nel momento in cui fosse scoppiata una guerra per il Veneto; ma l'intervento deciso della Turchia e dell'Inghilterra fermò e fece tornare indietro le tre navi, cariche di armi, tratte dai Regi Arsenali di Genova e Torino (48). E Cavour, quanto a iniziative spericolate non si muoveva forse « alla garibaldina »? L'esempio di Garibaldi tocca intimamente anche i Bulgari, che erano stati presenti fra le file garibaldine e avevano recato in patria una molla potente a operare contro i Turchi in senso rivoluzionario. Per questo anche la pubblica opinione del paese, come dell'emigrazione presente a Costantinopoli e soprattutto nei Principati danubiani, specie a Bucarest e a Braila, si entusiasma delle imprese garibaldine. Il primo giornale bulgaro il « Carigradski vestnik » (Il Giornale di Costantinopoli) - diretto da I.A. Bogorov, poi A. Eksarh e che dura dal 1848 al 1862 , finanziato dall 'ambasciata russa segue molto da vicino le vicende garibaldine. La sua impostazione essenzialmente conservatrice non gli impedisce di pubblicare una messe di notizie, tratte da giornali occidentali (anche triestini, napoletani e romani) che rivelano un vero consenso verso il processo unitario italiano; di più l'ostilità contro i « papisti » lo conduce a dare spazio a notizie e commenti che riguardano l'impegno di Garibaldi per giungere a Roma, rimanendo il giornale ben fermo nel sostenere il ·patriarcato di Costantinopoli, anche contro una Chiesa bulgara autocefala. Tutto sommato, il riconoscimento che Garibaldi ha un suo posto nell'arena internazionale è esplicito. Esso è condiviso dal « Dunavski Lebed » (Il cigno del Danubio), giornale bulgaro di Belgrado, diretto fra il settembre 1860 e il dicembre 1861 da quegli che a giusto titolo si può considerare il maggiore esponente del movimento nazionale e rivoluzionario bulgaro, Georgi Sava Rakovski. Impegnato nel rivendicare l'autonomia della Chiesa bulgara contro il Patriarcato di Costantinopoli e contro il predominio ecclesiastico, culturale e linguistico del clero greco non meno che contro l'azione missionaria cattolica e protestante, Rakovski col suo foglio spinge apertamente il popolo bulgaro all'insurrezione contro le autorità turche. Su questa strada Rakovski doveva necessariamente incontrare la figura di Garibaldi e l'articolo del 20 settembre 1860 su Le vittorie di Garibaldi è indicativo di questo aperto consenso.

( 48) A. Tamburra, Cavour e i Balcani, cit., pp. 13J e segg.


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Soprattutto, in questo e in altri articoli, Rakovski sente vivamente come i movimenti di liberazione nazionale di Italiani, Magiari, Romeni, Polacchi, Bulgari ecc. costituiscono un tutto unico. E se gli artefici dell'unificazione italiana - scrive il giornale il 6 ottobre 1860 - sono stati Napoleone III, Vittorio Emanuele e Garibaldi, a quest'ultimo spetta il merito maggiore perché ha portato a termine l'opera che Napoleone non era riuscito a concludere. Soprattutto, i garibaldini italiani, magiari e polacchi « guardano assai lontano » (22 settembre 1860), perché Garibaldi « anche se rimane a Caprera prende parte a tutto » e si finisce per condividere la convinzione, ampiamente diffusa in Europa, di un futuro sbarco di Garibaldi per la primavera del 1861 « nelle province illiriche per aiutare gli Ungheresi e diversi altri » (1° settembre 1860): « Come abbiamo detto altra volta - scrive il « Dnnavski Lebed » il 6 dicembre 1860 l'Italia è oggi all'ordine del giorno dei circoli diplomatici in Europa. Lì è in preparazione per la primavera un movimento generale non solo per la liberazione della parte d'Italia rimasta sotto il dominio austriaco, ma questo movimento si estenderà anche ad altri luoghi». Intorno a questo stesso periodo larga influenza culturale aveva fra i Bulgari la rivista « Balgarski kniznici » (Lettere bulgare) che rivendica il diritto della Chiesa bulgara all'autonomia da Costantinopoli, quale primo passo di significato nazionale. La polemica contro la Chiesa di Roma e il suo impegno per l'unione delle Chiese conduce la rivista a prendere posizione contro il potere temporale; esalta naturalmente Garibaldi, tanto che nel pubblicare una lunga biografia, tradotta da un giornale occidentale, nel novembre del 1860 scrive: « Il nome di Garibaldi già prima della sua rivelazione in Europa, ed ora dopo questa, è noto persino ai più piccoli fra i bimbi di Bulgaria. Per quanto poco si legga qualche giornale, tutti hanno letto dell'esistenza di un certo Garibaldi, che ora si batte valorosamente in Italia per la libertà della sua patria e ormai ha sbarazzato un intero reame dalla tirannide» (novembre 1860). Consensi a Garibaldi giungono dall'autorevole « Balgarija » (La Bulgaria), diretto da D. Cankov - un cattolico uniata - e che aveva autorevole collaboratore uno dei massimi esponenti del movimento bulgaro, P.R. Slavejkov; la sua lotta contro il patriarcato di Costantinopoli (e anche contro il panslavismo russo) si allargava alla richiesta di una autonomia bulgara nell'ambito dell'Impero ottomano e, sul piano sociale, alla lotta contro i ricchi notabili bulgari, i cosiddetti corbadzii, dominatori della vita economica del paese insieme all'elemento feudale ottomano. Malgrado questa impostazione il gior-


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nale è alquanto tiepido verso la spinta potenzialmente rivoluzionaria impersonata da Mazzini e da Garibaldi e rivela un orientamento sostanzialmente conservatore, finendo per sottolineare che il popolo italiano dovrà operare una scelta fra Cavour e Garibaldi (25 luglio 1861 ). Più aperti e decisamente orientati in senso garibaldino sono infine i giornali bulgari che si pubblicano fra gli emigrati bulgari nei Principati danubiani: a Braila, alle bocche del Danubio, la « Balgarska pcela (L'ape bulgara), organo della borghesia liberale bulgara e in vita dal 1863 al 1864, dà largo spazio a tutte le notizie che riguardino Garibaldi, ma senza esaltazione: si considera Garibaldi e il movimento garibaldino una forza che può ancora avere una sua funzione nel processo rivoluzionario-nazionale europeo. Alla fine degli anni settanta, infine, il « Narodnost » (La Nazionalità), edito a Bucarest e organo del Comitato segreto centrale bulgaro fondato nel 1867, è interamente per Mazzini e Garibaldi ; determinante in questo senso è stata la collaborazione al giornale, negli ultimi numeri, del grande patriota Ljuben Karavelov, così sensibile alla predicazione mazziniana. Così, pet « Natodnost » del 23 dicembre 1867 Garibaldi è « l'eroe popolare » che, a Mentana, senza l'intervento francese avrebbe certamente vinto, perché aveva il popolo dalla sua parte: l'Italia è libera perché ha avuto capi come Garibaldi, augurandosi implicitamente che anche i Bulgari ne possano avere uno loro. Al di là di questi atteggiamenti di pubblica opinione, l'auspicio che emerga, finalmente, un « Garibaldi bulgaro» è espresso dal rivoluzionario, di orientamento radicale e populista, Stefan Buinov: egli - che più tardi vedrà il generale, a Londra, nel 1864 - il 9 agosto 1861 invita esplicitamente il maggiore esponente del movimento rivoluzionario Georgi S. Rakovski, rifugiato a Belgrado, a ~eguire le orme di Garibaldi (49). Ed è tale il prestigio di lui nel paese e nell'emigrazione, che una sorta di « garibaldismo » penetra nel costume popolate e vi si consolida: dalla metà del secolo e sino alla prima guerra mondiale e poco oltre, per garibaldija o garibaldejka viene indicato un berretto simile a quello portato da Garibaldi; una sorta di blusa femminile, di solito rossa, viene chiamata garibaldi, mentre garibaldejka o garibalda indica una giubba o casacca di uso comune e popolare; garibarda o garibardka designò comunemente un moschetto o carabina,

(49) I. Undgiev, Vasil Levski, Sofia 1945, p. 98.


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con riferimento all'armamento garibaldino; ancor oggi, infine, il colore rosso per tingere la lana o il cotone viene indicato col nome di galibardo (50). Garibaldi è, dunque, un pericolo per Austria e Turchia e una speranza per i popoli denubiano-balcanici, che aspirano alla indipendenza o all'integrazione nazionale. Questa speranza viene largamente alimentata da Garibaldi e dal movimento garibaldino, in tutte le direzioni, nell'intero arco di tempo compreso tra la conclusione dell'impresa dei Mille, nel 1860, e la guerra del 1866 . In esso si possono distinguere chiaramente due momenti diversi, caratterizzati dal differente obbiettivo su cui dirigere uno sbarco e avviare l'insurrezione: dal 1860 sino alla triste giornata di Aspromonte (29 agosto 1862) - dietro cui si deve vedere come in filigrana l'iniziativa spericolata di Vittorio Emanuele, anch'egli teso verso Roma (51) Garibaldi e i suoi puntano verso la Grecia, l'Albania, il Montenegro, col pieno accordo di Vittorio Emanuele; dopo Aspromonte, l'impegno si sposta verso la Venezia, considerata nel più ampio significato storico e geografico: i progetti di sbarchi garibaldini e relative insurrezioni puntano soprattutto sui territori balcanici soggetti all'Austria; tutto questo in pieno accordo con Vittorio Emanuele e il gabinetto di Torino e in connessione con l'insurrezione polacca contro la Russia zarista del 1863-64. Dopo il 1866 la situazione cambia profondamente e la stessa politica garibaldina - nei limiti con cui si può parlare in tal senso, trattandosi di impulsi vari e disordinati - cambia volto e caratteri: l'Italia ha acquistato il Veneto e concentra tutti i suoi sforzi verso Roma, cerniera essenziale, al dire del ministro degli Esteri russo Gorcakov, per legare il Mezzogiorno al resto del Paese. Come Corona, governo e soprattutto ministero degli Esteri essa abbandona definitivamente ogni appoggio ai movimenti di ascesa nazionale centroeuropea e balcanica, e relative insurrezioni ed entra nella logica degli equilibri europei. Le trattative per la cessione del Veneto fra i due plenipotenziari gen. Genova Thaon de Revel e l'austriaco gen. Karl Mohring, e gli stessi colloqui di questi con Vittorio Emanuele a {50) Sul mito di Garibaldi in Bulgaria, v. I. Petkanov, Riflessi del Risorgimento in Bulgaria, in « Rassegna Storica del Risorgimento», 1966, III, pp. 372-416. (51) Il 10 agosto 1862 sir James Hudson, ministro d'Inghilterra a Torino, aveva avuto un violento scontro verbale col re, che non potè respingere l'aspro rimprovero di essere responsabìle, in prima persona, di tutte le iniziative di Garibaldi dirette verso Roma (dispaccio a Lord Russdl, Public Rccor<l Office, Londra, F.0. 519-194.


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Venezia fra il 7 e 1'11 novembre 1866, contribuiscono a creare un clima nuovo, di aperta e leale riconciliazione fra Italia e Austria: da un lato vi era un sovrano quanto mai desideroso di entrare nella legalità di un concerto con gli altri sovrani europei dopo che il Regno di Sardegna, poi l'Italia dal '48 in poi non aveva esitato come classe dirigente a tutti i livelli, a condividere gli ideali della rivoluzione nazionale europea; dall'altro un militare come « il vivace e ambizioso Mohring » cui non pareva vero di fare politica estera, contribuendo ad avvicinare l'Italia all'Austria (52). In questo contesto affatto nuovo, italiano ed europeo, Gariribaldi e il movimento garibaldino {che nella sostanza si erano sempre mossi all'unisono con Torino anche nei collegamenti insurrezionali), non hanno più spazio. Tuttavia, poiché certa carica non viene affatto meno, essi esprimeranno dal proprio seno un volontarismo verso la Grecia nel '67 e nel '97, verso la Bosnia Erzegovina nel '75-'77, ecc., rimanendo fedeli alla tradizione garibaldina di appoggio alle lotte nazionali. Nel periodo compreso, dunque, fra il 1860 e la metà del 1862, per Costantinopoli ed anche per Vienna Garibaldi è uno spauracchio: timori eccessivi, notizie senza fondamento diffuse dalla stampa alimentano una sorta di psicosi, quella di veder comparire le Camicie rosse sulle coste orientali dell'Adriatico, specie meridionali, per dirigersi verso l'interno e dare fuoco alle polveri di insurrezioni nazionali. Del resto, anche le ombre, le supposizioni contano molto nel determinare scelte politiche e precauzioni militari. Garibaldi stesso non faceva mistero dei suoi orientamenti: a Caprera accoglieva tutti, teneva vive le speranze, incitava a prepararsi e a tenersi pronti. E da varie parti riceveva esortazioni a muoversi a fare qualcosa in favore di popoli ormai avviati a trasformarsi in Stati nazionali. Così, sulle linee di un progetto formulato dal colonnello prussiano Wilhelm Riistow (grande esperto militare, nello Stato Maggiore di Garibaldi nel 1860), per uno sbarco in Dalmazia e un'azione concertata fra Italiani, Magiari e Tedeschi, Ferdinando Lassalle propose a Garibaldi un'azione balcanica, quando egli si recò all'appuntamento d'obbligo della 'Sinistra europea, a Caprera, insieme alla contessa (52) Cfr. G. Thaon Di Revel, La cessione del Ven eto. Ricordi di un commissario regio militare, Milano 1890; A. Wandruszka, Karl Mohring, ein deutscher Soldat und Politiker aus dem alten Osterreich, in « Mitteilungen des osterreichischen Instituts fiir Geschichtsforschung », voi. 53, Innsbtuck 1939, p. 173; A. Tamborra, La guerra del 1866 in un colloquio tra Vittorio Emanuele II e il gen Mohring, in « Rassegna Storica ùcl Risorgimento », 1%3, pp. 91-96.


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Hatzfeld, nella seconda metà di novembre del 1861 (53) . La stessa Associazione Emancipatrice, sorta a Genova nel dicembre 1861 dalla fusione dei Comitati di provvedimento garibaldini con le Associazioni unitarie mazziniane, tenne in vita a lungo l'idea di compiere un'azione verso l'Europa orientale, in connessione con uno sforzo militare per l'acquisto della Venezia. Gli uomini di questa associazione hanno contatti in Polonia, in Ungheria e nei Balcani e sono propensi a dare credito alle illusioni e alle speranze che avvertono fermentare presso quei popoli. In realtà Garibaldi come si era inserito, con l'impresa dei Mille, sul solco vigoroso della iniziativa sabauda e cavouriana, in questo stesso solco egli mostra di voler rimanere : per la soluzione dei problemi di Roma e soprattutto della Venezia, egli intende rendere operanti quelle solidarietà nazionali che dall'Europa centro-orientale si erano venute creando intorno al suo nome e alle sue gesta. Cosl, al di là delle esortazioni e vere e proprie pressioni che giungevano da Polacchi, Magiari, Greci ecc., ben presto si rese necessario - al di fuori dei normali canali diplomatici - rendersi conto delle reali possibilità di una impresa di là dall'Adriatico e di una connessa insurrezione. D'intesa dunque, come tutto lascia credere, fra Vittorio Emanuele e Garibaldi, il 22 agosto 1861 partì da Ancona per le Isole Jonie e la Grecia, il garibaldino bergamasco Francesco Cucchi. A Zante egli prese contatto con Francesco Domeneghini Anadalis che manteneva i rapporti con gli ambienti rivoluzionari ellenici, e, quindi, per Missolungi, Patrasso e Kalamaki, giunge ad Atene; di qui, dopo vari colloqui con i capi dell'opposizione al regime « bavarese » del re Ottone, egli si dirige a Costantinopoli e per i Principati e l'Ungheria, rientra in I talia. Nulla si sa dei risultati della sua missione, della quale deve aver riferito a Garibaldi, a Caprera, nel novembre del 1861 (54). Certo essa era stata utile e doveva aver fornito a Garibaldi opportuni elementi di giudizio, soprattutto in ordine al problema ellenico e alla possibilità di una rivoluzione appoggiata dai garibaldini. Il Comitato di provvedimento, con sede centrale a Genova, aveva una sua filiazione a Zante e da questo comitato delle Isole Jonie, giusto alla fine di settembre del 1861, era stato inviato a (53) G. Sacerdote, La vita di Garibaldi, Milano 1933, p. 814. (54) P. Capuani, Francesco Cucchi in Le 180 Biografie dei Bergamaschi dei Mille, a cura di A. Agazzi, Bergamo 1960, pp. 151-154, sulla base di documenti d'archivio della famiglia Cucchi.


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Genova Costantino Lombardos, latore di un indirizzo a Garibaldi. Questi lo ricevette poi a Caprera, esortandolo però a trovare delle intese con il re Ottone. Di qui le trattative del Lombardos con i capi greci, col re e di nuovo con Garibaldi. Di queste trattative egli rende conto a Garibaldi in una ampia relazione, inviata da Zante il 18 novembre 18·61. Il Lombardos riferisce il colloquio avuto con il re Ottone e con i suoi ministri e la sua impressione è che il re « pare pensi seriamente a suscitare una insurrezione nell'Epiro, nella Tessaglia, Macedonia ». Al Lombardos sembra tuttavia indispensabile che l'iniziativa di una insurrezione venga sottratta alla decisione di Ottone e soprattutto che essa abbia inizio dalla Grecia e non dalla Serbia: « l 'insu rrezione generale degli Slavi della Turchia, principalmente quella della Serbia porterà molto facilmente anche quella degli Slavi dell'Austria e di certo quella della Grecia »; ma, secondo lui, allo scopo di evitare il predominio degli Slavi e dunque della Russia, è indispensabile che la rivoluzione greca avvenga prima di quella della Serbia, « ma ciò non si potrà ottenere se il partito d'azione non avrà i mezzi di togliere l'iniziativa dalle mani del Re e dei suoi». In realtà, forse anche per le informazioni negative o meglio adeguate alla realtà del Cucchi, non se ne fece nulla, se nella insurrezione di Nauplia del marzo 1862 e in quella più vasta e risolutiva dell'ottobre, dove il re Ottone perse il trono, non si avverte nessuna partecipazione garibaldina, nonostante essa fosse stata annunziata e attesa (55). Sin dal maggio del 1862 Garibaldi era stato messo al corrente, a Trescore Balneario, degli accadimenti ellenici da un patriota greco, Francesco Domeneghini Anadalis : il 10 giugno - visto che il re Ottone era ormai una forza su cui non si poteva contare - egli sollecit a in una lettera al Cucchi uno sbarco di Garibaldi e dei suoi sul litorale di Prevesa, dopo che a Zante fossero stati inviati in anùipo almeno 1.000 fucili e le relative munizioni (56 ).

(55) Museo e archivio del Risorgimento, Roma, Busta 52 fase. I , Rapporto confidenziale sottomesso all'eroe delle nazionalità oppresse Generale Garibaldi da Costantino Lombardos. Cfr. anche C. Kerofilas, La Grecia e l'Italia nel Risorgimento italiano, p . 117 e s·egg.; P. Capuani, Francesco Cucchi e l'insurrezione greca del ) 862 in Studi Garibaldini, 1960, n. 1, p. 69 e pp. 81-86, lettere di Domeneghini Anadalis a F. Cucchi. (56) P. Capuani, Francesco Cucchi e l'insurrezione greca del 1862, cit., pp. 7980, Domeneghini n Cucchi da Zante, 10 giugno 1862.


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Queste pressioni e informazioni dovevano aver fatto maturare in Garibaldi, in F. Cucchi e negli altri l'idea che si potesse compiere una spedizione oltre Adriatico partendo dalla S:.cilia. Di qui, nel maggio del 1862, l'improvvisa partenza di Garibaldi per l'isola, mentre non diversamente dai Greci si muovono anche gli Albanesi, che hanno saldi agganci alle colonie d'Italia da dove le aspirazioni nazionali albanesi hanno avuto i loro primi inizi con Girolamo de Rada, nel 1848. In connessione anche con gli avvenimenti di Grecia e al fermentare di aspirazioni presso gli Slavi meridionali, verso i primi del 1862 era sorto a Palermo un « Comitato greco-slavo-albanese », che 1'11 marzo 1862 in un messaggio a Garibaldi insiste perché « si connetta il movimento greco-slavo all'italiano »; poco dopo, una giunta greco-albanese di Durazzo il 15 luglio 1862 proclama di voler levare « un'ultima volta lo stendardo di Skanderbeg e invoca l'aiuto di tutti i popoli cristiani e liberi », chiedendo « l'armamento immediato degli Albanesi e delle legioni internazionali per l'emancipazione della patria» (57) . Ma intanto Garibaldi h a cambiato idea: contro il convincimento degli uomini a lui più vicini, specie il Cucchi, che rimangono fedeli al proposito di Jiberare la Venezia prima di Roma, improvvisamente il suo obbiettivo non è più la Grecia ma lo Stato Pontificio col pretesto di non voler favorire i piani di Napoleone III in Oriente. Cucchi e i suoi amici cercano di opporsi, ma il colpo di testa che conduce ad Aspromonte (29 agosto) reca una grande delusione alle attese dei Greci, degli Albanesi, degli Slavi meridionali. A Garibaldi per il momento non rimarrà altro che tener vivi i propositi insurrezionali e di ascesa nazionale, e se il Cucchi continua ~ muoversi per preparare una insurrezione in Grecia, recandosi a Londra per raccogliere fondi presso ricchi negozianti greci, informandone il generale, lo stesso Garibaldi è sempre pronto a tener deste le aspirazioni nazionali albanesi se in una lettera di risposta a Dora d'Istria, 1'8 novembre 1862, apertamente proclama: « La causa degli Albanesi è mia, e certo io sarei felice di impiegare quanto mi rimane di vita in pro' di quel popolo ... », auspicando una insurrezione balcanica che metta la diplomazia europea di fronte ai « fatti compiuti » (58 ).

(57) P . Chiara, L'Albania, cit., pp. 169-170. (58) P. Capuani, Francesco Cucchi e l'insurrezione greca del 1862, cit., p. 40; Epistolario di G. Carihaldi, cit., vol. I , p. 285.


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Questa attesa di uno sbarco garibaldino, in collaborazione con l'emigrazione rivoluzionaria ungherese e con gli Slavi meridionali, per la primavera del 1862, rimbalza anche a Londra se dalla capitale inglese il populista russo Mihail Bakunin, appena fuggito dalla Siberia, ne vuole avere conferma dallo stesso Garibaldi: « Est-il vrai - scrive il 31 gennaio 1862 - que de concert avec ]es Hongrois et les Slaves, Vous Vous proposez de faire au printemps un mouvement de diversion dans les pays slaves de la Turquie et de l'Autriche. Si j'en était sur, se serais assé (sic) probablement prés de Vous pour Vous supplier d'accepter mes services . Mais si le bruit est faux, il faudra que je reste à Londres pour y concentrer autant que faire je pourrai les files d'une grande agitation slave». E « les sentiments de respect et de sympathie religieuse }> che il grande nome di Garibaldi gli ispirano, inducono Bakunin a prospettarsi dunque un coordinamento fra la supposta iniziativa garibaldina e quella rivoluzione cui si doveva giungere, per lui, puntando sugli Slavi, specie sui Polacchi (59). In un groviglio di iniziative e di proposte, di idee e di programmi politici, militari e insurrezionali che coinvolgono in pari misura l'azione mal controllata e controllabile del re Vittorio Emanuele II e il dinamismo di Garibaldi (con la proiezione, sullo sfondo, dello stesso Mazzini) emerge anche un singolare personaggio: il veneziano Marc'Antonio Canini (1822-1891). Egli deve considerarsi addirittura emblematico per il suo muoversi concorde con l'iniziativa regia, dall'alto, e quella garibaldina e mazziniana dal basso; dopo l'esperienza, amara, a difesa della Repubblica di Venezia nel 1848 e di segretario della Commissione delle Barricate con Garibaldi durante la Repubblica romana del 1849, emigrato nei Balcani da allora si agita a lungo in Grecia, in Serbia e nei Principati; egli vi accarezza, contemporaneamente, le ambizioni diplomatico-dinastiche di Vittorio Emanuele, rivolte al trono greco per il figlio Amedeo, ed i progetti insurrezionali connessi a sbarchi garibaldini. Naturalmente, il Canini puntava molto su G aribaldi perché una futura spedizione verso i Balcani partisse dall'Italia meridionale; per questo egli insistette presso il gen. Klapka perché la Legione ungherese - ancora di stanza a Napoli - non venisse disciolta, ma

(59) Museo del Risorgimento, Milano, Archivio garibaldino, Busta 259, pubbl. da P .C. Masini e G. Bosio, Bakunin, Garibaldi e gli affari slavi 1862-6.3, in « Movimento operaio », 1952, pp. 82-83.


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si trasferisse al sud (25 maggio 1862). E come la Grecia continuava a essere in quel momento il punto di forza sia del Re che dello stesso Garibaldi, Canini alla fine di maggio del 1862 si sposta ad Atene: era stato lui, oltre un anno prima, insieme a un altro mazziniano, Carlo Saltara, di Ancona, a solleticare le ambizioni dinastiche di Vittorio Emanuele (non senza il consenso di Cavour e del ministro d'Italia ad Atene Terenzio Mamiani), con una idea peregrina: detronizzare con una spedizione di stampo garibaldino il re degli Elleni Ottone di Wittelsbach - inviso ai Greci - per sostituirlo col figlio secondogenito del re d'Italia, Amedeo (più tardi salito sul trono di Spagna). Di qui la missione segreta affidata dal re al Canini. Questi, giunto ad Atene, prese contatto con i patrioti greci come l'ammiraglio Miltiades Canaris, Spiridione Malakis, Paulos Lampros, inviò lettere a Vittorio Emanuele e a Garibaldi sconsigliando la spedizione garibaldina nell'Epiro e verso il Montenegro (per la quale aveva fatto da quelle parti sondaggi il colonnello garibaldino F. Cucchi pochi mesi prima, riferendone a Garibaldi (60). La Grecia rimane tuttavia al centro dell'interesse sia di Vittorio Emanuele che dello stesso Garibaldi: questi è atteso, invocato come un liberatore perché si pensa che una impresa simile a quella dei Mille e rivolta verso i Balcani potesse avviarsi con uno sbarco sulle coste ioniche. Secondo informazioni che giungono a Garibaldi da un colonnello garibaldino, il magiaro F. Pulszky, gli insorti greci che a Nauplia nell'ottobre 1862 avevano provocato la caduta del Re Ottone aspettavano i volontari italiani, al cui primo apparire « tous les émigrés hongrois, polonais, allemands de Constantinople et la colonie italienne seraient accourus » perché, egli attesta, « votre nom est le plus populaire en Oricnt ». Persino ben più lontano « i Circassiani che oggi emigrano nel Caucaso aspettano in Garibaldi il loro redentore e rivendicatore». Poiché il suo nome « suona come quello di un profeta provvidenziale dell 'invincibile spada di Dio», il governo ottomano ha proibito in tutto l'Impero il ritratto di Garibaldi. Gli stessi insorti della Bosnia, stretti intorno a Luka Vukalovié, aspettano uno sbarco, ma Garibaldi può solo inviare un appello alle genti slave (23 luglio) e un altro ai Magiari il 26 luglio perché sostengano (60) A. Maturi, Le avventure balcaniche di M.A. Canini nel 1862, in « Studi storici in onore di G. Volpe », Firenze 1958, pp. 561-643 ; A. Tamborra, Canini Marco Antonio, in Dizionario Biografico degli Italiani, voi. VIII, 1975, pp. 108-116; F. Guida, Marco Antonio Canini e la Grecia. Un mazziniano suo malgrado, in « Balkan Studies » Salonicco, 1979, pp. 343-392.


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l'insurrezione; infine 52 ufficiali magiari si offrono per qualsiasi spedizione, a condizione che non siano posti alle dipendenze del generale Tiirr; e Pulszky stesso rinnova l'offerta della sua persona con la raccomandazione « de ne pas négliger 1a Dalmatie ou mieux la Herzégovine et le Monténegro » ( 61). Anche il Montenegro infatti entra nei calcoli e nei progetti insurrezionali, che nascono nell'ambiente garibaldino. Per condizioni interne e internazionali, maturatesi sin dalla fine de1 Settecento, nel corso del sec. XIX esso emerge con una propria fisionomia statale e precise aspirazioni nazionali. Questo dopo che il vladika o metropolita ortodosso di Cetinje Pietro I Petrovié-Njegos (che univa nella sua persona governo civile e potere ecclesiastico) sin dal 1795 era riuscito a sottrarsi al diretto dominio ottomano. Il successore Pietro II {1830-1851) - uomo colto e poeta isphato, che col suo Serto della Montagna del 1847 ha lasciato uno dei monumenti più cospicui della letteratura serba - ne prosegue l'opera di svecchi amento del paese, diviso da lotte tribali, mentre il nipote Danilo II (18511860), abbandona il titolo ecclesiastico di vladika per quello di knjaz o principe. Il successore Nicola Pctrovié Njegos (sul trono dal 1860 al 1918), insieme a tutta la classe dirigente montenegrina di capi tribù e grandi famiglie, prosegue l'opera di affrancamento del principato dal dominio turco. Per questo non esita a ricercare appoggi presso le grandi Potenze; anche il regno di Sardegna, poi d'Italia, entra nei suoi calcoli incontrandosi con la politica di appoggio ai movimenti nazionali della media Europa, avviata nel 1848-49 e proseguita, vigorosamente, da Cavour. Più che naturale è, dunque, in Garibaldi puntare anche sul Montenegro e sulla sua giovane dinastfa . Così, già alla fine del 1861 il generale garibaldino magiaro Stefano Tiirr - che si muove ovviamente su mandato di Garibaldi e, come tutto lascia credere, è stato incaricato da lui di tenere le fila dei tanti e disordinati progetti di sbarchi oltre Adriatico - invia un emissario in Montenegro: il nome non è noto, ma forse si deve ritenere che tale compito sia stato ~.ffidato a quel Francesco Cucchi, di Bergamo, che già si era recato in Grecia. Comunque sia, l'emissario garibaldino aveva l'incarico di chiedere senza mezzi termini al principe Nicola, « se ed in quanto

(61) Archivio di Stato, Mantova, Fondo Acerbi, Busta n. 5, Pulszky a Garibaldi, Torino, 29 maggio 1862.


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egli intendesse prender parte ad un movimento generale nella Turchia europea». Da Corfù l'emissario garibaldino si diresse verso il Montenegro e consegnò una lettera di Garibaldi al garibaldino greco Spyros Sasselas (già primo tenente nella divisione Tiirr) incaricandolo di recarsi dal principe, nella impossibilità di farlo di persona, a causa della vigilanza delle autorità turche. Tramite il Sasselos, l'inviato garibaldino ottenne sulle prime una risposta addirittura entusiastica, perché doveva « assicurare i generali Garibaldi e Tiirr che egli altra ambizione non conosce se non quella di venir in aiuto al popolo oppresso e che non desidera altro che di essere il loro soldato ... ». Pochi giorni dopo, un successivo colloquio del Sasselos condusse ad una richiesta di precisazioni più concrete e di aiuti effettivi, vale a dire: 1) « Le Prince secondera avec plaisir les desirs de Mrs. les Géneraux Garibaldi et Tiirr, dcsirs que sont ceux de chaque Monténégrin; 2) Dans un délai de quinze jours il enverra un des ses sénateurs à Turin pour porter au général Tiirr des responses détaillés sur toutes les deman<les qu'il lui a faitt:::; ». In particolare poi, il principe Nicola in occasione del colloquio tenne a sottolineare che la Serbia si era alquanto ritirata dalla « causa »; che era stato costretto a sostituire Luka Vukalovié con il pope Nikifor quale capo del movimento insurrezionale; « egli si dichiarò pronto di uscir in campagna con 10.000 montenegrini per unirsi alla truppa di sbarco, sempreché lo sbarco si faccia in prossimità di Montenegro ... » e a questo proposito si suggerisce il porto di Spitza quale testa di ponte; naturalmente, il principe desidera da Tiirr la garanzia che i Montenegrini non vengano lasciati al proprio destino, qualora egli avanzasse « troppo » verso il Danubio; non manca infine la richiesta di un prestito da parte dell'Italia e soprattutto egli vuole sapere quale sia il pensiero del governo italiano. Il principe Nicola era stato, del resto, minutamente informato dei progetti di sbarco garibaldini, anche da una lettera, datata da Corfù 24 gennaio 1862, del montenegrino Adam Vranesevié. Secondo gli elementi ricevuti quasi certamente dal Cucchi, una legione magiara al comando del « generale Tir» (cioè Tiirr) con alcune migliaia di Italiani, in tutto circa 8.000 uomini, sarebbe sbarcata sulla costa dalmata o su quella albanese; contemporaneamente Garibaldi stesso doveva sbarcare in Dalmazia con quattro divisioni; il Montenegro doveva operare in direzione di Scutari e di Navi Pazar, mediante operazioni combinate con l'esercito serbo; appena si fosse profilato il successo della spedizione garibaldina, Vittorio Emanuele avrebbe subito dichiarato guerra aJl'Austria e, in ogni caso, per mag-


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gior1 rntese, il generale Tiirr desiderava che un fiduciario montenegrip.o si recasse a Torino (62). Questi contatti furono però troncati sul nascere; fra la fine di gennaio e i primi di febbraio 1862 una delegazione montenegrina era pronta a partire da Cetinje diretta a Torino per giungere a intese dirette con gli esponenti della politica italiana e con lo stesso Garibaldi (al quale sarebbe stata recata in dono una sciabola), quando la diplomazia francese e soprattutto quella russa intervennero energicamente sul principe Nicola del Montenegro: Pietroburgo bloccò ogni accordo di collaborazione fra il Montenegro, il Regno d'Italia e lo stesso movimento garibaldino, poiché riteneva non senza motivo che le vicende balcaniche avrebbero preso un indirizzo in senso decisamente nazionale e rivoluzionario, sino a sottrarre gran parte della penisola balcanica all'influenza russa. Così, per evitare tutto questo, il console russo a Ragusa (Dubrovnik), per ordine di Pietroburgo, si recò a Cetinje, riuscendo a convincere il principe Nicola a non pren<lere iniziative rivoluzionarie in collaborazione con Garibaldi e con gli Italiani. Echi e attese di iniziative garibaldine verso la Grecia si erano estesi più a oriente, nella vicina Macedonia: una regione tormentata dove l'incontro e la commistione nazionale fra Greci, Serbi, Bulgari, Albanesi, Aromeni o Cutzovalacchi, qualche Armeno e dominatori turchi da questa epoca in avanti apre la strada a notevoli tensioni, mai placate. Fra la fine del 1861 e i primi del '62 viene fatto pervenire a Garibaldi, a Caprera, un lungo promemoria dal titolo Macedoine: la firma, poco chiara, è di un certo Barstoziann o Bantojan, che con ogni probabilità può essere un Greco (Vartosiannis?) o un Armeno ma i cui sentimenti nazionali sono quelli di un Greco. Come che sia, la lotta condotta in Macedonia contro i Turchi, la prigione e l'esilio gli davano titolo per sollecitare l'interessamento di Garibaldi verso una regione come i territori macedoni che per i Turchi rappresentavano una base di attacco verso la Grecia. Necessità dunque che una futura iniziativa garibaldina verso i Balcani si estenda alla Macedonia « le boulevard naturel de l'Epire et de la Théssalie », dove l'appoggio della popolazione e l'elemento sorpresa sarebbero stati determinanti. Soprattutto il Barstoziann non esita a

(62) Museo e Archivio del Risorgimento, Roma, Busta 52, fase. I, Relazione non firmata, ma attribuibile al Cucchi,datata da Milano 20 febbraio 1862. La lettera del maggiore Adam Vranesevié al principe Nicola del Montenegro è conservata a Cetinje, Archivsko Odeljenie Drzavnog Museja, fase. Nicola I.


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richiamare l'attenzione di Garibaldi sul fatto che, in presenza del disinteressamento dell'Europa, gli appetiti degli Slavi verso i territori greci della Tessaglia, dell'Epiro, della Macedonia, della Tracia e dell'Albania possono condurre la Russia a diventare « seule ma1tresse de la situation » ( 63 ). Questo promemoria - sempre che sia stato veramente capito, cosa di cui è lecito dubitare - è di grande importanza, perché attirava l'attenzione di Garibaldi e dei suoi più vicini collaboratori su un groviglio di problemi nazionali e relative aspirazioni territoriali giunti da allora sino ai giorni nostri: di fronte a una Grecia che dalla fine del Settecento in avanti perseguiva la sua megalì idea o grande idea di ricostituire l'Impero bizantino, riunendo tutti i territori abitati da Greci, stavano gli appetiti territoriali di Serbi e Bulgari verso la Macedonia, di Montenegrini e Albanesi verso l'Epiro e la Tessaglia, con sullo sfondo la spinta panslava della Russia. Di conseguenza, sì poteva contare su una sollevazione concorde di tutte le popolazioni balcaniche, nel momento in cui fosse avvenuto uno sbarco garibaldino? La memoria sulla Macédoine era dunque un necessario richiamo alla realtà. Tuttavia sul momento non deve essere stato raccolto, se più o meno alla stessa epoca, fra la fine del '61 e i primi del '62, dall'ambiente garibaldino esce - anonimo un piano generale d'insurrezione oltre Adriatico. Tale insurrezione - sulla quale naturalmente ci si fanno molte illusioni - secondo i calcoli garibaldini avrebbe potuto contare sul contributo di almeno 390.000 armati, cosl nazionalmente distinti: Serbia Bulgaria Erzegovina Montenegro Bosnia Croazia Confini militari

160.000 40.000 15.000 15.000 10.000 100.000 50.000

A questi insorti avrebbero dovuto unirsi anche gli Italiani dell'Istria e della Dalmazia, il cui numero non viene calcolato. In questo modo l'Italia, agli occhi garibaldini, avrebbe esercitato una funzione direttiva e « l'Adriatico sarebbe il posto nel quale l'Italia potrebbe diventare Dux inquieti turbidus Hadriae (64 ). (63) Musco e Archivio del Risorgimento, Roma, Busta 52, fase. I. (64) Thidem, Busta 52, fase. I ; tale piano è, forse, di M.A. Canini.


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Di tutto questo fermentare di idee e aspirazioni di qua e di là dell'Adriatico, sul piano rivoluzionario europeo come sul piano governativo italiano, non esce nessuna iniziativa concreta. Tuttavia i molteplici contatti e i vari progetti avevano questo di positivo, anzi di essenziale: erano riusciti a chiarire molte idee, a togliere non poche illusioni, alimentate dai troppi anni di predicazione mazziniana, circa il passaggio facile, indolore, spontaneo verso l'Europa delle nazionalità. I contrasti, le divisioni nazionali sono molti, pronti a esplodere, mentre un'altra illusione, quella militare, circa la facilità di uno sbarco e relativo muovere verso l'interno viene drasticamente ridimensionata. E questo toccare con mano una realtà diversa da quella supposta, avrà un peso anche nella seconda fase dei progetti di sbarchi e insurrezioni, quella che si apre dopo Aspromonte . Sin dalla « primavera dei popoli» del 1848-49 le nazionalità dell'Impero asburgico - Magiari, Serbi d'Ungheria e Croati, Romeni di Transilvania, Cechi e Slovacchi - con varia intensità e diverse sfumature entrano in rotta con Vienna in modo sempre più vasto e deciso. Il moto risorgimentale italiano sia grazie alla predicazione mazziniana, sia come azione diplomatico-militare del Regno subalpino all'epoca di Cavour, sia per le suggestioni garibaldine è sentito come un esempio da seguire. E le varie emigrazioni - in primo luogo magiara, poi polacca, croata, ceca e romeno transilvana - continuano a rimanere su posizioni di polemica politica e di rottura, recando alimento alla stessa battaglia politica che dopo il 1860-61 viene condotta all'interno dell'Impero con mezzi legali. Dopo la sconfitta subita in Italia dall'Austria asburgica sui campi di Lombardia nel 1859, Francesco Giuseppe e tutta la classe dirigente avevano sentito la necessità che il secolare Impero plurinazionale si rinnovasse nelle sue leggi e nelle strutture costituzionali: il Manifesto lanciato dall'Imperatore il 15 luglio 1859 dal castello di Laxenburg, indicava la via da percorrere per mettere fine all'assolutismo dell'era Bach, in vita dal 1849, col suo centralismo burocratico ·e assolutista che soffocava qualsiasi esigenza di natura liberale e costituzionale. La classe dirigente austriaca - di grande statura intellettuale ed elevate capacità amministrative - sin dal 1848, cioè dal Congresso slavo di Praga del giugno di quell'anno, si era resa conto che unica alternativa all'assolutismo dinastico fosse la trasformazione dell'Impero in uno Stato federale. Ma questa linea non fu percorsa sino in fondo per non incidere con l'adozione di criteri nazionali sui « diritti storici » delle Province: il Diploma imperiale


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del 20 ottobre 1860 introduceva un regime costituzionale, con la Dieta bicamerale al centro e quelle provinciali alla periferia, ma fu corretto in senso conservatore dalla Patente del 26 febbraio 1861 che introduceva un criterio di elezione strettamente censitario. Malgrado tutto questo, tali riforme costituzionali avevano sciolto una situazione senza uscita e consentito ai vari esponenti nazionali possibilità di iniziative politiche: queste potevano svolgersi all'ombra di garanzie costituzionali, approfittando di certa libertà di stampa, di riunione ecc. ufficialmente garantite, anohe se sorvegliate; soprattutto, leggi scrupolosamente rispettate da una burocrazia di alti meriti e probità potevano essere forzate al massimo, aprendo così la strada a una opposizione condotta nei limiti della legalità. Questo sarà il mezzo seguito dalle varie nazionalità, sino al crollo dell'Impero nel 1918, per assicurarsi diritti sempre più vasti. Ecco dunque come tutto il fronte delle nazionalità slave, magiara, romena (cd anche italiana) dell'Impero - sacrificate, mortificate dagli avvenimenli Jel 1848-49 - prende a muoversi, a darsi programmi politici e nazionali di vasto respiro: guarda sempre più verso l'esterno e dunque anche all'Italia e a Garibaldi. Per quanto riguarda gli Slavi asburgici di grande importanza politica è l'uscita a Vienna il 20 febbraio 1861 - il giorno stesso della pubblicazione della Patente - di un foglio di informazione e di battaglia politica: « Ost und West» (Oriente e Occidente). Esso è diretto da un patriota di grande cultura e di forte coscienza nazionale, già in nuce jugo-slava, il croato Imbro Ignjatjevié Tkalac (pron. Tkalaz) (Gorcem Karlovci 1825 - Roma 1912). Uomo di notevole temperie morale e chiaro disegno politico, dirà di se stesso (una volta divenuto cittadino italiano nel 1871) di essere « sotto il profilo politico patriota italiano altrettanto completo come lo furono Cavour e Garibaldi », conservando « vivo » tuttavia il proprio « sentimento nazionale slavo » (65). A questo sentimento nazionale si ispirò la sua azione politica, diretta a « tutelare e patrocinare i generali e comuni interessi nazionali e politici di tutta la popolazione slava della Monarchia austriaca »; ricostituire con l' «Ost und West» un giornalismo slavo indipendente in Austria; darsi un

{65) Su di lui e sulla sua attivita politica e diplomatica anche in Italia (dove fra l'altro svolgerà compiti d'informazione sul Concilio Vaticano I per il Governo di Firenze nel 1869-70, distinguendosi poi nella polemica sulla Legge delle Guarentigie ecc.) v. A. Tamborra, Imbro I. Tkalac e l'Italia, Roma, Istituto per la Storia del Risorgimento italiano, 1966, 357 pp.


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compito di sempre maggiore individuazione e conservazione nazionale, recando a conoscenza « di altri popoli le concezioni nazionali, sociali e religiose » degli Slavi; tutto questo in armonia con quelle idee di solidarietà, di « reciprocità» slava che, partite già prima del 1848 dal fervido ambiente culturale boemo, nel Congresso slavo di Praga avevano trovato un punto d'incontro e una cassa di risonanza. Con un programma politico, nazionale e culturale così ambizioso - reso emblematico nelle sue implicazioni verso l'esterno dalla stessa testata del periodico - era naturale che Tkalac guardasse all'Italia, al moto risorgimentale italiano. Ve lo spingevano lontane reminiscenze quando ancora bambino, nel 1831, incontrò commosso a Karlovac prigionieri italiani dei moti delle Romagne, condotti in catene verso Munkacz e Szegedin o i più recenti soggiorni di studio a Firenze e a Roma nel 1846-47. Il primo contatto di Tkalac con Garibaldi si ebbe nell'agosto del 1861 , quando certo N .Z. (non meglio identificato) pubblicò su « Ost und West» una corrispondenza datata dalla Ma<l<lalcna, col titolo Ein Besuch zu Caprera (Una visita a Caprera): anche se descrizione tutta esteriore dell'ambiente e del personaggio Garibaldi, specie con riferimento alle sue condizioni di salute, è tuttavia significativo che tale scritto sia stato pubblicato, a conferma dell'indirizzo anti-austriaco del giornale. Di gran lunga più importanti sono gli articoli anonimi ma da attribuire a Tkalac, dal titolo complessivo di Garibaldi, pubblicati a cavaliere dell'impresa conclusasi sull'Aspromonte. Circa i due problemi di completamento nazionale italiano ormai rimasti ultimi da condurre a soluzione, « Ost und West» il 16 agosto 1862 sottolinea che se il Veneto si potrebbe « considerare al massimo una parte nobile, un braccio o un piede dell'Italia », ma si può vivere e camminare e raggiungere la tarda età anche con « un arto mancante », quanto a Roma il caso è diverso: essa « sia per la situazione geografica che per il significato storico può essere definita il cuore dell'Italia. Da Torino Napoli non si fa governare, ma da Roma l'Italia si può distruggere; perché Roma è oggi come il punto focale di tutte le àgitazioni clericali e reazionarie e, quale avamposto militare della Francia, quasi una lancia nel corpo dell'Italia ». Ovvia dunque l'approvazione del giornale e di Tkalac per l'indirizzo garibaldino - fermato il 29 agosto ad Aspromonte - di voler far precedere la soluzione del problema di Roma a quello della Venezia. Aspromonte - che ha occupato la stampa europea nelle ultime settimane - ha segnato dunque, si chiede « Ost und West» (Garibaldi, 6 settembre 1862) iJ crollo di tutte le speranze di ascesa na-


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zionale? « Siamo alla fine di tutte le rivoluzioni, si sente dire dai Serbi e dai Montenegrini che si sarebbero sollevati ai proclami di quell'uomo, lo si sente da popoli recalcitranti ... Il vostro messia si trova in prigione ed aspetta la sua punizione, non emetterà alcun proclama, non farà alcun colpo di mano ... ». Tkalac, in presenza dell'arresto di Garibaldi e per rincuorare gli spiriti delusi di quanti si attendevano uno sbarco, è pronto a sottolineare che « oggi non è ancora giunto il giorno di scrivere il necrologio di Garibaldi...: l'uomo vive ancora e la sua causa presto o tardi vincerà con lui». Quanto al problema specifico di Roma capitale, l'interpretazione del gesto o tentativo di Garibaldi appare intelligente e appropriata. Secondo « Ost und West » Garibaldi « col suo fragore di guerra » ha voluto « soltanto esercitare la pressione massima possibile su Napoleone e Vittorio Emanuele per indirizzare l'interesse della nazione verso quel problema che è decisivo per il futuro d'Italia; ...con l'arresto di Garibaldi, Vittorio Emanuele ha preso :;upra di :;é il compito della liberazione di Roma e l'I talla può stare tranquilla perché essa sente che il sacrificio del suo eroe aveva una tale meta ». Per questo complesso di atteggiamenti e di posizioni di fronte a problemi italiani, asburgici e<l europei, interpretati sotto l'angolo visuale degli interessi di ascesa nazionale degli Slavi meridionali, la vita di un foglio come « Ost und West » non poteva certo essere facile. L'epilogo con l'arresto del Tkalac era ovvio e vi è solo da meravigliarsi che un foglio simile abbia potuto durare così a lungo: un articolo che parlava senza mezzi termini di « unificazione in indipendenza di tutti i territori abitati da Jugo-slavi » e di « un popolo serbo-croato » che « ha impugnato la bandiera della nuova idea, cioè della politica jugo-slava », rese inevitabile l'arresto, la condanna per alto tradimento, poi - una volta scontata la pena di sei mesi di carcere duro - l'esilio. L'Italia fu l'approdo definitivo della sua esistenza di esule, la sua seconda patria, mentre l'iniziativa di Vittorio Emanuele e degli eredi e continuatori di Cavour, come lo stesso alveo garibaldino furono per Tkalac i mezzi di elezione per collegare concretamente anche in sede militare e insurrezionale il movimento nazionale slavo-meridionale con il problema della Venezia. Per consiglio dello stesso ministro degli Esteri russo principe Gorcakov, Tkalac scelse come luogo d 'esilio Torino, dove giunse da Pietroburgo nell'autunno del 1863 . Grazie al capo dell'emigrazione magiara in Italia Lajos Kossuth che lo presentò a Ubaldino Peruzzi egli ebbe subito un posto di traduttore al Ministero dell'Interno,


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facendosi subito conoscere negli ambienti dirigenti della capitale con due promemoria significativi: nel primo, dal titolo Coup d'oeil sur la situation intérieure de l' Autriche, Tkalac richiama l'attenzione del governo di Torino sulla crisi interna dell'Impero austriaco, dove solo una « agitation continuelle nourrie par l'étranger » può preparare quei cambiamenti che una « guerre européenne » dovrebbe portare a conclusione; nel secondo, Les moyens d'agitation contre l'Autriche, Tkalac parte da una · premessa fondamentale: una guerra all'Austria « l'Italie ne saura se borner à 1a localiser au carré Vénitien, mais qu 'il faudra se lancer au pivòt de la puissance de l'Autriche, à la Hongrie et ses pays limitrophes »; per questa guerra, recata nel cuore stesso dell'Impero, era indispensabile assicurarsi « un accueil amiable du còté de la population » su cui si <leve contare: è dunque essenziale che da parte italiana ci si adoperi a riconciliare Ungheresi, Croati e Serbi (66), cercando di avviare a soluzione problemi territoriali spinosi, legati al fatto che l'Ungheria storica è essa stessa da secoli uno « Stato di nazionalità », tenuto insieme dalla Sacra Corona di Santo Stefano. Erano, questi, dei seri problemi nazionali che la diplomazia sarda, poi italiana, aveva già toccato con mano, sin dal 1848-49, ma che ora si presentavano in termini ancora più espliciti ed anche drammatici, in conseguenza delJa maggiore maturità nazionale-culturale dei singoli popoli. Anche Garibaldi e il movimento garibaldino ne sono investiti, continuando essi a guardare ad oriente. Di più, non si tratta solo di contrasti nazionali e relative contese territoriali fra Croati e Magiari o fra Magiari e Serbi, come circa un ventennio prima , ma anche fra Serbi e Croati: a Torino, la diplomazia italiana e lo stesso movimento garibaldino fra il 1863 e il 1866 per la prima volta toccano con mano due differenti programmi politico-nazionali, che hanno come porta-bandiera due esponenti del risorgimento nazionale presso i Croati: Imbro I. Tkalac e Eugen Kvaternik. Tkalac dal 1861, quando dirigeva a Vienna il foglio di battagli~ politica e nazionale « Ost und West », e poi con coerenza sino alla fine dei suoi giorni, rimase ben fermo nell'idea di una intima collaborazione fra Croati e Serbi, per dare vita a un unico Stato slavo-meridionale; il Kvaternik, al contrario, sin dal 1858-59, quando giunse in Italia nel suo « primo esilio» , prendendo contatto con

(66) Pubbl. in A. Tamborra, lmbro I. Tkalac..., cit., pp. 71-75.


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l'ambiente cavouriano (67), animato com'è da aspro odio anti-serbo mai si discosterà dal programma di ripristinare il Regno di Croazia di epoca medievale. Non vi potevano essere programmi nazionali più antitetici e tali da rimanere in vita sino alla seconda Guerra mondiale. Per sorte singolare Tkalac e Kvaternik finiscono per scontrarsi fra la primavera 1864 e il 1866 fra Parigi e Torino, dove entrambi si muovono da esuli, cercando di guadagnare l'appoggio del governo francese, cli quello italiano e dello stesso movimento garibaldino. Malgrado queste divisioni, cui si aggiunge il dissidio fra Romeni e Magiari per la Transilvania, il « mito » di una insurrezione generale centro-europea che possa avviarsi in connessione con un attacco all'Austria per il Veneto, contagia un po' tutti: Vittorio Emanuele e la diplomazia di Torino, <love Visconti Venosta e il segretario generale agli Esteri, Marcello Cerruti, Isacco Artom e Costantino Nigra ecc. sentono <li poter proseguire sulla stessa linea seguita da Cavour; Garibaldi, Cairoli, Mor<lini e l'intero movimento garibaldino, così vicini ai Magiari e ben attivi sin dal '60 nei propositi insurrezionali verso i Balcani; e poi gli esponenti delle varie emigrazioni: magiara, polacca, croata, ceca, romena. In quel momento, la rivoluzione dei Polacchi contro il dominio zarista, in atto dal gennaio del 1863 agli occhi dell'Europa delle nazionalità e dei movimenti nazionali, sembrò essere un nuovo elemento di rottura, intorno a cui poter far coagulare una più vasta iniziativa insurrezionale che coinvolgesse l'Austria asburgica. Quelli che più di tutti spingono in questa direzione sono naturalmente gli Ungheresi che cercano di trascinare l'intero movimento garibaldino, di cui sono in realtà parte integrante. Secondo informazioni, giunte da Budapest dal principe Augusto Ruspali (imparentato con la più alta nobiltà magiara) nel maggio 1863, « Kossuth ha mandato persona con manifesti incendiari. Tiirr da Belgrado ha spedito altro individuo per spingerli alla rivolta, insomma tutto era pronto per lo scoppio»; per fortuna il nobile romano è riuscito a somministrare dei « calmanti ». Informazioni preoccupate giungono a Torino da Belgrado, nell'aprile 1863 dal console generale Stefano Scovasso, che esorta a « non creder~ ciecamente alle parole di certi emigrati che vedono

(67) A. TaU1bona, Cavour e i Balcani, dt., pp. 193-241.


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tutto color di rosa»; egli teme che il gen. Turr - giunto a Belgrado non senza intese tra Kossuth e Garibaldi - « voglia tentare un colpo da disperato »... « Turr mi pare che aspiri a diventare il Garibaldi dell'Ungheria, e questo tentativo se non rassomiglierà a quello di Pisacane, avrà analogia con quello di Garibaldi in Sicilia, ma con meno probabilità di riuscita perché l'Ungheria non è la Sicilia. Là non v'è modo d'approdare, bisognerà prima ... propagare l'incendio ed appiccarlo e propagarlo nella Erzegovina, Bosnia e Croazia e farsi strada fra le fiamme sino all'Ungheria ». E quando un emissario garibaldino, probabilmente Gustavo Frigyesy, cerca di prendere contatto con gli esponenti del governo serbo, il ministro della Giustizia M. Lesnjanin concorda con Scovasso nel giudicare una impresa simile come « una pazzia», tanto che il console sbotta, indignato: « ... Pare impossibile, che in cose cosl gravi si tratti cosl leggermente. S'invia uno qualunque, senza documenti, a nome di una persona politicamente sconosciuta nel suo paese p er chiedere a un go-

verno serio di queste cose; ma dov'è il buon senso? Credono che abbiamo la testa nelle nubi? Con chi avrebbe a fare la Servia per un gioco così arrischiato, quali guarentigie, quale appoggio? Un pugno di pazzi... facciano vedere che non sono tali, s'avviino, rovescino e facciano divampare un incendio tale da dare delle speranze e allora si saranno fatti conoscere, allora potranno trovare ascolto ... » (68). Del tutto negative sono infine le notIZ1e che giungono anche dalla Galizia austriaca, dove un emissario di Torino, il commerciante di Trieste Baldassarre Pescanti, nell'autunno del 1863 è stato incaricato di sondare lo stato d'animo delle popolazioni. La conclusione, riferita il 31 ottobre, è una sola: non vi sarà « rivoluzione in nessun caso» ... perché « la popolazione dei villaggi ruteni diffida in sommo grado dell'antica nobiltà polacca ... ed è perciò che nella Galizia ... ogni movimento nazionale politico ha il contraccolpo nel campo sociale »; di conseguenza un successo della rivoluzione polacca sarebbe considerato dall'elemento rurale ruteno « come una vittoria dell'antico e opprimente dominio dei grandi possidenti polacchi sopra i contadini, mentre non meno serio è il dissidio di natura religioso-

(68) Archivio Cen trale dello Stato (A.C.S.), Roma, Carte Visconti Venosta, Il, fase. 12, Scovasso

a

Viscon ti Venosta, Belgrado, aprile 1863.


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ecclesiastica fra la gerarchia « latina » e quelle orientali, sia ortodossa che uniata (69). Ma anche Garibaldi, in questo moltiplicarsi di iniziative, muoversi di emissari e notizie più o meno attendibili, vuole vederci chiaro: è a lui, da comandante militare, che sarebbe spettata la somma delle responsabilità. Cosl, sulla fine della primavera del 1863, invia due garibaldini di propria intera fiducia - il suo stesso segretario Giuseppe Guerzoni e Giacinto Bruzzesi - « in Oriente »: due emissari del Governo Nazionale Polacco, certi Jasinski e Czarnjewski avevano raggiunto Caprera, nel maggio, per chiedere che « una Legione d'Italiani » si affiancasse a una Legione polacca, già pronta sul Basso Danubio, per appoggiare la rivoluzione in Ucraina e Podolia; il comandante in capo della spedizione doveva essere lo stesso figlio di Garibaldi, Menotti e a questo fine 200 .000 franchi erano stati messi a disposizione dai Polacchi. I due emissari garibaldini sbarcarono a Genova alla fine di luglio, mettendo al corrente subito Garibaldi dei loro contatti e dei relativi progetti insurrezionali: « il piano dal lato militare presentava una difficoltà non lieve», mentre dubbio si rivelò l'atteso concorso dei Romeni e del principe Cuza, preoccupati dell'agitarsi dei Magiari (presenti col gen. Tiirr e col Frigyesy e altri) e che, contro di questi, intendevano coinvolgere nell'insurrezione la Transilvania; lo stesso governo turco « era già stanco di tollerare ne' suoi confini i Polacchi radunati di Tulcia », mentre la Russia era riuscita a disperdere le bande di insorti polacchi nella Podolia. In queste condizioni, la conclusione è una sola: « la impresa scoperta... sarebbe stata indubbiamente soffocata nel suo nascere» (70). Malgrado questi richiami alla realtà, giunti in pieno accordo dal principe Ruspali, dal console Scovasse e dal Pescanti, la suggestione dell'impresa dei Mille è tale che si continua a fare progetti e a prepararsi. Anche se ci si rende conto molto presto, già nell'autunno del 1863, che la rivoluzione polacca ormai in crisi non può essere l'avvio di un più vasto incendio. I più attivi nello spingere il Governo di Torino e il movimento garibaldino sono naturalmente gli Ungheresi: a conferma dei criteri precisati da Kossuth a Cavour nel giugno del 1861 per la riorganizzazione della « Legione» ungherese

(69) Archivio Centrale dello Stato, Roma, Fondo Ricasoli, Busta I, fase. 5.

(70) Museo e Archivio del Risorgimento, Roma, Busta 46/22, Guerzoni e Bruz.. zesi a Garibaldi, Genova, 30 luglio 1863.


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propria bandiera, comandante magiaro proposto dal Comitato nazionale ungherese e nominato dal Ministero della Guerra italiano, carattere di corpo ausiliario, nell'ambito dell'esercito italiano - il gen. Klapka ne definisce gli ulteriori aspetti organizzativi. Inviato un proclama alla Nazione ungherese il 24 novembre 1863, a nome del Comitato nazionale d'indipendenza appena cost ituito, Kossuth e i suoi - d'intesa col governo di Torino, cioè col ministro degli Esteri Visconti Venosta, e con Garibaldi - opera in due direzioni: creare all'interno del paese « un réseau d'organes » rivoluzionari, a opera di Giorgio Komaromy; invio di armi per le quali ebbe l'incarico lo stesso gen. Klapka, che acquistò 10.800 fucili rigati a Sciaffusa e altrettanti a Vienna. Ma tali armi furono in gran parte sequestrate dalla polizia austriaca e altre bloccate in Slesia, anche se le autorità austriache continuarono a credere che esse fossero destinate ai Polacchi. Circa l'aspetto politico di questa azione, tramite il polacco Przybil:ski è stato possibile regolare da parte dei Magiari « plusieures questions vitales » con i Cechi e con i Croati, quando due emissari di Maz:i?ini nei P.rincipati, il maggiore Frigyesy e il polacco Borzyslawski, avevano creato confusione ed erano stati più volte arrestati dal principe Cuza. In realtà l'elemento dominante in questi progetti ed azioni slegate è proprio quello della confusione, sia per le difficoltà di collegamento e di coordinamento, sia per le divisioni interne dell'emigrazione magiara (Komaromy, da Ginevra, il 4 gennaio 1864, mette in guardia il segretario generale agli Esteri Marcello Cerruti contro le iniziative di Kossuth, perché tutti i fondi messi a disposizione di questi dal governo italiano « ne servaient à ce dernier qu'à exciter ses compatriotes dans le pays intempestivement à des demonstrations sans resultats sérieux dans l'unique but de relever sa popularité déchue et d'engager une lutte de partis » ), sia per la molteplicità di persone o gruppi od organismi di potere, ufficiali o meno ufficiali, che da parte italiana muovono le fila di questa azione nel settore danubiano-balcanico. Tutti intervengono o si agitano: emissari ufficiali o ufficiosi o elementi trovati sul posto, come i commercianti Canessa e Pescanti, sono in collegamento con le persone o personalità più varie, senza che a Torino vi sia un centro unico di coordinamento e di iniziativa. Lo stesso sovrano Vittorio Emanuele - sempre pronto a iniziative personali e spericolate - è il primo a tenere contatti segreti con Garibaldi e col Partito d'Azione. Il re, ebbe a scrivere il ministro inglese a Torino, Elliot, al ministro degli Esteri Lord John Russell il 22 lnglio 1864, non solo « has again


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busily intriguing » col Partito d'Azione, ma si è schierato « with the most extreme faction ». Secondo informazioni attendibili, il re ha scritto di persona due lettere a Garibaldi, sollecitandolo a intraprendere una spedizione o verso i Principati danubiani, oppure verso la Grecia, con preferenza per i primi. Queste lettere sono state recate da Salvatore Porcelli a Garibaldi a Ischia, dove questi si stava curando: « It is impossible to feel the slightest doubt that it is the king who supplies the money for the purchase of the arms which is going on, and if he continues in his way he will sooner or later get the country into a more serious scraple than he will be able to get it out again ». Si giunse persino a stendere un progetto preciso con cifre circa il numero degli uomini da inviare - italiani, magiari e polacchi - la spesa relativa, le necessità dell'armamento e del vestiario. Per fortuna non si andò oltre lo stadio dei progetti. A questo adeguamento alla realtà danubiano-balcanica dovevano avere contribuito sia un « rapporto finanziario-politico», inviato dal gen. Klapka a Isacco Artom, al ministero degli Esteri, il 9 settembre 1864; sia una relazione sulla situazione ungherese e più ampiamente dell'Impero asburgico, fatta sempre ad Artom dal principe Augusto Ruspoli; sia infine un colloquio segreto, avvenuto alle 6 del mattino del 27 novembre 1864 alle Scuderie Reali, fra Vittorio Emanuele e il Ruspoli {71). Eppure, per un necessario coordinamento di tutte le iniziative, al Ministero degli Esteri gli uomini non mancavano: primo fra tutti lo stesso Segretario Generale, quel Marcello Cerruti che aveva dietro di sé tutta una attività svolta nei Balcani e sul Danubio, sin dal 1849 e poi con Cavour, a mezzo fra veste ufficiale e azione cospirativa. Ma egli, nella nuova situazione italiana dove il movimento garibaldino ha forza e prestigio, non può o non ha veste per imporre una linea unitaria che dovrebbe venire da persona più autorevole o addirittura dal Re. Senonché proprio Garibaldi e lo stesso Vittorio Emanuele in pieno accordo si muovono anch'essi senza remore o preoccupazioni di coordinamento, con una superficialità che fa seriamente pensare. (71) ASME, Busta 215, Klapka a Visconti Venosta, Torino, 2 settembre 1864, e Komaromy a M. Cerruti, Ginevra 4 gennaio 1864; Appunto senza data né firma, ma dell'autunno 1864. Public Record Office, Londra, F.O. 519/ 183, Elliot a Russell, Torino, 22 luglio 1864; Archivio Artom, Roma, Diario 1864; E. Diamilla Miiller, Politica se• greta italiana (1863-1870), Tori110, 1891, pp. 95-137; G. Cadolini, L'azione garibaldina dal 1863 in « Nuova Antologia » , 16 giugno 1913, p. 579 e ss.


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Queste iniziative e contatti, che toccano da v1cmo anche i territori boemi, finiscono per smuovere anche il maggiore esponente della emigrazione rivoluzionaria ceca, Josef Vaclav Fric. Egli giunge a Torino da Parigi il 20 maggio 1864, accompagnato dal polacco W. PrzybHski. Essi ebbero contatti soprattutto con Kvaternik e col vecchio garibaldino magiaro gen. Klapka , dai quali uscì il progetto di dare vita anche a una « Legione » ceca: essa doveva far parte della spedizione comune oltre Adriatico ed essere comandata da Jindrich Podlipsky, che nel 1860 aveva combattuto fra le schiere garibaldine da Milazzo sino al Volturno, partecipando poi anche alle operazioni contro il brigantaggio. In vista di questi preparativi anche verso Ja Boemia, un rilievo particolare riveste la visita compiuta ai primi di giugno del 1864 a Caprera dal Fric, accompagnato dai Polacchi W. Przybylski e gen. Karol R6zycki (legato al filosofo mistico polacco A. Towianski, allora in Piemonte): un incontro di eccezionale importanza - almeno nel1e intenzioni di impegno rivoluzionario-nazionale contro l'Austria - visto che a Caprera giusto il 6 giugno 1864 doveva essere firmato l'accordo di cooperazione politico-militare fra Garibaldi, « au nom de la démocratie italienne » e J. Ordçga, a nome del Governo nazionale polacco (che guidava l'insurrezione in atto dal gennaio 1863 contro la Russia zarista); esso prevedeva un attacco slmulta!].eO contro l'Austria dal Veneto per i garibaldini italiani e sul fronte della Galizia per i polacchi (v. cap. III). Questo accordo non ebbe alcun seguito concreto, ma Fric stesso pare abbia stilato con Garibaldi un accordo analogo, di cui non si conosce il tenore. Trattenuto a pranzo da Teresita e Stefano Canzio, il pomeriggio Fric viene ricevuto da Garibaldi e così ricorda: Tremavo un po' nell'entrare, avevo la gola secca ed ero alquanto impressionato perché avrei dovuto presentarmi da solo al Generale e risvegliarne la fiducia per la persona sconosciuta quale io ero, prima di parlargli della questione delicata per la quale ero stato inviato a Caprera. Neppure in sogno avrei potuto immaginare che, dopo soli cinque minuti, mi sarei trovato a mio a?,io come in casa mia e che, liquidata in breve la parte ufficiale della mia visita avrei passato il tempo discutendo familiarmente, senza alcun imbarazzo, come se fra noi una consuetudine familiare esistesse da tempo, con quel modello di bontà, Quando bo varcato la soglia... Garibaldi era seduto in camicia rossa dietro lo scrittoio, il viso rivolto verso la porta ... Mi ha salutato con voce insolitamente squillante, invitandomi a sedere dinanzi a· lui. Fissava su di me il suo sguardo co.d foco.rn e contem-


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poraneamente sincero in quel volto indescrivibilmente affabile ed energico, dai lineamenti gravi ma ancora giovanili: mi sentivo pervadere dal timore e dalla reverenza, ma anche da un abbandono fanciullesco e da una gioia che mi riempiva il cuore.

Garibaldi, seduta stante, personalmente stilò due lettere (andate perdute) forse dirette a Benedetto Cairoli e a Lajos Kossuth. Grazie al consenso di Garibaldi, anche i Cechi potevano dunque partecipare all'impresa, tanto che Fric - data una scorsa alle lettere - non può trattenersi dal dire: « Se potessi, generale, vi bacerei la mano. La vostra parola può prevenire molte difficoltà. A Voi chiunque presterà fede ... ». E Garibaldi conclude virtualmente l'incontro con parole di fede, invitando tutti a un impegno solidale che avrebbe tolto ogni « preoccupazione o paura per il futuro » (72). Ed è tale la molteplicità delle iniziative e delle sollecitazioni che fra la primavera e gli inizi dell'estate del 1864 si torna a pensare al settore ellenico, che era rimasto un po' nell'ombra. Cosl nel marzo del 1864, il colonnello Demetrios Botzaris uno dei ministri fedeli all'ex-re Ottone - aveva preso contatto a Zante con quel «Comitato» garibaldino emanazione di quello di Genova per sollevare le popolazioni dell'Epiro e della Tessaglia; a questi progetti - si è visto - non era estraneo lo stesso Vittorio Emanuele; infine, un garibaldino italiano, certo generale Ferrati, al chiudersi del 1864 si era recato ad Atene, partecipando ai progetti del Botzaris, cui non era estraneo certo Favrier, un francese nipote del generale bonapartista omonimo, uno dei filelleni della insurrezione del 1821 (73). Intanto, la « questione » veneta e l'idea di una guerra all'Austria stanno giungendo a maturazione: i progetti grandiosi e fumosi di spedizioni lontane e irrealizzabili vengono a poco a poco abbandonati, anche per la fine della rivoluzione polacca nella tarda primavera del 1864; unico progetto concreto e a portata di mano rimane quello di uno sbarco oltre Adriatico e relativa insurrezione. Chi lo propone nei contatti con il Governo - soprattutto il ministro degli Esteri Visconti Venosta e il Segretario Generale Marcello Cerruti - con il movimento garibaldino e naturalmente Kossuth e l'emigrazione magiara, sono i due esuli croati, Imbro I. (72) J.V. Fric, Pameti (Ricordi), Praga 1963, vol. III, pp. 123-26; V. 2af&k, Jo. re/ Vaclav Frié, Praga 1979, passim. (73) D.N. Dontas, Greece and the Great Powers, 1863-1875, Tessaloniki 1966, p. 21; Public Record Office, Londra, F.O. 509/183 Torino, 22 luglio 1864.


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Tkalac ed Eugen Kvaternik. Essi agiscono con chiarezza di idee e molta decisione, anche se profondamente divisi sui fini politici e nazionali: per singolare avventura, anche 1o scontro fisico fra i due avviene giusto a Torino, il 3 gennaio 1865, nella stessa anticamera di Marcello Cerruti, agli Esteri: « Passeggiavamo ognuno per conto proprio - racconterà Kvaternik - come un leone e una tigre nella gabbia ... Siamo figli di una stessa nazione e così ostili» '(74). E fra i due, Governo e movimento gadbaldino sono costretti a fare una scelta. Kvaternik si era stabilito a Torino nella primavera del 1864 e subito aveva cercato di impostare una « questione » croata, in vista di una futura indipendenza del paese; e in connessione con il problema veneto tornava di attualità l'esigenza di stabilire un limite fra la futura Croazia e l'Italia, in Adriatico, quale proseguimento delle polemiche e prese di posizione avutesi fra il 1859 e il 1861 all'epoca di Cavour. Ma la sua preoccupazione principale è quella di opporsi all'influenza magiara, se in un colloquio con llenedettò Cairoli del 25 aprile 1864 è pronto a notare che questi « attribuisce la massima importanza all'Ungheria, mentre della Croazia addirittura se ne infischia »; e alle rimostranze di Kvaternik il Cairoli è pronto a replicare che « Garibaldi ripetutamente e vivamente ha espresso il desiderio e l'idea di morire per la Croazia e per la Dalmazia ». Ancora e sempre, dunque, i contrasti nazionali rappresentano una remora per una azione concorde. Ed è tale la diffidenza verso i Magiari che Kvaternik insiste perché l'esercito da sbarcare in Istria e Dalmazia comhatta sotto bandiera croata: « I Magiari sulla nostra terra saranno ospiti» e se c'era una « Legione » magiara in Italia, vi doveva essere raccolta anche una « Legione » croata, con armamento adeguato, mezzi tipografici con caratteri speciali per il croato per stampare opuscoli e volantini, mentre una conferenza internazionale segreta avrebbe dovuto occuparsi della « questione » croata. Nell'avvertire i legami strettissimi fra Vittorio Emanuele e il Governo, da un lato, ed il movimento garibaldino dall'altro, Kvaternik si muove molto attivamente anche nei circoli governativi. I suoi maggiori contatti si svolgono con Marcello Cerruti, segretario generale del ministero degli Esteri che vede più volte: profondo conoscitore dei problemi danubiano-balcanici, a essi si era accostato (74) E . Kvaternik, Drugo progonstvo Eugena Kvaternika godine 1861-1865 (Il secondo esilio di E. Kv. negli anni 1861-65), dal diario, a cura di K. Segvié, Zagabria 1907, pp. 76-77.


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come console a Belgrado nel 1849 e poi nel 1860~61 quando all'epoca di Cavour, quale ministro residente a Costantinopoli fu uno degli artefici della politica balcanica dello statista, volta a legare la « questione » italiana a quelle d'Oriente; vede poi esponenti della Massoneria come Adriano Lemmi, il generale Seismit Doda, Cesare Correnti, Brofferio, il direttore del « Diritto » Civinini e tanti altri. Ma l'ambiente di elezione è, per Kvaternik, quello garibaldino, dove ha rapporti con Antonio Mordini, spesso col Cairoli: tiene a dichiarargli che Garibaldi sarà « generalissimo in Croazia », tanto che« l'Italiano è proprio commosso » e si affretta a scriverne a Londra allo stesso generale; una identica assicurazione dà al polacco Zygmunt Milkowski ,(Jez), cui confida che « il gen. Garibaldi sarà il comandante supremo delle sue Legioni in Croazia, quando Io sbarco sarà effettuato », mentre Magiari e Italiani seguiranno come « arrière garde » e a lui spetterà il compito di essere « il sostegno del nostro governo nazionale ». Toccato e commosso, Garibaldi tramite il ceco Karel Roser - che dopo la partenza di Fric da Torino ne fu il rappresentante in I talia e riuscirà a far affluire nella Legione magiara 204 Cechi e 170 Polacchi - invia a Kvaternik una lettera chiamandolo « fratello » e definendo la Croazia « sorella » dell'Italia. Tuttavia, questo calore di rapporti non possono modificare o far ignorare certi problemi di fondo, che stanno venendo alla ribalta. Kvaternik nel suo Diario confida la preoccupazione per il fatto che gli Italiani, specie sulla stampa, siano ben lungi dall'accettare il suo punto di vista circa i limiti tra l'Italia e la futura Croazia nella Venezia Giulia e sull'Adriatico; e Garibaldi rimarrà sempre ben fermo nel rivendicare Trento e Trieste fra le « reclamazioni di alta giustizia» (75). Malgrado questi contatti non privi di calore umano, l'odio anti-serbo manifestato apertamente dal Kvaternik, e le stesse preoccupazioni e polemiche per il futuro confine orientale dell'Italia, creano intorno a lui un muro di diffidenza. Per questi motivi fondamentali il Governo e lo stesso Garibaldi - messi di fronte a una scelta fra Eugen Kvaternik col suo nazionalismo pancroato, e Imbro

(75) Z. Milkowski, Od kolrbki pn.ez i:ycie (Dalla culla attraverso la vita), Cracovia 1937, vol. II, p. 238; su di lui , M. Bersano Begey, Zygmunt Milkowski, Roma 1935. E. Kvatcrnik, Drugo progonstvo, cit., pp. 66 e segg.; Epistolario di G. Garibaldi, cit., Milano 1885, voi. II, pp. 203-239; A. Tamborra, Imbro I. Tkalac..., cit., pp. 89-91.


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I. Tkalac, che auspicava la massima collaborazione con i Serbi (cui a Torino si teneva moltissimo) - finiscono per dare la preferenza a Tkalac. Colto, misurato e sensibile, questi dall'autunno del 1863 era riuscito a guadagnarsi la fiducia della diplomazia italiana e degli stessi esponenti garibaldini; la sua amicizia personale con Kossuth che l'aveva introdotto negli ambienti della capitale, è garanzia della massima collaborazione fra i Magiari, da un lato, e i Serbi e i Croati dall'altro : « J'ai promis à Kossuth - aveva scritto Tkalac a Marcello Cerruti, da Parigi il 30 luglio 1864 - de prendre part à l'expédition de Garibaldi en Croatie, disant à Kossuth que je ferai man possible pour gagner mes compatriotes Croates et Serbes pour notre cause commune » (76). I dissidi nazionali erano la vera palla al piede di qualsiasi iniziativa insurrezionale oltre Adriatico e questo era ben noto sia a] Governo che a Garibaldi e al movimento garibaldino. Fra tutti, il problema della Transilvani a - rivendicata d ai Romeni - rimaneva molto spinoso, nonost ante che a Ginevra il 10 settembre 1865 gli esponenti d ell'emigrazione magiara conte Czaki e gen. Eber, i romeni principe Ghika e G. Balaceanu avessero gettato le basi per una alleanza fra la futura Ungheria indipendente e i P rincipati di Valacchia e Moldavia: la tensione era talmente scoperta che nello stesso mese di settembre il conte Czaki sollecitò l'autorevole intervento di Garibaldi perché inviti Bratianu, « un des chefs du parti rouge dans les Principautés unies à agir sur lès Roumains de Transylvanie pour qu'ils s'entendent avec les chefs de notre parti», in fatto di passaggio di armati e invio di armi per l'insurrezione (77). Garibaldi non solo condottiero, dunque, ma anche mediatore autorevole e forse unico nei contrasti nazionali. Intanto, verso il luglio del 1865 i contatti, gli incontri, la corrispondenza fra Kossuth, Tkalac, Marcello Cerruti e la diplomazia italiana, esponenti del movimento garibaldino portano a definire il progetto di una grande operazione anfibia: una volta scoppiata la guerra, uno sbarco a Trieste con 20-25 mila uomini della Legione magiara e garibaldini avrebbe avuto il compi to di interrompere le comunicazioni soprattutto ferroviarie, raggiungere Lubiana, disperdendo le forze di riserva del nemico; questo primo urto doveva (76) A.SM.E. , Busta 216, Tkalac a Cerruti, Parigi 30 luglio 1864. (77) Ibid., Busta 215, testo dell'accordo; ibid., Csaky al segretario generale del Ministero degli Esteri, M. Cerruti, Ginevra 25 settembre 1865.


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avviare una vasta insurrezione centro-europea: essenziale, per capacità militari e prestigio europeo, doveva essere la presenza di Garibaldi alla testa dell'impresa. Insieme si prevedevano sbarchi in vari punti della costa dalmata e forse qualche contatto sotterraneo doveva essere stato avviato, se confidenti della polizia austriaca nel maggio del 1865 segnalano da Spalato che un certo capitano Andruz o Andreuzzi sta facendo preparativi per ricevere i volontari garibaldini; e le voci o timori sono talmente diffusi che il 20 maggio 1865 gli stessi confidenti segnalano già la partenza di Garibaldi in persona, alla testa di volontari che non possono essere altri che « Mille » (78 ). E come nella primavera del 1866 giunge da Berlino il suggerimento di condurre « une guerre à fond » con una forte spedizione sulle coste orientali dell'Adriatico, affidata al comando di Garibaldi, si giunge a stilare un progetto finanziario, che prevede una spesa di cinque milioni di franchi , da dividersi fra Prussia e Italia (79). Intanto, chi da Parigi si impegna a preparare politicamente l'arrivo dei garibaldini italiani e magiari oltre Adriatico è soprattutto Tkalac: d'intesa con Kossuth, con la diplomazia italiana, con lo stesso Napoleone III che appare favorevole, col Nigra, a « une descente aux còtes de l'Adriatique » {80), la sua preoccupazione principale è che i suoi « fratelli» serbi e croati accolgano i garibaldini come liberatori. A questo scopo Tkalac stampa a Parigi, in lingua croata e con i fondi ricevuti dalJa diplomazia italiana, un « Messaggio » di propaganda da diffondere oltre Adriatico, dal titolo: Pitan;e austri;sko: kome, kako i kada valia resiti ga? Poslanica braéi Hrvatima i Srbima (La questione austriaca: come, quando e chi deve risolverla? Messaggio ai fratelli Croati e Serbi). Animato da un pensiero politico ben maturo {che troverà soddisfazione nel 1918 al termine della prima Guerra mondiale) Tkalac incita i suoi contemporanei a « fare scomparire l'Austria », come premessa alla libertà e alla unione nazionale degli Slavi meridionali: poiché « uno Stato non esiste senza la nazione e la nazionalità»; poiché - riecheggiando Mazzini - la nazione possiede non solo diritti (78) Oester. Staatsarchlv, Vienna, Informationshuro 1865-66, Ztl n. 3412 e 3611. (79) Il ministro di Prussia a Firenze, K. Usedom al presidente del Consiglio e ministro degli Esteri Lamarmora, Firenzt: 17 giugno 1866, in Documenti diplomatici italiani, val. VI, a cura di R. Moscati, pp. 792-95; A.SM.E., Busta 215, fase. IV, Promemoria finanziario di Kossuth e Csaky al segretario generale agli Esteri M. Cerruti, Berlino 12 giugno 1866. (80) Carte Artom, inedite, Alberto Blanc a Isacco Artom, a Parigi, Firenze, 20 giugno 1866; Marcello Cerruti a I sacco Artom, 27 giugno (1865?).


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inalienabili e fondamentali, ma anche il « dovere » di recuperare « qualsiasi parte staccata dal proprio organismo »; poiché ha il diritto di avere « un ordinamento statale conforme alla sua indole e alle condizioni internazionali ed interne in cui si trova; e nessun popolo può ledere l'indipendenza, la libertà e l'ordinamento interno di qualsiasi altro popolo »; per questi ed altri motivi la guerra d'insurrezione contro il sovrano d'Austria è pienamente «giusta». Quanto ai problemi concreti sollevati dalla guerra, Tkalac mette chiaramente in rilievo che l'Italia « è costretta, anche se non lo volesse, ad approfittare dell'occasione della guerra dell'Austria con la Prussia per completare l'opera della sua unità nazionale», in modo da « raggiungere il suo confine strategico e naturale senza il quale è esposta all'aggressione dell'Austria e costretta a tenere in piedi un grande esercito sempre pronto alla difesa ... ». Tutto questo, scrive Tkalac è di « grande interesse per tutta la famiglia umana e specialmente per il nostro popolo, perché con questo noi stessi possiamo preservarci <la quel continuo guerreggiare dell'Austria con l'Italia che ci costa già almeno quattro milioni di soldati» (p. 61). In relazione poi ad uno sbarco di Garibaldi in persona, per il quale vi erano state trattative, Tkalac si preoccupa di elin1inare nei suoi compatrioti qualsiasi apprensione; se giungerà in Croazia lo farà « perché occorre tagliare la strada all'Austria, in modo che non possa mandare altre truppe in Italia » ed è sicuro che i Serbi e i Croati « approfitteranno dell'occasione per sollevarsi subito contro l'Austria, avendo da appoggiarsi sull'aiuto di 10.000 o più soldati italiani...». Garibaldi « non arriverà come nemico della nazione croata e serba>> perché « per sua natura e carattere non è capace di fare del male a nessun uomo né ad alcuna nazione ... » (pp. 63-64). Nel frattempo, anche l'Unione degli emigrati polacchi (che contava su circa 1500 aderenti) aveva cominciato a muoversi: verso la primavera del 1866, nel puntare sulla guerra imminente come mezzo per riproporre in sede internazionale una << questione » polacca, d'intesa con Garibaldi a Torino prese a raccogliere volontari per mettere in piedi una « Legione »: comandante sarebbe stato il generale J6zef Hauke-Bosak e Capo di Stato Maggiore J. D~brovski. Senonché, per parte sua lo stesso gen. Lamarmora - nel dominare tutti gli elementi della situazione diplomatica, cospirativa e soprattutto militare, in vista di una insurrezione centro-europea da fomentare con uno sbarco garibaldino - era rimasto molto freddo, anzi ostile a questi progetti: egli non si lascia trascinare né dagli impulsi generosi ma pericolosi del Re o di Garibaldi, né dalle illusioni


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degli emigrati magiari, croati e polacchi, né dalle trame di una diplomazia che con Cerruti e Nigra, Artom e Blanc, un po' meno col ministro degli Esteri Visconti Venosta, mostra di obbedire a uno slancio cavouriano come nel 1859-61.A nulla valsero le pressioni della Prussia - svolte attraverso l'Usedom e, sotto il profilo militare, dal colonnello von Bernhardi, insegnante alla Accademia militare di Potsdam, « stratega da tavolino anziché da campo »: il generale Lamarmora giustamente pose un no deciso a queste pericolose avventure di sbarchi in appoggio a insurrezioni affatto ipotetiche, che « avrebbero ingolfato Garibaldi e i costui figli e l'esercito di liberali cosmopoliti che li avrebbero seguiti in contrade aspre, montuose, cattoliche (vale a dire legate all'Austria n.d.r.), dove il nome italiano desta rancori»; e ad evitare equivoci pericolosi, spedì a Caprera il col. Ezio Vecchi per illustrare la situazione a Garibaldi « al quale non isfuggivano le difficoltà di cui era irta cotale impresa». A questa decisione fondamentale aveva recato il suo contributo, intelligente e informato, l'udinese Giuseppe Giacomelli. Legato al Comitato Veneto Centrale (voluto da Cavour nel 1861 quale elemento di raccordo di tutte le energie della V cnezia in vista del recupero della regione), egli verso la fine del 1865 aveva richiamato l'attenzione dell'esponente di tale Comitato, Alberto Cavalletto e, per suo tramite, del governo di Firenze, sul carattere utopistico della lotta condotta da Kossuth: rispetto ai progetti di questi per un grande Regno d'Ungheria esteso dalla Dalmazia sino alla Transilvania, secondo il Giacomelli a Pest si dava maggior credito all'orientamento più moderat o e concreto di Ferenc Deak; questi voleva la riconciliazione con Vienna previa concessione all'Ungheria della « propria autonomia nel senso più ampio della parola », cosa che avverrà nel 1867; era dunque contrario agli interessi italiani appoggiare sino in fondo i rivoluzionari magiari, le cui possibilità di successo erano scarse (81). Garibaldi, rimasto dunque a Caprera sino alla vigilia della dichiarazione di guerra (23 giugno 1866), come ebbe scarsa parte nella

(81) J.W. Borejsza, Emigrac;a polska po powstaniu styczniowym (L'emigrazione polacca dopo la rivoluzione di Gennaio), Varsavia, 1966, pp. 91-92; A.V. Vecchi, La vita e le gesta di G. Garibaldi, Bologna 1910, p. 253; E. Passerin d'Entrèves, La situazione ungherese viJ1ta da un osservatore italiano verso la fine del 1865: un incontro con Deak In « Popolo, Nazione e Storia nella cultura italiana e ungherese tra la 1:ivoluzione ftancese e la « primavera dei popoli », Venezia Fondazione Cini Convegno italo-unghcl'Cse 4-l'i f"IOVemhre 1982 (atti an rol'SO di stampa).


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organizzazione e nell'ordinamento dei volontari, cosl ben poco influì sulle prospettive strategiche, anche se in sede diplomatica ancora il 20 giugno si avvertisse la necessità di una sua decisione immediata e « non au dernier moment» per lanciarsi « avec des forces suffisantes sur la Hongrie » (82). Fu fermato a Bezzecca il 9 agosto e fatto tornare indietro, ma intanto la diplomazia italiana aveva continuato a muoversi, a contare su una insurrezione centro-europea: il 30 luglio 1866 Marcello Cerruti spedì a Berlino il colonnello garibaldino Ludovico Frapolli per conoscere se la Prussia continuasse a pensarvi e quali fossero le possibilità effettive, visto che il gen. Klapka da Berlino il 1° agosto era stato inviato da Bismarck in Slesia a mettere in piedi una « legione» magiara: « ogni movimento inopportuno e insufficiente che si producesse in Un~heria - dice l' « Istruzione » rimessa a Frapolli - arrecherebbe danni immensi agli Ungheresi e a noi, e distrurrebbe tutti gli elementi di speranza per il comune avvenire»; altre insistenze, poi, vengono svolte a Belgrado alla fine di luglio dal console generale Stefano Scovasso sul principe Michele Obrenovié: questi è rimasto piuttosto disilluso per il mancato sbarco in Dalmazio « qui aurait donné un grand courage aux croates et à nous memes », e per le operazioni nel Tirolo o nel quadrilatero; avverte che la Serbia non è pronta a intervenire e vorrebbe garanzie circa la sorte delle popolazioni slave dell'Austria in caso di vittoria; lo stesso primo ministro Ilija Garasanin era stato piuttosto pessimista circa l'esito ultimo della guerra e, soprattutto, non vedeva di buon occhio che i Serbi dovessero intervenire solo con compiti marginali, « come volontari di Garibaldi» {83 ). (82) Carte Artom, inedite, Alberto Blanc a Isacco Artom, a Parigi, Firenze, 20 giugno 1866: « ... le Général Lamarmora a opposé jusqu'à présent grande résistance à qui lui parlait dc cela. Czaky, Komaromy et Kossuth n'ont rien pu obtenir de lui. Tandis qu'ils ont obtenu <le Bismarck sans peine une expédition à lancer des frontièrcs ,prussiennes dans le haute Silésie, ,d es subsides et les armes, cette répugnance du Général à engager les choses à fond contre l'Autriche a meme excité à Berlin des inquiétudes sérieuses sur nos intentions; ... » . (83) E . Koltay-Kastncr, Kossuth e Garibaldi nella guerra del 1966, in « RaSS<:• gna Storica <lel Risorgimento», 1961, pp. 91-103; M. Jaszay, Ludovico Frapolli e gli emigrati ungheresi nel Risorgimento, ibid., 1960, p. 546; A.S.M.E., Busta 215, Istruzioni al col. Frapolli; Jbid., Registro copialettere n. 864, Stefano Scovasse al Minis,tro, Belgrado, 24 luglio 1866; Piéma I. Garasanina f. Marinoviéu (Lettere di I . GaraJanin a ]. Marinovié), Belgrado 1931, vol. Il, p. 165; L. Aleksié, Stav Francuske prema Srbiii za vreme dru11.a vlade Milosa i Mihaila (1858-1868) (La posizione della Francia di fronte alla Serbia all'epoca del 5econdo regno di Milos e Michele), Belgr<tdo 1957, p. 113.


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Insieme agli esponenti della diplomazia italiana e agli Ungheresi quegli che sino all'ultimo tiene in vita nel suo intimo la speranza di una continuazione della guerra è proprio Imbro I. Tkalac. Nonostante il precipitare della situazione militare, ancora agli ultimi di luglio egli rinnova a Kossuth la promessa « d'accompagner Garibaldi si l'expédition de Croatie a lieu », anche se .diffida delle sue capacità a dirigere « le còté politique » di una rivoluzione in Ungheria, appoggiata da una analoga sollevazione dei Croati. Soprattutto, sentendo già vivamente i problemi italiani come propri, egli ammonisce, il 30 luglio, Marcello Cerruti: « Maìtre du Tyrol italien et de la ligne de l'Isonzo, l'Empereur François-Joseph obligerait l'Italie de s'épuiser et se suicider par une paix armée qui sous peu rendra inévitable une guerre aussi formidable que l'actuelle » (84). Parole singolarmente ammonitrici e previggenti. Era la preoccupazione di tutti gli Italiani e dello stesso Garibaldi: accolto « splendidamente» a Venezia nel febbraio del 1867 - dove « il Canal Grande, al dire di Herzen, faceva l'effetto di un unico ponte compatto» - egli « era di malumore, preoccupato», ma « si sentì rivivere a Chioggia, dove era atteso dai barcaiuoli e dai pescatori ... » {85). Quale il bilancio di queste attese, illusioni, progetti, difficoltà enormi che si inseguono in un groviglio complesso per mezza Europa, creando speranze e timori? Testimonianza inconfutabile della « presenza » europea di Garibaldi come realtà potenzialmente operativa, politica e soprattutto militare, e non solo come « mito », tutto questo turbinare di uomini e di iniziative aveva recato il Generale nel cuore dei problemi nazionali e politici della Media Europa. Non li conosceva. E come egli è un uomo concreto, positivo, abituato a muoversi da soldato sulla realtà offerta dal terreno, dagli uomini da guidare o da combattere, dal quadro militare da conoscere con intuito e intelligenza, il suo disagio e diffidenza devono essere stati grandi. Da tutti questi progetti e sollecitazioni, recati da emissari garibaldini più o meno autorizzati o giunti dall'esterno e condivisi dalla Corona e dal governo, non esce nulla, assolutamente nulla: anche se Garibaldi incoraggia a prepararsi, consolida in quanti si rivolgono a lui la consapevo(84) A.S.M.E., Busta 216, Tkalac a Ccrruti, Parigi, 30 luglio 1866. (85) A.I. Herzen, Passato e pensieri, trad. it. a cura di C. Coisson, Torino, 1949, p. 419.


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lezza nazionale e l'odio all'Austria o alla Turchia, e offre a tutti la certezza che, giunto il momento, non saranno da lui abbandonati. In realtà, egli può operare in tal senso e tener deste speranze in tutto il periodo compreso fra l'impresa dei Mille e la guerra del 1866, perché sente di avere ancora dietro di sè l 'appoggio di Vittorio Emanuele e dello Stato italiano: iniziativa regia e governativa, da un lato, e iniziativa di popolo, garibaldina e mazziniana continuano a coesistere e intrecciarsi in un viluppo non sempre concorde, anzi spesso talvolta in contrasto ma con un unico fine. Di qui certa scioltezza di rapporti in tutte le direzioni e con tutti gli emigrati: questi vanno a Caprera da Garibaldi a ricevere parole d'ordine e assicurazioni, magari a trovare conferma alle proprie illusioni di esuli; ma insieme, ricercano il contatto con chi, come Vittorio Emanuele e i suoi ministri e alti responsabili degli Esteri possono all'occorrenza dare armi, danaro, appoggio politico e diplomatico. In tutti - Magiari, Polacchi, Greci, Romeni, Cechi, Croati ecc. - si avverte che l'impegno degli Italiani vigorosamente perseguito da Cavour di collegare il problema nazionale italiano ai problemi della Media Europa, è tuttora vivo e presente. Si sente, a volte si pretende, di poter contare su di esso, perché nessuno degli Italiani dopo anni di predicazione mazziniana e di azione regia o garibaldina rimane estraneo alla soluzione di problemi nazionali europei ancora sul tappeto. I due centri operativi - Torino, poi Firenze, e Caprera - agiscono di conserva, concordi nel fondo anche se talvolta discordi nei mezzi. Gli impulsi, le sollecitazioni, le illusioni degli emigrati o dei garibaldini nello spostarsi da Caprera a11a capitale del Regno finiscono per consolidarsi, calano nella realtà, si confrontano con le opinioni e le informazioni della diplomazia o di emissari inviati sul posto. In altri termini, i Kossuth, Kvaternik, Tkalac, Bratianu, Fric, Milkowski o Ord~ga, ecc., tutti i rivoluzionari emigrati ricevono, a parole, ogni appoggio da Garibaldi e dal movimento garibaldino. Ma quando si tratta di mettere in piedi una Scuola militare polacca, come nel 1861-62 a Cuneo, o tenere alla mano la « Legione » garibaldina magiara (cui si forniscono armi, accantonamenti in edifici demaniali, vitto, vestiario, possibilità di addestrarsi) oppure di venire incontro ai progetti per le Legioni croata o ceca o polacca, tutto questo poteva aversi soltanto ed esclusivamente col consenso e l'aiuto concreto del Governo. Si utilizzano magari i fondi segreti come per la Scuola militare polacca di Cuneo o per la Legione magiara o per spedire emissari e informatori più o meno


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garibaldini sul Danubio, nei Balcani e sino in Galizia; sarà la diplo. mazia italiana a pagare la stampa e la spedizione dell'appello lanciato da Tkalac nel 1866, perché Croati e Serbi accogliessero Garibaldi come liberatore. Ma tutto questo richiede un impegno finanziario che dura anni e il danaro solo dallo Stato finisce per uscire. Garibaldi, quale comandante militare di esperienza consumata, sa bene che bisogna far fronte a costi altissimi: di qui, sino al 1866, il suo intero appoggiarsi a Vittorio Emanuele e al Governo che sono spinti, pungolati, ma cui spetta in ultima analisi la decisione finale, come avviene infatti nel 1866 col veto di Lamarmora a una operazione anfibia oltre Adriatico, che si sarebbe risolta in un disastro. Per quanto riguarda gli sbarchi e relative insurrezioni un capo militare come Garibaldi - uso a preparar bene le imprese e a non sacrificare inutilmente l'elemento più prezioso, l'uomo - è ben consapevole delle difficoltà operative cui si va incontro: sbarchi di armati, cioè operazioni anfibie ben più difficili di quella siciliana (come aveva ammonito il console Scovasso, da Belgrado), l'avvio verso l'interno su terreno impervio e sconosciuto per dare fuoco alle polveri di insurrezioni affatto ipotetiche, tutto questo si presenta come una pericolosa avventura. E Garibaldi come rinunzia all'impresa verso la Podolia, all'altra verso la Galizia, così non muove alcuna rimostranza per il mancato sbarco oltre Adriatico o per essere stato inchiodato sul Trentino, invece di proseguire verso l'Ungheria. Ma soprattutto quelle che fanno difetto nel modo più completo sono le prospettive politiche, specie in fatto di intesa e collaborazione fra le varie nazionalità interessate al movimento insurrezionale. Garibaldi e quanti gli sono più vicini come Benedetto Cairoli, Antonio Mordini, Timoteo Riboli ecc. toccano con mano una realtà nazionale danubiano-balcanica tutt'altro che idillica; in una Italia dove gli emigrati politici sono di casa e si muovono fra Torino, Genova e Caprera sino a Firenze e Napoli, l'amara realtà dei dissidi nazionali non tarda a venire a galla. Se ne era avuta la sensazione, del r·esto, sin dal 1849, quando il primo console sardo a Belgrado, Marcello Cerruti, aveva praticamente fallito nella missione di mettere d'accordo Serbi e Magiari in un comune impegno militare contro l'Austria, che alleggerisse il fronte del Po (86 ). Adesso, col procedere dei movimenti di ascesa nazionale e i segni di crisi che si

(86) A. Tamborra, Cavour e i Dalcani, cit., pp. 69 e segg.


Cap. II. • L'esempio e l'attesa

scorgono in Austria e in Turchia, le tensioni si fanno p1u scoperte e si pensa già in termini di confini, di attribuzioni territoriali, di programmi nazionali che affondano le radici nel passato più lontano, spesso mitizzato. Il panorama che ne esce è, a dir poco, desolante, anche perché ogni esponente nazionale direttamente o indirettamente cerca di guadagnare al suo popolo o programma politico-nazionale un uomo di indiscusso prestigio europeo come Garibaldi e aiuti esterni dall'Italia come Stato. Sì, certo, tutti sono a parole concordi nel voler collaborare per sottrarsi al dominio turco o a quello austriaco, per formare Stati nazionali o integrare quelli esistenti. Ma quando si tratta di passare ai fatti, quando un intervento garibaldino tanto invocato e atteso può avvicinare il momento della liberazione nazionale e contribuire a compierla le cose cominciano a essere viste in maniera ben diversa: i programmi e le aspirazioni nazionali entrano in collisione. Garibaldi e il movimento garibaldino, come la stessa diplomazia sarda, poi italiana se ne rendono conto con prontezza. I progetti di Vittorio Emanuele verso la Grecia, i movimenti di emissari garibaldini verso la parte meridionale dei Balcani e i relativi progetti di sbarchi e azioni insurrezionali fanno scoprire l'esistenza di tensioni nazionali che coinvolgono Greci, Montenegrini, Bulgari, Albanesi. Quasi a mettere le mani avanti e a indicare a Garibaldi l'ideale estensione nazionale della « grande » Ellade, per la penna di un Greco-macedone un promemoria dal titolo Macedoine giunge sino a Caprera, con l'implicita rivendicazione dell'Epiro, della Tessaglia e della stessa Macedonia, come si è detto avanti. Questa « attesa » di Garibaldi nel sud dei Balcani dura, dicevamo, sino all'agosto del 1862 e, salvo qualche ritorno di fiamma, si esaurisce dopo Aspromonte. Da questo momento in poi Corona, governo e movimento garibaldino nel suo complesso cominciano a mettere a fuoco il problema veneto: per avere ragione dell'Austria asburgica si punta su insurrezioni nazionali oltre Adriatico, incoraggiate da sbarchi di garibaldini italiani e magiari. E qui, nell'Europa danubiana, il problema centrale con cui si devono fare i conti è quello della Ungheria storica. Kossuth e il movimento rivoluzionario magiaro, dal 1848 in avanti e sino al Compromesso del 1867, sia nella lotta armata o nel progettare sbarchi e insurrezioni non dimenticano affatto che l'Ungheria storica che essi sognano indipendente da Vienna è sempre quella della Corona di Santo Stefano: uno Stato plurinazionale, dove Serbi della Voivodina, Croati. Slo-


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vacchi, Romeni di Transilvania rimangono in pos1z10ne subordinata, anche come soggezione dell'elemento contadino al ceto magnatizio, proprietario del suolo. Per questo non poca è la tensione fra Magiaii e Croati, fra Magiari e Serbi d'Ungheria che guardano verso il Principato di Serbia; per parte loro i Romeni di Transilvania, dalla fine del Settecento e grazie all'azione della Chiesa romena unita e della cosiddetta « Scuola » latinista transilvana, esprimono una vigorosa coscienza nazionale romena, aspirando a unirsi ai Romeni dei Principati: non è un caso che Garibaldi nel settembre 1865 sia stato sollecitato proprio dai Magiari a svolgere opera di mediazione presso i Romeni di Transilvania, per giungere a una collaborazione. Gli stessi Croati giusto a partire dal 1861 in avanti danno vita a due programmi nazionali .differenti: per Kvaternik dovrebbero tornare a un «Regno» di Croazia indipendente, mentre il programma ben più moderno di Tkalac (che prescinde dalle differenze religiose fra Croati cattolici e Serbi ortodossi) prospetta la creazione di uno Stato jugo-slavo. Infine, quando nel 1863-64 si pensa a possibili collegamenti operativi fra la questione veneta e la rivoluzione polacca con l'idea di una spedizione che raggiunga la Galizia, il serio dissidio nazionale, sociale e religioso che <livide il ceto magnatizio polacco e i contadini ruteni - rivelato da B. Pescanti - sconsiglia di gettarsi in questa direzione. Tutta l'azione garibaldina e quella collegata di Vittorio Emanuele e del Governo non possono non tener conto di questo complesso di tensioni nazionali: saranno esse, in ultima analisi, a para· lizzare virtualmete ogni iniziativa. In queste condizioni a Garibaldi non rimane altro che una duplice strada: rivolgere pressanti inviti all'intesa, alla collaborazione fra le varie nazionalità; fare proprie e indicare soluzioni politiche, per avvicinare, legare i popoli danubianobalcanici, nel momento in cui l'Impero asburgico e quello ottomano dovessero scomparire. Gli appelli che Garibaldi rivolge ai popoli dell'Europa orientale o alle « genti slave » ecc. non sono dunque qualche cosa di retorico, ma rispondono a una precisa necessità operativa: la premessa politica per il successo di una impresa militare. Così si comprende come Garibaldi il 10 aprile 1862 nel suo Appello ai popoli dell'Europa orientale (cui forse non deve essere stata estranea la mano di Marc'Antonio Canini che lo tradurrà in greco e in romeno e lo diffonderà nei Balcani), sia molto esplicito: solo l'unione e l'accordo fra tutti i popoli può condurli a riconquistare la libertà ed è necessario,


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scrive Garibaldi, « che voi vi solleviate come un sol'uomo, scordando i tristi odi che hanno consolidato nei secoli il vostro servaggio »; per giungere a queste intese era indispensabile « fissare le frontiere dei nuovi Stati», perché dopo la vittoria una Assemblea generale, eletta con voto universale avrebbe provveduto a definire le frontiere, « dando vita a un nuovo diritto internazionale » (87). Redatto sulle linee del progetto di confederazione danubiana di Kossuth e Canini, pubblicato a Torino il 15 aprile 1862 sul giornale magiaro « L'Alleanza », è di grande rilievo politico che Garibaldi ne abbia fatto propri i principi fondamentali: esso era l'unico mezzo per incoraggiare i popoli dell'Europa orientale a mettere a tacere i dissidi, se volevano avviare a dissoluzione l'Austria asburgica e la Turchia ottomana. Pochi mesi più tardi - dopo che dalla fine di marzo i Montenegrini insorti stavano combattendo contro i Turchi, e dopo il terribile bombardamento di Belgrado della notte sul 25 giugno (disposto dal pasdà <ldla forLezza per piegare i Serbi in rivolta) Garibaldi interviene decisamente per incitare alla lotta e alla collaborazione: nel messaggio Alle genti slave sotto la dominazione austriaca e ottomana del 23 luglio 1862, pubblicato sul «Diritto», le invita a unirsi « in un popolo solo » dimenticando « odii, discordie, pregiudizi di religione e di razza »: « .. .la causa della libertà è una sola, qualunque sia il nemico che la combatte, qualunque sia il popolo che la difende, qualunque sia il colore della bandiera sotto cui si schierano gli eserciti ». Per questo, contro « le mendaci promesse della diplomazia», sempre disposta, ieri come oggi, a venderli e a tradirli, Garibaldi esorta gli Slavi balcanici, con ottimismo di matrice mazziniana, a contare solo su se stessi e sui popoli anelanti alla libertà: « Fidate soltanto nel vostro valore, nelle vostre armi, nella vostra concordia. E fidate nei popoli che, come voi, vogliono la libertà e combattono per ottenerla. Tutte le nazioni sono sorelle; esse non hanno cupidigie, ambizioni liberticide: ciascuna vuole la sua parte di terra, di sole, ciascuna aiuterà le altre ad ottenerla. E' dovere dei popoli liberi, e che vogliono essere tali, di accorrere dovunque si combatte per i diritti delle nazioni, dovunque si innalza la bandiera della libertà )>. Era un invito esplicito a dare una mano ai Serbi e ai Montenegrini, ma - soprattutto - ad accogliere con favore eventuall (87) A. Marcu, Cospiratorii si conspiratii in epoca renasterei politice a Rom1niei, Bucarest, 1930, p. 305.


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interventi garibaldini nei Balcani. E come nessuno si muove, il 23 agosto 1862 Garibaldi da Palermo e sempre sul «Diritto» tuona verso i Magiari, chiedendo: « Che fa l'Ungheria ... dorme dunque e per sempre? Fratelli ungheresi! la rivoluzione è ai vostri confini. Aguzzate lo sguardo e sulle mura di Belgrado vedrete sventolare la bandiera della libertà... Imitate la Sel'bia e il Montenegro; imitate chi sta già per riaccendere in Europa il fuoco della rivoluzione» (88). (E naturalmente Marcello Cerruti, ministro residente a Costantinopoli, aveva avuto il suo da fare nel placare gli allarmi del governo turco circa i progetti di Garibaldi di « una discesa sulle coste turche dell'Adriatico») (89). E come l'agitazione nei Balcani continua, così Garibaldi insiste ancora in una lettera al « Comitato della emigrazione slava meridionale» (dove forse il croato Kvaternik ha un ruolo di rilievo) per esortare all'unione: « Ormai non si tratta di conquistare circoscritta nazionalità, no, è tempo che tutti i popoli scendano in campo per la santa causa della libertà universale ». Poiché Garibaldi ripete tale esortazione in termini alla lettera identici, sia nel luglio del 1863, sia il 10 maggio 1865, vi è da supporre che egli sia stato messo ben al corrente, a Caprera, delle tensioni molto aspre che dividevano quella che egli chiama « emigrazione slava meridionale », vale a dire Kvaternik e Tkalac (90 ). Per stima del valore guerriero degli Ungheresi, suoi compagni d'armi coi Mille e poi rimasti in Italia ben organizzati e pronti a muoversi con una loro « Legione », Garibaldi sente che il vero sostegno di un futuro impegno militare centro-europeo contro l'Austria sono soprattutto loro. Per questo, all'esortazione di trovare vie di collaborazione con Serbi e Croati, e infine Romeni, Garibaldi aggiunge - dicevamo - la ricerca di soluzioni politiche o quanto meno l'appoggio a esse. Giusto fra il 1858 e il 1862, idee per dare vita a una confederazione danubiano-balcanica si fanno strada con insistenza. Esse, con matrice mazziniana o legate alle idee espresse dalla « scuola » slavofila franco-polacca di Cyprien Robert, di Ernest Charrière, Hippolyte Desprez ecc., tendono essenzialmente a due obbiettivi: mantenere un legame organico e di collaborazione fra i popoli danu(88) G. Garibaldi, Scritti e discorsi, cit., ed. naz., vol. II, pp. 124-125; 128-131.

(89) I Documenti diplomatici italiani, cit., voi. II, pp. 71-72. (90) G. Garibaldi, Scritti e discorsi, cit., ed. naz., vo1. II, pp. 166, 203, 254 .


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biano-balcanici sostituendo la cornice dinastica asburgica; evitare che in questa parte dell'Europa si determini una sorta di vuoto di potere, tale da favorire l'espansione della Russia zarista. Da queste esigenze nasce così il Programme d'une Confédération du Danube datato da Torino il 15 aprile 1862 e firmato dai Magiari gen. Klapka e Francesco Pulszky. Elaborato dallo stesso Kossuth e dall'italiano Mare'Antonio Canini, tale Confederazione doveva « remplacer l'Empire d'Autriche », rispettando l'autonomia di ogni singolo paese: la sua unità doveva esprimersi attraverso l'organizzazione della difesa, la rappresentanza verso l'estero, la moneta, le comunicazioni, gli organi federali, costituiti da un Consiglio esecutivo e da un Parlamento bicamerale (91). Anche se questo progetto, per la sua chiara origine ungherese, appariva piuttosto un mezzo per assicurare ai Magiari il predominio in una futura confederazione danubiana, tuttavia Garibaldi non esita a dargli il suo appoggio: l'accordo fra le nazionalità danubiano-balcaniche era un bene troppo prezioso perché non si ricercassero le vie di una intesa. Più tardi, in presenza di un protocollo di collaborazione politico-militare fra rivoluzionari ungheresi e patrioti romeni (concluso a Ginevra il 10 settembre 1865), la sua difficile applicazione quanto al deposito e al passaggio di armi e al transito di insorti magiari esige l'autorevole intervento di Garibaldi. Per questo uno dei firmatari, il conte Csaky fa giungere al generale la preghiera di ottenere dai capi più accesi dei Principati adeguate pressioni per superare l'ostilità dei Romeni di Transilvania nei confronti degli Ungheresi, ma senza risultato. Cosl, dissidi nazionali e nazionalistici (che esploderanno di ll a qualche decennio e che Garibaldi per sua fortuna non arriverà a vedere), difficoltà operative insormontabili dal punto di vista militare e, infine, l'appoggio sempre più tiepido del Governo che con la sua diplomazia ha in mano tutti gli elementi della situazione, tutto questo, nella calda estate del 1866, finisce col mettere la parola fine alle attese di uno sbarco garibaldino e relativa insurrezione. In tutta questa lunga e complessa vicenda di iniziative e di rapporti politico-cospirativi in vista di un'azione militare in lidi

(91) A Tamborra, Cavour e i Balcani, cit., pp. 347-76; L. Pasztor, La confederazione danubiana nel . pensiero degli italiani ed ungheresi nel Risorgimento, Roma 1949, ,passim.


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lontani, è storicamente privo di senso isolare Garibaldi dal contesto della politica generale del Regno subalpino, poi d'Italia. All'epoca di Cavour, prima, con i suoi successori, dopo, sempre con Vittorio Emanuele, slancio garibaldino - dal basso - e iniziativa regia e governativa - dall'alto - sono intrecciati e commisti in modo inestricabile. Non si possono distinguere, né l'una o l'altra sottovalutare: formano un tutto unico . Di questa realtà si erano ben resi conto gli esponenti delle varie emigrazioni centroeuropee che, dopo la « benedizione » di Garibaldi, da Caprera si recavano a Torino per ottenere aiuti finanziari e stendere concreti piani militari. Se n'era accorto anche un attento e partecipe osservatore delle cose italiane, il ministro di S.M. britannica a Torino Sir James Hudson, che il 10 agosto 1862 invitava il suo ministro degli Esteri, Lord John Russell, a considerare che « there has allways been a secret understanding between the King and Garibaldi and between the King and to a certain extent the Emperor of the French » .. . ; « These three have been playing a revolutionary game». (Public Record Office, Londra R.O. 519/194). Tutto questo sArà confermato da Elliot, successore di Hudson, nel 1864. Anche sul piano umano, del resto, passando sopra le teste di Cavour o Ricasoli, di Rattazzi, Lamarmora o Visconti Venosta ecc., una piena consonanza, stima e simpatia legano il rude sovrano che si sentiva a suo agio solo in montagna o fra i soldati, e il marinaio nizzardo rivelatosi autentico capo militare. Ne ebbero a fare le spese nel novembre del 1860 quei generali primi fra tutti Manfredo Fanti e E. Morozzo della Rocca, che in un ordine del giorno alle truppe non avevano adeguatamente esaltato i meriti di Garibaldi e di quello che era diventato l'Esercito meridionale. Una memorabile sfuriata di Vittorio Emanuele risonò in Palazzo reale, a Napoli, la sera dell' ll novembre 1860 e fu subito riferita in cifra a Cavour da Luigi Carlo Farini, Commissario regio, il mattino successivo: Hier "Soir le Roi était trés ému et trés irrité contre ses généraux. En ma présence il a di t des choses dures au général della Rocca; avec moi il a fait une tirade, en disant que ses généraux voulaient lui imposer des actes d 'ingratitude et impolitiques contre ceux qui s'étaient hattus pour l'Italie; qu'il était le Roi d'ltalie, le chef mi1itaire de tous les braves ltaliens et qu'il n'entendait pas etre le Roi du seul 'Piémont, ni le chef d'une Cour militaire. «


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J'ai taché de calmer cette tempete en faisant faire d'accord avec le général della Rocca quelques corrections dans l'ordre du jour que Fanti avait préparé. Maintenant - conclude il Farini - je vous prie ainsi que tous vos collègues de prendre sur les volontaires des délibérations équitables qui contentent le Roi. Le moment est solenne!, il est supérieur à toutes les conventions. Il serait fort à désirer que le routine s'incline devant la raison d'état ». (ASME, Roma, Registre des pièces déchiffrées du 8 octobre au 31 décembre 1860 n. 26, telegramma n. 1412).



III. FEDELTA' ALLA POLONIA« CROCIFISSA» E ALLA FRANCIA DEGLI « IMMORTALI PRINCIPI»

Alla fine del 1859 - nel seguire una lunga tradizione di contatti tenuta in vita dall'emigrazione polacca, specie quella di parte « democratica » con Mazzini e col movimento garibaldino Giuseppe Garibaldi si era lasciato andare a una promessa esplosiva, più volte riconfermata anche ad altri. In un colloquio con Ladislao Mickiewicz - figlio del grande patriota e poeta romantico polacco Adam Mickiewicz - gli aveva dichiarato senza mezzi termini: Noi Italiani ci gettiamo sull'Austria per portarle via la Venezia. Che i Polacchi ci aiutino e noi da Venezia marciamo più lontano; insieme a voi arriveremo in Polonia perché si avvicina il tempo in cui ciascuna nazione non sarà sicura della sua indipendenza, qualora un'altra nazione gema nella schiavitù (92).

Queste promesse dovevano avere sollevato entusiasmo e speranze non solo fra i Polacchi ma fra tutte le emigrazioni centroeuropee. E non pochi di questi emigrati si erano presentati fra le file dell'esercito garibaldino lungo tutto lo svolgimento dell'impresa meridionale. A distanza di un anno, ben consapevole di avere un debito di rkonoscenza da saldare con la Nazione polacca che dal 1848 al 1860 aveva mandato tanti suoi figli a combattere al suo fianco, Garibaldi sin dall'ottobre del 1860 aveva esortato a più riprese il generale Mierosfawski a dedicarsi attivamente alla preparazione militare dei non pochi connazionali presenti in Italia. Così il 5 e 19 ottobre 1860

(92) Wl. Mickiewicz, Emigracja Polska (1860-1890) (L'emigrazione polacca), Cracovia, 1908, p. 12.


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lo esortava a creare una sorta di Legione internazionale, cui doveva partecipare un forte contingente polacco. L'invito doveva essere stato prontamente accolto se il 12 novembre 1860 l'organo ufficiale della « democrazia » polacca « Przegl:id Rzeczy Polskich » (Rassegna degli affari polacchi), stampato a Parigi, pubblicava con notevole rilievo la notizia che il gen. Mieroslawski si sarebbe trasferito a Napoli per assumere il comando di tale « Legione »: compito di questa unità doveva essere quello di prendere parte a una nuova campagna di guerra che dopo la liberazione dell'intera Italia avrebbe redento tutte le nazionalità oppresse dell'Europa centro-orientale. Per la verità si trattava di intenzioni, di prospettive senza un seguito concreto, se Garibaldi il 26 gennaio e di nuovo il 4 maggio 1861 insisteva ancora con Mieroslawski perché perseverasse « dans l'idée de ces deux instructions au sujet d'une 1égion étrangère; de manière qu'au jour inévitab1e où éclatera de nouveau la guerre d'af. franchissement, tous les éléments de cette légion internationale se trouvent sous sa main » (93 ). Questo costante impegno di Garibaldi era rivolto a tener pronto, insieme ai Polacchi, l'intero fronte nazionale europeo, e partiva dal presupposto - maturo nella sua mente sin dalla fine del 1859 che una guerra all'Austria per il Veneto dovesse estendersi ai territori polacchi. Senonché questa guerra avrebbe coinvolto, necessariamente, anche le altre Potenze partitrici - Russia e Prussia in un grande incendio rivoluzionario e nazionale europeo: da esso, secondo quella linea di illusioni che alimentava la «grande» emigrazione polacca soprattutto di parte democratica dopo la fallita insurrezione del 1830-31, sarebbe uscita una Polonia libera e indipendente. Garibaldi nel collegare anch'egli la « questione » italiana ai problemi nazionali della media Europa, alimentava e faceva proprie queste illusioni di emigrati, prive di qualsiasi fondamento e non legate a una conoscenza seria e realistica dei rapporti di forza internazionali. Ma egli era in buona compagnia in questo orientamento, se Cavour e lo stesso Vittorio Emanuele - certo con maggiore souplesse, derivante dalla diversa posizione - non mancano di considerare i Polacchi quali forze preziose da tenere sotto mano. In un colloquio con Mierosfawski, a Torino, ai primi di novembre del 1860, Cavour tiene a escludere che « per il momento » si possa pensare

(93) A. Lewak, Cnrri.rpondem:.a polacca di G . Garibaldi, Cracovia, 1932, p. 90.


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a una Legione straniera; ma insieme sottolinea con convinzione che la Polonia è la chiave della questione europea e la sua forza, non la sua debolezza, è necessaria all'Italia: « non mascheratevi; al momento opportuno noi acc~tteremo la vostra alleanza massicciamente e senza ambagi. In definitiva, i rivoluzionari polacchi sono una forza, e una forza legittima. Bisognerà pure che presto o tardi ci si serva di essa», anche se per il momento non ne valga la pena né per gli Italiani, né per loro stessi. E in senso analogo, ma con maggiori riserve si esprimerà pochi giorni dopo, a Napoli, Vittorio Emanuele (94). La verità è che negli ultimi anni la stessa emigrazione polacca vede mutare il centro di gravità della sua azione politica e cospirativa. Nata all'indomani della rivoluzione del 1830-31, essa era rimasta sempre profondamente lacerata, riproducendo all'esterno le stesse divisioni politiche e sociali dell'interno del paese che aveva lasciato alle spalle: la parte conservatrice, riconosceva come capo indiscusso il principe Adam Czartoryski (già ministro degli Esteri dello zar Alessandro I e protagonista politico di maggiore spicco della rivoluzione del '30-'31); secondo l'indirizzo da lui segnato puntava sulle grandi Potenze, Francia e Inghilterra, per far rivivere la Polonia, mantenendo in vita una « questione » polacca con una attività diplomatico-cospirativa; la corrente democratica, o diremmo oggi di sinistra, con la Società democratica polacca sorta nel 1834 con a capo il poeta Adam Mickiewicz, lo storico J. Lelewel, il gen. L. Mieroslawski ecc. - in stretto contatto con Mazzini, poi con Garibaldi - manterrà sino all'ultimo la fede nella guerra di popolo, nell'impegno insurrezionale, da collegare a più vaste crisi europee. Pur unita negli spiriti e nell'intendimento ultimo di far risorgere dal « sepolcro » la Polonia, « Cristo delle Nazioni », « crocifissa» dalle spartizioni (come era stata esaltata da Adam Mickiewicz giusto nel 1848), « il malefizio dell'emigrazione era cosl grande che ogni gruppo, partito o corrente nel paese seguiva umilmente le direttive gli uni di Czartoryski, gli altri di Mieroslawski. Entrambi ritenevano di rappresentare all'estero la Polonia» (95). Ora, dopo la crisi d'Oriente e il Congresso di Parigi del 1853-56, che erano stati l'ultima occasione del Czartoryski per impostare di{94) A. Lewak, Corrispondenza polacca di G. Garibaldi, cit., p. 61. L. Mieroslawski a J. Wysocki, lettera riassunta da S. Kicniewicz, L'ltalie et l'insu"ection polonaise de 1863, Varsavia, 1975, p. 6. (95) Wl. Mickiewicz, Emigracia polska 1860-1890, cit., pp. 6 e 9.


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plomaticamente una « questione » polacca, l'influenza del principe si era venuta affievolendo, anche per il peso dell'età; insieme, dopo tante disillusioni e non pochi errori, era vc;nuta meno nelle coscienze ogni fiducia nella possibilità di veder ricostituita la Polonia con l'aiuto della Francia e dell'Inghilterra. Quando il 14 luglio 1861, il giorno prima di morire a Montfermeil in Francia, a 93 anni, Czartoryski inviava all'emigrazione che l'aveva seguito un messaggio - che era anche il suo testamento politico - affidando al figlio Ladislao il compito di proseguire l'opera, il distacco delle masse dai suoi ideali era ormai un fatto compiuto. Nel messaggio si diceva che fossero compiti dell'emigrazione quelli di adempiere alle funzioni del paese, di « difendere il diritto nazionale dinanzi all'opinione e at governi d'Europa e insieme stabilire e sviluppare con tutti gli Stati relazioni tali cui la Polonia potesse ricorrere, impegnandoli loro malgrado ... ». Ma ormai la corrente che emerge a11a ribalta con maggiore peso e rivendica la guida dell'emigrazione, quella democratica, non si accontenta più di semplici contatti diplomatici o di influenze sulla pubblica opinione. Soprattutto essa sente che con la guerra del '59 in Italia, con l'impresa garibaldina e poi le annessioni, si viene allontanando la prospettiva di una conflagrazione generale europea, dalle cui fiamme la Polonia potesse sorgere a nuova vita. L'incontro di Stoccarda fra Napoleone III e Alessandro II, sin dal settembre 1857 aveva gettato le basi di una intesa fra la Russia e la Francia, destinata a durare. L'incontro di Varsavia del 22 settembre 1860 fra i sovrani russo, austriaco e prussiano aveva dato conferma alla solidità dell'intesa tra Francia e Russia, poiché Francesco Giuseppe era stato distolto proprio da Alessandro II dall'idea di un intervento in Italia, necessariamente antifrancese e implicante una solidarietà russo-austriaca. Di questo si era ben accorto lo stesso Czartoryski che, per avere invitato l'imperatore Napoleone a prendere sotto la sua protezione i Bulgari cattolici recentemente convertiti, per sottrarli alla pressione della Russia, si era sentito rispondere: « Je ne le puis, mon Prince, pour ne pas offenser la Russie. C'est la seule puissance qui m'est favorable. C'est elle qui a empeohé à Varsovie qu'une coalition ne se forme contre la France » {96). In queste condizioni generali europee, per questa evoluzione della politica francese che cercava di mantenere ormai una stretta (96) Cfr. A. Tamborra, Cavour e i Balcani, cit., .p. 326; Wl Mickiiewi.cz, op. cit. p. 9.


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intesa con la Russia, l'emigrazione polacca come poteva avere fiducia :iell'appoggio delle Potenze, in una lotta che toccava principalmente la Russia, oltre che l'Austria e la Prussia? Ecco dunque nascere nell'emigrazione polacca - e quindi nello stesso paese - il distacco dai metodi del principe Czartoryski e farsi strada l'idea di una insurrezione. Chi si fa avanti in questo orientamento e intende prendere in mano le redini dell'emigrazione polacca è soprattutto il generale Mieroslawski. Sin dal 1859, secondo l'ammonimento formulato in un proclama in occasione del 29° anniversario dell'insurrezione del 1830, che concludeva col motto « Popolo svegliati» (Narodzie przebudz siç), egli aveva preso a indirizzare la sua azione verso tre obiettivi principali: 1 ) riscaldare le masse del popolo e renderle mature per uno sforzo rivoluzionario; 2) « riunire i mezzi finanziari per l 'insurrezione ... »; 3) « creare all'estero i primi quadri militari dell'insurrezione» (97). In questo spirito e con tali propositi nel <licembre 1860 era sorta a Parigi una scuola per istruttori, sotto forma di esternato, nella quale si tenevano regolari corsi militari. Successivamente, a seguito di una circolare di Mieroslawski, pubblicata a Genova il 10 gennaio 1861, sulla ricerca di fondi per la creazione di scuole militari, corsi di regolamenti militari, sulle armi e relative esercitazioni pratiche si cominciarono a tenere un po' dovunque, là dove avevano trovato da vivere i maggiori nuclei di emigrati polacchi: a Parigi, in Svizzera, nel Belgio, in Italia e persino in Germania. Tuttavia queste specie di scuole, non sostenute dal principe Czartoryski e che si mantenevano con oblazioni di comitati locali, ebbero vita grama. La vittoriosa conclusione dell'impresa dei Mille e l'esigenza, per Cavour, di non avere preoccupazioni internazionali con la Russia e la Prussia a proposito dei Polacchi, fornirono inaspettatamente al gen. Mieroslawski l'occasione per avere a disposizione dei mezzi finanziari con i quali mettere in piedi una scuola militare regolare.

(97) Pami~tniki Mieslawskiego (1861-1863), (Ricordi di Mieroslawski) pubbl. da J&ef Freilich, Varsavia, 1924, p. 5.


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Nel quadro delle conversazioni e dei contatti per la sistemazione dell'esercito garibaldino, un problema delicato era quello degli emigrati polacchi e magiari che avevano valorosamente combattuto e la cui situazione personale andava risolta: con dignità, sul piano umano, ma anche con fermezza e tenuto conto delle nuove esigenze del paese, sul piano politico. Per quanto riguarda i Polacchi, particolarmente delicate furono le trattative col generale Mieroslawski. A questi Cavour, in cambio del suo allontanamento dall'Italia, aveva proposto l'attribuzione del grado di generale dell'esercito italiano ed una pensione, quale riconoscimento dei meriti acquistati sin dal 1848. In presenza di questa offerta il gen. Mieroslawski propose a Cavour di devolvere questa somma a favore di scuole per allievi ufficiali polacchi, da istituirsi in Italia. Le trattative, lunghe e delicate, giunsero a conclusione poco prima della morte di Cavour, grazie soprattutto alla mediazione di Alessandro Bixio, fratello di Nino, ed i termini dell'intesa furono i seguenti: il gen. Mieroslawski avrebbe ricevuto per tre anni un assegno personale di 3 .000 franchi al mese sui fondi segreti, col tacito consenso di creare in Italia una scuola militare polacca; l'impegno di Mieroslawski era che « sotto la propria responsabilità personale e a proprio rischio questa scuola dovesse rimanere nei più stretti limiti di una scuola militare in tempo di pace » (98). Naturalmente, noterà più tardi il Mieroslawski, la rinuncia sua a una situazione personale di notevole peso economico era formulata per iscritto, mentre « l'impegno del ministro era segreto e verbale »: segno certo eccezionale della grandissima fiducia degli esuli polacchi nella parola e nella generosità del conte di Cavour, il quale d'altra parte - secondo quella politica su due piani, anche di stretto collegamento con l'Europa sotterranea delle rivoluzioni - non intendeva lasciar perdere forze che domani avrebbero potuto servire, in occasione di una futura guerra all'Austria. I suoi successori la continueranno, mantenendo la parola data. Certo la situazione che si veniva a creare era estremamente delicata per tutte e due le parti perché qualsiasi indiscrezione avrebbe segnato la fine del lavorìo dei Polacchi su territorio italiano, tacitamente consentito da Cavour, esponendo . il Governo di Torino a notevoli rischi e a serie diffidenze sul piano internazionale. Ottenuti dunque i fondi, il movimento garibaldino si presentava come il naturale alveo politico-militare in cui la Scuola dei (98) L. Mieroslaw5lci, op. cit., pp. 6-7.


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cadetti polacchi poteva inserirsi, senza che una diretta responsabilità potesse coinvolgere il Governo. Sarà, questa, una pura illusione destinata a scomparire di fronte alle prime difficoltà soprattutto internazionali, ma per il momento si cominciò ad agire in questo quadro e con queste prospettive. Mentre si conducevano a termine le trattative con Cavour, analoghi accordi venivano conclusi fra il gen_ Mieroslawski e Giuseppe Garibaldi (e controfirmati dal gen. Wysocki, a nome del Comitato polacco di Parigi) perché la Scuola militare di Parigi fosse trasferita a Genova: il 23 febbraio 1861 con quanta opportunità e segretezza si può immaginare - fu stampato e pubblicato a Parigi un « invito» , a firma del Mieroslawski e di Wysocki, « alla sottoscrizione per il trasferimento della Scuola degli Istruttori polacchi da Parigi a Genova ». Quali i motivi perché si scegliesse proprio Genova a sede della futura Scuola militare polacca? « Genova, una delle città più rivoluzionarie d 'Italia, ricorderà più tardi Ladislao Mickievicz, sembrò perciò essere la più opportuna». In questa città era stato costituito un Comitato per gli aiuti agli esuli polacchi, sotto la presidenza dello stesso Garibaldi e la vicepresidenza del medico siciliano e garibaldino Daniele Occhipinti (99). Soprattutto, nella scelta di Genova non doveva essere stata estranea la considerazione che da questo porto, grazie al commercio dei grani, vi erano comunicazioni regolari e dirette con Costantinopoli ed il Basso Danubio, territori di elezione per gli intrighi rivoluzionari polacchi sin da prima del '48 e da cui facile era l'accesso verso la Galizia e la stessa Polonia russa: da Genova i quadri di una futura insurrezione avrebbero potuto raggiungere la Polonia nel modo più facile e relativamente inosservato. Una battuta d'arresto, anche in questi disegni, è rappresentata dalla morte di Cavour e dalla salita al potere di Bettino Ricasoli. Il carattere dell'uomo, l'esigenza di consolidare i risultati raggiunti con lo sforzo unitario, la preoccupazione di « rientrare » nella legalità internazionale facendo accettare dalle Potenze la nuova realtà del regno d'Italia, tutto finiva per rendere più difficile la vita e l'attività dei Polacchi su suolo italiano. Non che essi fossero meno accetti o si sentisse meno, in Italia, la necessità di veder ricostituita la Polonia. Solo ci si preoccupa, molto più che all'epoca di Cavour, di salvare le apparenze e impedire possibili interventi e levate (99) Wl. Mickiewicz, Pami,;tniki (Ricordi), tom II, 1862-63, Cracovia, 1927, p. 202.


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di scudi delle Potenze partitrici Russia e Prussia, sempre messe in guardia dall'Austria. Destava inoltre preoccupazione il collegamento con Garibaldi, l'inserimento anzi dei Polacchi nella corrente garibaldina: se i garibaldini avevano finito per entrare - sl e no nella norma e nella legalità, accolti in parte nell'esercito regio, la presenza organizzata dei Polacchi, stretti intorno al gen. Mieroslawski, anch'egli come molti dei suoi « garibaldino », faceva pensare al perpetuarsi di una situazione anormale anche all'interno del giovane Regno. Per queste considerazioni generali e particolari si comprende dunque come il Presidente del Consiglio Bettino Rkasoli, pur confermando che « le simpatie » di Cavour « per i nobili figli della Polonia » erano da lui condivise, tenne a sottolineare che intendeva « osservare le stesse norme di politica prudenza » del suo predecessore, mantenendo « verso gli emigrati polacchi la stessa sua riserva» (100). Al Mieros!awski stesso egli fu ancora più esplicito, anzi brutale, nel metterlo in guardia circa le conseguenze di possibili indiscrezioni o atti avventati: « J'ai l'honneur de vous déclarer loyalement, - gli scrisse più o meno nello stesso periodo - monsieur le Général, que je ne manquerai aucune occasion de vous prendre en faute; c'est à votre patriotisme polonais de ne pas vous y mettre; veuillez lire et relire notre mattre à tous, man concitadin Machiavel » (101). Per queste preoccupazioni da parte degli uomini responsabili italiani, per le stesse difficoltà materiali di sostentamento, la vita della scuola, che nel novembre del 1861 contava già settanta allievi, non si presentava facile. Particolarmente attenta poi era la vigilanza del console russo a Genova che, se sono vere le accuse astiose di Mieroslawski, riceveva informazioni da un certo Stokowski, affiliato al Comitato di assistenza diretto dall'Occhipinti. Si creò poi presto una seria frattura fra il Comitato di assistenza e il Mieroslawski, tanto che Garibaldi prima intervenne nel rendere indipendente l'Occhipinti dal generale polacco e poi il 15 novembre 1861 tornò a investirlo di tutte le questioni riguardanti l'emigrazione polacca. Ma a rendere difficile la vita della Scuola erano (100) Ricasoli a Nigra (che da Parigi gli aveva rimesso nua richiesta di Mieroslawski), 31 agosto 1861 in I Documenti diplomatici italiani, cit., a cura di W. Maturi, vol. I , p. 348. (101) L. Mieruslawl·ki, up. ciL., p . 21.


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i dissensi interni fra i capi dell'emigrazione. Accuse esplicite contro Mieroslawski giungevano ad affermare che questi non godeva « d'aucune considération dans le pays ni dans l'émigration polonaise»: esse partivano addirittura dal generale Rybinski, già comandante in capo dell'esercito polacco durante l'insurrezione del 1831. A Garibaldi non rimase altro che esortare Rybinski e tutta l'emigrazione polacca a superare i dissidi personali perché domani una futura insurrezione potesse trovare i Polacchi tutti uniti (102). Certo, per la Scuola militare polacca l'aria doveva essere divenuta irrespirabile, proprio per questi contrasti, mentre non poche erano le preoccupazioni del Governo italiano soprattutto rispetto alla Russia, dalla quale si ambiva il riconoscimento di Vittorio Emanuele come re d'Italia. Mieroslawski come carattere e per le sue oscillazioni di umore, per le posizioni estremiste e per la singolare capacità di « attizzare dei litigi fra i suoi collaboratori », finì per essere inviso sia ai Polacchi, sia a Garibaldi e al governo italiano, ecl anche al principe Girolamo Napoleone. Bisognava dunque liberare la Scuola dalla sua influenza e insieme trovarle una sede che non desse troppo nell'occhio. Poiché lo stesso Mieroslawski aveva fatto il nome del principe Marceli Lubomirski - gran signore, ben conosciuto da Vittorio Emanuele e che aveva assunto la cittadinanza italiana - col segreto proposito di dominare ancora la situazione, il presidente del Consiglio Rattazzi, appena salito al potere e poco al corrente delle beghe interne dell'emigrazione polacca finì per accogliere la designazione (103): a capo della scuola veniva messo un civile e, almeno in apparenza, vi erano minori possibilità di intervento di Prussia e Russia nella questione. Frattanto, mentre Mieroslawski il 19 marzo 1862 indirizzava una lettera ai giovani della Scuola per invitarli ad accettare la direzione del principe Luhomirski, il 20 marzo giungeva a Torino, da

(102) Rybinski a Garibaldi, 28 ottobre 1861 e risposta di Garibaldi, da Caprera, 15 novembre 1861, in Cmrispondenza polacca, cit., pp. 9497. Cfr. anche K. Morawski, Polacy i sprawa polska w dzieiach Italii w latach 1830-1866 {I Polacchi e la questione polacca nella storia d'Italia negli anni 1830-1866), Varsavia, 1937, pp. 155-162. {103) « Caro principe, vorrei pregarla di assumere la direzione della Scuola po, lacca dalla quale il gen. Mieroslawski volentieri si ritira. Soprattutto raccomando che questa scuola, particolarmente destinata alle scienze militari, rimanga al di fuori dei partiti dell'emigrazione polacca, non porti nessun colore politico e possa quanto prima essere trasferita da Genova in altra città» (riprodotta, in traduzione polacca, da Wl. Mickiewicz iP Emigracia polska, cit., p. 17).


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Parigi, il generale Wysocki, designato dal Comitato centrale polacco di Parigi per assumere il comando della Scuola. Si ebbero quindi vari colloqui fra Rattazzi, Wysocki, il principe Lubomirski: Wysocki si incontrò con il generale Klapka, con Garibaldi, con Mauro Macchi, con l'avvocato Cabella, di Genova, amico di Rattazzi e corrii:pondente della polacca « Espérance » . In tutta questa situazione ingarbugliata, tipica di tutte le emigrazioni, Rattazzi tagliò corto dicendo: « Arrivate ad un accordo, con esso venite da me ed io lo approvo ». A far pendere l'ago della bilancia verso il generale Wysocki pensarono gli stessi allievi della Scuola che inviarono un messaggio a Garibaldi, col quale comunicavano di aver eletto quale loro comandante il gen. Wysocki; Garibaldi, da parte sua, si affrettò a scrivere a Rattazzi, approvando la designazione: « Sono un democratico troppo sincero, per non accogliere prontamente il risultato di una libera elezione ». Dopo altre difficoltà e nuovi intrighi di Mieroslawski, la ferma decisione dei giovani di lasciare la Scuola, ove la situazione non fosse chiarita, fece tagliare corto a tutte le incertezze: Mieroslawski fece le consegne della Scuola al principe Lubomirski, questi le trasmise al gen. Wysocki e così , grazie anche alla mediazione di Garibaldi, del col. Frapolli, del gen. Klapka, di Mauro Macchi tutto fu sistemato. La Scuola trovò così la sua definitiva direzione con il gen. Wysocki quale comandante e direttore degli studi, il principe Marceli Lubomirski quale presidente onorario, incaricato di mantenere i rapporti con il governo italiano, mentre due Italiani, col titolo di vice presidenti onorari, l'ing. Valerio (fratello di Lorenzo, allora prefetto di Como) e Nino Bixio, dovevano essere i controllori, cioè offrire le migliori garanzie circa l'uso dei fondi dati da] governo (104). Infine, sin dal marzo, a motivo di tutte queste beghe che avevano richiamato l'attenzione verso la Scuola di Genova anche sulla stampa, Rattazzi aveva deciso di trasferirla in località più interna, in modo che essa desse nell'occhio e facesse parlare di sè il meno possibile. Come sede fu scelta Cuneo dove « i cento figli della Polonia - bei ragazzi di tratto signorile, forniti d'elegante divisa dall'originale berretto piatto quadrato giunsero il 26 aprile 1862, e presero stanza nei locali che il Municipio, in seguito a disposizione del ministro dell'interno, aveva allestito nell'ex-convento di San Francesco». Le accoglienze di Cuneo furono partico(104) Per tutti questi svolgimenti vedi: Wl. Mickiewicz, Pamiçtniki, eit., pp. 204220; Td ., Emigracja polska, cit., pp. 17-20.


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larmente calorose, il giornale locale « La Sentinella delle Alpi » pubblicò un saluto a nome della popolazione cuneese « ben lieta di ricevere sotto il suo cielo i discendenti di quel Kosciuszko intorno alla wi tomba il genio della libertà veglia continuamente» (105). Le questioni interne dell'emigrazione pola<:ca avevano appena trovato un sia pur parziale componimento e la Scuola militare polacca, estremamente disciplinata, aveva da poco ripreso il suo ritmo di addestramento regolare, quando nel giugno era arrivata a Torino, tramite Parigi, la richiesta di chiusura, come condizione per la Russia al riconoscimento del regno d'Italia. Ormai consolidata e con la prospettiva che da essa uscissero i quadri di una futura insurrezione, questa era una eventualità che, nel rivelare a chiare lettere la connivenza esplicita del governo italiano, la Russia non poteva evidentemente ammettere. « La rivoluzione italiana non deve attraversare le Alpi; questo è un interesse europeo e, insieme, specificamente russo. Gli intrighi di Mieroslawski non devono godere della protetezione di un governo, che la Russia ha intenzione di riconoscere », ebbe a dichiarare esplicitamente il principe Gorcakov ancora alla fine di giugno (106). Da parte sua, il Governo italiano, appena il 13 giugno ha comunicazione da Parigi .del desiderio espresso dalla Russia, subito dà l'assicurazione formale di voler compiere i primi passi per Ja chiusura della Scuola militare polacca , cercando di « concilier les desirs de la Russie avec les égards dus aux infortunés politiques »: tale istituzione sarà sciolta « vers le commencement de juillet, époque de la clòture des cours et ne sera plus réouverte » (107). Difatti la Scuola militare polacca (che con i suoi allievi aveva preso parte, applauditissima, alla rivista del 2 giugno per la ricorrenza dello Statuto) fu chiusa il 26 giugno. Il 19 giugno 1862 il Presidente Rattazzi fece pervenire al generale Wysocki una lettera di cui lo pregava di sciogliere la Scuola polacca di Cuneo, « afin d'éviter au gouvernement du roi des embarras d'un genre et d'une difficulté diplomatique ». Il gen. Wysocki che era stato messo al corrente a voce della situazione ormai maturatasi, si affrettò ad

(105) C. Fresia, Cuneo dei tempi andati, Cuneo, 1927, p. 158. (106) Die auswiirtige Politik Preussens (1858-1871), Berlino 1945, vol. II, 2, p. 677 nota. (107) I Documenti diplomatici italiani, cit., vol. li, Durando a Nigra, 13 e 16 giugno 1862, pp. 440, 443.


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assicurare il 23 giugno che la Scuola sarebbe stata sciolta il giorno 26 e che le armi sarebbero state consegnate alle autorità militari locali; non mancò tuttavia di esprimere la sua viva riconoscenza al governo italiano, anche se velata dall'amarezza: « Je ne puis d'une part vous cachet mon regret d'etre obligé de supprimer un établissement aussi util à mon pays, d'une autre part il m'est agréable de vous annoncer que la triste nouvelle de votre décision étant parvenue à Cuneo, notre jeune émigration l'a reçue avec cette digne résignation que lui a inspiré son patriotisme et la reconnaissance pour l'hospitalité et la bienveillance qui ont jusqu'au dernier jour si bien caractérisé les sentiments du gouvernement du roi envers nous» (108). Più toccante e patetica fu la lettera inviata dal gen. Wysocki a Garibaldi il 24 giugno 1862, nella quale dal fondo dell'amarezza ( ... « poveri paria dobbiamo altrove cercare un rifugio ... ») ci si eleva alla fede nell'avvenire non lontano, quando « la vera diplomazia sarà costretta a disdegnare le vuote trattative e a risolvere coi colpi dei cannoni tutte le questioni che richiedono un rapido scioglimento, allora la Polonia e l'Italia lotteranno a fianco a fianco, su un solo campo di battaglia» (109). La Scuola, tuttavia, non chiuse i battenti, perché - sempre nell'ambito del movimento garibaldino - fu affidata alla Legione magiara per la formazione dei suoi quadri combattenti. Ormai, salvo le ultime pendenze amministrative, il sipario stava rapidamente calando su questa importante attività militare del1'emigrazione polacca su suolo italiano, anch'essa sorta sul vigoroso tronco garibaldino. Il 30 giugno Torino poteva assicurare Parigi e, per suo tramite, Pietroburgo, che la Scuola militare era stata chiusa e che degli 80 allievi sui circa 200 che compirono i corsi, la maggioranza si sarebbe diretta in Inghilterra, 13 rimanevano in Italia come rifugiati e 4 entravano in scuole militari italiane. In realtà, alcuni proseguiranno per Costantinopoli, per potere essere pronti all'appello della patria in caso di insurrezione, e tutti o quasi tutti prenderanno parte, infatti, alla grande rivoluzione del 1863-64: « quando l'insurrezione scoppiò ricorderà Wl. Mickiewicz -

(108) « L'Opinion nationale », 1° .luglio 1862; Wl. Mickiewicz, Pamirtniki, cit., pp. 221, 222.

(109) Corrispondenza polacca, cit., p. 98; glio 1862.

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gli allievi di Cuneo terminarono la loro preparazione in Patria, e molti di loro trovarono morte gloriosa» (110). Pochi giorni più tardi, 1'8 luglio la Russia dava comunicazione alla Francia del riconoscimento del Regno d'Italia e il giorno 11 Rattazzi poteva darne notizia al Parlamento, assicurando come imminente quello della Prussia. La chiusura della Scuola militare polacca di Cuneo fu accolta con gravi clamori dalla stampa italiana che, come il « Pungolo » del 5 luglio 1862, parlò di « completa abiura di due grandi principi a cui l'Italia deve la propria esistenza, il principio della nazione e quello della rivoluzione»; ad esso fece eco, fra gli altri, la stessa moderata « Perseveranza » (dove tuttavia erano presenti uomini come Pacifico Valussi e Marc'Antonio Canini, giunti a essa dall'ambiente mazziniano e garibaldino) la quale lo stesso 5 luglio non esitò a far carico al Rattazzi di essersi « dimenticato che il Piemonte s'è trasferito in un grande Stato e che, come tale, non è tenuto a quelle piccole transazioni a cui devono piegarsi le Polenze di second'ordine» ... : l'Italia perderebbe una grande forza morale << il giorno in cui si fosse persuasi che (essa) abbandona la causa delle nazionalità». Solo la ministeriale « Gazzetta di Torino » del 7 luglio prende posizione per giustificare il provvedimento e ammonisce: « .. .insistiamo pure sui principi: ma volere o no, è pur forza piegare nella loro applicazione », perché l'Italia, in vista di complicazioni europee, deve presentarsi alle Potenze con « le carte in regola». Voce dunque del realismo politico, contro il continuo richiamo ai principi, mentre anche « La Nazione» di Firenze, pur essa moderata e vicina agli ambienti governativi, non mancava di sottolineare che Rattazzi sciogliendo il collegio polacco avrebbe « fatto più di quanto gli era stato domandato ... » . Tutte queste critiche avevano una loro giustificazione. Col sacrificare i Polacchi e la loro scuola militare sull'altare della ragion di Stato e dell'interesse nazionale, eta un pezzo di « Risorgimento», di idealità risorgimentali a lungo coltivate, che se ne andava. Gli animi ne soffrivano e sentivano, cocente, il rimorso, dopo che f.'er anni, dal '48-49, il collegamento con i movimenti nazionali sotterranei, con l'Europa delle rivoluzioni - dove si muovevano (110) I Documenti diplomatici italiani, cit., voi. II, p. 478, Durando a Nigra, 30 giugno 1862; F. Sokulski, W kraiu i nad Bosforem (1830-1881) (Nel paese e sul Bosforo), Breslavia 1951, p. 91; Wl. Mickiewicz, Pamiçtniki., cit., p. 223.


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Polacchi e Magiari, Croati e Romeni ecc. - aveva rappresentato l'altro aspetto, non meno vivo e vero, dell'azione politica del regno subalpino. Ma ora sono le nuove responsabilità del regno di Italia che incombono e fanno sentire prepotenti la loro presenza. Un anno più tardi, il principe M. Lubomirski, che aveva fatto a Vittorio Emanuele rimostranze appassionate per l'abbandono in cui era stata lasciata la causa polacca, si sentirà dire dal sovrano, con bonomia rassegnata, non senza una vena di cinismo da « Realpolitik » : « Le roi d'Italie, mon cher prince, ne peut entendre ces sortes de choses que lorsqu'elles passent par la bouche autorisée du représentant accrédité ... d'une puissance reconnue (111). L'epoca del Risorgimento mostrava, anche per tutti questi fatti, di avviarsi ormai verso il tramonto? Non ancora, finché vi fossero in Europa problemi di risorgimento nazionale da risolvere. Il principale, quello che gli Italiani seguivano più da vicino, con sofferta partecipazione, era sempre quello polacco, verso il quale Garjbaldi rimarrà particolarmente !-ensibile : quando un primo intempestivo moto nella Polonia russa fu soffocato nel sangue, Garibaldi aveva reagito vigorosamente il 25 febbraio 1861 in una lettera ad Aleksandr Herzen, il maggiore esponente del movimento populista russo, esule a Londra. Due anni più tardi, sofferente e relegato a Caprera, Garibaldi viene colto di sorpresa dallo scoppio della rivoluzione polacca del gennaio 1863, in un momento di grande prostrazione fisica. Gli esponenti della Società democratica polacca, morto il principe Czartoryski, vogliono prendere l'iniziativa nelle proprie mani. Tanto più che altre forze, in Polonia, sono mature per allinearsi su posizioni insurrezionali: l'elemento contadino (guadagnato a idealità nazionali grazie a certo processo di elevazione sociale che investe anche la Polonia russa); gli studenti, le cui associazioni da semplici « corporazioni » <li antica tradizione si erano venute trasformando in organismi politici; e infine il clero da sempre schierato su posizioni vigorosamente nazionali e che vedeva il forte cattolicesimo polacco minacciato dalla politica di coazione anche religiosa spiegata dalla Russia ortodossa. I fermenti rivoluzionari sollecitati dai forti legami con l'emigrazione finiscono verso la fine del 1862 per avere il sopravvento (111) J. Lubomirski, L'ltalie et la Pologne 1860-64, Parigi 1892, p. 108; A. Tamborra, Russia, Prussia, la questione polacca e il riconoscimento del Regno d'Italia (1861-1862) in « Rassegna Storica del Risorgimento», 1959, TTT pp. 147-162.


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rispetto alla politica misurata, realistica e accorta di un uomo di rilievo, il conte Alexander Wielopolski. Nel riunire nelle sue mani - grazie al suo lealismo verso lo zar - tutta una somma di cariche e di poteri che ne facevano il virtuale dittatore della vita polacca, egli stava cercando di avviare decisive riforme, tendenti tutte a riconciliare la nazione polacca con la Russia, nel segno di un comune slavismo. Governatore civile dal giugno 1862, gli attentati nell'agosto contro il vicerè granduca Costantino finivano per limitare ogni possibilità di manovra anche a un uomo come lui, capace, illuminato ed anche patriota. L'impiccagione degli attentatori, il rifiuto della Russia di « restituire » a un « Regno » di Polonia, reso di nuovo autonomo, i territori polacchi annessi all'Impero zarista nel 1772, determinano la frattura definitiva. Quest'ultima richiesta, vigorosamente maturata nelle coscienze negli ultimi anni, rese impossibile, infatti, ogni compromesso in quanto questi territori (cui la Russia aveva aspirato sin dall'epoca di Pietro il Grande) erano ormai economicamente integrati nella Russia mentre lo stesso ceto contadino bianco-russo e ruteno era, sul punto sociale, nettamente diviso dalla classe magnatizia polacca, proprietaria di grandi feudi. Per contro, da parte polacca, questi territori erano stati uniti al regno di Polonia - prima sotto forma di unione personale dal 1385, poi di unione reale dal 1569 - da troppo lungo tempo sino a spostare durevolmente verso est il centro di gravità dello Stato polacco-lituano perché una rinuncia non potesse assumere la veste che di un tradimento: la nazione polacca, compressa, erosa da occidente dal germanesimo nelle sue varie forme prussiano o absburgico, sentiva di doversi ricostituire almeno sulle posizioni dell'epoca dei re Jagelloni che da circa cinque secoli l'avevano condotta nelle terre dell'est. Nell'assumere un atteggiamento di rivendicazione nazionale e territoriale, per i Polacchi non vi era via di uscita diversa dalla rivoluzione: non era pensabile che la Russia zarista accedesse all'idea di una « estensione» del regno di Polonia. Cos~, sia « bianchi» o conservatori di estrazione nobiliare, che i « rossi » più accesi e radicali che riconoscevano come capi Stefan Bobrowski, Zygmunt Padlewski e, soprattutto, il veterano degli avvenimenti del 1846-48 gen. Mieroslawski, finirono per trovarsi dalla stessa parte anche se in disaccordo sui mezzi e sulle solidarietà. I « bianchi », quali eredi e continuatori della politica del principe Czartoryski e delle sue illusioni, contavano di guadagnare l'appoggio dell'Europa liberale e, quale organo di governo rivoluzionario, avevano costi-


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tuito un Comitato Nazionale Centrale. I «rossi», invece, avevano dato vita ad un Comitato rivoluzionario che contava sulla solidarietà di tutta la Sinistra europea - dai rivoluzionari russi di Zemlja i Volja (Terra e Libertà) di Aleksàndr Herzen a Bakunin, sino a Mazzini e a Garibaldi - intendeva liberare i contadini e dare ad essi la terra, distribuendo armi nelle campagne in vista di una rivolta. Il conte Wielopolski, di fronte a una ondata rivoluzionaria che stava salendo in modo preoccupante, tentò di farla rifluire, cercando di mettere l'uno contro l'altro i vari gruppi in fermento. Infine per togliere di mezzo gli elementi più turbolenti, fece chiamare anticipatamente alle armi i giovani di leva (14 gennaio 1864). Due giorni più tardi - senza alcuna preparazione militare e organizzativa - il Comitato Nazionale Centrale decretava la mobilitazione generale della nazione, incitando alla rivolta i soldati polacchi alle armi e proclamando l'emancipazione completa dei contadini. La non lontana esperienza garibaldina si rivelò di grande rilievo nella scelta dei comandanti dell'insurrezione. Senonché il maggiore comandante, il «garibaldino» gen. Mierosfawski, nominato dittatore, ormai vecchio e logorato da tanti anni di esilio e di guerre, non si rivelò all'altezza del compito. Fu sostituito dal gen. Marian Langiewicz: veterano I nell'esercito meridionale con Garibaldi, egli recava neJla condotta delle operazioni la fresca esperienza garibaldina del combattimento isolato ma efficace e violento, ed era stato uno degli insegnanti della Scuola militare polacca di Cuneo. Molto si contava su di lui e sulla sua « dittatura », ma nonostante avesse messo insieme in dieci giorni un migliaio di soldati e organizzato una fabbrica di armi e munizioni nella zona cli Sandomierz, il 21 marzo - attaccato da preponderanti forze russe dovette rifugiarsi in territorio austriaco dove fu internato. Gli successe come dittatore Romuald Traugutt. Sin dalle prime battute, dunque, il movimento rivoluzionario scoppiato nel gennaio del 1863 - nato sotto il segno dell'improvvisazione romantica - dopo qualche effimero successo entra in CtlSl.

L'intempestività del movimento, la insufficiente preparazione, le mancate intese con i rivoluzionari russi del movimento di Terra e Libertà, l'isolamento diplomatico dei Polacchi dopo la morte del principe Czartoryski, in una situazione europea che dopo la Conferenza di Varsavia del 22 settembre 1860 ha visto l'avvicinamento


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di Napoleone III alla Russia zarista, infine l'unità intera del popolo russo che viene a crearsi contro l'iniziativa rivoluzionaria polacca, tutto congiura per lasciare i Polacchi interamente soli. Invano essi - incontrandosi in questo con Mazzini e con lo stesso Garibaldi che sollecitano una insurrezione ungherese e un attacco verso il Veneto invocano una « potente diversione » e che il loro moto rivoluzionario si estenda a tutta l'Europa. Proprio questo proposito li isola ancora cli più, paralizza le iniziative diplomatiche a loro favore, rende ostile l'Austria, e le stesse avances napoleoniche per un congresso che risolva sul piano europeo la « questione » polacca cadono nel vuoto. Ed ecco che, in questo « vuoto » europeo, gli unici che veramente si muovono sono Garibaldi, i garibaldini e più ampiamente tutti gli Italiani. Garibaldi invia subito un Messaggio ai popoli d'Europa esortando tutti - Romeni e Magiari, Germani e Scandinavi e Svizzeri - a non abbandonare la Polonia, « infelice nazione che prova al monJo ciò che può la disperazione» (112). Insieme, in un suo messaggio ai Polacchi che riecheggia la promessa fatta nel 1859, Garibaldi avverte di aver contratto con essi un debito d'onore se il 5 febbraio 1863 scrive: « Per voi che avete sparso il sangue sui campi di battaglia della redenzione italiana, è ben giusto che l'Italia si commuova ed io spero». Tutta l'Italia, infatti - ambienti ufficiali e pubblica opinione - è profondamente toccata dalle vicende polacche, con una ampiezza di manifestazioni e una spontaneità che durano sino all'ultimo e che non si ritrovano uguali in Inghilterra e nella stessa Francia. Agli ordini del giorno che escono da riunioni e assemblee e interpellanze parlamentari si uniscono offerte in danaro e raccolta di armi, mentre il partito d'azione - anche col proposito di mettere sotto accusa la politica « imbelle » del governo - pretende che si scenda in campo con una spedizione armata. Le riunioni di Milano del febbraio e marzo del 1863 sono particolarmente indicative, per lo spontaneo collegamento del problema polacco ai residui problemi italiani di Roma e della Venezia. Garibaldi, però, non meno degli ambienti ufficiali, si rende conto della assurdità cli una spedizione che per essere veramente decisiva ed esercitare un peso effettivo sulla bilancia degli avvenimenti in Polonia, avrebbe dovuto avere, dietro le spalle - come l'impresa

(112) G. Garibaldi, Scritti e discorsi, cit., vol. V, pp. 184-185.


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dei Mille - l'appoggio tacito, ma effettivo del Governo, collegarsi a tutta una rivoluzione centro-europea, neppure iniziata. Ed inoltre era tutt'altro che propenso a veder allontanati dal paese, per una impresa per lo meno disperata, uomini che potevano all'occorrenza servire meglio per recare a soluzione i due problemi residui dello sforzo unitario italiano. Vi era del realismo in questo atteggiamento, la consapevolezza di un limite all'azione insurrezionale. Ma questo limite non viene sentito dagli spiriti garibaldini più ardenti, primo fra tutti il colonnello bergamasco Francesco Nullo. Egli e i suoi amici - da Luigi Caroli a Paolo Mazzoleni, da Elia Marchetti ad Ajace Sacchi ed altri ancora - fra la fine del 1862 e i primi del 1863 avevano polarizzato i loro sforzi nella preparazione di una impresa verso il Trentino e il Tirolo. Delusi di non riuscire nell'intento per la for7ata inerzia di Garibaldi, dolorante a Caprera, e per la vigilanza del Governo, essi rompono gli indugi: in numero di diciotto partono per Cracovia e di lì, decimati nel numero per gli arresti operati dalla polizia austriaca, essi varcano il confine della Galizia. Al comando di Nullo si posero cinquecento Polacchi, settanta Francesi e sessantadue garibaldini italiani in camicia rossa. Il combattimento di Krzykawka del 5 maggio 1863 - ricordato dai garibaldini italiani come un buon auspicio per l'anniversario di Quarto - segnò, con la morte di Francesco Nullo espostosi inutilmente, la rotta per tutta la formazione: degli Italiani superstiti, quattro che non erano riusciti a raggiungere il confine galiziano - Luigi Caroli, Febo Arcangeli, Ambrogio Giupponi e Alessandro Venanzio, tutti bergamaschi - furono processati a Var,savia e condannati ai lavori forzati in Siberia per 12 anni (3 luglio 1863). Altri Italiani continueranno a combattere accanto ai Polacchi e il 14 ottobre 1863 cadrà il maggiore Camilla Lencisa (già collaboratore di Bianchi Giovini nell' « Unione » e dell' « Italia militare »); ferito e fatto prigioniero fu il col. Luigi Navone, mentre l'elbano Stanislao Bechi - inviato in Polonia direttamente dal Comitato Nazionale Polacco di Parigi (che gli aveva riconosciuto il grado di colonnello) - alla testa di un reggimento combattè contro i Russi nella zona di Kalisz: fatto prigioniero 1'8 dicembre del 1863 , fu fucilato il 17 dicembre, nonostante l 'intervento del ministro <l'Italia a Pietroburgo conte Pepali. Significativamente, la vedova nel marzo del 1864 chiederà al « dittatore » R. Traugutt la cittadinanza polacca alla memoria del Bechi. Naturalmente, nella confusione del momento e delle iniziative più spericolate, non mancano gli avventurieri, come un certo mag-


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III. -

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giore Scarpa che nell'aprile del 1863 propose al Governo Nazionale polacco di creare una « Legione Garibaldi »: sotto forma di Legione straniera doveva reclutare volontari in camicia rossa in Italia, in Svizzera e nella Galizia austriaca. Sembra che lo Scarpa fosse riuscito a farsi anticipare anche del danaro, prontamente da lui dissipato, tanto che Garibaldi stesso dovette intervenire sconfessando decisamente questa iniziativa, che cadde cosl nel nulla (113) . Anche di fronte alla rivoluzione polacca, Governo e ambienti garibaldini si muovono di conserva, sempre secondo quella politica « su due piani » di cui più volte si è detto: se Garibaldi e il partito d'azione si impegnano a fondo, ma in realtà non riescono a mandare in Polonia più di un piccolo manipolo di volontari, il Governo cioè, soprattutto, Visconti Venosta e Marcello Cerruti - segue molto da vicino gli sviluppi internazionali della questione polacca; esso è pronto ad intervenire a fianco delle Potenze qualora si delineasse una azione concertata e anche, in senso autonomo, per intercedere a favore <lei Polacchi.

E poi vi è anche Vittorio Emanuele, la cui politica personale e spesso « cospirativa » e « segreta » talvolta scavalca il governo e non esita di fronte a collusioni spericolate e spesso irresponsabili con Garibaldi, con le varie emigrazioni e con lo stesso Mazzini. Tutto un groviglio, un intersecarsi disordinato di iniziative e di contatti prende il via fra le sedi di guerra del Governo nazionale polacco, da un lato, e Torino, Caprera, Londra (dove risiedono e si agitano Herzen, Bakunin e Mazzini), Parigi dove « conservatori» e « democratici» polacchi cercano di smuovere Napoleone III. Si fanno progetti, si stringono accordi che poi finiscono per rimanere solo sulla carta. Difficile, anzi impossibile mettere un ordine in questo accavallarsi di progetti, iniziative, accordi stretti e poi disdetti, muoversi di emissari e informatori, ecc. che avrebbe dovuto confluire in un filo urùco, quello dell'aiuto militare ai Polacchi insorti. Non c'è dubbio tuttavia che Garibaldi e l'intero movimento garibaldino finiscano per rappresentare il perno fondamentale intorno a cui

(113) C fr. K. Firlcy-Biclanska, Nullo i jego towarzys;,e (N . e ,i suoi compagni), Varsavia 1923. Per le opere italiane vedi la bibliografia pubblicata da M. Bersano Begey, La Polonia in Italia 1799-1948, Torino, 1949; recentemente la figura di F. Nullo è stata ristudiata, in parte su carte inedite, da G. Donati Petteni, La spedizione Nullo in Polonia: 1863, in Storia del V olontarismo bergamasco, a cura di A. Agazzi, Bergamo 1960, pp. 293 e segg.; Archivio della Bibliothèque Polonaise, Parigi, Buste 474/ 1 e 474/3a; S. Kieniewicz, L'Italie et l'insurrection polonaise, cit., pp. 12-13.


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tutto questo doveva ruotare, in stretta collaborazione con Kossuth, Tiirr, Klapka e l'intera emigrazione ungherese. Due sono i punti di attacco e di diversione attraverso cui dall'Italia si ritiene di poter raggiungere gli insorti polacchi per dare a essi un appoggio concreto: il Mar Nero, puntando direttamente su Odessa; la Galizia austriaca, attraverso l'Ungheria e i Principati Danubiani. Il primo progetto, chiamato « spedizione di Odessa» o « d'Oriente » prende corpo nel corso della primavera del 1863, ma si esaurl in pochi mesi: esso coinvolse Napoleone III e il principe Wladisfaw Czartoryski, il governo di Torino, Garibaldi, verso cui andarono le preferenze del Governo nazionale polacco che guidava l'insurrezione nel paese. Nel marzo del 1863 Garibaldi - anche per le insistenze del garibaldino russo Lev Il'ic Mecnikov - raggiunse delle intese di massima con agenti polacchi, definendo le linee di una operazione di sbarco che doveva approdare a Odessa: l'obbiettivo principale era qudlu <li rt:<.:are aiuLu agli insotli polacchi in Ucraina, per poi attraverso la Moldavia raggiungere l'Ungheria, ritenuta pronta a insorgere contro gli Asburgo. Per questa « spedizione d'Oriente» Garibaldi, impossibilitato ad assumerne il comando per la brutta ferita dell'Aspromonte, designò il figlio Menotti. A questo punto ecco entrare in ballo Napoleone III, attraverso il principe Wladislaw Czartorysk.i, da poco nominato rappresentante a Parigi del Governo nazionale polacco. Questi - erede diretto del principe Adam e della politica dei conservatori polacchi - non diversamente da Napoleone III era ben lungi dall'accettare l'idea di una operazione anfibia sulle coste del Mar Nero, guidata da un Garibaldi, sia per non inimicarsi l'Austria, sia per non sollevare l'ostilità dei grandi proprietari polacchi. Di qui l'idea di sostituire a una spedizione garibaldina una franco-polacca: secondo un promemoria redatto dal Czartorysk.i e fatto pervenire all'Imperatore il 20 aprile 1863 tramite il principe Girolamo Napoleone, una nave francese di 700 tonnellate, partendo da un porto turco del Mar Nero, cioè dalla Dobrugia, avrebbe potuto sbarcare a Odessa 1.500-2.000 volontari polacchi per così dire « bianchi », cioè legati al Czartoryski; e pochi giorni più tardi, il ministro degli Esteri Drouyn de Lhuis diede al rappresentante polacco 150.000 franchi con le parole « Bonne chance, c'est pour l'expédition d'Odessa» (114).

(114) Wl. Czartoryski, Pamiçtniki (Ricordi), Varsavia J 960, pp. 140; 373-376.


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Ma il prestigio di Garibaldi era tale e cosl vaste le attese, che il Governo Nazionale polacco di Varsavia fu pronto a sconfessare il principe Czartoryski: quando questi inviò a Torino quale proprio agente Leon Rzyszczewski - ben conosciuto da Vittorio Emanuele e amico di Arese - il Governo Nazionale lo sostitul con J6zef Ord~ga, uomo legato da lunga data al Partito d'Azione (giugno 1863 ). Ma già ai primi di maggio il generale Wysocki da Varsavia aveva nominato Menotti Garibaldi « comandante della spedizione d'Oriente »; e le cose sembrarono talmente incamminate bene che alla fine di giugno Menotti ricevette a Genova, tramite certo Sarnecki (che doveva curare il collegamento fra i garibaldini e gli insorti polacchi scesi in Ucraina), la somma di 200.000 franchi. Senonché, poche settimane più tardi, Sarnecki - che si era recato a Caprera comunicava da Firenze a Parigi che Garibaldi aveva interrotto le trattative, ordinando a Menotti di mettersi da parte e di restituire i 200.000 franchi. Cosa era avvenuto? Garibaldi - che pure il 25 maggio aveva scritto a Menotti essere prossima « l'occasione di vendicare il nostro valorosissimo Nullo » - prima di lanciare i garibaldini in una nuova avventura aveva voluto vederci chiaro. Così, aveva spedito a Costantinopoli due suoi fiduciari, Giacinto Bruzzesi e Giuseppe Guerzoni, che rimasero nella capitale ottomana per una diecina di giorni sino al 12 luglio, prendendo contatto con agenti degli insorti polacchi e rientrando a Genova alla fine di luglio. Le informazioni che recarono a Caprera furono deludenti da ogni punto di vista, sia circa un appoggio francese, molto problematico, o la dubbia acquiescenza turca al passaggio di una nave per il Bosforo, sia per la debole posizione dei Romeni e del principe Cuza. Gli stessi insorti polacchi erano profondamente divisi nelle due fazioni dei « bianchi » o conservatori e dei « rossi » o democratici, mostrando a Menotti Garibaldi un atteggiamento equivoco: alle parole di voler condurre la lotta sino in fondo, non seguivano i fatti, nel timore di aprite la strada a sommovimenti sociali e col convincimento - del tutto errato - che prima o poi Francia e Inghilterra sarebbero intervenute per una soluzione diplomatica (115) . (ll5) A. Lewak (a cura di), Polska dzialalnosé diplomatyczna 1863-1864 R. (L'attività diplomatica polacca negli anni 1863-64), vol. I, Varsavia 1937, pp. 130; 278; 115; E. Funaro, L'Italia e l'insurrezione polacca del 1863: la politica estera e l'opinione pubblica, Modena 1964, pp. 30-35; E. Melena, Garibaldi in Varignano 1862 und auf Caprera 1863, Lipsia 1864, p. 312; Museo e Archivio del Risorgimento, Roma, Busta 46/22, Guerzoni e Bruzzesi a Garibaldi, Genova 30 luglio

186.3.


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Infine, a parte il fatto che erano necessarie forze ben superiori a un paio di migliaia di garibaldini per fare cadere Odessa, sin dal maggio del 1863 l'insurrezione polacca in Ucraina era stata stroncata dai Russi con l'appoggio dell'elemento contadino ucraino, soggetto da secoli al ceto magnatizio polacco. Abbandonato il progetto di una spedizione in Ucraina con sbarco a Odessa, a conclusioni non diverse si giunge anche per l'altro progetto, quello di una spedizione in Galizia, con base di partenza il Basso Danubio, cioè i Principati danubiani di Valacchia e Moldavia e anche l'Ungheria: da questa parte doveva farsi quella « potente diversione » invocata dagli insorti polacchi, per modo che il loro moto insurrezionale potesse estendersi a tutta l'Europa centroorientale. In .questo senso, fra Torino e Caprera, sin dalla primavera del 1863 si era cominciato a intravedere una possibilità di collegamento fra un attacco all'Austria per il problema veneto e la rivoluzione polacca. Giusto per questo Garibaldi, nonostante le delusioni, non abbandona i Polacchi: se da un lato intende continuare a sentire legata la questione veneta a un impegno rivoluzionario che colpisca l'Austria in Galizia, dall'altro si applica a fondo per creare intorno ai Polacchi la solidarietà di Aleksàndr I. Herzen e del movimento rivoluzionario populista di Terra e Libertà. Questa volta, in modo del tutto autonomo e sganciato da interferenze e collusioni col Governo e con lo stesso Vittorio Emanuele, il centro della sua azione si sposta a Londra. L'occasione è il viaggio trionfale in Inghilterra dell'aprile del 1864, dove Garibaldi era giunto insieme ai figli Ricciotti e Menotti e al Guerzoni. Seguito con notevole preoccupazione dal Governo italiano, il lungo colloquio segreto con Mazzini il 9 aprile, l'incontro con A.I. Herzen, con Karl Blind, con esponenti dell'emigrazione polacca e magiara, col bulgaro Teofan Rajnov - vecchio garibaldino del 1860 - Io stesso brindisi caloroso in casa Herzen il 17 aprile al pranzo cui intervennero anche Mazzini, Aurelio Saffi, Antonio Mordini , Missori, il generale ungherese Klapka, il più vicino collaboratore di Herzen al « Kolokol », M . Ogarev; tutto mostrava a chiare note che Garibaldi intendeva « differenziare in qualche modo la sua attività dal consueto legame con la Corona italiana» (116). (116) L.E. Funaro, Il viaggio di Garibaldi in Inghilterra e la crisi della democrazia italiana dopo l'unità, in « Studi Storici», 1966, p. 141 e seg., con la bibliografia relativa.


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L'intento era uno solo o almeno il più importante: ricucire, mettere insieme certa solidarietà nazionale e rivoluzionaria europea, continuare a trovare per essa un punto di riferimento nella rivoluzione polacca, cercando di gettare un ponte di collaborazione fra populisti russi e insorti polacchi. A riprendere le fila d'azione di questa solidarietà aveva mirato, fra gli altri, il garibaldino bulgaro Teofan Rajnov: con lettere di presentazione di Bakunin (incontrato a Ginevra), dirette a Mazzini e a Garibaldi, egli nella primavera del 1864 era partito per Londra dove aveva incontrato i due italiani che lo esortarono a continuare nella lotta contro il dominio turco, per la rinascita bulgara {117 ). Per quanto riguarda i rapporti fra i movimenti rivoluzionari russo e polacco, sin dalla seconda metà del 1862 il Comitato militare del regno di Polonia della Zemlja i Volja, l'organizzazione rivoluzionaria russa, aveva avviato delle trattative con il Comitato nazionale polacco, rappresentato da Zygmunt Padlewski, il quale si era anche recato a Londra a prendere contatto con Herzen . Si erano concertate delle intese di massima, ma lo scoppio inconsulto della rivoluzione, la decisione estrema con cui il governo zarista condusse la repressione, senza arretrare di fronte al massacro e senza venire incontro di una linea alle pressioni diplomatiche e di opinione pubblica che gli giungevano dalle Potenze europee; infine l'unità intera del popolo russo .che si era creata intorno al governo zarista e contro i Polacchi (118), tutto doveva suggerire ai rivoluzionari russi di rimandare ad epoca migliore il loro scendere in campo. In presenza di una situazione senza uscita, a Herzen - quale capo riconosciuto del movimento populista e rivoluzionario di Terra e Libertà - non era rimasta altra alternativa, nei confronti di Garibaldi, che fargli notare la necessità di distinguere bene fra i sentimenti del popolo russo e gli « orrori » dello zarismo: « Chaque fois que le Palais d'hiver se laisse aller aux orreurs et au carnages gli aveva scritto da Firenze, il 21 novembre 1863, chiamandolo « maitre » e non generale, titolo per lui inadeguato - il y a un reflet de sang qui tombe sur nous. Nous subissons certe solidarité imméritée avec douleur mais sans protester. ...Si vous saviez, vénérable ami, avec quelle anxiété nous attendons la fin de cette lutte (117) I. Undgiev, Vasi/ Levski, Biografiia, Sofia 1945, pp. 830 e segg. J. Kowalski, Revolucyina demokracija rosyjska a powstanie sticzniowe (La democrazia rivoluzionaria russa e la insurrezione di Gennaio), Varsavia. 1949, ( 118)

pp. 154-190.


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maudite. L'indépendance de la Pologne, c'est notte propre affranchissement... nous ne voulons pas mème nous affranchir de la Pologne, que la Pologne ne veut s'affranchir de la Russie ». Garibaldi il 23 dicembre 1863 gli rispose di credergli interamente, ma che la Polonia doveva riscuotere la « compassione » del popolo russo, esortando Herzen a dare « alla vostra lotta eroica un carattere religioso »; tanto che questi, nel pubblicare e commentare la lettera del generale sul « Kolokol » (La Campana) del 15 gennaio 1864, non può fare a meno di riconoscere: « Garibaldi ha perfettamente ragione » ( 119). Ma una cosa sono i sentimenti e gli ideali, e un'altra è la realtà politica e militare, se solo sei mesi prima, il 7 settembre 1862, all'indomani di Aspromonte, Herzen non aveva esitato a definire Mazzini e Garibaldi come « gli ultimi due Don Chisciotte della rivoluzione». E come allora aveva mostrato di volersi separare da essi, esclamando: « Addio, grandi pazzi; addio sacri Don Chisciotte » (120), cosl con la rivoluzione polacca del 1863-64 il distacco di Herzen da Garibaldi e da Mazzini è definitivo: esso avviene durante il viaggio in Inghilterra dei primi di aprile del 1864. Garibaldi appena sbarcato a Southampton, incontra Herzen a Cowes e subito affronta il tema polacco, riconoscendo amaramente: « Commencer une guerre sans armes, sans organisation, sans argent, sans frontière découverte, sans appui, et continuer plus d'une année - je m'incline devant ces héros » ...Anche se un moto in Galizia e in Ungheria può ancora salvare i Polacchi ... « peut-on s'attendre à quelque mouvement en Russie? ». Esplicita, senza mezzi termini, è la risposta del rivoluzionario russo: « Pas le moins du monde ... Le gouvernement se sentant soutenu par l'opinion publique, ne s'arrete devant rien, va dans le sang et les atrocités, et méprise l'Europe; le peuple se tait, il sent que 1es affaires de Pologne ne sont pas ses affaires; nous avons un ennemi commun, et c'est tout; nous plaignons les Polonais, nous les admirons, mais nous ne pouvons rien faire pour eux, notte chemin n'est pas le mème, et de plus nous avons beaucoup de temps devant nous, tandis qu'eux n'ont pas un jour à perdre ».

(119) A.I. Herzen, Sobraniie soéinenii (Opere complete), Mosca 1965, vol. XXX, pp. 528, 535. (120) Ibidem, vol. XVI, Mosca 1959, Kontzy i naéala (La fine e il principio), lettera IV, postscriptum, pp. 165-66.


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Era la voce del realismo politico, quella che Herzen faceva sentire a Garibaldi: essa segnava il distacco suo e dei populisti russi di Terra e Libertà da ogni forma di rivoluzionarismo irrequieto e inconcludente che dal 1830-31 era la jattura del movimento nazionale polacco, per affrontare prospettive di una rivoluzione a lunga scadenza e dunque problemi di preparazione in vista di uno sbocco rivoluzionario lontano. Ed era anche il distacco di Herzen da Garibaldi e Mazzini. Il calore umano, i brindisi al banchetto offerto da Herzen in onore di Garibaldi - « Unkrowned King », come lo defini sul « Kolokol » il 15 aprile 1864 - non nascosero affatto questa amara realtà: anche se si levarono i calici « à la Pologne qui marche à la mort pour l'indépendance, au pays qui donne un sublime exemple aux peuples! ...à la jeune Russie qui souffre et qui lutte camme nous, au nouveau peuple qui une fois libre et mahre de la Russie du tzar, est appelé à jouer un grand ròle dans les destinées de l'Europe ... », come si espresse lo stesso Garibaldi (121). Il risultato affatto deludente dell'incontro con Herzen non induce Garibaldi a lasciare al loro destino i Polacchi. Malgrado le informazioni poco incoraggianti circa una spedizione in Galizia, egli avverte la necessità di prendere qualche impegno con essi perché non si sentano completamente soli. Questo, in sostanza, il senso dell'accordo siglato a Londra il 24 aprile 1864 fra Garibaldi e Karol Ruprecht, commissario del Governo Nazionale polacco, poi sviluppato in una vera e propria convenzione, firmata a Caprera il 6 giugno 1864, fra lo stesso Garibaldi, « au nom de la démocratie italienne » e J6zef Ordçga, agente politico in Italia del Governo Nazionale polacco: « afin de rendre plus efficace et plus pratique l'alliance entre les deux peuples Italien et Polonais, afin de raffermir avec des liens plus forts le principe de la solidarité des peuples », le due parti si impegnavano ad attaccare l'Austria gli uni in Galizia e gli altri dall'Italia concordando i punti seguenti: l. La cause de la Pologne et de l'Italie et de tous les autres peuples qui veulent reconquérir leurs droits de nationalité et de liberté est une.

(121) Ibidem, vol. XXX, pp. 544; 556-57. Il racconto dell'incontro fu pubblicato per la prima volta ne « La Cloche » di Bruxelles nel 1865 col titolo: Camicia rossa. Garibaldi a Londres.


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2. Par conséquent tous !es oppresseurs de ces nationalités font des ennemis communs qui doivent étre abattus par des efforts communs. Avec d' autres mots !es oppresseurs de la Pologne, de l'I talie, et de tous !es Slaves, la Russie et l' Autriche, sont regardés camme des ennemis communs à tous ces peuples. 3. Mais considérant que le centre de l'oppression des national,ités est à Vienne, et que beaucoup des raisons et des circonstances politiques et militaires concourent à indiquer l'Autriche camme le premier et principal point d' attaque, contre !eque! doivent étre dirigées les forces dc l'Italie et de la Pologne, !es deux partis s'engagent réciproquement à attaquer simultanément l'Autriche. Les Polonais du c6té de la Galicie, et les Italiens du c6té de l'Italie. 4. Les Italiens et !es Polonais tacheront que cela soit en deux mois au plus tard. 5. A dater de ce jour ils conformeront tous leurs actes politiques au but ci-dessus fixé. 6. Les mémes engagements réciproques sont valables dans !es cas que la Hongrie, ou un autre peuple, se lève contre l'Autriche pour la méme cause des nationalités et de la liberté. 7. Les deux partis s'engagent de méme à ne cesser la lutte jusqu'à ce que l'Italie et la Pologne, ainsi que les autres peuples qui concourront à cette lutte fraternelte n'aient pas obtenu leur but d'indépendance et de liberté. 8. Les détails de cette convention seront tenus en secret par les deux partis. 9. La présente convention sera au plus tot ratifiée par le Gouvernement National Polonais. 10. Les détails militaires et financiers, ainsi que ceux du pian d 'attaque seront fixés dans des conventions postérieures. 11. Il y aura toujours immédiate communication et régulière correspondance entre le Général Garibaldi et le Gouvernement National Polonais ( 122).

A questo punto vi è da chiedersi quale senso avesse un accordo simile in presenza di una situazione militare che per i rivoluzionari polacchi si presentava ormai disperata. Per essi l'unica via di uscita dall'isolamento politico e, insieme, militare, era proprio un attacco all'Austria nella Galizia, da condursi - secondo gli impegni « en deux mois au plus tard ». D'altra parte a Varsavia si dava un

(122) Testo ripr. in Polska D:tialalnosé..., cit., pp. 99-101.


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credito eccessivo verso la Galizia, politico polacco: ufficiali, doveva zionale.

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ai progetti garibaldini (o più ampiamente italiani) caldeggiati dall'estrema sinistra dello schieramento l'accordo diretto con Garibaldi, stipulato da organi mantenere l'iniziativa nelle mani del Governo na-

Garibaldi tuttavia - e con lui vi erano ben pochi - da vero capo militare, pur ascoltando tutti e incoraggiando tutti, quando si trattava di decidere dava un peso determinante a informazioni sicure, di prima mano; e questo quale che fosse ]a fonte , emissari di propria fiducia o gli stessi canali governativi. Di qui la prontezza di decisioni, come il negare il suo consenso prima alla spedizione di Odessa e, quindi, a quella verso la Galizia austriaca.

Non vi era altro da fare, perché nel giro di pochi mesi la insurrezione - pur mantenendo in vita un Governo nazionale che parlava all'Europa in nome della Nazione polacca - fu costretta ~ile corde ed ebbe inizio la repressione più crudele. Essa fu affidata al governatore generale Teodor Berg - un balte-tedesco duro e inflessibile - e allo spietato generale M.N. Murav'ev, mentre sin dall'estate del 1863 l'abile N. Miljutin aveva avviato una riforma agraria radicale per guadagnare l'elemento contadino e distruggere o sminuire la forza economica della dasse magnatizia, unico sostegno dell'insurrezione . Cosi con una serie di decreti del marzo 1864 i contadini furono resi liberi da ogni lavoro obbligatorio o corvée dovuti al signore; soprattutto essi ricevettero una quantità di terra ben quattro volte superiore a quella attribuita ai contadini russi con la « liberazione dei servi » del 1861 ; infine, divisa l'intera popolazione rurale nei cosiddetti gmina, il diritto di voto uguale e segreto fu attribuito a chi possedesse un minimo di terra, affidando le controversie fra contadini e grandi proprietari alla mediazione di funzionari russi: in questo modo, fra riforma agraria e sistema rappresentativo locale - tutti provvedimenti accolti con particolare consenso dai contadini - le autorità russe riuscirono ad approfondire il fossato che divideva il ceto magnatizio dalle popolazioni delle campagne.

In queste condizioni, la rivoluzione polacca - piegata in sede militare e compromessa sul punto sociale - poteva dirsi virtualmente conclusa quando, in mezzo a più vaste repressioni, il 5 agosto 1864 l'ultimo «dittatore», Romuald Traugutt, fu impiccato a Varsavia su una pubblica piazza, con quattro suoi più vicini collaboratori .


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La rivoluzione polacca del 1863-64 e il suo triste epilogo non avevano esaurito l'incontro della nazione polacca con Garibaldi e col movimento garibaldino. Anche dopo il 1864 si continuò a guardare a lui e la nuova emigrazione avviatasi sulle dolorose vie dell'esilio dopo la Rivoluzione di Gennaio (1863) continuò ad avere in Garibaldi uno degli essenziali poli di riferimento: lo si vedrà soprattutto dall'accorrere di molti volontari, primo fra tutti il generale Hauke-Bosak, sotto le bandiere dell'armata dei Vosgi, in Francia, nel 1870.

In realtà, come in altre zone dell'Europa orientale, dove l'urgenza di veder risolti i problemi nazionali si faceva sentire in modo drammatico, anche nei territori della nazione polacca certa attesa di veder comparire Garibaldi quale liberatore è largamente condivisa da cerchie sempre più vaste. « La fama delle imprese di Garibaldi, arricchitasi nella fantasia popolare di elementi leggendari, si diffuse in Polonia in tutti gli strati sociali , non limitandosi solo alle classi superiori, agli intellettuali e giornalisti, ma scendendo nel profondo del popolo polacco, tra il nascente proletariato urbano e tra le masse contadine. La sua quasi mitica figura e le sue gesta s'imposero non solo agli orientamenti politici delle classi dominanti, ma pervasero anche la fantasia e le speranze del popolo, che attribuiva al condottiero italiano perfino la virtù di un Messia liberatore, capace di tutto. Le guerre per la libertà condotte da Garibaldi si identificavano nelle menti dei polacchi con le proprie lotte d'insurrezione per l'indipendenza della Polonia, facendo del capo italiano un simbolo universale » (123 ). Il personaggio e le sue gesta avevano dunque colpito le fantasie e toccato l'anima popolare sin nelle più intime fibre e fatti piccoli, in apparenza insignificanti , a batterci sopra con le nocche danno un suono grave e fondo: ancora alla fine del secolo scorso in Polonia con l'appellativo di Garybaldka si designava un tipo di camicetta rossa, nonché un particolare berretto da donna, ed anche un gioco di carte; in taluni vilJaggi della Polonia meridionale è rimasta la tradizione di salutare gli sposi novelli con l'augurio: « Viva Garibaldi, e tanti maschi biondi » !

(123) B. Bilinski, Echi delt'epopea garibaldina nella cultura polacca in « Aitti del convegno internazionale di studi su Garibaldi generale della liberta », Roma 1982 (in corso di stampa).


Cap. III. - Fedeltà alla Polonia e alla Francia

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Naturalmente, come dappertutto in Europa, i ritratti di Garibaldi sono molto diffusi nei territori polacchi, sia presso i privati che in alberghi e trattorie, dove per esprimere un atteggiamento polemico verso la polizia, non si esita ad alzare il bicchiere verso la sua effigie per un brindisi augurale. Se biografie cominciano a uscire a ridosso dell'impresa dei Mille a Poznan nella Polonia prussiana, come a Varsavia in quella russa, quando giunge la notizia che Garibaldi intende mettere in piedi una Legione internazionale, non pochi giovani daUa Galizia austriaca sconfinano verso i Principati romeni per arruolarsi, ma poi non vanno oltre Jassy e tornano a Leopoli. Singolare personaggio è Sigurd Wisniowski (1842-1892): combatté con Garibaldi al Volturno, entrò poi neUa Scuola militare polacca di Cuneo (1862) e, dopo la rivoluzione del 1863 prese a viaggiare sino in Oceania, da dove ritornò fecondo scrittore di terre lontane. Testimone delle battaglie garibaldine, cui prese parte dopo aver abbandonato le file austriache dopo Solferino nel 1859 è W. Zagorski: segul Garibaldi, con la Legione magiara, dall'impresa meridionale sino ad Aspromonte, combattendo poi in Francia nel 1870 agli ordini di Hauke-Bosak.. Al di là di queste presenze personali di combattenti, quello che più colpisce è l'ampio, diffuso consenso per un uomo il cui nome, gli scrive da Parigi il generale Rybinski « exerce une influence immense». Egli è un « messia» un liberatore non solo in senso nazionale ma anche sociale: nei territori meridionali polacchi intorno al 1861 i contadini rifiutavano la consegna obbligatoria dei raccolti perché aspettavano « gli ordini di Garibaldi»; nel maggio del 1861, si ha notizia che agitatori incitano i contadini a sollevarsi contro i grandi proprietari terrieri con la promessa de11'imminente arrivo di Garibaldi; a Varsavia, sempre nel 1861, Garibaldi è atteso come liberatore da una povera donna cui la polizia aveva arrestato il figlio; addirittura il nome di Garibaldi viene usato come parola d'ordine nelle dimostrazioni contro la polizia zarista, se a Varsavia in una osteria della Città Vecchia un gruppo di giovani - nel ricordare la costituzione del 3 maggio 1791 - nell'aprile del 1861 lanciava lo slogan significativo: « Garibaldi! Il 3 maggio fuori i Moscoviti»; nella zona di Tarnow alla stessa epoca la polizia segreta sequestrava volantini che si concludevano con le parole: « Viva Garibaldi! Kossuth, Klapka, liberate l'Ungheria e noi Polacchi». Sempre nel 1861 , quando un prussiano si presentò a Varsavia, quale reclutatore c1i volontari per l'esercito pontificio, il capo della


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polizia locale gli disse di non farsi illusioni: « Non riuscirete a reclutare nessuno. Se foste venuto a reclutare nelle file di Garibaldi sarebbe stata ben altra cosa! ». Infine, quando il 29 novembre 1862 gli studenti polacchi presenti nelle università della Germania meridionale si riunirono ad Heidelberg per commemorare la fallita insurrezione del 1830-31 , l'assemblea si concluse con un indirizzo di omaggio a Garibaldi, « a colui che lotta per l'idea di nazionalità», di cui si auspicava la completa guarigione dalla ferita sull'Aspromonte; la risposta di Garibaldi non si fece attendere ed essa giunse clandestinamente sino .in Polonia, scritta con altabeto Morse su carta velina, ma con firma autografa di Garibaldi. Essa fu poi pubblicata, a Parigi il 20 dicembre 1862 sul foglio polacco « Przegl~d Rzeczy Polskich » (Rassegna di cose polacche) e suona cosl: « ... Je suis fier et heureux de votre affection. Vous etes l'espoir <l'un peuple brave e malheureux. Le partage de votre beUe patrie, est un crune qne les peuples d'Europe expient depuis longtemps. L'état Jans lequel se trouve la vaillante Pologne doit cesser. Ma santé s'est beaucoup améliorée. Bientot, peut-etre, setiai-je à mème d'offrir mon faible bras à la sainte cause de la libertè » (124).

Se da questi stati d'animo generali e popolari si passa alle valutazioni più dirette e, dunque, meglio aderenti alla realtà, si può notare che fra l'impresa dei Mille e la rivoluzione polacca del 1863-64 e poco oltre, il consenso si unisce a riserve e preoccupazioni. Queste vengono espresse, ad esempio, da uno scrittore politico di talento, Julian Klaczko (1825-1906), nelle sue corrispondenze dall'Italia alla liberale « Gazeta Codzienna » (La gazzetta del giorno) di Varsavia. Cosl, il 22 maggio 1860 esprime da Firenze riserve e preoccupazioni per lo sbarco di Garibaldi a Marsala, che ha suscitato in lui « uno stato di straordinaria eccitazione »; per lui il generale è solo un partyzan o partigiano e nell'impresa egli vede « con paura diversi e grandi pericoli non solo per Garibaldi, ma per tutta la questione italiana»; lo stesso stato d'animo egli esprime a Bettino Ricasoli, ma questi lo rassicura sul fatto che l'Italia non turberà « l'armonia religiosa del mondo », mentre la stessa Chiesa uscirà da questa crisi « perfino più pulita, più forte e più grande ». Klaczko fu presente all'ingresso di Garibaldi a Napoli, ma si limitò a impressioni generali.

(124) B. Bilinski, op. cit., passim .


Cap. 111. • Fedeltà alla Polonia e a lla F ranci a

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Più calzanti ed efficaci le corrispondenze di Josip Ignacy Kraszewsìi (1812-1887), fecondo romamiere, che riferisce anch'egli sulla « Gazeta codzienna » e altrove. Egli, oltre a cogliere dal vivo il crescere dei consensi intorno a Garibaldi, dà largo spazio alle discussioni politiche, con particolare riferimento ai rapporti fra il Re, Cavour e Garibaldi. Da lui definito « un eroe leggendario di rara purezza d'animo e di cuore» {18 ottobre 1860), « grande personalità, ma non un politico», Kraszewski ne esalta soprattutto le capacità militari. Stabilitosi a Dresda nel 1863, p er tutto il ventennio che vi rimase continuò a guardare all'Italia e a Garibaldi, grazie soprattutto a un poeta ispirato e romantico, Teofil Lenartowicz. Anche questi, negli anni in cui Garibaldi risiede quasi stabilmente a Caprera, ne segue la vita e l'attività, anche letteraria : fu tramite Lenartowicz che il testo del romanzo Clelia, ovvero il governo del monaco giunse nelle mani di Kraszewski nell'originale inglese; questi ne pubblicò alcuni brani nella rivista letteraria « Kfosy » (Le spighe) e l'intero romanzo uscì a Lcopoli in traduzione polacca nel 1870, lo stesso anno in cui vide la luce in Italia. Toccante è il resoconto di una visita a Caprera, inviato da Kraszewski a Lenartowicz il 16 dicembre 1869: La salute del vecchio è già rovinata e i medici non gli assicurano un lungo soggiorno tra i vivi. Sta a letto <la più di un mese, le marù sono rattrappite dalla paralisi, il viso è pallido come carta trasparente, le gambe gonfie ... Intorno a sé, purtroppo vede solo un deserto. La capanna nella quale ha il suo nido è umida e il mangiare, Dio mio, cavoli e fagioli. Lo servono due vecchie streghe e il suo vecchio amico Basso funge da scriba e ammirùst.ratore del podere che è in stato di decadenza. I figli girano per la penisola e pochi sono coloro che, per visitarlo, rischino un viaggio lungo e stancante <la Genova nel periodo in cui il mare è sconvolto dalle tempeste... Unico divertimento dell'ammalato che gi,ace su un largo letto contadino è la corrispondenza. Ogni peschereccio che viene da Genova porta una cassa piena di lettere e un altro, che salpa per tornare, prende un'altra cass~ di lettere dettate. Lo spirito del vecchio, non placato, si agita, e più si avvicina alla traversata di Caronte, più diviene cattivo ... ». «

Se Lenartowicz che rimase in Italia per trent'anni, diede largo spazio a Garibaldi anche nelle sue poesie, un altro poeta Cyprian Norwid (1822-1883) - uno dei maggiori esponenti della poesia romantica polacca - è fortemente combattuto fra l 'ammirazione in-


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condizionata per Garibaldi e la fedeltà a Pio IX e alla Chiesa. Nei molti anni passati in Italia egli segue da vicino, con partecipazione, le vicende risorgimentali e vede in Garibaldi « l'eroe autonomo che ha concentrato interamente nel suo petto tutto il carisma patriottico ». Personaggio destinato, per lui, a dominare il secolo, Norwid tuttavia - da Aspromonte a Mentana e poco oltre - si schiera nettamente al fianco di Pio IX, cui era grato per il costante appoggio offerto alla causa polacca. Non poche riserve vengono espresse da esponenti della corrente conservatrice della « grande » emigrazione polacca, succeduta alla rivoluzione del 1830-31. Fortemente cattolici e legati a Pio IX, fra essi vi è chi, come E.A. Kozmian, si rammarica che la gioventù polacca guardi a Garibaldi, arruolandosi nel 1862 nella Scuola militare polacca di Cuneo. Ma all'indomani di Aspromonte, tutto sommato egli non può nascondere certa ammirazione per Garibaldi che, scrive il 15 agosto 1862, è diventato « un grande imbarazzo»: « un solo uomo, un solo folle senza esercito, sema potere, senza denaro, disturba la pace dei più grandi Stati. All'eco delle sue parole si muovono le flotte ... s'accendono e bruciano gli spiriti non solo in Italia, trema la terra sotto i piedi... Però la sua forza naufragherà, perché con lui il Governo italiano non può governare, né la Francia riuscirà a sopportare più a lungo i suoi attentati ai propri diritti e alla sua potenza » (125). Ancora più drastico è il punto di vista di un altro conservatore, J6zef Bohdan Zaleski che nel maggio del 1866 t enne a ricordare al generale Hauke-Bosak (che doveva comandare una Legione polacca in Italia) come appoggiarsi a Garibaldi fosse cosa sterile: « Garibaldi non ci condurrà alla nostra cattolica Polonia. Generale, prenda ad esempio Kosciuszko e come parola d'ordine: Dio e Popolo » (126).

* * * La fine della rivoluzione polacca del 1863-64, nei suoi più vasti agganci europei sostanzialmente falliti, aveva dato inizio in tutto il continente al declino e poi all'esaurirsi dei vari movimenti nazionali.

(125) B. Bilinski, op. cit., passim. (126) J.W. Borejs'.la, Emigracia polska, cit., p. 347.


Cap. III. - Fedeltà alla Polonia e alla Francia

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La stessa questione veneta, pur avviata sui binari cavourriani di una guerra all'Austria appoggiata a un collegamento insurrezionale centro-europeo, aveva finito col trovare una soluzione diplomatico-militare per così dire tradizionale, prescindendo dal progettato apporto di uno sbarco garibaldino sulla costa orientale dell'Adriatico. L'Impero del terzo Napoleone - tradizionale appoggio dei vari movimenti nazionali e anche di quello italiano - per consensi interni e per prestigio internazionale appariva ormai in declino. Tutto questo aveva segnato una svolta anche per la politica estera italiana che doveva scegliere una sua linea autonoma, non legata necessariamente a:lla Francia. Questo avviene nel 1870. La neutralità proclamata dall'Italia nel conflitto franco-prussiano, se aveva consentito il Venti Settembre, cioè la fine del potere temporale e Roma capitale, aveva avuto un risultato di più ampia portata: per la prima volta - come noterà il ministro degli Esteri Visconti Venosta nel mar~o del 1871 l'Italia aveva dato prova « di essere una potenza moralmente autonoma ed indipendente nel concetto europeo », scrollandosi di dosso il legame o, se si vuole, la servitù napoleonica (127). In una situazione europea profondamente cambiata, queste considerazioni di tornaconto, questi calcoli cancelliereschi di convenienza politica, rivolti a dare un indirizzo finalmente più autonomo alla politica estera italiana, sono del tutto estranei a Giuseppe Garibaldi. Egli non è un politico dalla mente fredda che fa i suoi calcoli e, avendo dietro di sé una responsabilità di governo, stabilisce un atteggiamento conforme agli interessi del Paese. Impulsivo e sentimentale, uomo generoso che non ammette compromessi, col suo intervento in Francia a fianco della neonata repubblica egli segna una rottura anche rispetto all'atteggiamento responsabile del governo italiano. Era la « patria dei principi del 1789 » quella che in quel momento si trovava « in pericolo » insieme alla « libertà individuale » e a quella « della nazione che non fu mai sorda alla voce delle altre nazioni» (128). Egli dunque, uomo della rivoluzione nazionale, rimasto in fondo sempre fedele agli ideali mazziniani e quarantotteschi, passa sopra senza pensarci troppo a1le considerazioni, politiche e non

{127) F. Chabod, Sulla politica estera dell'Italia in Orientamenti per la storia d'Italia nel Risorgimento, Bari 1952, p. 26. (128) Ad alcuni amici della Grecia, Dole, 14 ottobre 1870, in Epistolario di G. Garibaldi, cit., vol. I, p. 359.


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sentimentali, che riflettono gli interessi della nazione italiana in quel particolare momento: ancora una volta egli prescinde dal piano angustamente nazionale per mantenersi in quello europeo, mentre l'eredità umana, e magari romantica , oltre che politica e militare dell 'Impresa dei Mille continua a far sentire il suo peso, perché anche nei confronti della Francia in pericolo si trattava di una «restituzione». Anche se una larga fascia dell'opposizione di sinistra, cioè del partito d'Azione al momento dello scoppio della guerra era alla parte della Prussia (tanto che reduci garibaldini si presentarono alla Legazione prussiana a Firenze per essere avviati sul fronte del Reno), una volta caduto Napoleone III l'intero movimento garibaldino, con Garibaldi alla testa, ritrovò la sua unità intorno alla Francia repubblicana: « Quanto resta di me è al vostro servizio», telegrafava ai primi di settembre al Governo francese », dopo che ù 7 settembre aveva lanciato attraverso a « Il Movimento» di Genova la parola d'ordine decisiva: « Ieri vi dicevo: guerra a morte al Bonaparte, oggi vi <lico: salvare a ogni costo la Repubblica francese» . Da Tours non aveva ricevuto risposta, soprattutto per la riluttanza del Governo francese a ricevere da Garibaldi un aiuto che avrebbe reso ancora più ostili clericali e conservatori (già colpiti per la caduta di Napoleone Ili), e creato allarmi in sede internazionale. A far uscire Garibaldi dalla sua virtuale png1onia a Caprera (sorvegliato dalla Marina) provvide la sinistra radicale francese: nel far valere la solidarietà europea creatasi anche in Francia intorno all'impresa dei Mille, essa inviò a Caprera il medico J.P.T. Bourdon o Bordone (che aveva combattuto in Sicilia inquadrato nella Legione francese). Questi ai primi di ottobre del 1870 andò a prenderlo, facendolo sbarcare a Marsiglia. Così, Garibaldi - vecchio, piuttosto malmesso in salute e dunque privo di quelJe energie che '1o avevano assistito e reso famoso solo un decennio prima - si trovò di colpo alla testa dell'Armata dei Vosgi, con quartiere generale a Dole, non lungi da Digione (14 ottobre 1870): tale armata era costituita da circa 10.000 franchi tiratori francesi, volontari italiani, polacchi, ungheresi, dalmata-italiani, una diecina di greci fra cui Elias Stecoulis, lo scienziato russo V]adimir O. Kovalevskij, che era stato già con Garibaldi nel 1866 sul fronte del Trentino. Una posizione di rilievo, per numero, individuazione nazionale e valore personale ebbero alcune formazioni volontarie polacche, inquadrate nell'Armata dei Vosgi e in unità minori. Nell'autunno del


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1870 Bronislaw Wolowski - rifugiatosi a Parigi dopo aver preso parte alla rivoluzione polacca del 1863-64 - aveva cominciato a reclutare una Legione polacca nella Francia meridionale, cui nell'ottobre Gambetta e Garibaldi diedero il loro appoggio. Il comando fu assunto dal col. Tytus O'Byrn Grzymala, che si era distinto nell'insurrezione del 1863 e parteciperà alla battaglia di Sedan. La legione era composta da Polacchi provenienti dal paese, emigrati in Turchia, Svizzera e Italia che raggiunsero il numero di 120 a Lione e di 160 a St. Etienne; dalla Galizia, secondo una segnalazione da Vienna dell'ambasciatore di Francia Mosbourg al ministro degli Esteri de Banneville del 16 gennaio 1871, da cento a duecento Polacchi intendevano raggiungere la Francia a proprie spese « pour servir sous les ordres du G.(énéral) Frapolli ». La Legione polacca messa insieme dal Wolowski fu posta alle dipendenze di Garibaldi, che l'assegnò al Corps de l'Etoile, comandato appunto da Lodo. vico Frapolli. Molti dei Polacchi entrarono a far parte di unità francesi, facenti capo all'Armata dei Vosgi comandata da Garibaldi: comandanti della 1a brigata che si distinsero per particolare valore furono il gen. J6zef Hauke-Bosak che il 21 gennaio 1871 cadde nella battaglia di Digione, il gen. Ernest Lopowski, difensore di Chateaudun. Un rilievo notevole anche in sede politica, per i suoi precedenti rapporti con Garibaldi e nell'ambito dell'Internazionale come del movimento pacifista ha l'Hauke-Bosak: nettamente ostile agli esponenti populisti russi Herzen e Ogarev, egli rifiutava di riconoscere alla « Giovine Russia » certo primato o iniziativa nell'ambito del mondo slavo; quando nel settembre 1867 sotto il patronato di Vietar Hugo e Garibaldi fu creata a Ginevra la Ligue de la paix et de La Liberté, con intenti pacifistici, e poi divenuti democraticoradicali, e per dare vita agli Stati Uniti d'Europa, giusto all'HaukeBosak si deve se nel titolo programmatico fu aggiunta la parola « Liberté », a significare che non poteva esservi pace in Europa, finché la Polonia non fosse stata libera; trasferitosi in Francia, nel 1869 egli diede vita al foglio « La Grève » (ispirato alle teorie di Bakunin), sul quale si batté per la giornata lavorativa di otto ore e a sostegno della solidarietà internazionale dei lavoratori, tenendo tuttavia fede a una riconciliazione del lavoro col capitale; questo non gli impedì durante la guerra franco-prussiana di dare alle stampe il suo ultimo scritto Manuel d'organisation et du combat, par le citoyen général Bosak-Hauke, commandant de la première brigate de l'Armée des Vosges in cui - appoggiando gli scioperanti del


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Le Creusot difendeva lo sciopero quale forma di lotta economica (129). In sede di operazioni militari, Garibaldi non aveva perso tempo a tracciare 'le sue direttive o « Istruzioni » per i volontari e i franchitiratori: durante il viaggio da Caprera a Dole, egli si era subito reso conto che di fronte a una armata prussiana forte e organizzata l'unica forma di guerra fosse quella « per bande » o partigiana: piccoli distaccamenti di franchi tiratori, bande o « guerril1as », numerosi ma composti al massimo di un centinaio di uomini, che « possono trovare da vivere ovunque, ... tendere insidie facilmente, gettare l'allarme in un Corpo di truppe e stancarle», dovranno spingersi « sulle linee dei nemici e sulle loro retroguardie per molestarli senza tregua ». L'essenziale era muoversi e combattere in ordine sparso, ma concentrare « il massimo numero di elementi sul punto tattico o sull'obbiettivo prescelto »; non temere mai la cavalleria; « farsi stimare e amare dalle popolazioni », <la cui avere guide e viveri, grazie anche al rispetto della proprietà, « anche in mezzo alle più dure privazioni »; infine, sopra ogni cosa, « una disciplina severa, più severa di quella delle truppe regolari, senza la quale nessuna forza militare può esistere», intendendosi per disciplina non solo l'obbedienza ai comandanLi, ma « la cooperazione fraterna e reciproca » fra le singole bande o «partiti» (130). Condottiero del « minimo mezzo» - come lo definisce il gen. Pietro Maravigna - il suo capolavoro fu la battaglia di Digione del dicembre 1870-gennaio 1871: con ardita manovra Garibaldi, insieme ai figli Menotti e Ricciotti e l 'Hauke-Bosak, riusciva ad avere ragione delle forze prussiane preponderanti. Questo felice successo fu l'ultimo atto di guerra compiuto da Garibaldi alla testa dell'Armata dei Vosgi e l'ultimo scontro della guerra franco-prussiana, prima che l'armistizio fosse firmato il 29 gennaio. Ben a ragione, a un anno di distanza da questi avvenimenti Mihail Bakunin poteva scrivere: « Nul n'admire aussi sincèrement, aussi profondément que moi le héros populaire Garibaldi. Sa campagne de France, toute sa conduite en France a été vraiment sublime (129) J.W. Borejsza, Emigracija polska po powstaniu styczniowym (L'emigrazione polacca dopo la rivoluzione di gennaio), Varsavia 1966, pp. 339-39, 347, 355-56, 385-86. (130) P. Marav:igna, La campagna di Francia (1870-1871) in Garibaldi Condottiero, Roma, Ufficio Storico dello Stato Maggiore Esercito, II ed., 1957, pp. 370 e scg.


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de grandeur, de résignation, de simplicité, <le persévérance, d'héroisme. Jamais il me parut si grand » ( 131). L'Armata dei Vosgi fu subito sciolta da Garibaldi: se i Francesi - per gran parte radicali e rivoluzionari - si dispersero nel paese o finirono per combattere in marzo per la Comune, gli Italiani rientrarono in Italia insieme a molti Polacchi e Magiari, che trovarono rifugio anche in Inghilterra e in Svizzera. Garibaldi dopo questo che fu il suo ultimo impegno di guerra dove - nonostante l'età e gli acciacchi - era riuscito a mantenersi all'altezza del suo compito di comandante, -rientrò a Caprera con la bocca amara: era stato eletto deputato all'Assemblea Nazionale francese, ma alla prima seduta gli fu impedito di parlare; « il 13 febbraio - ricorderà Louis Blanc - a Bordeaux, subito dopo una guerra cui Garibaldi era accorso ad offrire alla Francia in pericolo il suo sangue e il sangue <lei suoi due figli, in un'Assemblea francese la voce dell'eroe fu soffocata dalle proteste». Uscì dalla sala in silenzio, a testa alta e passo lento. Malgrado le polemiche aspre e ingenerose, né allora né poi recriminò. E quando di 11 a poco si aprì in Francia il convulso periodo della Comune, « ordinò » al figlio Ricciotti di tenersi ben alla larga dalle lotte tra Francesi, preludio a possibile guerra civile: « Tu resta in Francia, osserva attentamente questo movimento comunardo; se vedi che da esso può nascere una riapertura delle ostilità, ti autorizzo di prendervi parte; ricordati soltanto che appena so a Caprera che tu ti sei unito ai comunardi, io parto immediatamente per raggiungerti. Ma se rimane una questione tra Francesi e Francesi non te ne immischiare » {132).

(131) Bakunin a Lodovico Nabruzzi, 3 gennaio 1862, in Michel Bakunin et l'Italie 1871-1972, a cura di A. Lehning, Leiden 1963, voi. II, pp. 202-203. (132) Ricciotti Garibaldi, Ricordi della Campagna di Francia 1870-71, Roma 1896, p, 140.



IV.

GLI INTERVENTI GARIBALDINI NEI BALCANI 1867-1916

La partecipazione di volontari garibaldini alle ultime guerre di liberazione nazionale nei Balcani - sotto il pungolo delle esortazioni di Garibaldi o, dopo la sua morte, per rispondere al dettato di una tradizione - rappresenta un aspetto importante della « presenza » europea delle Camicie rosse nella seconda metà del sec. XIX e sino alla I Guerra mondiale. Quella « attesa» di Garibaldi e dei suoi, che si era fatta strada là dove la crisi dell'Impero ottomano incoraggiava iniziative di completa indipendenza o di integrazione nazionale, trovava soddisfazione. Se poi queste « attese » si vedono dalla .parte del partito di azione e di tutta la Sinistra italiana, si avverte che in questi uomini il volgere delle generazioni non ha spento certa carica emotiva, magari romantica; solo che adesso la componente nazionale si arricchisce di spunti sociali, in armonia col clima europeo che aveva contribuito alla nascita, nel 1864, dell'Internazionale. Non che questi spunti fossero estranei, prima, in Mazzini, in Garibaldi e in tutto il movimento garibaldino; sono solo più espliciti, scoperti, si esprimono ormai per mezzo di trame organizzative meglio definite: l'incontro, del 1875-1877, fra populisti russi e garibaldini internazionalisti italiani e di altre nazionalità, tutti accorsi in aiuto degli insorti della Bosnia-Erzegovina, è emblematico di certa solidarietà europea ormai estesa dalle lotte nazionali a quelle di ascesa sociale. L'insurrezione di Creta del 1866-67 rappresenta il pr,imo atto della presenza militare garibaldina nei Balcani: essa trova risonanza immediata in Giuseppe Garibaldi e in quanti, Italiani e stranieri, continuano a sentirsi legati a lui e attendono un suo cenno per muoversi. Cosi, appena avviato nell'isola il moto insurrezionale, nell'autunno del 1866 oltre 2.000 volontari in camicia rossa con 80


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ufficiali partirono alla spicciolata dai porti dell'Adriatico, diretti a Syra, punto di incontro e di smistamento di uomini e materiali dei Greci insorti. Il maggiore Luciano Mereu - cui Garibaldi rivolge una lettera calorosa da Caprera il 9 ottobre 1866 presentandolo ai Greci - ne fu ,il comandante. I garibaldini si segnalarono il 24 ottobre nel duro scontro al convento di Carise, in cui persero la vita il genovese Favale, il bergamasco Zogni, Bianchi di Brescia, De Paoli abruzzese e altri ancora. Scontri di guerriglia si ebbero nei mesi successivi e i comandanti ellenici Coroneos e Zimbrakakis ed altri minori ebbero parole di elogio particolarmente calorose per gli Italiani. Al primi del 1867, a una quarantina di toscani partiti da Livorno al comando di Andrea Sgarallino si unì, durante la sosta a Caprera, il figlio stesso di Garibaldi, Ricciotti, con istruzioni del padre di non recarsi a Creta, ma in Epiro e in Tessaglia (133). E Garibaldi è pronto a incitare gli animi dei Greci con un Proclama agli Elleni del 28 ottobre 1866, assicurando allo Stecoulis (un garibaldino greco del 1860) il suo costante aiuto ed appoggio (134). E infatti, nei mesi dell'autunno e inverno del 1866-67, volontari italiani, magiari, francesi, polacchi riempiono le strade di Atene e affluiscono al fronte: « Les recruteurs polonais et italiens ont leurs bureaux comme les changeurs. Il en est un, logé dans un hotel de la ville, qui offre à chaque homme de bonne volonté un fusil, des munitions, une paire de souliers, un képi, et ce mème homme a dans les mains une liasse de passeports, en blanc, lui remis par la polke locale et qu'il distribue comme il l'entend » (135). Per la verità, questo cospicuo afflusso di volontari garibaldini che continuavano a rappresentare in Europa il momento « rivoluzionario», finì per mettere in difficoltà il Governo di Atene, stretto fra due esigenze contrastanti: attrarre volontari per dare alimento alla rivolta anche nel settore dell'Epiro oltre cha a Creta, da un lato, e dall'altro dalla necessità di non guastarsi con le potenze conservatrici - Turchia, Inghilterra, Austria, Russia - che esercitavano forti pressioni per limitare l'afflusso di volontari. In queste

(133) E. Socd, Grecia e Italia nelle tradizioni della Camicia Rossa in R Garibaldi, La camicia rossa nella gue"a greco-turca, Roma 1937, pp. 12 e segg. (134) Epistolario di Giuseppe Garibaldi, cit., voi. I , pp. 283-288. (135) E. Driault-M. Lheritier, Histoire diplomatique de la Grèce de 1821 à nos ;ours, Parigi ·1925, vol. III, p. 186.


Cap. IV. - Gli interventi garibaldini nei Balcani

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condizioni i Greci non poterono a lungo sottrarsi alle insistenze della diplomazia europea. Cosl mentre continuava il consenso dei « filelleni » italiani, riuniti in una Commissione centrale dell'Associazione filellenica, con sede a Firenze e con esponente principale Niccolò Tommaseo, Ricciotti, Sgarallino e i loro compagni furono invitati a lasciare la Grecia e a imbarcarsi al Pireo per Brindisi. Nel complesso, nonostante agli squilli di tromba della stampa « democratica », vi fu fra i garibaldini una notevole delusione per il trattamento ricevuto; credutisi romanticamente poco meno che eroi, essi finiranno per essere considerati quasi degli intrusi: lo stesso Garibaldi il 2 maggio 1877 non esiterà a rinfacciare a Elias Stecoulis che suo figlio dieoi anni prima era stato «cacciato» da Atene (136). Di questo stato d'animo si fece interprete, alla fine del 1867, A. Buzzone, in un opuscolo edito a Parigi sotto il titolo La vérité de l'insurrection de Crète par des Garibaldiens qui ont pris part, dove pubblicava lettere di alcuni garibaldini delusi e amareggiati. Questo scritto doveva aver avuto ampie ripercussioni in Italia, smorzando entusiasmi e aprendo la strada a recriminazioni, se Garibaldi in persona si preoccupò di prendere le distanze con due lettere alla « Riforma » di Firenze - espressione della Sinistra parlamentare - dove protesta: « Scrivere a disdoro degli eroi Candiotti da uno che si dice amico mio è una sfacciata menzogna. Io sono colmo di ammirazione per le gesta miracolose di quei prodi »; e lo stesso giorno ancora più esplkito è su « Il giovane Friuli » dove sconfessa la propaganda contro la Grecia, fatta da falsi garibaldini: « non è la prima volta che il vizio veste la maschera della virtù, quindi anche la canaglia indossa qualche volta la Camicia Rossa» (137). Nonostante queste difese per così dire d'ufficio, le cose devono essere andate proprio come aveva rivelato il Buzzone, se un garibaldino ungherese, certo Albert Kosma in due Lettres d'un garibaldien sur l'insurrection de Candie del 20 e 22 marzo 1867 da Costantinopoli (forse inviate a un giornale francese) dà sfogo all'amarezza e al risentimento: il 21 novembre 1866, appena congedato dalla Legione ungherese, nonostante che Lajos Kossuth e lo stesso prefetto di Brindisi avessero cercato di dissuaderlo, insieme a tre garibaldini italiani partì per la Grecia; a Syra trovò circa 500 volontari « qui par leurs vetements délabrés avaient tout autre air de I"- °?

-,

(136) Epistolario di Giuseppe Garibaldi, a cura di E.E. Ximenes, Milano 1885, voi. II, p . 203. (137) « La Riforma», 14 luglio 1867, che riproduce anche la lettera al « Giovane Friuli ».


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soldats »»; ai primi di gennaio a Herakleion i volontari rimasero completamente senza viveri e furono costretti ad andare a caccia di montoni: « Nous étrangers nous étions négligés, souvent insultés et plus d'une fois abandonnés par les entrepreneurs de l'.insurrection, qui connaissaient les sentiers des montagnes, grimpaient vite sur les rochers, tandis que nous autres, en combattant, nous recevions des blessures et quelque fois la mort ... De ma vie je n'ai vu tant de misère, de désordre, d'insubordination »; ad Anajia incontrò una dozzina di vecchi compagni d'arme italiani, fra cui sei ufficiali: « les souffrances et les privations en avaient fait de vrais squelettes: ils n'avaient ni vetements, ni chaussures, ils étaient presque nus ». Naturalmente il Kosma non mancò di rivolgere a questi suoi compagni qualche domanda e si sentì rispondere « par des malédictions contre ceux qui les avaient jetés dans une entreprise insensée, au moyen de mensonges et de promesses qui n'ont pas été tenues ... Nous étions partis de l'Italie croyant allcr combattre pour la Hberté et l 'indépendance d'un peuple resolu à tous sacrifices. Quelle déception! ...Nous n'avons trouvé chez les Candiotes ni sympathie, ni hospitalité, nous n'y avons vu que l'egoisme le plus noir. Nous voyant pour ainsi dire à l'agonie, ils n'ont pas eu la charité de nous donner un morceau de pain, ni un verre d'eau ». Fatti prigionieri in circa 500 e concentrati a Suda, solo dai Turchi ebbero un trattamento umano e furono sfamati: « Leur attitude bienveillante me rappela, camme contraste - ricorda sempre il Kosma - ]es paroles que j'avais entendues parmi les insurgés, en reponse à nos plaintes: " Que prétendez vous, vous autres étrangers? Qui vous a priés de venir ici? Pensiez-vous trouver sur les arbres des salami?" » {138). Più di uno sfogo postumo, questa del garibaldino ungherese appare come una testimonianza. Ed essa dà il senso della leggerezza o addirittura irresponsabilità con cui garibaldini italiani, polacchi, magiari ecc. erano stati lanciati nell'avventura cretese, senza preparazione e adeguato supporto logistico. Di qui le lettere dello stesso Garibaldi , che hanno tutta l'aria di una difesa da accuse che, al di là di comandanti e organizzatori, finivano per coinvolgere la stessa r.ua persona e gettavano più di un'ombra sull'intero movimento garibaldino. E forse a quest'epoca si deve far risalire certo discredito che comincia a serpeggiare in Italia e che si manifesterà con l'espressione, entrata nel gergo comune, di « fare le cose alla garibaldina » . (138) Archives du Ministère des Affaires Etrangères, Parigi, Turquie, M.D. 116, 1859-1867.


Cap. IV. - Gli irzterven !i garibaldini nei Balcani

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Questa esperienza di guerra e di sacrifici compiuta dai garibaldini accorsi a Creta nel 1866-67, si rinnova a trent'anni di distanza, nel 1897, quando essi si muovono di nuovo verso la Grecia, con alla testa ancora Ricciotti Gatdbaldi e Luciano Mereu. In presenza di un paese ormai più maturo e consolidato e di un atteggiamento delle Grandi Potenze favorevole alle rivendicazioni elleniche contro la Turchia ormai in sfacelo, l'insurrezione scoppiata a Creta in coincidenza con lo sbarco di unità greche comandate dal col. Vassos godette sostanzialmente degli aiuti internazionali: una flotta comune delle Grandi Potenze europee, posta sotto il comando dell'ammiraglio italiano Napoleone Canevaro, tenne l'isola al riparo da sbarchi turchi, L'insurrezione si estese anche al continente verso la Macedonia; ma l'esercito turco, da poco riorganizzato grazie a tecnici tedeschi, nell'aprile del 1897 ebbe la meglio sulle forze elleniche e sui volontari internazionali, a Farsala e a Domokòs, aprendosi la strada verso la Grecia centrale. Fra i volontari giunti da tutta Europa erano accorsi anche numerosi garibaldini italiani. Spinti dalle organizzazioni democratiche, dalle correnti socialiste e dalla stessa Massoneria guidata da Adriano Lemmi, i volontari si raccolsero presso Roma e, nonostante l' opposizione del Governo, riuscirono a imbarcarsi a Fiumicino. Appoggiati dai vari Comitati a pro' degli insorti di Candia e dei popoli oppressi d'Oriente » ( 139), una parte dei volontari combatterono nella Legione filellenica internazionale, distinta in « sezioni », mentre il grosso costitul con 1.323 uomini di varia nazionalità, ma con larga maggioranza italiana, il Corpo dei volontari garibaldini al comando di Ricciotti: fra essi vi erano 17 Francesi, 33 Inglesi, 248 Italiani del 1° battaglione Mereu, 348, pure Italiani, del 2° battaglione misto. Nella battaglia di Domokòs del 17-20 maggio 1897 i volontari garibaldini si coprirono di gloria, lasciando sul terreno 22 morti, fra cui il deputato Antonio Fratti, Filippo Bellini, Alarico Silvestri ed altri, e 72 feriti. Degno di nota, in modo particol are, la presenza fra i garibaldini di ben 34 triestini e istriani fra cui Vittorio Polli ed Edgardo Rascovich, caduti a Domokòs (140).

(139) Archivio del Risorgimento, Roma, Carte Ricciotti Garibaldi, vol. 267. (140) R. Garibaldi, La Camicia Rossa nella guerra greco-turca (1897), Roma 1937, pp. 19 e segg. .Pasquale Sgarallino, da Livorno il 24 aprile 1897, invia trecento volontari « tutti figli di vecchi Garibaldini» (Carte Ricciotti Garibaldi, cit., b. 268).


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Un impegno militare notevole, dunque, sostenuto da una organizzazione e da una struttura logistica, ben diverse da quelle - quasi inesistenti - di trent'anni prima. Malgrado tanto valore, all'indomani di Domokòs la Grecia fu salvata dal disastro più completo solo dall'intervento delle Potenze: il 20 maggio 1897 esse riuscirono a far concludere un armistizio e, in dicembre, la pace. Non tutto fu perduto perché la Grecia conservò la Tessaglia, salvo piccole rettifiche di frontiera a favore della Turchia, dovette pagare una pesante indennità e, per Creta, i Turchi riconobbero un regime di autonomia molto largo, avvìo all'annessione alla Grecia nel 1912. Altra grande crisi balcanica, preludio di quella più vasta cr1s1 d'Oriente che si concluderà col Congresso di Berlino del 1878, è la grande insurrezione che prende piede in Erzegovina e poi in Bosnia ai primi di luglio del 1875. Da secoli, dalla seconda metà del Quattrocento in avanti, l'insofferenza verso il dominio ottomano aveva assunlo lt'. forme di un insurrezionismo endemico e ricorrente, in zone come appunto la Bosnia-Erzegovina e i territori bulgari; di difficile controllo dal punto di vista militare, visto che i Turchi dovevano necessariamente limitarsi a dominare con le loro fortezze solo punti strategici e vie di comunicazione, qui le condir.ioni dei Cristiani erano particolarmente pesanti e più difficile la convivenza con l'elemento feudale turco. Nonostante le riforme avviate nel 1839 all'epoca del Tanzimat, esse procedevano a rilento, fra insistenze e pressioni dei rappresentanti diplomatici delle Potenze europee. Per tutti, basti ricordare come, ancora nel 1870, il ministro degli Esteri inglese Lord Granville avesse ben messo in chiaro, a Costantinopoli, che « l'effettiva salvezza » dell'Impero ottomano « dipenderà dallo spirito e dai sentimenti delle popolazioni da esso dominate ». Parole al vento, se di lì a pochi anni, nel 1875, una nuova grande insurrezione, partita dalla Erzegovina, si estendeva alla vicina Bosnia, coinvolgendo quasi l'intera Penisola balcanica. Il centro motore di essa si trovava a Belgrado, da dove - dopo la morte del principe Michele Obrenovié (1868) - il Consiglio di reggenza che guidava il paese durante la minore età del principe Milan aveva in Jovan Ristié la personalità di maggiore decisione e di più ampie vedute. A lui faceva capo, di fatto, il Comitato rivoluzionario bosniaco composto dall'archimandrita N. Ducié, da M. Ljubibratié (uno dei capi di precedenti rivolte) e il commerciante N. Okan. Secondo i piani predisposti cla questo comitato l'insurrezione


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doveva partire dalla Erzegovina, per poi coinvolgere la Bosnia, mentre Serbia e Montenegro, oltre a far affluire uomini ed armi, dovevano poi entrare apertamente in guerra contro la Turchia: in tutto questo una funzione direttiva doveva essere svolta dalla Serbia che - quale « Piemonte » dei Balcani e come tale indicata anche nei rappord dei Consoli italiani a Belgrado sin dall'epoca di Cavour doveva raccogliere intorno a sé tutti i territori slavo-meridionali. Quest'azione era affiancata dalle iniziative della Omladina, l'organizzazione patriottica della gioventù serba, come dall' « Associazione per l'unificazione e la liberazione dei Serbi » di Cetinje; molto attiva era poi la prima formazione socialista serba, il partito rivoluzionario di Svetozar Markovié (in collegamento con l'Internazionale di Bakunin e con le correnti rivoluzionarie russe di Terra e Libertà) che sin dal 1872 aveva dato vita a Novi Sad, ·a Belgrado, a Cetinje e a Kragujevac a « Comitati rivoluzionari di liberazione». D'altro canto, mentre dalla Bosnia si ricercavano aiuti presso i Serbi, in Erzegovina si contava molto sul Montenegro (che nel 1874 aveva sublto pesanti perdite a Podgorica in un conflitto con i Turchi), non senza mantenere contatti sotterranei con i capi bulgari come Panajot Hitov. Così, per questa preparazione lontana e recente, per gli incitamenti e gli appoggi che giungevano dall'esterno, non meno che per il valore degli uomini e la natura veramente impervia del terreno, per gran parte coperto da foreste, una rivolta che fosse partita dalla BosniaErzegovina possedeva tutte le possibilità di un successo non effimero. E non è senza significato se in Italia, sin dal 1869, un attento osservatore di cose balcaniche, Timoleone Vedovi, nel suo informato scritto su La Bosnia {Mantova 1869) avesse previsto questo non lontano sbocco rivoluzionario. L'insurrezione ebbe inizio il 9 luglio 1875 in Erzegovina, non lungi da Nevesinje, col rifiuto dei contadini di pagare le tasse e di soddisfare agli obblighi di corvée verso i feudatari ottomani. In breve tempo la rivolta si estese a tutto il paese e quindi alla vicina Bosnia, raggiungendo un numero di armati intorno ai 25-30.000. Contro di essi i Turchi furono costretti a far affluire truppe sempre più consistenti che raggiunsero gli effettivi di circa 30-000 uomini. In presenza di questa crescente pressione militare ottomana, una importanza decisiva ebbe l'intervento del principe del Montenegro Nicola Petrovié-Niegos che affidò al proprio suocero P. V ukovié la direzione delle operazioni, mentre le bande armate che dal Montenegro penetrarono in Bosnia furono affidate al comando di Peko Pavlovié. L'attacco alle linee di comunicazione .mise sin da11'ini7.io i Turchi a


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mal partito, costringendoli a chiudersi nelle fortezze. A differenza dell'insurrezione in Erzegovina, dove si svolsero vere e proprie operazioni militari, in Bosnia la rivolta assunse sin dall'inizio l'aspetto di una guerra partigiana o per « bande » o éete che, arroccate sulle montagne o nei conventi, attaccavano le unità ottomane disimpegnandosi con prontezza, per poi ricomparire in altra zona. E per la Bosnia decisivo fu l'appoggio esterno della Serbia, dove nell'agosto si era costituito, con l'aiuto finanziario del governo e la direzione del metropolita Mihailo, un « Comitato per gli aiuti agli insorti », il quale finì di fatto per dirigere da Belgrado l'insurrezione; altri comitati erano sorti nella parte della Bosnia soggetta all'Austria, senza che le autorità austriache potessero opporsi, mentre grande risonanza aveva in Bosnia-Erzegovina ed anche in Europa il Proclama insurrezionale dei diritti nazionali - emesso dal Comitato di Belgrado ed espressione del primo socialismo serbo - nel quale si affermava che la liberazione nazionale dei popoli delle due regioni doveva essere affiancata da una riforma agraria ed amministrativa, con distribuzione di terre ai contadini e attuazione di una autonomia comunale. Sulla linea di questo programma, nel dicembre del 1875 una assemblea, riunita a Jamnica sotto la presidenza di I. Gutesa, oltre a respingere le riforme promesse dalle autorità ottomane lanciava un appello alle grandi Potenze, dando poi vita ad un governo provvisorio. Intanto le operazioni militari, dopo la pausa invernale, erano riprese con vigore nella primavera del 1876 e anche i Bulgari avevano cominciato a muoversi, impegnando i Turchi lungo le vie di comunicazione essenziali. Dopo che nell'agosto del 1875 il Comitato centrale rivoluzionario bulgaro con sede in Romania si era riorganizzato, trovando in Hristo Botev un capo di grande decisione, già alla fine di settembre un primo moto insurrezionale ebbe inizio nella regione di Stara Zagara; ma per le condizioni del clima occorre giungere alla fine di aprile del 1876 per veder scoppiate l'insurrezione generale contro i Turchi , diretta da G. Benkovski, mentre un ulteriore tentativo fu attuato nel maggio dal Botev. Senonché la situazione dei territori bulgari, troppo vicini alla capitale ottomana, era ben diversa da quella della Bosnia-Erzegovina, così periferica: per non farsi tagliate fuori dal resto dei Balcani le autorità ottomane reagirono duramente e con decis:ione estrema, appoggiate dalla numerosa popolazione turca, come dai ticchi proprietari terrieri bulgari , legati al potere ottomano. Il risultato fu l'incendio di un centinaio di villaggi, il saccheggio di


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altre centinaia, rappresaglie e dure perdite inflitte agli insorti, senza che tuttavia l'insurrezione potesse dirsi del tutto debellata. Gli avvenimenti di Bosnia-Erzegovina e quelli di Bulgaria ebbero subito, sin dall'inizio, una vasta risonanza europea. Essi furono sentiti come l'ultimo episodio di risorgimento nazionale, cui si univano propositi di ascesa sociale e di elevazione delle masse contadine. La Sinistra europea, specie gli ambienti socialisti, si muove con prontezza e da Londra a Parigi, da Ginevra a Berlino, dall'Italia alla Russia sotterranea, dà vita a Comitati per gli aiuti agli insorti balcanici, invia armi e, soprattutto, fa affluire volontari. In Italia, di fronte alla questione dell'intervento a fianco degli insorti della Bosnia-Erzegovina, la Sinistra si presenta molto divisa; tuttavia, mazziniani e radicali, esponenti dei vari gruppi garibaldini, i primi internazionalisti come Errico Malatesta ed altri legati a Bakunin, sin dalle prime battute dell'insurrezione avvertono tutti il dovere di non essere assenti. Anche se esigui di numero, i più decisi erano i mazziniani, che vedevano nel moto b alcanico la spinta verso

un più vasto movimento di liberazione nazionale europea; quanto ai garibaldini e ai primi internazionalisti, essi sentivano il peso di una tradizione di volontarismo risorgimentale che spingeva a intervenire in Bosnia per un dovere di solidarietà verso popolazioni oppresse dai Turchi: il significato di liberazione nazionale per non pochi di essi si coloriva anche, ormai, con un serio impegno sociale, in armonia con i promettenti sviluppi di un movimento socialista in Italia, anche nei suoi agganci europei; ma insieme avvertivano di essere fortemente condizionati dagli interessi delle grandi Potenze, da complessi giochi diplomatici che si svolgevano al di sopra dei popoli e sulla loro pelle; infine non poca era la diffidenza verso il quadro ,politico offerto dagli iniziatori della rivolta , a cominciare da Miko Ljubibratié. Così inutilmente il vecchio Bakunin aveva cercato a lungo di persuadere uno degli esponenti dell'Internazionale in Italia, Errico Malatesta, a non avventurarsi nelle complicazioni balcaniche, in quanto così facendo si sarebbe comportato come « quella brava gente che in Inghilterra faceva le calze per i negri lontani e dimenticava i poveri del suo paese ». Il Malatesta non lo stette ad ascoltare e con la risposta « dovunque si combatte Cartagine, si difende Roma» preferì partire per la Bosnia, rivendicando il valore indivisibile della libertà, di cui tutti i popoli dovevano godere (141). (141) P.C. Masini, La Prima Internazionale in I talia. Problemi di una revisione storiografica, in Il movimento operaio e socialista, Milano 1965, p. 116.


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Una vasta solidarietà internazionale si raccoglie dunque intorno agli insorti della Bosnia-Erzegovina. Garibaldi ne fu subito coinvolto, da quando i capi della insurrezione - riuniti a Kosirjevo - ai primi di agosto del 1875 gli indirizzarono un appello, perché intervenisse a sostegno della lotta appena avviata. Questo appello, anzi invocazione di aiuto rispondeva come pochi a quella « attesa » di Garibaldi e delle sue Camicie rosse, che era cominciata a maturare nei Balcani e in tutta l'Europa centro-orientale giusto aJl'indomani dell'impresa dei Mille (v. ca,p. Il). Soprattutto, non v'è dubbio che l'appello a Garibaldi per i capi della rivolta suonava « come una dichiarazione a se stessi e all'Europa per affermare che la loro lotta si collocava sullo stesso piano di tutti quei movimenti di liberazione nazionale, considerati legittimi dai liberali di tutto il continente». Contemporaneamente, i firmatari della lettera facevano gran conto dell'immenso prestigio che Garibaldi continuava a riscuotere in tutta Europa, per ottenere aiuti materiali in armi, equipaggiamento, vestiario ( 142): nei Balcani si avverte che dietro di Jui esiste una forza reale, materiale e morale, un seguito effettivo su cui poter contare, in Italia e in Europa. Garibaldi, ormai carico d'anni e di acciacchi, da Caprera rimane sempre il condottiero ideale di questa sorta di « crociata » europea oltre l'Adriatico: per le sollecitazioni destate dalla lettura di giornali e per le richieste di aiuto che gli giungono da ogni dove, partono da lui messaggi, proclami, incitamenti; una sua lettera sulla rivolta in Erzegovina diretta a Lord John Russell, anch'egli ottuagenario, eletto presidente della Lega per la redenzione dei Cristiani d'Oriente, viene pubblicata a Bucarest dal giornale « Balcan » il 24 settembre 1875; in precedenza, pur nella sua miseria, Garibaldi - secondo una notizia pubblicata con particolare rilievo e compiacimento sul1'« Istocno Vreme )> (Tempo d'Oriente) - aveva inviato 100 franchi come proprio contributo alla sottoscrizione per gli insorti della Bosnia-Erzegovina e cinquanta erano stati offerti dal figlio Menotti. E un suo ca'loroso proclama inviato « Ai fratelli dell'Erzegovina e agli oppressi dell'Europa orientale » raccoglie ampia eco di consensi nei Balcani e in tutto 11 continente.

(142) J. Pirjevec-Picrazzi, Itali;anska Levica in vstaja v Bosni in Herzegovini 1875-76 (La sinistra italiana e l'insurrezione in Bosnia-Erzegovina 1875-76), in « Akad. Nauka i Umjetnosti Bosne i Hcrcegovine », voi. XXX, 4, Sarajevo 1977, p. 212.


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Presto, sin dall'estate del 1875, alle parole e ai proclami seguono i fatti: a Roma, a Venezia, a Trieste, Milano, Torino, Bologna, Ancona e altrove dagli ambienti mazziniani e garibaldini sorgono comitati per organizzare l'avvlo di volontari, la raccolta di armi, danaro, aiuti in genere da destinare in Bosnia-Erzegovina. Da Roma un notevole peso politico e morale verso tutta l'Italia ebbe il Comitato permanente di soccorso per la causa slava; esso faceva capo a uno dei più stretti collaboratori di Mazzini, il va'ltellinese Maurizio Quadrio: ferito durante la rivoluzione polacca del 1830-31, anima dei moti del '48 in Valtellina, quindi segretario di Mazzini durante la Repubblica romana del 1849, il suo impegno per gli insorti della Bosnia tenuto fermo sino alla morte avvenuta nel 1876 significava fedeltà agli ideali serviti durante l'intera esistenza. Più efficaci in sede operativa furono i due Comitati di Venezia e di Trieste, da dove - per mare o via terra - era più facile raggiungere il teatro d'operazioni balcanico. A Venezia del comitato facevano parte il conte Alvise Mocenigo, l'avvocato Enrico Villanova, Luigi del Col (che aveva combattuto al fianco di Garibaldi in Sicilia), Antonio Bilanovich e Roberto Galli che quale redattore de « Il Tempo», fece del giornale veneziano la principale fonte d'informazioni sull'insurrezione per tutta l'opinione pubblica italiana. A Trieste - divenuto ben presto il maggiore centro di smistamento di volontari e di aiuti, e come tale sorvegliato con attenzione dalla polizia austriaoa - vera guida del comitato fu Velimir Lombardié, il maggiore legame fra i vari comitati di aiuto agli insorti formatisi nei territori slavo-meridionali, e quello di Trieste; egli si preoccupava anche di tenere informati i vari giornali - occidentali e slavo-meridionali sulle vicende della rivdlta; 1a sua abitazione a Trieste per anni fu un veto « consolato » degli insorti, ed egli uomo di fiducia loro e della Omladina, l'associazione nazionale e rivoluzionaria della gioventù serba (Ujedinjene Omladine srpske) (143 ). Accanto al Lombardié, molto attivi furono, nel Comitato di Trieste, il serbo di Dalmazia Ljudevit Vulicevié e l'italiano di origine montenegrina Eugenio Popovich (Popovié). (143) H. Curié, Odbori za pomagan;e ustanka u Bosni i Herzegovini 1875-1878 (I Comitati per gli aiuti agli insorti di Bosnia ed Erzegovina 1875-1878), in 100Godisnjice ustanaka u Bosni i Hercegovini, drugim balkanskim zemljama i istoéno; krizi 1875-1878 godine (Il centenario dell'insurrezione in &snia Erzegovina, in altri territori balcanici e la crisi d'Oriente degli anni 1875-1878), Sarajevo 1977, voi. III, p. 111.


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Nativo di Cavtat nel 1839 (dove fu educato nel convento dei Francescani) e morto a Napoli nel 1916, i,l Vulicevié - che nella sua vita religiosa tormentata nel 1882 approderà a Venezia alla riforma valdese, rimanendovi come « evangelista» attivo dall'Italia settentrionale sino a Taranto - all'epoca dell'insurrezione in BosniaErzegovina era ancora prete cattolico: direttore a Pola, nel 1871, del foglio « Il Pensiero », di chiaro orientamento socialista; collaboratore, a Trieste, del liberale « l'l cittadino», dopo aver preso parte con vari scritti alle lotte nazionali fra Italiani e Slavi meridionali, nel 1875 contribuì a creare a Trieste il più importante centro per l'avvlo di volontari e la raccolta e spedizione di armi, munizioni, viveri e vestiario verso la Bosnia-Erzegovina. E sarà proprio quest'attiva esperienza accanto agli insorti a far riemergere in ,lui una consapevolezza nazionale esclusivamente serba, allontanandolo dai Croati, considerati troppo ligi all'Austria e legati a Pio IX. Appartenente a cospicua famiglia montenegrina, trapiantata e arricchitasi a Trieste, per il triestino ormai italianizzato Eugenio Popovich (Popovié) ( 1843-19 31) l'impegno a favore degli insorti discendeva dalle sue stesse origini garibaldine, quando era stato con Garibaldi ad Aspromonte e poi nel 1866; la sua azione si dipana da Trieste per tutta l'Italia, dove tiene contatti con vari comitati spostandosi di continuo verso la Bosnia Erzegovina, la Dalmazia e il Montenegro; e quando il ,principe Nicola (cui rimarrà costantemente fedele, sino agli anni successivi alla I Guerra mondiale), entrò in guerra a fianco degli insorti, il Popovich fu corrispondente del « Diritto » di Roma al fronte montenegrino. Accanto ai rapporti personali e alle notizie e sollecitazioni recate verso il movimento garibaldino da Marc'Antonio Canini, Vulicevié, Eugenio Popovich ed altri, un qualche rilievo di informazione balcanica aveva avuto, sin dal 1866, lo scritto di Giuseppe Bandi (1834-1894) dal titolo Da Custoza in Croazia. Memorie di un prigioniero (Prato 1866 con altre due edizioni). Mazziniano e con Garibaldi dal '60 al 1866, quindi nel 1870 direttore della « Gazzetta livornese» e de « Il Telegrafo» di Livorno, egli raccolse la testimonianza di un ufficiale garibaldino ,pistoiese, fatto prigioniero nel Trentino e condotto in Croazia sino a Zagabria e a Varazdin: anno(144) L. Vulicevié, Partiti e lotte in Dalmazia, Trieste 1875; Slavi e Italiani dallo Judrio al Quarnero, Trieste 1877; alcuni degli scritti principali sono stati raccolti da V. Stajé in Biblioteka Srpskich Pisaca (Biblioteca di scrittori serbi), Belgrado 1929, pp. IX-LX (intr.), 591.


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tazioni spesso aneddotiche e superficiali, esse andavano tuttavia contro corrente rispetto alla prevenzione nutrita a lungo in Italia verso i Croati dei reggimenti confinari austriaci; di qui la sorpresa dell'ignoto garibaldino di trovare in Croazia « una gente vergine di costumi, onesta di cuore, sobria e ospitaliera, e quanto mai gelosa del proprio nome e della propria nazionalità ... che non vede di buon occhio il dominio esercitato sovr'essa dagli austriaci». A Milano 1'8 agosto 1876 fu fondata la Lega per la liberazione e l'affratellamento dei popoli della penisola Slavo-Ellenica, per iniziativa del mazziniano Marc'Antonio Canini, di Giuseppe Bargnani, Liberio Chiesa, A. Majocchi, il colonnello C. Mariani, Alcibiade Moretti, Giambattista Prandini e Timoteo Riboli (medico personale di Garibaldi). Per lunga consuetudine e conoscenza dei problemi nazionali nei Balcani - sulla cui scena aveva cominciato a muoversi, da esule, dopo la caduta della Repubblica romana del '49, in Grecia, in Turchia, nei Principati danubiani e in Serbia - il vero capo e ispiratore fu Marc'Antonio Canini. Nel far rivivere in certo modo vecchie idee e progetti risalenti al 1862 per la creazione di una Confederazione danubiano-balcanica, il Canini inquadra l'impegno a favore degli insorti della Bosnia-Erzegovina in un più vasto disegno: costituire in federazione di Stati liberi i popoli della « penisola slavo-ellenica », con ampie autonomie comunali e provinciali, previo impegno degli Italiani di aiutare i Serbi e gli altri Slavi meridionali a liberarsi dal dominio turco. Garibaldi, come già nell'aprile nel 1862, concorda in tutto con queste idee del Canini (che gli rimane molto vicino) se il 4 marzo 1876 in un messaggio alla « gioventù slava» così si esprime: « I1 Turco deve passare il Bosforo. Ecco una condizione interessante per tutti i paesi bagnati dalla Sawa, dal Danubio, dall'Eusino, dall'Egeo, dall'Adriatico. A codesta confederazione di popoli liberi devono far posto le orde asiatiche, per tornarsene verso le native contrade», esortando infine « i discendenti dei famosi legionari di Traiano» a non abbandonare « i fratelli in servaggio » (145). Ancora e sempre ritorna in GaribaJdi il motivo della collaborazione, della concordia fra tutti i popoli del Danubio e dei Balcani, quale condizione alla cacciata dei Turchi. Naturalmente, allo sforzo organizzativo per avviare volontari e mezzi si affianca tutta un'opera di propaganda, con riunioni e as(145) Epistolario di G. Garibaldi, a cura di E.E. Ximenes, cit., voi. II, p.

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semblee come quella di Torino del 17 settembre 1876, presieduta da G. Siotto Pintor. E se il testo del programma federativo viene pubblicato in italiano su « I.I Nazionale » (Narodni List) di Zara il 13 settembre 1876, il Canini si preoccupa di darne notizia ai maggiori esponenti del principato di Serbia: a Jovan Ristié, capo del governo, il 25 agosto-6 settembre 1876, e a quel Matija Ban (capo dell'Ufficio stampa e il maggiore collaboratore del Ristié), che come si ricorderà, nel 1860 aveva ·lanciato l'idea di mettersi a capo di un'impresa di liberazione balcanica; ed è significativo che il Ban - politico avveduto - non esiti iJ 4 settembre 187 6 a chiedere chiarimenti al Canini circa i suoi progetti federalistici, fumosi e inconcludenti come tutte le sue idee e iniziative, ma realisticamente dominati dalla preoccupazione per la politica russa di espansione nei Balcani. Di tutto questo agitarsi del Canini e dei suoi amici di Milano quello che rimane in piedi è il costante impegno nel reclutare volontari, non senza pensare a uno sbarco in direzione del,l'Albania, quale efficace azione diversiva contro i Turchi (146 ). I vari Comitati italiani, dunque, per la presenza di uomini che recano con .sé - per appartenenza nazionale o lunghi soggiorni sensibilità e conoscenza dei problemi nazionali dei Balcani, sono fra i primi in Europa nello sforzo di far sentire agli insorti della BosniaErzegovina, poi ai Serbi, ai Montenegrini, ai Romeni, ai Bulgari, anche agli Albanesi, una concreta e fattiva solidarietà. Così, già nell'estate del 1875 garibaldini italiani fra cui il conte Carlo Paella e i capitani Firmino Nerini di Bologna, Ernesto Besozzi, Giuseppe Menotti, Federico Violante ed altri, partono alla spicciolata per la Dalmazia, avviati dal centro di reclutamento di volontari, messo in piedi a Venezia; essi sono pronti ad unirsi ai volontari provenienti dalla Francia, dall'Inghilterra, dalla Grecia, dalla Germania, dall'ambiente :populista della Russia sotterranea o dall'emigrazione pdlacca per fare causa comune con i rivoluzionari bulgari, croati, serbi, montenegrini, romeni. Naturalmente, tutti i movimenti dei garibaldini italiani da Trieste sino a Ragusa di Dalmazia vengono seguiti con particolare attenzione dalla polizia austriaca, che dal dicembre del 1875 sino alla primavera del '76 non fa che intensifi.

(146) G. Novak, ltali;a prema stvaran;u Jugoslavi;e (L'Italia di fronte alla for. mazione della Jugoslavia), Zagabria 1925, pp. 92 e seg.; N. Stipcevié, Dva preporoda (Due Risorgimenti), Belgrado 1979, pp. 217-37.


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care gli arresti di volontari garibaldini italiani, rinviandoli nel regno. Tuttavia molti riescono a passare. Nell'ottobre 1875 il numero dei volontari è già consistente: un gruppo con a capo il Paella e il suo aiutante Andrea Fraccaroli attraverso la Dalmazia raggiunse il voivoda M. Ljubibratié, costituisce una propria ceta o banda partigiana e già il 22 ottobre avrà il battesimo del fuoco nella battaglia di Zubcim. E' sotto l'impressione di questi primi successi e atti di valore dei volontari italiani che Garibaldi il 19 ottobre scrive da Caprera una lettera particolarmente calorosa al Ljubibratié, nella quale esprime il suo rammarico che il peso degli anni non gli consenta di partecipare alla lotta e, a conferma della tradizione garibaldina ed europea della guerra « per bande », approva « il divisamento di sostenere la guerra da partigiani durante l'inverno ». Egli si rende conto delle difficoltà dell'insurrezione, della necessità di far pervenire aiuti tempestivi per farla vivere e arrivare al successo. Per questo, due giorni più tardi il 31 ottobre, scrive ad un amico di Trieste perché si lavori per Ljubibratié e compagni « a tutta forza »: « ove rimanesse un insorto solo nell'Erzegovina, bisogna aiutarlo». Come sempre dalle parole passa ai fatti e ,ai primi di dicembre Garibaldi - per rendersi conto di persona degli sviluppi della situazione militate - spedisce in Erzegovina un suo aiutante, il conte Vivaldi Pasqua; questi discute a lungo la situazione militare col vojvoda Ljubibratié, « che si mostrò assai sconfortato, quasi avvilito, mi fece capire come avesse molta gelogia (sic!) degli altri capi che operano appoggiati alla frontiera nord del Montenegro ... ; si scusò alla meglio per il cattivo stato in cui lascia gli Italiani rigettandone la colpa sui comitati, il fatto si è che egli si occupa assai poco dei suoi soldati ». Il Vivaldi Pasqua si dirige poi a Cetinje, nel Montenegro, assicurando l'arrivo di altri 200 volontari italiani e dal principe Nicola si sente porre la domanda lusinghiera: « Credete che se dichiarassi guerra alla Turchia i figli di S.E. il generale Garibaldi verrebbero al Montenegro? » (147). Questa richiesta del principe Nicola Petrovié-Njegos possedeva evidentemente un chiaro sottinteso politico, ove si pensi che, al di là dell'insurrezione antiturca, le direttrici di espansione della Serbia e del Montenegro si incontravano proprio in Bosnia-Erzegovina: ottenere l'invio di un Garibaldi in persona avrebbe significato far pen(147) G. Garibaldi, Scritti e discorsi (Ed. Naz.), cit., voi. VI, p. 160; Archivio e Museo del Risorgimento, Roma, Vittoriano, Busta 52, fase. 1, Vivaldi Pasqua a Garibaldi, Cattaro 10 e 30 dicembre 1875.


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dere la bilancia dal,la parte del Montenegro, proprio quando dagli inizi e sino alla fine di dicembre del 187 5 l'afflusso di garibaldini e di aiuti in genere aveva come punto di riferimento quasi esclusivo il serbo Ljubibratié. Questi era nettamente ostile al Montenegro, in nome del carattere prevalentemente serbo delle due regioni, non senza il proposito di conservarne una individualità autonoma, a proprio vantaggio. I,l contrasto, anzi l'urto fra il Ljubibratié e il principe Nicola del Montenegro emerge alla superficie anche per Garibaldi e i vari Comitati di aiuto italiani giusto verso la fine del 1875, con l'invio nei Balcani del con1'e Vivaldi Pasqua, uomo .d i assoluta fiducia del Generale. Egli - a Trieste o altrove - prende contatto con Eugenio Popovich che riesce a convincerlo della necessità di spostare il peso degli aiuti garibaldini verso il Montenegro. Di più, nel gennaio del 1876, forte dei legami personali e ancestrali col principe Nicdla Petrovié-Njegos, il Popovich si presentò in Italia addirittura in veste di rappresentante semi-ufficiale Jel Monlenegro, cercò cli indirizzare le preferenze di Garibaldi e dei Comitati di aiuto verso il piccolo Stato feudale. Riuscì solo a creare disorientamento e contrasti in seno alla Sinistra garibaldina e mazziniana, tanto che lo stesso Maurizio Quadrio prefed abbandonare la presidenza del Comitato romano. Naturalmente, anche in seno ai volontari garibaldini ormai impegnati ,sul teatro di guerra questi contrasti ebbero ripercussioni negative, per il tentativo del Vivaldi Pasqua di sottrarre i volontari al Ljubibratié per portarli dalla parte montenegrina. Ma questo proposito fallì per 1a netta opposizione del Paella, che con la maggioranza dei garibaldini rimase al fianco del Ljubibratié; con lui sarà fatto prigioniero nel marzo del 1876. L'uscita di scena del Ljubibratié e, quindi, nell'estate del 1876 l'entrata in guerra contro la Turchia anche della Serbia e del Montenegro, finirono per comporre di fatto questi contrasti in un superiore impegno unitario. Intanto, malgrado l'attiva sorveglianza delle autorità di polizia austriache che, da.ll'inizio sino alla fine, cercarono di ostacolare l'afflusso di volontari (non pochi dei quali furono espulsi e anche arrestati) molti erano riusciti a raggiungere il teatro delle operazioni. Al 15 dicembre del 1875 i garibaldini italiani sono in testa, come numero, nella banda o ceta internazionale, con ben 390 combattenti; ad essi seguono 284 Francesi, 83 Greci, 53 Inglesi, 22 Tedeschi, 2 Americani e 1 Svedese. L'afflusso di volontari continua, con nomi noti ed ignoti: il 10 febbraio 1876 sbarca a Zara diretto in Erzegovina un gruppo cli garibaldini giunti da Livorno, al co-


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mando del valoroso maggiore Andrea Sgarallino, latore tra l'altro cli una lettera cli Garibaldi al principe Nicola del Montenegro del 26 gennaio 1876; dieci altri, fra cui Fortunato Fabbri, Calcedonio Cantini, Dario Frediani, Alessandro Bortilloni, sbarcano il 10 febbraio a Ragusa di Dalmazia e si avviano verso l'interno; il 20, a Zara, altri sette, fra cui Giuseppe Manzini cli Pistoia, Alessandro Sormani cli Milano, Carlo Stefanini di Livorno; 1'11 febbraio 1876 « Il Nazionale » o « Narodni List » di Zara in una corrispondenza da Herceg-Novi (Castel Nuovo), diede notizia dello sbarco cli 600 volontari italiani. Nel settembre del 1876 gli Italiani sono cosi numerosi che fu deciso di costituire una ceta o legione tutta formata da garibaldini; secondo il racconto di un testimone oculare, anch'egli garibaldino, il bolognese Giuseppe Barbanti Brodano nel suo diario Su la Drina. Ricordi e studi slavi (Milano 1878) il comando cli questa unità fu affidato all'internazionalista e capitano garibaldino Celso Ceretti, di Mirandola: a Roma nel 1849, si distinse sul Vollurno nel 1860, fu a Mentana con Cairuli ud 1867, combalté sui Vosgi con Garibaldi nel 1870; fu tra i primi ad accorrere in Bosnia, dove il vojvoda Ljubibratié lo scelse quale suo aiutante cli campo. Seguito da Garibaldi - che gli inviò varie lettere pubblicate con rilievo sulla stampa serba, bulgara e romena - con particolare affetto, il Ceretti, insieme a Stefano Canzio, al Bizzoni e al Castellazzo, al comando di una ceta di garibaldini italiani alla fine dell'estate del 1876 organizzò una spedizione contro i Turchi alla foce della Neretva (148). Si potrebbe a lungo continuare, ·riferendo nomi ed episodi cli questo nuovo, grande intervento garibaldino nella Bosnia-Erzegovina, cosi significativo sul piano europeo, per il contributo dato dagli Italiani al processo di formazione di quella che diverrà la Jugoslavia moderna. Gli anni 1875-78 rappresentano una tappa decisiva in questo processo, e Garibaldi e i garibaldini vi sono presenti. E come è in gioco il divenire nazionale anche dei Romeni e dei Bulgari, oltre che degli Slavi meridionali, si comprende che lettere e messaggi di Garibaldi trovino larga eco nell'opinione pubblica di queste due nazioni, scese anch'esse in campo soprattutto con volontari nella guerra russo-turca. L'indirizzo rivoltogli nel settembre 1876, da (148) G. Novak, Ita/.ija prema stvaranju ]ugoslavije, cit., pp. 84 e segg., M. Deambrosis, La partecipazione dei Garibaldini e degli internazionalisti ita/.iani alla insurrezione di Bosnia ed ErzeJ!,.ovina del 1875-76 e alla guerra di Serbia, in Studi Gariba/.dini ed altri saggi, Mantova 1967, pp. 33-82; J. Pirjevec-Pierazzi, op. cii., con la bibl. relativa.


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Bucarest, dalla cosiddetta Società centrale bulgara di Beneficenza, trova Garibaldi ben pronto a rispondere il 1° ottobre da Caprera, attestando la simpatia degli Italiani per il popolo bulgaro sceso in lotta, con un pugno di volontari, lungo i,l Danubio sotto la guida di Hristo Botev: « Io sono dolente , egli dice, di non poter personalmente dividere la vostra battaglia. Vi auguro costanza nella vostra santa missione ... » (149) . Non da meno dei giornali bulgari che sono pieni di riferimenti e notizie, che comunque riguardino Garibaldi e i garibaldini italiani, anche i giornali romeni seguono da vicino la presenza garibaldina nella lotta nazionale nei Balcani: anche per essi le lettere e i messaggi di Garibaldi sono parole d'ordine che riecheggiano da un punto all'altro del vasto fronte. Nel febbraio del 1876, un patriota e comandante dei volontari romeni Teodor Dunka, che nel '66 aveva combattuto tra le file garibaldine nel Trentino (e al quale Garibaldi era legato da grande affetto se divenne padrino della figlia Virginia), scrive da Jass al Generale per avere consigli su come comportarsi. Egli ha sempre alla mano i suoi volontari che nel '66 in numero di 1.500-2.000 erano pronti a invadere la Transilvania e la Bucovina in connessione con la guerra all'Austria. Dopo la battaglia di Sadova (3 luglio 1866), il governo romeno lo invitò a licenziare i due battaglioni di volontari. Tuttavia, scrive « raccomandai loro di tenersi pronti in dieci giorni come in dieci anni ad ogni evento d'una causa nazionale o liberale. I detti battaglioni portavano, Generale, la Camicia rossa». Ma ora vi è una situazione nuova, sul trono romeno siede un Hohenzollern e la Romania, in presenza della crisi orientale ormai alle porte, con tutta probabilità si schiererà accanto a Bismarck. Per questo, scrive il Dunka, « vi prego, Generale, di consigliarmi che cosa abbiamo da fare io ed i nostri nel caso che l'incendio scoppi in Oriente e da noi in scena... Siamo un pugno, Generale, ma non vogliamo mai sbagliare di bandiera, sbagliare la vera via dei democrati » (150). Era evidente che il Dunka - in presenza dei legami fra la Germania bismarckiana e l'Austria-Ungheria e non ignorando gli stretti legami che Garibaldi aveva sempre avuto con il movimento rivoluzionario ungherese, ormai esauritosi dopo l'Ausgleich del 1867

(149) Pubblicato dai giornali « Nova Bulgarija » di Bucarest, 1876 e « Bulgarski Glas » di Belgrado, 2 ottobre 1876. Pubblicata in fac..simile in H. Botev, Brani e liriche, a cura di L. Salvini e N. Doncev, Roma 1958, p. 114. (150) Museo e Archivio del Risorgimento, Roma, Busta 45, fasr. n. 27, T. Dunka a Garibaldi, Jasi, 9 febbraio 1876.


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- non intenda essere coinvolto in situazioni o lotte contrarie alla Romania e ai Romeni di Transilvania. Di qui il suo chiedere lumi a Garibaldi sul comportamento da assumere in una crisi internazionale daigli svolgimenti imprevedibili. E Garibaldi lontano su un'isoletta, vecchio e logorato, continua a essere sentito come l'unica persona in grado di far prendere la decisione giusta, di non far « sbagliare ,la vera via dei democrati ». Egli non si sottrae a questo compito di alto valore morale e politico, risponde al Dunka da Roma il 15 febbraio 1877 con una lettera pubblicata sul foglio bulgaro « Stara Planina » il 1° maggio 1877: « Caro mio Dunka, mi sono veramente meravigliato nel vedere

i Romeni insensibili alla causa della liberazione dei cristiani orientali, che lottano contro il terribile dominio dei Turchi. Oggi la tua voce liberatrice mi ha prodotto la migliore impressione. Mi chiedi: cosa dovete fare? Ebbene? Dite alla gioventù romena che voi, come i Bulgari, i Greci, i Macedoni, i Tessali, gli Albanesi, gli Epiroti e gli altri popoli dell'Oriente dovete combattere sotto il vessillo della libertà, fino a quando avrete cacciato la Mezzaluna al di là del Bosforo» (151). Con ogni probabilità Dunka sarà intervenuto nella guerra alla testa dei volontari romeni di Transilvania. Il conflitto ebbe testimone, proprio sul fronte turco-romeno, Marc'Antonio Canini così legato a Garibaldi; uso a pagare di persona, egli fu corrispondente di guerra per « Il pungolo» di Napoli dal maggio al dicembre 1877, distinguendosi per capacità di penetrazione nel groviglio di avvenimenti militari e ,politici, ed anche per coraggio: fu forse l'unico dei corrispondenti stranieri presente sul fronte romeno alla durissima battaglia di Plevna, quando gli altri preferivano il più sicuro settore russo (152). L'insurrezione della Bosnia-Erzegovina e i consensi europei da essa messi in movimento anche grazie a Garibaldi e ai garibaldini e internazionalisti italiani, visti storicamente segnano un momento importante, di transizione verso nuovi ideali politici e sociali: aiuto nell'impegno di ascesa nazionale, da un lato , e legame internazio-

(151) Riprodotta Gi Garibaldi, a cura (152) F. Guida, russo-turco nel 1877,

anche, con poche varianti e con àata errata, in Epistolario di di E .E. X1menes, cit., vol . II, p. 203. Marco Antonio Canini corrispondente dal, fronte di guerra in « Archivio Storico Ttalfano », 1979, pp. 359-424.


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nalista non appaiono in contrasto, ma cominciano a creare in Italia e in Europa solidarietà nuove, più profonde e durevoli. Di quest'epoca nuova si accorgeranno, fra i primi, i due garibaldini internazionalisti Celso Ceretti e G . Barbanti Brodano, reduci dall'impegno di guerra nei Balcani del '75-'76: nel 1908, alla notizia della annessione della Bosnia-Erzegovina da parte dell'Austria-Ungheria, non esiteranno a mettere a disposizione della Serbia i superstiti della Legione italiana e nuovi volontari, scrivendo a Ljuba Jovanovié, presidente della Skupcina serba: « Ricordare è amare, e noi ricordiamo. Venimmo fra voi e con voi, per la parola e con la parola di Giuseppe Garibaldi che vide nella emancipazione e nella indipendenza dei popoli balcanici non solo la base dell'equilibrio fra le nazioni civili, ma la difesa del primo e più santo e più alto dei diritti umani, quello della libertà nella casa, nel campo, nella patria ... » (153). Gli Albanesi sono gli ultimi, fra le nazionalità balcaniche, ad avviarsi nel corso del sec. XIX sulla strada lunga e tormentata che nell'imminenza della prima Guerra mondiale li porterà a costituire uno Stato nazionale. Ma quando, verso la metà dell'Ottocento anche per essi sboccia la « primavera dei popoli » rivelano una maturità che fa sentire i suoi frutti sia nelle colonie albanesi della diaspora, sia nel paese. Nel corso di quattro secoli di dominio ottomano, infatti - dal l'epoca del loro massimo eroe nazionale Giorgio Castriota detto Skanderbeg, « atleta di Cristo», della metà del Quattrocento in avanti - gli Albanesi erano riusciti a conservare una loro forte individualità nazionale e culturale: la salda organizzazione familiare, dei fis o gentes o famiglie allargate, delle « bandiere » o bajrak (che riunivano varie fis su base territoriale) e di più ampie tribù che comprendevano varie bajrak, era tenuta insieme da norme consuetudinarie rigorosamente rispettate; e la « parola d'onore» o besa quale impegno sacro della gente della montagna albanese di rispettarla anche a costo della vita - reggeva tutta l'impalcatura di diritto consuetudinario della stirpe albanese. Tanto le tribù cattoliche e musulmane del nord e del centro, come quelle ortodosse dell'Albania meridionale godevano di una notevole autonomia, mentre l'elemento musulmano, soprattutto gra(153 ) Archivio Ceretti, Mirancfola, pnhbl. da M. n eambrosis, cit., pp. 74-75.


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zie al valore guerriero degli Albanesi, entrò a far parte del ceto dominante dell'Impero ottomano, raggiungendo anche altissime posizioni nella gerarchia militare e amministrativa. Nel corso dei secoli, fra popolazione albanese e dominatori ottomani si era stabilita una sorta di non facile modus vivendi, fondato sul rispetto di tradizioni e costumanze da parte dei Turchi e sulla puntuale corresponsione dei tributi da parte dei capi albanesi. Come per altre popolazioni balcaniche, i primi segni di più accentuata insofferenza al dominio turco si fanno strada già nella prima metà del sec. XIX. Ma determinante è, per gli Albanesi, il moto risorgimentale italiano, per le sollecitazioni che giungono dalle colonie italo-albanesi dell'Italia meridionale, con significato che è insieme culturale e nazionale. Qui, dalla fine del Settecento presso il ceto colto ecclesiastico e laico (già classe dirigente) si afferma una cons-apevolezza nazionale bivalente, italiana e albanese: fra l'opuscolo polemico di Michele Bellusci di Frascineto del 1796 e lo scritto di francesco Dorsa Sugli albanesi. Ricerche e pensieri (Napoli 1847) - tutto teso « a far rivivere nell'opinione pubblica i diritti di una nazione illustre, ma non conosciuta» - per giungere all'opera di vero « risvegliatore » nazionale di Girolamo de Rada e a tanti altri, esiste una continuità di ideali nazionali e politici, oltre che culturali. Essa si esprime nell'impegno a veder esteso il processo di risorgimento nazionale italiano a quello della piccola patria d'origine, lasciata quattro secoli prima dai loro avi al di là dell'Adriatico. Per i consensi e la vera partecipazione raccolti da Garibaldi fra gli Italo-albanesi di Calabria e di Sicilia, molti dei quali lo seguirono sino al Volturno {v. cap. I), non è senza motivo che negli anni successivi questo impegno di rinascita nazionale trovi il suo alveo naturale nella Sinistra garibaldina. Se i progetti di sbarchi e di imprese al di là dell'Adriatico, immediatamente successivi all'impresa dei Mille e durati sino alla vicenda sull'Aspromonte (fine agosto 1862), dovevano coinvolgere anche l'Albania, gli appetiti rivolti verso i territori albanesi da Serbi, Montenegrini, Greci e Bulgari durante la crisi balcanica del 1875-78, suggerirono ai capi albanesi - riuniti nella Lega di Prizren (Prishtina} del 1878 - di riaffermare la volontà di mantenere il legame ottomano. Questa stessa linea fu difesa nel 1885-86 da Girolamo de Rada - cosi vicino agli ambienti garibaldini - quando in occasione della crisi rumeliota e alla guerra serbo-bulgara si affacciarono progetti federalistici per i Balcani: meglio - secondo lui - tenere in piedi una Turchia rinnovata grazie alla concessione di autonomie alle singole


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nazionalità, piuttosto che aprire la strada ad appetiti molto vasti, che avrebbero messo in crisi l'individualità albanese (154 ). Con questi antecedenti, il dinamismo dei maggiori esponenti politici e culturali italo-albanesi fra il 1900 e il 1915 trova i maggiori appoggi nel movimento garibaldino e, per esso, in Ricciotti Garibaldi. Su sollecitazione di un giornalista molto attivo, Manlio Bermici - che insieme a Luca Cuccia era il maggiore esponente del Comitato Albanese Pro Patria sorto a Roma sul tronco di un precedente Comitato Nazionale A/,banese - Ricciotti Garibaldi aj primi del 1900 ne divenne il presidente. Subito si adoperò per mettere insieme un corpo di volontari da tenere pronti in vista di un futuro sbarco in Albania. Qualche cosa, almeno come liste di nomi, deve essere stato fatto, ma non si andò oltre; e quando due anni più tardi, nella primavera del 1902, da Vienna la stampa austriaca lanciò qualche segnale preoccupato, lo stesso Ricciotti - pur offrendo il proprio appoggio agli Italo-albanesi nel loro impegno « in favore dei loro fratelli della madre patria » - dava testimonianza della loro volontà (sulle orme di de Rada) di mantenere l'integrità dell'Impero ottomano « piuttosto che cadere nelle grinfe dell'Austria ». Questo non impedì a Ricciotti Garibaldi nel 1903 di dichiararsi pronto a mettersi alla testa di una spedizione in Albania. Non mancarono, naturalmente, opposizioni di un certo rilievo partite dallo stesso ambiente italo-albanese, e in particolare da Anselmo Lorecchio, dallo spagnolo Juan de Aladro che vantava discendenza da Skandetbeg o Camilla Vaccaro ccc.; malgrado questo, il Garibaldi continuò a mantenere le fila di progetti verso l'Albania, dando vita col Bennici a un nuovo Consiglio Albanese d'Italia (marzo 1904); e come il principale ostacolo a una azione balcanica era l'Austria, fu spontaneo in lui legare questo organismo al movimento irredentistico italiano, cioè alla Federazione Nazionale per l'Italia irredenta. Scopo del Consiglio - col motto programmatico « l'Albania degli Albanesi » era quello di « organizzare l'elemento delle colonie albanesi d'Italia perché possa spiegare tutta la propria influenza in momenti non lontani e decisivi per l'avvenire (154) S. Skendi, The Albanian National Awakening 1878-1912, Princcton 1968, pp. 215-237; G. Ferrari, Il contributo degli Italo Albanesi al Risorgimento italiano, rn « Rassegna di Studi Albanesi ». nov. dic. 1960, pp. 14-38; G. de Rada, La via regia aperta alla Turchia, in « Fiamuri Arberit » (La Bandiera dell'Albania), 15 nov. 1886; dr. A. Tamborra, Il primo ingresso degli Italo-Albanesi nella politica balcanica (1885-1886), in « Rassegna Storica del Risorgimento», 1980, pp. 339-345.


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della madre patria albanese ». Il suggello garibaldino v1 e dominante, a cominciare dalla presenza, accanto a Ricciotti, dei combattenti italo-albanesi del 1860 Domenico Damis e Giuseppe Sgrò, mentre nobili napoletani della casata dei Castriota Skanderbeg (come il barone Filippo, il marchese Francesco e il marchese di Auletta, Giovanni Castriota) sottolineavano certa continuità storica col passato più lontano; i presidenti di Comitati locali di Calabria e di Sicilia entrarono pure a far parte del Consiglio che - esauritosi nella primavera del 1905 - aveva raggiunto oltre duemila iscritti. Ricciotti Garibaldi, intanto, e per il nome e per l'impegno a favore della Grecia nel 1897, rimane sempre al centro dell'attenzione di tutta la diaspora albanese: da Bucarest entra in contatto con lui Nicola Naço, direttore dell'Associazione filo-albanese Drita (La luce), invitandolo a impegnarsi a fondo in direzione dell'Albania e a diffidare dei Greci dominati dalla « grande idea » di ricostituire un giorno l'impero bizantino (marzo 1899-agosto 1903 ); a lui fa eco il principe Alberto Ghika (appartenente ad antica famiglia romena di origine albanese) che incontra Ricciotti a Roma nel gennaio 1905 e gli propone senza ambagi una spedizione militare in Albania di almeno diecimila uomini, addirittura per i primi di settembre... Siamo nel campo della più pura e folle improvvisazione e vi è da chiedersi se Ricciotti non abbia contribuito in qualche modo ad alimentare queste illusioni. Da Sofia - altro centro tradizionale della emigrazione albanese - ai primi del secolo fa sentire la sua voce verso Ricciotti Garibaldi anche Shahin Kolonja: già funzionario e poi governatore turco, col giornale « Drita » (La Luce) - differente dall'omonima associazione di Bucarest - egli si era messo alla testa della emigrazione albanese in Bulgaria; e anche lui nella corrispondenza con Ricciotti respinge il suggerimento di trovare una intesa con i vicini Greci, Serbi, Montenegrini e Bulgari, considerati nemici storici degli Albanesi. Minori contatti senza importanza né seguito ebbe Ricciotti Garibaldi con esponenti della diaspora albanese negli Stati Uniti, a Buenos Aires, in Belgio e altrove. In generale, confusione di idee, scarsa conoscenza dei problemi balcanici, profonde divisioni fra gli stessi Italo-Albanesi, illusioni circa la facilità di un'impresa garibaldina al di là dell'Adriatico, dominano questo agitarsi di Ricciotti Garibaldi e dei suoi in ordine al problema albanese. Per questo, in presenza de1l'aperta insurrezione contro il nuovo regime dei Giovani Turchi avviatasi nel Kos-


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sovo ai confini con l'Albania nell'aprile del 1909 e poi estesasi a tutta la zona, al Garibaldi non rimane altro che proporsi di ripercorrere nel 1912, sul fronte di Gianina, in Epiro, la non lontana esperienza di guerra del 1897 (155 ). I comitati italo-albanesi di costante affiliazione garibaldina da circa un anno avevano intensificato i preparativi: l'italo-albanese Terenzio Tocci - in contatto stretto con Ricciotti Garibaldi e col Consiglio Albanese d'Italia da lui presieduto, nonché col comitato albanese Pro Patria di Roma, che cooperavano tutti nel reclutamento di volontari - il 27 aprile 1911, aveva dato vita a Kimez a un Governo provvisorio albanese, d'intesa con i capi rivoluzionari albanesi di Podgorica, della Mirdizia e di Dukajin e con i musulmani della zona di Mat e di Dibra; il Tocci ne venne eletto presidente e l'Albania .fu dichiarata « libera e indipendente nelle sue frontiere storiche, di lingua e di nazionalità». L'iniziativa di Terenzio Tacci si rivelò inconsistente, anche per il pronto intervento del governo otlomano che riuscì a raggiungere un compromesso con i capi albanesi, concedendo poi una amnistia. Questo non impedì a Ricciotti Garibaldi di lanciare un manifesto, nel maggio del 1911, per incitare all'azione il movimento garibaldino. Ma un corpo di volontari per l'Albania al suo comando non si formò, soprattutto perché l'impresa di Tripoli suggerì al governo italiano opportune misure per evitare complicazioni in Adriatico, che avrebbero irritato l'Austria-Ungheria. Chi si mossero furono invece non pochi repubblicani triestini e istriani, sollecitati da Cipriano Facchinetti - direttore del giornale « Il Cacciatore delle Alpi» di Varese - che si recò a Trieste e, d'intesa col comitato clandestino della città, diretto da G abriele Foschiatti, prese a raccogliere volontari e armi da destinare in Albania: per il trasporto via mare « si contava sull'intraprendenza del capodistriano Nazario Sauro, buon conoscitore della costa adriatica e legato in amicizia ad alcuni capi albanesi che più volte aveva rifornito d'armi, con sbarchi notturni tra Durazzo e San Giovanni di Medua » (156). Ed era tale l'attaccamento di Sauro alla causa albanese da fare battezzare l'ultima sua figlia col nome di Albania.

(155) F. Guida, Ricciotti Garba/di e il movimento nazionale albanese, in « Archivio Storico Italiano», pp. 97-127; S. Skendi, op. cit. pp. 269 e segg.

(156) S. Skendi, T he Albanian Natior.al Awakening ... , cit., pp. 412-13; E. Maserati, Momenti della questione adriatica (1896-1914). Albania e Montenegro tra Austria e Italia, Trieste 1981 , p. 102.


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Malgrado le difficoltà e gli ostacoli da parte della polizia austriaca una piccola legione di volontari mazziniani e garibaldini - fra cui G. Foschiatti e Bruno Turrini, di Trieste, C . Facchinetti e Colombo di Varese, Gnecco e Bianco di Genova, il serbo di Cattaro Adolf Muck, Mazzotti di Cesena, il dott. Bologna di Milano, i mazziniani polesi Luigi Bilucaglia, Giovanni Predonzani e poi Mozzatto, Sturm, Bon ecc., e soprattutto il « vociano » Eugenio Vaina de Pava, nella primavera del 1911 raggiungeva l'Albania settentrionale; qui si impegnava in azioni di guerriglia, per poi sciogliersi a fine agosto del 1912 appena rientrata a Podgorica. Non si ebbe, invece, un intervento diretto di Ricciotti Garibaldi in Albania, dove tuttavia fu presente per un paio di mesi una ambulanza inviata dal Comitato garibaldino di Genova, alla guida della stessa moglie di Ricciotti, Costanza Hoperhaft, col tenente medico Giovanni Negri (157). Questa, al dire di un reduce volontario in Albania, Eugenio Vaina de P ava, fu « l'unica cosa, modesta ma utile perché reale, fatta da Ricciotti Garibaldi per l'Albania l'anno scorso ... » (158). Appartenente al gruppo della «Voce », amico di Giuseppe Prezzolini e di Umberto Zanotti Bianco, fra il 29 febbraio 1912 e il 18 settembre del 1913, dall'autorevole tribuna della « Voce » aveva richiamalo l'attenzione degli Italiani sulla « questione » albanese, sui rapporti degli Albanesi con gli Slavi e con i Greci, sul movimento albanese in Italia, concludendo con un saggio bibliografico e con una indagine sui « problemi interni della nuova Albania » (20 febbraio e 18 settembre 1913). Questi veri e propri studi erano il frutto di un contatto diretto con l'Albania, dove era accorso in aiuto agli insorti. Rimpatriato nel luglio del 1911 per una brutta insolazione, volle poi ritornare a combattere, mentre dalla Italia Umberto Zanotti Bianco e l'Associazione per gli I nteressi del Mezzogiorno d'Italia si prodigavano per inviare aiuti ai profughi albanesi privi di tutto, tramite l'inglese miss Durham organizzatrice dei soccorsi a Podgorica. Proprio questo contatto con il mondo albanese suggerirà a Zanotti Bianco nel luglio del 19 12 l'idea di avviare nei territori albanesi una vasta opera: « convincere, muovere le tribù sia del nord che del sud a unirsi per lo svolgimento di un unico programma nazionale »; metterle « in guardia contro le mire dell'Austria» ; creare biblioteche, scuole, opere di cultura, per « ri(157) E . Maserati, op. cit., pp. 102-lOJ ; S. Skendi, op. cit., pp. 269 e seg. (158) E. Vaina, La questione albanese. Il movimento albana/ilo in Italia, in « La Voce» 16 m aggio 1912.


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svegliare il sentimento patrio », sollecitando la collaborazione degli Italo-Albanesi dell'Italia meridionale e dei monaci dell'Abbazia di Grottaferrata (159). Questo vasto disegno, indirizzato a dare sostanza a una « Giovane Albania », si tradusse sul momento nel volume di Eugenio Vaina AJ,bania che nasce (Catania 1914) - che diede l'avvio alla collezione di spiriti mazziniani de « La Giovine Europa », diretta da Zanotti Bianco: con quest'opera, come con gli scritti sulla « Voce», il Vaina continuava nell'impegno assunto verso l'Albania, quando andò « a dividere il pane acido degli insorti Malissori ». L'Albania - egli scrive da testimone e partecipe della lotta « la sua libertà se l'è guadagnata da sè per l'indefessa insurrezione d'un pugno di montanari ignoranti, per la riconquista egualmente disperata della stessa coscienza nazionale che un nucleo di piccoli intellettuali e di pubblicisti ha fatto con volontà superiore alle sue forze»» ... « Poi, solamente poi, son sopraggiunte le coincidenze internazionali a favorirla». Un anno più tardi, Eugenio Vaina partì volontario cadendo al fronte il 21 luglio 1915 (160). Un qualche risultato, se non altro come testimonianza di valore e di fedeltà a una tradizione, fu l'intervento garibaldino sul fronte di Macedonia, agli inizi della seconda guerra balcanica. All'appello di Ricciotti Garibaldi accorsero Peppino Madeiro (da non confondere col figlio di Menotti), Ricciotti junior, da Parigi, Sante dall'Egitto, Costante ed Ezio, mentre Menotti rimase in Cina e Bruno a Cuba. Una piccola formazione garibaldina combattè così in Macedonia sul fronte del Drisco, e di essa fecero parte anche le sorelle dei Garibaldi insieme alla loro madre Costanza come infermiere. Intorno a Ricciotti Garibaldi che aveva posto il suo quartier generale all'Università di Atene, si riunl una sorta di Legione internazionale, formata da Italiani, Inglesi, Americani, qualche Francese, Macedoni, Bulgari, Cretesi e persino un Cinese, con prevalenza di ufficiali italiani. La marcia per raggiungere il fronte fu durissima, fra montagne coperte di neve, ed ebbe inizio nel novembre (159) Archivio dell'Associazione per gli Interessi del Mezzogiorno d'Italia, Roma, Fondo Zanotti Bianco, Zanotti Bianco a T. Salvemini, Torino, 9 agosto 1911. (160) E. Vaina dc Pava, La democrazia cristiana italiana e la gue"a (19121915). Scritti politici raccolti e pubblicati dagli amici, Bologna 1919, pp. VIII e 255; Idem, Parole di commemorazione dette nel suffragio solenne del 2 novembre 1915 nel Collegio convitto alle Quercie per Eugenio Vaina de Pava, Firenze 1916.


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del 1912, lungo la direttrice Trikkala, Malakassis, Metzovo. Qui, nella zona del Drisco, il corpo garibaldino di appena ottocento combattenti contro oltre duemila Turchi, dopo tre giorni di combattimenti fu accerchiato e dovette ritirarsi: sgombrati prima i feriti e le infermiere della Croce Rossa, ad essi seguirono i volontari e uno dei medici, il dr. Aldo Spallicci, nel suo scritto di ricordi potè sottolineare: « La ritirata avvenne ordinatamente come una marcia, poiché nessun soldato conobbe la fuga ... Il sacrificio era avvenuto, il nostro tributo di solidarietà, non compreso nè utilizzato era stato dato ed il corpo di volontari si sciolse a Metzovo » (161). Scoppiata la guerra mondiale, i Garibaldi tentarono di rinnovare l'impegno balcanico sul fronte macedone, avviando trattative in Grecia fra la fine del 1915 e il 1916. Ricciotti Garibaldi, col nome di Alessandro Domingo Giovetti e passaporto portoghese, il 26 dicembre 1915 giunse ad Atene, dove propose al presidente del Consiglio E. Venizelos la formazione <li una Legione garibaldina, anche con elementi greci; poi si recò a Salonicco, dove il generale Sarrail, comandante dell'Armée d'Orient operante in Macedonia contro i Turco-Bulgari, « si mostrò favorevole » a tale idea, indicando « come campo d'azione l'Albania ed a fianco dell'esercito serbo». Se ne parlò anche, a Parigi, ancora ai primi di dicembre del 1917, quando i rappresentanti di Francia, Italia, Gran Bretagna, Giappone e Stati Uniti, discussero una proposta di Ricciotti per raccogliere e avviare in Macedonia un corpo di volontari da reclutare negli Stati Uniti, in Francia ecc. (162). Ma la cosa non ebbe seguito. 1

(161) R . Garibaldi, La Camicia rossa nella guerra balcanica, Campagna di Epiro 1912, Como 1915; R. Garibaldi junior, I fratelli Garibaldi dalle Argonne all'intervento, Milano 1935, p. 9; A. Spallicci, La spedizione garibaldina in Grecia, Fotll 1913; A. Barbetti, La Legione garibaldina italo-greca, novembre dicembre 1912, Roma 1913. (162) S. Sonnino, Diario 1916-1922, a cura di P. Pastorelli, Bari 1922, vol. III, p. 218.



V.

SGUARDI E CONSENSI DALLA RUSSIA « IMMENSA »

Se gli anni giovanili di navigazione avevano portato Garibaldi a frequentare anche i porti del Mar Nero, da Odessa a Taganrog, si può dire che da quell'epoca egli sia rimasto affascinato dalla Russia « immensa » e legato, sentimentalmente, alla sua gente. In Italia e fuori esponenti del populismo russo - espressione russa del primo socialismo europeo - ricercheranno il contatto con lui e gli esporranno le proprie idee, mentre le file garibaldine si arricchiranno di uomini e le imprese di consensi. In realtà, al di là dell'affiliazione ideologica o delle simpatie immediate e spontanee dei primi radicali russi, è tutta la Russia che guarda a Garibaldi, fuori da qualsiasi schema politico. Dal '48 in avanti, l'esaltazione della figura e dell'opera dell'italiano in camicia rossa - non diversa da quella in uso presso i contadini della Russia meridionale - accomuna tutti i ceti sociali, sino a raggiungere la forza del mito. Essa cade in un momento particolarmente promettente per la vita e l'avvenire dell'immenso paese, quando la sconfitta subita nella guerra di Crimea, i fermenti di rinnovamento che dai salotti letterari e dall'intelligencija radicale guadagnano cerchie sempre più vaste, finiscono per congiungersi a quella iniziativa dall'alto presa da Alessandro II per la liberazione dei servi nel 1861. Ma il processo di rinnovamento, di svecchiamento della Russia appare lento, complesso, circondato da remore, ostacoli, difficoltà, con una classe dirigente nobiliare e l'alto clero ortodosso arroccati nella caparbia difesa dei loro privilegi e fermi nell'intento di svuotare di contenuti le riforme appena avviate. Le stesse riforme amministrative, con l'avvio di un regime di autonomie locali, rimangono monche, prive come sono di uno sbocco in alto, al vertice dell'Impero, dove occorrerà attendere la rivoluzione del 1905 per veder comparire una prima Assemblea rappresentativa.


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Ecco dunque che, nel proseguire una tradizione di confronto con l'Occidente, anche per trarre ispirazione dalle più mature correnti di pensiero, si prende a guardare fuori, verso altri processi di rinnovamento che possono essere recati a esempio in Russia. E' l'epoca in cui i Russi, non senza precedenti settecenteschi, « avevano bisogno di vedere riflessi i propri problemi nell'Europa per poterli guardare nel loro insieme, in tutta la loro importanza» (163). Naturalmente, si guarda anche all'Italia, al suo travaglio risorgimentale ed ai protagonisti di maggiore spicco, primo fra tutti Giuseppe Garibaldi insieme a Mazzini e a Cavour. Poeti, scrittori, giornalisti, esponenti del ceto nobiliare, ecclesiastici, militari sono in molti a compiere nell'Ottocento quell'iter italicum di lontana tradizione. Come sottolinea E. Lo Gatto, sino all'epoca del Risorgimento la attrattiva dell'Italia sui Russi - ovviamente appartenenti tutti al ceto nobiliare e alla classe dirigente dell'impero - era legata essenzialmente a una duplice tradizione: « quella classica della missione divina di dare la civiltà ai popoli, compresa l'ispirazione dell'arte, sia quella del cielo azzurro, dei canti dolci e sonori». Atteggiamenti estetizzanti e letterari, impegno di studio, necessità di curare il « mal sottile», legami di parentela, in taluno anche interessi religiosi, presiedono ai viaggi e soggiorni in Italia di esponenti della classe dirigente aristocratica russa. Fra questi, all'indomani dell'armistizio Salasco del 9 agosto 1848, chi sente nascere la fiducia in Garibaldi è il conte Grigorij P. Svalov (1804-1859). Dopo aver studiato a Pisa e a Firenze e, passato al cattolicesimo, sul finire dei suoi giorni essere entrato nell'ordine dei Barnabiti, egli sentiva l'Italia come una « seconda patria»; cosi egli esorta i suoi amici romagnoli Gaspare Finali, Luigi Almetici ed EuclJde Manaresi a non disperare, auspica che « faccia l'Italia da sè » con una insurrezione generale, di popolo, contro l'Austria; per questo, il 26 agosto 1848 scrive all'Almerici: « ...spero che si potrà mantenere anche Garibaldi... che nelle attuali circostanze rende al parer mio grandissimo servizio alla causa dell'Indipendenza» (164). Ma a partire dagli anni intorno al 1848, il ceto nobiliare non è più il solo a essere presente su suolo italiano, a contatto con una società in pieno sforzo risorgimentale. Da questo momento in poi, (163) F. Venturi, Il populismo russo, Torino 1972, II ed., vol. I, p. 37. (164) E. Lo Gatto, Russi in I talia. Dal secolo XVIII ad oggi, Roma 1971, pp. 13 e segg. Su Suvalov v. A. Tamborra, Grigorij P. Suvalov e l'I talia in « Rassegna Storica del Risorgimento», 1978, p. 296.


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la presenza dei Russi in Italia non fa che riflettere le stesse divisioni e contrasti della società russa: una stratificazione che mette di fronte, in un dissidio insanabile, la Russia della classe dirigente aristocratica - diplomazia, burocrazia, esercito, alto clero ecc. stretta intorno allo zar, da un lato e l'altra Russia, tutta diversa, sotterranea e perseguitata; di quest'ultima, quelli fra i più attivi e compromessi che riescono a sottrarsi alle condanne e alla deportazione in Siberia, trovano rifugio e possibilità di esistenza nell'Europa occidentale, in Germania, Francia, Inghilterra, Svizzera, Italia. Fra questi due ambienti russi che prendono contatto con la realtà dell'Italia risorgimentale e postrisorgimentale non vi è alcun rapporto fisico e umano: i primi si muovono in genere fra i circoli dirigenti italiani dove hanno amicizie e stringono anche parentele; i secondi si muovono nell'ambito della sinistra piemontese, o più runpiamente italiana del '48 e anni successivi, resa fervida dall'ideale mazziniano e poi dallo slancio garibaldino. Intorno al Risorgimento Italiano e ai suoi protagonisti di maggiore spicco - siano essi Mazzini o Garibaldi, Vittorio Emanuele o Cavour - si raccolgono dunque i consensi di tutti. In particolare - nota Venturi - « come avviene nei grandi rivolgimenti, il nome di Garibaldi non è monopolio di nessuna tendenza o corrente; esso è anzi un po' il simbolo di tutto quello che unisce i liberali ai democratici, gli uomini di riforme a quelli delle incipienti riforme ... L'opinione pubblica russa era evidentemente ansiosa di conoscere quel che Garibaldi faceva o diceva. Basta aprire le riviste dell'epoca per averne una prova, quelle « grosse riviste » come le si chiamava, che costituiscono l'organo più importante dell'opinione pubblica che si andava risvegliando dopo la lunga oppressione di Nicola I. Il « Russkij vestnik » (Il messaggero russo) era tutt'altro che una rivista di avanguardia - ma non per questo era meno caratteristica - . Basterebbero le sue date stesse per dirci quanto essa fosse esemplare d'una determinata epoca moderata e liberale. Dal 1856 al 1906, dalla morte di Nicola I allo schiacciamento della prima rivoluzione. Nel 1862 tirava 5.700 esemplari. Vi scrivevano un po' tutti coloro che noi chiamiamo i liberali russi della metà del secolo scorso, e che in realtà potremmo meglio <lefinire come i sostenitori d'una nuova edizione, ottocentesca, d'un assolutismo illuminato. Letterariamente il « Russkij vestnik » era una gran rivista. I romanzi che andò pubblicando sono una splendida riprova della grandezza letteraria della Russia del secolo scorso. Delitto e castigo, L'Idiota, I fratelli


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Karamazov, Anna Karenina, Padri e figli, per non citare che i principali, ecco i romanzi che i lettori poterono trovare nelle pagine di questa rivista ... Se il « Russkij vestnik » rappresenta bene l'opinione liberale il « Sovremennik » {Il Contemporaneo) è l'organo di quel radicalismo che, già nutrito di idee socialiste, ben presto darà origine alla corrente ,populista. Ecco il numero di luglio 1860, dove troviamo una vera e propria biografia di Garibaldi, scritta da E.P. Karpovic, fecondo anche se non molto originale scrittore appunto di questa tendenza populista. L'analfabetismo, la situazione dei contadini, il lavoro delle donne erano stati e saranno anche in seguito i suoi soggetti abituali.. . Ma Garibaldi sembrava davvero entrar naturalmente nel mondo dei russi che stavano preparandosi a diventar rivoluzionari. Il suo nome era spesso citato da colui che era il vero direttore e ispiratore di questa rivista, Nikolaj Gavrilovic Cernysevskij, e dal suo giovane e geniale amico Dobroljubov. Ne ammiravano il coraggio, l'energia, lo s_piritu vuluntaristico . E' ben veto che attraverso queste situazioni dell'Italia lontana, che Cernysevskij non vide mai di persona e che Dobroljubov visitò malato, quasi alla soglia della morte, essi scrutavano in realtà i destini del loro proprio paese. Gli uomini del risorgimento, Cavour, Garibaldi, Gavazzi (che fu la gran passione di Dobroljubov), rischiavano di diventare i geroglifici di una diversa realtà (che la censura zarista costringeva spesso ad esprimersi per enigmi). Elementi veramente importanti per capire la genesi del populismo. Meno essenziali, direi, per capire i veri e più profondi riflessi dell'opera di Garibaldi in Russia. La ,parte più immediata e spontanea restava quella di Dobroljubov. Soprattutto quando questi si trovava ancora in Francia, subito prima di passare in Italia, scrivendo allora a Nekrasov, il poeta del populismo nascente, gli esprimeva tutta la sua ammirazione per Gadbaldi « che ha mantenuta sacra la sua idea. Bello è leggere ogni sua riga, tutto quello che scrive ai suoi soldati, ai suoi amici, al re. Ovunque una gran calma, una profonda fiducia, un tono talmente luminoso... » (la lettera è del 23 agosto 1860 » (165). Al di là del consenso di pubblica opinione, così vasto e diffuso, i rapporti personali sono quelli che più saltano agli occhi. Il momento iniziale di questi rapporti può essere collocato all'indo(165) F. Venturi, L'immagine di Garibaldi in Russia all'epoca della liberazione dei servi, in « Rassegna Storica Toscana » 1960, pp. 309-310.


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mani del 1848-49, dopo il naufragio delle grandi speranze europee; chi li avvia, segnando così il principio di una tradizione destinata a durare nel tempo, è un piccolo gruppo di esuli russi che, nel muoversi tra Nizza, Genova e Torino, trova certa sua unità intorno alla personalità di maggiore spicco del primo populismo, quella di Aleksàndr I. Herzen. Nel lasciare alle spalle l'amara esperienza parigina, con una repubblica ormai agonizzante e avviata a subire, nel dicembre del 1851, il colpo di Stato di Luigi Napoleone, « je respirai avec liberté » - ricorda appunto Herzen - quando il 23 giugno 1850 un carabiniere piemontese gli aveva restituito, vistato, il passaporto alla frontiera del Var. Questa prima impressione di libertà, anzi vero e proprio clima politico, saranno ricordati da lui più tardi, con nostalgia, come un tempo felice, quando viveva « tranquillement sous la protection de la Croce di Savoia »; non aveva ormai « altra patria che l'Italia», tanto da diventare « tutt'uno con quella natura e con quella gente» (166). Accanto a Herzen, altri esuli riescono a dare un senso alla loro vita di proscritti, trovando rispondenza in uomini della Sinistra quarantottesca. Taluni di questi, sensibili e preparati, hanno letto e viaggiato molto, anche in Russia e nell'Europa centro-orientale, recando in patria più di una eco dei problemi nazionali e sociali che lì vi fermentano: da Lorenzo Valerio a Cesare Correnti, da Giovenale Vegezzi Ruscalla (che nel giugno del 1848 aveva inviato un suo messaggio al Congresso slavo di Praga, insistendo poi a Torino nell'estate di quell'anno perché il Piemonte si collegasse alle nazionalità danubiano-balcaniche per un comune sforzo contro l'Austria), a Giorgio Pallavicina, da Paolo Belgioioso al professor Leone - essi tutti sono gli animatori con ungheresi e polacchi di quella « Società italo-slava » sorta a Torino nel marzo del 1848; questi uomini rappresentano il sottofondo culturale e di opinione politica che affianca e pungola l'azione diplomatico-militare del Regno subalpino, volta a collegare il problema italiano ai problemi nazionali della Media Europa. Una politica di ampio respiro, poi sviluppata da Cavour e sentita vivamente anche dopo la sua morte (167). (166) Cit. da F. Venturi, Esuli russi in Piemonte dopo il 1848, Torino 1959, p. 58; Studies in Free Russia, Chicago 1982, l)p. 140-186. (167) A. Tamborra, Cavour e i Balcani, cit., pp. 88-90; V. Zacek (ed.), Slovanskj s;ezd v Praze roku 1848 (Il Congresso slavo di Praga del 1848), Praga 1958, pp. 129, 143-194.


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Verso questi esponenti della Sinistra piemontese dovevano andare le simpatie e l'intera fiducia dell'esigua, ma intellettualmente qualificata emigrazione politica russa del primo populismo. Così A.I. Herzen e V. Engel'son, Ivan Golovin e N . Sazonov con i loro scritti e contatti personali trovano ospitalità, eco e consensi sulla stampa subalpina. Uno di essi, Ivan Golovin, fa uscire a Torino nel 1852 il suo « Journal de Turin »: un foglio di breve vita, che interviene vigorosamente nella battaglia politica in atto nello Stato suibalpino, ne esalta - non diversamente da Herzen - il clima di libertà, offre un panorama drammatico delle condizioni anche economiche del resto della Penisola, facendosi soprattutto tramite, con notizie e commenti, fra Italia ed Europa. Il primo incontro fra il mondo politico e morale che si sta formando dopo il '49 intorno a Garibaldi da un lato, ed Herzen e i primi populisti russi dall'altro, avviene negli Stati sardi, in particolare fra Nizza, Torino e Genova. Qui si era venuta riunendo quella emigrazione politica esule da Roma, che non diversamente dai russi aveva trovato ospitalità, ragioni di vita e spazio politico dopo la fine della Repubblica romana. Di questa emigrazione faceva parte Michelangelo Pinta (Roma 1818-Milano 1912) ben conosciuto da Herzen e da altri esuli russi in Piemonte: esponente di primo piano nel giornalismo romano del 1846-49, con «L'Italico», «L'Epoca» (1848-49) e l'umoristico « Don Pirlone », fu deputato alla Costituente romana; inviato in missione a Torino da Terenzio Mamiani alla fine del 1848, vi rimase dopo la fine della Repubblica e la restaurazione di Pio IX, incontrò Herzen a Nizza nel 1850, dopo averlo già visto in precedenza a Roma e a Ginevra; un nuovo incontro avverrà con Herzen a Londra nel 1856 e a questi contatti con esuli populisti russi e anche letterati come I. Turgenev (cui rimarrà legato da lunga amicizia) è dovuto il primo sorgere di un interesse culturale del Pinta per la Russia, dove si recò per la prima volta nel 1856-57. Un particolare significato possiede la sua amicizia con Herzen: nell'autunno del 1850 - dopo il rifiuto comunicato al console di Russia a Nizza di obbedire all'ordine imperiale di rientrare in patria egli si rivolge giusto a Pinta per conoscere quale potrà essere l'atteggiamento del Governo sardo di fronte a una eventuale richiesta di « éloignement du Piémont » da parte del ministro degli Esteri conte Nesselrode; non si conosce la risposta, ma evidentemente deve aver avuto assicurazioni ufficiali, perché Herzen rimase indisturbato negli Stati sardi, conservando tutti i suoi « capita-


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li» (168). Da questo momento i contatti di Pinto si estendono ad altri esponenti della intelligenciia russa, non solo dell'emigrazione ma anche del paese, con I. Turgen'ev, V.P. Titov, N.A. Mel'gunov, N.A. Nekrasov ecc.: saranno questi contatti a fargli accettare l'invito a occupare, all'Università di Pietroburgo, il posto di docente di letteratura italiana (dicembre 1859-aprile 1886), cui unirà dal marzo 1867 anche le funzioni di console d'Italia. Significativa, per il luogo e per l'argomento fu la prolusione da lui tenuta nel febbraio del 1860 e dedicata a La littérature italienne considérée comme expression du sentiment national; e non senza riguardo al clima politico e morale del momento, a due anni di distanza dall'assassinio dello zar Alessandro II (1 marzo 1881 ), nel commemorare l'amico I. Turgen'ev non esitò nel 1883 a vedere in lui non tanto quegli che « personnifiait la nation » quanto « les aspirations, les tendances, les aptitudes et les espérances, et, en un mot, il representait plutot l'avenir que le présent. Ce n'était pas le reproducteur mais le précurseur typique du progrés narional » (169). Accanto a Pinto, uno dei politici della Costituente romana, il soldato garibaldino Giacomo Medici, difensore del Vascello, che poi comanderà con Garibaldi nel 1860 la divisione che da lui prese nome. Di lui Herzen divenne a Genova « molto intimo», ammirato dai « prodigi di valore» compiuti a difesa della Repubblica romana. Il tribuno-guerriero Medici - ricorderà Herzen più tardi - dovrebbe presentarsi alla fantasia come un condottiero abbronzato dalla polvere da sparo e dal sole dei tropici, con lineamenti duri, con una parlata a scatti e sonora, con una mimica violenta. Pallido, biondo, con fattezze delicate, con occhi pieni di dolcezza, con modi squisiti, Medici assomigliava piuttosto a un uomo che avesse trascorso tutta la vita in compaY,nia delle signore anziché a un guerrigliero e a un agitatore; poeta, sognatore, a quei tempi follemente innamorato, tutto in lui era bello e piaceva.

(168 ) Archivio Privato Pinto, Roma, Herzen a M. Pinto 23 settembre e 4 ottobre 1850 (pubbl. anche in « Litcratumoe Naslcdstvo » [L'eredità letteraria]), Mosca 1958, vol. 64, pp. 441-445. (169) Museo e Archivio di Risorgimento, Roma, Carte Pinto; M.P. Alekseev, Mikelanf.el<> Pinto. Neskol'ko dann;ich k ego charakteristike po russkim istoénikam (M. Pinto. Alcuni elementi del suo profilo secondo fonti russe) in Studi in onore di E. Lo Gallo e G. Maver, Roma 1962, pp. 23-41.


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Le poche settimane passate insieme a Genova mi fecero un gran bene; era nel periodo più nero per me, nel 1852, un mese e mezzo dopo i funerali ( 170). M i trovavo disorientato, avevo perduto le biffe, i segnali di rotta, non so se allora somigliassi a un pazzo, come scrisse Orsini nelle sue memorie, ma mi sentivo malissimo. Medici mi compativa senza dirmelo; ma la sera tardi, verso mezzanotte, bussava qualche volta alla mia porta ed entrava a far due chiacchiere seduto sul mio letto (una volta, durante una di quelle conversazioni, acchiappammo uno scorpione sulla coperta). Qualche volta bussava anche alle sette di mattina, dicendo: - Fuori è un incanto, andiamocene ad Albaro - ; quivi abitava la bella spagnola che egli amava. Non confidava in un rapido mutamento della situazione, davanti a sé vedeva anni d'esilio, tutto peggiorava, si offuscava, ma v'era in lui qualcosa di giovanile, di allegro, a volte d'ingenuo; in quasi tutti i caratteri di quella tem pra ho notato lo stesso tratto (171).

Degli altri, fra cui Felice O rsini, Carlo Pisacane, Antonio Mordini, Enrico Cosenz - che andarono a salutarlo alla partenza da Genova - « non ho mai incontrato - ricorderà Herzen - un carattere più puro e più semplice di Saffi ». A confronto con altri occidentali, tedeschi e francesi, « ecco perché ci si sente t anto confortati, si respira così sollevati quando in questa calca di mediocrità pretenziose, d'ingegni pieni di affettazione e di spocchia intollerabili ci s'imbatte in un uomo forte, senza la minima imbellettatura, senza l'amor proprio che stride come un coltello sul piatto ... A quel tipo di uomini appartiene Aurelio Saffi }> (172). Questi gli uomini - ultimi rottami del naufragio della Repubblica romana - che avevano stretto durevole amicizia con altri esuli: quei russi come Herzen, più tardi Bakunin ecc. i quali si avviavano a dare sostanza di idee e di impegno civile a quel peculiare e sfaccettato as,petto del socialismo ch e diverrà il populismo russo. Questi italiani esuli si stanno staccando d a Mazzini, sentono come pochi - dopo l'esperienza romana - quanto sia inconsistente l'insurrezionismo mazziniano. E sarà proprio H erzen, in partenza per Londra, a essere incaricato « di farsi il loro portavoce presso Mazzini, di dirgli le ragioni del loro scontento e della loro oppo(170) Della moglie e del figlio, morti annegati a Nizza. (171) A.I. Herzen, Passato e pensieri (trad. it.), cit., p. 110. (172) I bidem, pp. 109-111.


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s1Z1one » (173 ). Garibaldi assente, in navigazione verso il Mar del Plata, la nebulosa garibaldina sfilacciatasi dopo la esperienza del '49, prende a formarsi, ad acquistare una consistenza sempre maggiore. Ed Herzen, oltre a incontrare a Londra Mazzini, vide per la prima volta Garibaldi, « tolto di peso da Cornelio Nepote, con la semplicità del bambino, coll'ardimento del leone ... », dopo che nel 1851 aveva preso parte insieme ad altri esuli di mezza Europa ai funerali della madre a Nizza: Conobbi Garibaldi di persona nel 1854 a Londra, allorché, tornando dall'America del Sud, si ancorò nei Docks delle I ndie Occidentali. A ndai da lui con un suo compagno d'armi della guerra di Roma e con Orsini. Garibaldi, con un pesante pastrano chiaro, una sciarpa da eolio a colori vivaci e col berretto in testa, mi fece l'impressione del vero uomo di mare più che di quel glorioso condottiero dei volontari romani, le cui statuette, in costume di fantasia, si vendevano in tutto il mondo. La semplicità bonaria del tratto, l'assenza d'ogni pretesa, la cordialità con la quale mi accolse, disponevano in suo favore. Il suo equipaggio era formato quasi per intero di italiani, egli era il capo e un'autorità, un'autorità severa, ne sono convinto, ma tutti guardavano a lui lietamente e con affetto, erano fieri del loro capitano. Garibaldi c'~nvitò a colazione nella sua cabina, ci offerse ostriche dell'America del Sud preparate in modo special,e, frutta secca, vino di Porto; ad un tratto balzò in piedi, dicendo: - Aspettate, berremo insieme un altro vino - , e corse di sopra; dopodiché un marinaio portò una bottiglia. Garibaldi la guardò con un sorriso e riempì il bicchiere a ciascuno di noi... Che cosa non ci si poteva aspettare da un uomo giunto da oltre oceano? Era semplicemente il vino di Nizza, sua terra natale, che aveva portato con sé a Londra dall'America. Intanto nel conversare semplice e alla buona a poco a poco si far.eva sentire la presenza d'una forza; senza frasi, senza luoghi comuni, il condottiero di popoli che aveva stupito i vecchi soldati col suo valore, si veniva rivelando, e nel capitano di mare era già facile ravvisare il leone ferito che, mostrando i denti ad ogni passo, si ritirava dopo la caduta di Roma, e, avendo perso tutti i suoi seguaci, chiamò di nuovo a raccolta soldati, contadini, banditi e chiunque capitasse sotto mano in San Marino, a Ravenna, in Lombardia, nel Tirolo e nel Canton Ticino, per colpire di nuovo il nemico, mentre aveva accanto il corpo della sua compagna, che non aveva resistito agli strapazzi e alle privazioni della campagna.

173) F. Ven turi, Esuli russi ..., d t., p. 134.


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Nel 1854 le sue opinioni divergevano già sensibilmente da quelle di Mazzini, sebbene fosse con lui in buoni rapporti. In mia presernza egli disse che non bisognava irritare il Piemonte, che lo scopo essenziale era per allora di liberarsi dal gioco austriaco e dubitava molto che l'Italia fosse pronta all'unità e alla repubblica, come Mazzini riteneva. Era assolutamente contrario a ogni tentativo o esperimento d'insurrezione. Quando salpò per andare a far carbone a Newcastle e di là si diresse verso il Mediterraneo, gli dissi che la sua vita di mare mi piaceva moltissimo e che fra tutti gli emigrati, egli aveva scelto la parte migliore. replicò con ardo- E chi gl'impedisce di fare altrettanto? re. - Era questo il mio sogno prediletto, ridetene pure, se volete, ma mi è caro tJnche adesso. In America mi conoscono; potrei avere sotto il mio comando tre, quattro, cinque navi come questa. Vi imbarcherei tutti gli emigrati: marinai, ufficiali, operai, cuochi, tutti sarebbero emigrati. Che c' è da fare oggi in Europa? Avvezzarsi alla schiavitù, tradire se stessi oppure chiedere l'elemosina in Inghilterra. Stabilirsi in America è peggio ancora; quella è la fine, è il paese de « l'oblio della patria» , è una patria nuova: laggiù vi sono altri interessi, tutto è diverso; la gente che rimane in America esce dalle file. Che r.'l? di meglio della mia idea (e il .ruo volto s'illum inò) , che c'è di meglio che raggrupparsi attorno ad alcuni alberi di nave e scorazzare l'oceano, temprandosi nella dura vita del mare, nella lotta con gli elementi, col pericolo? Una rivoluzione navigante, pronta ad attraccare a questa o a quella sponda, indipendente e irraggiungibile! In quel momento egli m'apparve come un eroe classico, un personagi,io del!'« Eneide» ... attorno al quale, se fosse vissuto in altra epoca, si sarebbe formata una leggenda, un « Arma virumque cano »! (174).

NeUo scrivere queste righe Herzen non immaginava certo quale leggenda si sarebbe formata, nel breve giro di anni, intorno alla figura di Garibaldi. Con queste premesse di consonanza politica e calore di rapporti umani, maturate tra populisti russi e patrioti italiani legati in vario modo a Garibaldi, non deve recare meraviglia se i successivi avvenimenti dell'epopea garibaldina abbiano destato in Russia tanti consensi. Di ritorno dall'America del Sud, dove - come noterà (174) A.I. Hcrzcn, Passato e Pensieri (trad . it.), cit., pp. 104-105.


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più tardi SM. Kravcinskij detto Stepnjak, nel 1882 - « le unprese americane prepararono non solo Garibaldi per l'Italia, ma anche l'Italia per Garibaldi», la guerra del 1859 vide Garibaldi mettersi alla testa dei suoi Cacciatori delle Alpi - da Varese a San Fermo - , imponendosi subito per valore e capacità militari. Dal 1848-49 in avanti, secondo l'acuta notazione di Herzen, egli si era avviato alla lotta facendo « un passo dopo l'altro » (175); che la temperatura fosse in aumento e la guerra imminente era stato notato, fra gli altri, dal poeta e critico letterario Apollon Grigor'ev che nell'agosto del 1858 riferiva a M.P. Pogodin - storico e scrittore di rilievo, di impostazione slavofila e conservatrice - che « a Genova respirava aria di libertà. I ritratti di Mazzini e di Garibaldi nei caffè mi meravigliavano non poco e mi colmavano di gioia» (176). Le speram~e e le attese per un rinnovamento della vita russa, messe in moto dagli studi preparatori che condurranno alla liberazione dei servi del 1861, e gli stessi fermenti rivoluzionari che sempre più prendono corpo in quello che sarà definito movimento populista, fanno convergere con insistenza gli sguardi della gioventù russa verso Garibaldi. Come ricorda l'ingegnere e scrittore K.A. Skalkovskij, « la guerra del 1859 per la liberazione dell'Italia provocò nella società un entusiasmo straordinario. Essa era popolare anche nel corpo (dei cadetti) e il nome di Garibaldi era familiare anche presso il popolo »; e in uno scritto a L.F. Panteleev, conferma che Garibaldi « si guadagnò rapidamente popolarità in tutti gli angoli dell'immensa Russia. Il movimento italiano si guadagnò nella società russa la stessa ampia simpatia ». Non vi è dunque <la meravigliarsi se sin dall'inizio della guerra contro l'Austria, la questione italiana finisse per occupare un posto di rilievo nella pubblica opinione, grazie anche ai corrispondenti inviati dai maggiori giornali russi. Fra tutti, per obiettività e larga informazione si distingue Nikolaj Vasil'evic Berg (1824-1884). Di origine balta-tedesca, con una posizione intermedia fra i circoli liberali e quelli già rivoluzionari, nel 1859 fu inviato dal foglio liberale « Russkij Vestnik » a seguire le operazioni militari in Italia. Insediatosi in un primo momento presso lo Stato Maggiore piemontese, passò poi al quartier generale di Garibaldi: « un uomo (175) A.I. Herzen, Solineni;a (Opere), vol. IX, Mosca 1957, pp. 256-57. (176) V .E. Nevlcr, Echo garibal'dinskich sraienij (Eco delle battaglie garibaldine), Mo~cn 1963, p. '10.


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simpatico al quale chiunque si affeziona sin dal primo minuto ». Il Berg rimase accanto alle schiere garibaldine sino alla fine delle ostilità e prima di rientrare in Russia ebbe un colloquio con Garibaldi: questi ricordò il soggiorno a Odessa e a Taganrog, definl il popolo russo « uno dei migliori del mondo», parlando a lungo con l'ospite dei contadini russi e del problema della loro liberazione; e la conclusione del corrispondente russo è che Garibaldi pensava di aiutare un movimento di liberazione in Russia, esprimendo infine il desiderio di « poter visitare la Russia » ( 177). Ma dove, per la statura intellettuale degli scrittori e la sensibilità politica e 1a scelta di campo in senso già populista e radicale da essi compiuta, Garibaldi viene colto nel suo significato storico italiano ed europeo, è in N.A. Dobroljubov e N.G . Cernysevskij. Entrambi esponenti di rilievo del « Sovremennik » (il Contemporaneo) - una rivista attentamente sorvegliata dalla censura zarista - uscivano, per sorte comune, da famiglie di papi, quel clero minore che viveva il <ltamrna yuotidiano della povera gente di campagna, esprimendo un impegno di elevazione sociale destinato a sconfinare nella protesta rivoluzionaria: l'uscita dall'Accademia ecclesiastica e il proseguimento degli studi all'Istituto pedagogico di Pietroburgo furono per Dobroljubov già una scelta, completata con l'avvio di una attività politica nell'ambiente studentesco della capitale. Nel 1856 Dobroljubov si legò in amicizia a Cernysevskij. avviando la collaborazione al « Contemporaneo ». Affetto da quello che allora veniva definito il « mal sottile » cioè la tisi, si recò a curarsi in Occidente, soggiornando in Italia dal novembre del 1860 al giugno 1861: il momento decisivo del processo unitario italiano, come uomini e problemi, è dunque sotto i suoi occhi di osservatore attento e politicamente preparato, ed egli ne riferisce con giudizi acuti ed informati sulle pagine della rivista. Giunto in Italia all'indomani dell'impresa dei Mille, Dobroljubov coglie di Garibaldi il lato per lui essenziale, quello di essere « la personificazione della rivoluzione»; proprio per questo, « Cavour ama l'Italia e la libertà, ma non ama Garibaldi che si è troppo insuperbito e da qualche tempo si è fatto un uomo irrequieto»; tanto libero nelle iniziative che « se gli dicono " andare in Sicilia è una follia " lui ci va; se lo si minaccia "non toccare Napoli ", risponde "ci andrò " e tutti sanno che muoverà su Roma e su Venezia, se senza di lui Roma e Venezia non si liberassero ». (177) V.E. Nevler, op. cit., pp. 41-45.


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Soprattutto, come nota C.G. De Michelis, il Dobroljubov vede la figura di Garibaldi attraverso gli occhi e gli infiammati discorsi del barnabita, cappellano garibaldino, Alessandro Gavazzi. E non è un caso che proprio da un discorso tenuto a Napoli dal focoso sacerdote - dove questi afferma che « Garibaldi rappresenta la rivoluzione italiana vincitrice » se « Rivoluzione vuol dire restaurazione dei diritti del popolo contro le usurpazioni dei Principi » il Dobroljubov giunge a concludere che il condottiero rappresenta il momento rivoluzionario del processo risorgimentale italiano (178). Non testimonianza diretta dall'Italia, ma considerazioni politiche sono quelle di Nikolaj Gavrilovic Cernysevskij, direttore del « Sovremennik » e, insieme a Herzen e Bakunin, fra i maggiori esponenti della prima generazione dei populisti. Per lui, « la vicenda dell'esercito di Garibaldi rappresenta non solo la più pura, ma la parte più importante ed essenziale della campagna » del 1859; per questo - scrive - « noi ci fermiamo con amore molto più grande sulle gesta straordinarie dei volontari di Garibaldi; .. .l'azione dei

volontari garibaldini merita lo studio più attento non solo per il rispetto che si deve a uomini veramente nobili che si sacrificano non per speranza di gloria, nè per un qualsiasi calcolo personale, ma per desiderio sincero di liberare la patria, ma perché solo nella loro forza è la base sicura della indipendenza italiana». Soprattutto, Cernysevskij si chiede come mai a Garibaldi non furono fornite « armi da distribuire agli abitanti » per condurre insieme a essi una guerra ,partigiana; perché, stranamente, non gli furono dati cavalli per mettere insieme un piccolo reparto di cavalleria, nè « un solo cannone, nonostante che gli alleati avessero pezzi talmente leggeri che due uomini potevano trasportarli a mano in luoghi non accessibili ai cavalli »; di conseguenza per Cernysevskij « è difficile astenersi dalla conclusione, che la sconfitta di Garibaldi non sarebbe dispiaciuta affatto al comando supremo dell'esercito francese ... ». Naturalmente, severo è il suo giudizio sull'armistizio di Villafranca, « una pace conclusa in modo così rapido o, per meglio dire, tanto affrettato che le persone convinte che la guerra fosse una cosa seria, non riescono a riaversi da questo avvenimento im{178) N.A. Dobroljubov, Sobranie soéinenii v deviati tomach (Opere complete in nove volumi), Mosca 1962-64 (art. in due puntate sulla vita e morte di Cavour, in « Sovremennik » 1861, nn. 6 e 7), vol. VI, pp. 84 e seg.; art. Iz Turina (da Torino), ibid., p. 37, pubbl. in « Sovremennik », n. 3, 1861; trad. it. di C.G. De Michelis, in Conii, preti, briganti. Cronache italiane, Mil-ano 1966 con intr.


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provviso ... : una pace che lascia l'Austria padrona del Veneto, delle fortezze sull'Adige e sul Mincio che le assicurano il dominio di tutta l'Italia settentrionale ... ; una pace che attribuisce alla Sardegna un territorio troppo esiguo per consentirle di fronteggiare l'Austria da sola, ma sufficiente perché l'Austria non dimentichi la perdita subita, e ricerchi senza sosta una occasione per recuperarla avendo nelle sue fortezze sul Mincio e sull'Adige le chiavi per farlo ». Cosi « la guerra è terminata più presto e più vantaggiosamente per l'Austria ... » (179). Fra i primi ad accorgersi, sin dal maggio del 1859, che Garibaldi era un comandante militare diverso dagli altri fu una musicista e compositrice russa V.N. Kasperova, molto popolare in Russia, specie per l'opera Taras Bul1ba e che, allora in Italia, vi aveva diretto le sue opere Maria T udor e Rienzi: forse per il non lontano ricordo della guerra del 1812 contro Napoleone, i1 25 maggio del 1859 scrisse all'amico P.M. Gribovskij definendo Garibaldi « un ottimo generale pattigiano »; componendo poi un coro in suo onore durante il soggiorno sul Lago di Como. Non diversa è la valutazione di N.V. Berg, che nel 1859 era stato inviato in Italia dal foglio liberale « Russkij Vestnik » per seguirvi le operazioni militari: egli notò subito in lui « la semplicità irresistibile » e la sincerità « del comandante partigiano » (180). Fra tutte le testimonianze quella che spicca per sincerità ed efficacia è dovuta a Michail Bakunin, anch'egli uno dei protagonisti del populismo russo. Confinato nella Siberia orientale, dopo anni di prigione trascorsi in Germania, Austria e Russia, egli cosi ricorda:

Je me truuvais dans la capitale de la Sibérie orientale, à lrkoutsk, lors de la campagne mémorable de Garibaldi en Sicile et à Naples. Eh bien, je puis affirmer que tout le public d'Irkoutsk, presque sans exception, marchands, artisans, ouvriers, jusqu'aux fonctionnaires mémes, prenait passionnément parti pour le libérateur contre le roi de Deux-Siciles, le fidèle allié du tsar! La poste n'arrivai! ators à Irkoutsk que deux fois par semaine, le télégraphe n'existait pas encore; et il fa/tait voir avec quel acharnement on s'arrachait /es journaux et avec quel enthousias.me on Jétait chaque nouvel exploit du général libérateur! Dans les années 1860, 61, 62 et 63,

(179) N.C. C:ernysevskij, Polnoe sobranie soéinenij (Opere complete raccolte), Pietroburgo 1906, voi. V, pp. 263-64; 271-78. (180) V.E. Nevler, op. cit., pp. 40, 43.


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larsque le monde rurat russe était si profondément agité, des paysans de la Grande et la Petite-Russie attendaient la venue de Garibaldo/f, et lorsqu'on leur demandait qui c'était, ils répondaient: « C'est un grand chef, l'ami du pauvre monde, et il viendra nous délivrer! ».

Naturalmente, egli è pronto a interpretare questi vasti consensi che dall'Occidente raggiungono la lontanissima Irkutsk, come il farsi strada di una « unité réelle, l'unité populaire, activée d'ailleurs par le dévéloppement des interets matériels, par celui des voies de communications »; il tutto, a suo dire, contro Mazzini e contro « une idée doctrinaire quelconque » (181). Sarà la eco dei successi garibaldini a radicare in Bakunin la convinzione che questo primo risultato della rivoluzione di popolo dovesse avere ormai un seguito irresistibile, a breve scadenza. Di qui la sua decisione di fuggire dalla Siberia per inserirsi di nuovo, da protagonista, nell'azione rivoluzionaria : il suo pronto contatto a Londra con Herzen e Ogarev alla fine del 1861 e poi il viaggio in Italia e successivi svolgimenti sino alla creazione dell'Internazionale, ebbero la prima spinta dalle notizie sull'impresa dei Mille, sul « generale liberatore » . Ma in questo coro di consensi non si devono trascurare personaggi di secondo piano, che tuttavia hanno un loro posto nella discussione -politica o nell'attività letteraria. Così. V.F. Odoevskij , scrittore di spiriti li1berali sulla via del radicalismo, che esalterà lo zar Alessandro II per la liberazione dei servi del 1861, il 5 settembre 1860 non esita ad accostare l'impresa dei Mille alla lotta di liberazione della Russia dall'invasione polacca e svedese dei primi del Seicento, all'epoca dei Torbi-di: Garibaldi viene paragonato da lui e da altri, nei commenti del momento, a Kuz'ma Minic Minin (m. 1616 ), organizzatore e uno dei capi della cosiddetta Seconda Milizia, che raccolse e armò volontari contribuendo alla vittoria. La musicista V.N. Kasperova, allora in Italia sul Lago di Como, salutò con entusiasmo l'impresa dei Mille, affrettandosi a inviare un ritratto di Garibaldi all'amica N.A. Tatarinova-Ostrovskaja, rimasta sempre fra quanti, con entusiasmo, tennero vivo in Russia certo « culto » di Garibaldi. (181) Così in un articolo del gennaio 1872 d<:6tinato e « •L a révolution socirue », organo della Federazione i;iurassiana dell'Internazionale, e pubblicato in «Fede», Roma, n. 123, 1° luglio 1926, ripr. dal ms. in A. Lehning, ed., Michel Bakunin et l'Italie 1871-72, Leyden 1963, p. 190.


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Il giovane D.N. Mendeleev - poi divenuto chimico famoso nell'autunno del 1860 e sotto l'impressione dell'impresa dei Mille chiede: « Dov'è mai stato un uomo simile a Garibaldi? Egli ha fatto tutto per l'Italia, ha battuto ,gli Austriaci, ha liberato la Sicilia di cui si impadronì con mille uomini in tutto, il cui avvicinarsi costrinse i Borboni a scappare da Napoli, dove Garibaldi entrò con 60.000 compagni. Egli affascina chiunque, induce a dimenticare i motivi personali per quelli del prossimo ... E questi, per il quale si innalzano le preghiere del popolo, nel quale l'Italia spera, non ricerca onori o ricompense ... Felice il paese che può generare uomini come Garibaldi ». E fra le sue carte Mendeleev conservò varie fotografie di Garibaldi, raccontando ai suoi figli le impressioni riportate nell'ambiente dei garibaldini (182). Non diverso l'entusiasmo dello scrittore e grande amico di Michelangelo Pinto, I.S. Turgenev che nel 1859-61 si muove fra l'Italia e Parigi; secondo la testimonianza dello scrittore e critico letterario P.V. Annenkov, « i suoi scritti di quest'epoca sono pieni di entusiasmo per la causa italiana », tanto che da Parigi il 22 maggio-10 giugno 1859 scrive: « Bisogna gridare: Evviva l'Italia! E vviva Garibaldi! (in italiano nel testo), inneggiando a Garibaldi anche in lettere successive (183 ). Così, nel giugno 1860 si meraviglia che l'amico A.A. Fet non sappia chi sia Garibaldi e, il 6 novembre, scrive da Parigi a Herzen che sul momento gli unici uomini « disinteressati in Europa » sono soltanto due, lui stesso e Garibaldi; e quando gli giunge la notizia della ferita sull'Aspromonte e della « deplorevole fine» della sua impresa, « non posso più scrivere » confida il 30 agosto 1862 a Fet; e a Herzen il 27 agosto: « ...con un fremito involontario tu segui ogni movimento di questo che è l'ultimo degli eroi» (184) . Herzen, infatti, sul « Kolokol » (la Campana) dava largo spazio a tutto quanto riguardava Garibaldi: le sue gesta lo hanno entusiasmato e la sua personalità lo affascina, mentre diffida di Mazzini e del suo fanatismo e rivoluzionarismo inconcludenti, se il 1 O giugno 1862 nell'articolo La fine e gli inizi (Kontzi i natala) con fine

(182) V E. Nevler, op. cit., pp. 60-66. (183) P.V. Annenkov, Litera·/urniie vospominaniia (Ricordi letterari), Mosca 1960, pp. 528; 449. {184) I.S. Turgenev, Pis'ma (Lettere), Mosca 1962, IV, pp. 83; 158; vol. V, pp. 40; 44.


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ironia scrive: « L'Italia, il solo paese ,poetico in Europa, non poteva reggersi e ha immediatamente abbandonato il suo amante fanatico, Mazzini, tradl il suo sposo erculeo, Garibaldi, non appena il geniale borghese Cavour, panciutello con gli occhiali, le offri puntualmente di provvedere al suo mantenimento ». Anche Garibaldi, in conseguenza della triste vicenda conclusasi sull'Aspromonte, finisce per essere da lui accomunato a Mazzini: dopo aver incontrato Mazzini il 25 o 26 agosto e aver annotato « non ho creduto nel successo della sua opera », il 7 settembre 1862 li definisce entrambi come « gli ultimi due Don Chisciotte della rivoluzione»: « essi hanno gettato pazzamente il guanto (di sfida) quasi al mondo intero, con fede in un'opera giusta. Con un gruppo di compagni sono scesi in battaglia contro gli occupatori militari che si chiamano Francia, contro un esercito chiamato Austria, contro un dipartimento francese che si chiama Italia - follemente protestano in nome della patria e della dignità umana contro le baionette e la disciplina militare ... Grandi pazzi, addio; addio sacri Don Chisciotte! » ( 185). Parole molto dure, anzi beffarde che stavano a sottolineare come Herzen avvertisse l'inconsistenza di quei tentativi comunque rivoluzionari, anche se con obbiettivi limitati com'era quello verso Roma, privi di qualsiasi preparazione e che somigliavano a colpi di testa o a fendenti contro mulini a vento: l'impegno rivoluzionario, cosl com'era visto da Herzen, richiedeva ben altri metodi e, soprattutto, tempi lunghi: sarà questo il motivo fondamentale per cui quando - abbiamo visto - Garibaldi sollecita Herzen ai primi di aprile del 1864 perché faccia muovere i suoi di Terra e Libertà in aiuto dei rivoluzionari polacchi ormai in crisi, ottiene un netto rifiuto (v. cap. III). E come Garibaldi, nei suoi tratti umani, gli è particolarmente congeniale (« Et il ne faut pas oublier, scrisse in quell'epoca, que le costume de Garibaldi a une importance très grande, l'homme du peuple se reconnait dans l'homme en chemise rouge»), Herzen gli si apre interamente, con piena fiducia, quasi per essere confermato nelle proprie certezze, se il 21 novembre 1863 da Firenze gli fa sapere che « nous ne sommes ,pas morts, que le mouvement russe n'est pas écrasé et que la nature de ce mouvement est telle qu'aucune force ne saurait l'écraser. J'ai un besoin passionné

{185) A.I. Herzen, Sobranie soéinenij {Opere raccolte), cit., voi. XVI, Mosca 1959, pp. 138; 165-166.


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de vous dire cela à vous qui etes l'homme des peuples. Vous comprenez les masses ... il est tout nature! que les masses aient fait de vous leur patron, leur saint, qu'elles aient prise votre chémise rouge pour en faire leur Camicia Santa ». Sicuro, dunque, di essere interamente compreso, Herzen espone a Garibaldi le linee fondamentali della sua linea politica, che è poi quella del primo populismo; poiché il popolo russo non ha nulla da riconquistare, né ricordi, né istituzioni, una cosa sola gli è peculiare e inalienabile: « une nationalité fortement caractérisée, le sentiment de sa force, une conception originale du droit à la terre... Le droit à la terre, cette religion sociale du peuple russe consiste dans l'admission du droit imprescriptible, inaliénable de posséder un lot de terre lorsqu'on est membre d'une commune »; emancipazione, dunque, ma « avec la terre. Il est impossible de prendre la terre aux paysans russes, que de prendre la mer aux lazzaroni ... Peuple de ,paysans, nous tendons au développement de la commune rurale telle qu'elle existe, avec sa lai agraire, sa solidarité, son autonomie; nous aspirons à étendre le principe électif à tout le système administratif et judiciaire ... ; nous voulons fadliter la liquidation d'une noblesse paresseuse et nuisible, nous voulons l'anéantissement d'un gouvernement antinational et anti humain » (186). Non è un caso che Herzen abbia voluto aprirsi cosi ,i nteramente con Garibaldi, l'uomo che egli chiama « cher maitre » rifiutandosi di usare il titolo consueto di generale, perché - gli scrive sempre il 21 novembre 1863 - « ce titre est tellement au dessous de vous que ma plume se refuse à vous le donner ... »: le rivoluzioni europee sono ormai dietro le spalle, quella polacca era condannata, la stessa epoca delle riforme in Russia si stava chiudendo, e per questo, come sottolinea F. Venturi, « Herzen -si rifaceva al nucleo della sua fede politica, che non era la rivoluzione « geologica » - vale a dire distruttrice ab imis fundamentis - di Bakunin, ma l'obscina o comunità agraria ancestrale del contadino russo» (187): una riaffermazione di principi e di ideali, che significava anche e soprattutto un ripiegare su se stesso per un lavoro sui tempi lunghi. Per questa intera rispondenza Herzen in Russia viene considerato l'unico che possa seguire l'esempio del condottiero italiano, se pochi mesi dopo l 'impresa di Mille l'esponente liberale S.S. Gro(186) A.I. Herzen, op. cit., vol. XXX, Mosca 1965, pp. 528-532. (187) F. Venturi, Il populismo russo, Torino 1972, II ed., vol. I, p. 227.


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meka gli scrive: « Se foste fra noi, sareste voi il Garibaldi russo, ma adesso ci resta da leggere il vostro Vangelo [il « Koloko] » n.d.r.] e attendere fino a che voi ci scuotiate» (188). La verità è che il massimo dei consensi intorno alla figura e all'opera di Garibaldi si colloca essenzialmente agli inizi degli anni '60, che sono poi quelli dei successi risorgimentali, in Italia, e quelli delle riforme in Russia: due processi diversi di rinnovamento che sollecitano confronti, sl che guardare all'Italia significava istituire « un paragone utile, magari necessario per riaffermare le proprie idee ». Tutto questo era vivamente sentito, in Russia, addirittura come una necessità, se tutto l'ambiente della prima organizzazione sotterranea populista, Zemlja i volja (Terra e Libertà), sin dai primi inizi del suo formarsi nei vari centri russi guarda a Garibaldi come a un esempio. Così, a Pietroburgo i giovani populisti che si riunivano in casa di Marija Vasil'evna Trubnikova trovavano sul caminetto una statuetta in gesso di Garibaldi: « Componevamo versi in suo onore e li declamavamo di fronte ad essa senza farci vedere dai più anziani », ricorderà uno dei più colti di essi N.A. Serno Solov'evic; amareggiato per l'esito deludente della riforma agraria di Alessandro II (cui aveva tentato di collaborare per spingerla in senso più liberale), non vide altra alte.rnativa che raggiungere Herzen a Londra, da dove prenderà le mosse per organizzare il movimento sotterraneo di Terra e Libertà in Russia. Da Londra seguì l'impresa dei Mille·, commentando con convinzione: « Lo credo fermamente, tutta l'Italia sarà libera». Tornato in Russia gli toccò carcere e Siberia, dove morì. di n a poco. Garibaldi, dunque, era di casa fra i giovani di Zemlja i Volja, se L.F. Panteleev ricorda come << Garibaldi rapidamente si conquistò una grande popolarità in tutti gli angoli dell'immensa Russia. I1 movimento italiano trovò ne11a società russa la maggior comprensione non soltanto, forse, per gli scopi essenziali cui esso tendeva », ma per ostilità all'Austria causa il suo atteggiamento nella guerra di Crimea. Così, « nel 1861 il nome di Garibaldi non era soltanto circondato d'una incancellabile aureola, ma era il simbolo stesso de11a liberazione che si stava preparando per tutti i popoli. Stavamo aspettando che si gettasse su Roma, che liberasse Venezia, che ap-

(188) S. Gromeka a Herzen, Pietroburgo 20 maggio 1861 in « Literaturnoe Nasledstvo », 1955, n _ 62, p. 121, a cura di E .L. Rudnit:zka.


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poggiasse il movimento rivoluzionario in Ungheria, il quale doveva scoppiare da un momento all'altro» (189). Tutti i commentatori russi sono unanimi nel sottolineare come la figura di Garibaldi avesse colpito veramente le fantasie, sin dal 1859 e soprattutto a seguito dell'impresa dei Mille, negli ambienti più vari. La sua popolarità è attestata da D.D. Minaev - collaboratore del « Sovremennik » {Il Contemporaneo) e di « Russkoe Slovo » (La Parola russa) - in questi versi curiosi, ma significativi: Nel club, al circo e al ballo io ho incontrato un interesse solo: Garibaldi, poi l'Italia poi Cavour e così via ecco cosa si sente ai giorni nostri (190 ).

Il ritirarsi di Garibaldi a Caprera, dopo la vittoria sul Volturno, aveva anch'esso rappresentato per i russi qualche cosa di straordinario, quale indice della modestia dell'eroe, del suo disdegno per gli onori e le cariche. Ma non si manca di notare che questo volontario ritirarsi dalla scena non fa venire meno la venerazione degli Italiani se un tecnico militare di rilievo, N. Nikolaevic Obrucev (1830-1904), legato a Cernysevskij e direttore di una « Raccolta mi1itare » (Voennyj Sbornik), 1'8 settembre 1861 poteva scrivere a Herzen da Milano: « L'italiano è più focoso del francese e se per i francesi Napoleone all'isola di S. Elena è stato come un mito, Garibaldi a Caprera per gli italiani è come una divinità» (191). Ma come i consensi non bastano, vi è chi parte dalla lontana Russia per arruolarsi « sotto le bandiere di Garibaldi». Una tale decisione è presa, alla fine del 1861, da un ex-militare Vladimir F. Luginin che, dopo aver combattuto nella guerra di Crimea, frequentò l'Accademia di Artiglieria, prestò servizio in varie guarnigioni recandosi poi in Germania dove si specializzò con Bunsen negli studi di chimica termica. Recatosi a Londra per una vacanza, vi

(189) F. Venturi, L'immagine di Garibaldi ..., cit., pp. 311; 314-315; ID., id., Il populismo russo, cit., vol. I, pp. 208; 215; 311; 362 e, soprattutto, quale sintesi magistrale di tutti gli sguardi diretti verso Garibaldi e l'Italia F. Venturi, L'Italia fuori d'Italia. XII L'Europa e il Risorgimento. Problemi russi e italiani, in Storia d'Italia, Torino 1973, vol. III, pp. 1462-1477. (190) V.E. Nevler, op. cit., p. 59. (191) Pubbli. in « Llteraturnoe Nasledstvo » (L'eredità letteraria), Mosca 1955, n. 62, p. 418.


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incontrò Bakunin: non sapeva nulla del movimento rivoluzionario russo, né dei « fratelli slavi » che stavano tanto a cuore al suo conterraneo, ma aveva sentito parlare di una nuova spedizione di Garibaldi che intendeva sbarcare in qualche luogo dell'Italia meridionale e dirigersi verso Roma; cosi, saputo che questi aveva bisogno di ufficiali, soprattutto di artiglieria, si fece presentare da Bakunin a Mazzini, cui espresse la volontà di combattere in Italia « sotto le bandiere del grande Garibaldi», ma poi non poté partire (192). Parti invece per l'Italia un altro ufficiale di artiglieria, N.P. Trubetzkoj (,uno degli esponenti del movimento rivoluzionario di Terra e Libertà) che collaborò con Garibaldi nel 1862 nella organizzazione dell'artiglieria ( 19 3 ), presumìbilmente della Legione magiara. Di un certo interesse per i suoi rapporti con Garibaldi e i legami con Cernysevskij è la figura di un altro militare, Aleksej Fedorovic Frikken: già in servizio in un reggimento della Guardia, si ritirò dall'esercito col grado di capitano di Stato Maggiore, nel 1860 venne in Italia entrando in rapporti con Garibaldi, probabilmente dopo l'impresa dei Mille; dall'Italia collaborò ai giornali russi e, dopo un soggiorno in Russia, tornò all'estero nel 1861, quale corrispondente del foglio « Sovremennoe Slovo » (La Parola contemporanea), legandosi a Herzen e al suo ambiente londinese; deve essere tornato in Italia ai primi del 1862, se 1'11-23 marzo di quell'anno ne scrive a Cernysevskij e un anno più tardi, nell'aprile del 1863, fra il materiale sottoposto alla censura poco prima dell'arresto di Cernysevskij fu trovato un suo articolo significativo sul governo piemontese e il Partito d'Azione: segno di non scarso rilievo circa l'interesse suo verso Garibaldi e il movimento garibaldino, nel momento in cui il Partito d'Azione si muoveva con grande impegno a favore degli insorti polacchi (194). Non è dunque senza significato che la figura di Garibaldi abbia attirato in Russia anche dei militari, segno certo che la sua fama non era solo quella del rivoluzionario, ma piuttosto l'altra più vera del generale.

(192) V.F. Luginin, Svidanie s Mazzini (Incontro con M.), in « Russkaja Sta· rina » , 1910, pp. 486-87. (193) V .E_ Nevler, op. cit., p. 86. (194) I:M. Cernysevskaja, Letopis zizni i dejatelnosti I .G. Cernysevskogo (Cronaca della vita e dell'attività di I.G. Cernysevskij), Mosca 1953 pp. 243-244; 296-


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In questo consenso veramente corale non è da meno lo scrittore e poeta S.P. Sevirev che, giunto in Italia all'epoca di Aspromonte, rimane talmente impressionato da dedicare all'avvenimento una significativa poesia, dove ammonisce, in sostanza, che l'eroe non appartiene solo all'Italia, perché « tutti i popoli sogneranno il sangue di Garibaldi ». Fra i medici che accorrono al capezzale del generale ferito da tutta Europa, accanto al chirurgo italiano Zanetti e al francese Nelaton vi è anche il grande chirurgo russo N .I. Pirogov, che si recò al forte del Varignano presso Spezia; da Caprera il 6 agosto 1863 Garibaldi tenne a ringraziarlo calorosamente: Ma blessure est presque guérie. Je sens le besoin de vous remercier des soins affectueux et intelligents que vous m'avez prodigués.

A Caprera, Garibaldi ricevette la v.1s1.ta nel 1862 fra gli altri dello scienziato evoluzionista, K.A. Timirjazev, che in un articolo sugli Oteéestvennye Zapiski non esita ad accostare Darwin a Garibaldi: « entrambi guidarono la lotta per la libertà, il primo col pensiero, il secondo con la vita » (195). Quanto alla guerra del 1866, i progetti di sbarchi garibaldini e la propaganda per raccogliere volontari spiegata dal Partito d'Azione, non mancarono di preoccupare la diplomazia russa, che aveva a Firenze un rappresentante di grande intelligenza e sensibilità, nella persona del ministro Nikolaj Kiselev. Egli è pronto a riferire che tutte le manifestazioni « portano più o meno carattere rivoluzionario». Per questo - non senza riferimento alle non lontane preoccupazioni del ministro degli Esteri Gorcakov, del giugno 1862, secondo cui « la tivolu:7.Ìone italiana » non doveva « passare le Alpi » - non esitò a richiamare l'attenzione del presidente del Consiglio gen. Lamarmora sull'attività del Partito d'Azione. Ma non si fa illusioni di poter frenare Garibaldi e il movimento garibaldino, perché la guerra all'Austria è inevitabile: « si pone l'alternativa: o la guerra o la rivoluzione ... Considerando tale alternativa, gli uomini più tranquilli e più influenti scelgono la guerra». Una volta scoppiato il conflitto, non è senza significato che il corrispondente di guerra dall'Italia delle « Sankt-Peterburskie vedomosti >> (Notizie di Pietroburgo) , il populista Vladimir O. Kova-

(195) V.E. Nevler, op. cit., pp. 80-83.


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levskij (1842-1883) - uscito da una grande famiglia di intellettuali - scegliesse il fronte del Trentino e il quartier generale di Garibaldi. Vi fu accolto con calore e poté seguire da vicino tutte le operazioni, sottolineando nelle sue corrispondenze come i volontari garibaldini non riscuotessero la fiducia del Governo e dello Stato Maggiore e fossero mal armati. Quanto all'esito del conflitto, nelle corrispondenze conclusive egli non ha dubbi: Lissa e Custoza « costituiscono vittorie soltanto sull'incapacità dei dirigenti, ma in nessun modo dell'Italia: in entrambe le sconfitte gli italiani, soldati e ufficiali, si comportarono da eroi coprendosi di tale gloria, come se in effetti avessero riportato una piena vittoria». Di qui, conclude Kovalevskij , « la rottura tra il popolo e il governo è ora divenuta evidente». E questa è pure, in sostanza, l'impressione del corrispondente del « Vestnik Evropy » (Il Messaggero dell'Europa), E. Utin che parla della pace vista dagli italiani come « la più profonda offesa all'onore e alla fierezza nazionale » (196). Per i populisti russi l'intenzione di Garibaldi di volgere le sue schiere verso Roma a tempi brevi non fu una sorpresa, dopo Aspromonte e soprattutto dopo il Congrés pour la Paix et la Liberté di Ginevra del settembre 1867, cui anche Herzen e Bakunin erano stati presenti e attivi; cosl che quando - dopo una sosta a Firenze il 22 ottobre, dove ha colloqui col Re, col presidente Rattazzi e con Cialdini - Garibaldi il 24 con 10-14 mila volontari supera il confine pontificio a Passo Corese, la notizia suscita consensi anche in Russia. Chi si esalta e intende offrirsi come volontario è un giovane, Guerman Aleksandrovic Lopatin (1845-1918): non diversamente dai primi populisti cui si era legato giovanissimo, egli aveva seguito con passione le lotte risorgimentali italiane e, appena venne a sapere che Garibaldi stava Jirigendosi verso Roma, da Pietroburgo parte subito per l'Italia. Senonché la notizia dello scontro di Mentana lo fermò a Firenze per cui, dopo aver incontrato Herzen a Nizza, rientrò in Russia: passò poi all'estero, aderendo alla Internazionale nel 1870 e pubblicherà nel 1872 in Russia una parte del Capitale di Marx, di cui fu il primo traduttore in Russia; nel 1881 aderl alla Narodnaja Volja (La volontà del popolo), la prima formazione politica dei socialisti rivoluzionari , cui rimase legato sino alla fine dei suoi giorni nei suoi metodi terroristici, scontando per que(196) V.E. Nevlcr, Documenti russi sul movimento per la riunificazione di Venezia all'Italia, in Atti del XLIII Congresso di storia del Risorgimento italiano (Venezia, 2-5 ottobre 1966), Roma 1968, pp. 257-263.


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sto carcere e Siberia. Fra l'autunno del 1909 e la rivoluzione del 1917, certo per ricordo della esaltazione garibaldina della giovinezza, rimase esule in Italia, soprattutto sulla Riviera ligure, a Cavi di Lavagna, dove - sorvegliato dalla polizia - non diede motivo a preoccupazioni (197). Diversa la sorte di Artur Benni (1840-1867): figlio di madre inglese e cittadino britannico, aderì giovanissimo al movimento populista, incontrando Herzen a Londra nel 1858; arrestato in Russia nel dicembre 1864, fu espulso perché straniero. Nel 1867 giunse in Italia quale corrispondente di giornali inglesi e, in tale veste, segu) l'attacco di Garibaldi allo Stato Pontificio, fu ferito al fianco di Menotti fra Monterotondo e Mentana il 3 novembre 1867 e poco dopo mori nell'ospedale di S. Onofrio (198). Il giorno prima di ordinare la ritirata e avviarsi a passare il confine a Passo Corese, Garibaldi la sera stessa del 3 novembre aveva provveduto a ordinare lo sgombero dei feriti verso Roma. Questi trovarono nella capitale anche una russa, già nota come scrittrice per l'infanzia, A.N. Toliverova-Jakobi che si prodigò nella loro cura - fra cui il Benni - con particolare dedizione e competenza. La J akobi non fu solo infermiera, ma secondo la testimonianza dello scrittore populista N.V. Selgunov, riusd a far avere a Luigi Castellazzo, fatto prigioniero dopo Mentana, un biglietto di Garibaldi, grazie al buon cuore del comandante del carcere che le consentì di gettarsi fra le braccia del garibaldino, poi riuscito a evadere. Garibaldi, saputo quanto aveva fatto a favore dei suoi quale « sorella di carità» o infermiera, la invitò ad andare a Caprera, ma la visita poté avvenire, su insistenze di Ricciotti Garibaldi, solo nel 1872, quando la Jakobi era rientrata in Italia dalla Russia. Sull'isola la scrittrice-infermiera rimase ospite di Garibaldi per una settimana, parlando con lui anche di Monterotondo e Mentana, come dell'atteggiamento di Vittorio Emanuele su cui il generale così si espresse: « Questo povero gualante homo (galantuono) aveva troppo paura del Diavolo». Da Caprera la congedò con le parole: « Coraggio, mia cara e fate di tutto per essere felice », inviandole poi il 24 lu(197) J. Samorukov, Obséestvenno-politiéeska;a deiatel'nost G.A. Lopatina 18451918 (L'attivita politico-sociale di G.A. Lopatin), in « Voprosy Istorii », 1951, 3, pp. 32-52; F. Venturi, Il populismo russo, Torino 1972 (Il ed.), vol. II, pp. 15, 21, 61, 274; sul suo esilio in Italia dopo il 1905 v. A. Tamborra, Esuli russi in Italia dal 1905 al 1917, Bari 1977, pp. 49-53. (198) Cfr. « Literaturnoe Nasledstvo », 1955, n. 62, p. 24.


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glio 1872 la seguente lettera, particolarmente indicativa di come a Garibaldi le sorti dei contadini russi stessero costantemente a cuore: Signora ]acoby, nulla dico del governo presente della Russia - soltanto che il sovrano presente della stessa può glorificarsi dell'emancipazione dei servi, che speriamo veder completta (sic). Tale aureola di gloria è preferibile certamente ad ogni conquista. lo con voi invio un simpatico ed affettuoso saluto al vostro bravo popolo che tanta parte deve prendere ai venturi destini del mondo (199).

E fra le file dei garibaldini e internazionalisti italiani accorsi in Bosnia-Erzegovina non mancò qualche russo, naturalmente populista: un tale Lukjanov a Odessa sarà impiccato nel 1878 come « bandito » perché partecipe del movimento e dei metodi terroristici di Zemlia i Volia (Terra e Libertà) ma che la rivista del movimento « Nabat » (La campana a stormo) definisce « un uomo che ha delle idee» e non « un puro e semplice bandito » (200). Infine, in questo contesto rivoluzionario, non è senza significato che una delle maggiori esponenti del movimento della « Narodnaja Vo]ja » (La volontà del popolo), Vera I. Zasulic, il 17 gennaio 1882 da Ginevra si rivolgesse a Garibaldi per la raccolta di aiuti alla « Croce Rossa » di questa organizzazione terroristico-rivoluzionaria: « Honoré citoyen,

La lutte sanglante qui se produit en Russie vous est certaiinement connue. Démocrate convaincu, ardent défenseur de la cause de la Liberté, vous avez toujours été du coté de ceux qui savent braver le péril lorsqu'il s',agit de renverser le pouvoir des tyrans. V ainqueur des Bourbons à Naples, vous etes allé relever le drapeau de la Liberté sur la place de Saint Mare, et si Rame est enfin devenue la capitale de Votre patrie, l'Italie entière sait que cette couronne lui est acquise en grande partie par votre vaillance_ Défenseur infatigable de votre pays, Vous avez repondu à l'appel de la République française lorsque les régiments allemands vinrent la frapper jusqu'à Paris lui meme.

(199) A.N. Jakobi, Na Kaprere u GaribaJdi (Iz dnevnich vozpominanii) (A Caprera da G. Dai ricordi giornalieri) in « Istoriceskij Vestnik » , t. IX, 1882, pp. 380. 394; F. Venturi, L'Immagine ..., cit., pp. 320-21. (200) Cfr. F_ Venturi, Il populismo russo (Il ed.), Torino 1972, vol. III, p. 275, "- 125_


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Apresent (sic) que mes compatriotes sont · entré (sic) en lutte avec le plus horrible des despotismes; que les neiges de la Sibérie ensevdissent chaque jour de nouvelles victimes, Vous avez sans dot.1 te porté vos regards sur ma malhcureuse patrie, vers la Russie. Permettcz - moi de croire, Citoyen, que cette falange généreuse d'hommes vaillants qui, au mépris de leur vie, luttent sans repos avec le dispotisrne de St. Petersbourg, a mérité votre sympathie. Déportés par milliers en Sibérie, internés dans des hameaux où il est imposs~ble de gagner la vie, les révolutionnaires russes tombés dans les mains de leurs ennemis se trouvent dans une situation qui mérite l'attention de tous les dérnocrates. Pou r souvenir au {sic) <lépenses nécessaires pour soulager leurs souffrances la « Narodnaja Volja » a institué la societé de la « Croix Rouge » dont l'unique but est de venir en aide aux détenus et aux déportés politiques. Déléguée par elle je m'aclresse à l'Europe libérale et républicaine. En m'adressant à l'Italic, c'est à vous le premier que j',ai cru devoir parler. Appnyé. p::i r un mot de symp::ithie de votre part notre appel sera d'autant mieux accueilli par votre généreux pays ... ». Non si sa se Garibaldi abbia fatto a tempo a rispondere. Comunque sia, l'iniziativa ebbe un seguito, grazie alla Zasulic e a G.V. Plechànov che in varie riprese ricevettero la somma di 3.693 franchi svizzeri da Anna Kuliscioff, alla quale fu rilasciata ricevuta nel 1886 a chiusura della sottoscrizione (201). Intorno a Garibaldi non poteva mancare il consenso degli spiriti più elevati della grande letteratura russa dell'Ottocento, cosl sensibili - in modo scoperto e sofferto - ai grandi problemi di rinnovamento sociale della Russia, prontamente espressi in chiave letteraria. Così Fedor Michajlovic Dostoevskij - che aveva soggiornato a lungo in Italia fra Torino, Roma, Napoli e soprattutto Firenze dove si fermò un anno dedicandosi a scrivere L'idiota - sentl una forte attrazione per Garibaldi. Lo aveva visto, fra l'altro, a Ginevra ai primi di settembre del 186 7, in occasione del Congrés pour la P.aix et la Liberté, spostandosi verso Milano e Firenze, dopo la morte della figlia, nell'autunno del 1868 . Ma ne aveva sentito par-

(201) Archivio e museo <ld Risorgimento, Roma, Busta 930/521 cit. da A. Garosci, Garibaldi dalla presa di Roma alla morte in << Giuseppe Garibaldi e il suo mito ». Atti del 51° Congresso <lell'l!.tituto per la Storia del Risorgimento italiano, Genova 10-13 nov. 1982 (hi corso di stampa); Filippo Turati attraverso le lettere · · di corrispondenti (1880-1925), a cura cli A. Schiav,i , Rari 1947, p. 39.


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lare anche prima, se ricorda certe impressioni avute alla vigilia di Aspromonte, nel 1862: Mi trovavo una volta a pranzo in I talia in compagnia di numerosi francesi. Si chiacchierava intorno a Garibaldi. A quell'epoca tutti parlavano di Garibaldi. Ciò avvenne quindici giorni prima di Aspromonte. Naturalmente si parlava per enigmi: alcuni tacevano e non volevano pronunziarsi, altri scuotevano la testa. In generale si riteneva che Garibaldi si fosse gettato in un'impresa rischiosa, irragionevole addirittura; tuttavia, questa opinione era espressa con riserve, perché Garibaldi è un uomo così eminente che anche quel che comunemente è ritenuto temerario sembrava in lui ragionevole. Un poco alla volta si passò alla personalità di Garibaldi. Si cominciarono a enumerare le sue qualità; il giudizio era piuttosto favorevole all'eroe italiano. - U na cosa mi sorprende in lui, - proferì ad alta voce un francese sulla trentina. dall'aspetto esteriore piacevole e imponente, con impressa nella fisionomia quella nobiltà straordinaria che vi colpisce fino ali.. sfrontatezza in tutti i francesi. - Sì. lo confesso. c'è una cosa che mi sorprende in lui! Naturalmente tutti si volsero con curiosità verso l'oratore. La nuova qualità scoperta in Garibaldi doveva int eressar tutti. - Nel 1860 egli godette, per qualche tempo, a Napoli, d'un potere illimitato e senza controllo. Aveva in mano la somma di circa 20 milioni, appartenenti allo Stato! Nessun conto da rendere a nessuno! La possibilità di appropriarsi di questo denaro, di disporne a proprio arbit rio, senza dover temere reclami da chicchessia. E invece di stornare qualcosa per sé, egli restituì tutto, fino all'ultimo soldo, al governo. E ' quasi incredibile! - Parlando di venti milioni gli occhi del fran cese scintillavano. Si può certo raccontar quel che si vuole di G aribaldi. Ma di fare un parallelo tra lui e i concussionari era capace soltanto un francese. E con che ingenuità, con che candore egli diceva tutto ciò! Tutto si può perdonare al candore, senza dubbio, anche la perdita del vero senso dell'onore; ma, considerando la persona che scherzava in questo modo al ricordo di venti milioni, io pensai involontariamente: « E h! Eh! giovanotto mio, se tu ti fossi trovato allora al governo al posto di Garibaldi! ».

Altro letterato presente in Italia più volte e che fu attirato dalla figura di Garibaldi, è il poeta Apollon N. Majkov (1821-1897) , alla sua epoca molto apprezzato, che chiude il suo Album napoletano con la rievocazione, in versi, dell'ingresso di Garibaldi a Napoli il 7 settembre 1860:


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Il duce popolare entra nella città è sempre più vicino ... più alte son le grida ecco a_ppare lui stesso - in mezza a tal frastuono, è sereno, felice ... O momento superbo Tutti corrono intorno a lui come a un assalto ma una solament e è giunta sino a lui e con un fiorellino, strappato dalle mani dell'eroe, corre via tutta orgogliosa (202).

Più significativo, per la profonda diversità dei destini umani,

il consenso di Lev Tolstoj intorno alla figura di Garibaldi. Occasione per ,parlarne fu la visita che la scrittrice, esperta di letteratura per l'infanzia A.N. Toliverova-Jakobi rese allo scrittore nel 1892, attirata dalla nuova pedagogia di Tolstoj, espressa soprattutto nella scuola popolare di Jasnaja Poljana e relativa rivista omonima. Le prime parole con cui Tolstoj avviò il colloquio furono: « Ho sentito che siete stata a Caprera, da Garibaldi, quest'uomo mi interessa molto». La Jakobi si diffuse a lungo sui suoi contatti con G aribaldi, sulla propria partecipazione al movimento garibaldino, sulla sua vita « laboriosa », sui suoi amici e compagni; soprattutto gli confidò che il generale aveva l'intenzione di devolvere i diritti d'autore sulle sue opere letterarie per l'acquisto di una villa a Roma, dove istituire una scuola per i figli dei garibaldini. Questa rivelazione colpì molto Tolstoj per la consonanza col suo impegno pedagogico, tanto da esclamare: « Una grande figura storica! » (203). Quale il bilancio di questo lungo consenso, espresso in Russia nell'arco di quasi due generazioni, intorno alla figura di Garibaldi? Esso può essere colto, come sintesi, dal profilo biografico delineato giusto nel 1882 da uno degli esponenti dell'età matura del movimento populista, Sergej Michajlovic Kravcinskij, più noto con lo pseudonimo di Stepnjak, o « Sergio delle Steppe», (1851-1895). Uscito da una modesta famiglia della provincia ucraina, gli studi all'Accademia militare di Mosca e poi alla Scuola superiore di Artiglieria di Pietroburgo furono determinanti nella formazione culturale e del carattere: senso di disciplina, dedizione agli obblighi di servizio, spirito di colleganza con i compagni di corso saranno da

(202) E . Lo Gatto, Russi in Italia, Roma 1971, pp. 208-209; p. 203. ( 203 ) V.E. Nf'vlf'r, op. cit., pp. 106-107.


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lui trasferiti più tardi nell'impegno rivoluzionario, da quando alla fine del 1871 - convinto che in Russia uno sbocco rivoluzionario fosse inevitabile - dopo le dimissioni dall'esercito il circolo dei Ca;kovcy fu l'alveo populista in cui prese a muoversi. Dopo una intensa attività di studio e di formazione teorica, legandosi soprattutto al « principe anarchico » Petr Kropotkin, Kravcinskij fu tra i primi ad andare « nel popolo » ( v narod) , « ad abbandonare il certo per l 'incerto, i libri e la vita cittadina per divenire egli stesso contadino»: l'elevazione sociale e culturale dei contadini, la propaganda rivoluzionaria capillare nell'ambito dell'obscina o comunità di villaggio esaltata dai populisti come già matura forma di socialismo per l'assenza di proprietà individuale della terra, occuparono l'intera sua esistenza; poi nella primavera del 1875, segnalato e ricercato dalla polizia zarista si trasferì in Occidente. La rivolta della BosniaErzegovina del luglio fu vista subito da lui come l'occasione per avviarsi concretamente sulla strada della rivoluzione armata, come un momento di preparazione per quando un evento analogo fosse maturato in Russia. Di qui la sua partenza per i Balcani - dopo aver incontrato Bakunin a Locarno - chiamando a raccolta altri volontari. E giusto in Bosnia-Erzegovina avviene il suo incontro con i volontari garibaldini e internazionalisti italiani come Errico Malatesta, il suo primo vero contatto col movimento garibaldino . Dai Balcani all'Italia il passo fu breve e Kravcinskij - edotto nei metodi di guerriglia seguiti in Bosnia-Erzegovina - prende parte con gli pseudonimi di Nicola Schow o Abramo Roubleff alla organizzazione della insurrezione nel Matese, cioè a quello che va sotto il nome di moto anarchico di San Lupo; arrestato a Solopaca il 5 aprile 1877, non partecipa direttamente all'insurrezione, ma determinante fu il suo apporto anche come pensiero militare col suo Manuale per la condotta della guerra per bande (andato perduto), legato alla sua stessa esperienza balcanica e al filone della guerra di popolo ben presente in Garibaldi. Condannato per cospirazione e detenuto a Santa Maria Capua Vetere, fu poi amnistiato nel 1878, all'avvento al trono di Umberto I e, dopo un breve soggiorno in Russia, dove a Pietroburgo nell'agosto del 18 78 uccise a colpi di pugnale Mesencev, capo della II sezione della gendarmeria, finì per trovare rifugio a Milano, dall'autunno del 1881 al dicembre 1882. Fu questo un fecondo periodo di maturazione politica e soprattutto culturale, grazie al suo lavoro di giornalista al « Pungolo )>: il giornale fondato e diretto da Leone Fortis, divenuto in breve tempo, col suo aperto liberalismo, il più popolare e diffuso quotidiano di


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Milano (1859-1890). La biografia di Garibaldi, da lui pubblicata sulla rivista « Delo » (La causa) e la presentazione da lui fatta sul « Pungolo » dell'altra Russia, con una serie di tredici articoli, poi raccolti in volume col titolo La Russia sotterranea. Profili e bozzetti rivoluzionari dal vero ... (Milano 1882) dall'ampia risonanza internazionale per le molte traduzioni, vanno idealmente ravvicinate: con esse, Kravcinskij fa toccare con mano sino a qual punto quasi due generazioni di populisti avessero guardato verso Garibaldi, anche se concreti problemi nazionali, come quello polacco, avevano rappresentato più di una remora a un comune impegno di liberazione, sociale e nazionale insieme (204). Non sembra che Kravcinskij abbia conosciuto Garibaldi di persona, ma lo ha sentito fortemente e si è mosso nel suo alveo, nei Balcani e, tutto sommato, anche in Italia. Di qui l'efficacia penetrante dei suoi giudizi su quegli che definisce « re non coronato d'Italia » . Constatato che in Italia quasi una intera generazione « si è battuta in epoche differenti sotto le sue bandiere », egli nota come « l'attuale leggenda garibaldina, che vede il suo inizio a partire dal 1860, cioè dalla sua impresa siciliana .. . assume una forma assolutamente epica e, nei canti popolari, poetica, perché (Garibaldi) è nato da un Demonio e da una Santa » (in italiano nel testo, n.d.r.). Secondo Kravcinskij, sin dall'America Latina « le campagne di Garibaldi prepararono non solo Garibaldi per l'Italia, ma anche l'Italia per Garibaldi» , in quanto il suo nome divenne popolare, « specie nell'Italia patriottica, della quale egli era il rappresentante »; in questo senso, egli « fu sia l'apostolo della sua idea, sia il condottiero. La libertà italiana per lui non fu soltanto uno scopo, ma un culto, una religione ». Quanto al carattere e al suo modo di comportarsi nella vita pratica, politica, Garibaldi, come tutte le persone assolutamente sincere, « prestava fede alla sincerità degli altri. Uomo soprattutto di coscienza, egli dava importanza non tanto alla argomentazione quanto alla buona fede e alla onestà dell'interlocutore: egli aveva fiducia più nell'uomo che nella sua dialettica. Inoltre, la dolcezza e umanità della sua natura gli impedivano di essere un buon politico, (204) E.A. Taratuta, S.M. Kravéinskii-Stepn;ak v Italiii, in Rossi;a i Italiia, N1vsca 1968, pp. 227-58; A. Molinari-R. Sinigaglia, Stepn;ak-Kravéinskii un rivoluzionario russo tra populismo e •terrorismo, m « Miscellanea Storica Ligure », a. XI, n. 1/2, pp. 375 passim; A. Romano, Storia del movimento socialista in I talia, Roma 1956, vol. III, pp. 278 e seg.


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perché qui è particolarmente necessario saper usare la persuasione e la personalità persino verso gl'intimi, una volta che essi si siano indirizzati a ostacolare il raggiungimento cli determinati obbiettivi. Ecco perché, dotato di risolutezza rapida come il lampo sul campo di battaglia, Garibaldi in politica si muoveva a tentoni, da una parte ali'altra » . Tuttavia, malgrado questi limiti non certo esagerati, in sede di azione politica, toccante e appropriato è il giudizio virtualmente conclusivo di Kravcinskij su Garibaldi, là dove scrive che: . .. egli fu una di quelle persone che non permettono mai alla vita di superarle, che mai diventano dei freni a un ulteriore sviluppo. Sono coloro che rimangono fra i ranghi avanzati dei combattenti del progresso, perché amano il popolo immediatamente e non attraverso lo schermo di una dottrina, e perciò indovinano quello che più direttamente e rapidamente porta alla Jelicità degli uomini. Uno dei maggiori rappresentanti di questo tipo di uomini, t anto raro fra i politici fu Garibaldi. Fino agli ultimi giorni della sua vita egli conservò la sensibilità e la freschezza dell'animo suo ... (205).

Quando poi - dopo la rivoluzione del 1905-06 - un'ampia diaspora politica trova tagioni <li vila e <li at Lività nell'Occidente dell'Europa, l'esempio di Garibaldi e di Mazzini viene indicato agli emigrati russi come valido anche per essi da un attento osservatore della vita italiana, il giornalista e scrittore Michail Osorgin, un socialista rivoluzionario di largo e indipendente orientamento, esule in Italia. Se Garibaldi e Mazzini « si sforzarono di far conoscere all'Europa la vita della loro patria oppressa » - scrive egli a commento del Congresso di Roma del marzo 1913 delle Associazioni russe in Italia - il loro compito non si limitò a questo: essenziale fu, infatti, la « loro partecipazione personale alla liberazione del1'Italia ». Ad un obb.iettivo non diverso - che è « qualcosa di molto più necessario » - devono tendere anche i russi esuli, anche se Garibaldi e Mazzini « erano troppo eroi per poter essere presentati da modello alla massa degli emigrati» (205 bis).

(205) SM. Kravcinskij-Stepnjak, Diuseppe Garibaldi: biografiéeskijocerk (G. Garibaldi : saggio biografico), in Socinenija v dvuch tomach (Opere in due volumi), Mosca 1958, vol. II, pp. 355-357, 360, 373, 378, 384, 392 (Ristampa degli articoli pubblicati in « Delo » [La causa], 1882, fase. IX). (205 bis) M. Osorgin, R usskie emigranty i « rimskij s'ezd » (Gli emigrati russi e il C:oneres.~o cl i Ro ma ) in « Vicstnik E~ropy », luglio 191.3, pp. 298-99.



VI. GUERRA, GUERRIGLIA, VOLONTARISMO

Se vi è un personaggio che soffre a essere ristretto in schemi politici, ideologici o in fatto di « dottrine » militari, questo è senza dubbio Giuseppe Garibaldi. Capitano di mare e comandante militare fra i più completi, da tutti i punti di vista, le valutazioni dei contemporanei - che qui ci interessano - sono unanimi nel sottolinearne le grandi capacità militari, sia nella guerra regolare, sia nella guerra « per bande » o petite guerre o partigiana: la seconda presuppone la prima, si appoggia ad essa come alla condotta strategica e tattica veramente risolutiva, e Garibaldi ne era perfettamente consapevole. Che egli fosse un capo militare nel vero senso della parola, si eta accorto fra i primi Federico Engels, uno dei più acuti commentatori militari delle guerre europee dal 1859 al 1870, che il 30 maggio 1859 sulla « New York Daily Tribune» del Dana poteva scrivere: Ma gli Austriaci, svalutando quest'uomo che essi chiamavano un capo di briganti e del quale essi si erano presi il disturbo di studiare l'assedio di Roma e la sua marcia successiva sino a San Marino, avrebbero dovuto sapere che era un uomo dal talento militare non comune, di grande intrepidezza e pieno di risorse. Essi trascurarono del tutto il fatto che Garibaldi è per la disciplina più rigida [strict disòplinarian] e che egli ha avuto per quattro mesi sotto le proprie mani la magJ!.ior parte dei suoi uomini, [ un tempo] del tutto sufficiente per addestrarli alla manovra e ai movimenti della guerriglia.

E non manca, con chiaro sottinteso politico, di avanzare l'ipotesi che Napoleone III e Vittorio Emanuele lo abbiano lanciato in


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Lombardia per distruggere lui e i suoi, « elementi piuttosto troppo rivoluzionari per questa guerra dinastica » (206 ). Circa l'impresa dei Mille e quanti vi presero parte, Engels tiene a sfatare la leggenda che essi, in una cosa seria come è la guerra, fossero avventurieri o improvvisatori: « Gli stessi Mille ài Garibaldi non erano una semplice accozzaglia di entusiasti; erano gente addestrata, che avevano imparato il 1859, a eseguire gli ordini e a tener testa al fuoco ». L'intera impresa meridionale, valutata nell'articolo del 22 giugno 1860 Garibaldi in Sicilia, appare condotta - agli occhi di Engels - nel modo classico delle operazioni militari, specie per quanto riguarda la conquista di Palermo: « Qui Garibaldi si è dimostrato un eccellente stratega le cui capacità si sono rivelate non solo nei piccoli combattimenti da partigiani, ma anche nella condotta di operazioni importanti. Incidentalmente va notato che i movimenti di Garibaldi per la preparazione dell'attacco su Palermo recano l'impronta di uno stratega di prim'ordine. Sinora noi lo conoscevamo solo per un capo guerrigliero molto abile, coronato da grande successo», come aveva mostrato anche nella difesa di Roma. « Ma qui di fronte a lui stava un compito strategico di spicco e in questa prova egli dimostrò di essere un maestro di quest'arte. Tutte le sue operazioni militari recano molto di ,più il suggello di un genio militare, rispetto a quanto accadde durante la guerra italiana del 1859. La insurrezione siciliana ha trovato un condottiero militare di prim'ordine; noi speriamo che il politico Garibaldi, che deve apparire presto sulla scena, lasci senza macchia la gloria del generale» (207). Era un augurio, questo, che non troverà soddisfazione, ma indubbiamente la stima altissima nelle sue capacità militari non verrà mai meno, proprio perché Garibaldi era un comandante completo: uno stratega di prim'ordine, come dice Engels, pronto all'occorrenza a utilizzare e a indicare i metodi della guerriglia, in determinate condizioni di tempo, terreno, luoghi, consenso delle popolazioni ecc. Questo giudizio di un personaggio come Engels che, pur nel suo impegno sociale non si faceva deviare da presupposti ideologici legati al « mito » della guerra « di popolo », faceva giustizia

(206) K. Marx-F. Engels, Werke, vol. XIII, Berlino 1961, p. 363. La guerra del 1859 fu seguita da Engels con molta attenzione sulle colonne del giornale americano e su giornali tedeschi, nei suoi antefatti, rapporti di forze, schieramenti politici e peculiarità militari. (207) Ibidem, voi. XVI, p. 181; vol. XIII, pp. (;2-64.


Cap. VI. - Guerra, guerriglia, volontarismo

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delle considerazioni negative o persino velenose formulate da Carlo Pisacane nel suo scritto Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49 (Genova 1851). Più o meno negli stessi anni in cui il maresciallo d'Aspre, comandante di corpo d'Armata con Radetzki, ed altri ufficiali austriaci, non esitavano a esprimere grande ammirazione per Garibaldi a proposito delle sue operazioni nel Varesotto, il Pisacane negava che esistesse in Garibaldi « il genio e la scienza di un generale»: né concetto strategico, né intuito tattico e « neanche il genio del partigiano» (208). Solo un arruffio di azioni slegate, prive di un concetto operativo e solo baciate dalla fortuna o dagli errori dell'avversario? Un giudizio sommario che rivela la prevenzione di chi, come il Pisacane, aveva fatto studi militari regolari. In realtà, Garibaldi sapeva ben poco e tanto meno si curava di « teorie » militari. Tuttavia, al dire di A.V. Vecchi, aveva letto e apprezzato il Montecuccoli; secondo quanto ricorda il rivoluzionario ceco J.V. Fric (in visita a Caprera nel 1864 ), egli « conosceva Zizka (J an) un po' da vicino», e il Fric stesso gli rivelò che in Boemia, quale segno di stima, non trovavano « meglio che chiamarlo il Zizka del nostro secolo » (209): veniva così avvicinato al grande condottiero boemo (1360-1424) che, alla testa dei suoi Taboriti grazie alla geniale invenzione dei « carri fortificati», nel 1420 sconfisse la cavalleria dell'imperatore Sigismondo, guadagnando alla riforma ussita la Boemia orientale. In fatto di arte militare, Garibaldi « sapeva rispettarne sempre i princip1 basilari, perché possedeva le migliori qualità del generale: colpo d'occhio, abilità nello sfruttamento del terreno, freddezza d'animo, volontà inflessibile, carisma personale. Qualità tutte affinate dalla dura esperienza sudamericana e dai lunghi anni di navigazione, tirocinio ideale per un comandante, incomparabilmente superiore a qualsiasi preparazione scolastica e anche a quello studio metodico delle imprese dei grandi capitani che pure Napoleone tanto raccomandava» (210). La sua modestia e il senso dei propri limiti, unite alla sollecitudine veramente paterna verso i suoi « militi » (che voleva fossero (208) C. Pisacane, Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-1849, Roma 1975, pp. 147 e seg. (209) A.V. Vecchi, La vita e le gesta di Giuseppe Garibaldi, Bologna 1910, pp. 305 e seg.; I.V. Fric, Pameti, cit., vol. III, p . 126. (210) O. Bovio, L'arte militare di Garibaldi, in Atti del convegno internazionale su « Garibaldi generale della libertà», Roma 29-31 maggio 1982 (in corso di stampa).


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considerati come figli dagli ufficiali), tutto questo si traduceva in una costante assimilazione delle esperienze altrui, senza prevenzioni di alcun genere, affinché la condotta delle operazioni militari risultasse la migliore possibile e col minimo delle perdite. Così si spiega l'impegno costante ad accogliere fra le sue file e utilizzare in comandi di responsabilità ufficiali usciti da Accademie e Scuole di Stato Maggiore: emblematica fra tutte le altre è la presenza fra le file garibaldine del grande esperto militare prussiano colonnello Friedrich Wilhelm Riistow (1821-1878), che ha lasciato pagine memorabili sulla campagna garibaldina del 1860, anche nei suoi aspetti umani e in fatto di guerriglia, non meno che quella del magiaro Stefano Tiirr, del polacco col. de Milbitz, di Enrico Cosenz, di Vincenzo Giordano Orsini ecc. La testimonianza di A.V. Vecchi soccorre come poche a delineare le capacità di comando e di condotta delle operazioni di Garibaldi, nelle più varie circostanze. « La pratica del campo, la prontezza del concepimento, una peculiare attitudine alla comprensione del terreno, la facilità consueta del marinaio ad orientarsi, un'esatta stima delle proprie forze ed un non meno preciso criterio della forza vera dell'avversario, hanno educato Garibaldi alla guerra». E poi l'esperienza americana gli fece dare la preferenza a « truppe leggere a scapito delle grevi», inaugurò l'impiego su vasta scala dell'ordine sparso e la disposizione al combattimento in « bersaglieri »: con i suoi « Cacciatori delle Alpi » nel 1859 adotta « la tattica alla bersagliera », e così nel 1860, quando nell'esercito regio esistevano « due tattiche disuguali», con conseguente difficoltà d'impiego e di comando; la stessa divisa è « sciolta, è la camicia del marinaro »; « riconosce sempre personalmente la situazione dell'inimico», tanto da far restare di stucco il Cialdini, nel 1859, per la sua minuta conoscenza del terreno, rivelandogli: « E' una settimana che, travestito da contadino, esploro nelle prime ore mattutine il circondario ». Preciso nei comandi, ma « esigente di precisa esecuzione», sino a trascendere all'ira « alla disobbedienza d'un luogotenente »; spietato verso traditori, spie, ladri e codardi, non esitando a deferire al tribunale di guerra chi non aveva obbedito agli ordini; e nulla è più indicativo del lato umano con cui Garibaldi considerava il suo impegno militare, la frase da lui pronunziata alla notizia della caduta di Gaeta (2 novembre 1860): « Le contese civili sono cessate. Cialdini coi nostri è in Gaeta. Ora gli italiani non si sgozzano più» (211). (211) A.V. Vecchi, op. cit., pp. 300-325.


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Dal punto di vista tecnico-militare, il fatto di non obbedire a schemi preordinati portava Garibaldi - va sempre sottolineato a inserire la sua tattica « alla bersagliera » nel dinamismo della cosiddetta « guerra per bande » o partigiana; e l'una e l'altra si componevano organicamente in una condotta classica della guerra che per intenderci chiameremo regolare. Soprattutto, nessuna preferenza per l'una rispetto all'altra. In senso più ampio, va rilevato come sia vivo, intimo, diretto il rapporto tra le formazioni garibaldine - tutte volontarie - e la popolazione che le esprime dal suo seno. Nascono, queste formazioni, dal fascino dell'eroe, è vero; ma soprattutto, riflettono o rispondono ad un sentimento collettivo, non solo italiano, ma più ampiamente europeo. In questo senso, per questa intima rispondenza, si deve sottolineare come la presenza garibaldina nell'Ottocento europeo, cioè nel secolo delle nazionalità e delle lotte nazionali, debba collegarsi a quella vigorosa e generosa concezione militare e civile, della guerra di insurrezione « per bande »: essa viene da Garibaldi affinata e se si vuole tecnicizzata, e soprattutto col 1859 e con l'impresa dei Mille finisce per essere da lui innestata sul tronco vigoroso della tradizione militare del Regno subalpino, che ne esce indubbiamente vivificata. Quali le origini di questo modo particolare di condurre talune operazioni militari, naturalmente in determinate condizioni di terreno, di ambiente, di situazioni umane e politiche? E attraverso quali vie, quali succhi vitali questa dottrina della guerra « per bande » o partigiana giunge sino a Garibaldi? A parte il secolare insurrezionismo balcanico degli hajdukì serbi e montenegrini o dei clefti greci contro i Turchi, le origini di questa « dottrina » militare della guerra « per bande » (chiamata volta a volta partigiana, petite guerre o guerrilla) sono essenzialmente polacche. Negli anni in cui matura e giunge a conclusione la prima spartizione della Polonia nel 1772, tutta una nuova o meglio rinnovata esperienza militare viene colta con notevoli consensi da autorevoli osservatori francesi di cose polacche: da Gian Giacomo Rousseau al Mably, a Luigi Antonio Caraccioli (di famiglia napoletana infranciosata, 1721-1803 ), essi vedono in essa una novità - feconda di sviluppi in avvenire - per la rinascita di una Polonia stretta nella morsa di Russia, Prussia e Austria. La Confederazione di Bar infatti alleanza armata della szlachta o popolo nobiliare polacco che ebbe vita dal 1768 al 1772, con lo scopo di difendere le antiche libertà della Nazione - con-


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dusse una sorta di guerra civile, agile e di movimento, per reagire alla politica di intervento spiegata in Polonia dalla Russia di Caterina II (212). Affidata a piccole formazioni di cavalleria che agivano tra foreste, zone paludose e i vasti spazi della Polonia orientale, questo tipo di combattimento o di guerriglia non era altro, come metodo, che la continuazione di quelli condotti da almeno tre secoli contro Tatari e Turchi. Teorizzati sin dal Cinquecento dai Pamiçtniki ]anczara o « Memorie di un Giannizzero» (213) o dal Consilium rationis bellicae di Jan Tarnowski (testi più volte copiati e insieme diffusi fra comandanti ed etmani), questa forma di combattimento mobile ed efficace, era affidata ad una cavalleria leggera: come scrive Jerzy Teodorczyk, « il cavallo orientale e la leggerezza della corazza dovevano permettere il rapido inseguimento dell'avversario, e la tecnica (derivante dall'occidente) doveva assicurare una superiorità tattica per fare da contrappeso al numero sempre maggiore di Turchi e Tatari» (214). Questa tradizione di combattimento, tipicamente nobiliare, verrà ripresa e recata in forme moderne dai comandanti della Confederazione di Bar, primo fra tutti - anche se in polemica con essa - dal più valoroso ed abile nel condurre la guerriglia, il generale Kazimierz Pulawski (poi morto a Savannah negli Stati Uniti nel 1779 combattendo per l'indipendenza americana); ed anche dall'altro lato del fronte, da parte dei russi, si conduceva un tipo di guerra analogo. Tutto questo finirà per rappresentare - nell'Europa militare dell'epoca, degli scontri frontali e massicci fra t eggimenti avanzanti su linee compatte, al suono di musiche e tamburi - una vera novità tattica destinata a influire sulle stesse prospettive strategiche. Questa novità fu colta, fra gli altri, con chiarezza da uno dei tecnici militari francesi di maggiore prestigio, il generale Dumouriez. Inviato dal duca di Choiseul a capo di una vera e propria missione militare francese per assistere la Confederazione di Bar, nella quale il duca intravedeva « un moyen d'allumer un incendie dans le Nord (212) A. Tamborra, L.A. Caraccioli e la Polonia dopo la prima spartizione, in Italia, V enezia e Polonia tra Illuminismo e Romanticismo, Firenze 1973, pp. 25-36; Wl. Konopczynski, Konfederac;a Barska, 2 voll., Varsavia 1935-38. (213) A. Danti, Contributi all'edizione critica dei « Pamiçtniki Janczara », in « Ricerche Slavistiche», vol. XVI, 1968, pp. 1-36. (214) J. Teodorczyk, L'armée dans la première moitié du XVIII siècle, in Histoire militaire de la Polognc. Problèmcs choisis, Varsavia 1970, p . 99.


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pour inquiéter la Russie », il Dumouriez con grande fatica e solo in parte riuscì a sottomettere i Polacchi « à un système de guerre régulière ». Secondo la sua stessa testimonianza (215) dalle due parti era metodo prevalente quello di condurre una guerra veloce, di piccoli reparti e di colpi di mano: fra i Polacchi si distingueva il Pufawski come « trés brave et bon parti-san », che ,a capo di un esercito di 3-4.000 uomini a cava1lo « avait d'abord été trés-opposé au système de guerre régulière » e conduceva le sue azioni di guerriglia sottraendosi al controllo della Confederazione; in senso analogo si muovevano i russi dei generali Weymann, prima, e Bibikov, poi: « ils etoient divisés en petits commandoo qui couroient après les Polonais comme les oiseaux de proie après les pigeons ». Questo modo nuovo e vivace di condurre la guerra nei grandi spazi e dunque estraneo all'esperienza dell'Occidente, fu colto prontamente nella sua importanza ai fini di una rinascita della Polonia giusto in Francia dove le simpatie verso la Confederazione di Bar , sostenuta dal re, erano largamente diffuse anche come pubblica opinione. Ed eccoci alle teorizzazioni, prima fra tutte quella di Gian Giacomo Rousseau e quindi quella, successiva , del Caraccioli. Nelle sue Considérations sur le gouvernement de la Pologne et sur sa réformation projetée ormai datate grazie agli studi del Forst Battaglia al giugno 1771 e che presero a circolare mano-scritte in Francia e sino in Polonia, il filosofo ginevrino indica come particolarmente congeniale a « cette brave noblesse » polacca quella che egli chiama « petite guerre » o guerriglia: « l'art d'inonder le pays comme un torrent, d'atteindre partout et de n'etre j,amais atteinte, d'agir toujours de concert quoique séparée, de couper les communications, d'intercepter des convois » ecc., alla maniera degli antichi Parti (216). Il Caraccioli, nel 1775, legato allo Rzewuski e agli uomini e agli ideali della Confederazione di Bar, è anch'egli su questa linea, là dove scrive che « dans un plat pays, ou il n'y a ni montagnes, ni forteresses, la petite guerre a bien d'avantages sur toutes les batailles réglées et que dix polonais, accoutòumés à manier le sabre, à monter àcheval, à coudr avec toute vitesse imaginable, peuvent désoler et meme défaire un corps de trente mille hommes » (La Pologne telle qu' elle a été, telle qu'elle est, telle qu'elle sera, Poitiers, 1775, III parte, p. 46). (215) La vie du général Dumouriez, vol. I , Hambourg 1798, pp. 160-213. (216) J.J. Rousseau, Oeuvres complètes, vol. III, Paris, Gallimard, 1964, intr. di J. Fabre, pp. 1017-18.


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Ecco dunque prendere cittadinanza in Europa, con ongme nobiliare po1acca, l'idea della guerriglia o guerra partigiana. La sua saldatura con gli ideali di ascesa nazionale avviene ancora e sempre ad opera dei polacchi, a cominciare - come pratica e poi come dottrina - da Tadeusz Kosciuszko; il suo testamento politico-militare pubblicato anonimo nel 1800 sotto il titolo Czy Polacy wybié sir mog4 na niepodleglosé? (I Polacchi possono giungere all'indipendenza?), sta alle origini di un vasto movimento di pensiero militare che percorre l'emigrazione polacca nelle sue varie fasi di formazione e nella sua articolata composizione sociale sino all'ultima insurrezione, quella del gennaio 1863. Con esso il Kosciuszko sottolineava come unico mezzo per raggiungere l'indipendenza fosse l'insurrezione generale di tutta la nazione (preceduta dalla liberazione e mobilitazione dei contadini) condotta con i metodi della guerriglia partigiana (217). Questa idea centrale non mancò di avere subito una diffusione europea: in Italia Giuseppe :foantuzzi (m. Genova nel 1800) - combattente in Polonia al fianco di Kosciuszko - ne] congiungete « giacobinismo e un ormai vigoroso sentimento nazionale» è portato dalla esperienza polacca a trasferire su suolo italiano, nella guerra del Direttorio contro Venezia, l'idea della guerra di popolo (218 ); e non è senza significato se giusto il Dumouriez nel 1798 penserà ad una vasta sollevazione generale europea per fare risorgere la Polonia dalle ceneri delle spartizioni. « C'est par l'Albanie que la Légion polonaise de Dombrowski, renforcée d'Arnautes, de Bosniaques et de Grecs - scrive egli nel suo T ableau spéculatif de l'Europe (Paris 1798) - sera transportée jusqu'aux frontiètes de la Pologne et pénétrera par la Buccowine et l'Ukraine pou r al1er rassemblet et régénerer la Nation Polonaise ... C'est par cette nation régénérée que la Russie éprouvera les vengeances de la France et sera pénétrée du génie révolutionnaire, dont les bras étendus ceignent l'Europe, qu'il couve de ses ailes de feu » (p. 81 ). Ma sarà soprattutto dopo l'insurrezione polacca del 1830-31 che questa idea di una gu erra « per bande » o partigiana avrà piena cittadinanza in Europa, grazie sempre ai polacchi della cosiddetta « grande emigrazione». Dal punto di vista sociale l'emigrazione era (217) Zd. Sulek, Tadeusz Kofciuszko chef et reformateur social, in Histoire militaire de Pologne, cit., pp. 131-132. (218) M. Berengo, La società veneta alla fine del Settecento, Firenze 1956, pp. 217 e segg.


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composta per tre quarti da nobili e per un quarto da contadini e questa complessa articolazione ebbe una influenza determinante sul formarsi dei partiti e dei loro programmi politico-sociali (219). Tuttavia al di là di ogni divisione l'idea di una guerra insurrezionale, di popolo o per bande rimarrà comune sia alla corrente di parte conservatrice, facente capo al principe Adam Czartoryski, sia alla Società Democratica Polacca: eminenti comandanti polacchi che avranno una parte importante nelle vicende risorgimentali anche d'Ungheria e d'Italia come i generali J. Bem, L. Bystrzonowski , W. Chrzanowski o L. Mieroslawski, e uomini politici come H .M. Kamienski (D_ Prawdowski) , Stolzman, A_ Jdowicki o M. Mochnacki ed altri ancora, tutti saranno unanimi - sia pure con diversità di accenti - nel coltivare negli scritti come nell'azione di combattenti Je illusioni romantiche di una guerra di popolo. Queste illusioni furono condivise, in Italia, fra i primi dal savoiardo Carlo Angelo Bianco di Saint Jorioz , nel suo scritto del 1830 c.lal LiLulu Della guerra nazionale d'insurrezione per bande applicata all'Italia. Trattato dedicato ai buoni italiani da un amico del paese. Uscito, come egli stesso scrive, da « una lunga esperienza », dalle « conversazioni con esperimentati duci della guerra di bande », dalla « pratica familiare di profondi statisti » e da « lunghe veglie », in realtà il trattato teorico del Bianco si rifà a molte vicende militari: quella delle colonie americane contro la Gran Bretagna, l'insurrezione di Andreas Hofer contro Napoleone nel Tirolo del 1809, le lotte dei polacchi nel 1795 alla vigilia della terza spartizione, la guerra partigiana condotta in Russia contro l'armata napoleonica, ecc. Ma soprattutto è viva in lui l'esperienza della lotta popolare nella guerra di Spagna del 1808-1814, sempre contro gli eserciti napoleonici , su testimonianza di militari italiani e spagnoli da lui avvicinati, né manca il risultato della sua diretta partecipazione alla guerra in Catalogna contro le bande d egli « apostolici », appoggiate dai francesi. A parte indicazioni particolari come l'adozione della tattica della « tetra bruciata » o -suggerimenti per il vettovagliamento, la trattazione del Bianco si fonda sul confronto numerico fra i 300_000 uomini che l'Austria può mettere in campo e i 2 milioni di Italiani, sparsi e mobili, che possono affrontarli e batterli (220). {219) K. Groniowski, Emigracja polska po powstaniach narodowych (L'emigrazione polacca dopo le insurrezioni nazionali ), in Wielka Encyklopedia Powszechna, voi. III, pp. 416-419. (220) P . Pieri, Storia militare del Risorgimento, Torino 1962, pp. 107-117; F. Della Peruta, I democratici e la rionluzione italiana, Milano 1974 pa~sim.


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Citato e fatto proprio, come idea centrale, dal Mazzini, nel suo scritto Della guerra d'insurrezione conveniente all'Italia (221), esso si collegherà idealmente all'Italia militare o alla Memoria sui mezzi che menano all'italiana indipendenza di Guglielmo Pepe e a Nicola Fabrizi; per quanto riguarda l,a Russia allo scritto del decabrista russo gen. D.V. Davydov Essai sur la guerre des partisans (Paris 1841) (222); infine, nei Balcani tali idee saranno condivise da quanti, sino alle insurrezioni del 1875-78, ripropongono in chiave nazionalmente consapevole l'endemico insurrezionismo antiturco tenuto in vita per tre o quattro secoli. Come sottolineato da eminenti storici militari polacchi come Marian Kukiel e Janusz Wojtasik (223), alla base di queste teorizzazioni politico-militari vi erano calcoli ottimistici, che mettevano « in relazione numerica valori d'ordine differente e non commensurabili » come le forze regolari e quelle irregolari di gran lunga più numerose, cui fideisticamente sarebbe spettata la palma della vittoria . Essi non avevano alcun fondamento reale, ma tuttavia a queste idee di una guerra di popolo, per bande, bisogna fare ,riferimento quali molle ideali dell'impegno nazionale e rivoluzionario europeo, dai primi del secolo e per almeno tre generazioni. Del resto, giusto in area polacca e dopo l'esperienza di guerra e d'insurrezione del 1830-31 contro la Russia zarista ci si era resi conto dei limiti operativi di una guerra partigiana o per bande. Un esame critico della condotta e dei risultati di questa guerra d'insurrezione conduce nel 1835, da Parigi , W. Nieszokoé, capitano di artiglieria, a sottolineare che la nazione polacca dovesse prepararsi - in vista di una futura insurrezione - a una guerra regolare: non bande di partigiani, dunque, ma condotta per mezzo « di truppe regolari manovranti secondo le regole dell'arte militare e che si impegnano nel combattimento nei punti indicati da quest'arte ... » (224 ). (221) G. Mazzini, Scritti editi ed inediti, Ed . Naz., vol. III, pp. 195-241. {222) Citato da F. Venturi, in Il moto decabrista e i fratelli Poggio, Torino 1956, p. 76, nota 1. (223), M. Kukiel, Koncepcje powstania narodowego przed Wiosnq Lud6w (Concezioni della insurrezione nazionale prima della « Primavera dei Popoli»), in T eki Historyczne, 1948, t. II, 3, pp. 154-168 e segg.; J. Wojtasik, Les principales

conceptions de la lutte pour l'indépendance dans les années trente et quarante du XIX siècle, in Histnire militaire ..., d t., pp. 169-192. (224) W. Nieszokoé, O sistemie woiny partyzanskiei wzniesionym wfr6d emigrac;i (Sul sistema di guerra partigiana esaltato nella emi~azione), Parigi 1935, p. 6-11, dt. da J. Wojtasik, np. r.it, pp. 187-88.


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Una posizione intermedia sarà assunta, dieci anni pm tardi, nel 1845, dal generale Ludwig Mieroslawski, uno dei protagonisti delle guerre di liberazione in Polonia e in Italia fra il 1830-31 e il 1863. Amico di Buonarroti e di Mazzini in Francia, dopo il 1831 , influenzato dai grandi teorici di arte militare dell'epoca come H. }omini e W. Willisen, nella sua Analisi critica della campagna del 1831 e derivazione da essa di regole per la guerra nazionale (225), egli riteneva che a una insurrezione dei contadini (conseguente alla loro liberazione) dovesse fare seguito la formazione di un esercito regolare: bande partigiane, dunque, come spinta iniziale, e poi loro impiego alle spalle del nemico e su teatri secondari; peso risolutivo di un esercito regolare e suo impiego secondo i metodi classici del1'arte della guerra. (E proprio al Mieroslawski, alla fine di marzo del 1848 sarà affidato il comando, a Catania, di una divisione contro l'esercito borbonico, senza che potesse o avesse tempo di affiancare alla propria unità bande di contadini, rimasti invece inerti). Questo tipo di guerra o guerriglia, <lunque, da tempo teorizzata e discussa, ma mai applicata su larga scala con formazioni di ampio respiro, non poteva avere, allora, risultati ri,solutivi. Essa tuttavia possedeva un grande significato europeo, perché traeva succhi vitali e fermenti ideali dall'intimo contatto con le aspirazioni più profonde di popoli anelanti alla libertà e indipendenza nazionale: Garibaldi, che sapeva poco di teorie militari e relative discussioni tecniche, dopo l'esperienza compiuta in America, prima e dopo l'impresa dei Mille esprime compiutamente anche questo tipo di guerra o di protesta armata europea. Lo aveva constatato, primo fra tutti da testimone oculare e partecipe, il prussiano colonnello F. Wilhelm Riistow nel suo fondamentale scritto La guerra d'Italia del 1860 narrata politicamente e militarmente (Zurigo e Venezia 1861). Esule in Svizzera per i suoi sentimenti democratici, divenne teorico militare di grande prestigio e sostenitore dell'esercito popolare sul tipo di quello dei Cantoni svizzeri. Egli ebbe una parte di primo piano nelle operazioni da Marsala sino al Volturno, soprattutto nella battaglia del 1° ottobre 1860, quale Capo di Stato Maggiore della riserva generale comandata dal magiaro generale Stefano Tiirr. Il col. Riistow parte dalla osservazione fondamentale che « la gran parte dei garibaldini consisteva in gioventù che non conosceva (225) L. Mieroslawski, Rozbi6r krytycwy kampanii 1831 i wynioskowanie z nicj prowidéa do wojny narodowej, Parigi 1845, vol. I , pp. 49.50.


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la guerra se non di nome, e l'esercizio della quale doveva essere chiamato appena sufficiente ». In queste condizioni egli si chiede, « quali motivi adunque davano in mano ia vittoria alle schiere dei garibaldini, inferiori di numero e di militare esercizio? ». Quattro elementi fondamentali: « l'incanto del duce, il valore personale, la perseveranza, la intima relazione dei soldati tra loro, infine il principio dell'attacco». Se Garibaldi, scrive sempre il col. Riistow, « agli occhi degli allievi delle case d'educazione militare, dalle coste piemontesi sino alle spiaggie russe, è un uomo senza istruzione militare, un avventuriero fortunato », in realtà « egli è anche un grande generale che sa dirigere numerose masse suU'ampio campo di battaglia, e lo comprova la battaglia decisiva al Volturno ... ». « Paura e impossibilità» erano ignote ai comandanti garibaldini, per i quali del resto la stessa difesa non rappresentava che un «riempitivo», perché « capitani e soldati ad ogni fermata non pensavano che al modo di avanzare e di danneggiare più che fosse possibile il nemico ». Soprattutto, infine, quello che colpì di più il Rustow fu il modo di avanzare, in aperto contrasto con le « norme » codificate presso tutti gli eserciti europei: « Il solito modo di avanzare era in linea aperta che si diradava ancor più incontrando un fuoco violento od un terreno poco favorevole e si stringeva dove lo permettevano il fuoco ed il terreno. I vicini, però, non si perdevano mai di vista. In tal modo un momentaneo retrocedere anche a lunghe distanze non era quasi mai di pregiudizio. Nei veri garibaldini la unione morale superava la materiale, ed i loro combattimenti, illustrati da un valore personale, somigliavano non poco a quelli degli antichi Spartani. Il loro sistema era di lotte singo1'e, non tota-li, era un agglomeramento disordinato di combattimenti personali, essendoché nessun soldato dimenticava l'altro, ed operava conformemente. Le armi da fuoco, per la massima parte pessime, non recarono pregiudizio alcuno, anzi furono di aiuto nella speciale maniera di combattere che fondavasi sul valore singolo e sullo spirito dei militi » (226 ). Ecco dunque in cosa consisteva la « rivoluzione » militare garibaldina: nell'innesto del nuovo, di una concezione tattica nuova, della guerra spicciola, per piccoli reparti autonomi, ma intimamente collegati, sul ceppo di una visione classica della condotta della guerra e della manovra delle masse combattenti. (226) F.W. Ri.istow, op. cit., p . 190; sul Riistow v. P . Pieri, op. cit., pp. 702, 710, 744

CC'C' .


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Garibaldi, in questo, era un precursore, sin dalle battaglie di America, e l'esperienza di guerra dei garibaldini finirà col diventare patrimonio comune di tutti gli eserciti europei, anche tramite un'altra opera, divenuta classica, del col. Riistow, Die Lehre vom kleinen Kriege (La dottrina della « piccola guerra » o guerriglia), uscita a Zurigo nel 1864. Premesso che per « piccola guerra » o guerriglia o guerra « per bande », non si deve intendere quella .fotta da poche truppe, ma l'altra che impiega porzioni ristrette delle forze totali , essa può intendersi come l'insieme di operazioni destinate a ottenere risultati secondari, con forze limitate, rispetto a quelJe di un esercito che persegue lo scopo principale della guerra. Sotto questo profilo , al dire del col. Riistow, la guerriglia può essere condotta o da truppe regolari, o da speciali corpi di volontari o dalla popolazione (o parte di essa) del teatro della guerra: la campagna garibaldina nel sud del 1860 è stata condotta proprio e.la volontari, con l'appoggio delle popolazioni locali (pp. 3-9). Nel sottolineare, in sede di « dottrina » militare, che la guerriglia deve essere condotta da unità leggere, autosufficienti, molto mobili, dove cavalleria, fanteria e artiglieria dovevano essere opportunamente dosate a seconda del terreno, il suo giudizio complessivo circa la condotta della guerra garibaldina del 1860 è perentorio: « Senza dubbio la campagna dell'esercito meridionale del 1860 fa parte delle più brillanti che la storia deve registrare. Ma indubbiamente avrebbe potuto terminare in modo ancora più brillante. La sosta al Volturno non era necessaria, né giustificata (gerechtfertigt) », ma fu dovuta secondo lui alle difficoltà politiche messe in opera dal governo piemontese. Soprattutto, per quanto riguarda il tema specifico della « piccola guerra d'invasione », il col. Riistow tiene a precisare che le « regole » da lui esposte per questo tipo di guerra « sono state se-guite, nella sostanza, in questa campagna)>; e « queste norme sono state derivate dalla natura delle cose, e non soltanto in conseguenza degli eventi casuali di questa speciale campagna». E come « il combattimento offensivo della piccola guerra si caratterizza per lo ,sforzo di sorprendere e rendere cieco il nemico », esso si affida in primo luogo all'elemento sorpresa, sia essa con imboscata oppure senza imboscata: i preparativi sono dunque essenziali e la sorpresa deve avete « la rapidità del fulmine ». Di qui, da parte del col. Riistow l'analisi del modo di combattimento nel bosco, che ha un ruolo importante nella guerra partigiana, fornendo nascondigli a piccoli reparti per fare le imboscate e preparare le sorprese. Come esempio l'eminente comandante garibaldino prussia-


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no reca la battaglia di Capua del 19 settembre 1860, dove battaglioni garibaldini della forza di 2.400 uomini su suo ordine riuscirono a sorprendere le truppe borboniche uscendo dalla foresta (pp. 253-77). Di grande importanza nell'analisi del Rustow circa la guerra per bande è il combattimento in luoghi abitati, come quello del 30 agosto 1860 a Saveria-Mannelli, dove il generale borbonico Ghio si era fortificato, per taglfare la strada ai garibaldini nel punto più stretto della Calabria, fra il Golfo di S. Eufemia e quello di Squillace: Garibaldi attaccò Saveria-Mannelli dal nord, con l'appoggio delle bande di Calabresi che si erano sollevati al comando di Stocco, dando ordine al grosso di attaccare dal sud; di qui la capitolazione di Ghio (p. 293 ). Prescritto ai futuri comandanti della guerriglia di tenere bene in mano le alture, contro un nemico che venga dal piano, a esempio del combattimento di vallata egli reca quello di Maddaloni del 1° ottobre 1860, che ha costituito una parte « notevole» della battaglia del Volturno}> (p. 316). Infine, quanto alle imboscate e al combattimento di notte, fu essenziale per i garibaldini essere riusciti a impadronirsi subito della linea telegrafica fra Marsala e Palermo: « Noi ricordiamo qui la notevole corrispondenza telegrafica fra le stazioni di Marsala e di Palermo che si svolse immediatamente dopo lo sbarco di Garibaldi}> (p. 321). Una esperienza di guerra « per bande }>, questa di Garibaldi, veniva dunque recata a esempio sino a elevarsi al livello di « dottrina }> militare, grazie a un comandante prussiano che l'aveva vissuta, contribuendo insieme a Garibaldi al rinnovamento dell'arte della guerra. Come si è avuto occasione di notare, le formazioni combattenti garibaldine dal '48-'49 sino alla campagna di Francia erano composte esclusivamente da volontari. E volontari saranno, ovviamente quanti combatteranno in Grecia nel 1867 e nel 1897, nei Balcani nel 1875-77, per giungere al volontarismo ancora di ispirazione garibaldina degli anni della prima Guerra mondiale. Tutto questo, nell'Italia risorgimentale e postrisorgimentale, farà tradizione, ma può essere fonte di qualche equivoco che è bene disc;ipare. Per Garibaldi, infatti, i volontari che accettavano di in~ dossarc la camicia rossa erano soldati come gli altri : l'unica differenza era il modo di reclutamento, ovviamente non legato al servizio di leva o alla mobilitazione. Stessa disciplina, anzi più rigida, dun-


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gue, come aveva notato l'Engels, uguale impegno nella preparazione e nell'addestramento. « Quello che io chiedo alle mie milizie scrisse GarrbaJdi nelle « Istruzioni » per la campagna di Francia durante il viaggio da Caprera a Dole - è quanto segue: A ) Una disciplina severa, più severa di quella delle truppe regolari, senza la quale nessuna forza militare può esistere. Per disciplina non deve intendersi solamente l'obbedienza ai capi immediati, ma le relazioni tra « partito » e partito [cioè bande, n.d.r.]; vale a dire la cooperazione fraterna e reciproca che deve esistere tra essi; bisogna che i più giovani obbediscano ai più anziani ed ai più elevati in grado ... Bisogna che i capi e gli ufficiali abbiano la convinzione che senza derogare dalla disciplina possano e debbano trattare i loro soldati con onore e considerarli come figli. B) Una costanza incrollabile ad a//rontare fatiche e pericolo, sino a che la patria sarà libera. C) Un coraggio a tutta prova ed una condotta irreprensibile per acquistare l'amore e la stima delle popolazioni. Il rispetto della proprietà, anche in mezzo alle più dure privazioni, è la prima virtù del milite (227).

Il volontarismo che tenne viva la tradizione garibaldina nei Balcani nel '67, nel '75-'76, nel '97, nel corso stesso delle guerre del 1912-13, continuò a essere animato da questo impegno di serietà morale oltre che operativa. Ma negli anni immediatamente precedenti alla prima Guerra mondiale, nella prospettiva rivelatasi poi concreta che un futuro conflitto avrebbe mobilitato masse enormi di combattenti, un dubbio cominciò a farsi strada, in ambiente socialista e dei cosiddetti « democratici »: il volontarismo di tipo garibaldino era ancora valido? Questo interrogativo si era proposto, in Italia, giusto nel 1912, dopo che il figlio di Garibaldi, Ricciotti, dai primi del secolo aveva raccolto intorno a sé tutta l'agitazione a favore di un'Albania indipendente (v. cap. IV). Il movimento garibaldino come tale, con alla testa Ricciotti, quando gli Albanesi insorsero ricercando spazio politico all'Albania nel contesto delle complicazioni e delle guerre balcaniche, nonostante gli appelli finì per fare ben poco. Anche perché l'impresa di Tripoli consigliava di non crearsi complicazioni con l'Austria. Di qui certo disappunto o delusione, o addirittura l'ironia che trova la strada per manifestarsi in vari ambienti. (227) P. Maravigna, La campagna di Francia del 1870-71, in Garibaldi condottiero, Roma, Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito. Roma 1957, pp. 370..71.


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Nel settore dei « democratici » un convinto mazz1mano che rimarrà a lungo protagonista nell'impegno di veder concluso, in Europa, il ciclo delle lotte nazionali, Umberto Zanotti Bianco (18891963) nell'agosto del 1912 così confidava a Gaetano Salvemini: « Non è più l'epoca dei volontari! Nell'epoca moderna, col progresso del militarismo sono d'impaccio! » (228). Pochi mesi più tardi, la personalità di maggiore spicco del socialismo italiano, B. Mussolini - in presenza delle remore o delle il difficoltà di rinnovare verso l'Albania le gesta garibaldine 16 novembre 1912 non esitava ad affermare perentoriamente, sul1' « Avanti » che si era alla « fine di una tradizione». Sottolineato, « brutalmente» che « non è permesso agli eroi di giungere in ritardo, a cose fatte, a nemico fugato », egli ammoniva che « come la cavalleria medievale, anche la camicia rossa ha avuto la sua epoca ... La gesta garibaldina ha avuto la sua stagione. Garibaldi non torna più. Gli Epigoni non sono degni di lui. Finiscono nella caricatura. P erché continuare ciò che non è continuabile ? .. :Negli eserciti moderni non c'è posto pei volontari. Non si vince con truppe improvvisate. Le camicie rosse sono di un effetto sorprendente, ma oggi - perfezionate le armi - costituirebbero un troppo visibile bersaglio ». E la conclusione è una sola: « .. .l'efficienza dei corpi di volontari - dal punto di vista strettamente militare - è nulla o quasi di fronte a masse disciplinate e da molto tempo allenate » (229). Del resto, un giudizio severo, addirittura impietoso era stato dato su questo « tramonto » del garibaldinismo da un attento osservatore delle cose italiane, Michail Osorgin, un socialista rivoluzionario russo esule in Italia e corrispondente di giornali russi da Roma, che nel maggio del 1911 circa l'agitazione per l'Albania poteva scrivete: « Nuovi mille di un nuovo Garibaldi. Ma fra l'eroe e suo .figlio vi è una grande differenza. Il grande Garibaldi parlava poco e agiva molto; suo figlio parla molto, ma non si è ancora per nulla fatto conoscere nell'azione. L 'eroe fuggì dalla prigionia, pur di gettarsi al più presto nella battaglia; il figlio dell'eroe vive in libertà, indirizza ampi documenti... Ricciotti Garibaldi - generale troppo disciplinato per essere simile a un ribe.Jle, come lo fu il suo grande padre ... - si è affrettato a dichiarare la sua piena lealtà. (228) Biblioteca G. Fortunato. Roma, Archlvio Zanotti Bianco. Z.B. a G. Salvemini. Macugnaga 12 agosto 1912. (229) B. Mussolini, La fine di una tradizione. in «Avanti» 16 novembre 1912 (articolo cii fondo).


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Nel complesso la seconda edizione di Garibaldi ricorda una pessima traduzione da una lingua eroica nel dialetto borghese contemporaneo » (230)_ Parole dure, senza dubbio eccessive e poi contraddette dai fatti, che non tenevano conto del mutare dei tempi, come delle maggiori responsabilità che gravavano su chiunque agisse nell'ambito di una Italia ormai unita, che non era più quella del 1860 e poco oltre. E' comunque significativo che un rivoluzionario russo, ancora legato agli ideali populisti, si attendesse da un Garibaldi della seconda generazione lo stesso impegno da lui ammirato nel capostipite. Negli anni immediatamente anteriori alla Grande Guerra il dibattito sul volontarismo e sul cosiddetto « garibaldinismo » (un termine astratto, quasi ideologico, che implicava quasi sfiducia e una certa dose di sarcasmo) era dunque aperto: l'ideale garibaldino era ancora forte e sentito, con esso si dovevano fare i conti, se non si volevano smentire tradizioni preziose e disperdere forze morali di grande rilievo. A questa forza morale pensò infatti, giusto un mese prima dello scoppio del conflitto, un giovane ufficiale in servizio al Comando supremo, il maggiore Roberto Bencivenga (1872-1949). « In un clima da guerra civile quale il regno d'Italia aveva raramente conosciuto durante i suoi cinquant'anni di vita », neutralisti e interventisti si erano duramente affrontati in parlamento, nelle piazze, nella pubblica opinione e « il partito della neutralità, il più numeroso, aveva dovuto cedere al partito dell'intervento, meno numeroso ma più battagliero » (231 ). Al di là di queste polemiche virulente la preparazione comunque avviata esigeva previsioni, prospettive lontane, idee chiare anche in rapporto a una forza senza dubbio tradizionale e ancora valida, quella rappresentata da quanti si riconoscevano negli ideali garibaldini. L'interventismo era legato, profondamente, ad essi. Il maggiore Bencivenga - che emergerà subito come uno dei collaboratori diretti e più capaci di Cadorna in fatto di opera-

(230) M. Osorgin, Novyi Garibal'dickii pochod (La nuova impresa garibaldina), in « Russkije Vedomosti » (Notizie russe). Mosca 18 maggio 1911, corrispondenza da Roma; su M. Osorgin e il suo soggiorno in Italia, v. A. Tamborra, Esuli russi in Italia dal 1905 al 1917, Bari 1977, pp. 193-199. (231) P . Melograni, Storia politica della Grande Guerra 1915-1918, Bari 1969, pp. 1 e seg.


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zioni (232) - per la grande sensibilità verso il delicato rapporto tra potere politico e comando militare fu il primo a prospettare al vertice dell'Esercito il problema dei garibaldini. Così il loro impiego operativo è visto da lui come un elemento di cui tener conto. Il suo punto di vista espresso in una Memoria sull'impiego dei Garibaldini - rimessa al Sottocapo di Stato Maggiore dell'Esercito gen. Carlo Porro il 29 aprile 1915 - è concreto e responsabile: premesso che « i vo1ontari garibaldini possiedono una forza morale che, se bene utilizzata, può dare favorevoli risultati », è essenziale che i volontari « vengano organizzati e istruiti »: nessuna improvvisazione o nessun invio immediato al fronte, allo sbaraglio, come nell'entusiasmo del momento non pochi volontari pretendevano. E « tutto ciò richiederà un tempo più o meno lungo; ma a priori si può dire che non converrebbe impiegare i volontari garibaldini all'inizio delle ostilità, per la qual epoca non potrebbero avere che un'organizzazione tumultuaria». (Garibaldi, così attento alla preparazione dei « miliLi » per il combaLtimentu, avrebbe sottoscritto a due mani questa direttiva). Sotto il profilo dell'impiego, « il sistema più semplice » era quello di costituire reparti della forza non superiore al reggimento, quali truppe « suppletive » di alcuni corpi d'armata; in questo modo si sarebbe ottenuta dai volontari maggiore disciplina ed « il massimo rendimento come fattore morale», per la « nobile gara» con le truppe regolari. La preferenza del maggiore Bencivenga, anche se non lo dice esplicitamente, va a questo tipo di impiego, perché « la costituzione improvvisa di una grande unità » (sino a un corpo d'armata) presenterebbe molte difficoltà, a cominciare dal problema essenziale: « dove impiegare questo corpo di garibaldini? ». Una diversione verso « un teatro d'operazione separato da quello nel quale opera l'esercito regolare », sarebbe « l'ideale », ma dev'essere « giustificata, e soprattutto non deve esporre il corpo dei volontari a un facile insuccesso, e tanto meno a un serio pericolo. L'opinione pubblica si ribellerebbe. Bisogna pensare che i corpi volontari in genere, i garibaldini in ispecie, sono i beniamini del popolo». E come non si prestano « ad una guerra metodica», ma « hanno bisogno di facili successi », il Bencivenga esclude « un'impresa sull'altra riva dell'Adriatico», di tante suggestioni garibaldine

(232) Su di lui G. Rochat, Bencivenga Roberto, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma 1966, vol. VIII, pp, 212-214.


Cap. VI. - Guerra, guerriglia, volontarismo

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lontane e recenti: « prima o poi essa trascinerebbe l'esercito regolare al soccorso, ciò che si deve assolutamente evitare ». In queste condizioni, la scelta era obbligata: poiché « a questo corpo di volontari bisogna dare una direzione d'impiego che ne aumenti l'entusiasmo » e abbia « una potenza d'attrazione grande », gli unici obbiettivi erano Trento e Trieste: esso poteva essere assegnato « alla ia armata perché concorra ad un'operazione su Trento» oppure, qualora non si fosse ancora raggiunta la linea degli Altipiani, « darlo alla 3a armata perché lo impieghi in direzione di Trieste». Idee chiare e disegno operativo lungimirante, questi del maggiore Bencivenga. Essi cadevano in un momento particolarmente nel riconoscere ampiadrammatico della vita nazionale perché mente tutto il peso morale e militare del volontarismo garibaldino davano una risposta concreta, calata nella realtà strategica, a tutta una agitazione allora in atto per la creazione di un « Corpo garibaldino contro l'Austria». Essa, dai primi del 1915 in avanti, si era estesa dall'Italia sino a Parigi e a Londra, con l'intento di forzare la mano a Sonnino per l'intervento: su segnalazione austriaca a Sonnino del 2 febbraio 1915, un Comitato di Milano (Alceste De Ambris, Filippo Corridoni, B. Mussolini) e uno di Roma (D. Chiesa, S. Barzilai, E. Bezzi, L . Bissolati, U. Ojetti, Ricciotti Garibaldi) stavano mettendo in piedi « un bataillon de volontaires qui devrait provoquer par un coup de mains sur la frontière la déclaration de guerre du coté austro-hongrois »; lo stesso Ricciotti Garibaldi nel febbraio 1915 si era recato a Parigi e a Londra, chiedendo di poter aprire una sottoscrizione in Francia per 2 milioni e in Inghilterra per 4 milioni di franchi, col proposito di organizzare un corpo di 30.000 volontari, ma non fu autorizzato; l'obiettivo come anni prima era uno sbarco oltre Adriatico, se il 17 febbraio 1915 la « Morning Post», sotto il titolo Italy and Intervention. General Garibaldi's Hopes, raccoglieva a Londra una intervista di Ricciotti:

I am simply over here as a curator of the Garibaldinian tradition ... Within twenty-five days of raising my men, I will guarantee they will be in the fighting line. We have our tactics and methods. The moral force of the corps will be enormous, especially in the Balkans ».

«

Infine, su segnalazioni di polizia dei propositi di P eppino Garibaldi di « tentare una incursione sulle coste dalmate o istriane di elementi volontari formati dai fasci di azione rivoluzionaria », e di


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intenzioni analoghe dei repubblicani di Ravenna, la Marina e ]a Guardia di Finanza venivano invitate alla sorveglianza per impedire ~( l'imbarco clandestino per l'opposta sponda » (233). L'entrata in guerra fece giustizia di queste velleità operative garibaldine che, secondo l'ammonimento calzante di Bendvenga, avrebbero condotto a un disastro, costringendo l'esercito regolare a intervenire « al soccorso »: H 23 maggio il Consiglio dei Ministri decise di non permettere la formazione di corpi volontari autonomi . Gli stessi .fratelli Garibaldi « che avevano costituito in Francia la Legione italiana e che tornati in patria avevano tentato di promuovere altre autonome iniziative, dovettero entrare a far parte dell'esercito regolare, mentre il ministro degli Interni continuò a restare sul chi vive per impedire qualunque arruolamento a cura di associazioni o comitati « professanti principi sovversivi, segnatamente repubblicani » .. .I frate1li Garibaldi descrissero le difficoltà incontrate per raggiungere il fronte e il fallimento del loro disegno », finendo col trnvarsi a « disagio in un esercito che era poi il nostro » (234 ). I Garibaldi, per bocca di Peppino - figlio di Menotti - tornarono a insistere ancora nel gennaio del 1916; egli prese contatto col Re, col gen. Cadorna, vide il ministro della guerra gen. Zupelli e il Presidente del Consiglio Salan<lra, insistendo con un « memorandum » sulla opportunità di dare vita a un « Corpo di volontari collaboranti con l'armata regolare» (235). Ma le direttive già adottate in precedenza furono mantenute, confermandosi i dubbi e le incertezze sull'impiego espressi un anno e mezzo prima, con grande acume e intelligente percezione delle necessità militari, dal maggiore Roberto Bencivenga.

(233) Stato Maggiore Esercito, Archivio Ufficio Storico, Carteggio « Guerra mondiale, Comando Supremo, Busta 118/ 119, « Vade » A/1915, R. Bencivenga a C. Porro, sottocapo di S.M., 29 aprile 1915; A.S.M.E., Busta 274 (1915-18), fase. 272, l'ambasciatore a Parigi Tittoni a Sonnino, Parigi 24 febbraio 1915 e l'ambasciatore a Londra Imperiali a Sonnino, 17 febbraio 1915; Archivio Centrale dello Stato, Ministero degli Interni Dir. Gen. Pubblica Sicurezza, Affari ris., A 5 G (l' Guerra mondiale), Busta 13, fase. 20: Sonnino a Min. Interni, telegr. 5 marzo, 4 marzo 1915; Circolare del Ministro degli Interni ai Prefetti Roma, 2 aprile 1915; Busta 13, fase. 20, sottof. 8, agosto 1915; Busta 12, fase. 20/1/8. (234) P. Melograni, op. cit., pp. 24-25. (235) Rieciotd Garibaldi junior, I fratelli Garibaldi dalle Argonne all'intervento, Milano 1933, pp. 190-95.


VII IDE.A:LE DI PACE E INTERNAZIONALISMO

Il profilo « europeo » di Garibaldi sarebbe incompleto, anzi deformato e tutto sommato non veritiero ove fosse evocata solo la figura di un uomo che trascorre da un continente all'altro a condurre o suscitare energie guerriere: se al dire di George Sand, il suo ritratto si ritrova « chez les montagnards dévots du Vélay et des Cévennes »; se « cet aventurier illustre que naguère certains esprits criantifs se représentaient camme un bandit, était là exposé parmi les images des saints » (236 ); se ha colpito le fantasie, commosso gli animi e, quale uomo d'azione, ha finito per diventare punto di riferimento e quindi anche « mito » dell'ascesa nazionale europea, tutto questo è avvenuto per la singolare aderenza di Garibaldi ai bisogni, alle aspirazioni profonde della sua epoca. Non uomo di guerra, ma condottiero umano e sensibile che respinge lontano da sè il detto del generale montevidiano Fruttuoso Ribera secondo cui « la guerra es la verdadera vida del hombre » (23 7 ), si può dire che Garibaldi, al termine di ogni urto armato, dopo aver toccato con mano gli orrori del campo di battaglia, corra subito col pensiero ai rimedi per allontanare dall'Europa la iattura di periodici conflitti. Così, all'indomani della battaglia del Volturno, il 22 ottobre 1860, nel momento di ritirarsi suillo scoglio di Caprera, in una sorta di « manifesto » o Memorandum alle Potenze dell'Europa lancia l'idea di una Confederazione europea. Affidata da lui, come iniziativa, « al paese che marcia in avanguardia della rivoluzione » vale a dire alla Francia, a questa dovrebbero affiancarsi l'Inghilterra e (236) G. Sand, Garibaldi, Paris 1859, p. 5. (237) Scritti e discorsi politici e militari (Ed. Naz.), cit., vol. II, p. 1329.


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quindi « 1stmt1vamente » tutti 1 paesi europei, Russia compresa. Solo in questo modo, egli conclude, la guerra diviene quasi impossibile e « gli eserciti diverrebbero inutili », salvo a farli rivivere quali milizie nazionali per « mantenere il popolo nelle abitudini guerriere e generose » e per « reprimere disordini e qualunque ambizione tentasse di infrangere il patto europeo ». Ben consapevole che lo esercito fosse diretta espressione deHa nazione, Garibaldi è tuttavia contrario a certo pacifismo di maniera, ma intende che tutta la nazione sia « in armi »; la sua « proposta di legge » presentata come deputato il 18 aprile 1861 per l'istituzione di una « guardia nazionale » la diffusione sotto il suo impulso, in tutto il Regno, del tiro al bersaglio, perché « la Carabina è 1'arma dei popoli liberi e intelligenti» indicavano la volontà di far servire l'esercito alla formazione del cittadino, sino alla creazione della « nazione armata » tipo Svizzera: « ogni uomo, milite quando si tratta di difendere la patria, ed in tempo di pace, tutti al lavoro » (238). Queste idee, gettate giù da Garibaldi all'indomani del Volturno addirittura « sul tamburo », rimangono il motivo ricorrente di una esistenza dominata costantemente dalle più elevate aspirazioni civili ed umane. Esse, tuttavia, non hanno nulla di occasionale o di emotivo, ma giungono da molto lontano: oltre a trarre succhi vitali dalla « cultura europea della Restaurazione, dal nizzardo recepita nella sua forma francese », gli ideali cosmopolitici e umanitari cui Garibaldi rimarrà sempre fedele finiscono per rendere operante in lui l'impegno a servire, in un intimo rapporto, la nazione, l'Europa, l'umanità intera. Questo impegno nasce in lui molto per tempo, addirittura nella primavera del 1833 (vale a dire ben prima del suo incontro con Mazzini), quando sulla sua nave condusse da Marsiglia a Costantinopoli tredici sansimoniani francesi: fu proprio uno di questi, Pierre-Ange-Emile Barrault a iniziarlo al pensiero rivoluzionario del sansimonismo se più tardi nelle sue Memorie ricorderà come, grazie al Barrault, « le teorie cosmopolitiche del sansimonismo tolsero l'unilateralità del mio patriottismo e diressero il mio sguardo dal nazionalismo all'umanità »; di qui il convincimento, cui rimarrà sempre fedele e che sarà raccolto quale suggello indelebile dall'intera tradizione garibaldina sino a giorni a noi prossimi, che « eroe » è colui che « facendosi cosmopolita va ad offrire (238) G. Guerzoni, Garibaldi, cit., vol. II, pp. 222-27; Scritti e discorsi... di G ..G., cit. (Ed. naz.). vol. IV, pp. 348-360; vol. VI, pp. 60-61; 277-78.


Cap. VII. - Ideale di pace e internazionalismo

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la sua spada ed il suo sangue ad ogni popolo che lotta contro la tirannide ». Sorta di religione « laica », non priva di afflato mistico, messianico che arricchisce il sansimonismo con i succhi vitali del cristianesimo democratico dell'ultimo Lamennais, in Garibaldi queste molle culturali danno vita ad azione, a un costante impegno politico e militare. Questo impegno ha inizio nel Sud America, ma « l'esilio sudamericano non gli fa però dimenticare che l'epicentro delle fotte di Hberazione è l'Europa, il vecchio continente dove si giocano i destini dell'umanità. All'Europa, e particolarmente all'Italia, va costantemente il pensiero dell'esule » , se nel « programma» della Giovine Italia da lui pubblicato a Rio de Janeiro, esalta il grido potente di redenzione « partito dalla gioventù italiana e riecheggiato in tutta Europa: « quell'unanime consenso dei popoli più inciviliti d'Europa è una inaudita e tremenda alleanza degli oppressi contro gli oppressori, che aspira a riunire tutti i popoli nel medesimo alto concetto di rigenerazione e promette altre sorti all'umanità» (239). Ricondotto in Europa dalle vicende del 1848-49, Garibaldi finisce per superare le posizioni di Mazzini che non va al di là dell'affermazione del principio di nazionalità quale chiave di soluzione di tutti i problemi europei. Vero « cittadino del mondo», fra il 1860 e il 1866 quando ci si attende molto da lui e a lui ci si ispira, egli si prodiga per dirimere i contrasti nazionali, esorta all'intesa e alla collaborazione, si guarda bene dal fare proprio il programma nazionale di un popolo rispetto a quello di un'altra: « dedito alla causa dei popoli, io non posso distinguere il tedesco dal danese », scrive alle donne di Copenhagen il 13 maggio 1864, nel momento più aspro della guerra fra Danesi e Prussiani per i ducati di Schleswig, Holstein e Lauenburig; e il 10 aprile 1866 quale preludio all'intervento garibaldino in Grecia nel 1867 - egli promette ai Greci: « io servirò la causa della Grecia con la stessa devozione di quella del mio paese » (240) .

(239) D . Veneruso, Garibaldi e l'Europa. Un progetto di unificazione europea in « Rassegna Storica del Risorgimento», 1982, fase. II pp. 156-58, 160 ecc. con la bibl. relativa; G. Guerzoni, Garibaldi, vol. I. Firenze 1882 p. 31 e seg.; v. il «programma» cli Rio de Janeiro della Giovane Italia in A. Luzio, Garibaldi, Cavour, Verdi, Torino 1924, pp. 31-34; R. Ugolini, Garibaldi. Genesi di un mito, Roma 1982, pp. 67-87. (240) G. Garibaldi, Scritti e discorsi politici e militari oit., voi. II (1862-1867),


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Naturalmente, partecipe com'è egli stesso dell'illusione mazziniana della « fratellanza dei popoli », ne avverte tuttavia l'inconsistenza e rimane fedele al suo internazionalismo originario, indirizzando verso di esso l'intero movimento garibaldino, sin quasi alla fine dei suoi giorni. Ma le sue insistenze costanti verso la concordia, per il superamento dei contrasti nazionali di cui avverte l'esplosione nel momento stesso in cui gli Imperi multinazionali - Austria e Turchia - entrano in crisi, rivelano i limiti della impostazione di Garibaldi, forse certa sua incoerenza: l'impegno nazionale, anche come difficile individuazione di un limite fra uno Stato nazionale e l'altro, esige armamenti, eserciti stanziali, ricerca di alleanze, diplomazia, tutte cose estranee alla logica del generale; di qui il suo rifugiarsi nella alternativa illusoria del disarmo, dell'arbitrato obbligatorio, della soppressione degli eserciti permanenti, infine nell'internazionalismo pacifistico. In altri termini, a differenza di Mazzini che si muove in un limbo ottimistico e non entra mai nel vivo <ld contrasti e delle lotte nazionali europee, Garibaldi li vive e li sente in modo drammatico e cerca di farli superare: di qui la sua risposta internazionalistica e pacifistica. Dopo gli avvenimenti del 1870-71 che rappresentano per Garibaldi l'ultima stagione di guerra veramente combattuta e sofferta, egli torna a pensare a una unione europea. I termini sono vaghi, appena abbozzati, ma in parte storicamente validi. Cosi, nel riprendere idee già in vita sin dal '48 e sostenute da Mazzini, da Crispi, da M.A. Canini, dall'emigrazione magiara ecc., egli pensa a una « confederazione di popoli forti come Greci, Macedoni, Serbi, Rumeni ecc.»; sogna, nella confederazione europea, una sorta di federazione renana che risolva la contesa per l'Alsazia-Lorena; ancora col rammarico di essere divenuto straniero nella terra che gli diede i natali, immagina una repubblica compresa fra il Varo e le Alpi; auspica una ricostituzione della Polonia mentre la Turchia doveva essere respinta in Asia (241). In connessione con queste prospettive lanciate verso l'avvenire, sempre per l'orrore della guerra e per una migliore convivenza europea egli fa propri gli ideali di pacifismo e del connesso disarmo universale che soprattutto nella seconda metà dell'Ottocento avranno largo seguito nelle coscienze e così esiguo riscontro nella pratica politica.

(241) G. Garibaldi, Scritti politici e militari, cit., vol. VI, pp. 545 e seg.


Cap. VII. - Ideale di pace e internazionalismo

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Movimento di idee o, piuttosto, atteggiamento dello -spirito di cui sin dai primi del secolo si erano fatti propagandiste associazioni pacifiste di origine puritana, in prevalenza di paesi riformati; ripresi, questi ideali, soprattutto dalle correnti socialistiche, fu nei Congressi internazionali della Pace che il movimento pacifista della seconda metà del sec. XI X attuò un punto d'incontro fra uomini di varia nazionalità e di differente affiliazione ideologica: da1le rivoluzioni del 1848-49 alla guerra del 1866 e alla guerra grecoturca del 1867 - passando attraverso le lotte armate per l'unificazione italiana del 1859-60, l'insurrezione polacca e conseguente guerra fra polacchi e russi del 1863-64 o, infine, lo stesso intervento di Napoleone I II al Messico - quasi una intera generazione direttamente o indirettamente era stata coinvolta o toccata da queste vicende belliche; la stessa espansione coloniale della Francia e dell'Inghilterra stava suscitando altri ambiziosi imperialismi; i Balcani rimanevano una polveriera di contrasti e di aspirazioni nazionali; lo stesso irredentismo italiano - quale senso della incompiutezza dei risultati raggiunti sino al 1866 con le guerre risorgimentali - guardava a territori soggetti all'Austria, abitati da popolazioni italiane; nè mancava, infine, nel 1867 certa scoperta tensione tra Prussia e Francia, entrambe desiderose di annettersi il Lussemburgo. Vi era dunque di che essere veramente preoccupati, tanti erano i motivi di contrasto in atto o in potenza. Ai primi di maggio del 1867, chi si fa interprete di queste diffuse preoccupazioni è, a Parigi, il foglio « Le Phare de la Loire » di Evariste Mangin: nel prendere lo spunto dalla disputa franrnprussiana per il Lussemburgo, in un appello del 5 maggio il giornale parigino invocava la riunione di un congresso « qui veut sincèrement épargner à l'Europe les horreurs de la guerre » « ... mettre fin à toutes les contestations manaçantes pour la tranquillité des peuples » . Subito ci si mise al lavoro e dalle riunioni preliminari nacque l'orientamento di convocare un Congrés pour la Paix et la Liberté: non dunque una assemblea conservatrice, tendente a mantenere lo status quo esistente, pur di non giungere arlla guerra, ma - su diretta influnza del polacco Hauke-Bosak, reduce dalla rivoluzione del '63-'64 - una riunione che considerasse il problema della libertà nazionale strettamente legato al più vasto tema della pace. Una volta imboccata la strada maestra dell'unità indivisibile della pace e della libertà, chi se non Garibaldi poteva essere eretto a simbolo vivente di questi ideali? Esaltato da Vietar Hugo come


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« un homme dans toute l'acception du mot. Un homme de la liberté, un homme de l'humanité », per « Le Phare de la Loire » del

10 agosto 1867 « ce nom est à lui seul le plus net des programmes. Il veut dire héroisme et humanité, patriotisme, fraternité des peuples, paix et liberté ». A sede del congresso .fu scelta la città più cosmopolita d'Europa, Ginevra, luogo di incontro di fedi religiose, di emigrati e perseguitati politici, priva di quelle riserve che potevano riscuotere grandi capitali europee; dove circa un cinquantennio prima, nel 1820 J.J. de Sellon - zio ginevrino di Cavour - aveva dato vita a una sia pure effimera Société de la Paix. E Ginevra non deluse i congressisti e quanti - ben 10.666 - aderirono con entusiasmo all'iniziativa: 2713 Svizzeri, 1609 Tedeschi e Ungheresi, 1006 Francesi, 442 Italiani, 149 dalla Gran Bretagna, 105 Belgi, 45 Russi, 39 Polacchi, 32 Americani, oltre ad altri di nazionalità sconosciuta. Garibaldi - che stava preparando con i suoi l'impresa contro Roma, prevista « per la rinfrescata », cioè nell'autunno inoltrato - il 7 settembre è accolto a Ginevra con e~tusiasmo, salutato da migliaia di manifesti, che lo esaltavano per il suo passato e, significativamente, per i propositi avvenire verso Roma: « Genève où la liberté règne; Genève, qui s'est émancipée jadis du joug ultramontain, applaudira à 1a vie héroique, aux espérances sublimes de Garibaldi. Acclamer Garibaldi, c'est dire hautement que l'on veut pour les peuples le droit de se gouverner eux-memes ... Liberté nationale, émancipation du joug de Rome, voilà ce que signifie le nom de Garibaldi; voi]a pourquoi les Genevois doivent l'acolamer ». A questo manifesto facevano eco le parole con cui James Fazy, già presidente del Consiglio del Cantone di Ginevra e capo del comitato organizzatore del Congresso, salutava in Garibaldi: « .. .l'homme le plus valeureux et le plus désintéressé de ,s on siècle ... J'homme qui personnifie les aspirations démocratiques et philosophiques de la génération nouvelle, et que, sous son égide, la famille genevoise toute entière réunie invoque ensemble la liberté ». Non vi potevano essere consensi più calorosi alla presenza di Garibaldi al vertice stesso di un Congresso, che vantava fra le sue file personaggi di statura europea: Aleksàndt I. Herzen e M. Bakunin, il valoroso generale polacco Hauke-Bosak (che cadrà alla testa della sua brigata, nel gennaio 1871 , agli ordini di Garibaldi con l'Armata dei Vosgi); Albert e Louis Blanc, Emilio Castelar, Victor Hugo, Edgar Quinet, J. Carnot, Jules Favre, Jules Simon,


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Pierre Leroux, il presidente della English Reform L eague Beales, John Stuart Mili, Jules Barni, grande traduttore di Kant e docente a Ginevra; G. Ceneri, professore di Diritto romano a Bologna; fra i garibaldini, accorsero a Ginevra i maggiori esponenti del movimento: Alberto e Jessy White Mario, il magiaro Gustavo Frigyesy, L. Frapolli, Mauro Macchi, il medico personale di Garibaldi Timoteo Riboli e il suo segretario Giovanni Basso, Giuseppe Dolfi, Benedetto Cairoli, Vincenzo Caldesi, il Missori, Pietro Delvecchio e altri. Per caso, lo stesso Fedor Dostoevskij capitò a Ginevra nei giorni del Congresso. Partito col proporsi, nel programma, interrogativi fumosi, circa l'opportunità e i mezzi per « l'établissement d'une confédération de libres démocraties constituant les Etats Unis d'Europe », la riunione pacifista di Ginevra non ricevette maggiori lumi da Garibaldi. Chiamato a presiedere, in sostanza, una riunione di ideologi o, peggio, di agitatori politici e rivoluzionari di lunga anzianità (si pensi a Herzen e Bakunin), Garibaldi - che era uomo concreto - doveva aver avvertito come a Ginevra tutta la macchina del congresso stesse girando a vuoto. Parol e, frasi fatte, illusioni ottimistiche espresse nei discorsi ufficiali si scontravano con una realtà rappresentata dalla politica di potenza degli Stati. Cosa poteva recare, Garibaldi, se non affermazioni di principio, inconsistenti quanto inutili? Lo fece il 9 settembre, alla vigilia di lasciare « cette terre d'asile et de liberté » qual'era per tanti europei la Svizzera, proclamando che « toutes les nations sont soeurs », che « la guerre entre elles est impossible )> visto che ogni controversia doveva essere giudicata dal Congresso; e come « la démocratie seule peut remédier au fléau de la guerre par le renversement du mensogne et du despotisme », solo all'istruzione, all'educazione e alla « vertu )> spettava la propaganda della democrazia. Parole, parole, parole .. ., quando invece - nel suo odio antipapale e anticlericale che aveva raggiunto ormai la monomania - Garibaldi alla vigilia e in piena preparazione dell'impresa contro Roma non esitò a usare la tribuna del Congrés pour la Paix et la Liberté come cassa di risonanza per le sue idee: proc1amare che « la papauté, come la plus nuisible des sectes, est déclarée dechue d'entre les institutions humaines », significava preannunziare, in un arengo intern azionale, un tentativo che di lì a poche settimane lo avrebbe visto agire da protagonista. E questo era, in ultima analisi, lo scopo vero che Garibaldi si era proposto accettando la presidenza di un congresso internazionale, in nna Ginevra calvinista da lui proclamata « la


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Rome de l'intelligence », in contrapposizione con la Roma papale dell'oscurantismo (242). Malgrado i risultati deludenti, Garibaldi dinanzi alle polemiche che si erano subito scatenate durante e dopo il congresso, negò che esso avesse rappresentato un « fiasco complet de la démocratie universelle » (lettera agli organizzatori del Congresso da Ginestrello presso Voghera, 16 settembre 1867). Per questo, aH'ideale pacifista e umanitario egli mostra di rimanere sempre .fedele: dopo l'esperienza di guerra - e di quale guerra - d el 1870-1871, soprattutto in polemica col Thiers egli auspica che si realizzi « l'umanitario concetto che i generosi campioni della Lega della Pace e della Libertà vanno divulgando nei loro filantropici congressi da vari anni >>. E a questa Lega che egli dice di «venerare» manda messaggi, come quello del 2 marzo 1874 da Caprera, aderendo « all'istituzione di un arbitrato internazionale » (243 ). Insieme, sempre con gli ocd,i fissi all'ideale pacifista non meno che al proposito di veder attenuate, per la Francia sempre amata, le conseguenze della di sfatta di Sedan, Garibaldi esorta l'imperatore Guglielmo I a non abusare della vittoria e al Bismarck il 20 dicembre 1872 suggerisce di promuovere una iniziativa internazionale per impegnare tutti gli Stati a sottoporre le loro controversie a procedura di arbitrato. Nè minore fu il consenso suo, di G. Pallavicino, di F.D. Guerrazzi, di Mauro Macchi, in una parola di tutti i « democratici » italiani alla proposta presentata ai Comuni da Sir Henry Richard, segretario della Società per la Pace, che invitava il Parlamento britannico a promuovere l'istituzione di una Alta Corte di Giustizia Internazionale (244). Lo stesso progetto a cui si applica per due anni dal 1875 al 1 8 76 per la deviazione del Tevere a sud di Roma e la creazione

(242 ) A.P. Campanella, Garibaldi and the /irst peace congress in Geneva in 1867, in « International Review of Socia! History », 1960, pp. 416-486; v. il testo della mozione presentata da G aribaldi al congresso in G . Guerzoni, Garibaldi, cit., voi. II, pp. 482-85. (243 ).G. Garibaldi, Scritti politici e militari (Ed. Naz.), cit., vol. VI, pp. 120; 547. (244) G . Fonterossi, Garibaldi e la lettera gratulatoria a Sir Enrico Richard (Lettere inedite di Garibaldi, F.D. Guerraui e Giorgio Pallavicino, in « Rassegna Storica del Risorgimento», 1932, fase. TT, pp. 377 e seg.).


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di un grande porto (245), si inquadra in questi ideali di pace, di collaborazione internazionale, di più ampi e pacifici contatti fra i popoli. Un comodo e interessato « cliché » della « consorteria » dominante vuole fare di lui solo un uomo di guerra, relegato, ormai vecchio e fuori dal gioco, a Caprera. Ma Garibaldi non si lascia irretire in schemi e, nei contatti con gli esponenti del grande capitale finanziario e dunque con la democrazia internazionale e la massoneria persegue un ideale altissimo: far entrare Roma, una capitale d'Italia ancora provinciale, nel grande circolo della vita economica europea e mondiale, richiamando intorno ad essa solidarietà e interessi . L'adesione alla massoneria, con l'iniziazione ricevuta a Montevideo nella loggia L'asilo de la virtud nel 1844 e l'ascesa nei gradi massonici sino all'elezione a gran maestro del Grande Oriente d'Italia, a Firenze, nel 1864, ebbe per G aribaldi un significato preciso: validità di una « fratellanza » universale fra uomini liberi praticanti una religiosità personale, fuori da qualsiasi imposizione dogmatica o dottrinaria; riconoscimento ad essa di uno specifico compito politico, per attuare una vera solidarietà fra i popoli e dirimere le controversie internazionali, almeno come mete ideali; sul piano interno, impegno a fare della organizzazione massonica il mezzo di elezione per dare unità alle forze di rinnovamento del paese, sino a creare una nuova classe dirigente capace d i muoversi sulla più vasta arena internazionale con propositi federativi per l'Europa, per la creazione di grandi sistemi etnico-linguistici, sino all'obiettivo ultimo, quello della « unità mondiale » (246 ). In un uomo siffatto, infine, il lungo, vorrei dire diuturno contatto con gli uomini della sinistra europea, soprattutto con Herzen, con Bakunin, con i rivoluzionari polacchi, doveva necessariamente avviarlo a sostenere la causa di quella che, intorno agli anni 70 , veniva chiamata l '« Internazionale ». Veramente, già nei primi suoi durissimi anni di esilio dopo la fallita insurrezione di Genova, nei suoi viaggi in Oriente aveva avuto modo di incontrare nella primavera del 1833, un gruppo di proscritti sansimoniani francesi. E' a {245) A. Caracciolo, Interessi internazionali nell'impresa di Garibaldi per la deviazione del Tevere (1975-1876), in « Rassegna Storica del Risorgimento», 1954, fase. II-III , pp. 292 e seg., con la bibliografia citata; cfr. anche L. Rava, Giuseppe Garibaldi e Al/redo Baccarini per la sistemazione del Tevere urbano e la bonifica dell'Agro Romano, ibidem, 1932, fase. III , pp. 623 e seg. (246) A.A. Mola, Garibaldi vivo, Milano 1982, PI?- 219-233.


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quell'epoca (al dire anche della madre che un giorno ebbe a dolersi: « i Sansimoniani mi hanno guastato mio figlio » ), che risalgono - abbiamo visto - le larghe idee umanitarie, di fratellanza universale, di riforma sociale, assimilate appunto dal primo socialismo utopistico francese (247). Il vero, decisivo accostamento di Garibaldi alla prima organizzazione socialistica, quella che prenderà il nome di Internazionale, avviene grazie al suo contatto con Michail Bakunin. Nell'autunno del 1861 l'esponente del primo populismo russo era riuscito a fuggire dalla Siberia dopo gli anni di prigionia passati in Germania, in Austria e in Russia dal 1849 al 1857 . Dal suo arrivo a Londra, alla fine di dicembre 1861, egli riprende la battaglia politica: nel collegarsi alla posizione assunta nel giugno del 1848 al Congresso slavo di Praga, quando legò la rivoluzione sociale alla soluzione del problema polacco e, più ampiamente, slavo, il suo primo atto fu l'appello ai Russi e ai Polacchi, pubblicato sul « Kolokol » (La Campana) <li Herzen e Ogarcv nel fobbraiu del 1862. Le stesse idee aveva espresso il 31 gennaio a Garibaldi, cui fece parte dei suoi progetti politici di lungo respiro: « La révolution en Russie c'est le démembrement de l'Empite russe, et à sa piace, j'espère, ce sera la fédération de tous les peuples slaves, libres et indépendants. Nous faisons tout notre possible pour lier fortement notre cause à la cause polonaise. C'est pour nous, à la fois, une nécessité, un besoin et un acte de justice. Nous reconnaissons hautement le droit de la Polognc à une complète indépendance ». Bakunin non solo era stato messo al corrente dei problemi italiani e circa Garibaldi nei suoi contatti con Mazzini, visto a Londra in casa Herzen, ma la eco delle gesta garibaldine era giunta a lui, sin nella lontanissima Siberia orientale: « Le bruit de vos nobles et patriotiques exploits est venu troubler man apparente quiétude, en ranimant en mai toutes les passions de mon jeune age. D'ailleurs, je n'ai pas été le seul à m'en émouvoir. Si Vous aviez pu voir camme mai l'enthousiasme passionné de toute la ville d'Irkoutsk, capitale de la Sibérie orientale, à la nouvelle de votre expédition en Sicile et de votre marche triomphale à travers les possessions du feu roi de Naples, Vous auriez dit comme moi qu'il n'y a plus ni espace ni frontières ». Con ogni verisimiglianza, proprio questo primo successo, m Europa, della « rivoluzione» dopo le delusioni del '48-49 e l'ascesa (247) G . Guerzoni, op. cit., vol. I, pp. 31 e seg.


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del terzo Napoleone nel 1851, spingono Bakunin a fuggire dalla Siberia per inserirsi in tempo nella nuova ondata rivoluzionaria ritenuta imminente e messa in moto dall'impresa dei Mille. Questa ondata ai suoi occhi non poteva investire altro che l'Europa danubiano-balcanica. E come, a Londra, aveva sentito parlare di propositi insurrezionali contro l'Austria e la Turchia per iniziativa di Garibaldi secondo quella « attesa » di sbarchi di cui si è detto - Bakunin non esita a chiedere a Garibaldi: « Est-il vrai que de concert avec les Hongrois et les Slaves, Vous Vous proposez de faire au printemps un mouvement de diversion dans les pays slaves de la Turquie et de l'Autriche? » (31 gennaio 1862) (248). Con alle spalle la tradizione del padre che aveva passato in Italia gli anni della giovinezza, studiando poi all'università di Parma e prestato servizio nelle legazioni russe a Firenze e a Torino, non meno che i soggiorni italiani dei suoi amici N .V. Stankevic e Ivan Turgen'ev, Bakunin arrivò a Torino l ' 11 gennaio 1864, con lettere di presentazione di Mazzini e di Aurelio Saffi. Il 19 gennaio si recò in visita a Garibaldi, a Caprera, cui deve aver esposto le linee del suo orientamento politico: essi erano più che mai vicini nella valutazione del significato europeo della rivoluzione polacca, ormai già in crisi e per la quale Garibaldi si preparava a intervenire presso Herzen (v. cap. III); vi è anzi da chiedersi se non sia stato proprio Bakunin (che sin dal '48 puntava sulla rivoluzione polacca quale inizio di un più ampio sommovimento europeo) a sollecitare Garibaldi per smuovere Herzen e i rivoluzionari russi cli Zemlja i Volja (Terra e Libertà) dalla loro inerzia. Definito da Agostino Bertani come « un noto e fervente apostolo cli riforme sociali e politiche», i suoi contatti con Giuseppe Dolfi e Giuseppe Mazzoni - così legati a Garibaldi - lo fanno entrare nel giro della massoneria italiana; giusto a Firenze nella prima metà del 1864 traccia le linee di una « Società rivoluzionaria internazionale », meglio nota come « Fraternità internazionale », che segna per lui l'abbandono assoluto di quei movimenti rivoluzionari nazionali, di cui era stato paladino dal 1846 al 1863; il viaggio in Italia, proseguito da Firenze a Napoli e Sorrento nel 1865 con contatti con i democratici napoletani (come Giuseppe Asproni, {248) Pubbl. da P.C. Masini e G . Bosio, Bakunin, Garibaldi e gli affari slavi 1862-1863, in « Movimento operaio», Milano 1952, pp. 78-92 (Milano, Museo del Risorgimento, Archivio Garibaldino, hnsta 259).


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presentatogli da Garibaldi, Carlo Gambuzzi, Attanasio Dramis, Raffaele Mileti, Giuseppe Fanelli, seguace di Pisacane nel 1857 ecc.) fa maturare in Bakunin l'idea fondamentale: tale organizzazione segreta internazionale doveva attuare una rivoluzione sociale europea, a base radicale, socialista e anarchica, cioè antistatalista; nell'uscire dal ceto operaio, essa avrebbe segnato la fine degli Stati nazionali, da sostituire con una libera federazione. Influenzato da Carlo Pisacane e dal suo Saggio sulla rivoluzione, a impostazione nettamente libertaria, Bakunin ai primi del 1867 condanna esplicitamente il patriottismo rivoluzionario di quanti con Mazzini e Garibaldi hanno contribuito alla unificazione del Paese in senso statale: « Ce sont tous les partisans de la grandeur italienne, tous les patriotes de l'Etat; en un mot ceux du parti de l'action, et avant tous les autres Garibaldi et Mazzini, qui en ayant été les inspirateurs et les chefs apparaissent à mes yeux, sinon camme les seuls, du moins comme les plus coupables, les plus condamnables , au point de vue de la révolution; malgré toute cette grandeur personnelle et nationale qui les rangera sans doute au nombre des héros de l'histoire ... , c'est bien à tort que dans presque tous les pays on confond ces deux mots: patriote et révolutionnaire, qu'on peut etre rrés sincèrement patriote et réactionnaire en meme temps». Nel considerare la nullità assoluta del «vecchio » principio fatta salva della rivoluzione esdusivamente politica, per lui « l'estime due à ces célèbres italiens » egli ritiene che Garibaldi e Mazzini « sont devenus vraiment funestes à leur pays » . Per tutti questi motivi, secondo un giudizio dell'ottobre 1869, per lui Garibaldi a ben vedere non è un rivoluzionario: « Amoureux de la grande unité italienne, de la puissance et de la gioire de l'Etat itailien et serviteur fidèle de la monarchie, Garibaldi n'est clone proprement pas un révolutionnaire. Il ne l'est devenu quelquefois que par indignation et par impatience ». Naturalmente, questa sfiducia - accentuata dalle divergenze che dividono sempre di più Garibaldi da Mazzini e hanno condotto alla loro separazione - si estende per Bakunin a tutto il movimento garibaldino se, il 6 gennaio 1867 cosl si confida a un ignoto corrispondente: « Le parti du général Garibaldi est un parti passablement elastique. Il manque de caractère, parce qu'il manque de principes; ce qui lui sert de liens, c'est une sorte de culte personnel et de foi plus ou moins aveugle dans l'étoile d'un héros ; de sorte que si Ga-


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ribaldi venait à disparaitre, son parti disparaitrait avec lui. Les idées politiques et sociales de ce parti sont si peu déterminées, si confuses, que dans certains moments on avait du penser que le roi Victor-Emmanuel lui mème et le fatal Rattazzi y adhéraient de plein coeur ». Questo partito o meglio nebulosa politica « ne sont rien moins que révolutionnaires », composti come sono « de jeunes ardents, remuants, plus ou moins belliqueux, déplacés, désouevrés, cherchant à se faire une carrière ou avides d'aventures, mais qui n'ont pas la moindre idée dans la tète ». Tale partito possiede « deux seules idées, deux passions »: la conquista di Roma e di Venezia e l'odio per il papato. Un giudizio molto severo verso Garibaldi politico e il partito d'Azione, sollecitati del resto a chiarire bene le loro idee e propositi in senso socialistico e rivoluzionario. Ma lo stesso intervento di Bakunin al Congrés pour la Paix et la Liberté del settembre 1867, a Ginevra, dove tentò di farne una cassa di risonanza alle sue idee, esposte per la prima volta in pubblico, non condusse a nessun chiarimento; tanto meno attenuò ]a sua sfiducia verso Garibaldi presente al congresso, oltre che la sua netta ostilità a Mazzini. Per lui, come scriverà agli amici d'Italia riuniti a Roma per il congresso operaio del I novembre 1871, il compito di Mazzini e di Garibaldi appare virtualmente concluso: « Le mouvement patriotique de la jeunesse italienne sous la diréction de Garibaldi et de Mazzini fut légitime, utile et glorieux; non parce qu'il a créé l'unité politique, l'Etat unitaire italien - ce fut au contraire sa faute, parce qu'il ne put créer cette unité sans sacrifier la liberté et la prospérité du peuple mais parce qu'il a détruit les différentes dominations politiques, les différents Etats qui avaient artificiellement et violemment empeché l'unification sociale, populaire de l'ltalie ». La gioventù italiana deve ora compiere un passo ulteriore, « aider le peuple italien à détruire l'Etat unitaire italien qu'elle a fondé de ses propres mains. Elle doit opposer à la banniére unitaire de Mazzini la bannière fédérale de la nation italienne, du peuple italien » (249).

(249} Miche/ Bakunin et l'Italie 1871-72, a cura di A. Lehning, Leyden 1963, vol. I, pp. XIX-XXII; 298-99; A. Masters, Bakunin. The fatber of anarchism, New York 1974, p. 246 e seg.


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La dura polemica contro Mazzini andava veramente oltre ogni limite e coinvolgeva anche Garibaldi, indicando essa come obbiettivo la distruzione dello Stato unitario. Ma questa sfiducia in Garibaldi per singolare paradosso non impedisce che l'internazionalismo bakuniniano si diffonda in I talla proprio grazie a Garibaldi e al movimento garibaldino. Infatti, sottolinea L. Valiani, « la grande diffusione dell'internazionalismo in Italia data dalla partecipazione di Garibaldi e delle camicie rosse alla guerra della rinata Repubblica francese, invasa dai prussiani e sboccata nella Comune, e si può seguire bene nel « Gazzettino rosa » e in altri giornali democratici radicali del tempo. Le ripercussioni dell'insurrezione parigina furono decisive, per il movimento proletario, in tutta l'Europa. Ma da noi furono precedute dalle amare esperienze che i volontari dei Vosgi dovettero fare della grettezza di una repubblica« borghese » come quella per la cui salvezza erano accorsi in armi, con Garibaldi e i suoi figli e con numerosi esponenti repubblicani ... » (250). Garibaldi stesso - peraltro con non poche ambiguità e contraddizioni, prontamente rilevate da Bakunin e dai suoi stessi amici, come Giorgio Pallavicino Trivulzio - finisce pet sentirsi parte dell'Internazionale. Ma in quale senso? Vecchio, logorato nel fisico, ma sempre pronto ad abbracciare le idee più generose, tutta la sua esistenza stava a dimostrare che la sua posizione era sempre stata dalla parta dei poveri, dei diseredati, degli oppressi in senso nazionale e sociale. « Je suis ouvrier, je descends d'ouvriers et j'en suis fier » aveva detto secondo una testimonianza prontamente raccolta da Herzen nel 1865 (251) . Così, G aribaldi il 14 novembre 1871 è pronto a scrivere all'amico Giorgio Pallavicino Trivulzio (che lo aveva esortato a riflettere bene prima di pronunciarsi) di aver appartenuto « all'Internazionale quando serviva le Repubbliche del Rio Grande e di Montevideo, cioè molto prima di essersi costituita in Europa taJe società» (252). In tale senso, egli chiarisce bene a Celso Ceretti il 19 dicembre 1871 di considerarsi una « branca }> dell'Internazionale, bandiera dell'intera sua esistenza, pur intendendo mantenere la propria « autonomia }> nei confronti di Bakunin e delle sue idee che intende seguire solo su di un piano di fraternità umana. (250) L. Valiani, Questioni di storia del socialismo, Torino 1958, p. 81. (251) A.I. Herzen, Sobranie soéinenii, cit., vol. XXX, p. 543. (252) G. Garibaldi, Scritti, a cura di D. Ciampoli, cit., p. 599.


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Adesione di principio, dunque, su un piano di ideale fraternità fra gli uomini, ma inconcludente. Essa ovviamente non poteva bastare a un uomo come Michail Bakunin che parla ormai in termini nettamente classisti e di organizzazione dei lavoratori in senso socialistico. Ma Garibaldi è uomo concreto, estraneo a ogni ideologia e, anche se lo nega, rimane sempre un soldato, anzi un generale: reduce dalla guerra sui Vosgi egli continua a mantenere un altissimo senso de1lo Stato e non può certo seguire Bakunin sulla strada dell'anarchismo, cioè della distruzione dello Stato. Per questo, appena rientrato dalla Francia, 1'11 aprile 1871 , non aveva esitato ad auspicare la concentrazione del potere nelle mani di « un uomo onesto » per salvare la repubblica {lettera a Carlo Lazzarini, direttore del « Corriere di Sardegna » ). E su questa idea ritorna il 30 dicembre l 871, quando con lo sguardo rivolto all'intero sistema democratico che gli appare in crisi, confida all'internazionalista e garibaldino Celso Ceretti che l'unico rimedio per dominare « il bizantinismo » che affligge ,la democrazia del mondo è rappresentato da « una dittatura onesta e temporanea » (253 ). Non vi potevano essere altro che queste prese di posizione per suscitare l'indignazione di Bakunin che ha buon gioco nell'accusarlo di incoerenza e di « contraddizione continua». Nessuno come lui ammira « aussi sincèrement, aussi profondément ... le héros populaire Garibaldi. Sa campagne de France, toute sa conduite en France a été vraiment sublime de grandeur, de résignation , de simplicité, de perséverance, d 'héroisme. Jamais il ne me parut si grand. Son large instinct de la cause populaire qui ne l'abandonne jamais dans les grandes occasions, l 'a également poussé à prendre hautement la défense de la Commune de Paris et de l'Internationale contre les attaques odieuses et tout à fait thèologiques de Mazzini». Ma dopo, in sede politica, e di una politica legata a un fatto organizzativo e di agitazione sui tempi lunghi, qual'è appunto quella della Internazionale? Le cose, agli occhi di Bakunin stanno in modo ben diverso, e non si può dargli torto se egli chiede a Garibaldi quello che questi non può dare, la coerenza nel ripudio di un passato che lo ha visto protagonista, quale capo militare, nel processo di formazione dell'Italia unita. Così, se « en tant que fait » egli è per l'Internazionale,

(253) Michel Bakunin et l'ltalie 1871-72, cit., voi. II, p. 460, note da 202 a

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« en tant qu'idée - sottolinea Bakunin il est contre nous»: « Son idée fixe, c'est la dictature, et rien n'est aussi opposé à la révo-

lution sociale que la dictature ». Di qui l'invettiva rivolta a Garibaldi di essere troppo legato al passato, a uomini appunto come il Pallavicina-Trivulzio: « Toutes ses idées politiques - ed il est trop vieux et trop obstiné pour les changer - toutes ses habitudes ,l'enchainent au vieux monde, à ceux que nous voulons détruire ». E la conclusione espressa all'internazionalista romagnolo Lodovico Nabruzzi (pseud. Rubicone) è una sola: « Si vous avez le malheur de suivre la diréction politique et socialiste de Garibaldi, vous vous laisserez égarer dans un dédale de contradictions impossibles, car sa politique est une contradiction continue, et son socialisme, en tant que système réfléchi, non en tant qu'instinct, est aussi nul que celui de Mazzini ». Cosl, con tutta la riconoscenza dovuta ai grandi uomini del passato, non era forse giunto il momento che « les collectivités ... se délivrent une fois pour toutes de leur <lictature, de toute dictature? » (254). Era un tentativo, questo di Bakunin - non privo di rozzezza, anche se coerente alle nuove vie che si aprivano al socialismo internazionale - di guadagnare alle sue idee e alla sua organizzazione gli internazionalisti italiani, così legati a Garibaldi e al suo realistico senso dello Stato e di una comunità na:donale solidale. Garibaldi, nel 1866, nel suo discorso di Firenze pronunziato all'indomani della sollevazione di Palermo, non aveva forse preteso che la gioventù italiana si impegnasse a studiare il maneggio delle armi? Poteva Garibaldi - uomo di comando e della disciplina da lui trasferita anche in sede civile - pensare di distruggere quello Stato che aveva contribuito a mettere in piedi, in vista di una generica e fumosa « rivoluzione » sociale, a sfondo anarchico come volevano Bakunin e i suoi seguaci? Bakunin, del resto, non era il solo a volere che Garibaldi uscisse dalla scena politica italiana, per fare luogo a un « vero» socialismo, se il 10 giugno 1882 nel commemorarne a suo modo la morte l'anarchico internazionalista Errico Malatesta (che aveva combattuto in Bosnia nel 1875-76 a fianco dei garibaldini) così poteva scrivere: « Dés man entrée dans le mouvement socialiste, je rencontrai sur le chemin de l'Internationale en Italie cet homme, je dirai

(254) Ibidem, pp. 202-203, Bakunin a Lodovico Nabruzzi, 3 gennaio 1872.


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mieux, ce nom fort de toute sa gloire formidable, de son immense popularité et de la grandeur incontrastée de son caractère. Plus dangereux que d'autres grands adversaires, à cause de son attitude inconsciemment équivoque, de ses adhésions vite retirées ou faussées, je fut bientot convaincu que tant que Garibaldi ne serait pas écarté, le socialisme en Italie resterait une vide phraséologie humanitaire, une falsification du vrai socialisme » (255). Giudizio espresso post mortem, ancora più intransigente, che rende conto tuttavia dei limiti della generica adesione di Garibaldi all'Internazionale. Vecchio, logorato da anni di navigazioni, di guerre, da ferite, tutti guardano a lui, chiedono un consiglio, un orientamento nelle incertezze dei tempi e in presenza di tensioni sociali agli inizi del movimento socia1istico: si chiama « Garibaldi » e deve continuare a essere una guida anche nelle contingenze politiche, come lo era stato sul campo di battaglia. In altre parole, gli si chiede, imperiosamente, di essere anche quello che non sarà mai , un politico o peggio un ideologo attento al mutare dei tempi e degli orientamenti politico-sociali. Si va da lui, a Caprera, come a un oracolo, perché ci si rende conto della sua immensa forza morale, di cui non si può fare a meno. Lo si vuole guadagnare, da varie parti, e forse anche strumentalizzare. Ma Garibaldi che tutto sommato ha vivo il senso dei propri limiti ed ha i piedi ben fondati sulla terra e sulle rocce aspre della sua Caprera, rimane sostanzialmente al di sopra, molto al di sopra di queste miserie. Le sue parole - dette o scritte e che fanno il giro del mondo - indicano solo delle mete ideali, esprimono orrore per i contrasti e le lotte di classe, si affidano ancora e sempre a una concezione di solidarismo umanitario, tipico del socialismo utopistico anteriore al 1848. Non vi è dunque da meravigliarsi se la « Internazionale », com'è da lui intesa, avrebbe dovuto essere << una continuazione del miglioramento morale e materiale della classe operaia, laboriosa ed onesta, conformemente alle tendenze umane di progresso di tutti i tempi ». Ma egli teme gli eccessi, teme che l'organizzazione del « quarto stato » in ascesa possa cadere « in balla di gente che la travierebbe e la porterebbe agli eccessi, se non fosse trattenuta da uomini illuminati ed onesti». Nessun estremismo, dunque, nessuna rottura violenta dell'ordine

(255) Pubbl. su « Le Revolté » di Ginevra il 10 giugno 1882; v. Bakunin et l'ltalie ..., cit., vol. II, p. LXI. pp. 234-35, 269.


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sociale; per questo Garibaldi è contro gli scioperi, contro la lotta indiscriminata al capitale e alla proprietà. « Se per internazionalista - dichiarerà egli senza mezzi termini al giudice, nel 1874, nel processo contro gli internazionalisti fiorentini - s'intende colui il quale avendo cento scudi in tasca, frutto del proprio lavoro, abbia l'obbligo di dividerli con un altro che pretenda di vivere neghittosamente alle spalle, questo è un ,ladro; tale è il mio internazionalismo ».


VIII. NELLA COSCIENZA DELL'EUROPA

A distanza di una generazione o poco più dalla uscita di scena

di un personaggio come Garibaldi, che già da vivo era entrato nella leggenda o nel mito, Italiani e non Italiani continuano a guardare a lui come a una guida morale, a un sicuro punto di riferimento. Sono gli anni, questi, in cui sta maturando la crisi che condurrà alla prima Guerra mondiale, mentre a Oriente, sulla piana di Russia, la rivoluzione del 1905 appare agli spiriti più avveduti come la prova generale di vaste e decisive esplosioni rivoluzionarie, quelle del 1917. L'occasione per ricordare Garibaldi è offerta dalla ricorrenza del centenario della nascita, avvenuta a Nizza nel 1807. Significativamente, chi pensa a raccogliere giudizi e opinioni fra gli esponenti più in vista nell'Europa dell'epoca è un gruppo di universitari romani, di affiliazione repubblicana. A essi, con la direzione di Giovanni Conti, Luigi Frontini e Cristofero Prato, è dovuta l'iniziativa di pubblicare a Roma un numero unico, dal titolo Garibaldi. A cura del Comitato universitario per le onoranze a Garibaldi (Firenze, stab. Civelli 1907, pp. 64, con illustrazioni e ritratti). Gli inviti a collaborare furono largamente diffusi, in Italia e in Europa, e quanti sentivano vivere ancora dentro di sé quelle molle ideali, politiche, sociali e nazionali, poste in tensione da Garibaldi magari negli anni lontani della giovinezza si affrettarono a inviare la propria testimonianza. Fra tutti coloro - furono ben cinquantuno - che risposero all'appello vi erano dei protagonisti di primo piano della politica e del socialismo europeo, come della attività scientifica e letteraria o del pensiero ,filosofico. Così Karl Kautsky il 15 marzo 1907, da Berlino, tenne a ricordare: « Garibaldi nella mia gioventù suscitò in me la più grande impressione ed esercitò la massima influenza sulla formazione del mio orienta-


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GARIBAIDI E L'EUROPA

mento politico, giacché la sua audacia, il suo altruismo, la sua infaticabile perseveranza ed i suoi alti ideali infiammarono l'animo mio »; a lui fece eco, nella stessa occasione, August Bebel il quale volle sottolineare come Garibaldi « non fu soltanto un patriota italiano ma anche un uomo che la democrazia di tutti i paesi reclama come uno dei suoi...; sempre pronto a versare il suo sangue e a esporre la propria vita ovunque fosse necessario far fronte agli oppressori cli un popolo ... egli fu soprattutto un uomo d'azione ... uno dei pochi uomini che per la sua opera disinteressata hanno goduto di una popolarità universale, che nel corso della sua vita è stato considerato e onorato come il modello di campione per la liberazione politica e spirituale dei popoli». Da Bruxelles Emile Vandervelde sottolineò, da socialista, come « de toutes les grandes personnalités qui ont fait l'ltalie moderne, Garibaldi est, incontestablement, la plus héroique, la plus compréhensive des idéals nouveaux, celle qui représente le mieux la transition entre le nationalisme révolutionnaire et l'internationalisme socialiste. C'est pourquoi les hommes du drapeau rouge ont toujours considéré le héros à la chemise rouge comme l'un des leurs, comme l'une des gloires les plus pures parmi ceux qui, durant le XIX siècle, ont ouvert les voies au triomphes du XX! ». I maggiori esponenti del socialismo internazionale sono unanimi nell'attestare il valore storico, europeo, della « presenza » di Garibaldi - da protagonista - nelle lotte nazionali e sociali del secolo appena tramontato. Fra tutti si staglia il giudizio del belga Vandervelde che, nel vedere in lui la cerniera d'obbligo che lega il nazionalismo rivoluzionario all'internazionalismo socialista, riesce a cogliere il valore storico della sua azione e del suo esempio. Accanto alle parole di caloroso consenso scritte da politici, filosofi e letterati italiani e stranieri - da A.G. Barrili a I. Cappa, da R. Ardigò alla poetessa Aganoor Pompilj, da Vittorio Ciao a Frédéric Mistral, a Scipio Sighele, a Edouard Schuré, a Giovanni Marradi, a Edouard Rod, a R. Barbiera, ad Antonio Fogazzaro ecc. - significativo l'omaggio reso a Garibaldi da due poeti romeni, AL Macedonski e Nicolae Tzinc; quest'ultimo invia da Bucarest una poesia che in italiano suona così: Garibaldi' Come risuona pieno di bellezze questo nome. Tuona in esso un temporale. Eppure è un nome così mite! E' una fanfara che sveglia un torrente di ricordi, che ti eleva, che ti trasporta verso cime bruciate da splendori:


Cap. VIII. · Nella coscienza dell'Europa

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E' morto per risplendere nel mistero del cielo, E' vissuto per stringere in un cerchio di ferro il suo paese! Garibaldi! Che vibrazioni: cantico, fragore, luce, un eterno bagliore, davanti al quale tu inchini la fronte .

Esaltazione lirica, certo: ma non priva di quel « torrente di ricordi » che riconoscono in Garibaldi uno dei massimi protagonisti delle lotte nazionali europee da cui è uscita la Romania moderna. Ed ai ricordi della giovinezza, quando faceva il lavapiatti su un battello del Volga è legata l'immagine di Garibaldi per Massimo Gor'kij . Il grande scrittore russo, da pochi mesi in Italia dove aveva scelto Capri a sua residenza alla fine di ottobre del 1906, il 5 luglio 1907 volle essere presente in Piazza della Borsa a Napoli, alla grande commemorazione ufficiale per il primo centenario della nascita di Gatiha1di. Ma già 1'8 febbraio 1907 egli era stato tra i primi a rispondere all'invito rivoltogli dai giovani universitari romani, rievocando nello scritto Giuseppe Garibaldi l'eco giovanile che egli ebbe dell'eroe: . .. Questo nome grande e luminoso io lo udii la prima volta quando avevo tredici anni. Ero allora a servizio nella cucina di un vapore di passeggieri e stavo per delle intere giornate a rigovernare assordato dal rumore delle macchine, soffocato da grassi odori. Una volta, in un momento di libertà, andai sulla poppa: là erano riuniti i passeggieri di terza classe, contadini ed operai. In piedi e seduti, formando un gruppo compatto, essi ascoltavano un racconto pieno e malinconico di uno di essi. Ascoltai anch'io. - Lo chiamano Giuseppii, come da noi Ossip, di cognome Garibaldij, ed è un semplice pescatore. Uomo di gran cuore, egli vede la triste vita del popolo, oppresso dai nemici, ed ecco fa un bando nella sua terra: « Fratelli, sia per noi la libertà al disopra della vita! Sorgete per la lotta contro i nemici, e lottiamo fino alla vittoria! » L'hanno ascoltato poiché vedevano che era capace di morire tre volte ma non di cedere. E l'hanno seguito ed hanno vinto ... Era sera, il sole tramontava, sul Volga; carezzandosi, tremolavano le onde rosee. Una voce disse piano: Facesse da noi un tal bando qualcuno! Mi chiamarono e me ne andai, conservando nell'anima, luminosa r. grande l'immagine deWEroe della libertà.


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GARIBALDI E L'EUROPA

.. . Poi lessi molto su Garibaldi, Titano d'Italia, ma il piccolo racconto di uno sconosciuto è più pro/ondo di t utti i libri nel mio cuore. Eterna, gioiosa, luminosa memoria a tutti coloro che generosamente hanno servito col cuore e con lo spirito il bene del loro popolo. Che i loro nomi siano sempre con noi come i raggi del sole, che crea la vita per la gioia nella Bellezza e nella Libertà (256 ).

Anche in Massimo Gor'kij , dunque, il ricordo di Garibaldi « Titano d'Italia» - è strettamente legato come origine alla atmosfera « populista » respirata in Russia nella prima giovinezza. E le « attese » da lui avvertite a11ora, sul ponte di terza classe tra con-

tadini e operai, perché qualcuno si facesse avanti, come in Italia, in una missione di libertà contro l'autocrazia zarista, sono considerate dallo scrittore russo come sempre attuali, adatte alla sua epoca come a tutte le epoche. Proprio dal confronto con la realtà russa , con lo sguardo fisso anohe a Garibaldi e a Mazzini, sempre nel 1907, Gor'kij a proposito della « questione » finlandese ebbe a scrivere come « in nessun luogo la violenza sull'uomo appare cosl ignobile, così funesta, quanto qui, nel paese di Giordano Bruno e di Garibaldi, nel paese di Cola di Rienzo e di Mazzini » (257). Di altra natura, ma ugualmente pervase dalle stesse aspirazioni alla libertà politica di cui Garibaldi si era fatto paladino, sono i ricordi e le valutazioni dello storico e uomo politico liberale Maksim Maksimovic Kovalevskij (1851-1916). Appartenente ad una antica e nobile famiglia, anzi una « dinastia » che per tre secoli aveva dato alla Russia cospicui esponenti nei vari campi delle attività culturali più elevate, il Kovalevskij già da giovane aveva conosciuto Marx ed Engels; nelle sue opere di storia sociale, specie sulla società francese alla vigilia della rivoluzione, si nota preminente l'impegno ad analizzare le condizioni economico-sociali nelle città e nelle

(256) Riprodotta in russo nelle Opere complete di Massimo Gor'kij sotto il titolo: Come ho sentito per la prima volta il nome di Garibaldi (Sobranie Soéinenii, vol. VII, p. 517, Mosca 1950). Significativamente, lo scritto di Got'kij fu pubblicato a Novi Sa<l sulla « Zastava » (La Bandiera, n. 42 del 1907) - organo del movimento nazionale dei Serbi di Ungheria - col titolo: Maksim Gor'kij o Garibaldiu, ecc. (257 ) Nell'art. O Finlandii del 1907, dt. da K.D. Muratova, M. Gor'kij na Kapri (1911-1913), Lenin~rado 1971, p. 147, nota 3.


Cap. VIII. - Nella coscienza dell'Europa

233

campagne, pur rimanendo nell'ambito di una impostazione sostanzialmente positivistica (258). Anche per Kovalevskij, come per Gor'kij , il sentimento, il trasporto con cui si sente legato a Garibaldi sono radicati nella sua stessa esperienza giovanile e familiare: al suo congiunto Vladimir Onufrievic Kovalevskij (1842-1883), poi divenuto famoso paleontologo, si devono le commosse e informate corrispondenze ai « Sanktpeterburgskie Vedomosti » (Notizie di Pietroburgo) nel 1866, scritte dal Quartier Generale di Garibaldi sul fronte del Trentino. A quarant'anni di distanza, lo scritto di Maksim M. Kovalevskij per i giovani universitari romani A la mémoire de Garibaldi conserva la stessa freschezza di sentimenti delle prime impressioni ricevute in giovinezza, arricchite in lui storico da un giudizio critico e da riferimenti a problemi russi che nessuno di fronte a Garibaldi ha avuto. Egli, scrive il Kovalevskij, era profondamente persuaso « que la liberté des peuples était intimement liée aux succés du républicanisme et à l 'émandpation <les peuples opprimés ». Proprio per questo « la Russie libérale ne lui garde aucune rancune de ses rapports intimes avec quelques chefs du mouvement insurrectionnel en Pologne, notamment avec Miroslavsky », il generale polacco Ludwig Mieroslawski, cosi legato a Garibaldi e al movimento garibaldino. Quanto alla figura fisica e morale di Garibaldi, essa era giunta al Kovalevskij attraverso il racconto di un medico russo il dottor Jakobi (o Jakobij), che fu al servizio di Garibaldi nel 1870-71 al Quartier Generale di Digione, durante l'intervento garibaldino in Francia. Né, egli stesso nota, aveva ignorato gli articoli di Cernysevskij sul « Sovremennik » (Il Contemporaneo) a proposito di Garibaldi. Ma quello che più preoccupa Kovalevskij , come storico di razza e come politico, è la strumentalizzazione che si fa del « mito » di Garibaldi, per fini di affermazione nazionale. Sono gli anni, questi, a ridosso della rivoluzione del 1905, in cui il problema nazionale in Russia emerge in tutta la sua virulenza, specie per quanto riguarda i Polacchi e gli Ucraini. Ora, ricorda il Kovalevskij, Garibaldi: ... devient bientòt en Russie com me dans le monde entier un béros légendaire. Tout mouvement nationaliste, tant polonais que petit

(258) P . Kovalevsky (nipote di Maksitn), Les Kovalevsky. T rois siècles d'activités culturel/es, Parigi 1954. Di lui vedi soprattutto La France économique et sociale à la veille de la Révolution, Parigi 1909; su di lui v. N. Kareev, R usskie istoriki frantzuskoi revoljutsii, Mosrn 1924, vol. II .


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GARIBALDI E L'EUROPA

russten, s'inspire volontier de son exemple. Il passe à leurs yeux pour un hommc qui dans la réconstitution des Etats de l'Europe se laissait guider par l'idée nationaliste. Naguère encore le directeur d'un journal provincial, paraissant à Poltava et dans le dialect du pays, me disait qu'aux réunions des partisans du rétablissement de l'ancienne Ukraine, il lui était arrivé plus d'une fois d'entendre prononcer le nom de Garibaldi.

A questo punto, e in presenza di una crisi nazionale così vasta che ha investito anche la Russia, il Kovalevskij con grande senso dello Stato si chiede se « le commandant des Mille a jamais compris l'idée nationaliste dans le sens d'un mouvement centrifuge ». La sua risposta è chiara e in tutto conforme alla verità storica: Garibaldi, révant à une grande Italie, était certes loin de se demander si tellc et telle province, ayant gardé son propre langage, tel le vénitien ou le napolitain, était par cela méme autorisée à une exist~nce politique indépend,mte... Au principe dc l'unité il sacrifiait méme son attachement à la / orme républicaine et laissait le Piémont et la dynastie de Savoie pro/iter des faits d'armes, dont il avait été l'heureux inspirateur et souvent le chef. Cette resignation qui ne lui fut inspirée que par son patriotisme ardent, par le désir d' assurer avant tout l'existence d'une Ttalie unifiée et peut-étre, ce qu'il y a de plus admirable et de plus digne d'imitation dans la carrière incomparable du gran Niçois. ]e voudrais que mes compatriotes s'inspirassent de cet exemple pour écarter dans nos prochaines discussions politiques tout ce qui pourrait amoindrir l'intensité de l'effort commun pour assurer à la jeune Russie, qui vient de na"itre avec le Manifeste du 17 octobre, la possibilité d'atteindre au plutot à la paix commune et établir chez elle un régime de liberté et de justice.

Il Kovalevskij, dunque, intende mettere in guardia i suoi connazionali da una interpretazione partigiana e interessata, squisitamente nazionalistica, della figura e dell'opera di Garibaldi. Il suo significato rimane legato, fondamentalmente, al mantenimento della unità nazionale italiana e sull'altare di questa unità egli ha sacrificato la sua vocazione repubblicana, accettando Casa Savoia. Lo stesso, per Kovalevskij, deve avvenire in Russia dove il raggiungimento della libertà politica non deve mettere in crisi l'integ.rità dello Stato russo, ma se mai rafforzarla e legare maggiormente ai « grandi Russi» le varie nazionalità allogene. Auspicio derivante in Kovalevskij, oltre che da vigoroso senso dello Stato, soprattutto da tipica


Cap. VIII. - Nella coscienza dell'Earopa

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mentalità liberale grande-russa. Di qui l'importanza, squisitamente politica, del suo scritto in memoria di Garibaldi. Più retoriche, meno incisive, sono le considerazioni su Garibaldi espresse da Sergej A. Muromtzev (1 850-1910). Fra i fondatori e capi del partito costituzionale-democratica (i cosiddetti cadetti), professore <li diritto romano all'Università di Mosca dal 1877 e privato della cattedra per « infedeltà politica » nel 1884, egli era uno dei maggiori esponenti del movimento .Jiberale; dopo lo scioglimento della Prima Duma dell'Impero e l'occupazione del palazzo di Tauride da parte delle truppe (9 luglio 1906), egli con quasi metà dei deputati si trasferì in Finlandia , dove presiedette la conferenza da cui uscì il « proclama di Viborg » che esortava la popolazione russa ad attuare una resistenza passiva al potere zarista, rifiutandosi di pagare ,le tasse e <li fornire reclute all'esercito. Anche il Muromtzev era rimasto fedele agli ideali della giovinezza, cui un suggello indelebile era giunto anche da Garibaldi, se, ricordandone il « fascino irresistibile », così scrive per i giovani universitari italiani il 13-26- marzo 1907 , dopo aver subito tre mesi di arresto quale principale firmatario del << proclama di Viborg ». Le nom de Giuseppe Garibaldi est du numbre des nums qui unt marqué leur trace ineffaçable dans le dévéloppement intellectuel et politique des hommes de ma génération. Ceux de mon age et moiméme nous avions de dix à quinze ans quand l'immortel héros de l' Ttalie se leva pour la liherté de son pays. Mais c'était aussi le temps où la conscience politique s'éveillait en Russie; e'était le temps où, aussitot après la guerre de Crimée, la Russie se préparait aux réformes qui devaient donner leur nom aux années soixante du siècle dernier. Dans nombre de familles russes e' est avec des battements de coeur que l'on accueillait des succès du mouvement libérateur en Italie. Nous, !es représentants de la génération qui [!.randissait, nous écoutions nos anciens, et nous prenions une vive part à l'enthousiasme général; et /,es images de Garibaldi et de ses compagnons d'armes se sont gravées dans nutre mémuire camme les images glorieuses des héros de l'affranchissement national.

Non è dunque senza significato che uomini di differente formazione e ,partenti da diversa sponda politica, o protagonisti di rilievo in vari campi delle attività artistiche, culturali e letterarie, abbiamo continuato a vedere in Garibaldi l'interprete di permanenti esigenze di libertà.



CONCLUSIONI

Personaggio complesso, ricco di umori, di vitalità, mosso sempre da impulsi generosi, uomo intero e trascinatore di uomini, Giuseppe Garibaldi si staglia come pochi sulla scena militare, politica, morale e sociale dell'Europa dell'Ottocento. Non politico, insofferente anzi della politica e dei suoi intrighi e compromessi, ma uomo d'azione e capo militare come pochi, la sua figura , la sua opera, nel valicare i limiti angusti del popolo che gli diede i natali, possono dirsi patrimonio e dell'Italia e dell'Europa e delle stesse Americhe. A cento anni dalla morte, egli è tuttora vivo e ben vivo, come vivi e perenni sono gli ideali di libertà, di ascesa nazionale, di progresso sociale e umana fratellanza, da lui affermati e resi sacri col sangue suo e di quanti, Italiani e non Italiani, in lui hanno creduto e si sono sacrificati, chiamandosi tutti garibaldini.



INDICI



INDICE DEI NOMI DI PERSONA

-AAbba, C., 26. Acerbi, G., 17, 18, 20. Aganoor Pompilj, V., 230. Agazzi, A., 54 Aksakov, K.I., 46. Aladro, J . de, 152 Alessandro Karagjorgjev.ié, 43, 46. Alessandro II di Russia, 37, 96, 159, 165, 173, 177. Alekseev, M.P., 165. Aleksié, L., 81. Almen, C., 27. Almerici, L ., 13, 160. Alpromi, A., 18. Amedeo di Savoja, 57, 58. Ancona d', G., 18. Andreoli, G., 18. Andruz (Andruzzi), 78. Annenkov, P.V., 174. Anzani, F., 8. ApJJel, E.O., 18. Arbanassich, P., 18. Arcangeli, F ., 110. Ardigò, R., 230. Arese Lucini, F., 113. Armellini, C., 15. Artom, I., 68, 72, 78, 80, 81. Al,pre, K., d', 193. Asproni, G., 221.

-BBaccalari, E., 17. Baccarini, A., 219. Bach, A. von, 63. Bakunin, M.A., 14, 33, 36, 40, 57, 108, 111, 115, 127-129, 137, 139, 166, 172, 173, 176, 179, 181, 187, 216, 217, 219, 220-227. Balabanov, M., 33.

Balaceanu, G., 77. Ban, M., 46, 47, 144. Bandi, G., 142. Banneville, G.-M. de, 127. Barbanti Erodano, G., 147, 150. Barbetti, A., 157. Barbiera, R., 230. Bargnani, G., 143. Barni, J., 217. Barrault, P.-A.-E., 212. Barrili, A.G., 230. Barstoziann (Vartosiannis), 56. Barzilai, S., 209. Rasiliadis, D., 18. Basso, G ., 123, 217. Bauer, O., 9. Rcales, E., 217. Bechi, S., 110. Rebel. A., 230. Belgioioso, P., 163. Bellini, F., 135. Bellusci, M., 151. Bem, J., 199. Bencivenga, R., 207, 208, 210. Benkovski, G., 138. Bcnni, A., 182. Bennici, M., 152. Berengo, M., 198. Berg, N.V., 35, 169, 170, 172. Berg, T., 119. Bcrnhardi, T., von, 80. Bernov, I.I., 35. Bersano Begey, M., 76, 111. Bertani, A., 221. Bert·in, G., 18. Bertossi, G., 17, 18. B=i, E., 209. Bosozzi, E., 144. Bianco di Saint-Jorioz, C.A., 199. Bianco, 155. Bibikov, D.G., 197. Bidski, P., 15. Bilanovich, A., 141.

* Sono dati in corsivo i nomi di autoricontemporanei citati nelle note.


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Bilinski, B., 120, 124, 125. Bilucaglia, L., 155. Bismarck, O. von, 81, 148. Bissolatl, L., 209. Bixio, A., 98. Bixio, N., 31, 102. Bizzoni, A., 147. Blanc, A., 78, 80, 81, 216. Blanc, L., 129, 216. Blanche, A., 40. Blin<l, K., 114. Bobrowski, S., 107. Bogorov, I.A., 49. Bonneau, A., 48. Bologna, dr., 155. Borbone, Leopoldo <li, 23. Bore;sza, J.W., 80, 124, 128. Bortilloni, A., 147. Borzysfawski, L., 29, 71. Bosio, G., 57, 221. Rotev, H., 33, 138, 148. Botzaris, D., 74. Bovio, O., 193. Bourdon {Bordone), Ph.-T.-J., 21, 126. Boyer, F., 20-23. Bratianu, D., 77, 83. Brcnicr, L., 23. Bruffel, G., 17. Bruno, G., 232. Bruzzesi, G., 70, 113. Biichcler, G., 17, 18. Buinov, S., 51. Buonarroti, F.M., 201. Buzzone, A., 133. Bystr.wnowsk.i, L., 199.

-C Cabella C., 102. Cace, M., 17. Cadolini, G., 72. Cadorna, L., 207, 210. Caillet, P., 24, 48. Cairoli, B., 17, 68, 74-76, 84, 217. Caldesi, V., 21. Camp, M. du, 21, 22, 27, 30, 35. Campanella, A.P., 218. Canaris, M., 58. Canessa, G., 71. Canevaro, N., 135. Canini, M.A., 31, 45, 57, 58, 62, 86-88, 105, 142-144, 149, 214. Cankov, D., 50.

Cantini, C., 147. Canzio, S., 73, 147. Cappa, I., 230. Capuani, P., 54-56. Caracciolo, A., 219. Caraccioli, L.A., 195-197. Carducci, G., 5. Carlo Alberto, 9. Carlo di Hohcnzollern, 148. Carlo Giovanni XIV, 39. Carnot, J., 216. Caroli, L., 110. Carosini, G., 9. Carrara, 17. Casarsa, L., 17. Castelar, E., 216. Castcllazzo, L., 147, 182. Casuiota G., detto Skanderbeg, 19, 150. Castriota Skanderbcg, Filippo, Francesco, Giovanni, 153. Caterina II, 196. Cattalinich, 17. Cavalletto, A., 80. Cavour, C. Benso di, 10-12, 20, 30, 43,

44, 48, 49, 51, 58, 59, 63, 64, 66, 70, 72, 75, 76, 80, 83, 90, 94, 98-100, 123, 137, 160-163, 170, 171, 175, 178, 216. Ceneri, G ., 217. Ceretti, C., 147, 150, 224, 225. Cernysevskij, N.G., 35, 47, 162, 170, 171, 178, 179, 233. Cernysevska;a, I .M., 179. Cerruti, M., 9, 46, 68, 71, 72, 74, 75, 77, 78, 80-82, 84, 88, 111. Chabod, F., 125. Charrière, E., 88. Chodzko, M., 15. Chiara, P., 56. Chiesa, D., 209. Ghiesa, L., 143. Choiseul, E.-F. de, 196. Chrzanowski, W., 15, 199. Cialdini, E., 37, 181, 194. Cian, V., 230. Civ1nini, G., 76. Cloudt, A., 28. Cobden, R., 47. Coen, G ., 18. Col, L. del, 141. Cola di Rienzo, 232. Colocci, A., 21. Colombo, A., 29. Colombo, D ., 18.


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INDICI

Colt, S., 26. Conti, G ., 229. Coroneos, 132. Correnti, C., 76, 163. Corri.doni, F., 209. Cosenz, E., 16, 33, 166, 194. Cossovich, E., 17. Costantino Romanov, 107. Crispi, F., 32, 214. Gaky, T., 77, 78, 81, 89. Cucchi, F., 54-56, 58, 59. Cuccia, L., 152. Cudcr, F., 17. Cuneo, G.B., 7. Curié, H ., 141. Cuza, A.]., 49, 70, 71, 113. Cvein, K., 31. Czarnicwski, 70. Czartoryski, A.J., 28, 43, 95-97, 106-108, 112, 199. Czartoryski W., 96, 112, 113.

-DDqbro-ki, J., 79. Damis, D., 19, 153. Dana, Ch. A ., 191. Danilo II Petrovié-Njegos, 59. Danti, A., 196. Darwin, C.R., 180. Davydov, D.V., 200. Déak, F., 80. De Ambris, A., 209. Deambrosis, M., 147, 150. De Angelis, G., 18. De Giovanni, 17. Della Peruta, F., 199. Delvecchio P., 217. De Michelis, C.G., 171. De Paoli, 132. Dcsprez, H., 88. Diamilla Muller, E., 72. Ditmar, N.P., 36, 37. Dobroljubov, N.A., 162, 170, 171. Dolfi, G., 206, 221. Domeneghini Anadalis, F., 54, 55. Donati, A., 18. Donati Petteni, G., 111. Dontas, D.N., 74. Dora d'Istria, 56. Dorsa, F ., 151. Dosios, A., 33.

Dostoevskij, F .M ., 184, 217. Dowling, 25. Dramis, A., 222. Dramis, A., 222. Driautt, E., 13. Drouyn de Lhuis, E., 112. Ducié, N ., 136. Dumas, A., 22-24, 39. Dumouriez, Ch.-F., 196-198. Dunjov, S., 34-35. Dunka, T., 148. Dunnc, G., 25. Durando, C., 105. Durando, G ., 15. Durham, ,miss, 155.

-EEber, F., 26, 27, 29, 77. Ebetl ,arJL, K., 29. Eksarch, A., 49. Elliot, H .G., 71, 72, 90. Engels, F., 6, 39, 191, 192, 205, 232. Engel'son , V., 164.

-FFabbri, F., 197. Fabrizi, N., 200. Facchinetti, C., 154, 155. Faella, C., 144-146. Falwne, G., 30-33. Fanelli, G., 222. Fanti, M., 90, 91. Fantuzzi, G., 198. Parini, L.C., 12, 20, 90, 91. Favale, A., 132. Favre, J., 216. rawier, 74. Fazy, J., 216. Ferrari, G., 152. Figyelmcsy, F., 29. Fijalkowski, A., 15. Finali, G., 13, 160. Pinzi, C., 18. firley-Bielanska, K., 111. Flotte, P ., de, 20, 21. Fogazzaro, A ., 230. Fonterossi, G., 218. Fonvielle, U. dc, 21.


244

GARIBALDI E L'EUROPA

Forbes, C.S., 26. Forbes H., 25, 26. Foschiatti, G., 154, 155. Fraccaroli, A., 145. Francesco II di Borbone, 23. Francesco Giuseppe, 58, 82, 96. Franchi, A., 37. Frappolli, L., 81, 102, 127, 217. Fratti, A., 135. Frediani, D., 147. Frega, G., 19. Freilich, J., 97. Fresia, C., 103. Fric, J.V., 30, 31, 40, 41, 73, 74, 76, 83, 193. Frigycsy, G., 69-71, 217. Frikken, A.F., 179. Frontini, L., 229. Fiigner, J., 31. Funaro, E., 113, 114. Furlani, S., 40.

Girotta, L., 17. Giuppani, 17. Giupporu, A., 110. Gnecco, 155. Godberg, A., 18. Golicyn F.A., 13. Golovin, I., 164. Gorcakov, A.M., 66, 103, 180. Gor'kii, M., 231. Granville, Lord G. Leveson-Gower, 136. Gribowski, P.M., 172. Grigor'ev, A., 169. Gromeka, S.S., 176, 177. Groniowsk:i, K., 199. Groppa, S., 19. Grusovin, 18. GuastalJa, C. e E., 18. Guerrazzi, F.D., 15, 218. Guerzoru, G., 8, 70, 113, 114, 212, 213, 220. Guglielmo I Hohenzollem, 218. Guida, F., 32, 58, 149, 154. Gutesa, I., 138.

-GGalli, R., 141. Galateo, S., 17. Gambetta, L., 127. Gambuzzi, C., 222. Garasanin, I., 43, 81. Garibaldi, Anita, 8. Garibaldi, Bruno, 156. Garibaldi, Costante, 156. Garibaldi, Ezio, 156. Garibaldi, Menotti, 33, 70, 112-114, 140, 144, 156, 182, 210. Garibaldi, Peppino, 209, 210. Garibaldi, Peppino Madeiro, 156. Garibaldi, Ricciotti, 34, 114, 128, 132, 133, 135, 152-157, 182, 205, 209. Garibaldi, Ricciotti, ;unior, 156, 157, Garibaldi, Sante, 156. Gar.ibakli, Teresita, 73. Garosci, A., 184. Gasparovsky, R., 31. Gavazzi, A., 162, 171. Ghika, J., 77. Ghika, A., 153. Ghio, G., 204. Giacomelli, G., 80. Giotti, M., 17. Girolamo Napoleone, 101, 112. Giovannizio, G., 17.

-H-

128,

129, 206, 210.

Hagidimitrov, I., 34. Harney, G.J., 27. Hatzfeld, contessa, 54. Hauke-Bosak, J., 79, 120, 121, 124, 126128, 215, 216. Herzen, A.I., 6, 33, 35, 47, 82, 106, 108, 111, 114-117, 127, 163-168, 173-179, 181, 216, 217, 219, 220, 221, 224. Hierta, L.J., 40. Hitov, P., 129. Hoebert, D. <le, 17. Hoenigmann, I., 17. Hofer, A., 199. Hoperhaft, C., 155, 156. Howell, G., 27. Hudson, sir J., 52, 90. Hugo, V., 24, 127, 215, 216. Hus, G., 41.

-J Jasinski, J., 70. Jakobij, dr., 233. Jaszay, M., 26, 81. Jdowicki, A., 199.


245

INDICI

Ignijaiovié, J., 43. Imperiali di Francavilla, G., 210. Jomi,ni, H., 201. Jovanovié, L., 150. J ovanovié, VI., 47.

-IIsopescu, C., 30, 45. Iwage, E., 29.

-KKaizl,

J.,

40.

Kamietiski, H.M., 199. Kamietiski, M., 15. Kautsky, K., 229.

Kapcev, G., 34. Karavclov, L., 33, 51. Karpovic, E.P., 162. Kerofilas, C., 33, 55. Kieniewicz, St., 95, 111. Kirkov, P., 34. Kisclev, N.P., 37, 180. lGiss, M., 29. Klaczko, J., 122. Klapka, G., 28, 41, 42, 57, 71-73, 81, 102, 112, 121. Kolonja, S., 153. Koltay-Kastner, E., 81. Komaromy, G., 71, 72, 81. Konnett, 37. Konopczynski, W., 196. Korolenko, V .G., 35. Kosciuszko, T., 103, 124, 198. Kosma, A., 133, 134. Kossuth, L., 9, 28, 30, 41, 43, 66, 6~71, 74, 77, 78, 8()..83, 85, 86, 88, 112, 114, 121, 133. Kovalevslcii, M ,M., 232-234. Kovalevskij, V.O., 126, 180, 181, 233. Kovalevsky, P., 233. Kowalslci, J., 118. Kozmian, E .A., 124. Kramaf, K., 40. Kraszewski, J., 123. Kravcinslci-Stepnjak, S.M., 186-189. Kukiel, M., 200. Kuliscioff, A., 184. Kvaternik, E., 67, 68, 73, 75, 76, 83, 88.

-LLamarmora, A. Ferrero de, 12, 78, 79-

81, 84, 90, 180. Lamcnnais, F., 213. Lampros, P., 58. Langiewicz, M., 28, 108. Lassalle F., 53. Lavagnini, B., 32. Lazzarini, C., 225. Lehning, A., 173. Lelewel, J., 28, 95. Le=i, A., 76, 135. Lcnartowicz, T., 123. Lencisa C., 110. Leone, prof., 163. Loroux, P ., 217. Lesnjanin, M., 69. Leuillier, dr., 20. Levi, A., e S., 17. Levi, Isacco e Israele, 18. Lcvski, Vasil, 33. Lewak, A ., 29, 94, 95, 113. Ley, F., 13. Lheritier, M., 132. Lisovich, 17. Ljubibratié, M., 136, 139, 145-147. Lo Gatto, E., 160, 186. Loghios, Gheorghladis, D., 32.

Lombardié, 141. Lombardos, G., 55. Lopatin, G .A., 172. Lopowski, E., 127.

Lorecchio, A., 20, 152. . Lubomirski, J., 105. Lubomirski, M., 101, 102, 106. Luginin, V.F., 178, 179. Lukacs, L., 30, 35. Lukianov, 183. Luzio, A., 213. Luzzatti, R., 18.

-MMably, G.B. de, 195. Macchi, M., 102, 217, 218. Machiavelli. N ., 100. Macedonski, A., 230. Machacek, J., 31. Maffei, E., 17. Maggiorato, G., 17. Magyor6dy. R., 29. Majkov, AN., 183.


246

GARIBALDI E L'EUROPA

Majocchi, A., 143. Malaki6, S., 58. Malatesta, E .. 139, 187, 226. Malcnchini, V., 21. Mamiani, T., 58, 164. Manaresi, E., 160. Mangin, E., 213. Manzini, G., 147. Manzoni, B., 17. Maravigna, P., 128, 205. Marchetti, E., 110. Marcu, A., 87. Mario, A. e J . White, 217. Mariani, C., 143. Marinov, N., 34. Markovié, Sv., 47, 137. Markowski, 29. Marocchino, R., 17. Marradi, G., 230. Marx, K., 232. Masaryk, T.G., 40. Maserati, E., 154, 155. Masini, P.C.. 57, 221. Masters, A., 212. Matkovich, E., 17. Maturi, W ., 58, 100. Mauro, D., 19. Mauro, R .. 19. Maurois, A., 24. Mavrocordato, A., 33. Mavropulos, D., 33. Mazzini, G., 7, 8, 10, 11, 13-15, 28, 33, 40, 51, 57, 71, 78, 93, 95, 108, 109,

111, 114-117, 131, 141, 160, 161, 166169, 173-175, 179, 189, 200, 201, 212214, 220, 221-226, 232. Mazzoleni, P., 110. Mazwni, G., 221. Mazzotti, 155. Mecnikov, I.I., 36. Mecnikov, L.I., 36, 112. Medici, G., 8, 16, 21, 25, 28, 165. Melena. E., v. Schwartz. Mel'gunov, N.A., 165. Melograni, P., 207, 210. Mondeleev, DN., 174. Mereu, L., 132, 135. Mertel, A., 18. Mesencev, 187. Michele Obrenovié III, 46, 81, 136. Michieli, C., 17. Mickiewicz, A., 10, 13-15, 28, 29, 93, 95. Mickiewicz, W., 93, 95, 96, 99, 101, 104, 105.

Mieroolawski, L., 16, 28, 31, 93-95, 97-

102, 107, 108, 199, 201, 233. Mihailo, metropoli,ta, 138. Milan Obrenovié, 136. Milbitz, Jrensmid de, A., 15, 29, 194. Mileti, R., 222. Miletié, Sv., 47. Miljutin, N., 119. Milkowski, Z., 76, 83. Millanov.ich, 17. Minaev, DD., 178. Minghetti, M., 12. Mini, K.M., 173. Missori, G., 114, 217. Mistral, F., 230. Mitis, F., 17. MitrJ, N., 34. Mocenigo, A., 141. Mochnacki, M., 199. Mi:ihring, K., 52, 53. Mola, A.A., 219. Mnlinari, A., 188. Montanelli, G., 15. Montecuccoli, R., 193. Monti, A., 9, 41. Morawski, K., 101. Mordfoi, A., 68, 76, 84, 114, 166. Moretti, A., 143. Morozw della Rocca, E ., 90, 91. Mortari, G., 19. Mosbourg, 127. Moscarda, G., 17. Moscati, R., 78. Mooes, A., 18. Muck, A., 155. Muratori, 23. Murav'cv, MN., 119. Musolino, B., 19. Musolino, F., 19. Mussolini, B., 206, 209.

-NNabruzzi, L., 129, 226. Naèev, G., 34. Naço, N., 153. Napier, C.G., 27. Napoleone I, 178. Napoleone III (Luigi Napoleone), 20, 43,

50, 56, 66, 78, 90, 96, 109, 111, 112, 126, 163, 191, 215, 221. Navone, T.., 110.


247

INDICI

Negri, G., 155. Nekrasov, N.A., 162, 165. Nelaton, A., 180. Nerini, F., 144. Nesselrode, contessa, 37. Nessclrode, K,R., 164. Nevler, V.E., 36, 37, 169-172, 174, 178-

181, 186. Nicola I , 28, 161. Nicola Petrovié-Njegos, 59-61, 137, 142.

145-147. Nicotera, G., 16, 36. Niederhausem, L., 27. Nieszokoé, W., 200. Nigra, C., 68, 78, 80, 105. Nikifor, pope, 60. Nikolov Obst D., 34. Nikolov, T., 34. Norwid, C., 123, 124. Novak, G., 144, 147. Nullo, F., 110, 113.

-0Obnicev, NN., 178. O'Byrn Grzymala, T., 127. Occhipinti, D., 99, 100. Odoevskij, V.F., 173. Ogarev, M., 114, 127, 173, 220. Ojetti, U., 209. Okan, N., 136. Omer pascià, 29. Ord~ga, J., 73, 83, 113, 117. Ordon, K., 29. Orsini, F., 166, 167. Orsini, V.G., 194. Osorgin, M., 189, 206, 207. Ott, maggiore, 40. Ottone I di W,ittelsbach, 54, 55, 58. Ouclinot, N.-Ch.-V., 15.

Pasztor, L., 89. Patterson, 25. Pavlovié, P., 137. Peard, J.W., 25, 26. Pecorini M anzoni, C., 21, 25, 28, 30, 37. Pehlivanov, D.D., 34. Pepe, G., 200. Pcpoli, C., 110. Peruzzi, U., 66. Pescanti, B., 69-71, 86. Petkanov, I., 35, 52. Pieri, P., 199. Pisacane, C., 166, 193, 222. Pietro I il Grande, 107. Pietro I Petrovié-Njegos, 59. Pietro II Petrovié-Njegos, 59. Pinto, M., 164, 165, 174. Pio IX, 13, 14, 124, 164. Pirjcvcc, J ., 140, 147. Pirogov, N.I., 180. Podlipsky, J ., 31, 73. Pogodin, M.P., 169. Polli, V., 135. Popovich, E ., 17, 18, 141, 142, 146. Porcelli, S., 72. Placco, G., 19. Plcchànov, G.V., 184. Porro, C., 208, 210. Prand1ni, A., 143. Prato, S., 18. Prato, C., 229. Prcdonzani, G ., 155. P,rezzolini, G., 155. Przybilski, W ., 71, 73. Pulawski, K., 196, 197. PulS'Lky, F., 28, 29, 41, 58, 59, 89.

-QQuadrio, M., 141, 146. Quinet, E., 24, 216.

- PPace, G., 19. Padlcwski, Z., 107, 115. Palacky, F., 40. PalJ.avicino Trivulzio, G., 163, 218, 224, 226. Panteleev, L.F., 169, 177. Passerin d'Entrèves, E., 80. Pastorf'lli, P., 157.

-RRada, G. de, 56, 151, 152. Radetzki, J.J., 15, 193. Rajnov, T ., 34, 114, 115. Rakovski, G.S., 33, 34, 49-51. Rascovich, E., 135. Rattazzi, U., 12, 90, 101-103, 105, 181,

223.


248

GARIBALDI E L'EUROPA

Rava, L., 219. Rava, E., 18. Ribera, F., 211. Riboli, T., 84, 143, 206. Ricasoli, B., 12, 90, 99, 122. Richard, R., 218. Rigopulos, A., 32. Ristié, J., 136, 144. Robe11t, C., 88. Rochat, G., 208. Rod, E., 230. Romano, A., 188. Romano, L., 23. Rosas, J.M. de, 8. Roser, K., 76. Rota, A., 18. Rousseau, G.G., 195, 197. Rovjghi, G., 18. R6zycki, K., 73. Riiffer, E ., 31. Ruprccht, K., 117. Ruspanti, R., 43. Ruspoli, A.. 68, 70, 72. Russell, J., 52, 71, 72. 90, 140. Riis-tow, F.W., 27, 53, 201-204. Rybinski, M., 101, 121. Rzewuski, W., 197. Rzyszc.:ewski, L., 113.

-S Sacchi, A., 8, 30, 110. Sacerdote, G., 54. Saffi, A., 15, 114, 166, 221. Saint-Mare Girardin (Girardin Mare), 47. Salandra, A., 210. Saltara, C., 58. Salvatore/li, L.W., 11. Salvem1ni, T., 156, 206. SaJvj, D., 17. Salvini, L., 43. Samorukov, J., 182. Sand, G., 24, 211. Santarosa, S., di, . 31. Sanzin, G., 17. Sameck.i, 113. Sarrail, M., 157 . Sassellas (Sasselo), S., 33, 60. Sauro, A., 154. Sauro, N., 154. Sazonov, N., 164. Scarpa, 111.

Schiavi, A., 184. Schuré, E., 230. Schwartz, M.E., (Melena E.), 113. Scovasso, S., 46, 68-70, 81, 84. Sedlo, 31. Segvié, K., 75. Seismit Doda, F., 17, 76. Seismit Doda, L., 17. Selgunov, N.V., 182. Sellon, J.J. de, 205. SernoSolov'evic, N.A., 177. Sestan, E., 16. Se~tembrini, L., 19. Sgarallino, A., 32, 132, 1.33, 147. Sgarallino, P., 135. Sgro, G., 153. Sibel, G., 17. Sierawski, 29. Sighele, S. 230. Silvestri, A., 135. Simon, J.. 216. Sinigaglia, R., 188. Siodlkowkz, N., 15. Siotto Pintor, G ., 144. Sirovich, S., 17. Skalkovskij, K.A., 169. Skendi, S., 152, 154, 155. Slavejkov, P.R., 50. Smelf, C:S., 25. Socci, E., 132. Sohlman, A., 40. Sokulski, F., 105. Sonnino, S., 157, 209, 210. Sotmani, A., 147. Spallicci, A., 157. Staié, V., 142. Stankevic, N.V., 221. Stecou!is, E., 32, 33, 126, 132, 133. Stefanini, C., 147. Steinbach, J., 31. Steklov, I .M., 36. Sticotti, P., 18. Stipl:evié, N., 144. Stocco, F., 204. Stokowski, 100. Stolzman, K.B., 199. Stuart Mili, J., 217. Stuparkh, G., 41. Sulek, Zd., 198. Sylva, G., 27. Szakmary, 29. Szoke, 29. Sevirev, S,P., 180. Suvalov, G.P., 13, 160.


249

INDICI

Valerio, L., 163. Valiani, L., 27, 224. T amborra, A., 13, 30, 32, 46, 49, 53, 58, Valussi, P ., 105. 76, 84, 89, 96, 105, 152, 160, 163, Vandervel<le, E., 230. 182, 196, 207. Varli, 34. V.arcnne, Ch. de la, 20. 'faratuta, E.A, 188. Tarnowski , J., 196. Vassos, 135. Tatarinova-Osttovskaja, N .A., 173. Vcechi, A.V., 80, 193, 194. Vecchi, E., 80. Teglio, R ., 18. Teleki, A., 29. Vedovi, T ., 137. Teleki, L., 28, 41. Vegezzi Ruscalla, G., 163. Teodorczyk, ]., 196. Venanzio, A., 110. Thaon de Revel, G., 52, 53. Veneruso, D., 213. Venezian, G., 17, 18. Thiere, M.J., 218. Thouvenel, E.A., 23. Venizelos, E., 157. Timitjazev, K.A., 180. Venturi, F., 36, 37, 160-162, 167, 176, Tipaldos, T., 33. 178, 182, 183, 200. Venturini, C., 17. Titov, V.P., 165. Tittoni, T ., 210. Veron, Th., 24. Tivaroni, C., 17. Vidali, G.L., 18. Tkalac, I.I., 64-68, 75-79, 82-84, 86, 88. Vigevano, A., 30. Tocd, T., 154. Villanova, E ., 141 . Toliverova-Jakohi, A:N., 182, 183, 186. V1olante, F., 144. Tolstoi, L., 186. Visconti Venosta E., 68-70, 72, 74, 80, Tommaseo, N., 32, 133. 90, 111, 125. Towia6ski, A., 14, 73. Vittorio Emanuele II, 10-12, 44, 50, 52Traugutt, R., 108, 110, 119. 54, 57, 58, 60, 66, 68, 71, 72, 74, 75, Trevelyan, G.M., 25. 79, 83-86, 90, 94, 95, 101, 105, 111, Trubetzkoj, N.P., 179. 113, 114, 123, 161, 162, 181, 182, 191, Trubnikova, M.V., 177. 223. Vittorio Emanuele III, 210. Tiikory, L., 29. Turati, F., 184. Vivaldi Pasqua, 145, 146. Turgenev, I.S., 164, 165, 174, 221. Vladimirescu, T ., 45. Tiirr, Stefania, 30. Vojvodov, N., 34. Ti.irr, S., 21, 22, 25, 27-30, 33, 37, 41; Volkonsltlj, G.P., 13, 36. 42, 59-61, 64, 67-70, 194, 201. Vrnnesevié, A., 60. Turrini, B., 155. Vuckovié, V.J., 46. Tzinc, N., 230. Vukalovié, L., 58, 60. Vukovié, P., 137. Vulicevié, L ., 141, 142. Vymar, K., 31. -U-

-T-

URolini, R., 213. Umberto I, 187. Un<lgicv, I., 51, 115. Usedom, K., 78, 80. Utin, E., 181. Uziel, D., 18. Uziel, E., 18.

-VVaccaro, C., 152. Vaina de Pava, E., 155, 156.

- WW andruszka, A, 53. Wertheimer, D ., 17. Weymann, 197. Wielopolski, A., 107, 108. Willisen, W., 201. Winkler, L ., 30. Wisniowski, S., 121. W ojtasik, J., 200. Wolowski, B., 127.


250

GARIBALDI E L'EUROPA

Wolski, K., 29. Wurmbrand, A., 17. Wyndham, P., 25. Wysoclri, J., 34, 95, 99, 102-104, 113.

-XXimenes, E.E., 40, 133, 149.

-ZZagorski, W., 121. Zaleski, J.B., 124.

Zambeccari, I., 17. Zambianchi, C., 32. Zamboni, F., 17. Zamoyski, W ., 10. Zanchi, G. dc, 17. Zanetti, dr., 180. Zanotti Bianco, U., 155, 156, 206. Zasuliè, V.I., 183, 184. Zawadzki, 29. Zimbrakakis, 132. Zisis, S., 33. Zmaich, G., 17. Zogni, 132. Zucchi, C., 17. Zupelli, V., 210. 2aéek, V., 31, 74, 163. 2i.zka, J., 193.


INDICE DEL TESTO

PRESENTAZIONE

Pag.

3

PREMESSA

Pag.

5

CAPITOLO PRIMO

Pag.

7

Pag.

39

Pag.

93

Pag.

131

Pag.

159

Pag.

191

Pag.

211

Pag.

229

CONCLUSIONI .

Pag.

237

INDICE DEI NOMI DI PERSONA .

Pag.

241

Le imprese garibaldine in Italia dal 1848 al 1866: Presenza e consensi Europei. CAPITOLO SECONDO

L'esempio e l'attesa CAPITOLO TERZO

Fedeltà alla Polonia « Crocifissa» e alla Francia degli « Immortali principi » CAPITOLO QUARTO .

Gli interventi garibaldini nei Balcani 1867-1916 CAPITOLO QUINTO .

Sguardi e consensi dalla Russia « Immensa » CAPITOLO SESTO .

Guerra, guerriglia, volontarismo CAPITOLO

SETTIMO

Ideale di pace e internazionalismo CAPITOLO OTTAVO .

Nella coscienza dell'Europa


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