GIOCCANI VOLPE IL POPOLO ITALIANO NEL PRIMO ANNO DELLA GRANDE GUERRA

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GIOACCHINO VOLPE IL POPOLO ITALIANO NEL PRIMO ANNO DELLA GRANDE GUERRA Testo inedito cura di Eugenio Di Rienzo e Fabrizio Rudi Introduzione di Eugenio di Rienzo

SOCIETÀ EDITRICE DANTE ALIGHIERI - ROMA


proprietà letteraria riservata Stampato in italia – printed in italy – 2019 ISBN: 978-88-534-4604-6 ISSN: 2612-6621


Gioacchino Volpe e l’Italia in guerra maggio 1915- giugno 1916 «Sì com’a Pola presso del Quarnaro, Che Italia chiude e i suoi termini bagna» Dante, Inferno, vv. 114-115

Dai «cannoni di Agosto» al «Maggio radioso» Nel 1928, Gioacchino Volpe pubblicava la raccolta Guerra dopoguerra Fascismo. Si trattava di una scelta di articoli politici, redatti tra 1916 e 1927, dotati di sostanziale omogeneità perché ideati «in uno spazio di tempo che si presenta come ben circoscritto e con caratteri di continuità, e da un uomo che non ha dovuto superare grandi crisi di animo o di pensieri per aderire alla nuova realtà italiana sollecitata dalla guerra» (1). Per quanto Volpe riconducesse le ragioni della propria coerenza a quel «più energico e nazionale liberalismo o, se si vuole, nazionalismo non dogmatico e perciò associabile col primo», non trovò spazio nella raccolta nessuno degli articoli da lui scritti, nel 1914, per la rivista dei Gruppo Nazionali Liberali, «L’Azione», di cui proprio Volpe (1) G. Volpe, Guerra dopoguerra Fascismo, Venezia, La Nuova Italia, 1928, p. VIII. Su Volpe, il periodo della neutralità italiana, il movimento interventista e la Grande Guerra, rimando, per un quadro completo, a E. Di Rienzo, La storia e l’azione. Vita politica di Gioacchino Volpe, Firenze, Le Lettere, 2008, Parte prima, capitolo III; Parte seconda, capitolo I-II. Si veda anche Id., Storia d’Italia e identità nazionale. Dalla Grande Guerra alla Repubblica, Firenze, Le Lettere, 2006, pp. 11 ss.

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aveva assunto la direzione effettiva, anche se non nominale, negli anni immediatamente successivi (2). Un periodico, ricorderà Volpe, nel secondo dopoguerra, che, fino al 1920, fu anche il nome «di un piccolo partito, quello dei Nazionali Liberali, nato dalla scissione del partito nazionalista, al quale io mi accostai, collaborando al suo giornale e al quale ancora oggi, pur con tanto mutamento di situazioni mi sento vicino: perché non intendo nascondere il carattere fortemente nazionale del mio liberalismo» (3). Forse la mobilitazione interventista, per le lacerazioni interne al movimento favorevole all’ingresso nel conflitto, per le forzature operate sulla maggioranza neutralista del Paese e del Parlamento, si presentava, agli occhi di Volpe, come l’atto finale di un’Italia, avviata sì verso il proprio destino ma ancora incompiuta. Forse, piuttosto, benché non disconoscesse il merito della minoranza politicamente attiva che aveva voluto l’intervento, egli preferì non insistere sulla frattura allora prodot(2) Gioacchino Volpe a Widar Cesarini Sforza, Roma 5 dicembre 1939. La lettera è conservata nell’Archivio Widar Cesarini Sforza, Biblioteca Umberto Balestrazzi, Parma. Su «L’Azione», e i Gruppi Nazionali Liberali, di cui la rivista divenne l’organo di propaganda, si veda G. Belardelli, “L’Azione” e il movimento nazionale liberale, in Il partito politico nella belle époque, a cura di G. Quagliariello, Milano, Giuffrè, 1990, pp. 293 ss.; C. Papa, Intellettuali in guerra. “L’Azione”, 1914-1916, Milano, Franco Angeli, 2006; E. Di Rienzo, Ancora su liberalismo, liberismo e fascismo. I Gruppi nazionali liberali nel 1919, in «L’Acropoli», 7, 2006, 4, pp. 434-462; E. Di Rienzo, La storia e l’azione, cit., pp. 152 ss.; Id., «Liberalnazionalismo», in Dizionario del liberalismo italiano, a cura di F. Grassi Orsini et alii, Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, 20112015, 2 voll., I, pp. 600-604; Id., «Anzilotti Antonio», «Arcari Paolo», «Boine Giovanni», «Borelli Giovanni», «Caroncini Alberto», ibidem, II, pp. 55-57, 7073, 154-156, 172-173; 263-265. (3) G. Volpe, Memoriale al Ministro della Pubblica Istruzione, 15 luglio 1946, in Archivio Centrale dello Stato, Presidenza del Consiglio dei Ministri, 1944-1947, f. 1126, n. 13503/15312.

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tasi in seno alla società italiana per scongiurare il rischio, denunciato già durante il conflitto, di accreditare l’idea di una guerra «nata per il capriccio di pochi forsennati interventisti, per interesse dei signori, per odio alla povera gente», e per enfatizzare invece il carattere di «necessità e inevitabilità» del conflitto (4). In questa drammatica vicenda, ciò che era messo in luce era proprio la fase della mobilitazione interventista, che non restava sommersa in quella categoria storiografica di «vario nazionalismo», che Volpe avrebbe poi elaborato (5). Anche rispetto ad altri Paesi europei, precocemente attraversati da un ampio entusiasmo patriottico, i dieci mesi di neutralità italiana rappresentarono, infatti, un tornante cruciale nella storia nazionale. E lo rappresentarono soprattutto per l’esaspera­zione del contrasto politico tra i fautori della presa d’armi e il movimento neutralista (forte nel Paese, nel Parlamento, nell’opinione pubblica ma incapace di dar vita a un forte coinvolgimento popolare pari a quello dei fautori del conflitto) (6), e per la conseguente l’attivazione di motivi (4) G. Volpe, Ricordi storici, in «Fatti e commenti», 16 settembre 1918, poi in Id., Per la storia della VIII armata. Dalla controffensiva del giugno alla vittoria del settembre-ottobre 1918, Milano, Mondadori, s. d. [1919], pp. 136-137. Corsivi nel testo. Il tema della guerra «necessaria», a compimento del Risorgimento, e come termine della secolare contesa tra Savoia e Asburgo, ritornava, in Volpe, nell’articolo, Il duello, 1714-1918, pubblicato su «Saluto» del 1° gennaio 1919, ora in Id., Per la storia della VIII armata, cit., pp. 170 ss. (5) Per questa definizione, G. Volpe, Italia moderna, a cura di F. Perfetti, Firenze, Le Lettere, 2003, 3 voll., III, pp. 274 ss. Sul punto, G. Gaeta, Il nazionalismo italiano, Roma-Bari, Laterza, 1981, pp. 54 ss. Poco aggiunge, B. Bracco, Il «vario nazionalismo» di Gioacchino Volpe, in Da Oriani a Corradini. Bilancio critico del primo nazionalismo italiano, a cura di R. H. Rainero, Milano, Angeli, 2003, pp. 217 ss. (6) Sul composito fronte ostile all’intervento, si veda Abbasso la guerra! Neutralisti in piazza alla vigilia della Prima guerra mondiale in Italia, a cura di F. Cammarano, Firenze, Le Monnier, 2015; S. Rogari, Il declino: il neutralismo

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ideologici che avrebbero avuto largo seguito nel dopoguerra (7). Proprio gli scritti politici di Volpe del 1914-1915 testimoniano della preesistenza nella cultura politica liberale di elementi di tangenza verso il «sovversivismo» nazionalista che la guerra avrebbe fatto poi precipitare: dal mito di un’Italia «giovane», destinata a nuova grandezza se solo fosse riuscita a comporsi in armonica e disciplinata unità, in modo da valorizzare le tradizioni e gli interessi del «Paese reale» contro la demagogia democratica e parlamentare (8), alla subordinazione, seppure temperata, debole di Giovanni Giolitti; F. Malgeri, Tra patriottismo e pacifismo: i cattolici italiani di fronte alla guerra; V. G. Pacifici, Il Parlamento italiano: Il Senato del Regno tra neutralità e intervento; A. Guiso, La Camera dei Deputati dalla neutralità all’intervento; L. Scoppola Iacopini, Guerra e pace. Il Partito socialista italiano nei dieci mesi di neutralità; L. D’Angelo, Il movimento pacifista democratico italiano, lo scoppio della prima guerra mondiale e il dilemma “neutralità o intervento?”, in L’Italia neutrale, 1914-1915, a cura di G. Orsina e A. Ungari, Roma, Rodorigo Editore, 2016, pp. 27 ss.; 106 ss.; 118 ss.; 155 ss.; 165 ss.; 179 ss. (7) Per un inquadramento del conflitto politico interno, durante i mesi della neutralità, si veda C. Morandi, I partiti politici nella storia d’Italia, Firenze, Le Monnier, 1945, ora in Id., Scritti storici, a cura di A. Saitta, Roma, Istituto storico italiano per l’Età moderna e Contemporanea, 1980, 4 voll., II, pp. 345 ss.; V. De Caprariis, Partiti politici e opinione pubblica durante la Grande Guerra, in Atti del XLI congresso di Storia del Risorgimento, Roma, Istituto di Storia del Risorgimento Italiano, 1965, pp. 172 ss; B. Vigezzi, L’Italia di fronte alla prima guerra mondiale. I. L’Italia neutrale, Milano-Napoli, Ricciardi, 1966; Id., L’Italia liberale – governo, partiti, società – e l’intervento nella prima guerra mondiale, in Id., L’Italia unita e le sfide della politica estera. Dal Risorgimento alla Repubblica, Milano, Jaca Book, 1997, pp. 105 ss.; G. Procacci, La neutralité italienne et l’entrée en guerre, in Les entrées en guerre en 1914, «Guerres mondiales et conflits contemporains», 45, 1995, 179, pp. 83 ss; L. Ceva, La neutralità dell’Italia unita, in «Rivista Storica Italiana», 101, 1999, 1, pp. 280-311. Da ultimo, sul punto, A. Varsori, Radioso maggio. Come l’Italia entrò in guerra, Bologna, il Mulino, 2015. (8) Il mito della Nazione «giovane» destinata a sopraffare le «vecchie» Potenze globali, come Francia e Inghilterra, è un motivo ricorrente della dottrina politica dello storico tedesco, Heinrich von Treitschke, da Volpe ben conosciuta. Sul punto, W. Bussmann, Treitschke as Politiker, in «Historische Zeitschrift», 177,

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della politica interna alla politica estera, sino all’adozione del principio della forza, e quindi della guerra, quale motore della vita delle nazioni (9). Sebbene Volpe e gli altri intellettuali legati all’esperienza del liberalismo nazionale, avessero dimostrato di saper resistere allo «spirito di crociata», ai toni da «guerra santa» della civiltà contro la barbarie agitati dall’interventismo democratico e poi da quello di sinistra e rivoluzionario (10), che, infine, provocarono la disfatta culturale e politica di quei movimenti (11), non altrettanta 1977, 2, pp. 249-279; P. Winzen, Treitschke’s Influence on the Rise of Imperialist and Anti-British Nationalism in Germany, in P. Kennedy - A. Nicholls (eds.) Nationalist and Racialist Movements in Britain and Germain before 1914, Oxford, Oxford University Press, 1981, pp. 154-170. (9) G. Are, La scoperta dell’imperialismo, Roma, Edizioni Lavoro, 1985; B. Vigezzi, Politica estera e opinione pubblica in Italia dall’Unità ai nostri giorni, Milano, Jaca Book, 1991. Si veda anche, E. Ullrich, La classe politica nella crisi di partecipazione dell’Italia giolittiana, Roma, Camera dei Deputati, 1979. (10) A. Ventrone, La seduzione totalitaria. Guerra, modernità, violenza politica (1914-1918), Roma, Donzelli, 2003, in particolare, pp. 26 ss. (11) Un’analisi spesso largamente positiva dell’interventismo democratico è invece in R. Vivarelli, Storia delle origini del fascismo. I. L’Italia dalla Grande Guerra alla marcia su Roma, Bologna, Il Mulino, 1991, pp. 124 ss. Sullo stesso punto, G. Sabbatucci, La Grande Guerra come fattore di divisione: dalla frattura dell’intervento al dibattito storiografico, in Due nazioni. Legittimazione e delegittimazione nella storia dell’Italia contemporanea, a cura di L. Di Nucci e E. Galli della Loggia, Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 107 ss. Più distaccato l’approccio di B. Vigezzi, Da Giolitti a Salandra, Firenze, Vallecchi, 1969, pp. 111 ss. Sulla crisi d’idee e di valori dell’ala democratica del movimento favorevole alla guerra, evidenziatasi soprattutto a dopo la fine del 1917, ancora insuperate restano le pagine di R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario, 1893-1920, Torino, Einaudi, 19952, pp. 362 ss. Sull’”interventismo di sinistra e rivoluzionario”, Id., L’interventismo rivoluzionario, in Il trauma dell’intervento 1914-1919. Relazioni presentate al seminario di studi sul tema L’intervento e la crisi politica del dopoguerra, tenuto a Milano nel maggio 1966, sotto gli auspici del Centro Studi e ricerche sui problemi Economici e Sociali, Firenze, Vallecchi, 1968, pp. 273-291; G. Procacci, Gli

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moderazione ritennero di adoperare nell’adoperare con disinvoltura parole d’ordine, per altro comuni a tutte le componenti favorevoli all’ingresso dell’Italia nel conflitto: dalla virtù morale della guerra, sicura artefice di un nuovo ordine nazionale, solidale e gerarchico, alla rigenerazione morale del popolo italiano, alla necessità di una più energica politica di potenza (12). È la storia del così detto «equivoco nazionalista» in seno al liberalismo (da Giovanni Amendola a Umberto Ricci) (13), del progressivo naufragio, nel dopoguerra, di tanta parte dell’intel­ lettualità liberale verso una soluzione autoritaria degli antichi mali italiani, verso quella «rivoluzione» nella «conservazione», che a Volpe sarebbe poi apparsa parzialmente realizzata nel fascismo, soprattutto per quello che avrebbe riguardato la politica estera del regime (14). Questo naufragio in Volpe non fu tuttavia mai definitivo, grazie al saldo ancoraggio a quella concezione dei rapporti internazionali, che, secondo la definizione di Hegel, aveva alla sua base la «volontà sovrana differenziata» degli «Stati indipendenti» (15), e che costituiva, per Leopold von Ranke, un «sistema interventisti di sinistra, la rivoluzione di febbraio e la politica interna italiana nel 1917, in «Italia contemporanea», 138, 1980, pp. 49-83. (12) Sul punto E. Gentile, Un’apocalisse nella modernità. La Grande Guerra e il mito della rigenerazione della politica, in «Storia contemporanea», 26 1995, 5, pp. 733-787, poi rifuso e ampliato in Id., L’apocalisse della modernità. La Grande guerra per l’uomo nuovo, Milano, Mondadori, 2017. (13) G. Carocci, Giovanni Amendola nella crisi dello Stato italiano 19111925, Milano, Feltrinelli, 1956, p. 22 ss.; G. Busino, Materiali per la biobibliografia di Umberto Ricci, in «Annali della Fondazione Luigi Einaudi», XXXV, 2001, pp. 323-410. (14) G. Volpe, Guerra dopoguerra Fascismo, cit., p. VIII. (15) G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Bari, Laterza, 1954, III, 3, § 330, p. 279: «Il diritto statale esterno deriva dai rapporti degli Stati indipendenti; quindi, ciò che, nel medesimo, è in sé e per sé, serba la forma del dover essere, poiché esso sia reale, dipende dalla volontà sovrana differenziata».

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di diritto pubblico», sulle cui fondamenta riusciva a mantenersi l’«ordine politico» del sistema delle Potenze europee, pur nella loro dinamica di confronto, di conflitto, di perenne antagoni­ smo (16). Si trattava di una lezione di antica saggezza politica che avrebbe sempre evitato a Volpe un deviamento su posizioni di carattere sciovinistico, se non addirittura francamente razzistico, dove l’avversario in armi perdeva il suo status di antagonista per assumere quello di «hostis humani generis» (17). Posizioni, queste, che sarebbero state invece fatte proprie, durante la guerra, da molti intellettuali dello schieramento liberale e democratico: dall’ex-neutralista, Cesare De Lollis, a Luigi Gasparotto (18), ad Adolfo Omodeo. Omodeo, infatti, se alla fine del 1916 confessava a Vito Fazio-Almayer, in una lettera impreziosita da citazioni di Kant e del Nuovo Testamento, che veramente era «affar lungo sterminare questi cani di austriaci e tedeschi», nell’ottobre del 1918, quando la prova delle armi volgeva ormai a favore dell’Italia, comunicava alla moglie che il frutto della vittoria non si sarebbe potuto esaurire solo nel riacquisto del territorio nazionale, ma doveva portare all’annientamento totale dell’esercito nemico. Opera alla quale la batteria da lui comandata aveva partecipato attivamente, essendo riuscita a fare strage del «fiore dell’Ungheria» (19). (16) L. Von Ranke, Le Grandi Potenze, Firenze, Sansoni, 1954, p. 13. Su tutto questo, si veda il mio, Il diritto delle armi. Guerra e politica nell’Europa moderna, Milano, Franco Angeli, 2005. (17) A. Ventrone, Il nemico assoluto nella Grande Guerra, in Il governo d’emergenza. Poteri straordinari e di guerra in Europa tra XVI e XX secolo, a cura di F. Benigno e L. Scuccimarra, Roma, Viella, 2007, pp. 259-273. (18) C. De Lollis, Taccuino di guerra, Firenze, Sansoni, 1955, p. 84; L. Gasparotto, Diario di un fante, Brescia, NordPress, 2002, p. 39. (19) A. Omodeo, Lettere 1910-1926, Torino, Einaudi, 1963, p. 161 e p. 332.

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Le prime avvisaglie di questa degradazione del conflitto a bellum internecinum erano state individuate e stigmatizzate da Benedetto Croce già prima del maggio 1915. Pur fermissimo oppositore dell’intervento e dei metodi polemici di molti esponenti del nazionalismo italiano, simili a quelli utilizzati dai «demagoghi e piazzaiuoli politici di tutti i tempi» (20), il filosofo, in una fitta serie di note e postille apparse sulla «Critica», intendeva fornire il suo contributo a illuminare, quando mai questa impre(20) B. Croce, Metodi polemici del nazionalismo italiano in Id., Pagine sparse, raccolte da G. Castellano, Napoli, Ricciardi, 1919-1922, 4 voll., II, pp. 31-32, d’ora in poi citato come Pagine sulla guerra. Più estesamente, per la polemica di Croce contro gli intellettuali interventisti, definiti politici «improvvisatori», si veda Id., Motivazioni di voto (6 dicembre 1914), ivi, pp. 9-12. Sul dissidio tra Croce e Gentile sulla questione dell’intervento, si veda Giovanni Gentile a Giuseppe Lombardo Radice, 6 luglio 1915, Archivio della Fondazione Gentile, Roma: «Con questa guerra comincerà la nuova storia d’Italia (benché Benedetto ancora non se ne accorga) […]». Importante è anche la lettera di Gentile a Croce del 15 maggio 1915, in G. Gentile, Lettere a Benedetto Croce, 19151924, Firenze, Le Lettere, 1990, pp. 27 ss. Sul punto, D. Cofrancesco, Croce e Gentile dinanzi alla Prima guerra mondiale, in Niente fu più come prima. La Grande Guerra e l’Italia cento anni dopo, a cura di F. Perfetti, Firenze, Polistampa, 2015, pp. 125-150. Sul neutralismo «patriottico» di Croce, si veda, invece, R. Colapietra, Benedetto Croce e la politica italiana, Bari-Santo Spirito, Edizioni del Centro Librario, 1969-1970, 2 voll. I, pp. 265 ss.; H. Ullrich, Croce e la neutralità italiana. A proposito de “L’Italia neutrale” di Brunello Vigezzi, in «Rivista di studi crociani», 6, 1969, pp. 11-28, 155-172; G. Galasso, Croce e lo spirito del suo tempo, Roma-Bari, Laterza, 2002, pp. 255 ss.; R. Pertici, Benedetto Croce. Il guardiano della retta cultura, in La Grande Guerra: dall’Intervento alla “vittoria mutilata”, a cura di M. Isnenghi - D. Ceschin, Torino, Utet 2008, pp. 333-339; Id., Il neutralismo ‘intellettuale’: un primo inventario, in Abbasso la guerra! Neutralisti in piazza alla vigilia della Prima guerra mondiale in Italia, cit., pp. 135-148; F. Mazzei, Cattolicesimo liberale e “religione della libertà”. Stefano Jacini di fronte a Benedetto Croce, con una Prefazione di R. Pertici, Roma, Studium, 2015, in particolare pp. 35-44; E. Papadia, Al di sopra della mischia? Il neutralismo degli intellettuali e il caso di Aldo Palazzeschi, in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», 1, 2015, pp. 49-66, in particolare pp. 51-53.

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sa fosse stata possibile, l’«ignoranza politica» della «democrazia italiana», tanto grande e tanto radicata che «forse nemmeno la lezione oggettiva e oculare degli avvenimenti che ora si svolgono la correggerà dal richiedere alleanze e guerre in forza di dottrine e raziocini». Contro il vano pigolare della propaganda bellicistica radicale e massonica, Croce chiedeva al Paese, impegnato nello scontro, di rinvenire altre idee-forza, che ne indirizzassero gli sforzi, e in particolare quella della «moralità della dottrina dello Stato come potenza», così come era stata consegnato alla cultura europea da Ranke e da Treitschke. Per dire la cosa in breve e in termini popolari, la storia (nonché la logica stessa della vita) mostra che gli Stati e gli altri aggruppamenti sociali sono tra loro perpetuamente in lotta vitale per la sopravvivenza e la prosperità del tipo migliore; e uno dei casi acuti di questa lotta è ciò che si chiama la Guerra. Quanto la guerra scoppia (e che essa scoppi o no, è tanto poco morale o immorale quanto un terremoto o altro fenomeno di assestamento tellurico), i componenti dei vari gruppi non hanno altro dovere morale che di schierarsi alla difesa del proprio gruppo, alla difesa della patria per sottomettere l’avversario o limitarne la potenza o soccombere gloriosamente, gettando il germe di future riscosse. Solo in questo modo l’individuo è giusto, sebbene, a questo modo, sia giusto anche l’avversario; e, per questa via, giusto sarà, per un tempo più o meno lungo, l’assetto che si formerà dopo la guerra. Non credo che il sano senso popolare abbia mai concepito in altra guisa le guerre, e solo una falsa ideologia, un sofisma di letteratucci, può tentar di surrogare a questi concetti semplici e severi l’ideologia del torto e della ragione, della “guerra giusta” e della “guerra ingiusta” (21). (21) B. Croce, Ancora dello Stato come potenza, in «La Critica» XIV, 1916, ora in Id., Pagine sulla guerra, cit., p. 86-87. Una riflessione che, per Croce,

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Questo programma trovava qualche affinità in una componente minoritaria ed eterodossa del movimento nazionalista, quella del nazionalismo liberista, liberale, democratico, nelle cui fila militavano Paolo Arcari e Alberto Caroncini: due intellettuali, di diversa formazione culturale (22), che, nel Congresso di Roma del 1912, convocato dall’Associazione Nazionalista Italiana (ANI), avrebbero attuato una clamorosa secessione dal resto dell’organizzazione, insieme a Emilio Bodrero a Lionello Venturi (23). In stretta vicinanza alla pattuglia dei «Giovani turchi» mantenne tutto il suo valore anche nel corso del secondo conflitto. Si veda, Id., Taccuini di guerra, 1943-1945, a cura di C. Cassani, Milano, Adelphi, 2004, alla data del 4 ottobre 1943 p. 29: «Sono stato a rimuginare la guerra, il diritto internazionale e altri concetti affini, cercando sotto la stretta terribile della passione di questi giorni la parte da condannare moralmente; ma la conclusione è stata la rassodata conferma della vecchia teoria che la guerra non si giudica né moralmente né giuridicamente, e che quando c’è la guerra, non c’è altra possibilità né altro dovere che cercare di vincerla». Azzardata è in ogni caso l’annessione di Croce al movimento nazionalista, per i suoi interventi posteriori al maggio 1915, operata da Volpe, Italia moderna, cit., III, pp. 523-524. Sul punto, si veda R. Pertici, Croce e il vario nazionalismo post-bellico, in Studi in onore di Marcello Gigante, a cura di F. Calmieri, Bologna, il Mulino, 2003, pp. 575-624. (22) Su di loro, rispettivamente, G. Ponte, «Arcari Paolo», in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1961, III, pp. 748-749; G. Parlato, Il pensiero politico di Paolo Arcari da “L’Osservatore cattolico” all’uscita dall’Associazione Nazionalista, in Atti della commemorazione del centenario della nascita del Prof. Paolo Arcari, Tirano, Biblioteca Civica Arcari, 1979, pp. 25-45. R. Michels, Alberto Caroncini, in «La Riforma sociale», XXIV, 1917, pp. 109-118; S. Indrio, «Caroncini Alberto», in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1977, XX, pp. 533-540. Su Arcari e Caroncini, si vedano anche le voci da me redatte in Dizionario del liberalismo italiano, cit., II, pp. 70-73, 263-265. (23) G. Gaeta, Il nazionalismo italiano, cit., pp. 141 ss.; F. Perfetti, Il movimento nazionalista in Italia, 1903-1914, Roma, Bonacci, 1984, pp. 138 ss. Sul Convegno di Roma, un’ampia sintesi è in A. Roccucci, Roma capitale del nazionalismo, 1908-1923, Roma, Archivio Guido Izzi, 2001, pp. 110 ss. Sulla posizione di Caroncini, si veda la lettera ad Amendola del 26 novembre

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del liberalismo, guidati da Giovanni Borelli, fin dal 1901, raggruppati attorno alla rivista «Idea liberale» (24), e soprattutto grazie all’influsso di Caroncini, i Nazionali Liberali si emancipavano compiutamente dalle posizioni del nazionalismo ortodosso dell’ANI, rappresentate da Enrico Corradini, Francesco Coppola, Luigi Federzoni, Alfredo Rocco (25), e puntavano su di un’energica azione di riforma sul piano interno, improntata ad una filosofia di riferimento audacemente liberista, in grado di coinvolgere anche uomini di diverso orientamento come l’antiprotezionista radicale Antonio De Viti de Marco (26). Con qualche concessione al valore storico del movimento 1911, in A. Capone, Giovanni Amendola e la cultura italiana del Novecento, 1899-1914, Roma, Elia, 1974, p. 302: «Quanto ai nazionalisti, io credo che al prossimo convegno avverrà tra noi e loro una divisione clamorosa. […] Ad ogni modo, la mania di fare ora un partito nazionalista è tale fesseria che noi certo non aiuteremo a fare». Sul punto si veda anche Id., Giovani Amendola, Roma, Salerno Editrice, 2013, pp. 165 ss. (24) G. Volpe, Italia moderna, cit., III, cit., p. 289. Su Giovanni Borelli, B. Vigezzi, Da Giolitti a Salandra, cit., pp. 32 ss.; 287 ss.; 318 ss. Si vedano anche le voci di A. Riosa e di E. Di Rienzo, rispettivamente in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, XII, 1970, pp. 541-547 e in Dizionario del liberalismo italiano, cit., II, pp. 172-173. Sulla rivista, promossa da Borelli, M. M. Rizzo, Una proposta di liberalismo moderno. L’”Idea liberale” dal 1892 al 1906, Lecce, Milella, 1982; V. Bagnoli, L’”Idea liberale”, 1891-1906, Roma, Carocci, 2000. (25) E. Papadia, Nel nome della nazione. L’Associazione Nazionalista Italiana in età giolittiana, Roma, Archivio Guido Izzi, 2006; E. Fonzo, Storia dell’Associazione Nazionalista Italiana. 1910-1923, Napoli, ESI, 2017 (26) A. Caroncini, Problemi di politica nazionale. Scritti scelti e presentati con una prefazione di A. Solmi, Bari, Laterza, 1922, pp. 26 ss.; A. De Viti De Marco, Per un programma d’azione democratica, 2 giugno 1913, in Id., Un trentennio di lotte politiche, 1894-1922, Roma, Collezione Meridionale Editrice, 1929, pp. 317 ss. Sul «liberismo radicale», si veda L. Tedesco, L’alternativa liberista in Italia. Crisi di fine secolo, antiprotezionismo e finanza democratica nei liberisti radicali, 1898-1904, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002.

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democratico, socialista, sindacale, per il loro indiretto ruolo di motori della nazionalizzazione delle masse, la piccola pattuglia dei Nazionali Liberali intendeva realizzare compiutamente l’integrazione nazionale delle aree periferiche del Paese e naturalmente delle terre irredente e consentire all’Italia lo sviluppo delle sue energie verso la Penisola balcanica e l’area danubiana. Anche la questione coloniale doveva essere aggiornata alla luce di una realistica valutazione delle esigenze commerciali e industriali italiane, dislocando il flusso dell’emigrazione dalle mete tradizionali e avviandolo verso nuove zone d’influenza e di egemonia nel Mediterraneo, nell’Asia Minore, nel continente africano (27). Il «nuovo nazionalismo» si avvicinava, così, alla galassia del «riformismo laico» (da Salvemini a Prezzolini), non legato ai programmi dei partiti tradizionali (28), e confluiva, per dirla con Volpe, in quella «Giovane Italia» estranea o ostile all’attività della vecchia classe dirigente, antisocialista ma soprattutto antigiolittiana, eppure ancora lontana da ogni ipotesi di soluzione autoritaria, le cui variegate componenti avrebbero potuto forse costituire un comune patto d’azione. Patto che Giovanni Amendola aveva proposto, nell’agosto del 1911, a Salvemini, Caroncini e Prezzolini, per fissare alcuni punti fondamentali di «un programma politico da studiare», con particolare riferimento «all’Italia decentrata, alla morte della burocrazia, al rafforzamento dello Stato» (29). (27) A. Caroncini, Problemi di politica nazionale, cit., pp. 205 ss. (28) G. Volpe, Italia moderna, III, cit., pp. 252 e pp. 536-537. (29) Giovanni Amendola a Giovanni Boine, 30 agosto 1911, in G. Boine, Carteggio IV. Giovanni Boine-Amici della “Voce”- Vari, 1904-1917, a cura di M. Marchione e E. Scalia. Prefazione di G. V. Amoretti, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1979, p. 251. All’incontro dovevano essere presenti: Prezzolini, Borgese, Caroncini, Casati, Salvemini. Sulle simpatie di Amendola per il

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Neppure il momento dell’intervento sarebbe riuscito a riannodare lo sfilacciato tessuto del dialogo tra gli uomini del nazionalismo di stretta osservanza e quelli della pattuglia Nazionale Liberale, che nel 1914 avrebbero ulteriormente accentuato la loro presa di distanza dall’ideologia dell’ANI. L’inconciliabilità tra i due gruppi provocava, secondo la ricostruzione di Volpe, un «esodo di gregari che unendosi anche con altri liberali, di più antico stampo o di stampo borelliano, o di nessuno stampo istituirono i Gruppi Nazionali Liberali» (30). Questi reclutavano, tra ottobre 1914 e gennaio 1915, a Milano, Firenze, Roma, Ferrara, Bologna e in altre città italiane, con l’esclusione del Mezzogiorno, numerosi esponenti della classe intellettuale: lo stesso Giovanni Borelli, Giovanni Amendola, Giuseppe Giuseppe Antonio Borgese, Emilio Bodrero, Scipio Slataper, Nello Quilici, Giustino Arpesani, Alessandro Casati, Francesco Ercole, Lionello Venturi, Antonio Anzilotti, Arrigo Solmi, Widar Cesarini Sforza, Ugo Monneret de Villard, Maffio Maffi, Luigi Valli, Lionello Venturi, ai quali si aggiungerà la leva dei più giovani, Nello Quilici, Concetto Pettinato, Dino Grandi (31). I nazionalisti dissidenti si aprivano a una politica di larghe intese anche con socialisti riformisti, radicali, programma di Caroncini, si veda Giovanni Amendola a Giovanni Boine, 15 dicembre 1910, ivi, p. 206: «Hai visto il Congr. Nazionalista? Gran miseria, mi sembra, se ne togli la tendenza Caroncini». (30) G. Volpe, Italia moderna, cit., III, p. 617 ss. (31) Il Gruppo milanese de ”L’Azione”, in «L’Azione», 8 novembre 1914, p. 2; Il Gruppo milanese de ”L’Azione” costituito, ibidem, 6 dicembre 1914, p. 3; Il Gruppo nazionale-liberale di Firenze, ibidem, 24 gennaio 1915, p. 2; Programma nazionale-liberale esposto dal Gruppo di Roma, ibidem, p. 3; Il Gruppo nazionale liberale di Ferrara per la mobilitazione civile, ibidem, 10 gennaio 1915, p. 3; La grande riunione di Bologna per la guerra, ibidem, 4 ottobre 1914, p. 4.

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repubblicani, democratici cristiani dell’attivissimo cenacolo di Cesena, in conformità a un comune credo antiprotezionista e fondavano un proprio organo di stampa, «L’Azione». Su quella rivista, il 4 ottobre 1914, Volpe pubblicava un arti­colo significativamente intitolato: Ora o mai più! Ho notizia di un convegno che, per iniziativa dell’Azione, è stato tenuto a Milano. Vi giunga, amici, sebbene tardi, la mia adesione. Io non milito nella politica; ma come studioso e come cittadino, la seguo e la sento. Ora poi è difficile, impossibile non essere presi, trascinati, sommersi nel gorgo. Ora più che mai la politica è storia e grande storia; è non ripiego, espediente, accorgimento, manovra ma forza e sforzo, moto e creazione. Muoiono gli individui a migliaia, ma si esaltano, anche se sconfitte, le Nazioni; si accentua il differenziamento fra i gruppi e l’omogeneità e solidarietà fra gli uomini di uno stesso gruppo, insomma, progredisce l’organizzazione dell’umanità. […] Dico solo e semplicemente questo: sono - per quel poco che vale la mia voce - con voi; come sono con tutti quelli che reputano fatale all’Italia isolarsi al momento presente […] La politica di una Nazione vive di continuità: vive di coerenza. A un certo punto, anche chi si accorga di aver sbagliato, bisogna che tiri le somme, prima di voltar pagina. Fu necessario e utile andare in Libia perché da tanti anni si era orientata verso quella direzione la politica estera italiana; sarà ora necessario e utile andare… Compia la frase chi vuole. A me preme solo insistere sulla necessità di un’azione: perché noi non potremmo più nulla di fronte a una coalizione vittoriosa, sia pur logora dalla guerra. Di fronte a questo pericolo io invocai magari un’azione con gli antichi alleati. Tutto, tutto, insomma, fuorché lasciar risolvere, dagli altri, questioni che toccano così da vicino anche noi: dagli altri, cioè – 20 –


per gli altri non per noi, anzi contro di noi. E la soluzione di oggi, di domani, sarà probabilmente la soluzione definitiva. La vittoria del blocco austro-ungarico, cioè del germanesimo, sarebbe la fine del Trentino italiano, sarebbe il nostro schiacciamento politico, militare, economico nell’Adriatico; la vittoria degli altri sarebbe l’annichilimento etnico dell’elemento italiano in Dalmazia, Fiume, in Istria e, perché no? l’affacciarsi dello slavismo in casa nostra, tra quei 40 o 50.000 slavi del Friuli italiano. Quasi quasi peggio quest’ultima eventualità. Alla prima si potrebbe tra cento anni rimediare; la seconda non avrebbe rimedio perché ci toglierebbe ogni ragione o diritto d’intervento. In ogni modo, tristi eventualità l’una e l’altra: dopo le quali dovremmo chiudere con una dichiarazione di mezzo fallimento questo nostro cinquantennio di attività internazionale. Vorrei che gli Italiani rivivessero questi giorni la semplice verità, la paurosa verità: Ora o mai più! La nostra generazione – governanti e governati – si addosserà, di fronte a quelli che verranno, la responsabilità di quel “mai più”? (32)

Molto significativamente, nel patrocinare l’ingresso nel conflitto, Volpe non faceva nessuna concessione alle ragioni ideologiche dell’intervento. Né sposava alcun atteggiamento costituzionalmente ostile agli Imperi centrali, ma piuttosto testimoniava una residuale ma ancora viva germanofilia, condivisa, per altro, da molti ambienti politici e intellettuali italiani fino alla vigilia della presa d’armi (33). Sotto assoluto silenzio, (32) G. Volpe, Ora o mai più!, in «L’Azione», 4 ottobre 1914, pp. 1-2. L’articolo era datato, Santarcangelo di Romagna, 20 settembre 1914. (33) R. Romeo, La Germania e la vita intellettuale italiana dall’Unità alla prima guerra mondiale, in Id., L’Italia e la prima guerra mondiale, Roma-Bari, 1978, pp. 109 ss.

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passavano le dichiarazioni di fede circa il trionfo della democrazia e l’annichilimento dell’autocrazia militarista, proprie della propaganda intesista. Solo un’attenta e spregiudicata analisi degli interessi in gioco aveva spinto Volpe a sostenere l’opportunità dell’ingresso in guerra a fianco di Francia, Regno Unito e Russia, dopo aver a lungo soppesato la possibilità di mantenere in vita l’antica alleanza con gli Imperi centrali (34). Una sola cosa appariva, però, indiscutibile. Posto che l’Italia doveva iniziare il confronto bellico, al fine di tutelare i propri essenziali bisogni di consolidamento ed espansione, la sua iniziativa militare non (34) Sull’iniziale atteggiamento triplicista, condiviso da una parte dello schieramento del nazionalismo italiano, si veda G. Volpe, Da Caporetto a Vittorio Veneto, a cura di A. Ungari e con un saggio introduttivo di E. Di Rienzo, Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, 2018, p. 28: «Giornali come L’Idea nazionale di Roma e Il Popolo d’Italia di Milano, i giornali tipici dell’interventismo (quello, fra luglio e agosto ’14, disposto anche – e giustamente – ad appoggiar una guerra della Triplice; questo, sorto proprio per spingere all’intervento antigermanico), conducevano una serrata, instancabile battaglia». Sul punto, il severo giudizio di Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Bari, Laterza, 19345, pp. 293-294: «I nazionalisti volevano la guerra per giungere attraverso la guerra al successo e alla gloria militare, al soverchiamento del liberalismo e al regime autoritario […] Erano perciò indifferenti contro chi e come si dovesse muovere la guerra, purché guerra ci fosse, e, nelle prime settimane, essi soli, fra tutti i partiti italiani, si mostrarono propensi all’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germania e dell’Austria, e si disponevano a promuovere l’irredentismo di Nizza e della Corsica, di Malta e dell’italianizzante Tunisia». Ricordiamo, comunque, che, tra i Liberali Nazionali, Amendola entrò precocemente in polemica contro l’articolo intriso di umori triplicisti di Mario Rosazza, (La Triplice sino ad oggi, pubblicato su «L’Azione» del 9 agosto 1914, pp. 1-2), con l’editoriale, Agli amici de “L’Azione”, ibidem, 16 agosto 1914, p. 1. In generale, sul punto, R. Molinelli, I nazionalisti italiani e l’intervento a fianco degli Imperi centrali, Urbino, Argalia, 1973, pp. 65 ss. Si veda anche B. Vigezzi, I nazionalisti fra neutralità e intervento, in Nazione e anti-Nazione. II. Il movimento nazionalista dalla guerra di Libia al fascismo (1911-1923), a cura di F. Mazzei e P. S. Salvatori, Roma, Viella, 2016, pp. 11 ss.

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poteva, allora, che volgersi a oriente, verso la frontiera adriatica e i Balcani. Bisogna compiere l’Italia, almeno laddove l’incompiutezza è più grande e dolorosa e pericolosa; bisogna creare nell’Adriatico una situazione tale che quel mare e le sue sponde non siano per noi un incubo e ci permettano di guardare e marciare dinanzi a noi, nel più vasto Mediterraneo e, se l’Italia sarà da tanto e ne avrà le forze, nel vastissimo oceano. Perché io non mi sento malato né di francofilia né di anglomania congenita. Mi son liberato di questi avanzi della nostra servitù secolare, dei tempi in cui il centro di gravità dell’Italia non era in Italia ma fuori. E poi all’incirca tutti sappiamo che cosa significhi la parentela in latinità e la tradizionale amicizia. Non ho soverchia simpatia per certi prodotti della francese democrazia, son ben lontano dal mettere di fronte Germania e Francia in aspre antitesi, come dispotismo e libertà, tenebre e luce, principio del male e principio del bene… Ancor meno mi commuove la tenera sollecitudine degli amici dell’ultima ora per il compimento della nostra integrità nazionale verso le Alpi del nord-est (35).

Questo solo, dunque, era l’obiettivo della guerra. Il realizzarsi della «più grande Italia», di un’Italia coesa all’interno e potente all’esterno (36), in grado di proiettare la sua spinta vitale fino all’Asia minore, secondo una strategia di larga egemonia econo-

(35) G. Volpe, Ora o mai più!, cit., p. 2. (36) E. Gentile, Il mito dello Stato nuovo. Dall’antigiolittismo al fascismo, Roma - Bari, Laterza, 1982; Id., La grande Italia. Il mito della nazione nel XX secolo, Roma-Bari, Laterza, 20062.

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mica sul bacino mediterraneo, già propugnata da Caroncini (37). Era un progetto, questo, che intanto poteva accomodarsi agli obiettivi del programma espresso dal Presidente del Consiglio, Antonio Salandra: rafforzare la posizione dell’Italia nel «concerto europeo», risolvendo il problema della sicurezza dei nostri confini nord-orientali e realizzando una salda presa sul bacino adriatico; rinvigorire la tenuta delle istituzioni, attraverso un processo di amalgama nazionale messo in moto dalla guerra patriottica, che avrebbe soddisfatto le antiche aspirazioni irredentistiche verso Trento e Trieste (38). Che il Paese avesse le forze per raggiungere questi obiettivi, attraverso il recursus ad arma, era per Volpe questione indubitabile, poiché l’Italia era una Nazione «giovane» e, in quanto tale, bisognosa e desiderosa di crescere, sfidando la supremazia germanica ma anche travolgendo gli ostacoli frapposti delle Potenze cosiddette «democratiche». (37) A. Caroncini, L’Asia minore e l’Italia, «Rivista delle Società commerciali», 1913; L’Italia e l’Asia minore. La lotta per la terra, «Il Resto del Carlino», 27 giugno 1913, ora in Id., Problemi di politica nazionale, cit., pp. 205 ss. Si veda anche Id., Oltre l’Adriatico, in «L’Azione», 20 settembre 1914; Id., Marciare, ibidem, 11 ottobre 1914, dove si profilava l’ipotesi, a guerra terminata, di una partecipazione italiana alla spartizione delle colonie tedesche e di una penetrazione nel Mediterraneo orientale e nel Levante ottomano. (38) A. Salandra, La neutralità italiana, 1914. Ricordi e pensieri, Milano, Mondadori, 1928, pp. 86 ss. Il volume sarebbe stato recensito da Volpe nell’articolo, La neutralità italiana nella seconda metà del 1914, in «Il Corriere della Sera», 20 marzo 1928, p. 3 (poi in «Bibliografia fascista», 1928, 1, p. 4-5), con un resoconto animato dai sensi di un sentito apprezzamento per l’operato dello statista, dove si scriveva: «Libro interessante e promettente. E anche libro da ispirar fiducia. Molto studio di obiettività e sincerità […] Non tuttavia che non lo animino, insieme col proposito di dare ragione dell’azione sua di governo, anche il desiderio e l’ambizione di giustificarla, di procurarle riconoscimento e lode. Egli rivendica a sé e ai suoi più vicini collaboratori la pronta decisione della neutralità e il proposito dell’intervento con l’Intesa».

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Sulla stessa linea di non demonizzazione dell’avversario, in virtù della riconosciuta legittimità di ogni Nazione a perseguire una politica espansionista, si era già posto Guido De Ruggiero (nonostante i forti toni della sua polemica contro la Kultur germanica (39), negli editoriali comparsi sul «Resto del Carlino» e sull’organo ufficiale dell’ANI, «L’Idea Nazionale» (40). E, insieme a lui si mossero su quella linea anche altri collaboratori dell’«Azione», come Borgese (41), e Dino Grandi. Quest’ultimo, riprendendo l’interpretazione dei processi storici, in chiave di dialettica tra «giovinezza» e (39) G. De Ruggiero, Da Emanuele Kant al mortaio da 420, «L’Idea Nazionale», 12 ottobre 1914, in La stampa nazionalista, a cura di F. Gaeta, Bologna, Cappelli, 1965, pp. 73 ss.; Id., Storia di oggi e storia di domani, «L’Idea Nazionale», 5 dicembre 1914, in Id., Scritti politici, 1912-1926, a cura di R. De Felice, Bologna, Cappelli, 1963 pp. 73 ss. A questi interventi, seguiva la replica di Croce, in Id., Pagine sulla guerra, cit., pp. 5 ss. (40) Il riferimento è soprattutto a G. De Ruggiero, Il pensiero italiano e la guerra (pubblicato, per la prima volta, in versione francese nella «Revue de Métaphysique et de Morale», 1916, 5, pp. 749-785), ora in Id., Scritti politici, 1912-1926, cit., pp. 125 ss., dove si polemizzava contro l’ideologia della «guerra democratica», che «non guarda al movimento storico delle nazioni, alla esigenza del loro sviluppo né alla forza della loro espansione». Croce avrebbe ribattuto a questo saggio con la nota Il pensiero italiano e la guerra, pubblicata su «La Critica», XV, 1917, ora in Id., Pagine sulla guerra, cit., pp. 153 ss. (41) G. A. Borgese, Avversari, non odiatori della Germania, in «L’Azione», 30 agosto 1914, p. 1; Id., Alcune semplici verità, ibidem, 6 settembre 1914, pp. 1-2, in particolare contro la demonizzazione della Germania, da parte dell’interventismo democratico: «Se questo fosse, come voi credete, un duello fra Francia e Germania, tra Democrazia e Impero, tra la “Santa Repubblica” e la “barbarie”, temo, ahimé, che ci sarebbe poco da dubitare sull’esito. Ma per fortuna ci sono altre idee e altre forze che collaborano a salvare i nostri popoli: v’è il rigido self-government inglese, v’è la rassegnata capacità di morire dei russi. V’è anche l’anonima e silenziosa furia giapponese». Si veda anche, Id., La responsabilità del partito liberale, ibidem, 20 settembre 1914, pp. 1-2, dove si insisteva sulla possibilità che il popolo tedesco, del quale «bisogna ammirare le grandiose virtù», potesse tornare a esserci «amico».

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«vecchiaia» dei popoli, proposta da Volpe, ne inaspriva forse i contenuti anti-intesisti, in una polemica che poco si distaccava dai temi della «guerra proletaria e rivoluzionaria» propagandata da Filippo Corridoni e Mussolini (42). La guerra che si combatte oggi è il risultato necessario, logico e fatale dell’assetto economico e storico della società moderna. Una guerra tra opposti imperialismi, e tale sarebbe nei suoi termini perfetti se a essa non fosse purtroppo riservato l’ulteriore compito di risolvere una buona volta e per sempre il problema delle unità nazionali. Problema che non è affatto la causa e l’origine di questa guerra ma ne è piuttosto un incidente. Incidente di tale importanza, tuttavia, da capovolgere, per un momento, il significato etico di questa conflagrazione. Nella guerra d’oggi vi è un difetto per così dire, d’impostazione. Infatti, oggi soltanto un predominio s’intende: il predominio che viene dalla produzione e dal lavoro. Le guerre mondiali, le guerre di domani avverranno fatalmente fra le Nazioni povere e le Nazioni ricche, fra le Nazioni che lavorano e che producono e le Nazioni già padrone del capitale e della ricchezza. Guerra di carattere eminentemente rivoluzionario. Guerra di chi può di più contro chi ha di più. Lotta di classe fra le Nazioni. Dato questo nuovo carattere della guerra mondiale, ciascun profano a prima vista può osservare che le pedine del grande scacchiere non sono al loro posto naturale. La guerra d’oggi doveva essere naturalmente combattuta fra Germania, Russia e Italia da una

(42) B. Mussolini, Il proletariato è neutrale?, in «Il Popolo d’Italia», 3 aprile 1915; Id., Guerra di popolo, ibidem, 4 luglio 1915, in Id., Scritti e discorsi adriatici. I. Dalla neutralità al Piave, a cura di E. Susmel, Milano, Hoepli, 1942, pp. 89 ss.; 157 ss.

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parte, Inghilterra e Francia dall’altra. Fra la gioventù e la vecchiezza. Fra la cassaforte e il lavoro. Per tutte queste ragioni, la pace che seguirà non potrà essere duratura. La vera guerra delle Nazioni povere contro le Nazioni ricche, naturale e necessaria, la guerra proletaria e rivoluzionaria, dovrà avvenire presto in questi termini precisi (43).

Il tema della guerra come resa dei conti contro il predominio della plutocrazia internazionale sarebbe stata, poi, nuovamente formulata da Volpe nei primi mesi del 1918, in un brevissimo opuscolo, di appena quattro facciate, pubblicato in forma anonima, nei fogli di propaganda del Comitato Lombardo dell’Unione Generali Insegnanti, presieduto da Arrigo Solmi e dal romanista Ugo Bonfante (44). Un testo, nel quale, in ogni caso, nonostante la veemenza dei toni, si provvedeva, con accortezza, a smussare ogni punta eversiva, che avrebbe potuto compromettere lo status quo interno politico e sociale. Hanno parlato in tanti al popolo, da tre anni: ma non so di alcuno che gli abbia parlato nel suo linguaggio e in modo da esserne inteso. Né la sicurezza dell’Adriatico, né la (43) D. Grandi, La guerra non risolverà nulla, in «L’Azione», 6 dicembre 1914, p. 4. L’articolo recava in calce questa nota redazionale, che si sforzava di “normalizzare” l’intervento di Grandi: «Combattere per la libertà, contro la libertà; per i popoli giovani, contro i popoli vecchi; per le braccia contro la ricchezza oziosa: formule seducenti, non da disprezzare perché contengono gran parte di vero, perché muovono all’azione le forze del nostro popolo mai pronto a motivi egoistici. Ma, per carità, non abusiamo. C’è una vecchia formula, non ancora esaurita, di politica nazionale, che salva il futuro e approfitta del presente: quella essenzialmente italiana e sabauda dell’equilibrio. Non è brillante, ma ha fatto sue prove non inutili. I giovani e Dino Grandi tra loro, ci consentano di ricordarla». (44) Sull’attività del Comitato milanese, G. Mira, Memorie, Vicenza, Neri Pozza, 1968, p. 112.

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ricongiunzione di Trento e Trieste alla patria, né la ragione suprema della difesa della civiltà, che non si credeva minacciata, potevano essere “scopi di guerra” veramente sentiti dal nostro popolo. Tanto più che questi scopi non raccolgono che una parte delle nostre aspirazioni. Bisogna invece dire al popolo la grande verità. Si fa la guerra per il soldato: per il contadino, per l’operaio, per l’impiegato. Si combatte per tutti coloro che pensano e stentano la vita nelle campagne e nelle città, in Italia e fuori d’Italia. Si fa la guerra per i proletari: e questa, infatti, è la guerra dei proletari. Solo pochi pericolosi imbecilli possono parlare d’imperialismo. L’Italia non poteva fare e non avrebbe mai fatto una guerra imperialista: l’Italia poteva fare solo la guerra del pane quotidiano. E questa è la guerra del nostro pane quotidiano. Perché si fa la guerra per creare delle eguaglianze al posto di altrettante disuguaglianze. Per mettere a paro coloro che avevano di meno con coloro che avevano di più. Noi non vogliamo ci sia ancora domani qualcuno in Europa cui il proprio lavoro frutti di più che a noi il nostro. Combattiamo per l’Internazionale: non per quella politica, inutile, ma per quella economica, indispensabile, improrogabile. Combattiamo per trar fuori il nostro popolo dalla sua grigia fatica di eterno bracciante, di eterno servo. Vogliamo che ogni italiano valga domani quanto ogni altro europeo, e non viva peggio di un tedesco, di un inglese, di un francese, di un belga. Ecco il nostro irredentismo: redimerci. Emanciparci. Levarci in piedi. Non dobbiamo più essere nel mondo i tollerati, i cinesi, le bestie da soma, coloro che penano di più e che si pagano di meno. Non dobbiamo più essere i lustrascarpe, i barbieri, i menestrelli e i prosseneti degli altri. Non ci si deve più camminare sui piedi. Non dobbiamo più trascinare e lordare per le terze classi dell’orbe terracqueo i nostri fagotti, i nostri marmocchi e le nostre lacrime. – 28 –


Per questo si fa la guerra, per questo si piange, per questo si digrignano i denti, per questo si muore. Ecco quanto bisogna dire al popolo. Il popolo avrà tutto questo: poiché esiste una logica, a onta di tutte le violenze perpetrate contro di essa, e la guerra non può non finire con quella perequazione dei valori nazionali, delle libertà e delle condizioni di vita in Europa per cui si combatte – o non finirà. Ma avrà tutto questo – ecco il punto – solo dallo Stato, dall’autorità dello Stato e dalla forza che a quest’autorità avrà saputo conferire. Nessuna speranza all’infuori di qui. La libertà di domani è l’obbedienza di oggi, la signoria di domani è la servitù di oggi. Lo Stato rende quel che riceve, non diversamente dal cielo, il quale torna alla terra quanta acqua ne ha bevuta. Non c’è altro da fare, non c’è altro da chiedere (45).

Taluni argomenti di questa polemica, che il proseguimento delle ostilità avrebbe reso sempre più stringente e urgente, erano, d’altra parte, già attivi in Volpe fin dal 1911. Anno cui datava, in coincidenza indicativa con la guerra di Libia, la sua iscrizione alla «Dante Alighieri» (46). La scelta di associarsi al sodalizio patriottico-irredentista, durante l’impresa coloniale, non esprimeva, a dispetto delle apparenze, una contraddizione politica. L’irredentismo della «Dante Alighieri» aveva già perso, da tempo, in tutto o in parte, i riferimenti ideali alla causa delle nazionalità oppresse (47), trasformando la sua azione in militanza a favore di (45) G. Volpe, Come si deve parlare al nostro popolo?, Unione Generali Insegnanti - Comitato Lombardo-Università Commerciale L. Bocconi, Milano, Bollettino n. 29, s. d. [1918] (46) Società “Dante Alighieri”, Comitato di Milano, Atti e documenti. Luglio 1912, Milano, G. Agnelli, 1912, p. 63. (47) B. Pisa, Nazione e politica nella Società “Dante Alighieri”, Roma, Bonacci, 1995, pp. 279 ss.

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un’espansione italiana che avrebbe dovuto configurare una radicale trasformazione degli equilibri geopolitici dalla frontiera orientale fino al Levante. Già prima dell’approssimarsi del conflitto, il tradizionale patrimonio del vecchio patriottismo risorgimentale era profondamente mutato (48), per arrivare nell’esperienza di Giovanni Giurati a congiungersi con gli «orizzonti di gloria» del nazionalismo di Corradini (49). Questa metamorfosi aveva toccato in profondità anche un personaggio d’indiscussa ascendenza democratica come Scipio Sighele: uno dei più importanti interpreti del sentitissimo irredentismo delle popolazioni del Trentino (50). La difesa dell’italianità di quella regione, da ottenersi attraverso una serie di riforme e la concessione di una larga autonomia amministrativa da contrattare con il governo viennese, corrispondeva alla prima fase della sua attività tra fine secolo e 1908 (51). Dopo quella data, in (48) G. Volpe, Italia moderna, cit., III, pp. 174 ss. Sul punto, G. Sabbatucci, Il problema dell’irredentismo e le origini del movimento nazionalista in Italia, in «Storia contemporanea», I, 1970, n. 3, pp. 467-502; ibidem II, 1971, n. 1, pp. 53-106; B. Di Porto, Il nazionalismo tra continuità e rottura con il Risorgimento; S. B. Galli, Dall’irredentismo al nazionalismo: appunti sul pensiero politico di Gualtero Castellini, in Da Oriani a Corradini, cit., rispettivamente pp. 25 ss. e pp. 161 ss. (49) G. Giurati, La Vigilia, gennaio 1913 - maggio 1914, Milano, Mondadori, 1930, pp. 253 ss. Sul precoce deragliamento dell’irredentismo verso l’ideo­logia nazionalistica, già in età crispina, si veda F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896. I. Le Premesse, Bari, Laterza, 1951, pp. 72 ss. (50) M. Garbari, Il pensiero politico di Scipio Sighele, in «Rassegna storica del Risorgimento», 51, 1974, 3-4, 391-426; 523-561; Id., Introduzione a L’età giolittiana nelle lettere di Scipio Sighele, Trento, Società di Studi Trentini di Scienze Storiche, 1977, pp. 9 ss.; F. Perfetti, Il movimento nazionalista in Italia, cit., pp. 125 ss.; N. Gridelli Velicogna, Scipio Sighele. Dalla criminologia alla sociologia del diritto e della politica, Milano, Giuffrè, 1986, pp. 61 ss. (51) S. Sighele, Pagine nazionaliste, Milano, Treves, 1910, pp. 16 ss.

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coincidenza quindi dell’annessione della Bosnia Erzegovina all’Impero austro-ungarico, le cui ripercussioni in Italia costituirono un profondo spartiacque nel modo di intendere la realtà dei rapporti internazionali (52), Sighele appariva convinto della necessità di saldare l’aspirazione al ricongiungimento alla madrepatria delle regioni, ancora da essa separate, al tronco della «novissima pianta della vita politica italiana che si chiama nazionalismo» (53). Di qui, da un fermo antigiolittismo, dalla spietata critica delle degenerazioni del sistema parlamentare, dalla condanna dello scarso o inesistente spirito patriottico del socialismo (54), e dalla valorizzazione della guerra come «necessità» e come «dovere», in occasione dell’impresa di Libia (55) derivò l’avvicinamento di Sighele a Corradini. A quest’accostamento seguì la sua nomina alla presidenza del Congresso nazionalista di Firenze del 1910 (56), e, infine, la sua partecipazione al Consiglio centrale dell’ANI. Fu, però, quello, un idillio di breve durata, che si infranse per Sighele,

(52) L. Albertini, Le origini della guerra del 1914. I. Le relazioni europee dal Congresso di Berlino all’attentato di Sarajevo, Milano, Bocca, 1942, pp. 199 ss.; G. Volpe, Italia moderna, cit., III, pp. 29 ss. (53) S. Sighele, Risveglio italico, agosto 1909, in Id., Pagine nazionaliste, cit., p. 214. Sui veri obiettivi della Triplice alleanza, che in quel momento apparivano comportare di necessità «l’egemonia in Europa della Germania e l’abbandono dei Balcani alla monarchia austro-ungarica», una spietata diagnosi era già in A. Labriola, Storia di dieci anni, 1899-1909, Milano, Il Viandante, 1910, pp. 149 ss. (54) S. Sighele, La patria e i socialisti, aprile 1909, in Id., Pagine nazionaliste, cit., pp. 173 ss. (55) Id., La dottrina nazionalista, in Il nazionalismo e i partiti politici, Milano, Treves, 1911, pp. 34 ss. (56) Sul Congresso di Firenze, P. M. Arcari, Le elaborazioni della dottrina politica nazionale fra unità e intervento (1870-1914), Firenze, Il Marzocco, 1934-1939, 2 voll., II, pp. 606 ss.; F. Perfetti, Il movimento nazionalista in Italia, cit., pp. 61 ss.

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come per Arcari e per Borelli (57), nell’impossibilità di tradurre il credo nazionalista ufficiale in una strategia, in grado di coniugare una politica estera né passiva né rinunciataria con la riforma interna del Paese e di mantenerne in vita l’anima liberale, democratica e persino radicale senza contaminazioni con il movimento «retrogrado, clericale, antisemita, legittimista» di Maurice Barrès (58). Nel 1912, Sighele usciva, infatti, dagli organi dirigenti dell’ANI ed esprimeva l’inconciliabilità delle sue posizioni con un partito «del quale è sempre più palese l’attitudine reazionariaclericale» (59), aggiungendo, in una lettera al nipote Gualtiero, la sua soddisfazione per quella rottura pubblica e senza possibilità di riconciliazione. Il pubblico ha avuto la sensazione che c’era nell’Associazione Nazionalista qualche cosa di ambiguo e di gesuitico – e questa impressione non si perderà più. Io sono contentissimo e serenissimo, non solo e non tanto per me, quanto perché io credo di esser stato lo strumento inconscio di un’opera di sincerità del nazionalismo. Adesso il pubblico sa veramente che cosa sia il nazionalismo: vedremo chi andrà da lui. Per fortuna si può essere buoni patrioti anche senza essere nazionalisti – e devo aggiungere francamente che il modo della polemica mi ha rivelato ciò che per tanto tempo non volevo credere e che pure mi si diceva: vale a dire che sono (57) F. Gaeta, Il nazionalismo italiano, cit., pp. 126-127. (58) S. Sighele, Nazionalismo italiano e nazionalismo francese, agosto 1909, in Id., Pagine nazionaliste, cit., pp. 217 ss. Sul punto, R. Pertici, Nazionalismo francese e nazionalismo italiano: la mediazione di Francesco Coppola (1910-1916), in Nazione e anti-Nazione. II. Il movimento nazionalista dalla guerra di Libia al fascismo (1911-1923), cit., pp. 63-88. (59) Scipio Sighele al cognato Orsini, s. d (ma maggio 1912), in L’età giolittiana nelle lettere di Scipio Sighele, cit., p. 247.

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degli egoisti e degli arrivisti coloro che s’attaccano al nazionalismo, non per puro ideale, ma per manifestare i loro istinti di violenza e il loro orgoglio di superuomini. Noi, cioè tu ed io siamo al di fuori e al di sopra: perché – volere o no – il nostro pur diverso nazionalismo è nato da un’unica fonte l’irredentismo (60).

Era un distacco che arrivava, tuttavia, troppo tardi, quando ormai l’eredità risorgimentale dell’irredentismo si era in larghissima parte snaturata a contatto di altri valori e altre ideologie. E ciò, paradossalmente, era avvenuto anche in virtù delle prese di posizioni di Sighele, che nel luglio del 1910 aveva sostenuto, proprio a proposito dell’impatto rivoluzionario delle teorie di Corradini, sia la necessità di non concepire la vita politica interna «come scopo a se stessa» sia l’esigenza di porre «il fine della Nazione fuori della Nazione» in un processo di espansione della patria italiana che poteva fregiarsi senza timori e senza riserve del nome di «imperialismo» (61). Un saggio di questa violenta torsione nazionalistica dell’irredentismo lo avrebbe fornito anche Volpe nella primavera del 1914, in occasione della pubblicazione di un opuscolo miscellaneo che la «Dante Alighieri» aveva affidato alle sue cure, nella quale lo storico chiamava a raccolta sotto le insegne di quell’associazione tutti coloro che percepivano «il senso di certi bisogni sempre più urgenti della nostra vita nazionale» (62). Quali fossero questi (60) Scipio Sighele al nipote Gualtiero, 12 maggio 1912, ivi, p. 249. (61) Id., Che cosa è e che cosa vuole il nazionalismo, in Id., Pagine nazionaliste, cit., pp. 237-238. (62) G. Volpe, La «Dante Alighieri» e la vita italiana fuori dai confini, introduzione a Per la Dante Alighieri nel XXV anniversario della sua fondazione, numero unico a cura del Comitato di Milano, 19 aprile 1914, p. 1, cui riman-

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«bisogni» era presto detto: la custodia del patrimonio storico e culturale italiano, ovvero la rinnovata promozione «di ricchezza, di civiltà nostra, di forza politica e militare» nel quadro di un’agguerrita competizione internazionale. Nel XII secolo, da quando si era «affacciata alla storia come Nazione», l’Italia, sosteneva Volpe, aveva conosciuto un’epoca di «meravigliosa forza espansiva», nella quale «aveva agito sul mondo col fiore della sua gente». Allora, l’intero bacino del Mediterraneo, con le valli alpine, aveva delimitato il perimetro della civiltà italiana. Poi era venuta la decadenza, l’Italia si era ritratta «dai mari lontani». Il Canton Ticino, il Trentino e l’Istria, «fatti italiani dalla natura e dalla storia, si saldarono a organismi politici ed etnici d’Oltre Alpe». Malta, la Corsica e infine Nizza passarono anch’esse in mani straniere, e così pure la Dalmazia, la Tunisia e l’Egitto, «Paesi fuori dal cerchio segnato dalla natura attorno alla penisola», ma italiani «per antichi legami politici e culturali e demografici». In questo modo, «l’italianità dappertutto, poco o molto, cedeva», fino a essere messa in pericolo dall’emorragia dell’emigrazione - «poco più che forza bruta di lavoro» dispersa nel mondo da anche per le altre citazioni. Il contributo di Volpe, che è ora ristampato in appendice a E. Di Rienzo, Storia d’Italia e identità nazionale, cit., pp. 204 ss., costituiva, appunto, l’apertura di un numero unico dedicato alla «Dante Alighieri» nel XXV anniversario della sua fondazione, al quale collaboravano: S. Jacini, Emigrazione e lingua italiana; E. G. Parodi, Dante Alighieri; C. Salvioni, Le condizioni della cultura italiana nel Ticino; G. Mira, Il sottocomitato studentesco di Milano della Dante Alighieri; S. Benco, L’Università italiana a Trieste; A. Tamaro, Trieste e la Dalmazia per la coltura italiana. Sul punto, Gioacchino Volpe ad Alessandro Casati, Santarcangelo di Romagna, 28 febbraio 1914, in Archivio Centrale dello Stato, Fondo Alessandro Casati: «So che sei stato fuori d’Italia per vari giorni. Ci racconterai qualche cosa, e forse mi darai qualche buon consiglio per un numero unico che la sezione milanese della Dante Alighieri vuol pubblicare il 21 aprile».

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- e dall’aggressività di altri nazionalismi. Alla «nuova Italia» non si poteva certo chiedere di invertire il corso della storia, «lo spostamento di centro della vita europea e mondiale» era ormai «definitivo»; e tuttavia qualcosa poteva ancora essere salvato, soprattutto anche se non esclusivamente sulle sponde dell’Adriatico. Il destino dell’Italia era legato a una rinnovata e più consapevole fiducia, dentro i confini nazionali e ovunque vi fossero italiani che intendessero far valere gli spiriti vitali delle loro tradizioni e la forza della loro civiltà: Questa conservazione e difesa dell’italianità nel mondo, sia essa inconsapevole e latente o consapevole e spiegata come una bandiera, noi la dobbiamo volere per un senso di fraterna solidarietà con chi ci è affine di sangue, di memorie, di linguaggio. Noi la dobbiamo volere per attaccamento quasi filiale a ciò che ci fa Nazione, cioè al nostro patrimonio ideale in se stesso, per coerenza quasi con noi stessi, col nostro passato, con la nostra storia che sarebbe quasi rinnegata o perduta se noi rinnegassimo o perdessimo la nostra lingua (63).

In questo passo, la valorizzazione degli aspetti più propriamente culturali della nazionalità - la condivisione di una lingua, di tradizioni, usi e costumi sedimentatisi nel tempo - si giustapponeva semplicemente all’unione sancita dai secolari rapporti di parentela e di sangue. L’aspirazione a fondare su basi organiche la comunità nazionale non era un tratto peculiare della riflessione di Volpe, che al contrario escludeva, in linea di principio, ogni rigido determinismo razziale dalla sua analisi. Volpe era, infatti,

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(63) G. Volpe, La «Dante Alighieri» e la vita italiana fuori dai confini, cit.,

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poco disposto a formulare una rigorosa teoria etnica della Nazione, e, in ossequio al suo pur particolare liberalismo, evitava di attribuire allo ius sanguinis un’influenza decisiva nel divenire storico, poiché quel diritto rischiava di negare ogni valore al libero concorso degli individui alla formazione della stirpe. A sostanziare di moventi e attitudini l’organismo nazionale non era la somma di alcuni tratti distintivi eterni e naturali, bensì la progressiva “naturalizzazione” di un insieme di elementi culturali in perenne svolgimento. La Nazione era un’entità storica, non biologica, era «etnia» non «razza», come Volpe avrebbe sostenuto con vigore all’interno della sua intera produzione storiografica (64). Nazione equivaleva, infatti, a un legame comunitario, che il vincolo di sangue poteva certamente rafforzare, al cui interno, però, era ancora possibile salvaguardare l’autonomia di una scelta libera e individuale in una sorta di «plebiscito di tutti i giorni» (per dirla con Ernest Renan) (65), grazie al quale il singolo poteva riconoscersi, in virtù di una decisione non obbligata, parte di un destino collettivo. In questo modo, era, così, esaltato il ruolo delle aristocrazie intellettuali, le sole depositarie davvero consapevoli, essendo le custodi della continuità storica, «dell’intima natura e delle necessità vitali di stirpi e di Nazioni» (66).

(64) E. Di Rienzo, La storia d’Italia di Gioacchino Volpe, in «L’Acropoli», 6, 2005, 4, pp. 423-445; Id., La storia e l’azione. Vita politica di Gioacchino Volpe, cit., pp. 20-27; B. Figliuolo, Gioacchino Volpe, i “Lambardi”, i “Romani” e la nascita della “Nazione italiana”, in Giuseppe Galasso storico e maestro, a cura di E. Di Rienzo, Roma, Società Editrice Dante Alighieri - “Biblioteca della Nuova Rivista Storica”, 2019, pp. 1-32. (65) E. Renan, Qu’est-ce qu’une Nation? Conférence faite en Sorbonne, le 11 mars 1882, Paris, C. Lévy, 1882. (66) G. Volpe, Italia moderna, cit., II, p. 333.

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L’intero opuscolo della «Dante Alighieri» portava il segno di questi convincimenti. Se quella pubblicazione accoglieva un intervento di Attilio Tamaro sulla cultura italiana a Trieste e in Dalmazia, non privo di motivi schiettamente sciovinistici (67), Volpe, per controbilanciare quella voce aveva chiesto ad Arcari di poter utilizzare, in quella stessa sede, un saggio sulla Corsica di Oreste Ferdinando Tencajoli, molto più moderato nei toni, già apparso sull’organo ufficiale dell’ANI, «L’Idea Nazionale» (68). Tra i collaboratori di quel fascicolo Volpe avrebbe voluto avere anche Giovanni Boine, suo antico allievo con cui si era mantenuta una stretta frequentazione (69), con un intervento sugli italiani a Nizza. Da questi riceveva, però, un garbato, ma fermo e molto significativo rifiuto, che batteva sull’impossibilità di fare dei propri scritti un «cordiale nazionalista» (70). Argomento che Boine ribadiva nella lettera a Alessandro Casati del 23 marzo. Ho paura che la mia gita a Milano sfumi. Se venivo, avrei chiacchierato volentieri personalmente con i direttori dell’Azione e con vari altri. Per es. con Volpe ch’io temo di avere irritato per la faccenda su Nizza. Ti ho spiegato che (67) A. Tamaro, Trieste e la Dalmazia per la cultura italiana, in Per la Dante Alighieri, cit., p. 5. (68) Gioacchino Volpe a Paolo Arcari, 9 marzo 1914, in Archivio Epistolare Arcari, Biblioteca Civica Paolo e Maria Arcari di Tirano. (69) G. Boine, Carteggio III. Giovanni Boine-Amici del “Rinnovamento”, 1905-1917, a cura di M. Marchione e E. Scalia. Prefazione di G. Vigorelli, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1977, 2 voll., I, pp. 330, 360, 485; II, p. 667; Id., Carteggio IV, cit., p. 105. (70) Id., Carteggio III, cit., p. 839: «Mi aveva scritto Volpe chiedendomi uno studio su gli italiani a e di Nizza per la Dante. Gli risposi che l’avrei fatto ma che non poteva essere un cordiale nazionalista. Non me ne disse più niente. Uno studio su Nizza non può essere un cordiale nazionalista perché i Nizzardi son contenti di essere francesi e gli italiani che ci vanno contenti di diventar nizzardi».

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avendomi egli chiesto uno studio sugli italiani di Nizza per il futuro numero unico della “Dante Alighieri” milanese io cominciai col manifestargli il mio malumore verso la Dante in genere: e gli dissi ch’io avrei fatto lo studio sebbene non credessi potesse servirci per scopi di eccitamento nazionalistico. Gli ho scritto che i nizzardi son felicissimi di essere francesi, che gli italiani di questa parte della Liguria trovano troppo spesso nell’emigrazione in Provenza l’unico rimedio alle loro miserie per essere eccessivamente italiani, e che infine qui si sono sentite persino delle voci invocanti una annessione alla Francia. E citavo fatti d’incuria governativa che fomentano questi sentimenti e facevo confronti fra il benessere economico che la Francia ha saputo se non creare, secondare sulla riviera, oltre il confine, e il malessere nostrano. Ciò non deve essergli andato a genio. Non m’ha più risposto. Vuoi un po’ informarti di questa cosa? E se mai assicurarlo ch’io sono un buon patriota e che il malumore per la Dante è una faccenda minima ed in gran parte locale e sentimentale (71).

Una presa di distanza, questa, che non restituisce integralmente la complessità delle questioni in gioco, considerato che proprio Boine, aderendo pochi mesi prima al progetto dell’«Azione», aveva proposto alla rivista una riflessione sul nazionalismo incentrata su una sorta di «razzismo spiritualista», teso proprio a spiegare come il pensiero potesse incarnarsi in una razza rimanendo nondimeno pensiero (72).

(71) Giuseppe Boine ad Alessandro Casati, 7 giugno 1914, cit. (72) Id., Carteggio IV, cit., p. 346. Sul punto, G. Benvenuti, Boine, Gobineau e la letteratura, in Nel nome della razza, a cura di A. Burgio, Bologna, il Mulino, 1999, pp. 115 ss.

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Per indole e formazione, Volpe non tentò mai comunque di dare sistematicità alle sue idee su cosa fosse la Nazione o il nazionalismo. Sul piano dell’azione politica, però, il paradigma della stirpe storicamente individuata orientava le sue analisi, tanto da indurlo a salutare la guerra, quale opportunità per abbattere quei «corpi politici misti» (l’Impero austro-ungarico e la Russia zarista), ormai sul punto di perire di fronte all’imperioso emergere delle diverse nazionalità che in essi si giustapponevano. La messa in campo della necessità di una sia pure relativa etnicizzazione della comunità nazionale, pena la sua stessa sopravvivenza, e l’avvilimento delle ambizioni espansionistiche, che naturaliter le competevano, non erano elementi in contrasto con la visione sostanzialmente non etnocentrica di Volpe: l’ancoraggio dell’italia­nità a un patrimonio culturale, divenuto tratto naturale col susseguirsi delle generazioni, non aveva, infatti, una valenza «statica». La Nazione così intesa poteva, anzi doveva evolversi e quindi espandersi in ragione dello stadio raggiunto dalla propria civiltà. In questo caso, comunque, Volpe preferiva parlare di nazionalismo e colonialismo piuttosto che d’imperialismo, che mal si adattava alle tradizioni del liberalismo, e quindi di nazionalismo orientato semmai a tutelare l’equilibrio tra Grandi Potenze e a favorire la «civilizzazione» di altri popoli attraverso una politica culturale ed economica di «assorbimento» e non per mezzo di «violenze governative», esattamente come aveva sostenuto Caroncini polemizzando con Ruggero Fauro sull’«Azione» (73). Una distinzione, questa, che pesava nel dialogo con i nazionalisti (73) A. Caroncini, Italiani e slavi nell’Adriatico, in «L’Azione», 11 ottobre 1914, p. 3. Si veda anche, Id., La minaccia slava e il dovere italiano, ibidem, 2 agosto 1914, p. 1.; Id., Il problema italiano nell’Adriatico, ibidem, 8 novembre 1914, pp. 1-2. Sulle stesse posizioni, W. Cesarini Sforza, Il problema della Dalmazia, ibidem, 21 marzo 1915, pp. 1-2.

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ufficiali dai quali i Nazionali Liberali intendevano distinguersi nel rifiutare - secondo il programma esposto da Volpe nel dicembre 1914 - il semplicismo di alcune indicazioni teoriche, e la tendenza a «formulare una dottrina della Nazione» che, negando le classi, finiva quasi per «dimenticare il popolo», annullando del tutto la politica interna nella politica estera. Ma nel rifiuto del verbo predicato dall’ANI contavano anche le insopprimibili ragioni del realismo politico, la considerazione del calcolo preciso delle forze in gioco, che spesso la retorica provinciale e municipalistica di quel movimento aveva finito per dimenticare: I nazionalisti si sono immobilizzati quasi obbligati nella politica estera e nella contemplazione di un’Italia signora delle genti, di un’Italia non solo arbitra delle sue genti, ma anche di altre genti. E concepiscono la preparazione militare, un po’ semplicisticamente come accumulazione di molti soldati, di molti fucili e cannoni, senza per avventura pensar molto se è possibile e può dar frutti un tale esercito dove siano cattive finanze pubbliche, e un popolo che è ancora in parte plebe, malessere e scontento. […] Da essi ci separano certe loro esagerazioni e lo sviluppo ipertrofico di taluni organi; noi non crediamo di poter formulare una dottrina della Nazione e del nazionalismo; non ci sentiamo di annullare le questioni sociali nelle questioni della politica estera e dell’espansione; ci pare contrario e alle nostre tradizioni e ai nostri interessi alimentare in noi e quindi incoraggiare negli altri uno spirito di sopraffazione imperialistica, che è un po’ l’antico Faustrecht germanico rammodernato e che rappresenterà un pericolo per le Nazioni meno numerose e più deboli come noi siamo e certamente rimarremo relativamente ad altre Nazioni (74). (74) La propaganda nazionale liberale. A Milano, il discorso di G. Volpe, in «L’Azione», 20 dicembre 1914, pp. 1-2.

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Ciò nonostante, continuava Volpe, i punti di contatto tra i due movimenti rimanevano molti, essendo i Nazionali Liberali «cordialmente» d’accordo con i nazionalisti dell’ANI: nel credere alla necessità urgente che sia corroborata, tonificata la vita della Nazione come unità; che essa acquisti il senso della sua continuità, che cacci da sé il morbido pacifismo e dia ai giovani virile educazione; che essa compia se stessa e giunga ai confini etnici che sono anche i confini storici e naturali; che sostenga i milioni di emigranti perché non siano snaturati e dirazzati e imbastarditi; che essa non si apparti dal campo delle competizioni coloniali che sono pur sempre scuola di energia, mezzo di accrescer la ricchezza complessiva della Nazione; che governanti e governati sentano e pratichino il sacrificio degli interessi individuali, locali, regionali a quelli generali e nazionali. Ma detto questo, noi diciamo anche che la libertà economica deve essere il mezzo per distruggere in Italia molti contrasti regionali e di classi e quindi rafforzare la vita della Nazione; deve essere il mezzo per eliminare forze non pure, dar la vittoria all’intelligenza, alla volontà, alle abilità tecniche e di organizzazione nel campo industriale, creare delle élites (75).

Secondo Volpe, comunque, i veri motivi che spingevano l’Italia verso il conflitto erano quelli iscritti nel pensiero della Destra storica, in quei «liberali generosi che avevano fatto l’Italia» seguendo i dettami di un equilibrato ma non imbelle realismo, la cui eredità era stata purtroppo dispersa dalle classi dirigenti successive fino a Giolitti. Di fronte a quel depotenziamento del «vero liberalismo», solo la guerra avrebbe potuto corroborare (75) Ivi.

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davvero l’organismo nazionale, mettendo ogni suo membro «al cospetto della rude realtà»: il primato della forza nella storia e, dunque, l’inevitabilità della solidarietà e coesione sociale per rafforzare la continuità storica della Nazione. Era quella una continuità radicata nella tradizione dei rapporti sociali, nella «costituzione materiale» del Paese, come Volpe aveva tenuto a ribadire di fronte alle spinte sovversive che, all’inizio della primavera del 1915, parevano aver contagiato anche quella parte dello schieramento interventista (che pure era restato legato al mantenimento dello status quo istituzionale), quando, ad esempio, il gruppo dei «Liberali monarchici» diede la propria disponibilità al Comitato interventista di Roma ad aderire, in caso di mancato intervento dell’Italia in guerra, ad un moto rivolto anche contro la corona (76). Assurdo e incomprensibile era invece per Volpe che i veri liberali si associassero alle minacce del fronte democratico e addirittura a quelle della propaganda sovversiva, repubblicana, radicale, anarchica e socialista, racchiuse nella formula «o Guerra o Repubblica!» (77), senza capire che con la monarchia sarebbe crollato l’intero ordine sociale sul quale era stata edificata l’Italia. Il pretesto per un nuovo fendente contro tali sgraditi compagni di strada era offerto a Volpe dal commento all’assemblea promossa, il 6 aprile a Milano, dalla Lega Nazionale Italiana, che aveva visto l’intervento di tre deputati: il liberale, Giuseppe De Capitani d’Arzago, e i radicali Gasparotto e Arnaldo Agnelli. Contro questi esponenti parlamentari, Volpe utilizzava tutta la (76) Archivio Centrale dello Stato, A5G, PGM, b. 89, f. 198, sf. 14, Notizie di un fiduciario repubblicano, 13 marzo 1915. (77) M. Antonioli, Nazionalismo sovversivo?, in Da Oriani a Corradini, cit., pp. 177 ss.

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sua vis polemica per biasimare l’attendismo filisteo del primo, il vacuo democratismo degli altri e in generale l’ipocrita machiavellismo da sottoprefettura di una classe politica imbelle e discutidora. De Capitani non disse in verità né si né no. Contegno da ministro in pectore che voglia e che debba essere riservatissimo…contegno da interventista che abbia elettori neutralisti, piuttosto contegno da neutralista che abbia elettori interventisti…. Si limitò a dire che se il governo chiamerà egli è pronto all’appello. A uomini del suo colore che non predicano la diserzione né minacciano la rivoluzione in caso di guerra, si chiedeva qualcosa di più; e il comizio era appunto per le franche parole, specialmente di quelli che avendo più alto ufficio nella vita pubblica, hanno anche più doveri e più responsabilità. Ma l’on De Capitani non ha voluto compromettersi. Del resto, la grandissima maggioranza dei deputati italiani ha fatto e sta facendo peggio di lui: tace addirittura, si dà latitante. Così un domani potrà indifferentemente, senza pericolo di troppa contraddizione, esaltare la desiderata e vittoriosa guerra, o maledire chi abbia condotto il Paese alla sconfitta, rinfacciare ai governanti l’occasione perduta per le sacre rivendicazioni, gridare tre o più volte a mo’ di conclusione: Italia, Italia, Italia. Più espliciti, pur con qualche nota che tradiva, in essi, l’abitudine di bazzicare con le società per la pace, gli on. Agnelli e Gasparotto, esponenti di quella media della cittadinanza che si è venuta, lentamente e con qualche riluttanza, orientando verso la guerra e la giustifica e la invoca, pur con la preoccupazione di non cedere troppo. Specialmente il secondo: egli è contrario alla guerra e alle guerre, ma questa volta bisogna farla. Oggi che, bene o male, la guerra c’è, noi possiamo approfittarne per la causa dell’umanità e dell’italianità, per vendicare le offese fatte alla legge universale della solidarietà, per affrettare la pace – 43 –


e renderla definitiva, per risolvere i problemi nazionali… Con maggiore robustezza ragionò l’Agnelli. Piacque anche, in lui, quella sua ripugnanza a pappagalleggiare sulla ormai famosa “coltura tedesca”, com’è diventato obbligo di tanta gente che perché è interventista si sente di dover essere germanofoba e, peggio, perché è germanofoba, vuole dispregiare il nemico, anche se fino a ieri l’adorava. Ieri servi, oggi liberti, mai uomini liberi (78).

Il più affilato aculeo dell’intervento era però altrove. Ed era, precisamente, nella fermissima replica contro l’ordine del giorno, votato dall’assemblea, che mentre ammoniva «che se mai alla lunga attesa seguissero delusioni quali che siano, vi sarebbero inevitabilmente profondi rivolgimenti politici», poneva automaticamente in essere l’inaccettabile alternativa «o guerra, o rivoluzione». Da quella linea d’azione Volpe si distaccava nettamente, pur non risparmiando nel finale un’esplicita accusa d’ignavia dell’inquilino del Quirinale, e affermava: Finora noi chiamavamo “mentalità giacobina” (e anche “repubblicana”) questo svuotar le forme di governo di ogni contenuto reale, disconoscere tutte quelle forze storiche che in un dato momento – per noi assai vicino – hanno condotto un Paese a sistemarsi monarchicamente o repubblicanamente, negar ogni legame organico fra la struttura sociale, le condizioni culturali di un popolo e le sue istituzioni politiche. Ma il bacillo giacobino acquista forza diffusiva, come pare! Dio mio, anche con una Repubblica si può vivere! Esistono tante cose sotto il sole! Ma ve la figurate voi l’Italia in regime di Repubblica, che presuppone non degli uomini virtuosi, (78) G. Volpe, I costituzionali milanesi per l’intervento, in «L’Azione», 18 aprile 1915, p. 1-2. L’articolo era datato 8 aprile.

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come si diceva una volta, ma una tradizione unitaria radicata, un sentimento nazionale e militare vigoroso, un relativo equilibrio economico e culturale nelle varie regioni, cioè delle forze proprie, interne di coesione? Ve la figurate voi in regime di Repubblica questa Italia che si è ricucita insieme con stento e fatica sessanta anni fa, che ha tanto squilibrio nelle sue parti, che ha mille particolarismi e campanilismi, che è pacifista nell’anima, che ha un’economia capitalista, cioè unitaria, ancora così arretrata, che ha tanti avvocati e arrivisti della politica? Ve la figurate voi una Repubblica spinta su non perché si sia voluto abbattere un determinato “sistema”, non perché si sia voluto demolire una classe sociale strettamente legata e solidale con la Monarchia, ma per lo sdegno verso la colpa o l’accidia di un uomo dimostratosi più buon padre di famiglia che Re, più raccoglitore di monete che soldato? (79)

Questo stesso «rappel à l’ordre» fu ribadito da Volpe nella lettera del 16 maggio 1915, indirizzata a Benedetto Gandolfi, esponente di rilievo del Comitato interventista di Milano. In quella comunicazione, si minacciavano le dimissioni dal Comitato, nel quale anche il gruppo Nazional Liberale, presieduto da Volpe, era entrato a far parte, per collaborare, superando le passate pregiudiziali, con socialisti riformisti e radicali favorevoli all’entrata in guerra. Tale collaborazione era stata, tuttavia, molto lontana dal dare i frutti sperati, se Volpe, ora, era costretto a porre a Gandolfi questa sorta di stringente ultimatum. Si tratta di chiedere una volta per sempre se è possibile a uomini di nostra parte di collaborare con quella che ormai, dopo una lenta infiltrazione di rappresentanti di gruppi e gruppetti, è diventata la grande maggioranza del comitato e (79) Ivi.

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che, mi pare, è cresciuta anche di esigenze col crescere di numero e forse non sarebbe dolente di far da sé, solo da sé. […] Come norma per l’avvenire io dichiaro: noi siamo dei monarchici, è risaputo; siamo tali non nel senso di amar la monarchia più della Nazione - nessuno è autorizzato ad attribuirci questa scempiaggine - ma nel senso di credere la monarchia utile e necessaria all’Italia, ad un’Italia ancora così povera di suoi propri organici elementi coesivi e così ricca di tendenze particolaristiche e di squilibri regionali e priva di coscienza nazionale autonoma; utile e necessaria, forse, anche se per avventura alla monarchia toccasse, per cecità o deficienza del suo attuale o di un suo qualunque rappresentante, di venir meno ad un suo altissimo dovere. Anche in questo caso non sarebbero annullate le altre e più generali ragioni, per le quali crediamo alla utilità e necessità della monarchia in Italia, a 50 anni dalla sua costituzione. Si vuol considerare questa fede come cieca? Sia pure: farà il paio con la fede cieca dei repubblicani nella virtù miracolosa della repubblica, che è, viceversa, una cosa da fabbricare, mentre l’altra è una forza che esiste e ha radici, sia pur non profondissime, nel Paese. […] Noi eravamo disposti a scendere in piazza, magari a trascendere ad una agitazione violenta contro il pericolo di un ministero Giolitti. Siamo disposti a insistere energicamente perché alla guerra si arrivi, perché sia, se non svalutato il Parlamento, esautorata la Camera attuale e magari bastonato per le vie d’Italia il suo creatore e capo. Siamo disposti a lavorare per tenere su, durante la guerra, lo spirito pubblico del paese. Noi ci arrestiamo, però, alle soglie della rivoluzione. E non solo se si tratta di farla, ma anche se si tratti di minacciarla (80). (80) La lettera, conservata nel Fondo Gioacchino Volpe, presso la Biblioteca Comunale Antonio Baldini di Santarcangelo di Romagna, faceva riferimento

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Dopo più di un decennio, Volpe avrebbe elogiato il fermo atteggiamento del governo italiano nel 1914 che aveva saputo opporsi ala mobilitazione popolare dei diversi schieramenti favorevoli a un immediato intervento (81). Nessuna presa di distanza stimò tuttavia di dover opporre ai bellicosi editoriali dell’«Azione» delle giornate di maggio, dove all’esaltazione della violenza di piazza si sommò la richiesta di una «dittatura del monarca» (82). Una dittatura non più costituzionale (83), ma egualmente legittima, e tale perché suffragata dal volere di una nuova «aristocrazia» nazionale. Ancora una volta la Monarchia plebiscitaria chiama a sé quanto di più vivo e di più caldo è nel popolo italiano e ne fa la sua milizia. È una nuova élite politica e militare che si all’Ordine del giorno dei Comitati interventisti milanesi, in Archivio Centrale dello Stato, A5G, PGM, b. 105, f. 225, sf. 11. Sulla fusione delle parole d’ordine dell’interventismo nazionalista, democratico, repubblicano, socialista rivoluzionario, si veda B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, cit., p. 294. Sul deragliamento dell’interventismo d’ordine su posizioni eversive dello status quo istituzionale, B. Vigezzi, Da Giolitti a Salandra, cit., pp. 175 ss.; E. Papadia, Nel nome della nazione, cit., pp. 205 ss. (81) G. Volpe, La neutralità italiana nella seconda metà del 1914, cit.: «Il Governo italiano, come non cedé a qualche pressione interventista di chi giurava sulla vittoria tedesca (Guido Fusinato) o temeva che la neutralità ci precludesse ogni politica da Grande Potenza (Sonnino, 1° agosto), così non ebbe a piegarsi a correnti anti-tripliciste, e tanto meno a pretese minacce di rivoluzione agitate, come poi in Francia si scrisse, sotto ispirazione dell’ambasciatore a Roma, Camille Barrère». (82) A. Caroncini, La parola al Re, «il Resto del Carlino», 14 maggio 1915, in Id., Problemi di politica nazionale, cit., pp. 274 ss. (83) L’ultima speranza, in «L’Azione», 16 maggio 1915: «La nostra ultima speranza è nel Re. Se essa fallirà, la vendetta popolare cadrà inesorabile sulle istituzioni vuotate d’ogni residuo di funzione e di decoro italiano». Si veda anche, a crisi terminata, A. Caroncini, Viva il Re!, «Il Resto del Carlino», 17 maggio 1915, in Id., Problemi di politica nazionale, cit., p. 276: «Re e Popolo si sono intesi, al disopra di tutti gli intermediari costituzionali».

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stringe intorno al trono e plasma di sé lo Stato; un’aristocrazia di audaci che doveva pur un giorno sostituirsi all’oligarchia giolittiana generata nell’atto elettorale, cioè alla negazione di ogni coraggio e di ogni rigidità intellettuale e morale. La dittatura del Re, questa ha voluto il popolo italiano contro la dittatura del politicante. La guerra, che noi imprendiamo, sarà lunga e ostinata. Una parte del popolo ha bisogno di essere trascinata dall’esempio di coloro che la guerra sentono e vogliono intensamente. È questa l’ora della borghesia italiana (84).

Nessuna presa di distanza dalla virulenza di questi accenti, che avrebbero contraddistinto l’attivissima presenza nazionale liberale nelle manifestazioni interventiste di maggio, a Roma, Bologna, Genova e in Toscana (85), da parte di Volpe, si diceva, ma anzi un suo aperto consenso al carattere ormai antisistema dei moti di piazza antigiolittiani, e in favore della guerra, testimoniato dalla stesura del manifesto indirizzato alla popolazione milanese, il 23 maggio. Il governo di Antonio Salandra avviava l’Italia alla sua maggiore impresa nella storia, alla liberazione dei fratelli tutti, minacciati di sterminio, all’integrazione del confine naturale, alla sicurezza dell’Adriatico romano e veneziano, alla partecipazione nell’opera di salvezza dei minori popoli brutalmente aggrediti. Una banda di uomini senza fede e (84) Intorno al Re, in «L’Azione», 23 maggio 1915, p. 1. Volpe ritornava su questo tema nel volumetto, Vittorio Emanuele III, Milano, Ispi, 1939, pp. 97 ss. Sul punto, ora, U. Ungari, La guerra del Re. Monarchia, sistema politico e Forze Armate nella Grande guerra, Milano, Luni Editrice, 2018, pp. 49 ss. (85) La campagna contro Giolitti dei Nazionali Liberali, in «L’Azione», 23 maggio 1915, p. 2.

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senza onore, trescando con lo straniero, col nemico, ha tentato di attraversare il destino della nuova Italia: destino di dignità e di gloria. Contro questo delitto è scoppiato e cresce di ora in ora lo sdegno. Se l’eccesso di scrupolo in un Re costituzionale può giustificare un attimo di esitanza di fronte alle manifestazioni di una falsa maggioranza parlamentare, la volontà popolare oramai palese e unanime dice alla Maestà del Re: “Scacciate gli uomini rei del tradimento della Patria” (86).

Più tardi, a guerra già iniziata, al ricorso della dittatura provvisoria, per affrontare lo stato di emergenza, in Volpe, si sarebbe addirittura sostituita l’ipotesi di una soluzione eversiva in grado di debellare definitivamente l’idra multiforme del «vario neutralismo italiano». Ora è tornata la fiducia che la guerra possa finir bene per noi; la battaglia non è ancora cessata, nonostante il silenzio dei comunicati; ed è possibile che da un momento all’altro giunga qualche notizia grande intorno alle azioni presso l’Ermada che è stato finora il baluardo inespugnabile dell’esercito austro-ungarico a difesa di Trieste. Chi sa! Sarebbe il modo migliore per scompigliare l’oscena propaganda giolittiana papalina che si sta facendo contro la guerra, magari a costo di provocarla un’altra guerra, quella civile (87).

Già nel luglio del 1914, Alfredo Rocco aveva parlato di una «pratica rivoluzionaria» che doveva sancire la fine irreversibile del (86) G. Volpe, I Liberali Nazionali di Milano per la guerra, ivi, pp. 2-3. Dello stesso tono era l’anonimo editoriale, I Nazionali Liberali milanesi e le dimostrazioni per la guerra, ibidem, 16 maggio 1915, p. 1. (87) Gioacchino Volpe a Elisa Serpieri Volpe, 31 settembre 1917, Fondo Gioacchino Volpe, Biblioteca Comunale Antonio Baldini di Santarcangelo di Romagna.

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sistema liberale e parlamentare, che si era identificato con il «giolittismo» (88). Allora, infatti, avrebbe più tardi ricordato Giovanni Gentile, «giolittismo si disse la malattia da cui la guerra avrebbe guarito l’Italia» (89). E a quasi un trentennio dal «maggio radioso» del 1915, Volpe, infine, non si nascondeva che la discesa del Paese nel teatro bellico era stata da alcuni considerata l’occasione rivoluzionaria per rovesciare i risultati rovinosi di «dieci anni di politica nefasta», arrivando a dichiarare che, solo considerando questo presupposto, si sarebbe potuti arrivare a capire l’«interventismo del 1914-15 che invocò la guerra, fra l’altro, come un mezzo per liberar l’Italia da Giolitti» (90). Anche Salvemini, d’altra parte, avrebbe seriamente considerato, alla vigilia del conflitto, la possibilità di una «rivoluzione» per determinare l’ingresso del Paese nel teatro bellico (91). E sempre (88) A. Rocco, In piena pratica rivoluzionaria, «Il Dovere nazionale», 11 luglio 1914, poi in Id., Scritti e discorsi politici, con una Prefazione di Benito Mussolini, Milano, Giuffrè, 1938, 3 voll., I, pp. 117-118. (89) G. Gentile, La crisi morale, «Politica», 15 ottobre 1919, in Id., Dopo la vittoria, Roma, La Voce, 1919, pp. 69 ss., in particolare p. 73. (90) G. Volpe, Italia moderna, cit., III, p. 253. Sul punto, si veda anche Id., Gabriele D’Annunzio. L’Italiano, il Politico, il Combattente, Roma Volpe Editore, 1981, p. 57: «Molti finirono per essere interventisti perché antigiolittiani e veder nella guerra non solo e non tanto il mezzo di avere Trento e Trieste o assicurare pace perpetua o far trionfare il Diritto e la Giustizia e la Civiltà contro la “barbarie teutonica” e il “militarismo prussiano”, ma anche e forse più per liberare l’Italia da Giolitti». Il giudizio tornava in Id., Giolitti e la Monarchia, «Il Tempo», 10 febbraio 1950, p. 2, dove si invitava a «registrare questo stato d’animo di tanti Italiani d’allora, e specialmente della gioventù, invocante un rinnovamento, cioè partiti e classi dirigenti oltre che governo; registrarlo, dico, per capire poi l’interventismo del 1914-1915 che fu, tra l’altro, rivolta antigiolittiana, e gli avvenimenti che in Italia seguirono alla prima grande guerra, cioè l’“infausto ventennio”». (91) Gaetano Salvemini a Pietro Silva, 14 ottobre 1914, in Id., Carteggio, 1914-1920, a cura di E. Tagliacozzo, Roma-Bari, Laterza, 1984, pp. 52-53.

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Salvemini, con mutato giudizio di valore, avrebbe poi parlato, per definire la tentata prova di forza del partito della guerra, dell’«anomalia di una manifestazione pseudo-rivoluzionaria, favorita e persino provocata dagli uomini che erano al potere per forzare la mano al Parlamento», la quale aveva costituito la prova generale «per quell’altro colpo di stato dell’ottobre 1922, che doveva essere la marcia su Roma» (92). Più precocemente, un liberale nazionale, come Arrigo Solmi, aveva individuato invece, già nel 1919, il carattere genuinamente rivoluzionario del progetto di sospensione della legittimità costituzionale propugnato dal blocco interventista. Un blocco che, in tutte le sue diverse componenti, si arrogava la rappresentanza legittima della minoranza attiva della Nazione a decidere i destini della patria, essendo essa la sola deputata ad agire e decidere anche contro i voti della maggioranza legale, guidata dal vecchio notabilato politico. Per il sospetto, che, sotto il pretesto di un gioco parlamentare, si volesse condurre l’Italia all’ultima abiezione, il popolo italiano insorse con ammirabile energia. Dimostrazioni popolari percorsero tutte le maggiori città italiane e anche moltissime minori; a Roma, i più noti neutralisti furono pubblicamente mostrati a dito e alcuni insultati; a Roma, a Milano, a Genova, a Napoli, tutti i partiti interventisti, da quel momento, pronunciarono apertamente la formula: “o guerra o rivoluzione”; e gli incerti, i pacifici, gli assenti, fino ad allora silenziosi, uscirono nelle piazze e nelle strade, e aggiunsero la loro voce a quella dei dimostranti. Le “giornate di maggio” furono una vera (92) Id., “Lezioni di Harvard”. L’Italia dal 1919 al 1929, in Opere. VI.1. Scritti sul fascismo, a cura di R. Vivarelli, B. Valeri, A. Merola, Milano, Feltrinelli, 1966, 2 voll., I, p. 385.

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rivoluzione, poiché, risvegliando le energie sopite della grande maggioranza del popolo italiano, rivelarono che questo era ormai cosciente della sua forza e geloso della sua dignità nazionale, ed era ormai capace di levarsi concorde contro le speculazioni politiche tese nell’ombra (93).

I «due fronti» e la questione del confine orientale Più tardi, con l’ampio saggio, Il popolo italiano tra la pace e la guerra (1914-1915), edito dall’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale nel maggio del 1940, Volpe traccerà un affresco, mosso e vivace, dei sentimenti e delle ideologie che agitarono l’Italia neutrale dall’agosto 1914 al maggio 1915, senza però precisare esattamente quale posto il suo autore avesse occupato in quello che nel volume era stato definito «il vario interventismo italiano». La dichiarata appartenenza dello storico al gruppo dei Nazionali Liberali - una galassia composita d’idee e di personalità molto diverse tra loro - non era sufficiente, infatti, a rispondere a questo quesito (94). Questo interrogativo (93) A. Solmi, Il Risorgimento italiano, 1814-1918, Milano, Biblioteca della Università Popolare Milanese e della Federazione Italiana delle Biblioteche Popolari, 1919, p. 173. Sul carattere eversivo delle manifestazioni di piazza del maggio 1915, si veda la testimonianza di P. Vita-Finzi, I radiosimaggisti, in Id., Le delusioni della libertà, Firenze, Vallecchi, 1961, pp. 211 ss. (94) G. Volpe, Il popolo italiano tra la pace e la guerra (1914-1915), Milano, Ispi, 1940, p. 125: «La piccola Azione nazionale-liberale, che accoglieva articoli miei, di Caroncini, Arcari, Borgese, Volpe, Anzilotti, Grandi, Ansaldo, Cesarini Sforza, Solmi, lavorava per una borghesia più consapevole e politicamente educata, confidando appunto nella guerra». Del testo di Volpe esiste una più recente ristampa, pubblicata da Bonacci Editore nel 1992, con un’introduzione di Francesco Perfetti.

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trova la sua risposta, invece, comparando la posizione di Volpe con quella degli altri protagonisti della vita intellettuale italiana (distanti dagli orientamenti dell’interventismo democratico che aveva in Gaetano Salvemini il più noto esponente) (95), che allora agirono per provocare l’ingresso dell’Italia nel primo conflitto mondiale. In primo luogo, si potrebbe dire che al “neutralismo riflessivo” di Croce, basato su un approccio realistico al problema della guerra, corrispondeva, nonostante qualche eccesso verbale e qualche forzatura di tono, l’“interventismo ponderato” di Volpe. Quello dello storico fu, infatti, un interventismo, fondato sulla stessa inclinazione realpolitiker del filosofo. Un interventismo raffrenato sempre, dal deragliamento verso eccessi sciovinisti e imperialisti, grazie ad un’analisi penetrante e sovente spietata delle forze ma anche delle fiacchezze e delle inadeguatezze strutturali, interne alla Nazione italiana, e da una visione lucidissima delle risorse e dei rischi che comportava l’eccezionale sistemazione geopolitica del nostro Paese nel grande gioco di competizione politica ingaggiato tra le Grandi Potenze europee prima ancora del tuono dei «cannoni di agosto». Del tutto consapevole Volpe era, d’altra parte, anche di quelli che avrebbero dovuto essere i veri obiettivi della guerra italiana. La nostra presa d’armi non poteva non svilupparsi, infatti, che come una vera e propria «guerra parallela», da condursi, sì, con lealtà e sincero spirito di collaborazione, a fianco dell’Intesa, senza abdicare, però, alle nostre peculiari finalità politiche e strategiche. Quelle finalità non potevano subordinarsi supinamente, infatti, (95) A. Frangioni, Salvemini e la Grande Guerra. Interventismo democratico, wilsonismo, politica delle nazionalità, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012.

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ai traguardi perseguiti dai gabinetti di Londra e Parigi, ancora prima del maggio 1915, poiché questi si presentavano diversi e in larga parte antitetici a quelli rincorsi dal governo italiano. In altri termini, l’interventismo dello storico poco aveva a che fare sia con l’ingenuo interventismo irredentista, che vedeva nel conflitto il proseguimento delle guerre risorgimentali, sia con quello, a matrice ideologica, impersonato da Salvemini che concepiva il conflitto non come il mezzo di garantire all’Italia una più adeguata sistemazione strategica ma come una sorta di bellum iustum combattuto dalle Nazioni democratiche (paradossalmente alleate con l’autocrazia zarista) per arrivare alla definitiva resa dei conti il presunto sistema illiberale e autoritario rappresentato dagli Imperi centrali (96). Era quella di Volpe una posizione, già precocemente e chiaramente espressa nell’editoriale, Ora o mai più!, che s’identificava sostanzialmente, lo si è visto, con le finalità d’interesse

(96) G. Salvemini, Guerra o neutralità?, Milano, Rava & C. Editori, 1915. Molto comprensivo per le rivendicazioni dei Comitati iugoslavi operanti delle capitali dell’Intesa, Salvemini manteneva comunque un atteggiamento guardingo verso la nascita di una «Grande Serbia» e sosteneva la necessità di ottenere, al termine del conflitto «una situazione militare meno sciagurata di quella che sortimmo, in terra e nell’Adriatico, dalla guerra del 1866». Si veda G. Salvemini, Guerra o neutralità?, cit., rispettivamente, pp. 15-18, 19-21. Sullo stesso punto, Id., La guerra per la pace, «L’Unità», 28 agosto 1914; La Dalmazia, in «Il Secolo», 9 novembre 1914; Finis Austriae, «L’Unità», 12 marzo 1915; Le garanzie della futura pace, ibidem, 28 maggio 1915, in Id., Opere complete. III. 1. Come siamo andati in Libia e altri scritti dal 1900 al 1915, a cura di A. Torre, Milano, Feltrinelli, 1963, pp. 359 ss., 370 ss., 491 ss., 525 ss. Si vedano, ancora, da ultimi, Id., Austria e Dalmazia, «L’Unità», 17 gennaio 1918; La questione dell’Adriatico (1918), in Id., Opere. III.2. Dalla guerra mondiale alla dittatura, 1916-1925, a cura di C. Pischedda, Milano, Feltrinelli, 1964, pp. 147 ss., pp. 395 ss.

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nazionale, contemplate da Salandra (97), Sonnino (98), dagli uomini della nostra diplomazia e tra questi, in particolare, dal Segretario generale della Consulta, Giacomo De Martino che, il 31 ottobre 1914, così scriveva Salandra: Il programma dei confini naturali è un programma minimo ma non è un programma sufficiente in caso di nostra partecipazione alla guerra. Facendo la guerra dobbiamo avere per obiettivo, oltre la conquista delle terre italiane, anche la supremazia nell’Adriatico: diversamente non vale la pena di fare (97) A. Salandra, Il discorso del Campidoglio, 2 giugno 1915, in Id., I discorsi della Guerra, con alcune note, Milano, Treves, 1922, pp. 35 ss., in particolare pp. 48-49: «Nel Libro Verde, preparato da Sidney Sonnino, al quale è vanto della mia vita essere legato con piena solidarietà, dopo trent’anni di amicizia, si può leggere un ingenuo documento austriaco in cui si dice press’ a poco: “No! Questo non possiamo darvelo, perché ci guasterebbe il confine militare”. Ma non si trattava di un confine militare di difesa per l’Austria, bensì di un confine militare di offesa per l’Italia, perché si trattava di lasciare aperte le porte di casa nostra. Sull’Adriatico nessuna concessione, poi ci fu mai offerta, neanche all’ultimo. [….] Io penso che cosa avreste detto voi, voi Italiani, che cosa avrebbe detto il nostro Parlamento se noi, uomini di governo, ci fossimo presentati, annunziando che eravamo in pieno accordo con l’Austria-Ungheria, che avremmo avuto una parte del Trentino e qualche altro piccolo lembo di terra non oltre l’Isonzo, ma solo, come ci fu ingiunto da Vienna, a pace compiuta». Si veda anche Id., La neutralità italiana, 1914, cit., pp. 28-44, 57- 61, 87-90, 151-153, 377-387; Id., L’intervento, 1915. Ricordi e Pensieri, Milano, Mondadori, 1930, pp. 118-119 e per le richieste fatte a Vienna prima dell’apertura delle ostilità, pp. 153-160, 166-170, 188-189, 190-199. (98) Si veda il lungo telegramma inviato da Sidney Sonnino all’ambasciatore a Londra, Guglielmo Imperiali di Francavilla, 16 febbraio 1915, in I Documenti Diplomatici Italiani (d’ora in poi DDI), Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1952-2006, Quinta Serie, II, pp. 692-695, in particolare pp. 694-695. Si veda ancora S. Sonnino, Carteggio 1914-1916, a cura di P. Pastorelli, Bari, Laterza, 1974, pp. 152, 194, 240; Id., Il Patto di Londra firmato dall’Italia il 30 novembre 1915. Col resoconto ufficiale e completo delle sedute della Camera dei deputati (1, 2, 3, 4 dicembre) e del Senato (16 e 17 dicembre 1915), Milano, Fratelli Treves, 1916, in particolare pp. 9-11.

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la guerra. Quanto alle isole del Quarnaro e della Dalmazia, la questione va considerata sotto l’aspetto prevalente politico e strategico. Trattandosi di isole, è meno grave il pericolo d’irredentismo slavo, mentre è assolutamente predominante il fattore strategico. Di fronte alla nostra costiera adriatica piatta e senza basi navali, non possiamo lasciare ad altri quei rifugi sicuri che sono i canali delle isole dalmate, dai quali anche una mediocre forza di siluranti può costantemente minacciare la nostra costa e stancare con successo una squadra italiana incrociante nel mare aperto a difesa dei prossimi porti italiani (99).

Su questa stessa linea, comunque, finirono per convergere prima ancora della crisi bosniaca, poi dall’agosto del 1914 all’inizio delle ostilità, infine nel corso della guerra e anche durante e dopo le trattative della Conferenza di Pace di Parigi, numerosi e qualificati esponenti della classe politica e intellettuale. A favore di essa, si schierarono Giovanni Amendola, il repubblicano Salvatore Barzilai, Luigi Barzini, Augusto Capon, Alberto Caroncini, D’Annunzio, Roberto Forges Davanzati, lo slavofobo Virginio Gayda, Luigi Luzzatti, Mussolini, Roberto Paribeni, Prezzolini, Arrigo Solmi, Attilio Tamaro e con qualche forte distinguo anche Borgese e lo stesso Luigi Albertini. Tutti concordi nel valutare che la soluzione del problema del confine orientale, collegata alla secolare «questione dell’Illirico» (100), rappresentava, nonostante la diversa situazione (99) DDI, Quinta Serie, II, pp. 138-139. Sul punto, L. Monzali, Una difficile scelta. Il Patto di Londra e la politica estera italiana 1914-1915, in «Acta Histriae», 26, 2017, 4, pp. 919-939; Id. Alcune considerazioni sul Patto di Londra e la politica estera italiana fra il 1914 e il 1915, in Istituzioni politiche e mobilitazioni di piazza, a cura di A. Ciampani e D. M. Bruni, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2019, pp. 267-283. (100) Th. Mommsen, Le province romane da Cesare a Diocleziano, Torino, Roux e Viarengo, 1905, p. 186: «I confini della Dalmazia e della Macedonia sono

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storica determinata dall’affermarsi del «principio di nazionalità», il compenso minimo e irrinunciabile da saldarsi all’Italia per il suo ingresso nel conflitto (101). nello stesso tempo il limite politico e linguistico dell’Occidente e dell’Oriente. Presso Scutari si toccano così i dominî di Cesare e di Marco Antonio, come quelli di Roma e di Bisanzio dopo la spartizione dell’impero, nel sec. IV. Qui confina la provincia latina della Dalmazia con la greca della Macedonia; qui sta, vigorosamente ambiziosa e superiore, animata dal più potente spirito di propaganda, accanto alla maggiore, la più giovane sorella». Sul punto, D. Džino, Illyricum in Roman Politics, 229 BC-AD 68, Cambridge, Cambridge University Press, 2010; Id., Becoming Slav, becoming Croat: Identity Transformations in post-Roman and Early Medieval Dalmatia, Leiden, Boston, Brill, 2010; E. Ivetic, Adriatico orientale. Atlante storico di un litorale mediterraneo, Rovigno, Unione Italiana Fiume - Università Popolare Trieste, 2014, pp. 17-130; Id., Un confine nel Mediterraneo. L’Adriatico orientale tra Italia e Slavia (1300-1900), Roma, Viella, 2014. Sull’utilizzazione del precedente storico dell’Illirico, riguardo la questione del confine orientale, si veda M. Pigliucci, La teoria del confine naturale italiano tra “equivoci” interpretativi e reminiscenze augustee. Una proposta interpretativa, in «Bollettino della Società Geografica Italiana», Serie XIII, Vol. IX, 2016, pp. 163-172; G. Bandelli, Carlo Maranelli e Gaetano Salvemini contro Attilio Tamaro. Il ricorso all’antico nella “Questione dell’Adriatico”, 1914-1919, in Attilio Tamaro e Fabio Cusin nella storiografia triestina. Atti del Convegno in ricordo di Arduino Agnelli, a cura di S. Cavazza - G. Trebbi, Trieste, Editreg, 2007, pp. 93 ss.. (101) S. Barzilai, Dalla Triplice alleanza al Conflitto europeo. Discorsi parlamentari e scritti vari (1906-1914), Roma, Editrice Nazionale, 1914, pp. 7 ss., 33 ss., 66 ss., 118 ss., 131 ss., 151 ss., 162 ss., 189 ss., 208 ss., 219 ss., 223 ss.; V. Gayda, L’Italia d’oltre confine. Le provincie italiane d’Austria, Torino, Fratelli Bocca, 1914; L. Barzini, Gli Italiani della Venezia Giulia, Milano, Rava & C. Editori, 1915; G. A. Borgese, Italia e Germania, Milano, Treves, 1915, pp. 307 ss.; G. Prezzolini, La Dalmazia, in «La Voce», 7 maggio 1915, pp. 7 ss.; Id., Letture sulla Dalmazia, ibidem, 7 giugno 1915, pp. 10 ss., poi raccolti in Id., La Dalmazia, Firenze, Libreria della Voce, 1915; A. Tamaro, L’Adriatico - Golfo d’Italia. L’italianità di Trieste, Milano, Milano, 1915; Id., Italiani e Slavi nell’Adriatico, Roma, Athenaeum, 1915; Id., La Vénétie Julienne et la Dalmatie. Histoire de la Nation italienne sur ses frontières orientales, Rome, Imprimerie du Sénat, 1918-1919, 3 voll.; R. Paribeni, L’Italia e il Mediterraneo orientale, Roma, Edizioni “L’Italiana”, 1916; Adriacus (pseudonimo di Augusto Capon), Da Trieste a Valona. Il problema adriatico e i diritti dell’Italia, Milano, Alfieri

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La parola definitiva, su questo punto, risultò, infine, essere quella pronunciato da Ruggero Fauro (pseudonimo di Ruggero Timeus) l’animoso irredentista triestino le cui tesi mal si conciliavano, nonostante le sue stesse affermazioni, con «le tendenze patriottiche e unitarie del nostro Risorgimento propagandate da Mazzini». Per Timeus, infatti, se «l’irredentismo antico partiva dal principio dell’indipendenza nazionale per tutti i popoli», il nuovo irredentismo, che avrebbe dovuto portare al & Lacroix, 1918; Luigi Albertini a Federico De Roberto, 28 gennaio 1915, in Id., Epistolario: 1911-1926. I. Dalla guerra di Libia alla Grande Guerra, a cura di O. Barié, Milano, Mondadori, 1968, p. 237, dove si parlava del «nostro confine sfavorevole, mostruoso, e della nostra impossibile situazione nell’Adriatico»; Id., Parole e Ragioni, in «Corriere della Sera» 3 febbraio 1918; G. D’Annunzio, Italia e vita, Roma, presso La Fionda, 1920, in particolare, pp. 30-33; A. Solmi, L’Adriatico e il problema nazionale, Milano, Biblioteca di propaganda del Gruppo Nazionale Liberale, 1920; G. Giurati, La vigilia, cit., pp. 136 ss. Per la posizione di Caroncini, si veda supra nota 35 e 70. Per quella di Amendola, Volpe, Mussolini, Forges Davanzati, Luzzatti, si veda rispettivamente A. Capone, Giovani Amendola, Roma, Salerno Editrice, 2013, pp. 177-178; E. Di Rienzo, La storia e l’azione, cit., pp. 190, 218-222, 225-231; M. Bucarelli, Mussolini, la questione adriatica e il fallimento dell’interventismo democratico, in «Nuova Rivista Storica», 95, 2011, 1, pp. 137-205; F. Imperato, Roberto Forges Davanzati, il nazionalismo italiano e la politica estera italiana (1911-1918), Lecce, Maisto Editore, 2006, pp. 42 ss., 111 ss.; E. Ivetic, Luzzatti, la Questione adriatica e il Promemoria sulla Dalmazia, in Luigi Luzzatti e la Grande guerra. Temi e vicende dell’Italia divisa: dall’intervento ai trattati di pace, a cura di P. L. Ballini, Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti, 2006, pp. 5162. Sul punto, F. Salimbeni, La questione adriatica nella storiografia tra guerra e dopoguerra. Rileggendo Salvemini, Salata, Tamaro e Volpe, in La Conferenza di pace di Parigi fra ieri e domani (1919-1920), a cura di A. Scottà, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, pp. 155 ss; L. Monzali, Italiani di Dalmazia. Dal Risorgimento alla Grande Guerra, Firenze, Le Lettere, 2004, in particolare pp. 169 ss.; Id., Il sogno dell’egemonia. L’Italia, la questione jugoslava e l’Europa Centrale (1918-1941), Firenze, Le Lettere, 2010, pp. 7-34; M. Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, 1866-2006, Bologna, il Mulino, 2007, in particolare ai capitoli I-III.

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riscatto degli Italiani del confine orientale, non si ancorava a un principio universale ma si poneva l’obiettivo della grandezza e della sicurezza dell’Italia, del suo predominio assoluto sull’Adriatico e della sua espansione nel Mediterraneo. Questa concezione implicava, da un lato, il conflitto con l’Austria («padrona del nostro mare») e, dall’altro, l’intensificazione dello scontro interetnico con l’elemento germanico e soprattutto slavo su tutto il Litorale adriatico. Scontro che era visto come «una fatalità storica ineluttabile perché il progresso della civiltà procede non per accordi ma per lotta tra le razze» e poiché «da noi anche lo slavo e il tedesco che vive talvolta nella nostra stessa casa è un nemico che si deve odiare e combattere senza quartiere». Agli occhi di Timeus, dunque, già prima dello scoppio del conflitto, la soluzione della questione nazionale sul limes nordorientale costituiva «una lotta per l’esistenza» che non poteva chiudersi con una conciliazione o un compromesso ma che doveva terminare o con la vittoria o con la sconfitta della «stirpe italiana» a Trieste, nell’Istria ma anche nella Dalmazia dove «questa, a rischio di essere sommersa, dalla marea slava, stava morendo in piedi ma pur sempre morendo». Era, invece, proprio da quella regione che doveva muovere l’impulso per arrivare all’egemonia dell’Italia sui mari e le coste che erano stati di Roma e di Venezia, e che erano da considerarsi, oggi come ieri, al pari della cerchia alpina, gli storici antimurali della Penisola (102). (102) R. Fauro, Trieste, Roma, Gaetano Garzoni Provenzali, 1914, p. 9; Id., Scritti politici, 1911-1915, Trieste, Tipografia del Lloyd Triestino, 1929, pp. 11, 57, 63, 126. Su Timeus, si veda B. Coceancig, Ruggero Timeus Fauro, Trieste, Associazione Nazionalista Italiana, 1920; A. Ara - C. Magris, Trieste. Un’identità di frontiera, Torino, Einaudi, 1982, pp. 63-64; D. Redivo, Ruggero Timeus. La via imperialista dell’irredentismo triestino, Trieste, Edizioni Italo Svevo, 1996; M. Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, cit., pp. 61-63. Si veda

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Si trattava, cioè, come Volpe ribadì a più riprese, dopo il 1919, di arrivare sul nostro confine orientale (terrestre e marittimo) alla conquista di una situazione di sicurezza strategica e di possibilità di proiezione verso Adriatico, Balcani e Levante ottomano che, con l’acquisto di uno «spazio vitale», esteso, oltre l’Isonzo, dall’intero sistema delle Alpi Giulie, a Trieste, all’Istria, alla Dalmazia, a Valona, avrebbe dovuto sigillare a est i nostri confini (103). Era un acquisto territoriale, questo, da far valere, nell’immediato, contro la spinta aggressiva della Duplice Monarchia, domani, nei confronti dell’espansionismo di una Germania, quasi sicuramente subentrata al languente Impero asburgico (104), nel possesso dell’Österreichisches Küstenland, come Volpe avrebbe ricordato, alla fine di ottobre del 1917. Tutti sanno che gli obiettivi territoriali, per cui noi combattiamo, sono uno dei punti vitali e più gelosamente guardati non solo dall’Austria che li possiede, ma anche dalla Germania che li appetisce o meglio li pone nel quadro della più grande Germania di un avvenire non lontano, li considera una delle sue grandi porte, forse la più importante, sul libero anche il numero monografico di «Quaderni Giuliani di Storia», 15, 1994, 2, pp. 9-38, con scritti di Ruggero F. Rossi, Elio Apih, Giulio Cervani, Diego Redivo. (103) G. Volpe, Tornando dalla Dalmazia, in «La Sera», 21 aprile 1919. L’articolo è riprodotto in Appendice, infra, pp. 286-294; Id., Vittorio Emanuele III, cit., p. 99: «In ultimo, la guerra, pur non provocata da noi, divenne necessità […] Geografia e storia, pericolo di rimanere schiacciati da potenti imperialismi e aspirazione e bisogno di crescere, ma innanzi tutto proposito di risolvere una buona volta i problemi della frontiera di nord-est e dell’Adriatico, per avere più libertà d’azione in altri settori, ci facevano dell’intervento una legge». (104) Sul processo di dissoluzione dell’Impero asburgico accelerato e poi portato a conclusione dalla Grande Guerra, H. Rumpler (ed.), Die Habsburgermonarchie und der Erste Weltkrieg, Vienna, Verlag der Österreichischen Akademie der Wissenschaften, 2016, 2 voll.

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mare, la via maestra verso il Levante. Tradizioni marittime triestine, ben orientate verso i Paesi della Turchia asiatica e aspirazioni imperialistiche tedesche combaciano perfettamente. Danubio, Penisola balcanica con suo centro a Salonicco, Adriatico sono, per la Germania della ferrovia di Bagdad, un grande territorio che costituisce politicamente unità. Per due anni, la Germania si è contentata di osservare da lontano il duello italo-austriaco. Bastava l’Austria a fronteggiare il comune avversario. […] Ma ora che l’Austria vacilla, la Germania interviene. E interviene non per dovere di alleata, ma per la difesa di una sua posizione, di una sua ambizione, di una necessità del suo imperialismo europeo e orientale. Noi quindi abbiamo di fronte, in questo momento, non più l’Austria, aiutata dai tedeschi, ma la Germania che costruisce a spese dei popoli mediterranei il suo avvenire. E non dubitiamo neppure che essa non sia per impegnarsi fino a fondo in questa sua impresa meridionale; che essa non vi si dedicherà con quante forze ha disponibili; che non le ritirerà da tutti i fronti, anche dal fronte franco-inglese se necessario, pur di poter alimentare la guerra quaggiù. L’ultimo uomo e l’ultimo marco, che non siano necessari per difendere i centri vitalissimi dell’Impero, possiamo esser quasi sicuri che essa li impiegherà per conservare all’Austria, cioè a se stessa, Trieste e l’Adriatico. […]. Essa non entrerà mai in trattative con noi e con l’Intesa per i territori italiani della monarchia austroungarica; non certamente per Trieste e l’Istria, neppure forse per Trento che è un grande punto strategico ed è anche una grande tradizione imperiale germanica non mai scomparsa del tutto e combaciante ora col più moderno imperialismo della Germania industriale e militare» (105).

(105) G. Volpe, Grande onore e grande onere, «La Sera», 30 ottobre 1917.

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Inoltre, verosimilmente, l’acquisto di un confine militare sicuro, sarebbe stato indispensabile per parare la minaccia proveniente da una «Grande Serbia» o dall’alleanza di minori Stati jugoslavi che, in un prossimo futuro, grazie al sostegno diplomatico francese, avrebbero potuto dominare tutta la «Slavia meridionale» (106). Era questo il principale obiettivo della guerra italiana sul quale aveva insistito con grande chiarezza il telegramma inviato da Sonnino, il 21 marzo 1915 (poco più di un mese prima della sigla del Patto di Londra) (107) agli ambasciatori, accreditati presso la capitale britannica, Parigi e Pietrogrado, Guglielmo Imperiali di Francavilla, Tommaso Tittoni, Andrea Carlotti. Il movente principale determinante la nostra entrata in guerra a fianco dell’Intesa è il desiderio di liberarci dalla intollerabile situazione attuale di inferiorità nell’Adriatico di fronte all’Austria per effetto della grande diversità delle condizioni fisiche e geografiche delle due sponde al punto di vista della offesa e della difesa militare, diversità che è stata resa più grave dalle armi e dalle forme della guerra moderna. Pel resto, l’Italia potrebbe probabilmente conseguire la maggior parte dei desiderata nazionali con un semplice impegno di mantenere la neutralità e senza esporsi ai terribili rischi e danni di una guerra. Ora non varrebbe la pena di mettersi in guerra per liberarsi dal prepotente predominio austriaco nell’Adriatico (106) V. G. Pavlović, De la Serbie vers la Yougoslavie. La France et la naissance de la Yougoslavie, 1878-1918, Belgrade, Institut des Etudes Balkaniques, 2005. Si veda anche E. Boudas, L’Italie et les Alliés de 1914 à 1919. Indépendance ou subordination?, Paris, Université Sorbonne Nouvelle - Paris III, 2009, in particolare, pp. 166 ss.; F. Le Moal, La France et l’Italie dans le Balkans, 19141919. Le contentieux adriatique, Paris, l’Harmattan, 2016. (107) Sul punto, G. Astuto, La decisione di guerra. Dalla Triplice Alleanza al Patto di Londra, Soveria Manellli, Rubbettino, 2019, pp. 471 ss.

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quando dovessimo ricadere subito dopo nelle stesse condizioni d’inferiorità e di costante pericolo di fronte alla Lega dei giovani ambiziosi Stati jugoslavi. Per queste stesse ragioni dobbiamo insistere anche sulla neutralizzazione della costa da Cattaro inclusiva fino alla Vojussa. Alla Croazia sia che resti unita all’Austria-Ungheria sia che se ne distacchi resterà la costa da Volosca fino alla Dalmazia, con le isole più prossime di Veglia, Arbe, Pago ecc. Come porto principale avrebbe Fiume oltre altri porti minori nel Canale di Morlacco. Alla Serbia e al Montenegro, che probabilmente si fonderanno e si consoceranno presto, resterà la costa dalla Narenta fino al Drin, coi porti importanti di Ragusa e di Cattaro oltre quelli minori di Antivari, Dulcigno, S. Giovanni Medua e le foci della Bojana, i quali tutti possono servire di sbocco a ferrovie trasversali, dando accesso al mare, senza uscire dal proprio territorio, alla Bosnia Erzegovina diventata presumibilmente Serba ed a tutto l’hinterland serbo-montenegrino. All’Albania centrale musulmana resterebbe Durazzo. La Grecia manterrebbe l’Epiro oggi da Lei occupato provvisoriamente. Le principali città della Dalmazia sono rimaste prettamente italiane malgrado sessanta anni di pertinace politica slavizzante dell’Austria, e così pure buona parte delle isole prospettanti la costa. E tali dovranno divenire de iure. Lo stesso ministro degli Esteri russo, Sazonov nell’agosto scorso ammetteva, infatti, che la Dalmazia, “da Zara a Ragusa” (non disse “da Zara a Sebenico”) andasse all’Italia se questa prendeva parte alla guerra a fianco dell’Intesa» (108).

L’idea che proprio questo vitale traguardo fosse osteggiato dai soci di maggioranza dell’Intesa rimase, per Volpe, un ostinato convincimento per tutta la durata del conflitto. A poco più di un (108) DDI, Quinta Serie, III, pp. 134-135.

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anno dal nostro ingresso in guerra, egli restava fermissimo nel suo atteggiamento di guardinga attenzione, se non davvero di profonda sfiducia verso i partner dell’alleanza. Questi sentimenti si manifestavano con toni taglienti nella lunga lettera, inviata a Corrado Barbagallo nel giugno 1916, in risposta all’invito a partecipare all’attività del Comitato internazionale francoitaliano (109). Un’associazione, sostenuta e finanziata dal Quai d’Orsay, che si prefiggeva di sostenere, in comunità d’intenti con l’Istituto francese di Firenze diretto da Lucien Luchaire, lo sforzo bellico congiunto delle due «sorelle latine», esaltandone le comuni matrici culturali e politiche al fine di promuovere un programma unitario, in grado di contrastare, sul piano propagandistico, l’egemonia della Kultur tedesca (110). (109) Per il giudizio non favorevole su quell’associazione, G. Volpe, Il popolo italiano nella Grande Guerra, 1915-1916, a cura di A. Pasquale. Prefazione di G. Belardelli, Milano-Trento, Luni, 1998, p. 138. (110) Con lo scoppio della prima guerra mondiale e la scelta neutralista operata dal Regno d’Italia, nell’agosto 1914, l’Istituto francese di Firenze divenne un attivissimo centro di propaganda a favore dell’intervento italiano al fianco delle Potenze dell’Intesa contro gli Imperi centrali. Luchaire organizzò e animò direttamente cicli di conferenze in molte città d’Italia, volte a mostrare l’«orrore della guerra tedesca» e la vicinanza storica e culturale delle «sorelle latine». Italia e Francia, che avrebbero dovuto combattere, fianco a fianco, contro la «barbarie» della Kultur tedesca, in un confronto di tipo razziale. In questa fase, Luchaire valorizzò i suoi contatti con gli ambienti della cultura e della politica italiana, transitati nel movimento interventista: alle sue riunioni parteciparono anche uomini come Benito Mussolini (al quale Luchaire, stando a ciò che racconta nelle sue memorie, avrebbe fornito un finanziamento). Nel 1916, fu fondata la Lega latina della gioventù, animata da Jean Luchaire, figlio primogenito di Julien, e da Leo Ferrero, figlio di Guglielmo, che coinvolse giovani studenti dei licei fiorentini come Alessandro Pavolini, Nello Rosselli, Pier Filippo Gomez o Franco Passigli. Sul punto, G. Volpe, Italia moderna, cit., III, pp. 412 ss.; S. Mastellone, La rivista “France-Italie” (1913-1914) e la corrispondenza Ferrero-Luchaire, in «Il Pensiero Politico», 11, 1978, 1, pp.

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Alla sprovveduta francofilia di Barbagallo, che aveva provocato, già nel novembre 1915, una crisi di rapporti vissuta sul piano strettamente culturale dai due storici (111), Volpe contrapponeva un giudizio politico di sospettoso attendismo verso le reali intenzioni delle Potenze occidentali, all’Italia legate da un’«alleanza negativa» ma non «propositiva», che non consentiva, neppure ora, 58-69; I. Renard, L’Institut français de Florence (1900-1920). Un épisode des relations franco-italiennes au début du XXe siècle, Roma, Collection de l’École française de Rome, 2001; C. Papa, L’Italia giovane dall’Unità al fascismo, Roma-Bari, Laterza, 2013, pp. 216 ss.; C. Zanfi, Croce e i fiorentini durante la Prima guerra mondiale. Un fronte franco-tedesco nella filosofia italiana, in «Storicamente» 14, 2018, pp. 1-44 (https://storicamente.org/prima-guerramondiale-benedetto-croce). (111) Pietro Silva a Gioacchino Volpe, 6 gennaio 1916, Archivio della Scuola Normale Superiore di Pisa: «Quanto alla “Nuova Rivista Storica”, le cose stanno così. Me ne scrisse il Barbagallo al principio di novembre, ma io rifiutai perché speravo nella resurrezione degli Studi storici di Crivellucci e perché credevo poco attuabile l’idea di sei direttori. Al principio di dicembre tornò alla carica il Porzio ed io rimasi ancora riluttante, tanto più che i direttori da sei dovevan diventare otto o anche dieci, e tra questi era anche l’Anzilotti, col quale da più di un anno ho rotto ogni rapporto. Ma Porzio ha insistito portandomi un argomento al quale non ho potuto resistere: la partecipazione di Lei. Ed ora a convincermi pienamente giunge la Sua lettera. Quindi è inteso: se Ella entra, entro anch’io, e insieme con Lei nel reparto medievale. Ma non le nascondo che, pur entrando, ho dubbi fortissimi sulla possibilità di un’impresa durevole. Temo che il Porzio e il Barbagallo voglian fare della Rivista un’arma di battaglia non solamente scientifica; e coi loro metodi di polemica chissà dove si può arrivare! […] Infine c’è il fatto, al quale Ella accenna benissimo, che l’antigermanesimo applicato a una Rivista Storica può condurre a conseguenze pericolose, a risultati diametralmente opposti a quelli che si voglion raggiungere». Sul punto, ora, B. Figliuolo, Come nacque la «Nuova Rivista Storica», in “Eretica per tutti”. La “Nuova Rivista Storica” dalla Grande Guerra alla Repubblica, a cura di E. Di Rienzo, Roma, “Biblioteca della Nuova Rivista Storica” - Società Editrice Dante Alighieri, Roma, 2020 (in corso di stampa). Sull’impegno di Barbagallo, profuso per il rafforzamento della «solidarietà latina» tra Francia e Italia, si veda B. Bracco, Storici italiani e politica estera. Tra Salvemini e Volpe, 1917-1925, Milano, Angeli, 1998, pp. 50 ss.

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di dimenticare la sistematica avversione, dimostrata nel passato, soprattutto da Parigi, alle naturali mire espansionistiche italiane. Ambizioni, ieri, sempre frustrate in Africa, per mantenere il controllo di quel quadrante strategico nelle mani di un condominio franco-inglese, oggi, ostacolate in Levante, per favorire la Grecia, e, nel futuro prossimo, destinate a esser forse disattese nuovamente al fine di assecondare il giovane nazionalismo slavo. Io appartengo a quegli Italiani che, senza accampar, di fronte alla Francia, pregiudiziali di nessun genere, pure sono sempre sotto l’impressione di quella che è stata la politica francese verso l’Italia da molti anni. Fra i più vivi ricordi, direi fra le più dolorose ferite della mia giovinezza, vi è la lettura di certi, di molti giornali francesi al tempo della guerra d’Abissinia, venti anni fa, al tempo della disfatta di Adua. Non ho potuto dimenticare; non abbiamo, molti di noi Italiani, potuto dimenticare! E le molte parole di fratellanza latina che da allora in poi, quasi con ricorsi periodici, si sono pronunciate e tutti i principî e tentativi di ravvicinamento mi hanno trovato scettico, mi hanno fatto scuotere il capo. E l’ultimo due anni fa crollò, in modo da rinfrescare dolorosamente i ricordi. Ora stiamo combattendo una comune guerra, è vero; ora siamo alleati. Ed è già qualche cosa. Ma è ancora poco per poter alimentare una fiducia ben fondata sull’avvenire. La nostra è, per ora, più un’alleanza negativa che propositiva: abbiamo bisogno gli uni degli altri contro un egual nemico e basta. Ma i nostri rapporti, i nostri normali rapporti come si stabiliranno? Vi saranno dei fatti, per piantarli su basi diverse che nel passato, o si seguiterà a chiacchierare, a rievocar la latinità ecc. ecc.? L’accordo sarà fatto mettendo noi lo spolvero su tutto ciò che è avvenuto nell’Africa settentrionale negli ultimi trenta anni, là dove noi avevamo interessi superiori alla stessa – 66 –


Francia (Tunisia), relazioni politiche felicemente avviate e assai promettenti (Marocco)? La Francia ci ha compiutamente soppiantato, giovandosi di quella sua forza superiore alla nostra che adesso tutti rimproverano alla Germania, giovandosi di certe diffidenze inglesi verso di noi, delle manovre di Bismarck per legar noi alla Triplice. Rimase la Tripolitania: ma quanto non l’avete, voi Francesi e Inglesi, tagliuzzata da tutte le parti, pigliandovi le oasi, deviando le carovaniere! È rimasto uno scheletro e lo avete lasciato all’Italia, dicendo sì, alcune belle parole quando l’Italia vi stese su le mani, ma soffiando sopra gli Arabi contro di noi, chiudendo un occhio o tutti e due al contrabbando, agendo insomma, sostanzialmente, non molto diversamente dall’Austria e dalla Germania. Allora avemmo l’impressione che proprio dovessimo mettere gli stranieri tutti in un mucchio e non valesse la pena di far distinzioni. Venne poi l’inizio della crisi d’oriente, venne la politica ellenofila ed italianofoba o quasi della Francia e dell’Inghilterra. Come potevamo noi amare la Francia, amare l’Inghilterra? Lasciammo questo compito alla nostra radicaleria massonica e ai vecchi spasimanti del “tradizionale amico”, gli Inglesi. Adesso quindi ci chiediamo ancora: dovranno seguitare questi due Paesi a stuzzicare la Grecia contro di noi, ad alimentare le sconfinate ambizioni dei greculi moderni per farsene degli amici contro di noi? E anche ora, forse, le direi una bugia, se le dicessi che vedo del tutto chiari i rapporti Francia-Serbia-Italia, che trovo rassicurante per l’avvenire delle nostre relazioni l’atteggiamento di accentuata jugoslavofilia di molti scrittori e uomini politici francesi, proprio mentre voi dite che bisogna iniziare il blocco latino e anglosassone contro gli Imperi centrali. Si direbbe che volete tenervi insieme Italiani e Serbi, lusingare gli uni con una bella parolina all’orecchio e gli altri con altra parolina, anche se e – 67 –


dove gli interessi degli Italiani e dei Serbi possono essere in contrasto… Dunque, egregio amico, aspettiamo. Vedremo i fatti. E dai fatti ci lasceremo subito disarmare. Non chiediamo di meglio che di essere disarmati. “La Francia dovrà apparire ai nostri occhi ed essere una migliore alleata della Germania”. Ecco, semplicemente, il nocciolo del problema; il quale si presenta, del resto, sempre e a tutti così. Non è la maggiore o minore affinità etnica, di linguaggio o altro che può determinare le alleanze. Non vedete, ora, unite Inghilterra e Russia? E la Francia non è da venti anni alleata dell’Impero moscovita fatto di Slavi e di Mongoli? Viceversa Spagna, Italia e Francia si sono piuttosto guardate in cagnesco. E ora la nostra sorella in latinità, la Romania, si muoverà … solo se noi vinceremo. Ma queste sono banalità, tanto risultano essere chiare e semplici, né serve insistervi sopra (112).

Come Guido De Ruggiero, anche Volpe pensava che i legami tra i popoli non potessero avere altra ragione di essere che una transeunte e continuamente aggiornabile comunanza d’interessi, (112) Gioacchino Volpe a Corrado Barbagallo, 16 giugno 1916, Fondo Gioacchino Volpe, Biblioteca Comunale Antonio Baldini di Santarcangelo di Romagna. Corsivi nel testo originale. La lettera si concludeva, in questo modo: «Ma giusto per farle vedere che sono assai ben disposto a lavorare per il futuro aggruppamento dell’Europa antiteutonica, le ricordo ciò che lei un anno fa mi disse a proposito del futuro Congresso storico da tenere a Pietroburgo [sic]. Ha trovato altri che voglia preparare una partecipazione degli studiosi italiani a quel congresso? Se no, e se la persona di un non-francofilo come sono io le pare adatta, io sono disposto ad occuparmene. Andai a Londra, quattro anni fa, e feci di quel convegno di storici un’ampia relazione per l’Archivio Storico Italiano (credo la più ampia che ne sia stata fatta): volentieri andrò a Pietroburgo [sic] e stenderò un’altra relazione, forse con tanto maggiore piacere». Sulla «gallofobia» di Volpe e il suo atteggiamento di diffidenza per «una Francia, sempre pronta ad attraversare ogni avanzamento dell’Italia» si veda, Id., Italia moderna, cit., III, p. 10 ss., pp. 386 ss.

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e che lo scoglio del realismo politico costituiva l’insormontabile ostacolo, contro cui avrebbe sempre naufragato malamente qualsiasi intesa basata su una presunta affinità etnica o razziale o sull’equivoco concetto di un’immaginata «democrazia universale» (113). Queste conclusioni erano state già formulate, nell’ottobre del 1914, quando lo storico non soltanto si dichiarava estraneo a qualsiasi sentimento francofilo e anglofilo, e quindi alla retorica corrente che opponeva la Germania alla Francia nei termini antitetici di «dispotismo e libertà, tenebre e luce, principio del male e principio del bene», ma andava anche oltre, prospettando la possibilità, in un domani remoto o più prossimo, di una futura alleanza italo-tedesca. Potrà essere anche che sia per venire un tempo forse preveduto e invocato da qualcuno degli artefici della Triplice alleanza, in cui noi, popolo che è sul crescere, ci dobbiamo trovare con altri popoli giovani e bisognosi, ad esempio… i tedeschi, contro vecchi accaparratori e sfruttatori del mondo: vecchi e perciò mezzo esauriti e destinati fatalmente a cedere ad altri il posto. Di questo conflitto tra giovani e non più giovani, tra ricchi di beni e ricchi di uomini c’è già qualche cosa nella guerra attuale. Direi anche che esso ne formi il nocciolo. E con ciò abbiamo anche un po’ la giustificazione della Germania, l’attenuazione della sua colpa di aver provocato, almeno in apparenza, la guerra: la giustificazione e l’attenuazione stessa che per avventura (113) G. De Ruggiero, Il pensiero italiano e la guerra, cit., p. 133: «L’alleanza italo-francese rischierà di svanire tra le nubi di un vago idealismo, se, una volta che sia cessata la minaccia del pericolo comune, non si cercherà di fondarla su basi più solide del facile apriorismo dottrinario della democrazia che tende a subordinare questa alleanza alle esigenze estranee di una pretesa democrazia internazionale».

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potremmo ricercar noi italiani fra 100, fra 1000 anni se, Dio piacendo, seguiteremo a proliferare e a trovare il mondo ostinatamente occupato da altri. Germania e Inghilterra sono un imperialismo in formazione che lotta con un imperialismo già costituito da tempo. La differenza non è poi tanto grande. E se la Germania avesse negli ultimi decenni conservato una maggiore misura, contegno, calma, apprezzamento degli altri; se non avesse sentito bisogno di teorizzare anche sopra la sua mondiale azione pratica, seccandoci con le mille proclamazioni della provvidenziale superiorità del suo sangue e con la pretesa di missioni da compiere, a spese di tutti noi, quella differenza sarebbe ancora minore! Non dunque anglofilia o francofilia; anzi, se piace, eventuale collaborazione futura Italo-germanica. Ma a ogni generazione il suo lavoro. E ora il nostro compito è un altro; è più vicino a noi; è, se si vuole, più modesto. Ma è indispensabile compierlo prima. E sta sull’Adriatico. Il sentimento nazionale e l’invincibile attrazione che spinge l’un verso l’altro quelli che, nell’incrociarsi delle favelle, parlano la stessa lingua; la difficoltà di raggiungere o conservare, a lungo andare, equilibrio ed uguaglianza di fatto tra nazionalità diverse e diversamente forti di uno stesso Stato; la tendenza agli ingrandimenti territoriali che è propria di tutti i popoli in un certo momento del loro sviluppo, per la spinta delle forze capitalistiche e per la difficoltà di soddisfare altrimenti tanti bisogni culturali; tutto questo porterà – come ha già portato da un secolo o due – alla risoluzione di quei corpi politici misti nei loro elementi ed alla fusione di questi con le nazioni cui appartengono. Non vedete? Anche il socialismo, moto internazionale per eccellenza, si è svolto in quei paesi nazionalmente. Contare sulla gratitudine di quelli cui la nostra neutralità avesse agevolato e forse dato la vittoria, – 70 –


sarebbe pericoloso e vergognoso. Da ingenui e da accattoni. E poi una colonia si potrebbe comprare o barattare, non un lembo di patria. In questo sentimento il popolo italiano è ormai, si può dire, concorde (114).

Volpe avrebbe ulteriormente sviluppato quest’argomento, per specificare il significato che doveva assumere l’esperienza bellica, alla luce di un realismo molto distante dai contenuti ideali degli scritti di Gentile sul conflitto, dove quell’evento si rivestiva ancora del vecchio involucro teologico di «guerra giusta» (115). Nell’articolo, I maestri e la Nazione, pubblicato nel maggio 1916, sempre sulle pagine del periodico nazionale liberale, si calcolava, infatti, l’«attivo della guerra», in riferimento alla situazione interna ed esterna degli Stati europei e in rapporto al rinvigorimento dell’identità nazionale che il conflitto avrebbe determinato. Se, al termine della «guerra che da due anni impegna tutte le risorse dei popoli», la vita delle Nazioni come organiche entità ne uscirà rafforzata, di là degli acquisti territoriali, «perché la loro consapevolezza si farà più profonda, perché la morale linea di demarcazione fra esse diverrà più nitida, con vantaggio di tutti», eguale acquisto ne verrà per la vita economica, sociale, intellettuale, «poiché che la guerra per sé ravvicina, entro le varie unità nazionali, individui e gruppi, classi e partiti, funzioni e organi di vita pubblica, Stato e Nazione, e stabilisce continuità, dove erano jati, solidarietà dove erano contrasti». I frutti del conflitto non si sarebbero limitati, allora, a qualche nuova acquisto territoriale, o vantaggio economico(114) G. Volpe, Ora o mai più!, cit., p. 2. (115) G. Gentile, La filosofia della guerra, in Id., Guerra e fede, Napoli, Ricciardi Editore, 1919, p. 14. Sul punto, G. Galasso, Il debutto politico di Gentile. Introduzione agli scritti sulla prima guerra mondiale, in «Giornale critico della Filosofia italiana», 78, 1994, 2-3, pp. 401-413.

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finanziario per i membri dell’alleanza vincitrice, né nell’affermazione di qualche principio ideologico ma avrebbero provocato un’autentica «rivoluzione» dei rapporti interni e di quelli esterni per tutti i Paesi impegnati nella prova delle armi (116). Il binomio di «guerra» e «rivoluzione» sarebbe tornato in Vittorio Emanuele Orlando, nel discorso Per la Vittoria!, del 20 novembre 1918: «Questa guerra è al tempo stesso la più grande rivoluzione politico-sociale che la storia ricordi, superando la stessa Rivoluzione francese». Pochi giorni più tardi, anche Salandra sosteneva che il conflitto era stato «una grande, grandissima rivoluzione», tanto grande che nessuno doveva supporre che «passata la tempesta, sia possibile un pacifico ritorno all’antico» (117). Non costituiva, quindi, una voce isolata, quella di Volpe, quando sosteneva che il titanico scontro tra i Popoli europei poteva e doveva divenire un mezzo di «perfezionamento delle Nazioni e quindi dell’umanità», strumento indispensabile di una nuova «organizza­ zione internazionale», nel corso della quale l’avversario, come nel passato, avrebbe perso la fisionomia di nemico totale e acquisito invece lo statuto di «antagonista», fornito delle stesse motivazioni ad agire, provvisto della stessa legittimità, dinanzi al giudizio del «supremo Tribunale dei popoli». Era questo un argomento cardinale della polemica di Volpe, già apparso in un intervento del febbraio 1916, dove si smontava l’abusato feticcio ideologico del «militarismo prussiano», che aveva fatto comparsa, seppur sporadicamente, (116) G. Volpe, Il congresso dei maestri, in «L’Azione», 1° maggio 1916, poi in Id., Guerra Dopoguerra Fascismo, cit., col titolo I maestri e la nazione, pp. 3 ss., da cui si cita. (117) Si veda, rispettivamente, V. E. Orlando, Per la Vittoria!, in Id., Discorsi parlamentari, Roma, Tipografia della Camera dei Deputati, 1965, IV, pp. 1430 ss.; A. Salandra, La celebrazione della vittoria, in Id., I discorsi della Guerra, cit., pp. 147 ss.

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persino nelle argomentazioni degli stessi Gruppi Nazionali Liberali (118). In alternativa a questa costruzione ideologica, che aveva costituito la parola d’ordine dell’interventismo di sinistra (119), e che aveva finito per conquistare anche parte del fronte neutralista (120), lo storico insisteva sul secolare fenomeno dell’espansionismo tedesco, sulla lenta, inarrestabile «conquista metodica», portava avanti dal Reich guglielmino (per utilizzare l’espressione coniata da un grande intellettuale francese) (121), e sulle sue cause effettuali. La «furia teutonica» trovava, così, le sue radici nelle concretissime motivazioni finanziarie, industriali, commerciali ma anche di egemonia culturale, di conquista dell’opinione pubblica europea, e si scopriva disposta ad utilizzare anche gli strumenti della «diplomazia sovversiva», che l’avevano generata in movimenti di lunga durata, aggregatisi «per lento processo sedimentario e per azione statale». (118) La solita civiltà teutonica. Lettera dell’onorevole Gallenga, in «L’Azione», 31 gennaio 1915; Alleanza e concordia, ibidem, 1° aprile 1916; M. Billia, Le ceneri di Lovanio e la filosofia di Tamerlano, Milano, Edizioni de “L’Azione. Rassegna Nazionale Liberale”, 1915. (119) Sulla giustificazione della guerra come lotta contro il militarismo tedesco, da parte dell’interventismo democratico, si veda I. Bonomi, Leonida Bissolati e il movimento socialista in Italia, Milano, Sestante, 19452, pp. 153 ss. Sul punto, G. Volpe, Il popolo italiano tra la pace e la guerra, cit., pp. 55 ss., pp. 138 ss., 151 ss.; Id., Il popolo italiano nella Grande Guerra, cit., pp. 138 ss.; pp. 222 ss. (120) F. S. Nitti, La Guerra e la Pace. Il discorso a Muro Lucano del 25 ottobre 1916, a cura di V. Claps, Rionero in Vulture, Calice Editori, 2002, pp. 29 ss. (121) P. Valéry, Une conquête méthodique, in Id., Œuvres, Paris, Gallimard, 1957, I, pp. 971 ss., in particolare p. 972: «On apprend que les victoires par lesquelles l’Allemagne s’est fondée sont peu de choses auprès des victoires économiques que déjà elle emporte; déjà bien des marchés du monde sont plus à elle que les territoires qu’elle doit à son Armée. On aperçoit ensuite que l’une et l’autre conquête font partie du même système». L’articolo pubblicato per la prima volta, nel 1897, su di un periodico inglese, fu ristampato nel «Mercure de France» del 1° agosto 1915.

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Non ritroviamo, oggi, questi elementi nella massa dei suoi figli che la Germania manda da cinquant’anni per il mondo a piantare industrie, a dirigere banche, a costruire ferrovie, a fondare o guadagnare giornali e opinioni pubbliche, a frugare archivi, a raccogliere informazioni, ad agitare o terrorizzare Paesi neutrali, a far insomma da ingegneri, da commessi viaggiatori, da impiegati di banca, da archeologi ed eruditi, da spie, da dinamitardi, solidali fra di loro, perfettamente affiatati con il loro governo e con chi lo rappresentava all’estero, innegabili suscitatori e coordinatori di energie locali ma per rivolgerle al proprio individuale e collettivo vantaggio, e quindi pericolosi all’autonomia morale e materiale della Nazione che li ospita? Nessuno mi persuaderà che non siano tagliati sullo stesso legno il “militarismo prussiano”, in ciò che è ad esso essenziale, da una parte, ed i Rathenau, i Ballin, i Krupp, tutti i grandi capitani della banca, dell’acciaieria, delle miniere di ferro, dall’altra. Non solo: ma anche i capitani e caporali del socialismo tedesco che ha foggiato, a sua immagine i vari socialismi europei, li ha guidati, comandati, frustati, da quell’energico e battagliero pedagogo che è stato, nei rapporti internazionali, per burlarli in ultimo, dissolvendo e annullando sé nella sua azione, identificando sé col “militarismo”, cercando di addormentare i compagni d’Europa, specialmente d’Italia! (122)

Anche questa lunga tirata che individuava, alla luce del realismo politico, la vera fisionomia della minaccia germanica, con argomenti non dissimili da quelli utilizzati da Guido De Ruggiero (123), non escludeva, comunque, l’interpretazione del (122) G. Volpe, Il militarismo prussiano, in «L’Azione», 15 febbraio 1916, in Id., Guerra Dopoguerra Fascismo, cit., pp. 17 ss. (123) G. De Ruggiero, Il pensiero italiano e la guerra, cit., pp. 131-132: «Il “militarismo prussiano” ecco la grande parola coniata dalla democrazia italo-

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conflitto attuale, come «guerra su due fronti», che l’Italia doveva combattere sul terreno militare, contro gli Imperi centrali, e su quello dei rapporti di forza interni all’alleanza contro le Potenze dell’Intesa, secondo un modus operandi cui dovette necessariamente sottomettersi Sonnino (124). Era, quella di Volpe, un’analisi che coglieva nel segno. Coerentemente alle conclusioni formulate da uno dei più stretti collaboratori del titolare della Consulta, Luigi Aldrovandi Marescotti (anticipate da Salandra a proposito dell’opposizione russa, francese, britannica alle nostre richieste precedenti la sigla del Patto di Londra, sviluppatasi per non contrariare la Serbia e per accarezzare i rappresentanti degli Slavi meridionali, operanti a Londra, Parigi e Pietrogrado), la «guerra diplomatica» tra il nostro Paese e gli Alleati era iniziata, infatti, prima ancora della nostra belligeranza. E quella contesa, poi, mai cessò. Si acuì

francese, per esprimere una chimerica entità destinata a ricevere i fieri colpi democratici. La democrazia afferma di combattere il militarismo tedesco, e non lo spirito tedesco, l’industria, la cultura tedesca; vuol fiaccare l’uno e lasciare intatto tutto il resto. E non vede che il militarismo e lo spirito tedesco sono una sola e medesima cosa, una sola fisionomia mentale e non già due chimeriche e isolate entità. Con la sua tendenza a livellare le menti e le coscienze, così degli uomini come dei popoli, la democrazia non intende che quel che chiama militarismo prussiano non è il fatto materiale di possedere molti cannoni e molti fucili, ma il tono, lo spirito stesso della mentalità tedesca, che si esplica nell’organizzazione dell’industria, della scuola, della scienza, così come degli eserciti». (124) C. Sforza, Costruttori e distruttori, Roma, Donatello de Luigi, 1945 pp. 299 ss. Sul punto, L. Monzali, La politica estera di Sidney Sonnino e i fini di guerra dell’Italia (1915-1917). Alcune riflessioni, in La Guerra di Cadorna, 1915-1917. Atti del Convegno Trieste - Gorizia, 2- 4 novembre 2016, a cura di P. Neglie e A. Ungari, Roma. Ufficio Storico SME, 2018, pp. 315-326; L. Riccardi, Sonnino e l’Intesa durante la prima guerra mondiale, in Id., La “grandezza” di una Media Potenza. Personaggi e problemi della politica estera italiana del Novecento, Roma, Società Editrice Dante Alighieri - “Biblioteca della Nuova Rivista Storica”, 2017, pp. 101-134.

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prima e dopo Caporetto (125). S’inasprì con l’ingresso in guerra degli Stati Uniti. Si fece più cruda, ancora, nel corso dei negoziati dell’armistizio con l’Austria-Ungheria, firmato a Villa Giusti del 3 novembre 1918. Infine, raggiunse il suo culmine al tavolo della Conferenza di pace (126).

(125) O. Malagodi, Conversazioni della guerra, cura di B. Vigezzi, MilanoNapoli, Ricciardi, 1960, 2 voll., I, pp. 95-99, 104-5, 110-115; Sul punto, D. R. Woodward, Britain in a Continental War: The Civil-Military Debate over the Strategical Decision of the Great War of 1914-1918, in «Albion: A Quarterly Journal Con­cerned with British Studies», 12, 1980, 1, pp. 37-65; G. H. Cassar, The Forgotten Front. The British Campaign in Italy, 1917-1918, London - Rio Grande, Hambledon Press, 1998, pp. 10 ss.. (126) L. Aldrovandi Marescotti, Guerra diplomatica. Ricordi e frammenti di diario (1914-1919), Milano, Mondadori, 1936; A. Salandra, L’intervento, cit., pp. 162-171, 176-177, 180-185. Sul punto, un quadro completo, dettagliato, largamente articolato è offerto da L. Riccardi, Alleati non amici. Le relazioni politiche tra l’Italia e l’Intesa durante la prima guerra mondiale, Brescia Morcelliana, 1992; Id., L’Italia e l’Intesa, 1915-1917: nuove alleanze, vecchia diplomazia, in La Guerra di Cadorna, 1915-1917, cit., pp. 292-314; Id., Sidney Sonnino, la politica estera italiana e l’Intesa durante la prima guerra mondiale, in Istituzioni e società in Francia e in Italia nella Prima Guerra mondiale, a cura di E. Capuzzo, Roma, Edizioni Nuova cultura, 2017, pp. 45-94. Si veda anche E. Boudas, L’Italie et les Alliés de 1914 à 1919, cit.; P. Soave, Gli alleati e l’Italia. Aspetti diplomatici della rotta di Caporetto, in Superare Caporetto. L’esercito e gli italiani nella svolta del 1917, a cura di L. Gorgolini, F. Montella, A. Preti, Milano, Unicopli, 2017, pp. 163-172. Per il contenzioso coloniale che oppose Roma, Londra e Parigi, durante bello, L. Monzali, Il colonialismo nella politica estera italiana. Momenti e protagonisti: 1878-1949, Roma, Società Editrice Dante Alighieri - “Biblioteca della Nuova Rivista Storica”, 2017, pp. 59-164; Id., Italia, Francia, Gran Bretagna e la questione etiopica durante la prima Guerra Mondiale; G. Nicolosi, Grande Guerra e tentativi di destabilizzazione in Corno d’Africa. Ligg Iasù, il mullismo somalo e l’attivismo pan-islamico della diplomazia ottomana e degli Imperi centrali, in «Nuova Rivista Storica», 101, 2017, 3, pp. 829-870 e 871-890; S. Marcuzzi, Uno scomodo alleato: Le ambizioni coloniali italiane e il confronto interalleato sulla spartizione dell’Impero Ottomano, in La Guerra di Cadorna, 1915-1917, cit., pp. 429-448.

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Su questo punto, Volpe aveva già insistito in un altro articolo pubblicato su «L’Azione» del 15 gennaio 1916 (127). E la polemica dello storico si sarebbe poi alzata di tono nei due editoriali del «Corriere della Sera», apparsi tra il marzo e aprile seguenti, dedicati alla posizione internazionale della Romania, nei quali nuovamente si auspicava l’entrata in guerra del governo di Bucarest contro gli Imperi centrali (128), per proseguire in una serie di editoriali del periodico nazionale liberale, che per il loro radicalismo erano incorsi prima nel sospetto e poi nelle ire della censura, come lo storico comunicava a Benedetto Croce nella corrispondenza del 26 marzo. Mi scrivete del mio articolo sulla Romania. Ahimè, era composto dall’agosto scorso e solo ora trovano modo di stamparlo; e a ventuno giorni di distanza debbono ancora pubblicare la seconda parte! Non è incoraggiante, per chi voglia occuparsi un po’ di questioni del giorno. Rimane la piccola Azione, e qualche volta scrivo anche lì. Avete letto il Militarismo prussiano, e Italia e Francia di due o tre numeri addietro? Ma ora cominciano a censurarci. L’ultimo numero di due mie colonne sono rimasti venti righi ed hanno cambiato anche il titolo che era I due fronti. Dimostravo che l’Italia ora combatte due guerre, diverse sì ma due: con i nemici e gli alleati e che è appunto in questa duplicità e negli incerti rapporti con gli alleati la ragione del riserbo del governo e del mancato “fervore”, e che per questo, si dice, che non si deve forzar

(127) G. Volpe, Nei Balcani e oltre, in «L’Azione», 15 gennaio 1916, pp. 3-4. (128) Id., La Romania e i suoi problemi, in «Corriere della Sera», 6 marzo e 6 aprile 1916, poi in Id., Fra storia e politica, Roma, C. De Alberti, 1924, pp. 117 ss. L’uscita dalla neutralità della Romania, e il suo ingresso in guerra a fianco dell’Intesa, sarebbe avvenuta il 28 agosto 1916.

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la mano al governo e toglierli così il ruolo di regolare rapporti, vitali con gli alleati, per il dopoguerra. Del resto il sugo dell’articolo è nello stesso numero dell’Azione, nel resoconto di un nostro convegno bolognese (129).

Nel numero del 15 marzo de «L’Azione», Volpe aveva, infatti, steso un ampio resoconto del convegno nazionale liberale di Bologna, svoltosi dieci giorni prima, di cui lo storico aveva assunto la presidenza, e al quale avevano partecipato Amendola, Anzilotti, assieme ad altri rappresentanti di spicco dei Gruppi Nazionali Liberali di Roma, Firenze e Milano. Scopo della riunione era di discutere dell’andamento della guerra, dei suoi obiettivi, della condotta del governo, dell’organizzazione dei Gruppi, delle linee della loro propaganda. E ciò in vista di un allargamento dell’impegno bellico contro la Germania e dei rischi di un’eventuale crisi politica che questo evento poteva innescare, in modo da «fissar la linea di condotta pratica, anche nei rapporti con quegli altri membri delle varie federazioni interventiste, la cui attività sembra ora entrata in una fase nuova in seguito ai dubbi, alle discussioni, alle critiche di cui il Ministero Salandra è fatto oggetto da parte loro». Su questo specifico aspetto prendeva la parola proprio Volpe, in un intervento che immediatamente premeva sul quesito che i Nazionali Liberali dovevano rivolgersi: «se seguitar a rimanere uniti con quanti invoca una più grande guerra, un’incondizionata ed esplicita unione con gli alleati» e quindi aderire all’obiettivo di «quanti lavorano per determinare (129) Gioacchino Volpe e Benedetto Croce, Milano, 26 marzo 1916, Archivio Benedetto Croce, Fondazione Benedetto Croce, Napoli. Nella corrispondenza, il riferimento era a G. Volpe, Il militarismo prussiano, cit.; Id., Francia e Italia, «L’Azione», 15 febbraio 1916; Id., Guerra e diplomazia, ibidem, 15 marzo 1916, che fu quasi totalmente censurato.

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una crisi ministeriale da cui debba uscire un ministero non solo ricco di maggiori competenze ma disposto in ispecie ad attuare questo più energico piano d’azione». Certo, continuava Volpe, anche i Nazionali Liberali, raccoltisi intorno all’«Azione», condividevano i dubbi sull’opera del governo: «poco capace di orientare e guidare l’opinione pubblica nazionale, e tanto meno quella dei Paesi amici e neutrali». Soprattutto, poi, preoccupava la visione del conflitto in corso, fatta propria dalla compagine ministeriale: «troppo circoscritta materialmente, angusta nella visione degli scopi». Nel governo pareva dominare, infatti, un’ottica ristretta, incerta, eccessivamente guardinga, manchevole di una strategia globale, che per alcuni osservatori coinvolgeva la responsabilità specifica di Sonnino e, più ancora, di Salandra, cui si faceva addebito di «civettare col giolittismo» e di volerlo disarmare adottandone idee e criteri: «donde appunto il mancato slancio della guerra, il perdurante equivoco nei rapporti con la Germania, la mancanza di fiducia piena degli alleati, verso di noi, il quasi isolamento e l’oscurità nostra nella quadruplice, con il pericolo di vederci negato, ora e dopo la guerra, il riconoscimento dei diritti nostri e la soddisfazione di nostre esigenze vitali». Pur non dissociandosi completamente da queste critiche, i Nazionali Liberali conservavano la loro fiducia nella «fermezza, nella rettitudine, nella serietà di Sonnino», senza perdere la speranza di recuperare Salandra ai propri programmi. Quanto all’utilità o meno di provocare una crisi di governo, essi rifiutavano, oggi come ieri, l’ipotesi di forzare la mano all’esecutivo, con moti di piazza o sfrenate campagne di opinione, per imporgli i «criteri direttivi della guerra» e «insomma considerarlo un po’ come una specie di comitato esecutivo delle federazioni interventiste». Tanto meno credevano che si dovesse, almeno per ora, esigere una dichiarazione di guerra alla Germania, che pure appariva inevita– 79 –


bile nel medio o nel breve termine di uno spazio temporale, che l’Italia doveva utilizzare per rafforzare la sua posizione nei confronti di avversari e alleati. Certo ci si verrà: è fatale. Ma del momento non può esser giudice ed arbitro se non chi sa molte cose che noi non sappiamo e che forse non si devono sapere. Certo la Germania, almeno fino a che non si verifichino certe condizioni e circostanze che la spingano direttamente contro di noi, ha interesse a non avere anche noi fra i suoi nemici dichiarati. Ebbene, nulla ci vieta di sfruttare temporaneamente questo interesse anch’esso temporaneo della Germania; di sfruttarlo sino a che non si sia alla nostra frontiera determinata una situazione militare tale che ci permetta di sentirci sicuri, sull’Isonzo e verso la Svizzera, da ogni tentativo di invasione; sino a che non si sia, nei rapporti con i nostri alleati, giunti a una situazione diplomatica nella quale, insieme con i nostri doveri, siano chiaramente specificati anche i nostri diritti e i nostri vantaggi, proporzionati agli sforzi che si esigono da noi e che noi siamo disposti a fare. Nessuno deve dimenticare che più di una volta, negli ultimi anni, abbiamo trovato Francia e Inghilterra contro di noi quasi quanto l’Austria (alla quale non è un segreto che esse hanno sempre guardato con occhio molto benevolo). Siamo noi sicuri che il nostro governo sia riuscito ad ottenere assicurazioni e garanzie sufficienti per quanto riguarda i nostri interessi nell’Adriatico, nei Balcani e più in là, a non voler contare metalli e carbone, noli e cambi? Ora, sarebbe malaccorto, con un’intempestiva pressione dell’opinione pubblica, disarmare il governo di questo mezzo, che ha, non dico per contrattare con gli alleati ma almeno per trattare con essi (130).

(130) Il Convegno Nazionale Liberale a Bologna. Il discorso di Volpe, in «L’Azione», 15 marzo 1916, pp. 1-3, in particolare p. 2. Corsivi nel testo.

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Naturalmente, Volpe pensava che le ostilità dovessero proseguire, in «perfetta comunione con i soci dell’Intesa», ma avendo chiara in mente questa semplicissima verità: e cioè che l’obiettivo primo della guerra italiana, «cioè l’Istria e il dominio strategico dell’altra sponda adriatica», doveva essere raggiunto in perfetta autonomia, «con la diretta forza delle armi nostre», poiché «nessun appoggio diplomatico di alleati, frutto della nostra incondizionata solidarietà con essi, ce lo procurerà nelle future trattative di pace». Era proprio su questo punto, che Amendola replicava nel suo intervento, tutto teso a evidenziare la necessità di tenere unito il fronte interventista, per dare sostegno al governo, che altrimenti «potrebbe essere attratto dai giolittiani». La questione della dichiarazione di guerra alla Germania era sì ininfluente, nell’immediato, ma solo «se la sua mancanza non contribuisca a paralizzare la nostra guerra, a rendere impossibile l’intima collaborazione militare coi nostri alleati». Esistevano, infatti, due modi di condurre la guerra: in autonomia, perseguendo la conquista territoriale, in modo da guadagnare unicamente «tutto il territorio che avremo potuto conquistare con le armi»; oppure in strettissima collaborazione militare con le potenze dell’Intesa, partecipando dunque «alla guerra più generale». La seconda ipotesi era la sola plausibile sul piano bellico e diplomatico, nonostante la malcelata ostilità di Salandra e di tutti quelli che reputavano giusto schiacciarsi sulle sue posizioni. Interpellato da Volpe, che domandava quale poteva essere il frutto della vittoria, che gli Alleati avrebbero concesso all’Italia, Amendola replicava che, attraverso un più attivo lavorio diplomatico e una rinnovata e intensificata fraternità d’armi con le Potenze occidentali, il Paese avrebbe guadagnato molto di più di quello che avrebbe potuto ottenere, con una semplice guerra di – 81 –


conquista, allargando i suoi confini fino ma non oltre Trieste. Risposta insoddisfacente per Volpe, come per molti dei partecipanti al convegno bolognese, che lasciava le due parti reciprocamente distanti, sancendo la fine definitiva di un’intesa tra liberalismo democratico e nazionalismo liberale, come metteva in luce lo sbiadito ordine del giorno che poneva fine ai lavori. In quel documento si riaffermava, infatti, «la necessità che i partiti interventisti si mantengano sempre più uniti per ottenere che la guerra, condotta in pieno accordo con gli alleati, affretti il conseguimento delle rivendicazioni nazionali dell’Europa combattente contro l’egemonia germanica». E si esprimeva il voto «che il Governo sappia intendere il suo dovere di tenersi in permanente ed intimo contatto con le energie morali e intellettuali della Nazione» (131). Di là dei dubbi e dei tentennamenti della «politique politicienne», Volpe non avrebbe dimenticato, tuttavia, di tratteggiare i futuri effetti della guerra sulla tempra morale dell’intera Europa, nel già ricordato discorso dedicato agli insegnanti della scuola primaria. In questo caso, il fuoco dell’analisi tendeva a dimostrare l’inconsistenza di qualsiasi teoria che negasse la Nazione quale realtà immanente agli individui e alle classi, e, dunque, il «diritto e dovere» di tutti i cittadini, organizzati in qualunque associazione professionale, a rafforzare la «solidarietà» e «fedeltà» verso di essa. Ai maestri, come a qualsiasi altro ceto sociale, non si chiedeva «un certificato di particolare fede politica, dinastica, ministeriale, religiosa», ma soltanto che non sposassero l’ideologia socialista e neppure quella clericale, perché entrambe si ponevano fuori e all’occorrenza anche contro i destini della Patria in armi. (131) Ivi, p. 3.

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Dall’inizio del conflitto, l’Italia aveva, visto la «massa dei suoi figli, rimasti assenti dai conati del primo Risorgimento, e apprezzati poi solo come bruta forza da lavoro e come strumento di politicanti», entrare «nella storia della Nazione» e generosamente battersi per essa». Dopo il conflitto, quelle stesse masse popolari avrebbero dovuto affermare, «con più disciplinata fermezza» rispetto all’anteguerra, i loro peculiari bisogni, misurandoli e subordinandoli a quelli della comunità tutta intera. Si sarebbe allora compiuto il tanto auspicato processo di nazionalizzazione delle masse, il loro coinvolgimento nella vita dello Stato, affinché al suo interno «tutti avessero un loro posto e una loro funzione attiva». Ed era in questo inserimento del proletariato nell’orbita della Nazione, imposto dalle esigenze dettate dalla prova delle armi, che Volpe vedeva attuarsi la vera «democrazia» (132). Questa era la sfida che l’Italia doveva al più presto raccogliere per uscire vittoriosa dal conflitto e garantirsi così un avvenire di grandezza. A tale scopo, il popolo italiano, nelle trincee, nelle campagne, nelle città e in Parlamento, doveva mutare mentalità, stringersi in un «maggiore affiatamento» e muoversi all’unisono verso l’obiettivo comune, superando i conflitti di parte e di fazione che erano ricomparsi persino nel corso della guerra italiana. Volpe, infatti, avrebbe accolto con accoramento e scetticismo, nel giugno 1916, l’annununcio della crisi di governo che molti ritenevano risolutiva di ogni problema e che poneva fine al gabinetto Salandra, cui subentrava l’esecutivo presieduto da Paolo Boselli. Una crisi che si era aperta e chiusa al suono dello «schiamazzo» dei tanti deputati che sedevano alla Camera, in ossequio alle abituali logiche di potere, mentre sulle Alpi «si resisteva e si moriva dimentichi di sé». (132) G. Volpe, Il congresso dei maestri, cit., p. 5.

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Quest’agonia di ministero, questa settimana di sedevacante e di cronaca romana non sono state molto edificanti. Noi italiani abbiamo guardato con orgoglio e con fiducia alle Alpi, ma con alquanto tedio, insofferenza ed anche sdegno a quel piccolo bivacco di 500 e tanti deputati. Lassù si resiste, si assale, si opera, si dimentica se stessi, si muore, si costruisce per l’oggi e pel domani; ma qui si chiacchiera, si briga, si intriga, si maligna, si contratta, si disanima, si demolisce non l’Italia, ma il Parlamento, la fede nel Parlamento! Melanconie di tutte le crisi. Ma questa volta c’era il “Ministero Nazionale” da formare, quel tal ministero in cui debbono aver posto i rappresentanti di tutti i partiti, gruppi e sotto-gruppi e quasigruppi, come se ogni partito, gruppo e sottogruppo portasse avvolta nel lembo della toga una sua particolare e grande concezione della guerra europea, dei suoi fini, dei mezzi per meglio combatterla e vincerla; come se ogni partito, gruppo e sottogruppo si sentisse di lavorare per il Paese, impegnato in una lotta mortale, solo se e in quanto qualche uomo o più d’uno partecipa al potere. Evidentemente, la generazione guerriera degli Italiani è già nata e si sta temprando, ma la generazione politicamente intelligente e politicamente educata deve ancora venire.

Alla nuova compagine ministeriale lo storico non poteva che ripetere l’ormai abituale ammonimento. La guerra italiana era una «guerra bicipite»: contro l’Austria e l’espansioni­smo germanico da combattere con le armi, e contro «gli alleati nostri ma di noi non amici» da condurre, senza quartiere, con gli strumenti della diplomazia, per «ottenere il riconoscimento concreto della nostra esistenza e del nostro diritto di svilupparci». Questo era il compito che il gabinetto Boselli doveva addossarsi, se voleva essere pari al suo compito. E per farlo doveva concedere il massimo spazio alle – 84 –


iniziative di quanti, dentro e fuori l’esecutivo (Sonnino e Cadorna) avevano ben compreso gli irrinunciabili obiettivi della guerra italiana, e, in conseguenza di ciò, respingevano ogni seduzione proveniente da Londra, Parigi, e dai Comitati slavi lì residenti e operanti, mentre si battevano contro la subdola «propaganda democratico-intesista», diffusa dal socialismo italiano e dal partito del Vaticano. Chi non sa in Italia che noi, e non da oggi ma da cinquanta anni, vigiliamo su due fronti? La cosa è tanto risaputa e, direi, storica, che la censura ce la lascerà dire. E anche ora, che, pur in tanta comunanza d’interessi fra noi e l’Intesa, cannoni e fucili sono puntati contro l’Austria e contro chi, nei nostri riguardi, si nasconde dietro l’Austria; sopra un’altra più vasta frontiera, che l’alleanza non distrugge e non può distruggere, noi ci battiamo, con le armi della diplomazia e con la prova provata del valore del nostro intervento e della nostra azione militare, sull’economia generale della guerra, per ottenere il riconoscimento concreto della nostra esistenza e del nostro diritto di svilupparci. È una singolare guerra anche questa, parallela all’altra, anche se fatta con altro spirito, oltre che con altre armi. La abbiamo combattuta e forse seguitiamo a combatterla noi, e la combatte ogni membro di questa come di ogni altra coalizione; ma noi più degli altri al presente, noi con maggiori difficoltà da superare, perché siamo i più piccoli e gli ultimi venuti al mondo e nella coalizione; perché fino a ieri poco veramente stimati e non poco diffidati; perché permeabili come nessun altro alla altrui propaganda e sensibili alla dolce voce delle sirene e ai richiami verso i grandi principi. Eppure importa vincerla, anche quest’altra guerra, sotto minaccia di render vana o poco utile la vittoria dell’altra, e di perdere anche vincendo. Noi Italiani avremo, a parte l’affermazione morale, perduto la guerra non solo se il nemico ci – 85 –


avrà rotto e ricacciato indietro dall’Isonzo e dalla soglia del Trentino, ma anche se, durante e per mezzo della guerra, per debolezza voluta o subita dalla nostra azione, il posto dell’Italia di fronte agli amici e agli alleati sarà peggiorato, lo squilibrio aumentato, i loro mezzi di imporci anche senza armi la propria volontà saranno cresciuti, la nostra libertà e possibilità di sviluppo nel Mediterraneo, di cui l’Adriatico è parte, diminuita, certe posizioni dell’Austria, a cui noi miriamo, occupate da altri. Se ciò avvenisse, l’Intesa potrebbe trionfare e, con essa, la Civiltà e Giustizia, ma l’Italia sarebbe vinta, anche con Trento e Trieste finalmente redente, e vinta in ultima analisi anche la Civiltà e la Giustizia: perché noi non possiamo concepirle indipendentemente dal bene dell’Italia. Se ciò avvenisse, se cioè non fossero stati fissati prima con sufficiente precisione alcuni termini del problema mediterraneo e coloniale oltre che adriatico, con quelli che già stanno diventando i più veri e maggiori signori del Mediterraneo e delle Colonie, noi ci accorgeremmo di non aver costruito nulla di stabile anche nei rapporti con gli alleati, di non aver noi ed essi portato alcuna solida pietra nell’edificio della vagheggiata internazionale liberale d’Europa. Non è nostra intenzione fare qui da guastafeste ma pure vogliamo che da parte dell’Italia e dell’Intesa tutta (ma gli altri hanno meno bisogno dei richiami!) si lavori sulla base della realtà, se è permesso nominare questa parola alquanto diffamata; che l’ideale sia visto nella sua concretezza e negli organismi vivi che sono destinati ad attuarlo; che si facciano i conti non con un’Italia, una Russia, una Francia, un’Inghilterra combattenti per il bene e la felicità universale, cioè non con uomini e Nazioni astratte, ma con uomini e Nazioni che vivono, e vivono in un certo modo e hanno certe determinate aspirazioni e ambizioni assai ben manifeste, interessi e tradizioni più forti di ogni inclinazione sentimentale del – 86 –


momento, debolezze e abitudini mentali frutto di una storia secolare e non cancellabili. Chi in Italia chiede al governo e al popolo nostro una guerra “che possa essere combattuta da noi con lo stesso animo col quale si combatte dagli altri, per un proposito e un ideale, che superino gli interessi e i sacri egoismi delle singole nazioni, e possano quindi essere davvero comuni” (Romolo Murri nel Secolo dell’8 marzo), chiede una guerra che è fuori di quella concreta realtà che sono Italia e Russia e Inghilterra e Francia, e fuori di tutte quelle realtà per cui si fanno le guerre. Costui invoca una guerra fuori della storia di quei vari Paesi, anzi fuori della storia di tutte le Nazioni. Praticamente, siffatta guerra si risolverebbe in un volontario e spensierato sacrificio del più debole e del più ingenuo agli interessi del più forte e del più accorto. Ma noi italiani, e noi soli in Europa per opera dei nostri socialisti, già ne paghiamo di questi tributi a idealità e principi che altri poi fanno fruttare per sé e non già “per noi o per la romanità”, che veramente è cosa alquanto indeterminata. Noi, dico, vogliamo pagarne ancora degli altri? Così noi concepiamo la presente guerra d’Italia. E amiamo credere che così l’abbia concepita l’onorevole Sonnino, che così possa spiegarsi l’incertezza di taluni nostri atteggiamenti, il riserbo estremo del governo Salandra, la lentezza che poté sembrare inconcludenza della sua azione diplomatica, quella tal freddezza o mancanza di “fervore” che gli è stata rimproverata. Amiamo credere che anche verso altre frontiere ci sia stato un Carso e barriere dolomitiche da sgretolare. Sonnino da una parte, Cadorna dall’altra, uomini duri, pazienti, ostinati l’uno e l’altro, non garibaldini certo tali e da non costringerci in nessun modo a far guerre garibaldine (133). (133) Id., Da un ministero all’altro. Continuità e fiducia, in «L’Azione», 15 giugno 1916, pp. 1-2. Corsivo nel testo.

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Era indispensabile, dunque, prevalere su entrambi i fronti, pena il rischio di «essere sconfitti anche prevalendo». E almeno così sosteneva Volpe, riprendendo ad litteram proprio le preoccupazioni di Sonnino esposte, il 16 febbraio 1915, a Guglielmo Imperiali di Francavilla, perché questo le rappresentasse al ministro degli Esteri del Regno Unito. A illustrazione delle nostre domande e a evitare che offuschino, per la loro determinatezza, la meticolosa suscettibilità inglese, Ella potrà, a suo tempo, far rilevare a Sir Edward Grey la situazione singolare in cui si trova oggi l’Italia, situazione che ci costringe ad accertarci preventivamente della adesione dei nostri eventuali alleati ad alcuni punti speciali riguardanti l’assetto territoriale che dovrà risultare dal futuro trattato di pace. Da un lato, occorre considerare che, non essendo l’Italia stata attaccata o provocata da nessuno, nulla la costringe ad entrare in campo e ad affrontare gl’ingenti rischi e le responsabilità di una guerra, fuorché il desiderio di liberare i fratelli dal giogo straniero e di appagare alcune fondamentali e legittime aspirazioni nazionali. Dall’altro, nel partecipare alla guerra ci troveremo a fianco alcuni compagni d’arme, certo stimabilissimi ma che hanno, per qualche riguardo, interessi e ideali politici diversi e in parte perfino opposti ai nostri. Onde c’incombe, fin da ora, il dovere di considerare i termini generali di un’equa transazione sui punti più contrastati. Ci incombe, cioè, di determinare quale sia il minimo di concessioni, a nostro favore che, pur dando qualche soddisfazione alle giustificate, altrui richieste, basti a garantirci che, a guerra finita, e nel supposto di un suo esito favorevole, le nostre speranze non abbiano a restare frustrate e deluse, per effetto della pressione che avessero a esercitare a nostro danno quegli stessi compagni, al cui fianco avremmo combattuto. E ciò specialmente per quanto – 88 –


riguarda l’appagamento di alcune antiche, nostre aspirazioni nazionali e le indispensabili garanzie della nostra situazione militare nell’Adriatico (134).

Nessuna accortezza diplomatica avrebbe potuto, però, garantire, secondo la convinzione di Georges Sorel, che gli impegni, presi dalla Potenze dell’Intesa nei nostri confronti sarebbero stati alla fine mantenuti. Questo scriveva l’autore delle Réflexions sur la violence, nella lettera inviata a Benedetto Croce, il 26 maggio, nella quale, riferendosi in particolare alla posizione di Parigi, si sosteneva che gli Alleati non avrebbero rinunciato neppure a fare ricorso all’annosa «questione romana» per soffocare le aspirazioni del nostro Paese e non tener fede al Patto di Londra. Le sort en est donc jeté; l’ItaIie prend les armes; espérons qu’elle n’aura trop à souffrir de sa folie: le militaires ont ici très peu confiance dans l’efficacité de son intervention, qui embrouillera beaucoup les choses, au moment de la paix. On ignore totalement ici les conditions qui ont été faites à l’Italie; mais je ne serais pas étonné que Sonnino ait été joué par Delcassé! La grosse question est toujours, selon moi, la question romaine, qui est en train de se réveiller, le pape étant devenu, grâce aux ambassades d’Angleterre et de Hollande, un personnage politique plus considérable qu’autrefois. Si on écoutait les français, le pape devrait jouer un rôle à l’Innocent III, juge des guerres!! (135)

Lo stesso pronostico era poi ribadito, il 18 luglio 1915, quando Sorel affermava che, mentre Francia, Regno Unito, Russia (134) DDI, Quinta Serie, II, p. 693. (135) Lettere di Georges Sorel a Benedetto Croce, in «La Critica. Rivista di Letteratura, Storia e Filosofia», 27, 1929, pp. 121-122.

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si aspettavano dall’Italia un rapido sfondamento sul Carso e sul fronte dolomitico, le loro Cancellerie operavano nell’ombra per defraudare il governo di Roma del frutto di un’eventuale vittoria, a vantaggio della Serbia e della Grecia. Tout le monde est surpris ici de la campagne italienne; les hommes du gouvernement croyaient que l’intervention italienne amènerait la fin de la guerre en un mois ou deux; mais il ne semble pas qu’elle puisse avoir des résultats positifs; on peut même se demander si les autrichiens ont été sensiblement affaiblis. En tout cas, l’Italie peut déjà prévoir que sa situation méditerranéenne sera plus mauvaise qu’elle ne l’était; les Serbes et les Grecs sont en train de prendre l’Albanie, ce qui est bien plus grave pour elle qu’un protectorat de l’Autriche sur la Serbie. L’Italie, qui pourrait s’assurer la Dalmatie, ne parait pas pouvoir y envoyer du monde; sans doute, elle est arrêtée par un veto de la Russie. Mais Barzilai est gouverneur des pays conquis! Voilà, certes une belle compensation à tant de sacrifices, entant donné que la nomination est vraiment symbolique. (136).

Ed eguale profezia riappariva, infine, espressa più dettagliatamente e con maggior convinzione, nella corrispondenza del 5 dicembre, egualmente indirizzata al filosofo, dove Sorel si domandava addirittura se all’Italia non convenisse assistere, a braccia conserte, alla dissoluzione della Serbia, per evitare che, in caso di sconfitta dell’Austria, quello Stato, satellite di Pietrogrado e accarezzato da Parigi e Londra, non espandesse i suoi confini dall’Al(136) Ivi, p. 125. Corsivo nel testo. In realtà, Salvatore Barzilai, entrato, il 16 luglio 1915, nel gabinetto Salandra come ministro senza portafoglio fu posto a capo della Commissione consultiva per le regioni adriatica e atesina.

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bania alla Dalmazia, all’Istria e a Fiume, E ciò nonostante le enormi perdite subite dal Regio Esercito, nei primi mesi del conflitto, che Salandra e Sonnino si ostinavano a non esibire all’opinione pubblica alleata, per tema di demoralizzare e destabilizzare il fronte interno. Dans une carte récente je vous avais signalé un article du Journal de Genève, assez aigre pour l’Italie; je croyais que l’auteur qui signait, W. M., était le pasteur Wilfred Monod; mais depuis quelque temps le correspondant donne son nom: William Martin. Les observations que je vous avais indiquées n’en sont pas moins importantes; l’opinion publique en France est très-malveillante pour l’Italie; on avait cru à une réédition des campagnes napoléoniennes sur Vienne; on avait trop attendu de l’Italie, on en vient à la regarder comme peu capable d’agir sérieusement. Je suppose que c’est la connaissance de cet état d’esprit qui a déterminé Sonnino à signer le Pacte de Londres; il espère que la France et l’Angleterre, après un tel engagement, ne pourront pas abandonner L’Italie à la vengeance autrichienne. Ce que ce ministre a annoncé pour venir en aide à la Serbie, n’augmentera pas le prestige de l’Italie en France; où on s’attendait à ce qu’elle envoyât une armée en Albanie; elle va y envoyer des vivres. Au fond, la disparition de la Serbie était une bonne affaire pour l’Italie. Les Serbes avaient occupé une partie de 1’Albanie et ils réclamaient la Dalmatie, voir même la Croatie et Fiume. Cette invasion de 1’Adriatique par un Etat vassal de la Russie était un immense danger pour l’Italie. La disparition de la Serbie aurait permis de rendre l’Albanie indépendante sous le patronage de l’Italie; c’était historiquement la solution la plus raisonnable. Je crois que Sonnino a été, une fois de plus, dupé par les Anglais et les Russes, qui lui ont fait commettre une grosse imprudence. Au moment de la – 91 –


paix, le Pacte de Londres comptera juste autant qu’il conviendra aux intérêts de la Russie et l’Albanie sera entièrement perdue pour l’Italie. Sonnino a eu l’air de revendiquer l’héritage oriental de Venise. Mais il me semble qu’il n’en reste plus grand chose à prendre, à moins qu’il ne veuille faire allusion à une cession de Cipre que consentirait l’Angleterre…. Je vous avais écrit que la véritable manière de faire comprendre en France que l’Italie fait la guerre sérieusement, serait de publier le véritable tableau des pertes éprouvées. Mais votre gouvernement les dissimule; chez nous on croit avoir intérêt à ne pas avouer des chiffres effrayants; chez vous on aurait intérêt à se vanter des sacrifices accomplis (137).

Vigore e fiacchezze della guerra italiana Nella grande contesa, che da guerra per così dire “locale” contro la Duplice Monarchia si sarebbe necessariamente evoluta anche per l’Italia in guerra mondiale e poi in conflitto globale (138), la classe dirigente nazionale e il ceto intellettuale non entrarono, come si è spesso ripetuto, affetti da uno stato d’inco(137) Ivi, 295-296. Sul punto si vedano ancora le lettere di Sorel a Croce del 26 luglio 1916, (ivi, p. 359), e del 29 dicembre 1918, in Lettere di Georges Sorel a Benedetto Croce, in «La Critica. Rivista di Letteratura, Storia e Filosofia», 28, 1930, p. 49 Ricordiamo che Sorel, al termine del conflitto, si espresse apertamente a favore del consolidamento del nostro confine orientale. Si veda G. Sorel, La Dalmazia, in «Il Tempo», 14 febbraio 1919, poi ricompreso nell’opuscolo bilingue: G. Sorel - E. Leone, La Dalmazia è terra d’Italia. Socialisti francesi e italiani per l’italianità della Dalmazia/La Dalmatie est terre d’Italie. Les socialistes français et italiens pour l’italianité de la Dalmatie, Roma Armani 1919. (138) E. Di Rienzo, L’Italia e il primo conflitto «globale», 1914-1918, in «Nuova Rivista Storica», 101, 2017, 3, pp. 745-790.

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sciente «sonnambulismo», per riprendere qui la metafora di un saggio recente che ha goduto di larga e immeritata fortuna (139). Non solo il leader del partito neutralista, Giolitti, ma anche Salandra, Sonnino, Cadorna e gli altri esponenti della casta militare, come il generale Luigi Capello, avevamo, tutti, ben presente lo stato d’impreparazione morale e materiale del Paese, sul piano finanziario, industriale, della produzione e dell’approvvigionamento di materie prime e di armamenti. Né si nascondevano che quella situazione era aggravata dall’infelice sistemazione strategica della Penisola sprovvista di un confine militare sicuro a nord-est e del tutto vulnerabile da un attacco via mare, considerata l’enorme estensione e la porosità delle sue coste, prive di difese naturali e non sufficientemente provviste, proprio per quello che riguardava il nostro litorale adriatico, di basi navali tali da scoraggiare o rintuzzare le incursioni avversarie (140). Né questi dati sfuggivano a Volpe, il quale, da parte sua, già nell’agosto 1903, in occasione della notizia della visita di Nicola (139) C. Clark, I sonnambuli. Come l’Europa arrivò alla Grande Guerra, Roma-Bari, Laterza, 2013. (140) G. Giolitti, Memorie della mia vita, Milano, Garzanti, 1947, pp. 521 ss.; A. Salandra, La neutralità italiana, cit., pp. 193 ss., 243 ss.; Id., L’intervento, cit., pp. 185-186; L. Cadorna, La Guerra alla fronte italiana fino all’arresto sulla linea del Piave e del Grappa (24 maggio 1915 - 9 novembre 1917), Milano, Treves, 1921, 2 voll., I, pp. 1-31; L. Capello, La preparazione materiale, febbraio 1919, in Id., Note di guerra. I. Dall’inizio alla presa di Gorizia, Milano, Treves, 1920, pp. 46-59. Sulla consapevolezza di San Giuliano, Sonnino, Salandra, Cadorna e dello stesso Vittorio Emanuele III, di fronte alla difficile, eppure ineludibile, scelta dell’ingresso in guerra, si veda G. Astuto, La decisione di guerra, cit., pp. 305-456. Sulle gravi carenze del Regio Esercito, si veda anche L’esercito italiano nella grande guerra, 1915-1918, Roma, Ufficio Storico SME, 1927-1980 (http:// www.storiaememoriadibologna.it/le-carenzedellesercito-italiano-allo-scoppio-dell820-evento); B. Di Martino - F. Cappellano, L’esercito italiano da Pollio a Cadorna, in L’Italia neutrale, 1914-1915, cit., pp. 270-302.

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II a Vittorio Emanuele III, per restituire quella fatta dal sovrano italiano nella capitale russa, aveva profetizzato l’inevitabile avvicinamento dell’Italia alla Grande Potenza eurasiatica, indispensabile ad arginare la pressione germanica sul nostro hinterland, anche a costo di utilizzare, per quella bisogna, l’impeto della «marea slava che sale» guidata dal gabinetto di San Pietroburgo. I Tedeschi saranno forse i probabili nemici nostri nel Trentino e nell’Istria, concorrenti sull’Adriatico; e non si è falsi profeti dicendo che saranno un pochetto più potenti e pericolosi, se non più prepotenti, che non quel grigio impasto clerico-slavo-tedesco che ora ci fa carezze sul confine. La Russia potrà essere la nostra alleata di domani. Non è senza dolore che diciamo ciò: ogni italiano, ogni uomo civile si augurerebbe che Tedeschi e Latini, i due popoli cui appartiene la civiltà ora diffusa nel mondo si trovassero uniti contro gli Slavi, almeno fino a che da questa enorme massa inorganica non verranno fuori forze organizzate, specializzate di coltura civile. Ma quest’augurio non può tradursi in realtà se i Tedeschi non rinunziano a scendere la valle dell’Adige o a specchiarsi nelle acque del golfo di Trieste. E a questo pericolo noi ci dobbiamo abituare a guardarlo in faccia, vigilando, considerandolo come il maggiore che con molta probabilità l’Italia avrà da affrontare in un tempo non lontano, e che naturalmente non potrà affrontare da sola (141).

Se la visita di Nicola II in Italia fu annullata dalla diplomazia zarista per il timore di manifestazioni ostili che erano state annunciate nel Parlamento dall’ala sinistra dell’assemblea, la quale (141) G. Volpe, Pei fischiatori che non riflettono. Corrispondenza da Berlino, in «Il Corriere della Sera», 23 agosto 1903. L’articolo è riprodotto in Appendice, infra, pp. 279-285.

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promise appunto «di fischiare il boia, il cosacco venuto dall’est» (142), le speranze dello storico per un avvicinamento tra Roma e San Pietroburgo si realizzarono, più tardi, con la firma del Trattato «segretissimo» di Racconigi del 1909, dove si stabilirono le reciproche sfere d’influenza di Italia e Russia nei Balcani, in funzione antiaustriaca (143). Eppure, Volpe, nel gennaio 1914, si mostrò del tutto ostile, nel suo commercio epistolare con lo storico romeno Nicolae Iorga, a condividere lo slogan del «Delenda Austria», nel timore che il crollo della Duplice Monarchia avesse potuto esporre l’Italia ai più gravi pericoli della Slawisierung che, forte del sostegno russo, sarebbe ineluttabilmente dilagata dopo la scomposizione del secolare dominio di Vienna, per battere sui nostri confini. Io rimango sempre molto dubbioso ogni volta che si accenna alla possibilità, nel futuro, di un’unione dei popoli slavi per compiere, ai danni dell’Austria, le loro rivendicazioni nazionali. E mi chiedo, e con me si chiedono molti Italiani, forse anche dei Rumeni, dei Serbi, ecc.: sarà per noi, sarà per le piccole e mezzane unità etniche che si specchiano nel Mediterraneo centrale e orientale o nel mar Nero, un bene che l’Austria si sfasci e metta noi direttamente di fronte ad enormi compagini tedesche e slave organizzate in politica unità? O non sarà una minaccia grave all’avvenire politico ed economico nostro? Noi italiani già sentiamo ai confini la pressione della massa germanica che ha i suoi centri non già a Vienna, ma a Monaco o Lipsia o Berlino; i Balcanici e forse (142) G. Manacorda, Rivoluzione borghese e socialismo. Studi e saggi, Roma, Editori Riuniti, 1975, p. 193 (143) Sull’accordo di Racconigi, stipulato il 24 ottobre del 1909, si veda G. Donnini, L’accordo italo-russo di Racconigi, Milano, Giuffré, 1983.

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anche i Rumeni già sentono o cominceranno a sentire egual pressione, destinata a crescere rapidamente con l’orientarsi della politica germanica, coll’attuazione dei vasti piani tedeschi nella Turchia asiatica. L’Austria ci fa molti mali grandi e piccoli; ci irrita tutti un po’; ma l’Austria ci reca anche questo servizio: tiene lontana altra gente più forte, più unita, più prepotente; contempera bene o male gli interessi o certi interessi dei vari elementi etnici di cui è composta, e bene o male li costringe a lavorare insieme. Io non so se questo servizio sia grande per la Rumania come per l’Italia. Certo, credo che per l’Italia è grande, com’è grande, per la stessa ragione, quello che ci rende la Svizzera, sebbene anche essa ci tolga poco meno che un milione di italiani e il dominio di certi valichi alpini che sono le porte di casa nostra. Ma ciò vuol dire che Italia e Rumania non hanno infiniti interessi in comune, anche di fronte all’Austria? No. Ed io mi auguro che la nostra e la ventura generazione lavorino nell’ambito di questi comuni interessi. Comuni interessi italo-rumeni, in ispecie; e comuni interessi italo-balcanici in genere. Io son pieno di fiducia sull’avvenire dei piccoli e non grandi Stati e popoli dell’Europa meridionale; ma penso non senza preoccupazioni alla crescente invadenza tedesca, alle tendenze espansioniste dello slavismo russo (144).

Infine, Volpe ebbe chiara percezione, fin dal 1904, che in un futuro conflitto, avrebbe avuto un peso determinante il contributo del grande capitale statunitense ormai penetrato, con tanta prepotenza, nel sistema della finanza europea, da condizionare le decisioni dei gabinetti del Vecchio Continente ancor prima dell’av(144) Gioacchino Volpe a Nicolae Iorga, Milano, 14 gennaio 1914, in N. Iorga, Scrisori Câtre. III. 1913-1914. Editie ingrjită de P. Turlea. Studiu introductivu de A. Pippidi, Bucarest, Editura Minerva, 1988, pp. 188-189.

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vento della cosiddetta «Dollar Diplomacy» tenuta a battesimo dal Presidente degli Stati Uniti, William H. Taft (145). Ma della consapevolezza delle difficoltà della guerra italiana lo storico volle dare anche una postuma testimonianza nell’articolo Radiose giornate di maggio (proposto al «Corriere della Sera», nel marzo 1939 ma poi, una volta redatto, respinto al mittente dalla censura interna del quotidiano milanese, il 24 maggio seguente) (146), il cui paragrafo d’esordio si apriva ricordando le preoccupazioni del governo Salandra, per le deficienze strutturali dell’Italia, posta dopo il 28 luglio 1914, al bivio tra pace e guerra: Inutile dire che Salandra non era animato da spirito battagliero. Altro volto il suo, dai Poincaré, dagli Izvol’skij, dai Delcassé, dai Sazonov, dai Berchtold e dai von Jagow, tutti chini sulle leve di comando della politica mondiale, tutti intenti pur con linguaggio di pace a preparare coi fatti la

(145) G. Volpe, Capitale americano in Europa, in «Il Corriere della Sera», 29 agosto 1904. Sul peso della finanza statunitense nell’equilibrio di potenza europeo, già prima della Grande Guerra, GianPaolo Ferraioli, Riflessioni sull’imperialismo italiano e americano all’alba del XX secolo, in «Nuova Rivista Storica», 102, 2018, 2, pp. 595-610; Id., L’Italia e la «Dollar Diplomacy». Percezioni della politica estera americana durante la presidenza di William H. Taft (1909-1913), Napoli, Edizioni Scientifiche italiane, 2018. (146) Sulle vicissitudini editoriali dell’articolo, si veda Gioacchino Volpe ad Aldo Borelli, 18 marzo 1939; Raffaele Mauri ad Aldo Borelli, 24 maggio 1939; Aldo Borelli a Gioacchino Volpe, 24 maggio 1939, in Archivio Storico del Corriere della Sera, fascicolo Gioacchino Volpe. Alla lettera di Borelli a Volpe era allegata era allegata la prova tipografica del pezzo di Volpe, dove, a matita viola, erano evidenziati i passi ritenuti poco ortodossi e che ne giustificavano la mancata pubblicazione. Sul punto E. Di Rienzo, Quel Volpe censurato, perché troppo poco fascista, «il Giornale», 5 maggio 2006; Id., La storia e l’azione. Vita politica di Gioacchino Volpe, cit., pp. 538-541.

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guerra. In Salandra, albergava un’alta idea dello Stato liberale e dei suoi compiti, in confronto del suo predecessore. Ma, egli vedeva il Paese sempre sotto la minaccia della guerra civile, le finanze in mediocre ordine, il Parlamento irrequieto ed esigente. In tali condizioni una guerra atterriva. E quale guerra! Pare che Salandra non s’illudesse: l’Inghilterra sarebbe intervenuta contro la Triplice. E per l’Italia liberale e costituzionale non era neppur pensabile una guerra con l’Inghilterra, patria del liberalismo e costituzionalismo, “tradizionalmente amica”. Più ancora: che cosa sarebbe avvenuto, in caso di conflitto col Regno Unito, delle città costiere italiane? Che della Libia, dove 50.000 uomini vivevano, giorno per giorno, dei rifornimenti della Madrepatria? Che dell’Eritrea, rinserrata tra Suez e Aden? E il carbone? E la lana? E il grano e il petrolio e il cotone che ci venivano dall’Inghilterra o attraverso il mare dominato dall’Inghilterra? (147)

L’impossibilità evidenziata da Volpe, di poter affrontare uno scontro vittorioso con le «Potenze marittime», era stata sostenuta con forza nella lettera del 1° agosto 1914, inviata dal Capo di Stato Maggiore della Marina, Paolo Thaon de Revel, a Salandra, dove la scelta di non impegnarsi contro l’Intesa era motivata, più che da ragioni ideali o di affinità politica verso Francia e Inghilterra, da un calcolo necessariamente e brutalmente legato alla posizione geopolitica del nostro Paese. Indipendentemente dal parallelo or ora fatto sulle potenzialità effettive delle forze antagoniste e ammettendo la necessità di conflitto armato marittimo con le Potenze dell’Intesa, (147) G. Volpe, Radiose giornate di maggio, in Archivio Storico del Corriere della Sera, fascicolo Gioacchino Volpe. L’articolo è riprodotto in Appendice, infra, pp. 295-301.

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nel quale certamente la Regia Marina farebbe tutto ed intero il proprio dovere, esso, pei suoi riflessi sul Paese, va esaminato sotto due punti di vista: 1° dal punto di vista della politica interna: è indubitato che con Genova, Livorno, Civitavecchia, Napoli, Palermo, Ancona completamente esposte alle offese marittime che certo non mancherebbero e sarebbero gravi, la popolazione invocherebbe l’intervento della flotta, or qua or la, aumentando la già grande difficoltà di far fronte al suo compito. Né vi potrebbe essere il vantaggio della reciprocità perché il litorale mediterraneo francese è assai ristretto e praticamente non offrirebbe che Nizza quale preda. In queste condizioni le probabilità favorevoli sono troppo scarse a petto alle avverse, perché sia augurabile una tale lotta: la convenienza di evitarla s’impone! 2° dal punto di vista militare-marittimo: pur ottenendo la nostra flotta la completa indipendenza nei riguardi della politica interna per l’adempimento del suo difficile compito strategico-tattico, la lotta che si prospetta non dà affidamento di poter sicuramente conquistare quel dominio del mare necessario alla protezione del litorale nazionale contro le offese del nemico. Mi onoro infine di far presente all’E.V. che in caso di lotta contro Francia ed Inghilterra non è possibile garantire i necessari contatti colle nostre colonie poiché tutte le vie ad esse adducenti sono sotto il controllo inglese (148).

Sulle inadeguatezze dell’Italia a partecipare al «gran cozzo delle Nazioni», Volpe sarebbe tornato a riflettere con la stesura del volume, Il popolo italiano nella Grande Guerra, 1915-1918 (in fase di composizione, a detta dell’autore, nella primavera del

(148) La lettera è riprodotta in U. Ungari, La guerra del Re, cit., pp. 53-54.

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1943 (149), rimasto incompleto e pubblicato in forma frammentaria solo nel 1998), e soprattutto col corposo saggio inedito, Il popolo italiano nel primo anno della Grande Guerra, che significativamente si apriva con questo sconsolato paragrafo. Fra le Grandi Potenze, impegnate nella guerra mondiale, l’Italia, era l’ultima intervenuta, e anche la più piccola, quanto a popolazione, ricchezza e vastità territoriale. La differenza era enorme, sotto taluni aspetti, con la Russia, grandissima, sotto altri, con l’Inghilterra e anche Francia. Non aveva la possibilità di regolare essa, non che la guerra altrui, ma neppure in tutto la propria, dipendendo, nei suoi bisogni essenziali, dagli alleati o dai neutri; al contrario della Gran Bretagna, entrata liberamente in guerra e libera di ritrarsene quando avesse voluto, anche per la stessa insularità sua e per il dominio del mare, che la facevano veramente arbitra della propria guerra e della propria pace. E quanto a mezzi di guerra, l’Italia non si trovava né nelle condizioni dei popoli arretrati, dai bisogni rudimentali, dall’organizzazione quasi a tribù, dall’intatto originario spirito guerriero, e capaci di scendere rapidamente in campo e a lungo durarvi (Serbia). Né era in quella dei popoli saldamente organizzati da secoli in unità statale (Francia, Germania, Inghilterra e, sotto certi rapporti, Russia e Austria). Popoli che erano allenati a guerre continentali o coloniali, fiduciosi in sé per virtù delle grandi prove affrontate e superate, consapevoli di aver un grande passato e un grande presente da difendere. Popoli, come quello tedesco, che erano assistiti da un esteso sistema industriale, da un robusto sistema infrastrutturale, da immense risorse materiali e finanziarie, da una potente manifattura di (149) Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, Roma, 3 giugno 1943, Archivio della Fondazione Gentile, Roma.

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guerra, forniti di un saldo ordine militare cui tutto si subordinava, di una preparazione che, se anche deficiente in atto, esiste in potenza, esiste nello spirito del Paese, nei quadri che lo governano, ed è prontamente realizzata (150).

In Italia, invece, continuava Volpe, il panorama si presentava completamente diverso da quello offerto dagli altri Paesi belligeranti. Da noi, infatti, «l’esercito povero di quadri e con difficoltà di reclutarli, in una Nazione dove mancava vecchia nobiltà di tradizione guerriera e solida borghesia industriale, abituata a inquadrare e comandare uomini, la milizia territoriale esisteva solo sulla carta, la grande massa dei militarmente abili non era istruita». Le manchevolezze materiali dello strumento bellico, inoltre, erano aggravate dallo «scarso spirito aggressivo dell’esercito e, possiamo dire, della Nazione italiana», più idonei a battersi in una «guerra di difesa in senso stretto della parola» che a cimentarsi «in una guerra d’iniziativa, in una guerra offensiva» come quella in cui le nostre truppe si sarebbe trovate necessariamente impegnate. Ancora più preoccupante era poi lo stato del nostro sistema industriale, «enormemente progredito negli ultimi anni, ma di per se stesso sempre cosa modesta, come quantità e come qualità, impacciato ancora da molte aderenze e legamenti col di fuori e particolarmente con quei Paesi che stavano per diventare nostri nemici». Se, come sosteneva Volpe, il problema della riorganizzazione delle Forze Armate era stato almeno parzialmente risolto prima del 23 maggio grazie all’instancabile attivismo e al pugno di ferro (150) Il dattiloscritto di Volpe, Il popolo italiano nel primo anno della Grande Guerra, conservato presso l’Istituto Storico Italiano per l’età Moderna e Contemporanea di Roma, che ci è stato segnalato e messo a disposizione dalla cortesia del Direttore dell’Istituto, Professor Marcello Verga, è pubblicato qui di seguito, alle pp. 155-272, alle quali si rimanda per tutte le citazioni.

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di Cadorna (151), restava, invece, per molti versi, insoluto quello della riconversione del nostro sistema produttivo da industria civile a industria militare. Certo anche in questo campo governo e imprenditoria si erano mossi energicamente, già nel periodo della neutralità creando un circolo virtuoso tra iniziativa privata e intervento statale. E indubbiamente questa strategia produsse risultati non disprezzabili (152). Essa, infatti, negli anni a venire, grazie anche a un’incisiva riforma del sistema fiscale (153), avrebbe consentito di schierare sul campo un apparato militare di dimensioni quantitativamente non minori e non inferiore in termini di armamento rispetto a quello dispiegato dagli Inglesi sul fronte occidentale (154), (151) L. Cadorna, La Guerra alla fronte italiana, cit., I, pp. 40-85. Sul punto, B. Di Martino - F. Cappellano, L’esercito italiano da Pollio a Cadorna, in L’Italia neutrale, 1914-1915, cit.; E. Gin, Il generale “debole”. Cadorna e la condotta della guerra, in La Guerra di Cadorna, 1915-1917, cit., pp. 165-184; Id., La guerra italiana dal maggio 1915 a Caporetto, in Superare Caporetto, cit., pp. 15-24. (152) F. Saini Fasanotti, L’industria bellica alle soglie della Grande Guerra, tra mobilitazione e innovazione, in L’Italia neutrale, 1914-1915, cit., pp. 332-344. (153) G. Marongiu, La politica fiscale dell’Italia liberale (1861-1922), Torino, Giappichelli Editore, 2019, ai capitoli V e VI. (154) R. Romeo, La prima guerra mondiale, in Id., L’Italia alla prova. Risorgimento e prima Guerra Mondiale, Udine, Gasparri Editore, 2017, pp. 73-74. Sullo sforzo industriale posteriore al maggio 1915, che Volpe analizzò diffusamente nel suo progressivo sviluppo ne Il popolo italiano nella Grande Guerra, cit. pp. 21 ss., si veda C. Rostagno, Lo sforzo industriale dell’Italia nella recente guerra, Roma, Pinnaro, 1927; V. Franchini, La “Mobilitazione Industriale” dell’Italia in Guerra. Contributo alla storia economica della guerra, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1932; L. Einaudi, La condotta economica e gli effetti sociali della guerra italiana, Bari, Laterza, 1933; A. Caracciolo, La crescita e la trasformazione della grande industria durante la prima guerra mondiale in Lo sviluppo economico in Italia. Storia dell’economia italiana negli ultimi cento anni, a cura di G. Fuà, Milano, Franco Angeli, 1975, 3 voll., III, pp. 187-240; M. Mazzetti, L’industria italiana nella Grande Guerra, Roma, Stato Maggiore dell’Esercito - Ufficio Storico, 1979; R. Paci, Le trasformazioni

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contribuendo ad accrescere negli Alleati la fiducia per l’Italia che era stato considerata all’inizio dell’ostilità un poco affidabile «junior partner» (155). Eppure alla vigilia del conflitto, la situazione restava fortemente critica perché come Volpe annotava: Tutto si fece con certo sforzo e molta lentezza, quasi che la mentalità degli uomini, educati alla pace, con fatica si e innovazioni nella struttura economica, in Il trauma dell’intervento 1914-1919, a cura di A. Caracciolo, Firenze, Vallecchi 1979, pp. 29-55; L. Mascolini, Il Ministero per le Armi e Munizioni (1915-1918), in «Storia contemporanea», 11, 1980, 6, pp. 933-965; U. M. Miozzi, La Mobilitazione Industriale italiana (1915-1918), Roma, La Goliardica, 1980; L. Segreto, Armi e munizioni. Lo sforzo bellico tra mobilitazione e progresso tecnico, in «Italia contemporanea», 146-147, 1982, pp. 35-66; Id., Statalismo e antistatalismo nell’economia bellica, in La transizione dall’economia di guerra all’economia di pace in Italia e Germania dopo la prima guerra mondiale, a cura di P. Hertner - G. Mori, Bologna, il Mulino, 1984, pp. 301-334; Id., Un’ipertrofia inevitabile? La Mobilitazione Industriale e la trasformazione dell’apparato amministrativo per lo sforzo bellico, in La Guerra di Cadorna, 1915-1917, cit., pp. 56-70; L. Tommasini, Lavoro e guerra. La Mobilitazione Industriale italiana, 1915-1918, Napoli, Esi, 1997; A. Assenza, Il generale Alfredo Dallolio. La Mobilitazione Industriale dal 1915 al 1939, Roma, Stato Maggiore dell’Esercito - Ufficio Storico, 2010; P. Di Girolamo, La Mobilitazione Industriale, in Dizionario storico della prima guerra mondiale, a cura di N. Labanca, Bari-Roma, Laterza, 2016, pp. 195-206: M. Zaganella, La Mobilitazione Industriale: un pilastro nell’evoluzione del modello italiano d’intervento pubblico, in Istituzioni e società in Francia e in Italia nella prima guerra mondiale, cit., 2017, pp. 181 ss. Succintamente, per le pesanti ricadute finanziarie dello sforzo bellico sulle economie europee e su quella del nostro Paese, S. Di Leo, Il sistema finanziario della prima guerra mondiale tra debiti di guerra e riparazioni, in «Eunomia. Rivista semestrale di Storia e Politica Internazionali», 4, 2015, 2, pp. 77-100. Sulle conseguenze, di medio-lungo periodo, dello sforzo industriale bellico sull’economia italiana, rimandiamo, invece, a L. De Rosa, La grande guerra e la crisi economica dell’Europa, in «Rassegna Economica», 32, 1968, 6, pp. 1223-1272; R. Romeo, Breve storia della grande industria in Italia (1861-1961), Bologna, Cappelli, 1974; V. Castronovo, Storia economica d’Italia, Einaudi, Torino, 2006. (155) E. Boudas, L’Italie et les Alliés de 1914 à 1919, cit., pp. 207-241.

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adeguasse alle necessità della guerra. Si rimase assai lontani da quel che sarebbe stato necessario fare, anche calcolando non già col senno di poi ma con la semplice esperienza degli altri Paesi già impegnati, da tempo, nel conflitto. Attorno al maggio 1915, ha sostenuto il generale Luigi Capello, si calcolò che l’Italia non producesse più di 7000 proiettili al giorno e un limitato numero di cannoni. Brandite le armi, la situazione della nostra economia di guerra migliorò impetuosamente e ci si mise al passo con i nostri alleati e i nostri avversari ma anche allora parve che l’Italia non fosse pari al compito che si era data.

Preoccupazioni forse ancora maggiori destava la situazione morale all’interno del Paese, dove nelle piazze e nel Parlamento non si erano spente le braci della «guerra civile bianca» tra interventisti e neutralisti (anche se personalità come Croce e Giolitti, ed esponesti di rilievo, cattolici e socialisti, avevano cessato la loro opposizione alla presa d’armi). Né mancavano forti e sensate apprensioni per la situazione sul fronte diplomatico. Per Volpe, laico di stretta osservanza anche se non massone né anticlericale, una delle più insidiose pietre d’inciampo della guerra italiana era rappresentata, infatti, dalla Santa Sede, la cui opposizione alla nostra belligeranza nei ranghi dell’Intesa e gli sforzi a favore della pace si erano spesso tinti di una appena malcelata tendenziosità filo-austriaca (156). (156) Sull’azione della Sede Apostolica, sul piano interno e internazionale, prima e dopo il 23 maggio 1915, si veda F. Margiotta Broglio, Italia e Santa Sede. Dalla Grande Guerra alla Conciliazione. Aspetti politici e giuridici, Laterza, Bari, 1966; G. B. Varnier, Su alcuni aspetti dell’attività diplomatica della Santa Sede in favore della pace nel primo conflitto mondiale, Milano, Giuffrè, 1975, pp. 895-926; Id., “Una guerra ingiusta”. La Santa Sede e l’Italia tra neutralità e intervento (1914-1915), in «Anuario de Historia de

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Dopo il passaggio dell’Isonzo da parte delle nostre truppe, i rapporti tra gabinetto Salandra e Vaticano certamente migliorarono e insieme a questi migliorò anche l’atteggiamento del clero secolare e regolare e della maggioranza dei fedeli verso l’impegno bellico. I vescovi delle maggiori città italiane fecero aperta professione di patriottismo nelle loro Lettere pastorali. Lo stesso Pontefice, dopo aver annunciato tramite l’«Osservatore Romano» che la partenza dell’ambasciatore austriaco e germanico in Vaticano era da considerarsi «come conseguenza, “per necessità e per forza stessa delle cose”» della Legge delle Guarentigie, smentì seccamente «tutte le voci che attribuivano alla Santa Sede l’intenzione di portar ai prossimi congressi per la pace la questione romana», e si adoperò per sventare le trame degli Imperi centrali destinate a creare dissidi tra Stato italiano e Chiesa. Il 1° giugno 1915, Benedetto XV, inoltre, ricevette in udienza e benedì un gruppo di religiosi richiamati alle armi e, dopo pochi giorni, procedette alla nomina di un Vescovo castrense, destinato a risiedere presso il Comando Supremo per la cura religiosa dell’Esercito. La fine delle ostilità tra Quirinale e il Sacro Soglio sembrò a questo punto sottoscritta ma forse quella conclusione era veramente troppo ottimistica. Secondo Volpe, il Vaticano non si era rassegnato a confinarsi nel ruolo di accorato la Iglesia», 23, 2014, pp. 17-39; F. Latour, De la spécificité de la diplomatie vaticane durant la Grande Guerre, in «Revue d’histoire moderne et contemporaine», 43, 1996, 2, pp. 349-365; Id., La papauté et les problèmes de la paix pendant la Première Guerre mondiale, Paris, L’Harmattan, 1996; G. Paolini, Offensive di pace. La Santa Sede e la prima guerra mondiale, Firenze, Polistampa, 2008; A. Scottà, Papa Benedetto XV. La Chiesa, la Grande Guerra, la pace (1914-1922), Roma, Edizioni di Storia e letteratura, 2009; M. L. Napolitano, La Santa Sede e il problema della neutralità, in L’Italia neutrale, 1914-1915, cit., pp. 439-453.

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spettatore della conflagrazione europea né aveva rinunciato ai suoi più temerari progetti politici. Il Pontificato romano un’alta, sua ambizione, tuttavia, la aveva. E aveva, con Benedetto XV, un suo programma, in rapporto alla situazione presente dell’Europa: accelerare la fine della guerra, spingere i Governi alla pace, elevarsi al cospetto dei popoli come grande e massima forza morale del mondo. Siamo al 28 luglio. Un anno giusto di guerra. Ed ecco Benedetto XV, il “sacerdote pacificatore”, il “dottore e vindice del diritto” (“La Civiltà Cattolica”), lanciava la sua prima esortazione al Governi di troncare “l’orrenda carneficina che da un anno ormai disonora l’Europa”. […] Era l’ideale chiesastico contrapposto ad un altro ideale. E nello sforzo di realizzarsi, esso presentava la guerra come pura violenza, incapace di risolvere i problemi in gioco; affermava un diritto degli individui, dei fedeli, della società religiosa, anche di fronte allo Stato, e tendeva a svincolare il cittadino, in quanto credente, dalla dipendenza assoluta verso di quello; considerava i Governi, se non proprio responsabili della guerra, certo arbitri della pace, ciò che poteva risolversi in inconsapevole sobillamento delle masse, già di per sé proclivi, specie in Italia, a chieder conto di tutto al Governo (157). (157) Falliti i precedenti tentativi di mediazione, esperiti, il 1° novembre 1914, con l’enciclica Ad Beatissimi Apostolorum, e, il 10 gennaio 1915, con la pubblicazione della sua Preghiera per la pace, il 28 luglio seguente, Benedetto XV diede alle stampe, sull’«Osservatore Romano», un’esortazione apostolica, in commemorazione del primo anniversario dello scoppio del conflitto, dove si chiedeva «ai Popoli belligeranti e ai loro capi» di deporre le armi e di aprire i negoziati. Era un documento importantissimo, che anticipava i contenuti della Nota di Pace del 1917. In questo testo, il Pontefice lanciava un monito contro l’esasperazione sciovinistica, ricordando che se si fossero misconosciuti i diritti delle Nazioni «umiliate e oppresse», queste avrebbero preparato la riscossa

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Anche presso i Paesi neutrali, per non parlare della Confederazione Elvetica, i cui comandi militari erano attraversati da forti simpatie per il Reich guglielmino (che spinsero Cadorna a predisporre uno schieramento difensivo in grado di proteggere la Lombardia da un possibile attacco proveniente dal territorio svizzero) (158), la guerra italiana trovava scarse e tiepidissime simpatie. Né molto diverso, annotava Volpe, fu, paradossalmente, il sentimento dell’opinione pubblica alleata succube di «un accorto lavorio giornalistico, non so quanto spontaneo, che presentò, durante la neutralità, gli Italiani ora mercanteggianti fra Triplice e Intesa, ora intenti a scroccare le loro fortune, precipitandosi sui cadaveri». Un lavorio, aggiungeva Volpe, dove non mancarono neppure «quasi a impiantar la futura battaglia diplomatica, le prime battute polemiche, che poi diverranno piena orchestra, su “l’imperialismo italiano in Adriatico”» (159). trasmettendo, di generazione in generazione, un triste retaggio di odio e di vendetta». Sul punto, D. Menozzi, Chiesa, pace e guerra nel Novecento. Verso una legittimazione religiosa dei conflitti, Bologna, il Mulino, 2008, pp. 15-18. (158) Questa misura, a torto ritenuta inutile e dispendiosa in termini di uomini e di mezzi, trova oggi la sua giustificazione, in alcuni documenti conservati nell’archivio di Berna, dai quali si ricava che lo stesso governo svizzero era preoccupato da questa eventualità. Come avrebbe scritto lo stesso Cadorna nelle sue memorie, «data la grande prevalenza numerica tedesca dei cantoni svizzeri (18 su 22) e la conseguente notevolissima maggioranza tedesca nell’esercito era da temere che una istintiva simpatia per la causa degli Imperi centrali potesse condurlo a forzare la mano al governo federale e costringerlo a schierarsi a fianco di Austria e Germania». Si veda L. Cadorna, La neutralità svizzera durante la guerra, in Id., Altre pagine sulla Grande Guerra, Milano, Mondadori, 1925, pp. 27 ss., in particolare pp. 31-32. Sul punto, rimando a E. Di Rienzo, In difesa di Luigi Cadorna, in «Corriere della Sera», 27 ottobre 2017. (159) Sul punto, ora, R. Brizzi, Osservata speciale. La neutralità italiana nella Prima guerra mondiale e l’opinione pubblica internazionale (1914-1915), Firenze, Le Monnier, 2015.

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Inoltre, nella strategia di comunicazione promossa da Londra e Parigi, fin dall’inizio del nostro ingresso nel conflitto, il contributo militare italiano fu volutamente sottovalutato come furono taciute o minimizzate le sofferenze delle popolazioni italofone del Trentino, della Venezia Giulia, dell’Istria, della Dalmazia sottoposte alle dure ritorsioni del Regio Imperial Governo, a differenza di quanto si fece, invece, per bollare d’infamia, ingigantendone la portata, le violenze perpetrate dalle truppe tedesche nel Belgio. Il 27 e 28 maggio, in seguito ad ordini da Vienna, si procedé a vaste catture di cittadini sospetti, uomini e donne, specie fra gli elementi della borghesia e artigianato. Fu la rovina di centinaia e centinaia di famiglie, già colpite duramente dalla guerra. Vi erano comuni di 3000 o 4000 anime che, a fin di maggio 1915, contavano oltre cento morti sul fronte galiziano. Rimanevano sul posto solo gente di cui il governo austriaco si fidava; o gente timorosa, ancora attaccata al vecchio Imperatore, diffidente verso gli Italiani, che furono malfamati come provocatori di nuova guerra, persuasa più di un prossimo ritorno degli Austriaci che non di una lunga permanenza degli Italiani. Anche in Valsugana, molti arresti e internamenti: solo che, qui, l’arrivo delle truppe nostre arrestò il forzato esodo. Si faceva strada il programma di sbarazzar il Paese della sua infida popolazione: vecchio programma di gruppi pangermanisti d’oltre Alpe, che la guerra avvalorò. In Italia si disse, a proposito delle provincie irredente: “un nuovo Belgio”. Ma fuori d’Italia, pochissimi se ne accorsero. Gli occhi del mondo lagrimavano, allora, solo per il Belgio. Anche in Italia, la democrazia interventista seguitò ad additare “il povero Belgio”, alla pietà e all’ira degli Italiani in guerra. D’altra parte, poco si sapeva, da noi, di quel che avveniva in Trentino e dell’angoscia delle donne rimaste sole – 108 –


ma non senza spirito di opposizione di fronte alla legge di guerra austriaca (160).

Sul tema della “guerra ai civili” (brutalità, maltrattamenti vessazioni, internamento coatto, forzato spopolamento etnico), Volpe ritornò più volte nelle pagine de Il popolo italiano nel primo anno della Grande Guerra. E lo fece senza celare che quei crimini di guerra furono commessi egualmente, seppure, in diversa misura dalle due parti in lotta (161), inaugurando, proprio in questo (160) Su questo tema, si veda D. Leoni - C. Zadra, La città di legno: profughi trentini in Austria 1915-1918, Trento, Temi, 1995; M. Eichta, Braunau-Katzenau-Mitterndorf 1915-1918: il ricordo dei profughi e degli internati del Trentino/Braunau-Katzenau-Mitterndorf 1915-1918: Erinnerung an die Fluchtlinge und Internierten des Trentino, Cremona, Persico Edizioni, 1999; F. Ceccotti, Internamenti di civili durante la prima guerra mondiale: Friuli austriaco, Istria e Trieste, in “Un esilio che non ha pari”. 1914-1918. Profughi, internati ed Emigrati di Trieste, dell’Isontino e dell’Istria, a cura di F. Ceccotti, Gorizia, Libreria Editrice Goriziana, 2001, pp.71-97; S. Milocco - G. Milocco, “Fratelli d’Italia”. Gli internamenti degli Italiani nelle “Terre liberate” durante la Grande Guerra, Udine, Gaspari Editore, 2002; F. Frizzera, Spostamenti forzati, controllo poliziesco e politiche di assistenza. I profughi trentini nel contesto europeo, in Il Trentino e i Trentini nella Grande Guerra. Nuove prospettive di ricerca, a cura di M. Bellabarba e G. Corni, Bologna, il Mulino, 2017, pp. 11-42; A. Livio, L’amministrazione dell’internamento della popolazione di lingua italiana in Austria-Ungheria. Prime ricerche, ivi, pp. 43-69; C. Ambrosi, Vite internate: Katzenau, 1915-1917, Trento, Fondazione Museo storico del Trentino, 2008; A. Di Michele, Tra due divise. La Grande Guerra degli Italiani in Austria, Bari - Roma, Laterza, 2018. Infine, sulle violenze contro le popolazioni italofone toccate dall’avanzata austriaca, si veda D. Ceschin, L’invasione, l’occupazione e la violenza sui civili dei territori invasi, in Superare Caporetto, cit., pp. 83-94. (161) Sulle misure amministrative riguardanti i sudditi germanofoni e slavi residenti nei territori conquistati dal regio Esercito, si veda E. Ellero, Autorità militare italiana e popolazione civile nell’Udinese (maggio 1915-ottobre 1917). Sfollamenti coatti e internamenti, in «Storia contemporanea in Friuli», 18, 1998, 29 pp. 9-107; G. Procacci, L’internamento di civili in Italia durante la prima guerra

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saggio, un genere storiografico, che solo da pochi decenni ha trovato pieno diritto di cittadinanza nel canone della ricerca accademica. A diminuire lo slancio del nostro impegno bellico non fu solo, comunque, la malevola campagna di stampa orchestrata a Londra e a Parigi ma anche, come annotava Volpe, la parsimonia con la quale il governo britannico s’impegnò, nel Patto di Londra, a fornirci un aiuto economico, sottoscrivendo «clausole che, per quanto riguardava la parte finanziaria e dei rifornimenti, poterono più tardi esser materia di melanconico sorriso, tanto si rivelarono fuori della realtà». In realtà la richiesta di Sonnino inoltrata a Imperiali, il 16 febbraio, secondo la quale il Regno Unito doveva «impegnarsi ad agevolare l’immediata conclusione a eque condizioni di un prestito di non meno di quaranta milioni di sterline da concludersi sul mercato di Londra», fu recepita nel testo dell’accordo del 26 aprile dove l’articolo 14° recitava appunto che «la Grande-Bretagne s’engage à faciliter la conclusion immédiate, dans des conditions équitables, d’un emprunt d’au moins 50 millions à émettre sur le marché de Londres» (162). Quella cifra, come poi ebbe a rilevare Giolitti, rimproverando Salandra e Sonnino di aver accettato condizioni tanto svantaggiose (163), si rivelò, tuttavia, soltanto uno striminzito obolo a mondiale. Normativa e conflitti di competenza, in «Deportate, Esuli, Profughe», 2006/5-6, pp. 34-66; Id., La limitazione dei diritti di libertà nello Stato liberale. Il piano di difesa (1904-1935). L’internamento dei cittadini nemici e la lotta ai “nemici interni” (1915-1918), in «Quaderni Fiorentini per la storia del pensiero giuridico», 38, 2009, 1, pp. 601-652; F. Frizzera, Cittadini dimezzati I profughi trentini in Austria-Ungheria e in Italia (1914-1919), Bologna, il Mulino, 2018. (162) DDI, Quinta Serie, II, p. 696; DDI, Quinta Serie, III, p. 373. (163) G. Giolitti, Memorie della mia vita, cit., p. 521: «E che anche il governo prevedesse allora una guerra brevissima è provato soprattutto dal testo

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fronte dello sforzo del nostro Paese se si considera che «i consumi pubblici, calcolati in lire del 1938, passarono in Italia da quattro miliardi di lire nel 1913 a 22 nel 1918, dopo aver raggiunto nel 1917 il vertice di 32 miliardi e che al contempo, le spese di guerra lievitarono da 2,4 miliardi nel 1915-1916 a 20,6 miliardi nel 1917-1918» (164). E sulla sproporzione tra il magro contributo concesso dalla Gran Bretagna e questo salasso di straordinarie proporzioni, che richiese non solo l’impegno di tutte le risorse del Paese, ma anche il sacrificio di una parte della ricchezza nazionale preventivamente accumulata, sarebbe tornato a riflettere Salandra, dopo la fine del conflitto, in uno sconsolato mea culpa dove però non mancava un cocente rimprovero verso l’avarizia degli Alleati. Meschina, di fronte all’enormità delle spese della guerra, apparve subito la cifra di 50 milioni di sterline, per la quale l’Inghilterra s’impegnò ad agevolarci un prestito a eque condizioni. Ma non se ne deve desumere che la reputassimo sufficiente per una guerra che ritenevamo brevissima. Chiedemmo immediatamente poco al solo alleato, cui ci parve possibile di chiedere; perché non volevamo entrare in guerra come mercenari pagati con denaro inglese a simiglianza di qualche Stato continentale durante le guerre napoleoniche. E fu bene, se si pensa alla svalutazione del nostro concorso, in cui associati e del Patto di Londra […] In quel Patto, infatti, per la parte finanziaria, si era stipulato solamente l’obbligo dell’Inghilterra di facilitare all’Italia un prestito di cinquanta milioni di sterline, somma inferiore a quanto abbiamo poi speso in ogni mese di guerra. Inoltre, in quel Patto non si era fatto accordo alcuno per i noli marittimi, né per gli approvvigionamenti di carbone, ferro, grano, e di altre materie prime che a noi mancavano e che erano indispensabili per una guerra che non fosse brevissima». (164) R. Romeo, La prima guerra mondiale, cit. p. 73.

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alleati cooperarono nel 1919. Altri prestiti, a condizioni, in verità, non sempre eque, li ottenemmo per necessità di cose; e ne risentiamo tuttora gli effetti. Il Paese fece ad ogni modo, con i propri mezzi, uno sforzo, del quale nessuno di noi lo avrebbe preveduto capace; come nessun economista avrebbe calcolato che in Italia vi fosse tanta ricchezza disponibile quanta se ne consumò in quegli anni. Nulla prevedemmo circa i rifornimenti di materie prime e di materiale bellico a noi indispensabili. Fu male, ma comunque non più di vaghi e incerti impegni avremmo potuto ottenere in quel momento, in cui la crisi delle armi e delle munizioni paralizzava in parte la Russia e turbava la stessa Inghilterra. Fin dai primi mesi di guerra, io stesso ebbi a lamentarmi non senza amarezza con Grey per la lentezza e lo scarso buon volere nel rendersi conto e nel sovvenire ai nostri imprescindibili bisogni. Certo anche noi errammo nel non aver avanzato maggiori richieste. Ma allora fummo quasi esclusivamente padroneggiati dal nostro più alto obiettivo: compiere l’impresa del Risorgimento redimendo le terre soggette ancora allo straniero e assidendo sicura nei suoi termini naturali e storici la potenza dello Stato italiano. Poiché quel momento storico parve allora arrivato, ogni altra considerazione o non ci si presentò alla mente, o ci apparve trascurabile al paragone di quella di non lasciarlo sfuggire. Lo stesso Sonnino, che aveva attitudine di acuto ed esperto finanziere, e ne aveva data prova nella restaurazione delle finanze italiane nel 1894-95, pareva in quel tempo, non so se inconsciamente o pensatamente, poco preoccupato delle questioni di economia e di finanza (165).

Ancora più difficili, comunque, furono i rapporti tra Italia e Intesa sul piano strettamente militare, dove, fin dall’inizio, si (165) A. Salandra, L’intervento, cit., pp. 188-190.

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registrò la difficoltà, per non dire la resistenza e la contrarietà dei gabinetti alleati, di arrivare a una strategia globale, comune e condivisa, almeno sul fronte marittimo a noi particolarmente sfavorevole (166). Certo, Volpe non esagerava, quando bollava, a lettere di fuoco, il mancato intervento delle forze navali francobritanniche, già prima della nostra belligeranza, «contro le posizioni munitissime, per natura e arte, che l’Austria aveva su l’altra sponda dell’Adriatico, da Pola a Cattaro». Da queste posizioni, infatti, dove erano ancorate «forze navali ancora intatte anzi accresciute negli ultimi mesi», partirono, il 24 maggio 1915, «rapide scorrerie d’incrociatori leggeri, e di non grandi navi, di squadriglie di aeroplani, di dirigibili, apparsi improvvisamente davanti a Porto Corsini, a Rimini, a Pesaro, a Fano, a Senigallia, ad Ancona, sul cielo d’Abruzzo e di Puglia». Furono, quelle, incursioni, micidiali per i danni materiali e ancora più per quelli psicologici sul morale dei civili che, però, si sarebbero potute impedire o almeno depotenziare con un attacco preventivo dei nostri futuri alleati contro le roccaforti della Kaiserliche und Königliche Kriegsmarine. L’anno innanzi, vi erano ancora condizioni favorevoli per una flotta dell’Intesa che avesse voluto tentare azioni da quella parte. Ma Francia e Inghilterra non avevano saputo o voluto approfittarne. Spirito e intenzioni veramente offensive, verso l’Austria-Ungheria, quelle due Nazioni non li ebbero (166) Sulle criticità della nostra Marina, aggravate dalle condizioni geostrategiche del teatro operativo adriatico, del tutto favorevole alla strategia difensiva e offensiva dell’Imperial Regia Marina, si veda A. Turrini, Origini della Grande Guerra - L’importanza della questione navale nell’entrata in guerra dell’Italia a fianco dell’Intesa, in «Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico dell’Ufficio Storico della Marina Militare», 30, 2016, pp. 7-20; E. Ferrante, Le operazioni navali in Adriatico 1915-1918, ibidem, pp. 93-176, in particolare pp. 106-115.

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mai. E la loro modesta attività bellica nell’Adriatico, dall’agosto 1914 in poi, aveva avuto più scopi politici che militari. Si volgeva ai nemici perché i neutri udissero. Specialmente era bene che udisse l’Italia.

Sicuramente lo storico, nel vergare quelle righe, dimenticava, colposamente e capziosamente, di ricordare che, dalla seconda metà del 1914, il grosso delle forze navali alleate era stato tenuto in riserva in vista del loro impiego nella campagna di Gallipoli, con cui Francia e Inghilterra si proponevano il forzamento dello stretto dei Dardanelli con l’obiettivo di occupare Costantinopoli, costringere l’Impero ottomano a deporre le armi e ristabilire le comunicazioni con la Russia attraverso il Mar Nero (167). È indubbio, però, che, anche a voler tener conto di alcune rare e sfortunate azioni della flotta francese portate a termine all’inizio del conflitto contro il litorale austriaco, persino dopo il nostro ingresso in guerra e la contrastate trattative per arrivare alla sigla della Convenzione navale del 10 maggio 1915, lo specifico contributo della Royal Navy e della Marine Nationale alle nostre operazioni in Adriatico, complici anche le pretese e le diffidenze di Parigi, non fu certo adeguato alle nostre attese (168). E ciò avvenne in mancata ottemperanza all’istanza di Sonnino, formulata nel memo-

(167) E. J. Erickson, Gallipoli: The Ottoman Campaign, Barnsley, Pen & Sword Military, 2010; M. Gürcan - Robert Johnson (eds.) The Gallipoli Campaign: The Turkish Perspective, London, Routledge - Taylor and Francis Group, 2016. (168) C. Manfroni, I nostri alleati navali. Ricordi della guerra adriatica, 1915-1918, Milano, Mondadori, 1927; M. Gabriele, Origine, trattative e aspetti della Convenzione navale italo-franco-britannica del 10 maggio 1915, in «Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico dell’Ufficio Storico della Marina Militare», 30, 2016, pp. 47-96.

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randum inviato a Imperiali, il 16 febbraio 1915, con la quale si subordinava la nostra belligeranza «alla stipula fin da ora di una convenzione navale che assicuri all’Italia la cooperazione attiva e permanente della flotta anglo-francese fino alla distruzione della flotta austro-ungarica o alla conclusione della pace» (169). Inutilmente queste richieste furono poi ripetute dal titolare degli Esteri, il 20 marzo, cui fecero seguito le raccomandazioni di Thaon de Revel, comunicate a Sonnino, il trentuno seguente, dove si sosteneva che «considerata la presente relatività di potenza della flotta italiana e austriaca, per compensare il notevole vantaggio bellico di questa rispetto a quella, derivante dalla maggiore capacità strategica delle sponde adriatiche orientali, rispetto alle occidentali, sarà necessario un concorso attivo da parte degli alleati, costituito da almeno ventiquattro cacciatorpediniere moderni, e da sei navi da battaglia di velocità assicurata non inferiore a 17 miglia, con armamento principale da 305 mm» (170). Anche Salandra, infine, ricordò nelle sue memorie, di essersi mosso in quella direzione, premendo su Londra, senza tuttavia ottenere nessun risultato dalle sue domande di aiuto. Invano, sperammo che un’azione decisiva della flotta anglo-francese in Adriatico ci avesse messi nella condizione di poter noi, con le armi nostre, riconquistare il mare nostro e le terre nostre, che vi si specchiano, e impedire che il riscatto dalla signoria austriaca avesse luogo col solo concorso degli Slavi del Sud, Serbi e Montenegrini. Ma l’Ammiragliato inglese non ne volle sapere. Esso riteneva che non convenisse attaccare direttamente le opere fortificate, al cui riparo si (169) DDI, Quinta Serie, II, p. 694. (170) DDI, Quinta Serie, III, pp. 122-123, 188.

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trovavano le forze navali austriache; che nell’Alto Adriatico la ristrettezza delle acque si prestasse egregiamente agli attacchi delle siluranti; che ogni navigazione a nord di Brindisi era malsicura; che, in quello stadio della guerra, bastasse tener colà relegata la flotta austriaca, in guisa da esigerne la consegna in caso di vittoria terrestre senza porre a repentaglio alcuna delle flotte alleate (171).

Meglio, comunque, le cose procedevano nel teatro domestico, dove si erano progressivamente attutiti i fortissimi contrasti che avevano preceduto la dichiarazione di guerra. La tregua (provvisoria) della lotta intestina tra Nazionalisti dell’ANI, Nazionali Liberali, liberali salandrini, giolittiani, socialisti, cattolici, fu inaugurata dall’accoglienza ricevuta dal discorso di Salandra, pronunciato al Campidoglio, il 2 giugno 1915. Discorso con il quale il Presidente del Consiglio chiariva le ragioni della nostra presa d’armi, da un lato, e, dall’altro, denunciava l’ambiguo atteggiamento di Vienna e Berlino che non avevano esitato a servirsi di ricatti e minacce, di manovre irrituali e illegittime, persino di menzogne propalate all’opinione pubblica italiana per impedire al nostro governo di varcare il Rubicone che lo separava dalla guerra (172). Se Volpe non fu interamente soddisfatto di quell’intervento, ritenendo «non tutto opportuno quello che disse Salandra che indulse alle dicerie di piazza e non conferì alla pacificazione degli animi, quando accennò agli “obliqui contatti” di uomini politici (171) A. Salandra, La neutralità italiana, cit., pp. 184-185. (172) Id., Il discorso del Campidoglio, 2 giugno 1915, in Id., I discorsi della Guerra, cit., pp. 35-57. Sul punto, si veda anche Id., L’intervento, cit., pp. 185, 317-321, 334.

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italiani con i diplomatici degli Imperi centrali», le parole pronunciate nell’antico cuore politico dell’Urbe ricevettero vive manifestazioni di consenso da parte di Francesco d’Ovidio, Giustino Fortunato, Luigi Cadorna, Filippo Meda (uno dei più autorevoli esponenti del movimento cattolico). Né mancarono vivi apprezzamenti della stampa dell’Intesa, di quella neutrale, e, per citare lo stesso Volpe, «di tutti o quasi tutti gli Italiani pensanti». Non solo il neutralista Croce, passato ora a un atteggiamento di fattivo impegno patriottico, che lo spinse all’inizio di maggio ad assumere la presidenza del Comitato di preparazione alla guerra di Napoli, espresse compiacimento per quell’allocuzione (173). Anche l’«Avanti!» del 3 giugno pubblicò integralmente, in apertura, il testo pronunciato da Salandra, senza aggiungere alcun commento critico. Di più, rilevava Volpe, «fece la “Civiltà Cattolica”, rivista dei Gesuiti, la quale, occupandosi nel fascicolo di giugno del discorso del Cancelliere tedesco, Theobald Bethmann-Hollweg, e di quello di Salandra, affermò che non potevano esser lasciate passare sotto silenzio le accuse tedesche e che stolte erano state queste accuse e che, malamente, i due Imperi avevano creduto di potere, con intrighi e denaro, legar le mani di una Nazione frapponendosi fra governo e Paese». Passato il clima di rissa civile, che aveva segnato il periodo della neutralità, si arrivò, rapidamente, dunque, a un clima, completamente diverso, seppur precario e instabile, di pacificazione degli animi, di calore patriottico, di disciplina, di lavoro, di consapevolezza dei sacrifici necessari al successo nella prova bellica, paragonabile in qualche modo «all’entusiasmo degli interventisti, (173) B. Croce, Taccuini di lavoro, 1946-1949, Napoli, Arte Tipografica, 1987, 5 voll., I, pp. 446-452. Si veda anche Id., Per la preparazione civile in Napoli, 3 maggio 1915, in Id., Pagine sulla guerra, cit., pp. 39-44.

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cioè di quelli che, quantitativamente, erano minoranza e, qualitativamente, forza d’impulso». Clima che, ora, riguardava tutto il Paese e in ogni caso la sua larga maggioranza. Anche nel popolo si fece vivo quel sentimento che aveva germinato, sotto lo strato in ebollizione di quelli che si erano accapigliati pro e contra la guerra, i riscaldati per la civiltà latina o la cultura germanica, commossi per il Drang nach Osten o per l’avvenire del Mediterraneo che insemina, di quelli, cioè, che erano intervenuti in rappresentanza della politica o della coltura. Fu allora che la grande massa cominciò a mostrare il suo volto, essa che di tutto quel vocio non aveva sentito nulla o afferrato solo pochi elementi più concreti. Era, fondamentalmente, paziente, disciplinata o capace di disciplina, non sorda alle buone ragioni e alle buone regole. Nel “fare”, era migliore assai di quel che a volta non si potesse desumere da talune esterne manifestazioni. Contadini e operai attesero tranquillamente all’opera, anche e in ispecie quelli delle industrie belliche. La mietitura si svolse tranquillamente, né mancarono le braccia: e, anzi, essa, diede lavoro a molti disoccupati, non assorbiti ancora né dall’esercito né dall’industria. Neanche si ebbe in Italia ciò che si verificò, altrove, ad esempio in Inghilterra, cioè agitazioni ricattatorie volte ad elevare i salari, approfittando dell’urgenza del lavoro. Se mai, circolò piuttosto qualche voce in senso contrario: d’industriali che si giovavano della qualità di esonerati di molti loro operai per tentar di tenerli a basso salario […] Ottimamente anche i ferrovieri, di cui molto si temeva, freschi come erano di agitazioni e di scioperi, come quelli della “Settimana rossa” del giugno 1914, che avevano paralizzato larghi tratti delle linee ferrate. In altri Paesi, il servizio pubblico delle ferrovie, all’inizio della guerra fu sospeso per lunghi periodi. Da noi, no. E questo non accadde, pur essendo – 118 –


scarso il materiale rotabile, poche le strade ferrate longitudinali, a correzione della forma allungatissima della Penisola e nessuna a doppio binario, la ferrovia adriatica esposta quasi tutta a colpi di mano dal mare e in più punti interrotta fin dalle prime ore delle ostilità (174).

Il contributo alla guerra della società civile non si esaurì unicamente, comunque, nella pace sociale e nella straordinaria operosità di uomini e donne che miracolosamente parve regnare, indisturbata, nei campi, nelle officine, in tutte le trincee del lavoro (175). Dopo il maggio 1915 si moltiplicarono, infatti, in tutte le città italiane, i Comitati di mobilitazione civile, istituzioni di carattere spontaneo, dove fu immediatamente forte la presenza femminile (176), e che colmarono le immancabili lacune dell’in(174) Sul clima insurrezionale, sviluppatasi ad Ancona e propagatasi dalle Marche alla Romagna, alla Toscana e in altre regioni, tra il 7 e il 14 giugno 1914, dopo l’uccisione di tre manifestanti avvenuto ad Ancona ad opera della forza pubblica, si veda L. Lotti, La Settimana rossa, Le Monnier, Firenze 1972 (175) Sulla «mobilitazione del fronte del lavoro», A. Staderini, Combattenti senza divisa. Roma nella Grande Guerra, Bologna, il Mulino, 1995; Id. Fronte interno: le città italiane tra intervento dello Stato e mobilitazione civile, in La Guerra di Cadorna, 1915-1917, cit., pp. 157-164; M. Ermacora, Cantieri di guerra. Il lavoro dei civili nelle retrovie del fronte italiano (1915- 1918), Bologna, il Mulino, 2005; Un Paese in guerra. La mobilitazione civile in Italia (1914-1918), a cura di D. Menozzi, G. Procacci, S. Soldani, Milano, Unicopli, 2010; S. Bartoloni, La mobilitazione femminile, in Dizionario storico della Prima guerra mondiale, cit., pp. 279-290; La Grande Guerra e le ferrovie in Italia, a cura di A. Giuntini e S. Maggi, Bologna, il Mulino, 2018. (176) S. Bartoloni, L’associazionismo femminile nella prima guerra mondiale e la mobilitazione per l’assistenza civile e la propaganda, in Donna lombarda, 1860-1945, a cura di A. Gigli Marchetti, N. Torcellan, Milano, Franco Angeli, 1992, pp. 65-91; E. Schiavon, Interventiste nella Grande Guerra: assistenza, propaganda, lotta per i diritti a Milano e in Italia (1911-1919), Milano, Le Monnier -AMondadori/Education, 2014.

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tervento governativo il quale pure non mancò ai suoi doveri (177). Quei Comitati, come Volpe ricordava, «furono subito migliaia, nei piccoli e grandi centri, ed ebbero struttura elementare o si organizzarono come complesse aziende, con sottocomitati, o sezioni più o meno numerose, come a Milano, dove il 4 giugno si costituì il Comitato Centrale di assistenza per la guerra e dove il Comune creò sette uffici: cioè “Sussidi alle famiglie”, “Tutela della fanciullezza”, “Disoccupazione e profughi rimpatriati”, “Interessi economici e personali dei militari”, “Assistenza morale ai feriti e convalescenti”, “Opere sussidiarie”». A essi si aggiunsero, pur tra gli ostacoli opposti «dalle lentezze burocratiche, specie della burocrazia militare», i Comitati di assistenza agraria, gli Uffici Notizie, per le famiglie dei soldati, l’Istituto Nazionale per gli orfani di guerra, la Commissione dei prigionieri di guerra della Croce Rossa e una vasta rete d’assistenza, in cui confluirono l’Unione femminile italiana, la Dante Alighieri, la Lega Navale, i gruppi dei Giovani esploratori, il Club Alpino, il Touring Club, le amministrazioni ospitaliere e non ultimi le grandi aziende industriali e gli Istituti di credito «che presero immediati provvedimenti per il personale sotto le armi e per le loro famiglie». In questo largo sostegno, che il popolo in borghese offrì al popolo in divisa e ai loro congiunti, primeggiarono, naturalmente, le più ricche città centro-settentrionali (e tra (177) A. Fava, Mobilitazione patriottica, assistenza all’infanzia, educazione nazionale nella scuola elementare dell’Italia in guerra (1915-1918), in Un Paese in guerra. La mobilitazione civile in Italia (1914-1918), cit., pp. 147-182; P. Pironti, Il Parlamento italiano e l’assistenza alle vittime di guerra (1915-1918, in Parlamenti di guerra (1914-1945). Caso italiano e contesto europeo, a cura di M. Meriggi, Napoli, FedOA - Federico II University Press, 2017 pp. 115-182. Si veda anche G. Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella Grande Guerra. Con una raccolta di lettere inedite, Torino, Bollati Boringhieri, 2000.

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esse soprattutto Milano e Roma) ma non mancarono all’appello neanche i centri delle regioni più disagiate del Meridione come la Basilicata (178). Secondo Volpe, comunque, il fenomeno che meglio denotò la nuova temperatura morale della Nazione era stato quello del «volontariato militare» (179). Fu, infatti, quel fenomeno esteso ma anche molto composito («Parola unica: volontari. Ma essa conteneva varietà grande di sostanza»), per la diversità degli elementi della società italiana che affluirono in esso. Ed esteso lo fu certamente molto più di quanto ci dicano le aride cifre ufficiali (poco più di 8000 volontari a petto dei 5.698.000 richiamati delle classi 1876-1900), perché a quel numero vanno aggiunti i 10.000 cittadini italiani mobilitati che avevano decisero di anticipare, senza alcun obbligo, la loro partenza verso il fronte. A quel totale inoltre occorre sommare molti emigrati e i loro figli e nipoti non naturalizzati (300.000 rimpatriati che risposero alla chiama(178) Rispettivamente, B. Bracco, Combattere a Milano. 1915-1918. Il corpo e la guerra nella capitale del fronte interno, Milano, Editoriale Il Ponte, 2006; G. Morese, La mobilitazione civile in Basilicata fra assistenza e propaganda durante la Grande Guerra, 1915-1918, Galatina, Congedo Editore, 2018. (179) A. Ventrone, La seduzione totalitaria, cit., pp. 60 ss. G. Rochat, La forza alle armi, in Gli Italiani in guerra. Conflitti, identità, memorie dal Risorgimento ai giorni nostri. III. La Grande Guerra: dall’intervento alla «vittoria mutilata», a cura di M. Isnenghi, Torino, Utet, 2008, pp. 187 ss.; Volontari italiani nella Grande Guerra (1914-1918), a cura di F. Rasera e C. Zadra, Rovereto. Museo Storico Italiano della Guerra, 2009; E. Cecchinato, Volontari in divisa. Dall’interventismo alla trincea, in «Studi piacentini», 41, 2011, pp. 66-99. La diffusa vulgata, ribadita da Volpe, che il fenomeno del «volontarismo» fosse diffuso soprattutto nelle regioni settentrionali che avevano dato il maggior contributo alle guerre risorgimentali è oggi contraddetta da nuovi studi. Si veda G. Ferraro, Dalla piazza «rossa» alla piazza «tricolore»: la Calabria interventista, 1914-1915; G. Poidomani, La Grande Guerra dei siciliani: il lutto e la memoria, in «Nuova Rivista Storica», 101, 2017, 3, pp. 991-1042.

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ta su un totale di 1.200.000 in età di servizio), formalmente sottoposti agli obblighi di leva, per i quali però da molto tempo era pressoché accettata l’eventualità che il rifiuto del servizio militare non dovesse dar luogo a vere e proprie sanzioni, le quali, in ogni caso, erano scongiurate, di fatto, da periodiche sanatorie di legge che nel 1914 erano diventate quasi la norma (180). «Vario», infine, il volontariato militare fu, per usare ancora l’aggettivo di Volpe perché, in esso, al popolo dei favorevoli alla guerra di area nazional-liberale, ai giovani di età scolare e universitaria pervasi dagli ideali risorgimentali, dal verbo popolar-impe(180) Sul punto, si veda V. Di Gregorio, L’emigrazione italiana e la guerra, Roma, CGE, 1918; P. Salvetti, Emigrazione e Grande Guerra tra renitenza e rimpianti, in La Grande Guerra e il fronte interno. Studi in onore di George Mosse, a cura di L. Zani e F. Magni, Camerino, Università degli studi di Camerino, 1998, pp. 207-224. Importanti, ora. sono soprattutto i lavori di E. Franzina: La guerra lontana. Il primo conflitto mondiale e gli Italiani d’Argentina, in Al di qua e al di là del Piave. L’ultimo anno della Grande Guerra, a cura di G. Berti e P. Del Negro, Milano, Franco Angeli, 2001, pp. 91-122; Un fronte d’oltreoceano: italiani del Brasile e italo brasiliani durante il primo conflitto mondiale (1914-1918), in 1916 - La Strafexpedition. Gli Altipiani vicentini nella tragedia della Grande Guerra, a cura di V. Corà e P. Pozzato, Udine, Gaspari Editore, 2003, pp. 226-247; Italiani del Brasile e italo brasiliani durante il primo conflitto mondiale (19141918), in «História. Debate e Tendências. Brasil -Itália. Travessias» 5, 2004, 2, pp. 225-267; Volontari dell’altra sponda. Emigranti ed emigrati in America alla guerra (1914-1918), in Volontari italiani nella Grande Guerra, cit., pp. 215-237; Emigranti ed emigrati in America davanti al primo conflitto mondiale (1914-1918), in Stati Uniti e Italia nel nuovo scenario internazionale, 1898-1918, a cura di D. Fiorentino e M. Sanfilippo, Roma, Gangemi Editore, 2012, pp. 135-156. Si veda anche C. Douki, Les émigrés face à la mobilisation militaire de l’Italie, in «14-18 Aujourd’hui», 5, 2002, p. 158-18; P.-L. Buzzi, Les immigrés italiens en Lorraine française pendant la Première Guerre mondiale (1914-1918). Mémoire de master sous la direction de J.-N. Grandhomme, Université de Strasbourg, 2015; Id., La mobilisation des immigrés italiens en Vaucluse pendant la Première Guerre mondiale, in «Rives méditerranéennes», 2016, p. 169-184 (http://journals. openedition.org/rives/5117).

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rialistico diffuso da Corradini e da Rocco e da un inflessibile antigiolittismo (181), si unirono uomini provenienti da diverse esperienze esistenziali e politiche. Accorsero spontaneamente a imbracciare le armi, irredentisti, sconosciuti (Romeo Battistig) o più noto (Cesare Battisti, Nazario Sauro) della Venezia Giulia, di Trieste, dell’Istria e della Dalmazia, del Trentino, persino del Sud Tirolo che concepirono il conflitto come una guerra pro aris ac focis (182). Con essi s’incamminarono verso le trincee moltissimi intellettuali (D’Annunzio, Caroncini, Cesare De Lollis, Scipio Slataper, Giani e Carlo Stuparich, Renato Serra, Ardengo Soffici, Ungaretti). Li seguirono, in breve, letterati e artisti interni o vicini ma anche estranei al movimento futurista (Marinetti, (181) Sulla trasfusione delle energie del “giovanilismo anti-giolittiano” nel fenomeno del volontariato militare, si veda C. Papa, Volontari della Terza Italia. I battaglioni studenteschi d’età giolittiana, in «Rassegna storica del Risorgimento», 91, 2004, 4, pp. 547-574; Ead., Goliardia e militanza patriottica. L’associazionismo studentesco in età liberale, in «Memoria e Ricerca», 25, 2017, 1, pp. 567-574; Ead, La mobilitazione studentesca nella propaganda di guerra, in La propaganda nella Grande Guerra tra nazionalismi e internazionalismi, a cura di D. Rossini, Milano, Unicopli, 2007, pp. 138-155; Ead., L’Italia giovane dall’Unità al fascismo, cit.; La scelta della patria. Giovani volontari nella Grande Guerra, a cura di P. Dogliani, G. Pécout, A. Quercioli, Rovereto. Museo Storico Italiano della Guerra, 2006; Dalle trincee alla piazza. L’irruzione dei giovani nel Novecento, a cura di M. De Nicolò, Roma, Viella, 2011; E. Papadia, Di padre in figlio. La generazione del 1915, Bologna, il Mulino, 2013. Sull’esteso e composito fenomeno dell’antigiolittismo, si veda, per uno sguardo sintetico, E. Di Rienzo, «Giolittismo (Anti)», in Dizionario del liberalismo italiano, cit., I, pp. 496-501. (182) I volontari delle Giulie e di Dalmazia. Dati raccolti e ordinati a cura di F. Pagnacco, Trieste, La Libraria, 1928; C. Coletti, I Volontari Alpini del Cadore a difesa delle loro crode, Padova, Cedam, 1957; F. Todero, Morire per la patria. I volontari del “Litorale adriatico” nella Grande Guerra, Udine, Gaspari Editore, 2005. A. Quercioli, Irredenti, irredentisti e fuorusciti, in Gli Italiani in guerra, cit., pp. 114-128; Q. Antonelli, I dimenticati della Grande Guerra: la memoria dei combattenti trentini (1914-1920), Trento, Il Margine, 2008.

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Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Antonio di Sant’Elia, Achille Funi, Carlo Erba, Luigi Russolo, Aristide Sartorio, Mario Bugelli, Anselmo Bucci), gran parte arruolatisi nell’Ottavo Squadrone della III Compagnia del Battaglione Lombardo dei Volontari Ciclisti e Automobilisti costituitosi nel maggio 1915, le cui gesta furono effigiate, da Bucci, negli scattanti Croquis du front italien pubblicati a Parigi nel 1917 (183). Eppure, persino in quell’accorrere di volontari alle armi, Volpe arrivò a scorgere sintomi di debolezza e persino di possibile, latente sovversione dello status quo. Nessuna preoccupazione destava, certo, l’attività del Tenente colonnello Michele Pericle Negrotto, «che da anni attendeva e sollecitava questa guerra e organizzava corpi di volontari, e durante i mesi della neutralità si era fatto istruttore e animatore del battaglione milanese degli studenti e dei trentini e triestini fuggiti dall’Austria». Qualche inquietudine, invece suscitava la leva volontaria di tutti quelli che con il loro concorso alla guerra, cercavano di resuscitare il programma risorgimentale della «Nazione armata», complementare, forse alternativa o addirittura sostitutiva del Regio Esercito, cui non fu ostile Francesco Crispi (184), ma che non poteva che (183) A. Bucci, Croquis du Front Italien. 50 Pointes séches documentaires. Avec préface de l’artiste en Italien et en Français, Paris, D’Alignan, 1917. Sul punto, in generale, La Grande Guerra degli artisti. Propaganda e iconografia bellica in Italia negli anni della prima guerra mondiale, a cura di N. Marchioni, Firenze, Pagliai Polistampa, 2005; La Grande Guerra. Arte e artisti al fronte, a cura di F. Leone e M. Mazzocca, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale - Intesa Sanpaolo, 2015. (184) F. Crispi, Pensieri e Profezie. Raccolti da T. Palamenghi Crispi, Roma, Tiber, 1920, p. 27: «Garibaldi e noi volevamo la Nazione armata. La volevamo e l’abbiamo domandata sin dal 1859. La volevamo perché ogni cittadino valido fosse munito di un fucile, e perché codesto era il metodo meno dispendioso. Ci fu rifiutato per paura regia. Si diffidò del popolo. Si credette che, appena armato, avrebbe potuto sollevarsi contro le istituzioni. Diffidenza ingiusta…

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incontrare una fermissima ripulsa da parte dell’«interventismo d’ordine» e dei suoi principali esponenti. Non troppa fiducia, infatti, poteva riporsi in quelle formazioni che accolsero «molti “sovversivi” milanesi e lombardi, insieme a molti operai ascritti ai partiti democratici, in ispecie repubblicani, livornesi e romagnoli». E lo stesso poteva dirsi per i seguaci di Corridoni, capo indiscusso del sindacalismo rivoluzionario milanese, promotore, insieme a Mussolini, della famigerata «Settimana rossa» (7-14 giugno 1914), che entrarono a far parte della Compagnia del Mantellaccio e della Compagnia della morte, inquadrate nei ranghi del 51° e del 58° Fanteria: «operai e popolani dei gruppi sindacalisti e anarchici, spesso passati da un violento neutralismo a un incondizionato interventismo, provenienti dall’Emilia e soprattutto dai sobborghi di Parma malfamati per cronico spirito anarcoide» (185). Molto diversi dai volontari, provenienti dalle fila dal socialismo riformista di Leonida Bissolati e specialmente «dai ranghi dei nazionalisti e degli elementi più vivi del giovane liberalismo perché finché il Re saprà o vorrà fare l’ufficio suo non avrà nulla da temere». Sul punto, C. Duggan, Creare la Nazione. Vita di Francesco Crispi, Roma-Bari, Laterza, 2000, pp. 330 ss., 348, 357, 363, 512 ss. Sulla questione della «Nazione armata» e il dibattito politico precedente, coevo e successivo alla Grande Guerra, si veda A. Gatti, Il problema sociale della Nazione armata, con prefazione dell’on. Luigi Gasparotto, relatore del bilancio della guerra per l’esercizio 1919-20 e un’ appendice, Milano, Treves, 1921; E. Cecchinato - M. Isnenghi, La nazione volontaria, in Storia d’Italia. XXII. Annali. Il Risorgimento, a cura di A, M, Banti e P. Ginsborg, Torino, Einaudi, 2007, p. 696-720. (185) Su Filippo Corridoni, Y. de Begnac, L’Arcangelo Sindacalista (Filippo Corridoni), Milano, Mondadori, 1943; D. D. Roberts, The Syndacalyst Tradition and Italian Fascism, Chapel Hill, University of North Carolina Press, 1979, ad indicem. Per il contributo degli anarchici al volontariato militare, M. Antonioli, Gli anarchici italiani e la prima guerra mondiale, in «Rivista storica dell’anarchismo», 2, 1995, 1, pp. 108-112.

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degli ultimi anni, che più avevano rappresentato in sé e promosso negli altri il risveglio dello spirito nazionale, auspicato un rinnovamento della borghesia, e ammonito essa a farsi meritevole della sua funzione direttiva con l’assumere il posto centrale nella guerra», erano, in fondo, anche i volontari tempratisi alle braci della tradizione repubblicana, intimamente sovversiva e ribellistica, e quelli usciti dalla leva del «garibaldinismo», ribaldo e rissoso, costituzionalmente attraversato da pulsioni anti-sistema facinorose e violente (186). Anch’essi, infatti, al pari degli altri «soldati di ventura» (anarchici, socialisti rivoluzionari, repubblicani integralisti, gli stessi che durante la neutralità avevano cercato di organizzare un’insurrezione contro il Quirinale), erano sospettabili di voler trasformare la guerra nazionale, «la guerra del Re», in conflitto politico, da combattere prima all’interno del Paese e poi sul campo di battaglia, per promuovere un radicale sovvertimento dell’assetto sociale e istituzionale. Troppi, infatti, in tutti questi gruppi, erano i giovani e i meno giovani «animati non da un patriottismo coscienzioso» ma «agitati invece da una vera crisi spirituale; stanchi della quotidiana (186) Sul fenomeno politico-militare del «garibaldinismo» dopo Garibaldi e nella Grande Guerra, si veda D. Sacchi, Abbasso le maschere. Democrazia e garibaldinismo a Roma (1881-1883), Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1990; I Garibaldi dopo Garibaldi: la tradizione famigliare e l’eredità politica, a cura di Z. Ciuffoletti, A. Colombo, A. Garibaldi Jallet, Manduria, Lacaita, 2005; H. Heyriès, Les garibaldiens de ‘14. Splendeurs et misères des chemises rouges en France, de la Grande Guerre à la Seconde Guerre mondiale, Nice, Editions Serre, 2005; E. Cecchinato, Camicie rosse. I garibaldini dall’Unità alla Grande Guerra, RomaBari, Laterza, 2007, in particolare pp. 234-334; E. Acciai, Volontariato in armi. Sovversivismo e radicalismo politico nella storia d’Italia: un approccio biografico, in Biografie, percorsi e networks nell’Età contemporanea. Un approccio transnazionale tra ricerca didattica e Public History, a cura di E. Betti e C. De Maria, Roma, BraDypUS, 2018, p. 19-36.

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schermaglia politica; tediati del vano aspirare e interrogarsi e attendere non si sapeva bene che cosa; assetati di azione e conclusione, ma del tutto restii ad accettare obblighi precisi e fermi». Nei confronti di quell’ambiguo sentimento di devozione verso la patria, panneggiato ora nel tricolore fregiato dalla croce sabauda, dopo aver messo momentaneamente da parte gli stendardi rossi e neri del socialismo massimalista e dell’anarchismo, che animava le forze politiche più irresponsabili, contagiando le «classi pericolose» della Nazione, bisognava dunque stare in guardia. E occorreva farlo perché nel Paese, apparentemente coeso nel far fronte agli obblighi dello sforzo bellico, ribollivano, sotto la superficie, i germi del disfattismo cattolico, socialista, giolittiano che auspicava, dopo il primo logorio della guerra, una pace separata con l’Austria. Era quello stesso disfattismo, infatti, aggiungeva Volpe che si opponeva con tutte le forze alla presa d’armi contro Berlino, per evitare che dopo di essa la guerra risorgimentale dell’Italia si potesse trasformare in conflitto da Grande Potenza, senza comprendere «l’inevitabile della guerra alla Germania, dato il nesso crescente fra i due Imperi centrali e il nesso crescente fra noi e gli Alleati che avevano nella Germania il maggior nemico e che della guerra erano il centro, per il quale dall’agosto 1914, appena raggiunte le posizioni della neutralità, si era cominciato in Italia a chiedere la guerra» (187). Il vero punctum dolens del volontariato militare era, però, per Volpe ancora un altro. E questo risiedeva nell’insufficiente rispo(187) G. Innocenti, The Italian conflict after 1917: Regional or Global War?, in J. Baev - K. Grozev (eds.), Local Wars - Global Impacts. 42nd International Congress of Military History, 4 - 9 September 2016, Sofia, Bulgarian Commission of Military History 2018, pp. 102-112. Si veda anche E. Di Rienzo, L’Italia e il primo conflitto «globale», cit.

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sta del popolo degli emigrati agli obblighi civili scaturiti della grande contesa, perché «nessuna delle altre Nazioni belligeranti, almeno Francia, Germania, Inghilterra, ebbero, relativamente, una così alta percentuale di cittadini residenti all’estero che rimasero sordi all’appello o, comunque, non furono presenti al loro posto, sebbene molti di quelle Nazioni rimasero, autorizzati, là dove erano, per non scompaginare la trama degli interessi nazionali all’estero, e contribuirono in altro modo alla propria guerra». Una considerazione, questa, che può sembrare ingenerosa e ingiustificata, considerate le cifre, prima citate (e da Volpe calcolate per eccesso, arrivando egli a contare addirittura un numero d’italiani rientrati nella Penisola pari a circa mezzo milione), che mettevano in luce una partecipazione al conflitto dei nostri migranti economici di tutto rispetto, frutto di scelta patriottica, libera, consapevole e non certo coatta. Eppure quest’assunto appare comprensibile, tenendo conto dell’appassionata attenzione che lo storico dedicò, in modo continuo, fino alla fine della sua esistenza, al problema dell’emigrazione e al continuo salasso di uomini, energie, competenze, intelligenze che quel fenomeno aveva causato alla comunità nazionale dopo il 1861, indebolendone lo slancio vitale (188). Non c’era, infatti, nel testo de Il popolo italiano nel primo anno della Grande Guerra, nessuna recriminazione verso gli «esuli per fame e per bisogno» che non avevano risposto alla chiama(188) E. Di Rienzo, La storia e l’azione, cit., pp. 160-161, 168-169, 172173, 200, 216, 238, 270, 303-305, 309, 312, 382, 426-427, 476, 611, 682, 694-695. Sul vario nazionalismo italiano e il problema dell’esodo economico, un breve ragguaglio è in E. Sori, La “patria lontana” e la questione dell’emigrazione, in Nazione e anti-Nazione. II. Il movimento nazionalista dalla guerra di Libia al fascismo (1911-1923), cit., pp. 115 -136.

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ta della patria in pericolo. La defezione di un gran numero degli Italiani all’estero era frutto, infatti, di altri fattori: l’inerzia delle nostre sedi consolari, gli intralci frapposti dal Commissariato all’emigrazione, la povertà dei sussidi elargiti alle famiglie dei richiamati, l’ostilità dei Paesi ospitanti di privarsi di una preziosa forza-lavoro. Soprattutto, però, quella defezione doveva imputarsi alla latitanza dei passati governi, che mai avevano cercato di preservare nei cuori di quei fuoriusciti il sentimento dell’italianità e di aiutarli a conservare, anche in terra d’esilio, i costumi aviti, la lingua materna, e con essi l’attaccamento alla terra d’origine. Lo Stato italiano, così raccoglieva, quanto ad emigrazione, non molto, come non molto era quel che esso aveva seminato: quasi solo leggi protettive degli emigranti dalla speculazione degli ingaggiatori e degli armatori, negli ultimi quindici anni. Nel complesso, la classe dirigente italiana aveva guardato al fenomeno migratorio con interessato ottimismo: come sfogatoio della popolazione e valvola di sicurezza; e come mezzo di pareggio del bilancio. Il problema era realmente immane, per una Nazione di modeste risorse come l’Italia, che né poteva dar essa a tutti i suoi figli quel che davano loro i Paesi d’oltre mare, quasi vergini e poco popolati, e perciò doveva pur lasciarli emigrare; né poteva dar efficace protezione, mantener i contatti, fornire le scuole, tutelare il carattere nazionale di questa gente che era partita e partiva analfabeta o quasi, che era dispersa su continenti vastissimi, che ignorava la patria o la desiderava solo come domestico focolare, che nei nuovi Paesi non si curava di chiedere, per i suoi figliuoli, l’insegnamento dell’italiano come pur avrebbe avuto diritto in taluni luoghi (ad esempio, negli Stati Uniti). – 129 –


Ma vero è anche che i politici italiani erano in tutt’altre faccende affaccendati. E quando si ebbe la guerra, si verificarono subito le deficienze nell’azione e coordinazione degli organi di governo delegati alla politica estera, alla guerra, ai trasporti, al Tesoro: deficienze che non solo tolsero a molti di tornare sotto le bandiere, ma anche, a molti, di rimanere dove erano. Poiché il problema era duplice, in momenti come quelli: aver soldati in patria e, insieme, mantener all’estero le posizioni occupate a difesa d’interessi che bisognava non pregiudicare per l’avvenire, di diritti che era necessario non lasciar prescrivere.

Verso Caporetto Notizie incoraggianti arrivavano, comunque, dal campo di battaglia, dove il Regio Esercito intraprendeva una guerra offensiva combattuta, senza risparmio di uomini e di mezzi, che, secondo Volpe, aveva fatto seguito «alla lentezza iniziale e alla prudenza forse eccessiva dei Comandi nell’avanzare», per cui «ci sfuggirono posizioni che, facili allora a occupare, avrebbero, poi, richiesto mesi e anni di logoranti sforzi». Iniziarono, così, le grandi spallate sulla Val di Gail, sul Carso, sull’Isonzo in direzione di Tarvisio, Trieste e Gorizia (conquistata solo l’8 agosto 1916) e cominciò la durissima guerra sul fronte dolomitico (Trentino e Cadore). Con risultati che però furono molto contenuti e che certo non corrisposero all’enorme effusione di sangue: 62.000 caduti e 170.000 feriti, tra il maggio e il novembre 1915, quasi equivalenti a un quarto delle forze mobilitate ammontanti, allora, a circa un milione di uomini. Sul fronte giuliano, in particolare, dove Cadorna aveva concentrato il grosso delle trentacinque – 130 –


divisioni impegnate nell’offensiva, dopo un primo balzo in avanti, gli Italiani furono costretti ad arrestarsi sul limitare del «confine militare» austriaco, dove una salda linea difensiva si estendeva su posizioni molto favorevoli alla resistenza e alla controffensiva della Kaiserliche und Königliche Armee. Volpe nel narrare questi eventi non riuscì, certo, a sottrarsi alla tentazione di una ricostruzione storica eccessivamente «affettuosa», per dirla con Croce, redigendo quasi un libro degli eroi e dei martiri della guerra italiana (militari e anche civili che favorirono la nostra avanzata). Eppure, il suo proseggiare si mantenne, sempre molto più sobrio e più lucido delle «chansons de geste» modulate, con diversa bravura, da D’Annunzio, dal poligrafo Isidoro Reggio e dai pur eleganti e penetranti resoconti di Luigi Barzini, redatti per celebrare gli albori del nostro impegno bellico (189). Allo storico, infatti, non sfuggiva il carattere desueto della guerra italiana, pianificata da Cadorna secondo il modello della guerra manovrata delle campagne napoleoniche e di quelle prussiane del 1866 e 1870. Una guerra combattuta dalla truppa, molte volte per libera scelta, «con psicologia da fanciullo, o da garibaldino in ritardo», spesso contraddistinta da attacchi, così arditi da risultare in molti casi vani o addirittura controproducenti, guidati da giovani ufficiali che marciavano, quasi a passo di parata, alla testa dei loro distaccamenti, per essere immediatamente falciati dal fuoco nemico. E soprattutto non gli sfuggiva che quel modo di battersi temerario, arrischiato, poco e male sostenuto da un (189) G. D’Annunzio, L’Armata d’Italia, Venezia, Zanetti Editore, 1915; I. Reggio, Storia della Grande Guerra d’Italia. XVI. Il primo anno di guerra, Milano, Istituto Editoriale Italiano, 1918; L. Barzini, Al fronte, maggio-ottobre 1915, Milano, Treves, 1915.

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appropriato utilizzo delle artiglierie, non teneva conto, dei nuovi mezzi di distruzioni di massa e dei progressi dell’ingegneria militare, tanto da essere di scarsissima utilità per ottenere gli ambiziosi obiettivi strategici che governo e Comando Supremo si erano proposti di conseguire (190). La filosofia dell’«avanzare sempre e comunque» - «tacere bisognava e andare avanti», recitava La Canzone del Piave - si rivelò, infatti, un vecchio attrezzo concettuale, del tutto inidoneo per prevalere in un conflitto che bruciava ogni giorno, nella sua fornace, così tante vite umane, attrezzature belliche, materiali logistici. Di scarsa utilità la filosofia bellica del garibaldinismo poteva essere, infatti, in una guerra di masse e di lunga durata. In una guerra, dove ormai la micidiale combinazione di trincee, filo spinato, mitragliatrici, insieme all’inedita intensità del fuoco di sbarramento e d’interdizione dei grossi calibri, potenziava, oltre ogni dire, la capacità difensiva degli avversari e riduceva al minimo le possibilità di movimento e quindi di sfondamento delle nostre forze, superiori per numero allo schieramento austro-ungarico (composto di sole quindici divisioni) ma a (190) Sul punto, P. Pieri, La prima guerra mondiale 1914-1918, Introduzione di G. Rochat, Udine, Gaspari Editore, 1998, passim; E. Gin, Il generale “debole”. Cadorna e la condotta della guerra, in La Guerra di Cadorna, 19151917, cit.; Id., La guerra italiana dal maggio 1915 a Caporetto, in Superare Caporetto, cit.; E. Lehmann, Una Caporetto annunciata. La conduzione della guerra cadorniana nel Diario critico di guerra di Giulio Douhet, in La Guerra di Cadorna, 1915-1917, cit. pp. 583-604; M. Mondini, Il Capo. La Grande Guerra del generale Luigi Cadorna, Bologna, il Mulino, 2018, Parte seconda, capitoli IV e V. Sulla genesi e il consolidamento dell’anti-cadornismo storiografico, tra Grande Guerra, dopoguerra e secondo conflitto mondiale, E. Di Rienzo, Grande Guerra, dopoguerra e fascismo. La «Nuova Rivista Storica»: dagli esordi alla crisi d’isolamento, in “Eretica per tutti”. La “Nuova Rivista Storica” dalla Grande Guerra alla Repubblica, cit.

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questo ancora nettamente inferiori per armamento e munizionamento. In definitiva, il carattere strettamente offensivo del nostro impegno bellico, concepito alla luce di considerazioni quasi esclusivamente politiche (liberazione delle terre irredente, acquisizione del confine alpino, conquista e dominio dell’Adriatico, necessità di dimostrare agli scettici alleati il vigore e il valore delle nostre truppe) si scontrava contro le leggi bronzee della dura e inflessibile realtà del campo di battaglia. E di questo divario tra obiettivi politici e materiale impossibilità possibilità di ottenerli si era reso conto lo stesso Cadorna, il quale alla figlia Carla, già il 10 giugno 1915, scriveva: Le cose procedono bene, ma con grandi difficoltà: ovunque si avanza, ci s’imbatte in trincee preparate di lunga mano, reticolati, batterie ben nascoste, mobili e difficili da identificare per poterle battere. È questa, purtroppo, una guerra nuova, dove l’effetto di qualunque genialità è scomparso perché l’attuazione di qualunque idea geniale si basa sulla rapidità di manovra e questa s’infrange contro ogni buon sistema di trincee e reticolati (191).

Pur tuttavia, il «Generalissimo» restava ancora schiavo del suo ottimismo. Il 18 dicembre, dopo aver definito «perfetti ignoranti quelli che criticano che non si sia ancora presa Gorizia, senza considerare i 100.000 uomini sacrificati in soli cinquanta giorni [sic]», Cadorna ammetteva sì che la conquista di quella città aveva uno scarso valore strategico, perché, anche imbandierato dal tri(191) L. Cadorna, Lettere famigliari, a cura di R. Cadorna, Mondadori, Milano, 1967, p. 107.

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colore, il capoluogo friulano sarebbe restato incapsulato nel carcere «di altre invalicabili linee fortificate», che avrebbero impedito ogni nostro nuovo movimento offensivo. Nella stessa lettera, tuttavia, il Capo di Stato Maggiore generale comunicava alla sua secondogenita, che «la presente guerra non può finire che per esaurimento di uomini e di mezzi, e l’Austria è molto più vicina di noi ad arrivarci» (192). Cadorna, infatti, restava fiducioso sull’esito finale del conflitto e, nei primi giorni del 1916, confidava di poter disporre per la prossima primavera di un ben più imponente parco di artiglierie che gli avrebbero consentito, in collegamento con le azioni offensive degli Alleati sul fronte occidentale, d’infliggere il colpo di grazia a un avversario sfiancato dalla pressione italiana. Il futuro Maresciallo d’Italia era persuaso, infatti, «le Potenze centrali fossero ormai nella discesa della parabola» ed escludeva, nel modo più assoluto, che il Regio Imperial Esercito, privo di risorse sufficienti, fosse nelle condizioni di compiere «un qualsiasi tentativo d’offensiva» (193). Quell’arrischiata previsione, però, doveva essere patentemente smentita dai fatti. E lo fu quando, nella notte del 14-15 maggio 1916, il Capo di Stato Maggiore, Franz Conrad von Hötzendorf, anche dopo aver incassato il rifiuto del suo omologo tedesco, Erich von Falkenhayn, cui aveva chiesto il subentro di unità germaniche sul fronte orientale per permettere lo spostamento di un certo numero di divisioni austriache dalla Galizia al Tirolo, proiettò contro le nostre linee l’onda d’urto della III e dell’XI Armata con l’ordine di puntare su Venezia, isolando le (192) Ivi, p. 135. (193) O. Malagodi, Conversazioni della guerra, cit., I, p. 81; F. Martini, Diario, 1914-1918, a cura di G. De Rosa, Milano, Mondadori, 1966, p. 605.

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forze italiane impegnate sull’Isonzo e poste a difesa dell’alto bellunese e del Trentino orientale (194). La Südtiroloffensive o Frühjahrsoffensive, da noi battezzata come «Battaglia degli Altipiani» e poi soprannominata «Spedizione punitiva», colse impreparato il nostro dispositivo e rischiò di trasformarsi in una Caporetto ante litteram, per un insieme di cause dove si sommavano tutte le deficienze della guerra italiana: inefficiente servizio d’intelligence, insufficiente dotazione di artiglieria pesante, incomprensioni e cattiva comunicazione tra Stato Maggiore Generale e comandi. Solo la manus ad ferrum di Cadorna permise di evitare il disastro e di reagire adeguatamente, pianificando un ordinato ripiegamento delle unità isolate e sbandate, che consentì, il 2 giugno, di passare a un impetuoso contrattacco fortemente contrastato dalle forze avversarie. Queste, il ventisette seguente, dovettero, però, cedere il campo, anche perché indebolite dal venir meno di alcune divisioni richiamate per fare fronte alla titanica offensiva russa scatenata dal generale, Aleksej Brusilov, che si estese su un versante di oltre 400 chilometri dalla

(194) Sul punto e per quel che segue, V. Corà - P. Pozzato, 1916 - La Strafexpedition. Gli Altipiani vicentini nella tragedia della Grande Guerra, Udine, Gaspari, 2003; J. Gooch, The Italian Army and the First World War, Cambridge, Cambridge University Press, 2014, pp. 160 ss.; H. H. Herwig, The First World War. Germany and Austria-Hungary 1914-1918, London-New York, Bloomsbury 2014, p. 200 ss. G. Artl, Die “Strafexpedition”. Österreich-Ungarns Südtiroloffensive, 1916, Brixen, A. Weger, 2015; L. Malatesta, Strafexpedition: maggio-giugno 1916. I giorni della “Spedizione punitiva” austriaca sugli altipiani, Treviso, Editrice Storica. 2016; P. Pozzato, L’offensiva austriaca del 1916. La Strafexpedition e la contromossa italiana, Udine, Gaspari Editore, 2016. Si veda anche K. Schneller, 1916. Mancò un soffio. Diario inedito della Strafexpedition, Milano, Mursia, 2011.

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Bielorussia all’Ucraina alla Bucovina (195). Il successo delle armi italiane che si ebbe, quando, a Verdun, la grande offensiva lanciata da von Falkenhayn era sul punto di esaurirsi senza risultati tangibili (196), aprì la strada alla presa Gorizia. Tutto ciò diffuse nel Paese, nel governo e nel Parlamento un clima di entusiasmo che, il 27 agosto, si rivelò decisivo per assumere la pur sofferta decisione di dichiarare guerra alla Germania, notificata a Berlino il giorno precedente a quello in cui il governo di Bucarest proclamava lo stato di belligeranza contro l’Austria-Ungheria, cui seguì l’immediata apertura delle ostilità del Reich contro la Romania. Della «Battaglia degli Altipiani», Volpe sottovalutò il carattere di vittoria meramente difensiva, acquistata al prezzo di 15.453 morti, 76.642 feriti e 55.635 fra prigionieri e dispersi, priva d’importanti risultati strategici, poiché le forze guidate dall’Arciduca Eugenio d’Asburgo-Teschen avevano potuto ripiegare ordinatamente su posizioni molto favorevoli, disposte, per la gran parte, solo pochi chilometri dietro le linee tenute prima dell’inizio degli scontri. Quello che interessava Volpe, infatti, era soprattutto mettere in luce l’impatto psicologico di quel fatto d’armi sull’opinione pubblica alleata e sullo spirito del popolo italiano, ormai entrato con il cuore e la mente in uno stato d’animo molto (195) T. Dowling, The Brusilov Offensive, Bloomington, Indiana University Press, 2008; G. A. Tunstall, Austria-Hungary and the Brusilov Offensive of 1916, in «The Historian», 70, 2008,1, pp. 30-53. (196) R. A. Doughty, Pyrrhic Victory, Cambridge - London, Harvard University Press, 2005, pp. 250 ss.; W. F. Buckingham, Ver­dun 1916: The Deadliest Battle of the First World War, Stroud, Amberley 2016. Sul fronte francese, a questo scacco germanico seguì poi il limitatissimo successo tattico, conquistato a carissimo prezzo dell’Intesa, nella battaglia della Somme (1° luglio-18 novembre 1916). Sul punto, R. Prior - T. Wilson, The Somme, New Haven, Yale University Press, 2005; A. Robertshaw, Somme, 1 July 1916: Tragedy and Triumph, Oxford, Osprey, 2006.

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diverso da quello che lo aveva animato dopo le piccole avanzate del primo anno della Grande Guerra. Il nemico sentì quella battaglia del Trentino come una grossa sconfitta. E lo riconobbe. L’offensiva fu giudicata, dopo il fallimento, un “colpo di testa”. Anche i rovesci sul fronte russo furono addebitati a Conrad e alla sua spedizione che aveva impoverito di truppe solide quel settore. Non mancarono neppure recriminazioni e accusa al Parlamento ungherese: cioè ripercussioni su la compagine interna della duplice Monarchia. Viceversa, gli Italiani ebbero la coscienza di una vittoria, di una grande vittoria. E furono confortati in questo sentimento anche da quel che si disse e si scrisse da corrispondenti, stranieri sul fronte italiano che parlarono delle lotte del Trentino come di lotte di titani, combattute fra vette e abissi, magnificarono la resistenza e lo slancio controffensivo delle truppe, la straordinaria attitudine delle nostre fanterie a mutarsi in truppa da montagna, la bravura dei nostri terrazzieri a improvvisare ridotte e strade e sentieri in ogni terreno. Altri riconoscevano le benemerenze dell’Italia verso la causa interalleata e il vantaggio che ne era venuto alla vittoriosa offensiva franco-inglese su la Somme; altri vedevano ormai non nei Russi ma negli Italiani i più animosi alleati. […] Così gli Italiani uscirono da questo sforzo con un sentimento, di sé, anche come soldati, perché prima mancava loro l’animo teso verso una più vigorosa guerra. Acquistò maggior forza persuasiva il discorso di quelli che affermarono la necessità di strappar alla vicina Monarchia quel cuneo di terra italiana che penetrava addentro nella valle del Po. Parve a molti Italiani che la vera guerra cominciasse per essi proprio allora, nel giugno 1916. Fino allora essa era andata avanti un po’ alla brava, con mediocre senso dei pericoli che bisognava affrontare e della somma di forza che bisognava impegnare. C’era – 137 –


la guerra e anche l’entusiasmo per la guerra, ma non l’animo di guerra, lenta conquista del popolo italiano su sé stesso, attraverso non tanto le azioni che i bollettini proclamavano “vittoriose”, ma che lasciavano il combattente disilluso e amaro, quanto attraverso i rovesci animosamente e felicemente fronteggiati: e quello del maggio 1916, fra i monti del Trentino, fu il primo, con la sua sanguinosa azione educativa.

Era certo, questo, un resoconto troppo ottimistico perché il tremendo logorio di quei primi 365 giorni di conflitto, sulla linea del fuoco e sul fronte interno, avevano prodotto forti ripercussioni nel Paese e nelle sue classi dirigenti, ora, rianimando la volontà di quanti speravano in una sospensione armistiziale delle ostilità, ora irrobustendo la voce di quelli che pretendevano un cambiamento ai massimi vertici politici e militari, in grado di produrre un radicale correzione della condotta della guerra guerreggiata e dell’azione diplomatica. Soltanto, la protezione di Vittorio Emanuele III e l’animosa condotta di Cadorna nel corso della Südtiroloffensive riuscirono, infatti, a evitare al capo di Stato Mag­giore l’esonero già deciso dal ministero. Una destituzione, questa, richiesta dallo stesso Salandra, che la motivò, adducendo le errate previsioni del Comando Supremo, il quale «aveva fatto credere al Paese che le insistenti reiterate offensive verso l’Isonzo avrebbero finalmente avuto i risultati che se ne attendevano fin dall’inizio del conflitto» e che, invece, era stato colto impreparato dall’«Offensiva di primavera della quale nessuna era stata mai più nota e proclamata». La rimozione non fu però evitata, a Salandra che, con grande onestà non fece mistero delle sue responsabilità. In quell’occasione, infatti, egli si dichiarò colpevole di errori di valutazione «circa l’esito probabile e circa la durata della guerra e l’efficacia – 138 –


del concorso militare e finanziario degli Alleati», e nel farlo rimise le sue dimissioni, il 18 giugno 1916, dopo una crisi di gabinetto durante la quale la classe politica italiana, secondo il giudizio di Volpe, aveva rinnovato gli egoismi, le divisioni, le spesso pretestuose contrapposizioni di partito e gli inutili ludi oratori della stagione giolittiana (197). Di quel triste spettacolo, che fu criticato senza sconti anche dalla stampa dell’Intesa (198), lo storico, come abbiamo visto, fornì un amareggiato resoconto in presa diretta, animato da forti umori antiparlamentari (199). Quell’impetuoso giudizio fu sostanzialmente riproposto, con tutte le sue asprezze, nel Il popolo italiano nel primo anno della Grande Guerra, dove, tuttavia, il fuoco della polemica si concentrava piuttosto sulle inadeguatezze del cosiddetto (197) Rispettivamente, Dall’Isonzo al Piave (24 ottobre-9 novembre 1917). Relazione della Commissione d’inchiesta R.D. 12 gennaio 1918, n. 35, a cura di A. Zarcone - A. A. Mola, Roma, Rodorigo Editore, 2014, 2 voll, II, pp. 10-11; L. Cadorna, Pagine polemiche, Milano Garzanti, 1950, pp. 140-141; G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, Milano, Feltrinelli, 2016, 11 voll., VIII, pp. 141-143; A. Guiso, La guerra di Atena. Il “luogo” della Grande Guerra nell’evoluzione delle forme liberali di governo: Regno Unito, Francia e Italia, Firenze, Le Monnier, 2017, pp. 240-241; U. Ungari, La guerra del Re, cit., pp. 141 ss. (198) P. De Quirielle, De Salandra à Boselli. La crise italienne, in «Le Correspondant», 10 juillet 1916, pp. 140-146. Su quel passaggio politico, A. Fiori, Crisi e caduta del secondo governo Salandra, in «Rassegna Storica del Risorgimento», 90, 2003, 4, pp. 537-574 (199) G. Volpe, Da un ministero all’altro, cit. Il quotidiano milanese, «La Sera», tramutò la polemica contro le fiacchezze del governo italiano in un sistematico attacco al regime parlamentare. Si veda l’anonimo editoriale, L’origine dell’attuale crisi, pubblicato il 30 aprile 1917: «Senza voler negare la ragion d’essere del sistema parlamentare e i suoi parziali vantaggi in mancanza di altre forme più perfette, è indubitabile che, anche in tempi normali, esso induce pure debolezze nel governo e non di rado ne rende meno fattiva l’azione; ne valga da esempio la difficoltà di realizzare vere riforme organiche, anche non istituzionali, e l’abdicazione divenuta praticamente effettiva della vera attività legislativa».

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«Ministero Nazionale» guidato da Paolo Boselli (200). Volpe definì, infatti, il nuovo esecutivo come la scialba replica del Gouvernement d’Union sacrée, «composto in Francia al principio della guerra, quasi Comitato di Salute Pubblica che, da tempo e da varie parti, si era invocato in Italia, o per spirito scimmiesco o per intima convinzione che vis unita fortior» (201). E aggiunse che quel governo poteva dirsi «nazionale» unicamente «nel senso che riconosceva il diritto al governo dell’Italia in guerra a quanti avevano promosso la guerra, chiamava alla responsabilità del governo quanti si erano assunta la responsabilità dell’intervento e offriva possibilità di farsi valere a tutti i partiti e gruppi del variopinto interventismo». In realtà, come Volpe evidenziava, il nuovo gabinetto costitui­ va, al più, «un’attuazione piuttosto meccanica o aritmetica del concetto di Governo nazionale», perché che rispecchiava, per molti versi, l’arco frastagliatissimo delle forze parlamentari che, nella (200) Sul gabinetto Boselli, Dalle carte di Giovanni Giolitti. III. Dai prodromi della Grande Guerra al fascismo, 1910-1928, a cura di C. Pavone, Milano, Feltrinelli, 1962, pp. 193-197; G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, cit., VIII, pp. 137-181; P. Melograni, Storia politica della Grande Guerra, 19151918, Milano, Mondadori, 1998, passim; D. Veneruso, La Grande Guerra e l’unita nazionale. Il ministero Boselli, giugno 1916-ottobre 1917, Torino, Società Editrice Internazionale, 1996; U. Ungari, La guerra del Re, cit., pp. 156-154. (201) Sul Gouvernement de guerre francese, si veda P. Renouvin, Les formes du gouvernement de guerre, Paris, PUF, 1925; G. Bonnefous, Histoire politique de la Troisième République. II. La Grande Guerre (1914-1918), Paris, PUF, 1967; F. Bock, L’exubérance de l’État en France de 1914 à 1918, in «Vingtième Siècle. Revue d’histoire», 3, 1984, 1, pp. 41-51; Ead., Un parlementarisme de guerre, Paris, Belin, 2002; Les socialistes français et la Grande Guerre, ministres, militants, combattants de la majorité. Sous la direction de V. Chambarlhac et R. Ducoulombier Dijon, Éditions Universitaires de Dijon, 2008; A.-L. Anizan, 1914-1918, le Gouvernement de guerre, in «Histoire@Politique», 22, 2014, 1, pp. 215-232. Per un confronto tra il gabinetto di guerra francese e il «Ministero Nazionale» italiano, si veda il volume collettaneo, Istituzioni e società in Francia e in Italia nella Prima Guerra mondiale, cit.

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seduta del 10 giugno, avevano sfiduciato Salandra: socialisti ufficiali e socialriformisti, radicali, repubblicani, democratici costituzionali, ben cinquanta giolittiani, affiancati da una magra pattuglia di deputati della destra liberale e da qualche nazionalista. Più che rappresentare la coesione di un vero governo di guerra, il nuovo esecutivo costituiva, infatti, l’unica alternativa possibile per uscire dall’impasse politica, poiché la sua nascita dava soddisfazione a tutti i gruppi del «vario interventismo italiano», ma anche a quelli che avevano condisceso, ma tardi e con scarso entusiasmo, alla belligeranza e addirittura a coloro che si erano opposti alla presa d’armi. Di conseguenza, il problema, di fatto irrisolvibile, di trovare un Presidente del Consiglio, adatto alla bisogna, fu aggirato con la designazione del sessantottenne, Boselli, liberale conservatore, già ministro con Crispi, Pelloux, Sonnino, interventista moderato e in buoni rapporti con tutti i partiti. Scarse virtù, queste, e almeno del tutto insufficienti, se paragonate alla tempra morale di un personaggio meramente decorativo, come l’anziano uomo politico di Savona, (assolutamente incapace di dare al governo un’impronta personale, decisa e non ondivaga), su cui si accaniranno gli strali di Volpe, di Salvemini (202), ma anche dell’allora influentissimo direttore del «Corriere della Sera». Luigi Albertini, infatti, volle ricordare che, pur avendo, subito dopo la formazione del «Ministero Nazionale», licenziato un articolo in cui esprimeva fiducia al nuovo gabinetto, il suo approccio diretto col Presidente del Consiglio non era stato per nulla rassicurante. Avendo avvicinato più volte durante la crisi Boselli, riportai ben penosa impressione dell’uomo che nel discutere (202) E. Di Rienzo, Caporetto come “problema storiografico”, introduzione a G. Volpe, Da Caporetto a Vittorio Veneto, cit., pp. XV-XVI, XXXIII-XXXV.

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scivolava via senza che si riuscisse ad affermarne il pensiero, perché non aveva un pensiero, ben definito, e preferiva trarre norma nelle sue decisioni dall’ambiente e dalle circostanze (203).

Proprio dalla mancanza di una ferma leadership, aggiungeva Volpe derivava, il carattere pletorico della compagine ministeriale. Quell’esecutivo, infatti, che con i suoi troppo numerosi membri, rifletteva perfettamente le interne divisioni e la conseguente necessità di accontentare le diverse richieste dell’eterogenea galassia politica che lo sorreggeva, quasi che il moltiplicarsi delle poltrone e la messa fuori campo di chi più aveva voluto la guerra («Salvatore Barzilai che nel ministero Salandra rappresentava, non l’interventismo di sinistra, ma l’Italia da redimere») potesse, davvero, testimoniare la ritrovata concordia nazionale. Si crearono altri dicasteri nuovi, altri ministri nuovi o quasi ministri, oltre a quelli che sostituivano gli uscenti. S’istituì il dicastero dell’Industria, Commercio e Lavoro (Giuseppe de Nava), staccato dell’Agricoltura; e quello dei Trasporti marittimi e ferroviari (Enrico Arlotta) si fece di Ubaldo Comandini, di Vittorio Scialoja, di Leonardo Bianchi altrettanti ministri senza portafoglio agli scopi dell’assistenza, della propaganda interna, della propaganda all’estero; si escogitò un Ufficio di Commissario politico per i servizi di guerra, e vi fu chiamato Leonida Bissolati. Insomma, un Ministero slabbrato e proprio per questo numerosissimo: diciannove ministri, con o senza portafogli Troppi! Si disse (203) L. Albertini, Venti anni di vita politica. Parte seconda. L’Italia nella guerra mondiale. 2. Dalla dichiarazione di guerra alla vigilia di Caporetto (maggio 1915 - ottobre 1917), Bologna, Zanichelli, 1952, p. 245.

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da molte parti. Troppe cupidigie si sono volute appagare! Il Governo era non da allargare ma da restringere.... Cavour, ricordò qualcuno, nel 1859, raccolse in una sola mano, la sua, molti dicasteri... E poi Ministero quanto mai vario: anche giolittiani (Paolo Carcano), anche repubblicani (Ubaldo Comandini di Cesena, che per giunta era di quelli passati con qualche fatica all’interventismo, cioè alla collaborazione con la Monarchia per la guerra), anche socialisti riformisti (Bissolati e Bonomi), anche cattolici (Filippo Meda, milanese), cioè anche quelli la cui partecipazione al potere, pur lentamente maturata, era, da anni e decenni, materia di viva polemica o di accademica discussione. Boselli, poi, avrebbe chiamato anche socialisti, poco poco che la loro opposizione alla guerra si fosse attenuata.

Eppure, continuava Volpe, una fisionomia politica era possibile ritrovarla anche nel governo del 18 giugno, visto che da questo erano stati esclusi tutti i ministri della destra liberale nazionale, con l’eccezione di Enrico Arlotta, Giuseppe De Nava, Vittorio Scialoja, e Sonnino, «l’uomo della tenacia e della fermezza, che aveva compiuto gli atti diplomatici risolutivi, che dava garanzia di piena fedeltà agli alleati». Il vero colore politico del ministero era, però, dato dai nuovi componenti e quella tinta era dovuta soprattutto alla presenza di Bonomi, di Francesco Ruffini, di Meda (responsabile del ministero delle Finanze), dello stesso Vittorio Emanuele Orlando, soprattutto di Bissolati. La presenza di questi uomini rimandava, infatti, a un programma democratico-borghese, schiettamente filo-intesista, francofilo, internazionalista o almeno non nazionalista, aperto, per alcuni di loro, persino alle rivendicazioni dell’etnia slava della Venezia Giulia, dell’Istria, della Dalmazia anche quando queste avessero costituito un intralcio e peggio un – 143 –


insormontabile ostacolo al conseguimento dei primitivi obiettivi della guerra italiana (204). Nulla da stupirsi, dunque, che Volpe avesse, così, «in gran dispetto» un governo, il quale, a suo dire, usurpava il titolo di «nazionale», da ritenere del tutto idonea la crudissima opposizione levatasi contro il nuovo esecutivo da forze e da personalità collocate alle ali estreme dello schieramento politico. Gli editoriali del «Popolo d’Italia» - il quotidiano fondato da Mussolini, il 15 novembre 1914 - mettevano in guardia, infatti, verso «i traditori del 1915», annidati nel gabinetto Boselli: «giolittiani e cattolici uomini che hanno pencolato o sono cosi legati al passato o debbono prendere ordini da un altro Stato, come il Vaticano, che è dentro o contro lo Stato italiano». E contro i traditori della santa causa interventista, quegli editoriali lanciavano un appello alla mobilitazione indirizzato a «una minoranza audace che scendesse in piazza, in un nuovo “maggio radioso”» (205). In quella polemica, però, non era loro da meno uno dei maggiori esponenti socialisti, tanto (204) Nel gennaio del 1918, Bissolati avrebbe addirittura sostenuto la necessità di una nuova politica estera basata sulla rinuncia al confine al Brennero, alla Dalmazia, salvo la costituzione di alcune città libere, a una frazione dell’Istria e all’avvio di cordiali relazioni con gli Slavi meridionali ormai emancipati dall’influenza russa. Sul punto, O. Malagodi, Conversazioni della guerra, cit., II, p. 98 e pp. 263-264. Sugli orientamenti di politica estera di Bissolati, durante e al termine del conflitto, si veda I. Bonomi, Leonida Bissolati e il movimento socialista in Italia, cit., pp. 143-226; C. Sforza, Costruttori e distruttori, cit., pp. 255-260; I. Bonomi, La politica italiana dopo Vittorio Veneto, Torino, Einaudi, 1953, passim; L. Valiani, La dissoluzione dell’Austria-Ungheria, Milano, Il Saggiatore, 1966, passim. (205) Le critiche de «Il Popolo d’Italia» furono amplificate, sulle colonne dello stesso giornale, da Mussolini, il 21 e il 30 giugno 1917. Si veda B. Mussolini, Due discorsi e I vinti che non torneranno, in Id., Opera omnia, a cura di E. e D. Susmel, Firenze, La Fenice (poi Roma, Volpe Editore), 1951-1980, 44 voll., IX, pp. 11-13, 23-25.

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fieramente avverso al moderatismo di Bissolati e Bonomi quanto visceralmente contrario all’ingresso in guerra del nostro Paese. Anche lo spirito caustico e demolitore di Claudio Treves si esercitò sul Ministero Nazionale. Egli tendeva a starsene piuttosto alla finestra, in quei giorni che furono del più vecchio e logoro stile parlamentaristico. Ma non si può dire che vedesse e giudicasse male quel che avveniva nelle piazzette e nei chiassuoli sottostanti. Che cosa è questa “eresia costituzionale”, implicita nel nuovo Ministero, per cui non si considerano nazionali i Gabinetti di partito? E l’altra eresia, che si debba obbedienza, adesione di opere soltanto ai Ministeri ai quali noi partecipiamo? Curiosa idea della coscienza nazionale! Come riusciremo poi a essere concordi, per il fatto di essere, in un Ministero, uomini così diversi come questi? “Per volere rappresentare l’unanimità degli intenti, esso rappresenta la confusione delle idee e del principi”. Non c’è pericolo che, per volere creare la cosiddetta concordia nel Parlamento, corpo consultivo, si trasferisca la discordia nel Gabinetto, corpo esecutivo, che deve avere compattezza e unità d’indirizzo, con danno di quella stessa intensificazione dello sforzo di guerra, che voi proponete?

In realtà a sgretolare la coesione nazionale, che il Governo Boselli aspirava raggiungere, furono, secondo Volpe, proprio gli interventi di Treves che «nel tempo in cui, fallita l’offensiva di Verdun e quella del Trentino, nei giorni stessi in cui la guerra europea divampava con nuova vita, e gli eserciti dell’Intesa avevano ripreso o stavano riprendendo, in Macedonia, sulle Alpi, sul Reno, l’iniziativa delle operazioni», diede fiato, con sospetto tempismo, a un’offensiva di pace, che precedette di appena un semestre i tentativi di Berlino e Vienna per arrivare a una soluzione politica del conflitto, poi bloccati dalla ferma e immediata rea– 145 –


zione di Sonnino (206). Il 29 giugno, infatti, il deputato socialista segnalava «le voci di popolo che si levano dalle varie Nazioni belligeranti», si augurava che «che l’Italia possa assumere al momento opportuno quella missione storica che, per la sua posizione geografica e per le sue tradizioni le compete, missione di concordia e di pace», e aggiungeva, infine, «che fremiti di speranza corrono il mondo e che se voi ascoltate queste voci, se voi comprendete che la tragedia è finita, questa nostra piccola patria tornerà a essere la regina del mondo» (207). (206) Sui «peace feelers» del 1916-1917, si veda S. de Bourbon-Parma, L’offre de paix séparée de l’Autriche, 5 décembre 1916 - 12 octobre 1917, Paris, Plon, 1920; R. A Kann, Die Sixtusaffäre und die geheimen Friedensverhandlungen Österreich-Ungarns im Ersten Weltkrieg, Vienna, Verlag für Geschichte und Politik, 1966; D. R Woodward, David Lloyd George, a Negotiated Peace with Germany, and the Kuhlmann Peace Kite of September 1917, in «Canadian Journal of History» 6, 1971, 1, pp. 75-93; W. B. Fest, British War Aims and German Peace Feelers during the First World War (December 1916-November 1918), in «The Historical Journal», 15, 1972, 2, pp. 285-308; D. Stevenson, The Failure of Peace by Negotiation in 1917, in «The Historical Journal» 34, 1991, 1, pp. 65-86; D. French, The Strategy of the Lloyd George Coalition, 1916-1918, Oxford, Clarendon Press, 1995, pp. 144-47; A. Watson, Ring of Steel. Germany and Austria-Hungary at War, 1914-1918, London, Allen Lane, 2014, al capitolo VII, passim. Per la reazione di Sonnino alle prime avvisaglie di possibili trattative con Vienna, quando il responsabile degli Esteri informò gli Alleati che il governo di Roma non avrebbe accettato una pace di compromesso, siglata, sacrificando le rivendicazioni italiane verso l’Austria, e che se questo fosse accaduto l’Italia sarebbe uscita dall’alleanza, con il rischio di precipitare la Penisola nella guerra civile, si veda H. J. Burgwyn, The Legend of the Mutilated Victory. Italy, the Great War and the Paris Conference, 1915-1919, Westport, Greenwood Press, 1993, pp. 101 ss. Infine, sulla posizione di Volpe nettamente ostile a ogni ipotesi di pace separata avanzata da Vienna nella fase finale del conflitto, si veda Id., La proposta austriaca di pace; Ancora sulla proposta austriaca di pace, «Fatti e Commenti», 17 settembre - 24 settembre 1918, in Id., Per la storia della VIII Armata, cit., pp. 80 ss. e pp. 87 ss. (207) C. Treves, Il Ministero Nazionale. Discorso del 29 giugno 1916 alla Camera, in Id., Come ho veduto la guerra, Milano, Edizioni della “Rassegna Internazionale”, 1925, pp. 69-92. Si veda anche Id., Sempre la guerra e la crisi parlamentare,

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Assai più insidiosa era, comunque, a giudizio Volpe, la propaganda pacifista che si levò dai banchi del gruppo parlamentare cattolico ancora prima dell’invio dell’Esortazione apostolica di Benedetto XV ai «Capi dei Popoli belligeranti» del 1° agosto 1917 (la cui redazione era stata preceduta da consultazione segrete tra Vaticano e la Cancelleria del Reich sviluppatesi tramite il Nunzio, a Monaco di Baviera, Eugenio Pacelli) (208). Con quel messaggio, il Pontefice perorava «la cessazione di questa lotta tremenda che, ogni giorno più, apparisce inutile strage» e si offriva come mediatore per raggiungere quel fine, che egli voleva veder realizzato «non per mire politiche particolari né per suggerimento o interesse di alcuna delle parti, ma perché noi siam mossi unicamente dalla coscienza del supremo dovere di Padre comune dei fedeli, dal sospiro dei figli che invocano l’opera Nostra e la Nostra parola pacificatrice» (209). in «Critica sociale», 26, 1-15 settembre 1916, pp. 231-234. Dal settembre 1914, Treves si distinse per avere sostenuto la necessità, da parte dell’Italia, di mantenersi in uno stato di neutralità. Dopo il maggio 1915, continuò a essere portavoce di una politica pacifista in linea con i programmi dell’internazionalismo socialista, a tal punto che tra i soldati si diffuse, lo slogan coniato da Treves: «non più un inverno in trincea». Solo a seguito della sconfitta di Caporetto, Treves mise da parte, momentaneamente, le sue posizioni ideologiche, ritenendole inconciliabili con la situazione del fronte, e invitò gli Italiani a reagire compatti contro la minaccia di un’invasione del Paese da parte degli Imperi centrali. Sul punto, A. Casali, Il “marchese di Caporetto”. Claudio Treves e l’interventismo di sinistra, in «Italia contemporanea», 180, 1990, pp. 481-504; D. Lazarich, The Italians Socialist and the Great War, in G. Parati (ed.) Italy and the Cultural Politics of World War I, Madison, Fairleigh Dickinson University Press, 2016, pp. 17-36. (208) T. von Bethmann Hollweg, Betrachtungen zum Weltkriege, Berlin, Berlin, 1919-1921, 2 voll, I, pp. 210-214. Sul punto, D. Stevenson, The Failure of Peace by Negotiation in 1917, cit., pp. 78-90 (209) Acta Apostolicae Sedis, Roma, Typis Polyglottis Vaticanis, 1918, IX, pp. 421-423. Sulla crisi di coscienza che la lettera di Benedetto XV provocò in Filippo Meda, A. Fappani, L’entrata dell’on. Meda nel ministero Boselli, in «Rassegna di politica e di storia», 179, 1969, 15, pp. 257-263.

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Ligio ai contenuti di quel messaggio, sempre nella giornata del 29 giugno, Livio Tovini, pubblicista, legatissimo alla Curia vaticana, sindacalista, organizzatore del movimento cooperativo, dirigente della Federazione Universitaria Cattolica Italiana, deputato da cinque legislature, eletto per la prima volta nel marzo 1909, sosteneva che l’appoggio e la partecipazione dei cattolici al governo Boselli non potevano essere contrassegnati né da assoluta dedizione al nuovo esecutivo né da alcun compromesso con gli ideali del loro credo. Il loro primo obbligo di lealtà, sosteneva Tovini, era dovuto, infatti, a «un’autorità che assiste 300 milioni di coscienze, che fa udire la sua voce in ogni angolo della terra, che è il più autorevole rappresentante di un principio morale, il più convinto e libero Apostolo di una definitiva sistemazione dei popoli, su la base della giustizia e del diritto» (210). Sullo stesso leitmotiv, proseguiva anche «La Civiltà Cattolica», a fine estate 1916, quando sosteneva che «vero arbitro e custode della pace non può non essere altri che il Sommo Pontefice» e che quindi l’iniziativa diplomatica per porre fine agli orrori del conflitto spettava, di diritto, alla Santa Sede, per la sua natura di «tribunale neutro, cioè alieno dagli interessi dei contendenti e destinato a risolvere le controversie fra le Potenze, poiché esso solo risponde alle reali condizioni della cristianità, la quale ha un capo che di natura sua si trova sottratto a ogni invidia d’interessi temporali, essendo imposto da Dio ai popoli che tutti militano sotto la legge del fondatore del cristianesimo». Nella condizione presente degli Stati in lotta, niente poteva essere più opportuno dell’autorità super partes e moralmente superiore della Santa Sede «per una composi(210) Sull’intervento di Tovini, si veda D. Veneruso, La Grande Guerra e l’unita nazionale. Il ministero Boselli, cit., pp. 85-86.

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zione non già momentanea, sporadica, parziale ma, invece, decisiva e definitiva dei dissidi internazionali». Né, del resto, terminava la rivista dei Gesuiti, si trattava di creare dal nulla «questa superiore Corte di giustizia», perché «da secoli e da millenni il Soglio di Pietro, e per esso, il Pontefice è forza di pace, è istituto arbitrale, essendo per esso la giustizia naturale vocazione». Ed è a questo punto che, di fronte al prepotente risorgere di un pronunciato spirito di revanche, venato da antiche e mai sopite ambizioni teocratiche, da parte della Santa Sede e dei suoi sostenitori, Volpe, fermissimo laico di stampo risorgimentale ma, come Croce e Gentile, non pervaso dalla vecchia «mentalità massonica», dava sfogo ai suoi umori ghibellini, rievocando addirittura l’antica stagione del confronto tra Papato e potere temporale che aveva contraddistinto l’età di mezzo. Come si vede, l’onorevole Tovini e i circoli vicinissimi alla Santa Sede dicevan le stesse cose. E forse ciò accadeva non solo per caso o per una generica rispondenza di pensieri. Era da tener presente che la Chiesa aveva negli ultimi anni riorganizzato le sue forze in Italia. E ora si cimentava, con ogni strumento di azione, in un compito da cui poteva ripromettersi nuovo e maggiore prestigio nel mondo. Non solo voleva lenire i dolori della guerra, visitare i campi dei prigionieri e contribuire con mezzi finanziari alla loro assistenza, promuovere lo scambio degli invalidi e la loro ospedalizzazione nella Svizzera neutrale, come, da tempo, veniva facendo. Essa intendeva, ora, portar la sua parola nei congressi della pace, concorrere a una soluzione, non solo diplomatica, dei problemi della guerra, promuovere un nuovo ordine europeo e mondiale, rioccupare il posto e la funzione che già furono suoi nel Medio Evo. Ritornava così, seppur depotenziata nei toni ma non nella sostanza, la boria di dominio teocratico di Gregorio VII, Innocenzo IV, Bonifacio VIII. – 149 –


Non era, però, soltanto il vigoroso rifiorire dell’internazionalismo socialista e del neo-guelfismo a costituire un elemento di destabilizzazione della Nazione italiana che, dopo la dichiarazione di guerra a Berlino e in vista di un probabile e rapido «decline and fall» dell’Impero zarista, causato dal disastroso andamento della guerra sul fronte orientale, affrontava, ora, la fase più difficile del conflitto (una vera e propria «struggle for life»), come avrebbe scritto Volpe, in un articolo comparso il 30 ottobre 1917. Con l’ingresso in guerra contro la Germania, e il tracollo russo, il compito dell’Italia, la responsabilità dell’Italia, cresce e s’aggrava. La storia forse assegna a noi quello che un giorno assegnò alla Francia di Carlo Martello, che salvò l’Europa dagli arabi; quello che assegnò alla Polonia di Giovanni III Sobieski che la salvò dai turchi. Grande onore, ma anche grande onere. Bisogna essere disposti a tutto. Bisogna andare incontro con l’animo risoluto a tutti i sacrifici. Affrontarli oggi potrà voler dire risparmiarli domani o, meglio, impedire che si crei in Europa e nell’Italia nord-orientale una situazione che un giorno neppur con i sacrifici di oggi potremo più modificare. Perché è bene persuadersi di questo: ciò che oggi si edifica nella storia d’Europa avrà la durezza e la resistenza del granito, sia conforme o contrario a quel che è o noi riteniamo giustizia, diritto, ecc. ecc. Le conseguenza della guerra e della vittoria avranno un’ampiezza ed una ripercussione nel tempo proporzionale all’immane sforzo sostenuto per combatterla o per vincerla. Senza contare che oggi Nazioni e governi hanno ben altri mezzi che una volta per consolidare una situazione creata dalla guerra, per far scomparire le tracce delle situazioni precedenti, per render difficile così ogni restante reazione, anzi per distruggere quasi ogni titolo di diritto antico. Un grande Impero delle genti germaniche che si protendesse fino all’Adriatico, attraverso la barriera alpina, e gravitasse verso il sud, con i suoi – 150 –


commerci, le sue ferrovie, la sua navigazione, la sua espansione demografica, sarebbe cosa che nessuna coalizione europea potrebbe distruggere. La coalizione europea ha solo la possibilità di impedire che ora si costituisca. Che tutti compiano la loro parte nel lavoro comune. E la compiano specialmente gli Italiani, il cui avvenire è in ginocchio più che non quello degli Inglesi o dei Francesi o dei Russi. Solo i ciechi oggi possono non vedere quel che prima, per molti, era un’affermazione di carico interventista: noi oggi combattiamo non per un pezzo di terra ma per la nostra esistenza. Si tratta per noi, come per i nostri padri, di essere o non essere come Nazione autonoma: di rimanere vivi e liberi al posto che la storia ci ha assegnato, oppure di avvizzire all’ombra della grande Germania e scomparire assorbiti da essa (211).

Inoltre, proprio in quel tornante decisivo del conflitto, la situazione in campo militare, continuava Volpe nelle pagine de Il popolo italiano nel primo anno della Grande Guerra, presentava forti elementi di criticità che dalle trincee non potevano non riflettersi sulla società per poi ritornare a incidere sulle masse in grigioverde, depotenziando la tenuta del Regio Esercito. In effetti, l’andamento delle operazioni nel campo dell’Intesa non giustificava alcun tipo di ottimismo. Il fronte occidentale, sia nel settore francese sia in quello britannico, sebbene in esso si compissero giganteschi sforzi, non dava segno di autentici progressi. Anzi, la continua pressione (211) G. Volpe, Grande onore e grande onere, cit. Sulle conseguenze geostrategiche del crollo russo, per l’Italia, e le posizioni assunte dal nostro Stato Maggiore e dalla nostra diplomazia in vista di quel catastrofico evento, si veda B. Benocci - A. Mazzetti, Il governo italiano e il ruolo geopolitico della Russia (1917). L’auspicio italiano di preservare l’unità russa di fronte all’inaspettata rivoluzione di ottobre, in «Eunomia. Rivista semestrale di Storia e Politica Internazionali», 6, 2017, 2, pp. 461-502.

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offensiva arrecò vantaggi del tutto trascurabili e finì per logorare le forze alleate ancor più di quelle germaniche, senza far neppure intravedere una svolta definitiva del conflitto (212). Lo stesso accadeva sul fronte italiano. Qui, dopo la vittoriosa offensiva del 4-17 agosto 1916, Cadorna cercò di estendere i vantaggi tattici ottenuti, per «dare respiro» a Gorizia e fortificarne la testa di ponte, nel tentativo di conquistare le alture circostanti per consolidare le posizioni acquisite e proseguire l’avanzata. Il 14 settembre iniziò la Settima battaglia dell’Isonzo che sortì solo parzialmente il successo sperato, portando a una guerra d’attrito, il cui risultato si ridusse a sfiancare entrambe le parti in lotta. Cadorna, comunque, spinto dagli Alleati a continuare gli sforzi offensivi, ordinò un’altra spallata tra il 10 e il 12 ottobre (Ottava battaglia dell’Isonzo) che, ancora una volta terminò con pesanti perdite dei due schieramenti. L’offensiva sul fronte isontino era comunque destinata a continuare perché, fino al 31 agosto 1917, le truppe italiane furono nuovamente impegnate nel tentativo di scardinare le difese austro-ungariche intorno a Gorizia per poi puntare sul Carso e procedere verso la fascia costiera settentrionale del Mar Adriatico e Trieste. Nemmeno la Nona, la Decima e l’Undicesima battaglia dell’Isonzo riuscirono, però, a portare vantaggi rilevanti. Gli avversari, seppur in forte difficoltà, a causa dell’allungamento del fronte difensivo, rimasero attestati su di un saliente nettamente favorevole a respingere un attacco delle nostre forze e del tutto idoneo per passare alla controffensiva (213). (212) R. T. Foley, German Strategy and the Path to Verdun. Erich von Falkenhayn and the Development of Attrition, 1870-1916, Cambridge, Cambridge University Press, 2005. (213) J. R. Schindler, Isonzo, The Forgotten Sacrifice of the Great War, Westport, Praeger, 2001; E. Faldella, La Grande Guerra. I. Le battaglie dell’Ison-

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Insomma, Cadorna continuava la sua guerra, fatta di urti di grandi masse contro linee potentemente fortificate, senza comprendere fino in fondo, che non era più possibile perseverare in una strategia dove a risultati importanti, ma strategicamente limitati, corrispondeva un salasso altissimo in termini di mezzi e di vite umane, e un conseguente scoramento e sbandamento sulla linea del fuoco e nelle retrovie (214). E lo faceva, apparentemente, senza comprendere, come avrebbe annotato Volpe, che le pur, per così dire, “limitate” sconfitte del giugno 1917 (Flondar e Ortigara) (215), nelle quali per la prima volta si fece evidente una calo della combattività del Regio Esercito, testimoniato dall’alto numero di militari italiani catturati, rappresentavano una sorta di «cianografia» della disastrosa disfatta di Caporetto, dove sarebbero tornate a farsi valere, prepotentemente, le tradizionali e mai superate fiacchezze della Nazione. Anche dopo la bella prova delle armi italiane nella battaglia degli Altipiani, che l’adesione di molte coscienze di popolo e di borghesia, di laici e cattolici, persino di liberali giolittiani e di socialisti neutralisti, estranei alle ragioni della guerra, lo sforzo di mobilitazione del fronte interno, e il massiccio afflusso di volontari militari e civili avevano reso possibile, le zo, 1915-1917, Chiari, Nordpress, 2004; A. Sema, La Grande Guerra sul fronte dell’Isonzo, Gorizia, Libreria Editrice Goriziana, 2009; S. Wedrac, La guerra sull’Isonzo 1915-1917. Una breve panoramica, in Superare Caporetto, cit., pp. 25-32. (214) E. Faldella, La Grande Guerra. I. Le battaglie dell’Isonzo, 1915-1917, cit., pp. 132- 153; E. Lehmann, Una Caporetto annunciata. La conduzione della guerra cadorniana nel Diario critico di guerra di Giulio Douhet, cit. (215) Rispettivamente, M. Silvestri, Caporetto, una battaglia e un enigma, Milano, Rizzoli, 2006, pp. 27-49; G. Pieropan, Ortigara 1917. Il sacrificio della VI Armata, Milano, Mursia, 2007.

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debolezze italiane non erano, però, venute meno. Venne poi la Sesta offensiva sul fronte isontino, anch’essa vittoriosa, con lo sgretolamento della linea austro-ungarica sul Sabotino, culminata con la presa di Gorizia. E a essa seguirono, tra il settembre 1916 e l’agosto 1917, le altre assai meno fortunate battaglie dell’Isonzo, con grandissima effusione di sangue nostro ripagato dal terribile logoramento dell’apparato militare avversario, il cui esito complessivo a favore del Regio Esercito fu diminuito dalla sconfitta di Flondar, e dal fallimento tattico e strategico dell’attacco al Monte Ortigara. Il popolo in divisa si portò comunque bene in tutte queste prove, superando le attese del Comando Supremo e dei nostri alleati. Eppure, dopo quelle battute d’arresto, le debolezze dell’Italia in guerra aumentarono d’intensità e si trasformarono, infine, nei veleni che debilitarono il corpo della Nazione fino alla vigilia dell’ottobre nero di Caporetto (216).

(216) Per l’analisi della sconfitta di Caporetto, fatta da Volpe, E. Di Rienzo, Caporetto come “problema storiografico”, cit.

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Gioacchino Volpe Il Popolo italiano nel primo anno della Grande guerra



Nota dei Curatori Il 6 giugno 1943, Gioacchino Volpe scriveva a Giovanni Gentile una lettera, ab irato, per smentire le voci, invero del tutto, infondate, sulla sua scarsa produttività scientifica che si erano levate da un gruppo di docenti della Facoltà di Lettere e Filosofia de la Sapienza di Roma, contrari al suo trasferimento in quella Facoltà da quella di Scienze Politiche, un’istituzione accademica creata, per così dire, dallo storico, dove egli aveva insegnato, Storia della politica moderna, fin dalla sua istituzione, all’inizio del 1925, quando essa era sorta con la denominazione di Scuola di Scienze politiche1(*). Ti ho cercato invano. E siccome stasera parto per Zagabria, per tenere una conferenza all’Istituto italiano di cultura, per la chiusura dell’anno accademico, così ti lascio questo biglietto raccomandandoti, se pure è necessario, la mia faccenda. Al punto in cui son arrivate le cose, mi dorrebbe, a sessantasei anni, decano dell’Accademia d’Italia, con una certa reputazione tra gli storici e gli Italiani, essere bocciato: e poi da un omuncolo senza spina dorsale, come Raffaello Morghen che razzola impieghi e stipendi e ha una cattedra… per non fare scuola. Se, in Facoltà, qualcuno dovesse dire che ormai il prof. Volpe è un limone spremuto ecc., puoi rispondere che nel ’39 ho pubblicato una storia del Fascismo che è il miglior libro del genere, tradottissimo. Quattro quinti di quelli che fuori d’Italia sanno di fascismo conoscono questa mia storia. Nel 1940, ho pubblicato il 1° volume di una storia civile, interna (*) E. Di Rienzo, La storia e l’azione. Vita politica di Gioacchino Volpe, Firenze, Le Lettere, 2008, pp. 331 ss. – 157 –


del popolo italiano durante la guerra (Il popolo italiano fra la pace e la guerra). È già in composizione il 2° volume (Il popolo italiano nella Grande Guerra, 1914-1918). Fra 15 dì uscirà il 1° volume di Italia moderna, 1815-1915, a cui seguirà un secondo, pure di 500 pagine. Il mio… competitore, il Morghen, fuori di un po’ di Medioevo, non ha, invece, che una cultura manualistica…2(**)

Il mutato clima politico, successivo al crollo del regime, il forzato esodo nella casa di Campagna di Spinalbeto, presso Santarcangelo di Romagna, che investita dall’avanzata alleata fu occupata e devastata da un reparto neozelandese nel settembre 1944, con pressoché conseguente distruzione dell’archivio dello studioso3(***), impedirono, però, a Il popolo italiano nella Grande Guerra di prendere vita nella forma concepita dall’autore. Di esso, infatti, Volpe riuscì a terminare solo la parte del manoscritto, relativa al primo anno della Grande Guerra che fu pubblicato incompleto e in forma lacunosa nel 19984(****), e alcuni frammenti del progetto originale che lo storico avrebbe utilizzato, alla metà degli anni Sessanta per la composizione di vari articoli apparsi su «Il Tempo» di Roma5(*****). (**) Gioacchino Volpe a Giovanni Gentile, Roma, 3 giugno 1943, Archivio della Fondazione Gentile, Roma. Corsivo nell’originale Sulla mancata chiamata di Volpe nella Facoltà di Lettere romana, dove la cattedra di Storia medioevale, vacante per la morte di Pietro Fedele, fu assegnata, appunto, a Morghen, si veda E. Di Rienzo, La storia e l’azione, cit., pp. 580 ss. (***) G. Volpe, Lettere dall’Italia perduta, 1944-1945, a cura di G. Belardelli, Palermo, Sellerio, pp. 43-45 (****) Id., Il popolo italiano nella Grande Guerra, 1915-1916, a cura e con un’introduzione di A. Pasquale. Prefazione di G. Belardelli, Milano-Trento, Luni, 1998 (*****) G. Volpe, Fu enorme lo sforzo della Nazione per entrare nella Grande Guerra, in «Il Tempo», 24 maggio 1965; Id., L’Italia nella prima guerra mondiale. – 158 –


Prima di abbandonare la capitale per lo sperato «buen retiro» romagnolo, lo storico si era, comunque, premurato di mettere al riparo presso l’Istituto italiano di Storia Moderna e Contemporanea, presumibilmente grazie all’interessamento dell’allora segretario, Ernesto Sestan, una sorta di “editio princeps” di questo lavoro6(******). Si trattava de Il popolo italiano nel primo anno della Grande Guerra, un corposo saggio di ottanta pagine fittamente dattiloscritte, pronto per la stampa, limitato al periodo 23 maggio 1915 - 17 agosto 1916, che, rimasto conservato negli archivi dell’Istituto e messoci a disposizione dall’attuale direttore, Professor Marcello Verga, viene, qui, pubblicato grazie alla gentile concessione della famiglia Volpe. Nell’edizione del dattiloscritto si è adottato un criterio rigorosamente conservativo, se si eccettua la correzione dei nomi di alcune località. Per quello che riguarda l’apparato delle note, quelUna grande impresa ma senza buona propaganda, ibidem, 25 maggio 1965; Id., Mese per mese la storia della Grande Guerra. Un alpino primo caduto la mattina del 24 maggio, ibidem, 28 giugno 1965; Id., Mese per mese la storia della Grande Guerra. Il conflitto fu affrontato con impeto garibaldino, ibidem, 5 luglio 1965; Id., Enrico Caviglia, ibidem, 6 novembre 1965; Id., Il mio generale, ivi, 9 novembre 1965; Id., Un piccolo esercito, ibidem, 6 luglio 1966; Id., Garibaldini e socialisti, ibidem, 9 luglio 1966; Id., L’irredentismo, ibidem, 22 dicembre 1966; Id., La resistenza degli irredenti, ibidem, 4 luglio 1967; Id., Gli irredenti e la guerra, ibidem, 30 marzo 1967. (******) Nel marzo 1939, grazie all’interessamento di Volpe, Sestan fu comandato presso la Giunta centrale per gli Studi storici, con sede a Roma a Palazzetto Venezia, con il compito di redattore della «Rivista Storica Italiana». Più tardi, dopo l’ottobre 1941, Sestan fu anche chiamato ad assumere «l’incarico di Segretario dell’Istituto italiano di Storia Moderna e Contemporanea e un poco anche di sorvegliante della Scuola Storica», dopo che il precedente segretario, Walter Maturi, era stato chiamato all’Università di Pisa per occupare la cattedra di Storia del Risorgimento. Sul punto, E. Sestan, Memorie di un uomo senza qualità, a cura di G. Cherubini e G. Turi, Firenze, Le Lettere, 1997, p. 262.

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le apposte da Volpe, a volte manchevoli di alcuni riferimenti bibliografici, sono state completate. Altre note sono state aggiunte dai Curatori per fornire al lettore maggiori informazioni e riferimenti bibliografici aggiornati su eventi e personaggi citati nel testo.

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Debolezze e spiriti vitali dell’Italia in guerra 1. – Fra le Grandi Potenze impegnate nella guerra mondiale, l’Italia, ultima intervenuta, era anche la più piccola, quanto a popolazione, ricchezza e vastità territoriale. La differenza era enorme, sotto taluni aspetti, con la Russia, grandissima, sotto altri, con l’Inghilterra e anche Francia. Non aveva la possibilità di regolare essa, non che la guerra altrui, ma neppure in tutto la propria, dipendendo, nei suoi bisogni essenziali, dagli alleati o dai neutri; al contrario della Gran Bretagna, entrata liberamente in guerra e libera di ritrarsene quando avesse voluto, anche per la stessa insularità sua e per il dominio del mare, che la facevano veramente arbitra della propria guerra e della propria pace. E quanto a mezzi di guerra, l’Italia non si trovava né nelle condizioni dei popoli arretrati, dai bisogni rudimentali, dall’organizzazione quasi a tribù, dall’intatto originario spirito guerriero, e capaci di scendere rapidamente in campo e a lungo durarvi (Serbia). Né era in quella dei popoli saldamente organizzati da secoli in unità statale (Francia, Germania, Inghilterra e, sotto certi rapporti, Austria e Russia). Popoli che erano allenati a guerre continentali o coloniali, fiduciosi in sé per virtù delle grandi prove affrontate e superate, consapevoli di aver un grande passato e un grande presente da difendere. Popoli, come quello tedesco, che erano assistiti da un esteso sistema industriale, da un robusto sistema infrastrutturale, da immense risorse materiali e finanziarie, da una potente manifattura di guerra, forniti di un saldo ordine militare cui tutto si subordinava, di una preparazione che, se anche deficiente in atto, esiste in potenza, esiste nello spirito del Paese, nei quadri che lo governano, ed è prontamente realizzata. – 161 –


Da noi, l’esercito povero di quadri e con difficoltà di reclutarli, in una Nazione dove mancava vecchia nobiltà di tradizione guerriera e solida borghesia industriale, abituata a inquadrare e comandare uomini. La milizia territoriale esisteva solo sulla carta. La grande massa dei militarmente abili non era istruita. Doveva l’Italia combattere una guerra d’iniziativa, una guerra offensiva. E pure, scarso era lo spirito aggressivo dell’esercito e, possiamo dire, della Nazione italiana. Quello e questa erano abituati a concepire solo guerra di difesa in senso stretto della parola. Guerra cioè su la porta di casa, anzi dentro la casa già violata, pro aris et focis: che era poi l’opposto dello spirito inglese, di un popolo cioè che da secoli ha sempre mosso e portato fuori, sul continente o nelle colonie, la sua guerra, e non sottilizza troppo su guerra «offensiva» o «difensiva» e considera difensive tutte le guerre che mirano a conservare, cioè - poiché altrimenti non si conserva - ad accrescere l’Impero. Ora, poi, il non essere stati noi assaliti e materialmente costretti a difenderci e l’avere, molti Italiani, considerato la guerra come un arbitrio nostro ci tolse quel sentimento della guerra stessa come castigo di Dio o volere del destino o prodotto necessario della vita europea a cui pur si voleva partecipare, cioè quella veduta o religiosa o fatalistica o storica, che aiuta tutti, anche i nolenti, ad affrontarla o almeno tollerarla. Per mesi e mesi, vi erano stati atroci rinfacci a chi “voleva” la guerra e viceversa; tutti presi egualmente dalla stessa orgogliosa presunzione umana di esser essi gli arbitri degli eventi. «Traditori!» si gridò da una parte. «Demagoghi, teppa!» dall’altra. «Venduti!» dalle due parti, reciprocamente. E quest’acerrima polemica interna molto divise gli animi, gettò germi di diffidenza fra Italiani e Italiani. Che cosa sarebbe accaduto, a guerra impegnata? Fra le Nazioni belligeranti, nessuna, di quelle almeno in cui l’opinione pubblica aveva un – 162 –


qualche peso; nessuna iniziò la guerra in queste condizioni, con questi elementi di debolezza. Quanto all’impianto industriale italiano, esso era enormemente progredito negli ultimi anni, ma di per se stesso restava sempre cosa modesta, come quantità e come qualità, impacciato ancora da molte aderenze e legamenti col di fuori e particolarmente con quei Paesi che stavano per diventare nostri nemici. L’anno della neutralità, qualche manchevolezza fu sanata e s’iniziò, certo, lo sforzo per adeguare le risorse tecniche del Paese ai nuovi più che probabili eventi. Non solo lavori alla frontiera, strade o impianti ferroviari nella regione veneta, compiuti o avviati; ma anche attività di officine belliche. L’organismo industriale italiano cominciò qua e là a muoversi con qualche maggior fretta e in vista della guerra. Si muoveva, esso, per richieste nostre e per richieste di altri belligeranti. Lo stesso, dal punto di vista tecnico. Il governo sollecitò, facendosi esso diretto importatore di materie prime indispensabili. Diede più libertà di movimento all’amministrazione militare per i suoi bisogni; e con decreto 4 agosto 1914, esonerò i Ministri della Guerra e Marina dall’obbligo di attenersi alla legge sulla contabilità generale dello Stato per l’acquisto, il noleggio, la lavorazione di materiali, mezzi di trasporto, d’imbarco e sbarco ecc. Ai funzionari preposti ai servizi logistici e agli armamenti si diede mandato di fiducia. Le fabbriche d’armi e di materiale da guerra dello Stato, Terni, Brescia, Avigliana, Bologna, Torino lavorarono alacremente, e la spinta fu comunicata anche a privati imprenditori. Il Governo strinse rapporti diretti con essi, eliminando gli intermediari, sollecitò individualmente gli industriali della regione ligure-lombarda, chiamandoli a Genova presso la Direzione d’Artiglieria, perché dessero conto delle loro capacità, strinse accordi con i capi delle maggiori associazioni industriali italiane – 163 –


e con essi fissò i prezzi delle più importanti forniture, quanto a prodotti della metallurgia, cotone, lana, cuoio ecc. Così, con qualche centinaia di stabilimenti, messi in rapporto immediato con lo Stato, ci si mise a lavoro. E furono gettate anche le basi di raggruppamenti o consorzi d’industriali affini, per semplificare quei rapporti, distribuire le commissioni, regolare meglio la produzione secondo la possibilità delle varie ditte. Questo fece la Commissione mista d’industriali e funzionari, creata con decreto reale del 27 aprile 1915, per le calzature militari (1). Ma tutto questo, con certo sforzo e molta lentezza, quasi che la mentalità degli uomini, educati alla pace, con fatica si adeguasse alle necessità della guerra. Si rimase assai lontani da quel che sarebbe stato necessario fare, anche calcolando non già col senno di poi ma con la semplice esperienza degli altri Paesi già impegnati, da tempo, nel conflitto. Attorno al maggio 1915, ha sostenuto il generale Luigi Capello, si calcolò che l’Italia non producesse più di 7000 proiettili al giorno e un limitato numero di cannoni (2). Brandite le armi, la situazione della nostra economia di guerra migliorò impetuosamente e ci si mise al passo con i nostri alleati e i nostri avversari ma allora parve che l’Italia non fosse pari al compito che si era data. (1) Si veda la lettera di Ferdinando Bocca, presidente della Commissione di commercio di Torino, a Luigi Einaudi, in «Corriere della Sera», 5 luglio 1915. (2) L. Capello, La preparazione materiale, febbraio 1919, in Id., Note di guerra. I. Dall’inizio alla presa di Gorizia, Milano, Treves, 1920, pp. 46-68. Luigi Capello si distinse guidando le sue truppe in una serie di costose offensive sul fronte dell’Isonzo che si conclusero con limitati successi tattici soprattutto a Gorizia e sulla Bainsizza. Assegnato al comando della Seconda Armata, fu sorpreso dall’offensiva avversaria nelle fasi iniziali della battaglia di Caporetto e non riuscì a fermare l’avanzata del nemico. Costretto a cedere il comando per seri motivi di salute, fu considerato tra i responsabili della disfatta, e non ritornò più in servizio. Nota dei Curatori.

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Idea imperfettissima ci fu, infatti, tanto nel Paese quanto negli uomini di governo, di quel che sarebbe stata la nostra guerra, quanto a durata, intensità ed estensione. Ottimismo grande, nel fondo dei cuori, anche se, a parare ogni dannata eventualità, si accennava da taluno a guerra difficile, lunga, dispendiosissima: ottimismo più grande di quello che è utile e forse quasi provvidenziale sorgente di fiducia, davanti alle grandi prove; più grande di quello che è giocoforza imporsi, di fronte ad un’impresa stimata sì difficile ma necessaria. Solo pochi occhi più penetranti - e molti occhi di neutralisti naturalmente inclini al pessimismo - vedevano il larghissimo margine di resistenza della Germania, di fronte ai due nemici dell’ovest; le sue grandi possibilità d’iniziativa verso l’est e il sud-est, a scopo militare e di rifornimenti; i germi di debolezza e dissoluzione che minacciava nel profondo il grande Impero russo. Il generale Cadorna, che pure non immaginò neanche lui quale estensione avrebbe assunto, quali esigenze avrebbe presentato la guerra, vide in questo più o meglio di Salandra e di Sonnino che stipularono il Patto di Londra con clausole che, per quanto riguarda la parte finanziaria e dei rifornimenti, poterono più tardi esser materia di melanconico sorriso, tanto si rivelarono fuori della realtà. Nel marzo 1915, Cadorna, che ad agosto 1914 aveva invano domandato la mobilitazione completa dell’Esercito, chiese la Mobilitazione Industriale, e non l’ottenne. Nel maggio, poco prima della dichiarazione di guerra, al ministro competente chiedeva di preparar nuove unità che fossero pronte per la primavera del ‘16 dicendo: «sarebbe colpevole illusione, ritenere che la guerra possa essere di breve durata» (3). Il futuro nemico, l’Austria, ci (3) E. M. Gray, Il Processo di Cadorna, Firenze, Bemporad, 1919, p. 118. Sull’impreparazione dell’apparato bellico italiano e le sue deficienze strutturali, si veda L. Cadorna, La Guerra alla fronte italiana fino all’arresto sulla linea del

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credeva assai più preparati e forniti (se non altro, forniti per opera degli alleati), quando, fra inverno e primavera, essa fece gli ultimi sforzi per distoglierci dalla guerra. Qualche giustificazione di questo poco fare e poco disporre non è da negare agli uomini di governo di allora. Noi dipendevamo dagli altri, specialmente dall’Intesa, in fatto di rifornimenti. E l’Intesa pensava innanzi tutto a sé. E non solo accaparrava tutti i prodotti delle sue colonie, ma anche aveva proceduto fin dalle prime settimane a vasti accaparramenti nei Paesi neutri o, se anche belligeranti, solo formalmente belligeranti, come il Brasile e l’Argentina (4). Difficile era per noi acquistar a credito, difficile procurarci la valuta per grandi acquisti, aver il tonnellaggio necessario ecc. Per pensare a noi o permettere a noi di liberamente pensare ai casi nostri, laddove potevamo farlo, l’Intesa voleva essere sicura dell’Italia, ancora legata ai due Imperi, esser sicura, cioè, che non fosse tramite di rifornimento per i nemici, che essa non si dichiarasse a un dato momento per gli ex-alleati o anche solo che non si consolidasse nelle posizioni di neutralità. Deciso poi l’intervento, nel pensiero del Governo prima ancora che nelle clausole del Patto di Londra, non potevamo neanche allora buttarci agli armamenti, per non provocare un’offensiva austro-germanica che ci avrebbe colti affatto impreparati. E anche indipendentemente da questa giustificata preoccupazione, quando ci mettemmo a far più grandi acquisti, trovammo mercati già invasi dagli altri. Tutto più caro. Ne venne che, fin Piave e del Grappa (24 maggio 1915 - 9 novembre 1917), Milano, Treves, 1921, 2 voll., I, pp. 1-27, 40-81. Sul rifiuto del governo Salandra di decretare la mobilitazione generale già nell’agosto 1914, ivi, pp. 40-43. Nota dei Curatori. (4) In realtà, il Brasile entrò nel conflitto, a fianco dell’Intesa, solo il 26 ottobre 1917, mentre l’Argentina restò neutrale. Nota dei Curatori.

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dal primo giorno, anzi prima ancora che fosse impegnata, la nostra guerra ci costò più che ad altri. Ogni soldato gravò sul nostro bilancio più che gli altri soldati, almeno relativamente al più modesto corredo del nostro soldato. E dovemmo cominciar a far grossi debiti. Cosi pagammo caro anche il vantaggio di quei nove mesi di respiro, dall’agosto 1914 al maggio 1915. 2. – C’era ancora qualche altro motivo di preoccupazione: motivo ancora più specificamente italiano. Il Pontificato romano sovrastava a tutte le Nazioni cattoliche, come potere fuori della Nazioni. Ma agiva in maniera alquanto diversa in Italia, cioè nella sua sede storica, che altrove. Altrove, nessun dualismo e contrasto, salvo quello, immanente, fra Stato moderno e Chiesa, fra laicato e clero; contrasto che non era poi sempre fra elementi della Nazione ma, qualche volta, fra la Nazione, compreso, più o meno, anche il clero, e Roma. In Italia, assai di più. In Italia vi era la questione della libertà della Santa Sede. Reciproci sospetti. Da una parte, si diceva: rispetterà lo Stato italiano in guerra, questa libertà? Gli sarà possibile mantenerla intatta? Dall’altra ci s’interrogava: non userà la Santa Sede della sua libertà a danno della Nazione in guerra? Sospetti legittimi gli uni e gli altri, poiché mancava ogni esperienza su ciò che sarebbe accaduto in Roma e in Italia, fra i due poteri, in caso di guerra. Il precedente libico non era ritenuto di grande peso: poiché ora, l’Italia non avrebbe più avuto di fronte la Mezzaluna ma dei cristiani, dei cattolici, anzi cattolicissimi… La prima prova fu fatta il 24 maggio. E fu piuttosto sconfortante. L’ambasciatore d’Austria, presso la Santa Sede, avrebbe potuto tranquillamente rimanere al suo posto. Nessuna pressione fu fatta, anche di opinione pubblica. Nessuna limitazione fu posta all’immunità della corrispondenza e ai diritti riconosciuti dalla – 167 –


legge delle guarentigie agli stranieri che avevano uffici ecclesiastici in Roma. L’ambasciatore austriaco, invece, preferì andarsene. E se ne andò anche quello germanico. Vuoi che si sentissero a disagio, in un ambiente certo ostile, vuoi che si proponessero, essi e i loro governi, di mostrare illusorie agli occhi dei cattolici le garanzie accordate da quella legge e seminare zizzania fra la Santa Sede e lo Stato italiano. Quindi, mentre gli uni rimasero con la loro idea che lo Stato italiano non aveva voluto o potuto rispettare appieno le prerogative della Santa Sede, e che il problema della libertà papale rimaneva vivo e attuale; gli altri videro nella Santa Sede un possibile nemico o che in ogni modo fosse da guardarsene, come se essa aspettasse il momento per scoprirsi ed accampare le sue pretese. E temettero il Vaticano come una fabbrica di sottili intrighi germanofili e austrofili, piantata in mezzo al Paese guerreggiante con l’Austria. Timore eccessivo, ma che pure aveva un qualche suo fondamento, per colpa non della Santa Sede come tale, ma di qualche alto prelato tedesco dimorante in Curia. Del quale si poté fortemente sospettare più tardi che tradisse la fiducia papale, e abusasse della immunità epistolare e dell’ufficio suo in Roma: come quel monsignor Gerlach che poi fu processato e condannato a morte in contumacia (5). (5) Rudolph Gerlach, nobile di origini bavaresi, Cameriere segreto di Benedetto XV, fu a capo di una rete d’intelligence collegata agli Imperi centrali. Il controspionaggio italiano lo riterrà coinvolto nelle azioni di sabotaggio che portarono all’affondamento di due navi da guerra della nostra Marina: la «Benedetto Brin», fatta esplodere nel porto di Brindisi il 27 settembre 1915, e la «Leonardo da Vinci», distrutta da un attentato dinamitardo a Taranto il 2 agosto dell’anno successivo. L’accusa sostenne che Gerlach in contatto con l’Evidenzbureau, il Servizio informazioni austroungarico, comunicava le notizie apprese in Vaticano agli Imperi centrali e favoriva anche il finanziamento dei nostri

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La stessa neutralità proclamata e più volte riconfermata della Santa Sede non lasciava tranquilli tutti gli animi. Di tale neutralità assai si discusse fra noi, anche en philosophie. Si poteva pensare da taluni la Chiesa più vicina al Belgio (cattolico) alla Francia (massonica e anticlericale, sì, ma di mentalità cattolica anch’essa, procedente per principî assoluti e trascendenti), anziché alla Germania (il Paese del razionalismo e dell’immanentismo che mina alla base il Dio dei Cattolici). All’atto pratico, molte ragioni e stimoli di natura contingente e politica suggerirono alla Santa Sede un atteggiamento certo neutrale, ma tanto neutrale che parve freddezza verso il Belgio e la Francia. Così che molti, in Italia e fuori, videro la neutralità della Santa Sede venata di simpatia per i due Imperi, specie per l’Austria cattolica, anche di fronte all’Italia, cattolica anch’essa, sì, ma usurpatrice. Perfetta o no, questa neutralità, cioè equidistanza, essa urtava egualmente gli Italiani che avevano voluto la guerra, che sognavano tutte le forze della Nazione concordi nella prova imminente, che vedevano una antitesi assoluta, anche morale, fra essi e l’avversario. Legittima era quella neutralità e necessaria. Forse anche benefica. Impediva che l’odio politico si dilatasse e investisse tutto il campo dello spirito. Rimaneva una zona di bonaccia e di riposo, in mezzo all’infuriare della tempesta, anche se incapace di placare, con la sua propria bonaccia, l’altrui tempesta. Direi che in giornali «disfattisti». Il Tribunale militare italiano lo giudicherà in contumacia, condannandolo all’ergastolo. Sebbene il Pontefice si rifiutasse di credere alla colpevolezza del suo collaboratore, non contribuirono certo a rendere credibile la sua estraneità ai fatti, le calorose accoglienza tributata a Gerlach a Berlino e a Vienna, dove fu insignito di importanti onorificenze, poi esibite con orgoglio dal monsignore bavarese. Sul punto, A. Paloscia, Benedetto fra le spie. Negli anni della Grande guerra un intrigo tra Italia e Vaticano, Roma, Editori Riuniti, 2007. Nota dei Curatori.

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quella neutralità era, anticipato, quasi il superiore giudizio della storia, poco disposta a far troppe differenze fra i belligeranti: tutti egualmente allontanantisi da Dio e presi dalla frenesia dei beni terreni, e quindi “responsabili” della guerra, diceva la Santa Sede; tutti egualmente artefici della guerra…, come poteva già allora dire o meglio ancora avrebbe poi detto e dimostrato la storia. Ma l’Italia, che scese in campo nel maggio 1915, non era né la Santa Sede né la storia e inclinava a credere che la neutralità, rispondendo agli interessi del nemico, si risolvesse in un involontario aiuto al nemico. Particolarmente ardua, per circostanze intrinseche al Paese, si presentò dunque, sin dall’inizio, la guerra italiana. Alla quale mancò anche quel largo consenso di opinione pubblica straniera che riscaldò e alimentò la guerra delle Nazioni occidentali, specialmente della Francia. Per la gente del mondo, quasi non esistevano interessi italiani e una politica volta a tutelarli. Era lecito agli altri quel che non era lecito all’Italia. Ogni suo muoversi urtava cento interessi e giudizi o pregiudizi. Basti ricordare quel che era avvenuto per la Libia, e il gran fracasso che si fece allora in Europa, e il virtuoso scandalo che quasi tutti ne presero. Il fatto che l’Italia trattò diplomaticamente con gli ex alleati e con l’Intesa fece piover da ogni parte accuse di mercato. L’aver mosso guerra a ex alleati diede pretesto per gridare al tradimento. L’aver quella guerra, assunto l’aspetto d’iniziativa nostra, e di guerra offensiva, ci procurò l’accusa di provocatori e rinfocolatori di guerra, quanto e più che la Germania e l’Austria. Il pacifismo mondiale poteva aver accettato la guerra altrui, ma strillò forte quando ci muovemmo noi: strillarono circoli e giornali della democrazia, organi cattolici, rappresentanti del femminismo. Le dimostrazioni di maggio, nel momento culminante della lotta interna per l’intervento, apparvero a tanta gente, – 170 –


di fuori, opera della canaglia cittadina. E questo non solo presso gli ex alleati, ma anche presso gran parte dei neutrali: vuoi che qui operassero contro di noi le sottili suggestioni della propaganda austriaca e, più, germanica, vuoi che questo fosse lo stato d’animo di quei Paesi in rapporto all’Italia. Così fu in alcune zone delle due Americhe. Così accadde nelle piccole Nazioni dell’Europa settentrionale, in Olanda, Danimarca e Norvegia. E dalla Svezia, quando la nostra guerra apparve imminente, ci venne una specie di minaccioso avvertimento. Così, più ancora, in Svizzera. Qui la guerra aveva portato perturbazioni economiche gravi, sanate solo dalla neutralità italiana. Con l’entrata dell’Italia in guerra, si serrò l’anello di fuoco tutto attorno al piccolo Stato, si fece impervia o si chiuse la strada del porto di Genova e dei mercati italiani, già vigilati dall’Intesa per paura di contrabbando, s’interruppe la lucrosa attività degli Svizzeri come intermediari, insomma si resero difficili le relazioni della Confederazione col mondo esterno. Popolazione, per due terzi germanica, gli Svizzeri simpatizzavano per la Germania, specialmente gli alti gradi militari. Stato plurinazionale, guardavano con indulgenza l’Austria che lottava contro le forze centrifughe delle sue varie nazionalità. Avendo qualche cantone di popolazione italiana, temevano lo svegliarsi di pretese irredentistiche italiane e le ripercussioni di un’eventuale vittoria nostra, sopra quella popolazione. Avendo in propria mano molti e ottimi valichi alpini, temettero che l’intervento dell’Italia aumentasse il desiderio o la tentazione dei belligeranti di violar la neutralità svizzera, per colpire gli avversari. Realmente, vi erano dappertutto non pochi timori che, in ispecie l’Austria e Germania, premuti da ogni parte, potessero sentirsi spinti a tentare da quella parte di spezzare il cerchio, col consenso o senza troppa resistenza degli Svizzeri stessi. E l’elezio– 171 –


ne di un italiano, l’onorevole Giuseppe Motta, a presidente della Confederazione, nel 1915, ebbe certamente anche lo scopo di rassicurare l’Italia. La quale, dal canto suo, sebbene non fosse tra i firmatari dell’atto internazionale che riconosceva la neutralità svizzera, si affrettò a fare questo riconoscimento. Comunque, la guerra italiana fu avvertita nel vicino Paese come un nuovo pericolo per la sua integrità e libertà, e, come tale, avversata, prima e dopo, da gran parte dell’opinione pubblica. Senza contare che la guerra italiana fece della Svizzera la terra d’asilo di migliaia di Tedeschi fuggiti dall’Italia. Lì posero il lor quartiere generale i corrispondenti di giornali tedeschi e austriaci in Italia. Lì anche un buon numero di disertori italiani. Non mancò tolleranza, che poté sembrare eccessiva, da parte delle autorità cantonali, a questi elementi ostili a noi. Dopo i primi mesi di guerra, vi fu occasione di costatare che i corrispondenti della Svizzera di giornali austriaci e tedeschi potevano mandar ai loro governi le notizie che volevano su l’Italia. Ma qualche giornalista italiano che, dalla Svizzera, mandò corrispondenze su le condizioni dell’Austria, ebbe noie da quel Governo, come avesse svolto azione falsa e tendenziosa (6). Anche da parte dell’Intesa non mancò, fra gli inni della fratellanza latina e della solidarietà di guerra, un accorto lavorio giornalistico, non so quanto spontaneo, che presentò durante la neutralità gli Italiani ora mercanteggianti fra Triplice e Intesa, ora intenti a scroccare le loro fortune, precipitandosi sui cadaveri. Né mancarono, quasi a impiantar la futura battaglia diplomatica e giornalistica, le prime battute polemiche, che poi diverranno piena (6) F. Caburi, Manovre austriache in Svizzera. Il corrispondente del “Giornale d’Italia” tenuto d’occhio, in «Giornale d’Italia», 10 novembre 1915.

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orchestra, su l’«imperialismo italiano» in Adriatico. Insomma, non calore di simpatia vi fu attorno alla guerra italiana. Piuttosto preoccupazioni, sospetti, senso di contrarietà. Non molte parole e giudizi che suonassero riconoscimento di una necessità o di un legittimo interesse italiano, salvo il linguaggio d’occasione da parte di chi era direttamente interessato al nostro intervento. Pochi gli stranieri di Paesi neutri, disposti a pensare e scrivere come pensò e scrisse quel Roberto Herrick americano, che si trovò in Roma nel maggio 1915, e ai suoi concittadini, mal prevenuti, raccontò i fatti di quei giorni come opera non della canaglia ma della borghesia colta, mossa da impulsi schiettamente e anche, ahimè!, ingenuamente idealistici (7). Dobbiamo riconoscere che noi avemmo allora e avemmo durante la guerra scarsa capacità e possibilità, in confronto dell’Inghilterra e Francia, di agire su l’opinione mondiale, di imporre a essa i nostri punti di vista, di trasformare, mediante la così detta «propaganda», in valori universali e assoluti anche quelli che potevano essere particolari interessi nostri. Altre posizioni nel mondo, altra esperienza e attrezzatura avevano quei due Paesi. Ma, ammesso pur questo, si ripeteva, in fondo, il Risorgimento, compiutosi, fra poche voci amiche, in mezzo a larga diffidenza e ostilità. La quale in parte era consapevole linea di condotta politica; ragionata e, se si vuole, ragionevole opposizione d’interessi mediterranei già costituiti; in parte era ignoranza, incomprensione, pregiudizio di classe o casta, solidarietà dinastica, ottuso spirito di conservazione, diffusa austrofilia, preoccupazioni clericali, cioè avanzi del passato, che solo il (7) R. Herrick, The World Decision, Boston, New York, Houghton Mifflin Co., 1916, Part One - Italy. Sull’inefficace propaganda di guerra da parte italiana, V. De Sanctis, “Italy our Ally” La propaganda culturale italiana in Gran Bretagna durante la Prima Guerra Mondiale (1915-1918), Roma, Nuova Cultura, 2019. Nota dei Curatori.

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tempo e la forza dell’Italia ricostituita avrebbe eliminato. Pochi problemi l’Europa ha considerato problemi generali e suoi, da doversene tutti occupare, come i problemi italiani, da secoli. Pochi Stati hanno proceduto da un secolo a questa parte attraverso a tante contrarietà internazionali, come l’Italia. Duro destino! Che tuttavia, poiché dipendeva dall’importanza grande che l’Europa annetteva all’assetto di quel Paese, dal valore che quel Paese aveva per l’ordine del mondo mediterraneo, poteva anche, con un’Italia cresciuta di forze e capace di esercitare azione su gli altri, oltre che di subirne, mutarsi in felice destino! 3. - Con questo ribollimento di passioni e di polemiche interne fra fautori e avversari di guerra italiana; con questa impreparazione di armi e di animi; con questa presenza di elementi estranei, riluttanti o inerti, che venavano e davano sospetto di indebolire la compagine nazionale; con questo scarso consenso e riconoscimento del mondo circostante, l’Italia cominciò la sua guerra. Guerra lieta o dolente che fosse, verso le Alpi Giulie e Tridentine e verso l’Adriatico; e in particolar modo, nella direzione di Trieste. E ciò avvenne anche senza nulla conoscere del piano di guerra preparato da Cadorna. Il quale, di fatto, mirava ad assicurarsi, su tutta la linea di frontiera, dallo Stelvio al mare, posizioni necessarie tanto alla difesa quanto, eventualmente, all’avanzata e correggere così le debolezze più gravi della frontiera politica, sancita a nostro danno dal trattato del 1866. Ma, questo piano mirava anche, sbarrati fortemente i valichi trentini e della Carnia, garantite le spalle e il fianco delle forze operanti oltre il medio e basso Isonzo, a qui raccogliere le forze per il maggiore sforzo, a scopo nettamente offensivo. Poiché qui la barriera montana sembrava meno ardua. Qui erano i grossi centri urbani, come Gorizia, Trieste, Lubiana, assai vicini o non lontani; qui, i punti di convergenza delle grandi strade di penetrazione del – 174 –


basso e medio Isonzo in Austria e d’irradiazione delle strade austriache verso l’Italia, qui, i territori che il nemico più gelosamente custodiva e che solo la materiale occupazione nostra poteva assicurare all’Italia. Qui, infine, era la possibilità di far concorrere, a norma delle convenzioni militari conchiuse con gli alleati, le nostre forze con quelle serbo-montenegrine e russe, e cioè stabilire una pratica coordinazione e collaborazione strategica delle forze alleate contro l’Austria, caldeggiata specialmente da Cadorna e destinata se si attuava, a dar subito un gran valore all’intervento italiano (8). Ma ahimè! Erano i giorni dei rovesci russi, culminati a Gorlice nel giugno, e della riconquista austro-germanica di tutta la Galizia (oltre che i giorni dello scacco ai Dardanelli e delle durissime giornate inglesi a Ypres) (9). E certo, solo gli impegni assunti indussero il Capo di Stato Maggiore e il Governo italiano ad aprire le ostilità proprio quei giorni... Sulla lunga frontiera terrestre e marittima dallo Stelvio allo Jonio riecheggiò subito il fragore della cannonata. Dalla parte del mare, l’iniziativa fu del nemico, il quale, essendogli stato rivelato il (8) L. Cadorna, La Guerra alla fronte italiana, cit., I, pp. 85-82. Nota dei Curatori. (9) L’offensiva di Gorlice - Tarnów (1° maggio - 22 giugno) fu lanciata dall’esercito tedesco per alleggerire la pressione russa sulle forze austro-ungariche nel sud del fronte orientale e terminò con il collasso totale delle linee russe e la conseguente ritirata delle forze zariste fin oltre i confini pre-bellici. Si veda R. L. DiNardo, Breakthrough: The Gorlice-Tarnow Campaign, Santa Barbara, Praeger, 2010. Sui disastri collezionati dall’Intesa nella seconda battaglia di Ypres (22 aprile - maggio 1915) e nella fallita offensiva dei Dardanelli (17 febbraio 1915 - 9 gennaio 1916), rimandiamo, rispettivamente, a G. H Cassar, Trial by gas. The British Army at the Second Battle of Ypres, Lincoln, University of Nebraska Press, 2014, E. J. Erickson, Gallipoli: The Ottoman Campaign, Barnsley, Pen & Sword Military, 2010, M. Gürcan - Robert Johnson (eds.) The Gallipoli Campaign: The Turkish Perspective, London, Routledge-Taylor and Francis Group, 2016. Nota dei Curatori.

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nostro impegno di attaccar non oltre un mese dalla firma del Patto di Londra (26 aprile 1915), era pronto pur esso. Posizioni munitissime, per natura e arte, l’Austria aveva su l’altra sponda da Pola a Cattaro; e forze navali ancora intatte, anzi accresciute, negli ultimi mesi. L’anno innanzi, vi erano ancora condizioni favorevoli per una flotta dell’Intesa che avesse voluto tentare azioni da quella parte. Ma Francia e Inghilterra non avevano saputo o voluto approfittarne. Spirito e intenzioni veramente offensive, verso l’Austria-Ungheria, quelle due Nazioni non li ebbero mai. E la loro modesta attività bellica nell’Adriatico, dall’agosto 1914 in poi, aveva avuto più scopi politici che militari. Si volgeva ai nemici perché i neutri udissero. Specialmente era bene che udisse l’Italia… Così, contro la nostra costiera adriatica, dove da mesi si viveva in istato di guerra, sotto la minaccia delle mine vaganti, al rombo dei cannoni di Cattaro e del Monte Lovćen e delle navi anglofrancesi, in quotidiani rapporti con profughi dalmati o istriani, contro quella costiera si ebbero, all’alba del 24 maggio, rapide scorrerie d’incrociatori leggeri, e di non grandi navi, di squadriglie di aeroplani, di dirigibili che comparvero improvvisamente davanti a Porto Corsini, a Rimini, a Pesaro a Fano, a Senigallia, ad Ancona ecc., sul cielo d’Abruzzo e di Puglia, e bombardarono porti, ferrovia litoranea, treni militari in marcia, campi di aviazione, ecc., non senza sospetto di connivenza nemica con qualcuno del Paese e con sudditi austriaci e tedeschi rimasti ancora lì. Si proponevano di «danneggiare di sorpresa il nuovo avversario e infliggere un sensibile colpo alla sua forza morale», come sosteneva il piano delle operazioni (10). In realtà, danni militari non ne fecero e non ne potevano fare. Erano tutte località aperte. All’alba (10) La prima giornata di guerra marittima, nei documenti austriaci del Comandante Piano Operazioni, in «Corriere Adriatico», 24 maggio 1915.

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del 24, tutte ancora risplendevano di luce elettrica. Ancona, antica piazzaforte, era stata compiutamente disarmata durante la neutralità e dichiarata città indifesa con Regi Decreti dell’8 novembre e 13 dicembre 1914 (nn. 1346 e 1547), apparsi su la Gazzetta Ufficiale del Regno. E quanto alla «forza morale» delle popolazioni, essa non fu troppo turbata. Eppure, tutte ebbero dei morti. Ancona, oltre settanta, quasi tutti civili. E qui fu colpito anche l’ospedale, colpito e ferito il mirabile duomo di San Ciriaco, alto emergente sul colle che sovrasta alla città, quasi segno ai naviganti. Ma tutto questo piuttosto inasprì la gente più che non la intimorisse. Il nemico, quel nemico, che la propaganda interventista, specialmente democratica, aveva volatilizzato in una serie di principi astratti, diventava, com’era stato 60 o 70 anni prima, una concreta realtà. Che l’assetto politico dell’Adriatico era tale da metter l’Italia in balia di chi possedeva l’altra sponda, divenne cosa chiara anche a molti che non ci credevano. È chiaro, anche, che noi non eravamo, sul mare, preparati alla guerra, a una guerra come quella che allora si presentò: rapida e agile, fatta di sorprese e di colpi di mano, tutta circoscritta entro un piccolo mare… Dalla parte di terra, invece, fu nostra l’iniziativa. Subitanea irruzione. Si ebbero, contemporaneamente, ordine di mobilitazione e dichiarazione di guerra; dichiarazione di guerra e inizio di ostilità. Alle ore 24 del 23 maggio, balzarono le avanguardie oltre la frontiera. Avanzata facile. In basso, si mossero le masse di fanteria, e cavalleria e bersaglieri ciclisti per i villaggi del Friuli e del Trentino meridionale; quasi deserti di uomini, seminati di rade retroguardie nemiche. Volavano in pezzi, fra grida gioiose, le insegne gialle e nere e le aquile bicipiti. Calde giornate di sole, e i soldati ne erano quasi ubriachi! Dalla truppa in marcia, si levavano i canti nuovi sgorgati durante la guerra libica e negli ultimi mesi della campagna interventista, e i vecchi canti del Risorgimento. Più in là non andava, salvo che per i Piemontesi, – 177 –


la nostra tradizione militare. Su nelle Prealpi trentine e in Cadore, i nostri percorrevano le vie e i sentieri, dove già Garibaldi aveva combattuto nel 1866 o Pier Fortunato Calvi fatto la prima campagna del 1848 e organizzato, con i suoi Cadorini, la guerriglia contro gli Austriaci (11). Più in alto, si slacciarono le truppe alpine, i quadrati battaglioni che portavano i nomi di tutte le montagne e vallate e città della grande cerchia montana, posta da natura a proteggere e quasi a creare la patria italiana e il popolo italiano; Saluzzo, Monterosa, Belluno, Pieve di Cadore, Vicenza, Feltre, Tagliamento, Valtellina, Aosta, Val Brenta, Natisone, Tirano. Piemontesi erano quelli del 3° e 4° Reggimento; Lombardi, quelli del 5°; Cadorini e Friulani e anche Abruzzesi nel 7°; uomini di sport alpinistico, guide, portatori, contrabbandieri, boscaioli, contadini d’inesauribile pazienza e tenacia, fieri della loro penna d’aquila. Sul cappello che noi portiamo C’è una lunga penna nera Che a noi serve di bandiera Su pei monti a guerreggiar Oilalà! (11) Pier Fortunato Calvi, capitano dell’esercito austriaco, di guarnigione a Venezia, venne trasferito, per sospetti sulle sue idee politiche, a Graz. Nel 1848, si dimise dal servizio e si pose a disposizione del governo provvisorio di Venezia. Inviato ad organizzare le forze del Cadore, batté ripetute volte gli Austriaci, finché, vista impossibile ogni resistenza, sciolse le formazioni volontarie dei cadorini per partecipare alla difesa della città lagunare. Costretto all’esilio dopo la caduta della città (28 agosto 1849), si trasferì prima in Grecia e poi in Piemonte. Messosi in contatto con Mazzini, nel 1853 ebbe da questi l’incarico di sollevare il Cadore. Partito dai Grigioni, entrò in Lombardia e passò nel Trentino, ma arrestato a Cogolo il 13 settembre 1853, fu, giustiziato nella piccola valle di Belfiore, alla periferia di Mantova. Sul punto, P. Pieri, Storia militare del Risorgimento, Torino, Einaudi, 1962, pp. 390-397. Nota dei Curatori.

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Cadde, nell’incerta luce crepuscolare dell’alba 24 maggio, per un colpo di fucile, il primo combattente: «un morto e pochi feriti», annunciava quel giorno il bollettino di Cadorna, primo della serie. Ed era un soldato alpino del 7° Reggimento, quasi a significare che quella guerra sarebbe stata, essenzialmente, «guerra di alpini»: Riccardo Giusto, di Udine, cui poi, nel 1924, sarà dedicato un ricordo marmoreo nella città nativa (12). Si lamenterà, poi, la lentezza iniziale e la prudenza forse eccessiva dei Comandi nell’avanzare. Ci sfuggirono posizioni che, facili allora a occupare, avrebbero poi richiesto mesi e anni di logoranti sforzi. Eppure, allora, si ebbe l’impressione, nel Paese, di una rapida marcia. In poche ore o in pochi giorni, i nostri raggiunsero i piedi del Carso, lasciandosi alle spalle le piccole città del Friuli austriaco, Gradisca, Cormons, Cervignano, e le campagne acquitrinose di Aquileia con i loro ruderi romani affioranti e, alta nel cielo, la quadrata torre campanaria della chiesa cattedrale, costruzioni superbe dell’XI secolo. Vi era, lì, un ricco museo. Ma, nell’aprile, fu incassato e spedito a Vienna. Nella parte montana del fronte, si diede la scalata al Monte Baldo e all’Altissimo (12) Riccardo Giusto nacque a Udine il 10 febbraio 1895. Chiamato alle armi nel corpo degli Alpini, il 12 gennaio 1915, fu inquadrato nella 16ª Compagnia del Battaglione «Cividale» dell’8º Reggimento, di stanza appunto a Cividale del Friuli, che, con l’approssimarsi del conflitto, si trasferì nella zona di Drenchia, al confine con la Slovenia. Il 24 maggio 1915, fu assegnato a una delle pattuglie di esploratori che precedevano il grosso delle truppe, che muovevano per occupare Monte Jeza, davanti a Tolmino. La formazione, di cui faceva parte, entrò in territorio nemico per alcune centinaia di metri, quando i gendarmi austroungarici che presidiavano il valico di Cappella Sleme aprirono il fuoco contro gli italiani. Giusto fu colpito a morte nei pressi di una cima secondaria del Monte Jeza. Su di lui, C. Zanier - P. Strazzolini, Riccardo Giusto. Tra Storia e Leggenda. La vicenda del primo soldato italiano caduto nella Grande Guerra, Udine, Aviani&Aviani Editori, 2015. Nota dei Curatori.

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che dominavano il Garda, al Tonale che sovrastava la Val di Vermiglio verso Trento, al Pasubio che vigilava su Schio e Vicenza e su le vie fra val d’Adige e val d’Astico. Si attaccarono i colossi della Carnia e del Cadore, risalendo le valli per cui, quando si era con Vienna in piena alleanza, Conrad aveva più di una volta divisato di scendere in Italia (13) e che da secoli avevano conosciuto furibonde zuffe tra Alemanni e i fedeli di San Marco. Per la prima volta dopo Roma, queste vie venivano ripercorse in armi: ma ora dal sud e ovest verso nord ed est. In quelle valli e conche, su quegli altopiani, erano ameni villaggi, grandi alberghi, luoghi di delizia della società cosmopolita; acque, pascoli, foreste d’alto fusto, freschissime ombre, profumo di resina, albe e tramonti dai meravigliosi colori. Ma su in alto, giganti verso il cielo, torrioni, cuspidi e guglie, creste dentate, pareti scoscese come muraglie, apparivano il Sorapiss, il Monte Cristallo, il Pomagagnon, il Dente del Becco di Mezzodì, i torrioni di Averau, il grande nodo delle Tofane. Questa prima avanzata si compié su territori abitati da Italiani, com’era la Val d’Adige e la Valsugana; e abitati da Italiani e Slavi insieme, come il Friuli austriaco. Quelli, nei centri urbani e nei grossi paesi, questi nelle campagne. Ma gli Italiani o si erano allontanati, fuggendo in Italia, o erano stati allontanati. Fin dal maggio 1915, la popolazione rurale fra Trento e Rovereto e a sud di Rovereto, raggruppata per parrocchie, aveva (13) Il feldmaresciallo Franz Conrad von Hötzendorf, fortemente ostile all’Italia e acceso sostenitore della guerra contro la Serbia e dell’alleanza con la Germania, fu consigliere militare dell’Arciduca Francesco Ferdinando d’AsburgoEste e poi Capo di Stato Maggiore dell’Esercito austroungarico, fino al 1° marzo del 1917. Su di lui, si veda L. Sondhaus, Conrad contro Cadorna. Vita di Franz Conrad von Hotzendorff, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia, 2013. Nota dei Curatori.

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preso la via di Boemia e Moravia: misura di precauzione, militare e politica insieme. Peggio il 27 e 28 maggio, quando, in seguito ad ordini da Vienna, si procedé a vaste catture di cittadini sospetti, uomini e donne, specie fra gli elementi della borghesia e artigianato. Fu la rovina di centinaia e centinaia di famiglie, già colpite duramente dalla guerra. Vi erano comuni di 3000 o 4000 anime che, a fin di maggio 1915, contavano oltre cento morti sul fronte galiziano. Rimanevano sul posto solo gente di cui il governo austriaco si fidava; o gente timorosa, ancora attaccata al vecchio Imperatore, diffidente verso gli Italiani, che furono malfamati come provocatori di nuova guerra, persuasa più di un prossimo ritorno degli Austriaci che non di una lunga permanenza degli Italiani. Anche in Valsugana, molti arresti e internamenti: solo che, qui, l’arrivo delle truppe nostre arrestò il forzato esodo. Si faceva strada il programma di sbarazzar il Paese della sua infida popolazione: vecchio programma di gruppi pangermanisti d’oltre Alpe, che la guerra avvalorò (14). (14) Nel Trentino circa 75.000 civili furono evacuati e deportati dagli austroungarici, in campi profughi situatti in Boemia, Moravia, in Alta e Bassa Austria e in Stiria. Per i trentini di estrazione sociale più elevata furono invece allestiti degli alloggi nel Tirolo del Nord e nel Salisburghese. Gli ordini di sgombero nella cosiddetta «zona nera» (Rovereto, Ala, Avio, Brentonico, Riva del Garda), dove si combatteva più intensamente, arrivarono con appena quarantott’ore di anticipo. I profughi trentini furono sistemati nelle cosiddette città di legno (a Braunau am Inn e a Mitterndorf an der Fischa), dove. alloggiati in fatiscenti baracche, vissero in precarie condizioni igienico-sanitarie e patirono la fame. In quei lager, soprattutto molti bambini morirono di stenti. Dei 1931 trentini deceduti nel campo di Mitterndorf dal giugno 1915 al dicembre del 1918, 875 (pari al 45,7%) erano di età inferiore ai dieci anni. I sospettati d’irredentismo furono internati, invece, nel lager di Katzenau alla periferia di Linz. Se ne contarono 1754 (anche minorenni e disabili mentali), di cui 353 morirono durante la prigionia. Analoga sorte spettò agli italiani della Venezia Giulia (soprattutto provenienti dall’Isontino e dall’Istria), che furono raccolti soprattutto

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In Italia si disse, a proposito delle provincie irredente: un nuovo Belgio. Ma fuori d’Italia, pochissimi se ne accorsero. Gli occhi del mondo lagrimavano, allora, solo per il Belgio. Anche in Italia, la democrazia interventista seguitò ad additare «il povero Belgio», alla pietà e all’ira degli Italiani in guerra. D’altra parte, poco si sapeva, da noi, di quel che avveniva in Trentino e dell’angoscia delle donne rimaste, sole ma non senza spirito di opposizione di fronte alla legge di guerra austriaca. Poco si sapeva anche della fiera resistenza del vescovo di Trento, Celestino Endrici, avversato dai pangermanisti, diffidato dal Regio Imperial Governo, invano sollecitato a far dimostrazioni di patriottismo austriaco, infine rimosso, recluso nella villa vescovile suburbana di S. Nicolò, trasferito a Vienna e sottoposto a processo, poi confinato nell’Abbazia di Heiligenkreuz nel Baden (15). Verso l’Isonzo, minori molestie aveva subito la popolazione, che, nelle campagne, era per buona parte di Slavi. E questi Slavi non amavano gli Italiani: non gli Italiani dell’Austria, che erano borghesia urbana, non gli Italiani d’Italia. Tutto questo spiega come si avessero, in molti luoghi, freddezza e atti di ostilità contro i soldati che avanzavano. Meraviglia nel Flüchtlingslager di Wagna, nel distretto di Leibnitz, in Stiria, adibito come base di smistamento verso altri campi anche per molti italiani del Trentino. Molto italiani irredenti, furono, infine, arruolati e inviati a combattere sul Fronte orientale. Nota dei Curatori. (15) Promotore del Comitato diocesano per l’Azione cattolica, eretto sul modello dei Comitati dell’Opera dei Congressi, ma molto più aderente alla realtà sociale e nazionale del Trentino, Endrici ebbe tra i suoi più stretti collaboratori, Alcide De Gasperi cui affidò, nel 1906, la direzione del quotidiano cattolico, «Il Trentino». Su di lui, V. Zanolini, Il vescovo di Trento e il governo austriaco durante la guerra mondiale, Milano, Vita e Pensiero, 1919; A. De Gasperi, Benedetto XV e il Vescovo di Trento, in «Il Nuovo Trentino», 31 gennaio 1922; I. Rogger, «Endrici Celestino», in Dizionario Biografico degli Italiani, 42/1993 - http://www.treccani.it/enciclopedia/celestino-endrici_(Dizionario-Biografico)/. Nota dei Curatori.

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dei nostri, cui il grido di «Trento e Trieste» evocava l’immagine di vaste folle deliranti di entusiasmo, di bandiere palpitanti al vento, di mani fraterne tese verso i fratelli… Immagine non falsa: ma solo per quando si fosse giunti ai centri della calda italianità. Ora, invece, accanto alle oneste accoglienze, alla commozione profonda, alle lacrime di gioia dei pochi Italiani rimasti lì, a qualche sorriso di donna, a qualche atto di volenterosi che si offrono di guidare i soldati per sentieri ignoti e affrontano la fucilata (come la ventenne Maria Abriani del borgo Ala) (16); occhi diffidenti e sfuggenti, falsi atti di ossequio, colpi tirati alle spalle, un piccolo esercito di spioni e agenti lasciati in veste da contadini, campanili trasformati in luoghi di segnalazione al nemico (17). Si dové quindi provvedere. Alle ragioni che consigliavano di sgombrare il Paese, per non tenere la popolazione sotto il fuoco, si aggiunsero le ragioni di sicurezza dei nostri combattenti e il pericolo dello spionaggio. Così, migliaia di trentini e Friulani, in gran parte donne, ragazze, vecchi, furono trasportati nell’interno della Penisola. Questa fu una delle prime misure di (16) Il 27 maggio 1915, reparti del Regio Esercito mossero in direzione di Ala, piccola cittadina in provincia di Trento situata tra la Valle della Valbona e Val di Ronchi. La conquista di Ala rimase legata alla figura di Maria Abriani che, sfidando il fuoco avversario, si mise alla testa di due colonne di soldati italiani per guidarli sulla posizione più idonea a stanare il nemico dalle alture circostanti. L’Abriani fu la prima donna italiana insignita della medaglia d’argento al valor militare con questa motivazione:«Durante un combattimento, guidò spontaneamente e con virile ardimento, un comandante di avanguardia in località adatta per combattere il nemico abilmente appostato, rimanendo impavida esposta al fuoco avversario. Ala, 27 maggio 1915». Su questo episodio, G. D’Annunzio, L’Armata d’Italia, Venezia, Zanetti Editore, 1915, p. 94; L. Barzini, Al fronte, maggio-ottobre 1915, Milano, Treves, 1915, pp. 132-133. Nota dei Curatori. (17) Inchiesta della Lega Nazionale Italiana sul fenomeno dello spionaggio entro e fuori il Trentino, e sui sentimenti dei Trentini verso l’Italia ecc., in «Corriere della Sera», 15 1uglio 1915.

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governo nelle provincie redente. Ma presto vi si istituì anche una regolare amministrazione. Presso il Comando supremo, si ebbe un Commissariato per gli affari civili delle terre occupate. Anche ecclesiasticamente fu provveduto. E un atto della Santa Sede sottomise alla giurisdizione dei Vescovi limitrofi al Regno d’Italia i paesi occupati: ciò che diede occasione ai primi conflitti aperti fra il vescovo Endrici e il Governo austriaco che, per bocca del luogotenente del Tirolo, il conte Friedrich von Toggenburg-Sargans, esigeva dall’altro una protesta scritta da presentar alla Santa Sede (18). Negò il vescovo la protesta, come contraria al diritto canonico. E il luogotenente, a chieder allora una lettera pastorale che fosse una dichiarazione di patriottismo austriaco. E l’altro sempre rispose no, pur davanti a larvate minacce dell’alto funzionario. Dialogo altamente drammatico! Accennava a spezzarsi uno dei vecchi sostegni dell’Austria: la fedeltà incondizionata del clero. Bisognò, così, sistemare ancora alcune migliaia di persone: per buona parte nell’Italia centrale e meridionale. Per i Trentini, il trapianto fu agevole dall’esservi già in Italia, con centro a Milano, un nucleo cospicuo di corregionali, residenti ab antiquo fuggiti qui nel primo anno di guerra. Bene o non troppo male, si provvide ai nuovi ospiti e cittadini, si procurò loro alloggio e lavoro (18) Friedrich von Toggenburg-Sargans fu governatore del Tirolo-Vorarlberg dal 1913 al 1917, e infine ministro dell’Interno dell’Impero austro-ungarico fino alla sua dissoluzione nel 1918. Dopo l’ingresso in guerra dell’Italia, sciolse il consiglio comunale di Trento e decretò l’espulsione dal Tirolo di gran parte dei sudditi italofoni. Alla fine del conflitto, richiese, ottenendola, la naturalizzazione italiana e, nel 1921, fu eletto deputato nelle fila del Deutscher Verband: la federazione politica che univa il Tiroler Volkspartei (cattolico-popolare) e Deutschfreiheitliche Partei (nazional-liberale), costituitasi nel 1919 come rappresentanza politica unitaria delle minoranze tedesche e ladine del Sud Tirolo. Nota dei Curatori

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e scuole, si cercò di affiatarli con la vera patria, sebbene ancora poco nota. La quale, per taluni, si chiamò Milano o Firenze (qui ebbero ospitalità quelli di Gradisca); per altri si chiamò col nome di piccoli, poveri, sudici borghi, anche delle regioni più arretrate. I nuovi venuti davano al popolo italiano un’idea assai modesta - e diversa da quel che si predicava - dell’italianità da redimere; ma anche quei paesi erano poco adatti a dar un’idea buona dell’Italia, e piuttosto confermavano la triste fama che dell’Italia correva pel mondo. Contadini in gran parte, questi profughi, gente chiusa, sospettosa, spaurita, dolente, irritata per questo esodo, difficile ad acclimatarsi nei nuovi ambienti assai diversi dai loro; essi ricordavano non tanto la tempesta cui erano sfuggiti quanto i tempi della pace e dell’abbondanza. E molti si lamentarono. Alcuni si dovette anche vigilarli. E per un certo numero, si provvide con l’internamento. Li accolse la Sardegna, riservata, appunto, a quei sudditi nemici, tra i diciotto e i sessanta anni, rimasti in Italia, di cui si aveva ragione di temere. Il censimento del 1911 aveva contato 11.000 sudditi austriaci in Italia: ed erano certo cresciuti, fino all’agosto 1914. Fra l’agosto 1914 e l’inizio della guerra italiana, 6000 ne partirono, in base ad un nuovo censimento che ora fu fatto. Ne rimanevano, compresi gli altri, ora affluiti dalla zona di guerra, circa 7000, fra uomini e donne superiori ai diciotto anni: 2500, italiani; il resto delle varie nazionalità austriache. In base ad un Decreto Legge del 2 maggio, che cominciò a trovar applicazione pochi giorni dopo la dichiarazione di guerra, se ne internarono 500, a gruppi successivi (19). (19) Regio Decreto Legge 2 maggio 1915, n. 634, concernente il soggiorno degli stranieri in Italia, pubblicato nella «Gazzetta Ufficiale», n. 123, del 19 maggio 1915.

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La residenza fu scelta d’accordo fra il commissario governativo che stava a Golfo Aranci e l’internando. I ricchi andarono a Cagliari; gli altri, dove potevano trovar lavoro, a Sassari, Ozieri, Nuoro, Oristano, ecc. I poveri, mantenuti dal Governo. Pochi obblighi: ogni due giorni presentarsi alla Polizia. Vi erano anche dei Polacchi. E si parlò di un trattamento speciale da far a quelli fra essi che erano rimasti in Italia per avversione all’Austria e alla sua guerra: come effettivamente si fece. Il Governo era disposto alla massima liberalità. Poiché l’Italia, scriveva la «Tribuna», il 6 luglio, era in guerra per la ricostituzione delle nazionalità. In ogni modo, i più non ebbero affatto a dolersi dell’isola e della sua ospitale popolazione (20). Vi annodarono amicizie e legami vari, gettarono le basi di futuri commerci, vi tesserono anche qualche intrigo. Nessun, confronto con la vita degli Italiani del Regno o degli Italiani sudditi austriaci internati in lontane provincie dell’Impero, negli squallidi baraccamenti, in lotta col freddo, con la fame, con le malattie epidemiche che afflissero la Monarchia nei quattro anni di guerra! 4. - Così, si cominciò ad addentare la barriera alpina che, se tutelava noi da assalti esterni, ancor più, com’era tracciato il confine politico e quindi preparata la sistemazione difensiva, tutelava gli altri da assalti italiani. Si cominciò, dall’altra parte, ad addentare il Carso, che chiudeva la via di Trieste. Bassa montagna ma (20) Sull’internamento dei sudditi austro-ungarici nell’isola, dove furono raggiunti dai regnicoli definiti dalle autorità italiane come «austriacanti», «disfattisti», «sovversivi», Archivio Centrale dello Stato, Direzione generale di Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Massime b., 43, f.13, Ministero dell’Interno, Direzione generale di Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, cat. A5G, Conflagrazione Europea, 1914-1918.

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spaventosa di ostacoli! Era nuda petraia, tutta caverne naturali e doline e labirinti: una specie di città militare sotterranea! Alla quale si erano aggiunti reticolati e trincee, blindamenti di ferro e cemento. E non v’era un albero per coprirsi alla vista del nemico, non un angolo morto per ripararsi, non una vena d’acqua per dare ristoro. Anche Gorizia fu uno dei primi obiettivi. Si era creduto dai più che non avrebbe costato a noi fatiche eccessive prendere quella città, posta a specchio dell’Isonzo, entro un ameno cerchio di colline. Pare che lo stesso Cadorna prendesse le misure preventive, agli ultimi di maggio, per mantener l’ordine pubblico a Gorizia, appena noi vi fossimo entrati (21). (21) Così, poi, sostenne il generale Giulio Douhet, davanti alla Commissione d’inchiesta su Caporetto: G. Douhet, Diario critico di guerra, Torino, Paravia, 1921-1922, 2 voll. I, pp. 50-52. Douhet fu un teorico della guerra aerea, contemporaneo agli altri sostenitori del bombardamento strategico, William Lendrum Billy Mitchell e Hugh Trenchard. Nel 1921 pubblicò Il dominio dell’aria. Saggio sull’arte della guerra aerea, Roma, Stabilimento poligrafico per l’Amministrazione della guerra, 1921. L’atteggiamento critico di Douhet, riguardo alla conduzione della guerra da parte di Cadorna, gli procurò l’ostilità delle gerarchie militari. Un suo memoriale indirizzato nel giugno 1916 a Leonida Bissolati, assai critico nel contenuto verso lo Stato Maggiore, fu intercettato e ne conseguì l’arresto e un processo militare per diffusione di notizie riservate. Douhet fu condannato a un anno di carcere militare e, espiata la pena nell’ottobre 1917, venne posto in congedo. Richiamato nel dicembre 1917, come capo della neo costituita Direzione generale dell’Aviazione del Ministero delle Armi e Munizioni, lasciò polemicamente il servizio il 4 giugno del 1918, quando entrò in conflitto con Ferdinando Maria Perrone, proprietario dell’Ansaldo. Nel novembre 1920, il Tribunale supremo di Guerra e Marina annullò la condanna del 1916 e Douhet fu reintegrato in servizio con il grado di Maggiore generale con anzianità al 1917. Subito dopo, però, venne collocato nuovamente in aspettativa, perché riconosciuto non idoneo al grado superiore «per carattere»: una formula che riassumeva i giudizi negativi degli alti comandi sul suo difficile temperamento e sulle sue aspre polemiche con i superiori. Su di lui si veda A. Gatti, Tre anni di vita militare italiana, Milano, Mondadori, 1924, ad indicem; G. Rochat, L’esercito italiano da Vittorio Venero a Mussolini, Bari, Laterza, 1967, ad indicem;

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E certo, l’offensiva italiana delle prime settimane fu dominata da questa idea o speranza: che Gorizia, almeno, sarebbe stata un rapido acquisto. Invece si dovettero iniziare complesse e sanguinose operazioni. Ma in queste primissime settimane, le difficoltà maggiori di carattere bellico s’incontrarono sul medio Isonzo, oltre le colline di Cividale. Si dové superare una zona di fuoco, battuta da posizioni dominanti dell’opposta riva, gettar ponti e passerelle, forzare un largo e rapido fiume, profondamente incassato. E i reparti del genio e dei pontieri meritarono una speciale lode del Comando Supremo. Si passò a Plava, a Caporetto, a Sagrado, a Pieris. Giornate sanguinose. Si riseppero nel Paese cose mirabili dei reggimenti di bersaglieri che si trovarono impegnati a Plava, oltre il fiume, in terreno asperrimo, dominato da ogni parte, e dei loro colonnelli che erano alla testa della truppa come in una guerra garibaldina: naturalmente, pagando a carissimo prezzo siffatta audacia che un po’ era necessità del momento, un po’ imperativo morale di questa gagliarda fanteria che non sapeva, non voleva nascondersi. Cadde di ferite quasi mortali, insanabili, il colonnello Eugenio De Rossi, agitando il cappello piumato, incuorando. Cadde il colonnello Pericle Negrotto, che da anni attendeva e sollecitava questa guerra e organizzava corpi di volontari, e durante i mesi della neutralità si era fatto istruttore e animatore del battaglione milanese degli studenti e dei trentini e triestini fuggi-

E. Lehmann, Una Caporetto annunciata. La conduzione della guerra cadorniana nel Diario critico di guerra di Giulio Douhet, in La Guerra di Cadorna, 19151917. Atti del Convegno Trieste - Gorizia, 2- 4 novembre 2016, a cura di P. Neglie e A. Ungari, Roma, Ufficio Storico SME, 2018, cit. pp. 583-604. Nota dei Curatori.

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ti dall’Austria (22). Il morire gli parve quasi naturale e necessario coronamento di tutta una vita; quasi ricco retaggio per i figli, come a essi lasciò scritto. Cadde il primo irredento volontario, che non aveva voluto attender neanche un giorno, Romeo Battistig, quasi cinquantenne, forse di origine slava o di famiglia slavizzata che ora tornava all’Italia con questo suo rampollo. Amico di Oberdan, era allora fuggito a Udine e in Udine aveva, nei primi mesi della guerra, fondato un piccolo giornale di propaganda, l’«Ora o mai», che era il grido di quanti conoscevano le condizioni ormai quasi disperate dell’italianità d’oltre Isonzo e avvertivano l’impossibilità, per l’Italia, di realizzare le sue aspirazioni se non in una grande guerra europea (23). Ma anche su questo settore, dopo i primi urti giù in basso, di là del fiume, ci si dové cimentare con alti e dirupati monti. Si ebbe qui, anzi, nei primi giorni, una delle più belle imprese di (22) Tenente colonnello dell’esercito, Michele Pericle Negrotto svolse un ruolo di rilievo in campo politico contribuendo alla diffusione delle idee nazionalistiche e irredentistiche attraverso scritti e conferenze. Fu il fondatore del «Battaglione Negrotto», un’organizzazione nata su base volontaria che confluì nell’esercito regolare allo scoppio del conflitto. Nota dei Curatori. (23) Nato da famiglia goriziana di consolidate tradizioni patriottiche, legata alla Massoneria, Romeo Battistig, trasferitosi a Udine, non appena compiuto il diciottesimo anno d’età, si arruolò volontario nei Bersaglieri per partecipare a un’importante operazione coloniale in Eritrea, sviluppatasi tra il 1887 e il 1888. Sul campo, dimostrò coraggio e sprezzo del pericolo, e riportò alla mano sinistra la mutilazione di tre dita, in seguito all’esplosione di una polveriera. Rientrato in Italia, aderì al movimento irredentista, fondendo l’idealità nazionale con il pensiero repubblicano e anticlericale. Dopo il 24 maggio 1915, appena avuta notizia dell’apertura delle ostilità, a quarantanove anni, partì volontario nel 20º Reggimento Cavalleggeri di Roma. Il 15 giugno 1915, si spinse in ricognizione sul ponte che valicava l’Isonzo a Sagrado, in provincia di Gorizia, dove cadde sotto il fuoco nemico. Su di lui, M. Pascoli - C. Porcella, Romeo Battistig. Un irredento friulano, Udine, Ragogna, 2010. Nota dei Curatori.

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tutta la guerra: metodica, sapiente preparazione e temerario coraggio, mirabilmente fusi. Ed anche il nemico ammirò. Pochi plotoni del battaglione Exilles del 3° Reggimento Alpini, quasi tutti guide di Val d’Aosta e Val di Dora, arrampicatisi mani e piedi su per scoscesi sentieri e pareti a picco del Monte Nero, mal vigilate perché credute insuperabili, il 16 giugno colsero di sorpresa i reparti nemici che guardavano la cima, li sbaragliarono, respinsero ogni loro ritorno offensivo, ebbero perdite gravi ma si piantarono lì (24). Sgorgò subito, dall’anima del poeta-soldato, la canzone del Monte Nero: Spunta l’alba del 16 giugno Comincia il fuoco dell’artiglieria Il 3° alpini è sulla via Monte Nero per conquistar Ma ahimè, Montenero, Montenero, «traditore della patria mia», quanti caduti! Per venirti a conquistare Abbiamo perduti tanti compagni Tutti giovani sui vent’ anni La lor vita non torna più… Erano, gli alpini – fanti e artiglieri – una magnifica truppa, salde spalle, garetti d’acciaio, tolleranza a ogni disagio. Li aveva creati nel 1872, il generale Giuseppe Perrucchetti; 15 compagnie, (24) L. Viazzi - M. Balbi, Spunta l’alba del 16 giugno... La Grande Guerra su Monte Nero, Monte Rosso, Vrata, Ursic, Sleme e Mrzli, Milano, Mursia, 2000. Nota dei Curatori.

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allora; 8 reggimenti nel 1915 (25). Erano reclutati su base territoriale e fornivano buoni argomenti ai sostenitori della «Nazione armata». Realizzavano, difatti, quel tipo di organizzazione militare che meglio rispondeva all’indole degli Italiani, con disciplina ferma ma amorevole, con intimo e personale rapporto fra ufficiali e soldati, con sciolti movimenti di gruppi, con appello continuo all’iniziativa dei singoli. Si conciliavano perfettamente, in costoro, ordine e libertà, spirito individuale e spirito collettivo, caratteristiche regionali dei vari reggimenti e unità della massa. Potevano esserci differenze di temperamento e di attitudini fra alpini piemontesi o friulani, lombardi o abruzzesi; ma, pure, essi formavano un blocco fuso, cui la montagna aveva dato stampo comune, quasi un popolo entro un popolo, un esercito entro un esercito. Di qui, il mirabile spirito di corpo che avvicinava il generale e l’ultimo milite e riscaldava i loro rapporti personali. Di qui, proveniva anche, coscienza di sé e orgoglio di superiorità, attaccamento alla propria divisa, al cappello dalla lunga penna, al pesantissimo zaino, ai monumentali scarponi ferrati. (25) Giuseppe Domenico Perrucchetti, arruolatosi volontario, combatté nella seconda guerra d’indipendenza. Il 6 marzo 1861 divenne sottotenente del 24° Reggimento di Fanteria «Como», di stanza Cesena. Il 24 giugno 1866, guadagnò la medaglia d’argento al Valor Militare nella battaglia di Custoza. Nel marzo del 1872, scrisse un articolo sulla «Rivista militare italiana» intitolato Considerazioni su la difesa di alcuni valichi alpini e proposta di un ordinamento militare territoriale della zona alpina, che fu il primo passo per la formazione del corpo degli Alpini. Lo studio del Perrucchetti fu, infatti, apprezzato e subito condiviso dal generale Cesare Ricotti Magnani, Ministro della Guerra nel governo di Quintino Sella, che comprese l’importanza della difesa della frontiera alpina e la necessità di disporre, nell’ambito della fanteria, di una nuova specialità, particolarmente addestrata per la guerra in montagna. Su di lui, P. G. Franzosi, Le origini delle truppe alpine, in «Rivista militare», 1985, 2, pp. 99-110; Id., L’ideatore delle truppe alpine, ibidem, 1985, 3, pp. 113-121 Nota dei Curatori.

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Avevano combattuto con molta bravura, fatta d’impeto e di fermezza, su le ambe infocate di Abissinia (Amba Rajo, 1896!) (26), e nella steppa libica (ridotta Lombardia) (27). Ora, non meno fecero fra picchi inaccessibili e pareti di ghiaccio. Era in essi, nella guerra, quella medesima varietà di attitudini e adattabilità a ogni ambiente che consentivano al contadino e montanaro italiano, in tempo di pace, ogni più diverso lavoro sotto i più diversi climi. Calda simpatia aleggiava su questi soldati delle Alpi, personificazione di quella guerra che, sola, gli Italiani concepivano e fortemente accettavano: la guerra a difesa della frontiera. Tanto è vero, che essi contavano il maggior numero di volontari. E vi erano, nei battaglioni, nuclei giunti belli inquadrati dal bresciano, dal bergamasco, dalla Valtellina, che si trovarono alle prime fazioni ancora in abiti mezzo borghesi. Ma ora, fama quasi di leggenda cominciò a correre su gli alpini. Per opera loro l’aspra fascia montagnosa che cingeva a nord-est la Penisola fu affrontata e, in molte parti, vinta essa per (26) Volpe si riferisce alla sfortunata battaglia di Adua del 1° marzo 1896, dove sull’Amba Rajo, il 1° Battaglione Alpini d’Africa, comandato dal tenente colonnello Davide Menini, s’immolò sul posto assieme ad alcuni reparti di artiglieria. Dei 954 alpini del Battaglione ne sopravvissero solo 92. Nota dei Curatori. (27) Al mattino del 3 marzo 1912, forti nuclei turco-arabi attaccarono un battaglione del 35° Reggimento fanteria inviato con compiti di sorveglianza nei dintorni della ridotta «Lombardia» e dislocato nei pressi della testa di ponte del Bu Msafer, dove, dopo un breve combattimento, il battaglione riuscì a scacciare gli assalitori. Nella stessa mattinata, le truppe turco-arabe con forze considerevoli, stimate in circa 10.000 uomini, ripresero l’offensiva tentando di accerchiare il battaglione. Il tentativo fu vanificato dal pronto accorrere del battaglione alpino «Edolo», rinforzato con elementi dei battaglioni alpini «Ivrea» e «Verona». Nel pomeriggio, grazie all’arrivo del 22° Reggimento fanteria e del battaglione alpini «Saluzzo», le forze italiane misero in fuga gli avversari, cacciandoli dalle loro posizioni. Nota dei Curatori.

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prima. Il lavoro già iniziato nei mesi precedenti si fece subito più intenso. Strade camionabili tracciate sugli abissi, condutture d’acqua spinta dal piano verso i monti, piazzuole per artiglieria, baraccamenti sui ghiacciai, teleferiche arditissime. La parola «impossibile», quasi bandita! Questa guerra italiana di montagna diverrà una delle cose mirabili, per riconoscimento universale, di tutta la guerra. Nessun altro fronte di Europa presentava nulla di simile e impose una così portentosa massa di sforzo fisico e di ardimento. E nella guerra italiana, le operazioni di montagna divennero l’elemento caratteristico. Anche perché, dopo poche settimane, brigate di fanti, piccoli fanti pugliesi e siciliani bruciati dal sole mediterraneo, raggiunsero le alte valli, scesero canaloni impervi, issarono in cordata i medi e grossi calibri, dove mai, a memoria d’uomo, la guerra era salita, accamparono fra le nevi eterne, si mescolarono con gli alpini. Ma senza troppa distinzione di armi, tutti i soldati erano pieni di slancio e di spirito aggressivo: sia pure in parte, fatto d’inconsapevolezza. I bollettini di Vienna e molti giornali di oltre Alpe avevano, specialmente all’inizio, affettato grande disprezzo per questo nuovo nemico. Non solo si aveva, lassù, piccola idea dei Comandi italiani (ed essa parve confermata e rafforzata dalle esitanze nostre dei primi giorni, che vollero dire occasioni perdute...), ma anche dei combattenti: «esercito di mandolinisti»! Si sa: gli Italiani amano la musica e il canto. E il fante portava qualche volta, affardellato con lo zaino, o riusciva comunque a procurarsi, chitarra o mandolino o altro più umile strumento. In realtà, si poté anche in documenti riservati del nemico caduti in nostre mani, leggere lusinghieri giudizi sul nostro soldato, e vederne l’elogio anche in giornali austriaci: soldati inesperti e impacciati, si diceva. Non sanno coprirsi. Gli ufficiali che marciano alla testa, – 193 –


non hanno ancora capito che il loro compito è diverso. Ma riescono con grande stento a frenare i soldati… (28). Questo quadretto giornalistico, ammirazione e sorriso misti insieme, rispondeva a verità. Guerreggiare era, per i nostri, muoversi. E persuadersi del contrario riusciva a essi più difficile che a ogni altro. Avevano bisogno di riscaldarsi, accendersi d’ira, mutare la battaglia in un duello personale di uomo contro uomo. Fermarsi, indugiare, interrarsi davano loro l’impressione che le cose andassero male. «Così è fatto l’italiano: andare avanti», scriveva alla famiglia un bersagliere. E aggiungeva: «Perché non si marcia? Noi ce lo chiediamo ad ogni sosta. Si sa, la guerra è micidiale, si può morire. Ebbene, chi campa e chi muore! Ma sbrighiamoci, perché vogliamo vincere, perché vogliamo ritornare vittoriosi a casa. Ci sono dei forti lassù? Prendiamoli d’assalto. Ma moriremo tutti! E dietro non c’è la riserva? Avanti, per Dio, la guerra si fa così!» (29) Paurosa psicologia per una guerra come quella che allora si iniziava! Psicologia da fanciullo o da garibaldino in ritardo. Quanta fatica, per adeguarsi con l’animo alla realtà della nuova guerra! Ma era psicologia di un esercito fatto di giovani soldati, non ancora appesantito e disanimato dal peso delle classi anziane, tutte pensiero per la famiglia e i campi, e i debiti. In questo, c’era superiorità grande di fronte al nemico, già logoro da un anno di guerra che aveva falciato il fiore, e impegnato anche su altri fronti. (28) Sulle vette dell’Alpe. Vita di campo e di trincea, in «Corriere della Sera», 13 luglio 1915. (29) Lettere di soldati. La psicologia del soldato, in «Corriere della Sera», 2 luglio 1915. Il testo dell’articolo recitava esattamente: «Perché non si va avanti? Ci chiediamo a ogni sosta, ad ogni indugio. Si sa, la guerra è micidiale, si può morire. Ebbene, chi campa, campa, e chi muore, muore. Ma sbrighiamoci, perché vogliamo vincere, perché vogliamo tornare vittoriosi a casa, dove ci si aspetta e si soffre» Nota dei Curatori.

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La tregua interna 1 - Intanto, tutto il Paese si veniva assestando per la guerra. Seguitavano, naturalmente con ritmo decrescente, le pubbliche manifestazioni che adesso erano solo a favore della guerra o, comunque, dei combattenti. La gioventù, anche quella che si trovava ancora nelle sue case, era tutta mobilitata. E dava il tono alla vita di quei mesi. Essa quasi si presentava come la vera Italia. Il mito di un’Italia giovane, spiritualmente sana, più realistica e più idealista, che doveva cacciare di seggio una vecchia Italia, scettica e politicante, circolò largamente e fornì il suo cibo spirituale alla guerra, come lo fornirà al dopoguerra. C’era qualcosa di sostanziale e di profondo, che maturava ed affiorava, e c’era la chiacchiera. C’era l’entusiasmo dei veri giovani, che portavano come una corrente fresca nei solchi un po’ aridi della vita italiana, e, disse Benedetto Croce, c’era l’ostentazione e la fatuità del falsi giovani che gridavano dai tetti la loro gioventù e il loro disprezzo dei «vecchi» (30). E chi bene sperava da quelli; chi piuttosto prendeva scandalo da questi. Comunque, tutto traboccò, passione retorica, poesia e seicentismo letterario, buona volontà di fare ed esibizionismo di vanesi e di opportunisti. Le piazze, i manifesti murali, la letteratura d’occasione, i giornali ne furono saturi. Era, in maggior proporzione, quel che tutti ricordavano della guerra libica. E a Roma, anche ora, più che altrove. Tanto che pubblicisti seri proposero non solo che si facessero tacere gli strilloni dalle mirabolanti notizie e si vietassero le (30) B. Croce, I Giovani, in «Giornale d’Italia», Giovedì 23 settembre 1915, poi in Id., Pagine sparse. I. Pagine di letteratura e di cultura. Raccolte da G. Castellano, Napoli, Ricciardi, 1919, pp. 360-362. Nota dei Curatori.

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troppe edizioni straordinarie e si sopprimessero i titoli su cinque o sei colonne, ma anche che si disciplinasse lo stile giornalistico. Naturalmente, si quietavano le polemiche, e perché la censura le frenava e perché esse non avevano, per il momento, più scopo, essendo superata ed esaurita la questione della neutralità o dell’intervento. Solo altre questioni avrebbero potuto fornire in seguito altra materia polemica. Gli atti di violenza contro persone e cose, a Milano e in altre città, qualche falò di giornali che nelle prime ore, dopo la dichiarazione di guerra, avevano dato notizia di fantastici successi austriaci e di non meno fantastiche vittorie navali nostre in Adriatico (come il «Corriere Mercantile» a Genova e il «Corriere d’Italia» a Roma); altri episodi di poco rilievo, qua e là, erano state le ultime manifestazioni del generale turbamento. Gli antichi fautori di neutralità o, se mai, di una diversa guerra, o diversamente impostata, convertiti o no, mutarono in gran fretta tono e stile. Non tutti, naturalmente. Il «Popolo Romano» seguitò l’atteggiamento austrofilo. Ed ecco la censura entrar subito in azione e gli altri giornali attaccare questa specie di nemico interno; tanto che, in ottobre, vi sarà un’azione giudiziaria del direttore suo, Costanzo Chauvet contro l’«Idea Nazionale», per ingiurie e calunnie, e l’«Idea Nazionale» citerà, a testimoni Salandra, il Capo dell’Ufficio stampa degli Interni, il Capo dell’Ufficio Censura, per provar le sue accuse (31). Anche il socialismo ufficiale e il suo giornale (31) Costanzo Chauvet, protagonista del sottobosco giornalistico-affaristico che accompagnò le fortune della sinistra storica a Roma, nel primo trentennio post-unitario, fu proprietario e direttore, dal 1875 fino a quasi la sua scomparsa, avvenuta nel febbraio 1918, del quotidiano «Il Popolo romano» che dopo l’agosto 1914 sostenne il partito neutralista, non lesinando aperte simpatie per le Potenze centrali. Su di lui, O. Majolo Molinari, La stampa periodica romana dell’Ottocento, Roma 1963, 2 voll., II, ad indicem; V. Castronovo, La stampa italiana dall’Unità al fascismo, Bari, Laterza, 1973, ad indicem. Nota dei Curatori.

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seguitarono a sentir come prima: e solo dovettero smorzare le tinte. Ma tolti questi, i più o si trassero in disparte, accorati e dispettosi, come davanti a una follia di cui non volevano assumere corresponsabilità, oppure si piegarono alla nuova situazione, paghi di aver compiuto ciò che a loro era parso un dovere, se non altro per richiamar l’interventismo a un più chiaro sentimento della realtà italiana. Così quasi tutti gli scrittori di «Italia Nostra», che avevano subordinato la neutralità alla risoluzione con l’Austria delle questioni di frontiera e di nazionalità e ora, vista l’Austria irreducibile, trovavano naturale la guerra (32). Così, in questi primi tempi, anche parecchi socialisti rimasti nel partito: il milanese sindaco Emilio Caldara, il sindaco di Reggio Emilia, che era la Mecca del socialismo italiano, altri dello stesso riottoso ambiente bolognese (33). Parecchi (32) L. Salvatorelli, Il fallimento delle trattative, in «Italia Nostra», Anno II, N. 21, 23 maggio 1915; Id., La denunzia della Triplice, ibidem, Anno II, N. 22, 30 maggio 1915; Id., Il discorso di Bethmann-Hollweg, ibidem, Anno II, N. 23, Domenica, 6 giugno 1915; Id., Noi, ibidem, Anno II, N. 24, Domenica, 13 giugno 1915. Nota dei Curatori. (33) Di famiglia modesta, originaria della provincia di Cremona, dopo gli studi in legge, Emilio Caldara si trasferì nel 1891 a Milano dove intraprese l’attività professionale, come avvocato. Si dedicò ben presto anche alla politica nel movimento socialista, collaborando alla rivista «Critica Sociale», vicina alle posizioni di Bissolati e Turati. Nel 1901 fu nominato Segretario generale della neonata Associazione Nazionale Comuni Italiani, mantenendo quella carica fino al 1916. Caldara si presentò quindi alle elezioni comunali milanesi del 1914. La lista socialista ottenne il primato dei voti degli elettori aggiudicandosi l’amplissimo premio di maggioranza previsto dalla legislazione dell’epoca, ossia 64 seggi su 80, e Caldara divenne il primo sindaco socialista del capoluogo lombardo. Allo scoppio della guerra potenziò la rete di assistenza pubblica, coinvolgendo tutte le forze politiche. Pur rimando neutralista, intervenne per chiedere un supplemento di indagine prima di espellere dal PSI l’allora consigliere comunale Benito Mussolini, membro della sua maggioranza, dopo che questi era divenuto interventista. Esponente della corrente gradualista del PSI, quando il partito vide l’affermazione di una maggioranza massimalista, che nel

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dei socialisti più in vista, anzi, si affrettarono a smentire di aver mai fatto propaganda neutralista. Più ancora i cattolici. Nulla in essi, naturalmente, dei cattolici francesi e belgi che tendevano a veder nella guerra quasi una guerra di religione: cattolicesimo contro protestantesimo (laddove, in Germania, i protestanti del nord vedevano guerra contro il cattolicesimo latino e i cattolici bavaresi guerra contro la massoneria). I nostri, viceversa, inclinavano a trovar solo o prevalenti elementi materialistici, nell’orrendo caos che agitava l’Europa. Ma la grande maggioranza loro non diede motivo a biasimi e unì la sua voce a quella degli altri Italiani che avevano invocato o accettato i nuovi eventi. Ormai, il calore della vita nazionale aveva disciolto gran parte di questi elementi già eterogenei e resistenti. Così, il conte Giuseppe Dalla Torre, presidente dell’Unione Popolare Italiana, volle indossare la divisa di semplice soldato (34). Il Presidente gene1917 avanzò l’idea delle dimissioni di tutti i sindaci socialisti, Caldara fu bersagliato da critiche molto forti, provenienti dal suo stesso partito. La difficile situazione finanziaria del comune di Milano, aggravatasi al termine del conflitto, contribuì alla sua decisione di non ricandidarsi a sindaco nel 1920. Su di lui, A. Malatesta, I socialisti italiani durante la guerra, Milano, Mondadori, 1926, pp. 37, 47, 162, 164, 180, 195, 198 ss.; R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario, Torino, Einaudi, 1965, pp. 198, 268, 281, 292, 575, 654. Nota dei Curatori. (34) Divenuto presidente diocesano dell’Azione cattolica padovana, Giuseppe Dalla Torre del Tempio di Sanguinetto fu segnalato a Papa Pio X che, nell’ottobre 1912, lo pose a capo dell’Unione popolare: l’organismo creato per coordinare l’attività nazionale dei laici cattolici italiani dopo lo scioglimento dell’Opera dei Congressi. Nel 1915, fu nominato da Benedetto XV presidente della giunta direttiva dell’Azione cattolica, organo di vertice istituito dal pontefice per coordinare l’attività delle varie organizzazioni laiche cattoliche. All’entrata in guerra dell’Italia, Dalla Torre si arruolò volontario. Promosso ufficiale di artiglieria, in zona di operazioni, si ammalò gravemente e fu congedato. Nell’agosto 1917, quando Sonnino dichiarò alla Camera che la Nota di Benedetto XV alle Potenze belligeranti appariva «di ispirazione germanica» e mirava «a scusare o attenuare la criminosità dell’invasione, perpetrata all’inizio della guerra», Dalla

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rale dell’Associazione della Gioventù cattolica raccomandò ai soci, soldati, con una sua circolare, di stringersi attorno ai loro superiori con sentimento di affettuosa devozione e disciplinata obbedienza. Non tutto il clero, è ovvio, si rassegnò e si rasserenò: non tutto l’alto clero, non tutto il basso clero, che, vicino alle masse popolari e contadinesche, un po’ partecipava alla loro psicologia pacifista, un po’ temeva mettersi in mala luce come «interventista». E si ebbero atti di accusa generici e specifici, sopra i giornali. Si ebbero anche molti processi contro preti e frati. Si parlava non solo di propaganda contro la guerra, ma anche di austriacantismo, di spionaggio, di alto tradimento. I quotidiani più accesamente interventisti molto calcarono la voce su tali accuse. Tutte fandonie non erano. Nella bassa pianura veneta, ad esempio, pare che non corretto sia stato l’atteggiamento di una parte del clero. C’era lì, fra i vecchi, anche qualche residua tradizione di austrofilia. E il vescovo di Padova, monsignor Luigi Pellizzo, ebbe fra il maggio e il giugno a richiamar più volte i sacerdoti austriacanti della sua diocesi, che «facendo servire ai loro sentimenti politici il ministero santo della parola», provocavano dissidi e si esponevano ai rigori delle sanzioni legali (35). Ma per lo più, si trattò di Torre replicò al ministro degli Esteri con un telegramma nel quale sostenne che quelle affermazioni suonavano offesa nei confronti delle ragioni di «giustizia, carità, civile sovrana indipendenza, serena obiettività» espresse dal Pontefice. Su di lui, F. Malgeri, «Dalla Torre del Tempio di Sanguinetto, Giuseppe», in Dizionario Biografico degli Italiani, 32/1986 - http://www.treccani.it/enciclopedia/ dalla-torre-del-tempio-di-sanguineto-giuseppe_%28Dizionario-Biografico%29/ Nota dei Curatori. (35) Il 13 luglio 1906, Pellizzo fu nominato vescovo di Padova. Insediatosi nella sede vescovile il 2 maggio 1907, per un lungo ritardo nella concessione dell’exequatur, iniziò immediatamente una profonda riorganizzazione della diocesi, favorendo la nascita di testate giornalistiche d’ispirazione cattolica. Tra il 15 giugno 1915 e il 30 novembre 1918 intrattenne con Benedetto XV un lungo carteggio

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volgari dicerie, a fondo anticlericale. Ed ebbero buona ragione di protestare gli organi ecclesiastici di molte diocesi (Pontassieve, Macerata, Biella, Livorno ecc.). L’arcivescovo di Milano rivendicò il patriottismo del suo clero, di cui facevano a lui sicura testimonianza, oltre le tradizioni della sua Chiesa, anche lettere che gli venivano da ogni, parte e manifestazioni orali. Insorsero i maggiori giornali cattolici, «per l’onore del clero, ma più ancora per l’onore dell’Italia». Così, solo qualche prete fu internato in Sardegna o altrove. Ma il più dei processi finì con sentenze di assoluzione, per inesistenza di reato. Si ebbero, invece, nei primi giorni e poi anche in seguito, elevati discorsi e Lettere pastorali di vescovi ai fedeli. E taluni si limitarono a dire che la religione imponeva obbedienza all’autorità, qualunque essa fosse, e che tutti dovevano tollerare anche questa prova voluta da Dio. Ma altri parlarono da cittadini italiani. Augurarono fraterna concordia per la guerra, ricordarono ai fedeli i loro doveri politici, dichiararono la loro piena adesione al Re e a chi era investito dell’autorità politica. Affermarono il buon diritto della Nazione, raccomandarono di devolvere a beneficio dei soldati quel denaro che si suole spendere in rumorose ed esteriori festività religiose, inneggiarono alla patria che combatteva il secolare nemico, sperarono vicina la rivendicazione delle terre non ancora riunite a essa, benedissero i combattenti, invocarono il favore celeste su la bandiera. Il pensiero di taluni tornava all’inizio di un’altra guerra, la prima che l’Italia combatté, nel 1848, benedetta dal Pontefice (36). con cui s’informava il Pontefice degli orrori della guerra e del coinvolgimento in essa della popolazione civile. Su di lui, L. B. Illanovich, Luigi Pellizzo vescovo di Padova (1907-1923), Padova, Il Poligrafo, 2014. Nota dei Curatori. (36) Così, in vario modo, i vescovi di Rovigo, Melfi, Brindisi, Belluno, Rimini, Vercelli, Reggio Calabria, Catania, ecc., l’arcivescovo pisano Maffi, quello

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Dato ciò, si capisce come non incontrassero opposizioni i decreti che mobilitavano anche il giovane clero secolare e regolare, destinato tanto ai servizi di sanità quanto all’esercito combattente. Anzi, essi incontrarono pronta obbedienza, serenità, anche parole di caldo consenso. Tornò dal Belgio, ove da qualche anno viveva in quasi-esilio per reato di modernismo, padre Giovanni Semeria (37), dotto ed eloquente barnabita ligure, per mettersi al servizio del Paese durante la guerra: e certo tornò col consenso dei superiori suoi. Assai notato fu il ritorno dall’Inghilterra e l’udienza in Vaticano anche di padre Giovani Genocchi dei missionari del Sacro Cuore, orientalista di molto valore, spirito superiore per equilibrio e pietà, pur esso non molto in grazia del Pontefice precedente (38). di Ravenna, quello di Milano ecc. Si veda il volume L’episcopato italiano e la guerra, a cura di un Comitato di cittadini padovani, Padova, Tipografia del Seminario, 1916. (37) Predicatore e conferenziere celebre, autore di numerosi studi di storia sul cristianesimo delle origini, Semeria fu coinvolto, per il suo ruolo di divulgatore della moderna critica storica, nelle polemiche moderniste. Entrata in guerra l’Italia, divenne cappellano del Comando supremo, a Udine, alternando le sue funzioni religiose alla visita della truppa nelle retrovie e nelle trincee. Dopo la fine del conflitto, si dedicò all’assistenza degli orfani di guerra, creando l’Opera Nazionale per il Mezzogiorno d’Italia. Su di lui, G. De Sando Giovanni Semeria, cappellano militare, padre degli orfani di guerra. Ricordi ed aneddoti, Milano, Liber, 1934. Nota dei Curatori. (38) Sacerdote dei missionari del Sacro Cuore, Genocchi, per incarico di Leone XIII, soggiornò e svolse diverse missioni in Siria e a Costantinopoli; fu poi missionario in Nuova Guinea e, dopo una parentesi di insegnamento in Francia, fu nominato professore di esegesi biblica nel Seminario romano. Lasciata la cattedra perché accusato di modernismo, nel 1911 fu incaricato di una missione nell’America meridionale per riferire alla Santa Sede sulle inumane condizioni di vita degli indigeni del Putumayo, e nel 1920-1923, fu nominato visitatore apostolico per l’Ucraina, dove tuttavia non riuscì ad arrivare per l’opposizione delle autorità polacche. Su di lui, P. Scoppola, Crisi modernista e rinnovamento

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Da questi e da altri segni, si trassero conclusioni ottimiste anche su l’atteggiamento della Santa Sede in rapporto all’Italia e alla guerra. Non che fosse tutto idillio, da questa parte. Vi furono lamentele per la partenza dei due ambasciatori, austriaco e tedesco, presso il Vaticano; come quelle apparsa su l’«Osservatore Romano» il 28 maggio, il quale deplorò la menomata internazionalità della Santa Sede, rimasta senza diretti rapporti con i rappresentanti di taluni Stati belligeranti. Non, però, accusava noi di aver violato la legge delle guarentigie. E la smentita del Governo italiano, del 31 maggio, e la sua dichiarazione sulla piena libertà che ai diplomatici esteri presso la Santa Sede era stata lasciata di rimanere al loro posto, erano rivolte piuttosto ai giornali tedeschi che avevano gridato alla violazione di questa libertà. Infatti, l’«Osservatore Romano» considerò la partenza dei due ambasciatori come conseguenza, «per necessità e per forza stessa delle cose», della situazione politica pattuita tra Italia e Santa Sede. Il 1° giugno, Benedetto XV ricevé e benedì un grosso nucleo di religiosi chiamati alle armi. Il quattro dello stesso mese, si aveva, da parte del Papa, la nomina di monsignor Angelo Bartolomasi, già vescovo ausiliare di Torino e vescovo titolare di Derbe, a Vescovo castrense, destinato a risiedere presse il Comando Supremo per la cura religiosa dell’esercito; e da parte del Governo ci fu la equiparazione di questo ufficio a quello di Maggior generale (39). Ciò fu considerato, e in realtà fu una vera e propria cattolico in Italia, Bologna, il Mulino 1961, pp. 103-123; L. Bedeschi, La Curia romana durante la crisi modernista, Parma, Guanda 1968, pp. 268-280. Nota dei Curatori. (39) Con la circolare del 12 marzo 1915, Cadorna reintrodusse, inoltre, la figura del cappellano e furono arruolati diecimila «preti-soldati» di cui 2070 destinati ai corpi combattenti. Il 1° giugno 1915 la Sacra Congregazione Concistoriale nominò il primo Vescovo Castrense, nella persona di Angelo Bartolomasi,

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collaborazione fra i due poteri. Poco dopo, in una lettera al cardinal Vincenzo Vannutelli, Benedetto XV si mostrava sollecito delle fortune della «diletta Italia». Si poteva chiedere e si chiese: diletti gli Italiani uti singuli, come diletti i cittadini di ogni Paese; o anche l’Italia come unità politica, l’ordine italiano, lo Stato italiano? Si poteva anche chiedere: utile, a questa Italia, metterle dinanzi la prospettiva agghiacciante di «lagrime» e «disastri», come si faceva in quella lettera? Ma al Papa non bisognava chieder troppo, da nessuno. Intanto, non era piccola cosa se le smentite all’accusa, sempre rifiorente nella stampa estera, anche alleata, di contegno non corretto del Governo italiano, venissero, oltre che dal Governo stesso, anche dalla Santa Sede. Così, a fine giugno, fece l’«Osservatore Romano». E il 19 luglio, il Papa, in una lettera al cardinale Léon Adolphe Amette, Arcivescovo di Parigi, si espresse contro quel che aveva stampato un redattore della cattolica «Liberté», adulterando una conversazione avuta con lui in Vaticano. Circolavano voci che attribuivano alla Santa Sede l’intenzione di portar ai prossimi congressi per la pace la questione romana. Ma ecco, ora, il cardinal Pietro Gasparri, Segretario di Stato, suggerire che la Santa Sede avrebbe atteso non dagli stragià vescovo ausiliare di Torino e vescovo titolare di Derbe. Il 27 giugno 1915 il governo italiano e la Santa Sede si accordarono sull’istituzione della carica di Vescovo di Campo e della Curia Castrense. Durante la belligeranza, l’azione dei cappellani si mosse verso i feriti, al conforto dei moribondi, all’assistenza alle truppe, alle popolazioni civili e ai prigionieri, Circa cento cappellani seguirono i propri reparti nei campi di prigionia, altrettanti morirono sul campo, alcune diecine ricevettero decorazioni e ricompense al valor militare. Sul punto, R. Morozzo Della Rocca, La fede e la guerra. Cappellani militari e preti-soldati (19151919), Roma, Studium, 1980; V. Pignoloni, Cappellani militari e preti-soldato in prima linea nella Grande Guerra. Diari, relazioni, elenchi (1915-1919), Milano, Edizioni San Paolo, 2016. Nota dei Curatori.

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nieri ma dal senso di giustizia degli italiani la soluzione della questione romana. Tutto questo poteva ancora esser poco, per quelli che dalla suprema autorità religiosa, sempre tenuta a vile, guardata a vista perché non uscisse fuori dal suo recinto spirituale, ora aspettavano «fulmini e saette» come giustiziera in contese politiche. Ma appariva più che sufficiente agli interventisti di parte liberale. Amavano essi ricollegarsi alla tradizione cavouriana. E si rallegravano di questo riserbo della Santa Sede. Guai, dicevano, se ci fosse un altro «Gran Dio benedite l’Italia!», dall’alto della loggia di S. Pietro, al cospetto delle bandiere e del popolo in armi, come fu nel 1848! In ogni modo, questo appariva certo: che l’azione di Matthias Erzberger, volta a influire sui circoli vaticani e, per mezzo di essi, sui cattolici tutti della Penisola, era fallita, come fallirono poi tutti gli altri tentativi, fatti dal maggio 1915 in poi, per seminare zizzania tra l’Italia del Quirinale e l’Italia del Vaticano (40). (40) Matthias Erzberger, leader riconosciuto, della sinistra del partito cattolico del Reich guglielmino (Deutsche Zentrumspartei), mise in atto numerose iniziative politiche nel corso del conflitto. Nella primavera del 1915, si recò a Roma, per coadiuvare l’azione già promossa dall’ex Cancelliere tedesco, Bernhard von Bülow, finalizzata ad evitare l’intervento militare italiano, sollecitando Vienna a fare concessioni territoriali. In seguito, Erzberger si oppose alla cosiddetta «guerra sottomarina indiscriminata», scatenata dalla Marina tedesca e svolse un’azione attiva nella decisione del Reichstag del 19 luglio 1917, con la quale si proponeva una pace negoziata, senza guadagni territoriali, rendendo pubblica, a sostegno di questa tesi, il memorandum del Ministro degli Esteri austriaco Ottokar Czernin sulle insuperabili difficoltà della Duplice Monarchia a continuare il conflitto. Sulla missione Erzberger, A. Salandra, La neutralità italiana, 1914. Ricordi e pensieri, Milano, Mondadori, 1928; pp. 463-472; Id., L’intervento, 1915. Ricordi e pensieri, Milano, Mondadori, 1930, pp. 19-20, 5260, 229-233, 242-247, 257-262; 268-288; S. Sonnino, Diario, 1914-1916, a cura di P. Pastorelli, Roma-Bari, Laterza, 1972, pp. 48-50, 88-90 e passim. Sul punto, S. Trinchese, I tentativi di pace della Germania e della Santa Sede nella

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Pare vi fossero anche manovre tedesche per allontanar il Papa da Roma. Si parlò di offerte del Re di Spagna e dei monaci dell’Abbazia benedettina di Einsiedeln, presso Zurigo, che sollecitavano l’onore di ospitar il Santo Padre. Ma se pure vi furono, il risultato fu nullo, sempre. Il Pontificato romano un’alta, sua ambizione, tuttavia, la aveva. E aveva, con Benedetto XV, un suo programma, in rapporto alla situazione presente dell’Europa: accelerare la fine della guerra, spingere i Governi alla pace, elevarsi al cospetto dei popoli come grande e massima forza morale del mondo. Siamo al 28 luglio. Un anno giusto di guerra. Ed ecco Benedetto XV, il «sacerdote pacificatore», il «dottore e vindice del diritto» («La Civiltà Cattolica»), lanciava la sua prima esortazione al Governi di troncare l’«orrenda carneficina che da un anno ormai disonora l’Europa». La stampa italiana fece varia accoglienza a questa exortatio apostolica. Buona la fecero i giornali più temperati e i tiepidi per l’intervento. Non buona, i più accesi. Anch’essi erano vindici del «diritto», Ma il loro diritto era il diritto dell’Intesa, da realizzare schiacciando gli avversari. Mentre, per la Chiesa, tutti potevano avere e avevano, se non il loro diritto, certo il loro torto. Poiché tutti si erano allontanati da Cristo. Tutti avevano, al posto della prima guerra mondiale. L’attività del deputato Erzberger e del diplomatico Pacelli (1916-1918), in «Archivum Historiae Pontificiae», 35, 1997, pp. 225-255; G. Finizio, Alcuni appunti di Luigi Albertini sulla missione a Roma del principe Bernhard von von Bülow, ambasciatore straordinario tedesco in Italia (1914), in Id., History in the Making: lettere di Luciano Magrini a Luigi Albertini (19291941). Con un saggio sulla genesi e il contesto storiografico dell’opera, “Le origini della guerra del 1914”, Tricase, Youcanprint, 2019, pp. 305-306. Sul fallimento dei negoziati tra Roma e Vienna, si veda, invece, L. Höbelt, “Only the Dead dot not avenge themselves”: The Austro-Italian “Negotiations” of 1914/15, in L’Italia neutrale, 1914-1915, a cura di G. Orsina e A. Ungari, Roma, Rodrigo Editore, 2016, pp. 455-469. Nota dei Curatori.

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sua legge, messo la «ragione di stato» o il «sacro egoismo» o il «diritto nazionale» ecc.; tutti seguivano un diritto che s’identificava con la forza, si adagiavano in una civiltà senza Dio, alimentavano un nazionalismo senza morale, predicavano un patriottismo senza religione. Di qui veniva o frenesia di guerra o vano desiderio e incapacità di raggiungere la pace. Nei commenti della stampa cattolica italiana, si mise in rilievo questa interpretazione del documento pontificio. Era l’ideale chiesastico contrapposto a un altro ideale. E nello sforzo di realizzarsi, esso presentava la guerra come pura violenza, incapace di risolvere i problemi in gioco; affermava un diritto degli individui, dei fedeli, della società religiosa, anche di fronte allo Stato, e tendeva a svincolare il cittadino, in quanto credente, dalla dipendenza assoluta verso di quello; considerava i Governi, se non proprio responsabili della guerra, certo arbitri della pace, ciò che poteva risolversi in inconsapevole sobillamento delle masse, già di per sé proclivi, specie in Italia, a chieder conto di tutto al Governo. Perciò si capisce come non solo i giornali massonici ma anche qualche giornale liberale e nazionalista, come l’«Idea Nazionale», poco si lodassero del documento pontificio. 2. - Insomma, accanto all’entusiasmo degli interventisti, cioè di quelli che, quantitativamente, erano minoranza e, qualitativamente, forza d’impulso, vi fu molta e diffusa buona volontà. Anche nel popolo si fece vivo quel sentimento che aveva germinato, sotto lo strato in ebollizione di quelli che si erano accapigliati pro e contra la guerra, i riscaldati per la civiltà latina o la cultura germanica, commossi per il Drang nach Osten o per l’avvenire del Mediterraneo che insemina, di quelli, cioè che erano intervenuti in rappresentanza della politica o della coltura. Fu – 206 –


allora che la grande massa cominciò a mostrare il suo volto, essa che di tutto quel vocio non aveva sentito nulla o afferrato solo pochi elementi più concreti. Era, fondamentalmente, paziente, disciplinata o capace di disciplina, non sorda alle buone ragioni e alle buone regole. Nel «fare», era migliore assai di quel che a volta non si potesse desumere da talune esterne manifestazioni. Contadini e operai attesero tranquillamente all’opera, anche e in ispecie quelli delle industrie belliche. La mietitura si svolse tranquillamente, né mancarono le braccia: e, anzi, essa, diede lavoro a molti disoccupati, non assorbiti ancora né dall’esercito né dall’industria. Neanche si ebbe in Italia ciò che si verificò, altrove, ad esempio in Inghilterra, cioè agitazioni ricattatorie volte ad elevare i salari, approfittando dell’urgenza del lavoro. Se mai, circolò piuttosto qualche voce in senso contrario: d’industriali che si giovavano della qualità di esonerati di molti loro operai per tentar di tenerli a basso salario. Ma furono casi sporadici anche questi. In generale, alle richieste di aumenti che subito cominciarono a esser avanzate, per fronteggiare l’aumento di costo della vita, si diede soddisfazione con sufficiente buona grazia. Ottimamente anche i ferrovieri, di cui molto si temeva, freschi com’erano di agitazioni e di scioperi, come quelli della «Settimana rossa» del giugno 1914, che avevano paralizzato larghi tratti delle linee ferrate. In altri Paesi, il servizio pubblico delle ferrovie, all’inizio della guerra fu sospeso per lunghi periodi. Da noi, no. E questo non accadde, pur essendo scarso il materiale rotabile, poche le strade ferrate longitudinali a correzione della forma allungatissima della Penisola e nessuna a doppio binario, la ferrovia adriatica esposta quasi tutta a colpi di mano dal mare e in più punti interrotta fin dalle prime ore delle ostilità, i valichi appennini (compreso il più importante, quello FirenzeBologna) a pendenze fortissime e con innumerevoli gallerie che – 207 –


ne diminuivano il rendimento. Queste benemerenze della famiglia ferroviaria le riconobbe in forma solenne e lusinghiera anche il Comando Supremo, nel giugno (41). E le riconobbe tangibilmente il Governo, quando, il 15 agosto, assegnò ai ferrovieri, come compenso per le prestazioni straordinarie della mobilitazione, tre milioni. I ferrovieri volevano devolverli alla Croce Rossa. Il Governo lasciò che ognuno disponesse a sua volontà della parte che gli spettava. Disponevano bene al morale del Paese, contribuivano a crea­ re e dilatare il consenso dell’opinione pubblica anche i bollettini del Comando Supremo, generalmente sobri, misurati, alieni dallo svalutar il nemico per spavalderia o dal sopravvalutarlo per accrescere merito a se stesso. E coi bollettini, più largamente, le corrispondenza dal fronte, dei giornalisti, accorsi da ogni parte d’Italia dietro l’esercito, con una libertà di movimento che era quasi licenza e che dovette alcuni giorni dopo essere infrenata. Anche le lettere di soldati e ufficiali, cui i giornali fecero subito largo, erano tutte fiducia, calore, disinvolta tolleranza, spesso buon umore e sana filosofia. La terribile vita di trincea non aveva ancora schiacciato i combattenti. Si trovavano essi sempre nella fase del movimento, o il movimento si aspettava fosse ripreso da un istante all’altro. Con la notizia dei soldati giungeva al Paese quella dei loro capi. Si parlava, ed era vero, di prove d’incapacità e di fulminei «siluramenti». Ma anche di colonnelli e di generali che si mescolavano ai fantaccini e battevano instancabili le prime linee e (41) «Grande regolarità ed esattezza, per l’opera intelligente e volenterosa di tutti gli organi della amministrazione ferroviaria e pel sentimento di abnegazione che ha animato tutti», scrisse Cadorna, il 20 giugno, al Direttore generale delle ferrovie.

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cadevano fulminati in fronte. Così il generale Cantore, grande padre degli alpini (42). Giungevano i primi episodi relativi al Re, che aveva presto raggiunto l’esercito operante: instancabile, onnipresente, a piedi, in automobile, a cavallo. Si spinge fino alle trincee avanzate o su picchi e cime, dove a stento erano giunti gli alpini. Ma, egli, diceva; egli, cacciatore di camosci, non voleva esser da meno di un alpino. Dove il Re appariva, era un accorrere di soldati, berretti agitati in alto, fucili in aria, grida gioiose. E felicità somma di chi aveva da lui una parola o un sigaro e poteva indicargli la strada, anche solo riconoscerlo mentre passava rapido (43). Di Cadorna poco si sapeva. Ma era già diffuso il giudizio che egli avesse in un anno creato l’esercito, che possedesse pensiero lucido, volontà ferrea, conoscenza perfetta del suo campo di (42) Antonio Tommaso Cantore, comandante di battaglione degli Alpini durante la guerra italo-turca, divenne generale di divisione allo scoppio della prima guerra mondiale. Fu colpito a morte, il 20 luglio 1915, durante una ricognizione sulla prima linea del fronte, nella zona di Cortina d’Ampezzo mentre ispezionava il terreno in vista dell’operazione che avrebbe dovuto portare alla conquista del «Castelletto», un torrione di roccia posto in posizione dominante tra la Tofana di Rozes (in mano italiana) e il monte Lagazuoi (ancora sotto il controllo austriaco). Fu il primo comandante di alto grado del Regio Esercito a cadere durante il conflitto e a essere insignito della medaglia d’oro al valor militare, conferita alla memoria. La morte del generale Cantore suscitò immediatamente forti sospetti. Contrariamente alla versione ufficiale, secondo la quale Cantore sarebbe stato colpito da un cecchino austriaco, s’insinuò che egli fosse stato ucciso da involontario fuoco amico, oppure da un «franco tiratore» ampezzano di fede asburgica. Si diffuse anche la voce che il colpo mortale fosse stato sparato da un soldato del Regio Esercito in segno di ribellione contro la dura disciplina applicata dal generale. Sul punto, O. B. Ongaro, Antonio Cantore. Da Assaba alle Tofane. Il mito del generale alpino, Udine, Gaspari Editore, 2007. Nota dei Curatori. (43) Questo giudizio encomiastico ritornava in G. Volpe, Vittorio Emanuele III, Milano, Ispi, 1939, pp. 107-133. Nota dei Curatori.

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operazione, da lui studiato nascostamente prima della guerra. Specialmente agli occhi degli interventisti, egli si profilava come il generale per eccellenza, consapevole delle necessità della guerra, capace di imporre a tutti, soldati e politici, la legge della guerra (44). Chi lo vedeva, a Udine sua residenza, ne riportava un’impressione profonda. Ecco, è domenica, e si celebra in Duomo la messa. Padre Semeria, che è al fronte anche lui e assai vicino al Comando, ha parlato con la sua calda eloquenza abituale, che muoveva i soldati all’applauso. Poi, la folla in grigio verde si apre o fa ala a Cadorna che, muovendo da vicino l’altare, esce, seguito da suoi ufficiali: «Attraversò lento la chiesa, fissando negli occhi, tutti i soldati che erano sul suo passaggio. Era pallido, e il suo sguardo fiero e severo: ma aveva lampi di bontà. Era come lo sguardo d’un padre che fissa orgoglioso e sicuro i suoi figliuoli. Quando lo Stato Maggiore si mosse per attraversare la chiesa, l’organo attaccò con tempo largo e solenne l’inno di Mameli, e tutti i soldati lo seguirono in coro. Vidi molti ufficiali gravi, imponenti, che stentavano a trattenere il pianto» (45). Né meno giovò, agli effetti nostri interni, il violento scoppio d’ira della stampa nemica, anche della Germania, nei primi tempi delle ostilità. I nostri giornali, tanto quelli che si proponevano (44) Ancora più entusiasta fu il giudizio di Volpe su Cadorna, in Id., Il popolo italiano nella Grande Guerra, Milano-Trento, Luni, 1998, pp. 170-173. Più sfumato e non esente da critiche, invece, quello consegnato in Id., Da Caporetto a Vittorio Veneto, a cura di A. Ungari e con un saggio introduttivo di E. Di Rienzo, Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, 2018, pp. 21-22. Sul punto, E. Di Rienzo, Caporetto come «problema storiografico», ivi, pp. VII- LXIV. Nota dei Curatori. (45) Un caporale della Seconda Armata ai parenti, in Lettere dei soldati. Padre Semeria fra i soldati, in «Corriere della sera», 19 luglio 1915. La testimonianza proveniva dal sottotenente, Pierino Perotti, aggregato, appunto, al Parco automobilistico della Seconda Armata.

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gettar olio sul fuoco della guerra antigermanica, quanto gli altri che volevano giustificare il loro tardivo consenso alla guerra oppure prendersi la maligna soddisfazione di far dire ai tedeschi, impunemente, quel che avrebbero voluto e che non potevano dire essi in prima persona, riportarono le invettive contro «la disonorevole e spudorata politica del gabinetto che aveva messo il Paese alla mercé dell’Intesa» e resolo dispregevole al mondo intero come «traditore». Riportarono anche le minacce per il non lontano domani, quando l’Italia infedele, «vinta e senza onore, raccoglierà i frutti di cenere e tosco che ha meritato», e le dichiarazioni d’incondizionata solidarietà della Germania con l’Austria, per la vita e per la morte… Tutto ciò diede agli Italiani sempre più il senso del particolare carattere, dei particolari fini della loro guerra. Gli altri avevano da guadagnare e da perdere delle provincie o delle colonie, da evitare o subire i danni di una sconfitta, da conservare, più o meno intatta, una reputazione di Potenza militare e un prestigio politico. Per noi, si trattava, anche e più, di accreditarci davanti all’Europa e al mondo, di distruggere pregiudizi diffusi e radicati sul conto nostro, quasi di acquistare diritto di cittadinanza in Europa, per cui fosse riconosciuto moralmente lecito a noi quel che agli altri era lecito. E cioè il diritto di fare una politica indipendente, volta agli interessi della Nazione. La stampa nemica tendeva a separare la responsabilità del popolo italiano da quella dei «demagoghi» dell’intervento e da quella del Governo che aveva condotto la Nazione alla guerra. Ma l’enorme maggioranza degli Italiani, di fronte a questi attacchi, si sentivano solidali con loro. 3. - Il 2 giugno, solenne discorso di Salandra in Campidoglio, con accenni polemici contro il Cancelliere tedesco, Theobald von Bethmann-Hollweg, che aveva pronunciato anch’esso ingiuriosi – 211 –


giudizi (46). Non tutto opportuno quello che disse Salandra. Indulse alle dicerie di piazza e non conferì alla pacificazione degli animi, quando accennò agli «obliqui contatti» di uomini politici italiani con i diplomatici degli Imperi centrali (47). Ma, nel complesso, fu bel discorso di larga risonanza nel Paese. Un discorso quasi «storico» che bene testimoniava non solo di chi lo pronunciò ma anche di chi lo applaudì, lo riecheggiò, vi ritrovò sé stesso: cioè tutti o quasi tutti gli Italiani pensanti. Molti dubbi che ancora covavano fra noi, sopra la correttezza del nostro procedere, furono dissipati. Chi ancora tendeva a giudicar provocatorio il nostro intervento, ne vide i fini essenzialmente difensivi. Specialmente i cattolici si sentirono rassicurati. E l’onorevole Filippo Meda, autorevole deputato popolare, milanese, che già il 28 maggio aveva, nel Consiglio Provinciale di Milano, portato il consenso dei cattolici alla guerra, proclamata «dopo ottanta anni di pace da noi lealmente tenuta», telegrafò ringraziando il Presidente del Consiglio di aver illustrato e giustificato la condotta dell’Italia e rinsaldato la concorde fiducia della Nazione (48). (46) Theobald von Bethmann-Hollweg fu Cancelliere del Reich dal 19091917. Fidato amico del Kaiser, il suo cancellierato, differentemente da quello dei suoi predecessori (Bismarck e Bülow), fu strettamente e convintamente allineato ai voleri della Corona. Su di lui, K. Jarausch, Von Bethmann-Hollweg and the Hubris of Imperial Germany, New Haven, Yale University Press, 1973; Id., Revising German History: Bethmann-Hollweg Revisited, in «Central European History», 21, 1988, 3, pp. 224-243. Nota dei Curatori. (47) A. Salandra, Il discorso del Campidoglio, 2 giugno 1915, in Id., I discorsi della Guerra, con alcune note, Milano, Treves, 1922, pp. 35-57. Nota dei Curatori. (48) Filippo Meda, uno dei maggiori protagonisti del movimento cattolico italiano tra XIX e XX secolo, auspicò, fin dal 1890, l’ingresso a pieno titolo dei cattolici nella vita italiana. Allo scoppio della guerra mondiale, si schierò per la neutralità, finché l’invasione tedesca del Belgio lo indusse ad accettare senza riserve l’intervento. Quando cadde il governo Salandra e fu composto un ministero di unione nazionale guidato da Paolo Boselli, entrò a farne parte come ministro

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Altri, della stessa parte politica, disse: ma perché tardare tanto, onorevole Salandra, a dire quel che avete detto? Non si sarebbe formato, specie fra i conservatori, quello stato d’animo che ha impedito un’acconcia discussione sul da fare. Gli Italiani avrebbero raggiunto, rapidamente quella «persuasione ragionata» su la giustizia della nostra causa, che voi avete raccomandato dal Campidoglio! (49) La stessa «Civiltà Cattolica», rivista dei Gesuiti, occupandosi nel fascicolo di giugno del discorso di Bethmann-Hollweg e di Salandra, affermava che non potevano esser lasciate passare sotto silenzio le accuse tedesche e che stolte erano state queste accuse e che, malamente, i due Imperi avevano creduto di potere, con intrighi e denaro, legar le mani di una Nazione frapponendosi fra governo e Paese. Costatava anche la meravigliosa unità morale degli Italiani, deplorava gli atti di guerra esercitati sopra città delle Finanze. Primo cattolico ad assumere un incarico ministeriale nell’Italia unita, pur sapendo che la sua presenza nel nuovo gabinetto avrebbe suscitato il parere contrario della Santa Sede, decise di accettare l’incarico, confortato, in quella scelta, dal giudizio favorevole di Luigi Sturzo. Per Meda i problemi sorsero quando Benedetto XV inviò la celebre Nota alle Potenze belligeranti (1° agosto 1917) in cui la guerra veniva definita una «inutile strage» e dove si invocava una pace senza vincitori né vinti. In un momento in cui le sorti della guerra sembravano volgere a favore dell’Intesa, la Nota fu interpretata come un soccorso alla causa degli Imperi centrali o quantomeno come un’indebita ingerenza clericale nella condotta della guerra italiana che poteva affievolire lo spirito bellicoso del Paese e spingere al disfattismo. La decisione del governo italiano di non dare risposta al messaggio del Pontefice causò a Meda grave imbarazzo. Attaccato dagli anticlericali, dagli interventisti e dal fronte cattolico, fu sul punto di dimettersi, quando le drammatiche notizie della rottura del fronte italiano, a Caporetto, lo convinsero a restare in carica anche nel successivo governo Orlando. Su di lui, A. Canavero, Filipppo Meda. L’intransigente che portò i cattolici nello Stato, Milano, Centro Ambrosiano, 2003. Nota dei Curatori. (49) F. Crispolti, Dopo il discorso di Salandra. Una importante rivelazione, in «L’Italia», 8 giugno 1915.

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aperte come Ancona, dove a bersaglio furono scelti l’ospedale militare e il Duomo, magnifico monumento d’arte romanica (50). E allora anche si fece strada l’idea di una guerra più vasta di quanto molti avevano potuto credere o potuto sperare per un certo tempo. L’interventismo plaudì senza riserva, e la posizione di Salandra al governo si rafforzò. Anzi, i fautori della guerra si sentirono incoraggiati a chiedere sempre di più, a portare più innanzi il bersaglio su cui puntavano. La guerra c’è, va bene, si disse. Ma bisogna farla energicamente; bisogna non tentennare, non lesinare, non rimandar a domani quel che si può fare oggi. Intanto, si elevi il sussidio alle famiglie dei combattenti e lo si estenda alle famiglie dei volontari e a quelle non regolarmente costituite; si ordini la revisione dei (50) Il 24 maggio 1915, la Kaiserliche und Königliche Kriegsmarine effettuò una massica incursione contro le città e le linee di trasporto della costa adriatica italiana, in risposta alla dichiarazione di guerra dell’Italia del 23 maggio. Divise in otto gruppi principali, le navi da guerra austriache bombardarono obiettivi militari, dal litorale delle Marche a quello della Puglia, con un’azione lampo che colse impreparata la Regia Marin, la quale non riuscì a opporre un’efficace risposta. La città di Ancona subì il bombardamento più violento, durato circa un’ora, cui partecipò quasi tutta la squadra di Pola. Le navi avversarie lanciarono siluri verso le banchine del porto, danneggiando e affondando alcuni navigli lì attraccati. La città, priva di difesa, fu bersagliata da proiettili di grosso calibro che provocarono gravi danni a edifici pubblici e a case private, mentre due velivoli austriaci solcavano il cielo segnalando gli obiettivi da colpire. Subirono danni rilevanti l’Ospedale Militare, il Bagno Penale, L’Orfanatrofio, le officine dei Cantieri navali, la Banca d’Italia e, in particolare, la Cattedrale di San Ciriaco, di cui fu lesionata la cupola e completamente distrutta la Cappella del Sacramento. Sul punto, M. Natalucci, Ragioni e conseguenze del bombardamento navale di Ancona e di altre coste marchigiane in data 24 maggio 1915, in «Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le Marche», 6, 1968-1970, 6, pp. 149154; E. Ferrante, Le operazioni navali in Adriatico 1915-1918, in «Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico dell’Ufficio Storico della Marina Militare», 30, 2016, pp. 106-108. Nota dei Curatori.

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riformati; si intensifichi la preparazione degli ufficiali; si solleciti il munizionamento; si trattino con un po’ più di nerbo i sudditi nemici, in modo da evitare pericoli di spionaggio (51); si tronchi ogni traffico, con gli stranieri e si chiedano garanzie alla Svizzera che le nostre merci non andranno in Germania… con la quale, pure, manca lo stato di guerra dichiarata. Ma si capisce che l’interventismo mira quasi tutto lì, a quella guerra contro la Germania, come alla vera guerra dell’Italia. E s’iniziò a parlare, persino con troppa insistenza di «Imperialismo tedesco», «Militarismo prussiano», «Germanesimo», e della Germania come «causa iniziale, forza motrice della guerra». Su queste basi la democrazia e gran parte del liberalismo italiano aveva impostato la campagna interventista. Formule di scarso contenuto (52). Ma dietro di esse c’era pura una realtà. C’era cioè l’inevitabile della guerra alla Germania, dato il nesso crescente fra i due Imperi centrali e il nesso crescente fra noi e gli Alleati che avevano nella Germania il maggior nemico e che della guerra erano il centro, per il quale dall’agosto 1914, appena raggiunte le posizioni della neutralità, si era cominciato in Italia a chiedere la guerra. Ora, è appena dichiarata la guerra all’Austria, e già si è in attesa di altro. Quanto meno, si proclama ben alto, a chi vuole intendere, che la guerra all’Austria è anche guerra alla Germania (53). (51) Il concentramento degli austriaci in Sardegna, in «Corriere della Sera», 26 giugno 1915. (52) Per l’ulteriore riflessione di Volpe sui rischi di una malintesa germanofobia, rimandiamo a Id., G. Volpe, Il popolo italiano tra la pace e la guerra (19141915), Milano, Ispi, 1940, pp. 55 ss., pp. 138 ss., 151 ss.; Id., Il popolo italiano nella Grande Guerra, cit., pp. 138 ss.; pp. 222 ss. Nota dei Curatori. (53) Sul periodo della travagliata neutralità tra il nostro Paese e il Reich guglielmino, si veda A. Monticone, La Germania e la neutralità italiana: 19141915, Bologna, il Mulino, 1971; G. Spagnulo, L’equilibrio dei sottintesi e la

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Perciò, vigilanza somma sul neutralismo mascherato, ma sempre vivo dietro la maschera. «La sua opera dissolvente non è cessata» – scriveva Giuseppe Prezzolini - «continua». «Non attende che il primo insuccesso, per vantare la saggezza del suo ventre, per tornar a vendere ancora una volta l’Italia» (54). E l’«Idea Nazionale» denunzia il segreto lavorio dei giolittiani che già stringono le file, attendono al varco l’Italia stanca della guerra e giunta a prendere presso a poco il «parecchio»: dopo di che, cercheranno la pace con 1’Austria e il loro ritorno al potere. Intanto, scrive quel giornale e altri giornali, che cosa sono tutti questi borbottii e sussurri, queste dicerie sommesse, queste voci catastrofiche su l’andamento della guerra, questo meravigliarsi che noi non siamo ancora giunti a Vienna? Ecco il solito costume degli Italiani, criticastri e frettolosi! Vi sono giornali che già nel giugno pongono questo comandamento ai lettori: «Combattente per la strada, nei tramvai, nelle botteghe, dovunque, le notizie false, esagerate, inventate turbano la testa al popolo; ricercate da che parte vengono, denunciate chi si ostina a ripeterle. C’è un sabotaggio peggiore di quello dello spionaggio, degli attentati ai ponti, alle ferrovie, ai porti: è il sabotaggio dei nervi del popolo, l’abusare della sua credulità, lo stremare le sue forse con far credere e discredere». C’era qualcosa di vero in queste denunce di giornali, in questo «disfattismo» che comincia a far una sua comparsa, un po’ difficile neutralità tra Italia e Germania dal 24 maggio 1915 al 28 agosto 1916, in La Guerra di Cadorna, 1915-1917, cit., pp. 368-382; C. Blasberg, Mission Impossible? Germany, Public Opinion and belated decision to send Prince von Bülow to Rome, July-December 1914, in L’Italia neutrale, 1914-1915, cit., pp. 469-489. Nota dei Curatori. (54) G. Prezzolini, Vigiliamo!, su «La Voce», Anno VII, N. 3, 7 giugno 1915, p. 138.

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nello spirito di parte e di sopraffazione dei partiti, per i quali la guerra alla frontiera è, deve essere anche guerra interna, da combattere o almeno predisporre, un po’ anche nella realtà. E un decreto governativo del 22 giugno comminò, allora, gravi pene ai propalatori di notizie false. Ma nell’insieme, chi guardava senza esiger troppo da un popolo in guerra, senza l’abitudine, contratta negli ultimi mesi, di veder dappertutto e dappertutto denunciare nemici e pericoli, poteva rimaner soddisfatto dello spettacolo che offriva l’Italia in guerra. Ciò che diede motivo a taluno di raccomandare al Governo sincerità e verità, qualunque cosa accadesse, evitando quelle reticenze e quegli infingimenti che, consigliati da male intese preoccupazioni di ordine pubblico, avevano reso la guerra libica così malfamata. Anche stranieri che viaggiarono nel luglio per la Penisola trovarono tutto in ordine, normale il lavoro, non troppe illusioni negli animi, anche capacità di subire insuccessi senza troppo turbamento (55): ciò che per molti in Europa, e anche fra noi, poteva essere quasi la rivelazione di un fatto inatteso, di un volto non conosciuto e neanche sospettato dell’Italia.

(55) P. Croci, L’elogio delle vacanze, corrispondenza da Parigi, in «Corriere della Sera», 19 luglio 1915.

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Volontari, quasi volontari di guerra, volontari civili 1.- Era un ancor piccolo esercito, il nostro, una trentina di divisioni. Non solo l’Italia aveva dovuto quasi dissimulare se medesima di fronte al nemico futuro; ma non vi erano né armi né ufficiali per istruire, inquadrare e attrezzare uomini in maggior numero. Per nessuno dei Paesi allora in guerra, salvo l’Impero russo, la preparazione e la mobilitazione delle forze era stata o sarebbe stata, come da noi, un così lento sforzo per investire gradatamente, muovere, plasmare, animare dello spirito di guerra tutti gli elementi e gli organi della vita nazionale, fino ai più tardi e inconsapevoli. Tuttavia, questo sforzo di singoli e di collettività, si cominciò a fare subito intenso in Italia. Attorno alle prime unità pronte e mobilitate, cominciarono rapidamente ad affluire i volontari. Già sul principio del 1915, un Regio Decreto aveva disposto per il loro arruolamento nell’esercito. E qualche agenzia d’informazioni dava, già a fine maggio, cifre altissime di domande: quasi duecentomila (56). Ideale di molti sarebbe stato formarne corpi a sé. C’era sempre non poca ritrosia per la milizia regolare, in Italia, anche in chi non aveva istinti o pregiudiziali pacifisti! E Ricciotti Garibaldi chiese la formazione di corpi garibaldini, in camicia rossa (57). No, si rispose. Di unità volontarie a sé, vi furono solo (56) «Bollettino dell’Agenzia Nazionale della Stampa», n. 222, 31 maggio 1915. (57) Ricciotti Garibaldi, quartogenito di Giuseppe e di Anita Ribeiro da Silva, partecipò, insieme al padre, alla terza guerra d’indipendenza e al conflitto franco-prussiano del 1870. Allo scoppio della guerra turco-greca del 1897 comandò il corpo dei volontari garibaldini che si batté a fianco dell’esercito ellenico. Dopo l’agosto 1914, premette sul nostro governo perché l’Italia entrasse, immediatamente in guerra fianco dell’Intesa. Respinta la sua richiesta, spinse

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- e per breve tempo - quelle di alpini e ciclisti formatesi a Milano, a Brescia, a Bergamo, a Verona, in Valtellina. Dominava nei circoli militari, ed anche fuori, una non del tutto ingiustificata prevenzione contro il volontarismo, già manifestatasi subito dopo il 1860, al tempo della sistemazione dei reduci garibaldini, nelle vive polemiche pro e contra (58). E il contra fu assai prevalente sul pro! Perciò molti, ora, se ne rimasero a caso loro, in attesa della chiamata alle armi. Pur tuttavia, a migliaia e diecine di migliaia, nell’esercito regolare, affluirono i volontari! Vi era, fusa ormai col lievito volontaristico, una crescente adesione del cittadino allo Stato, come cosa ben distinta dal suo mutevole Governo, sempre e da tutti, più o meno, visto con sospetto. Gli ultimi mesi avevano poi quasi spazzato via molte pregiudiziali polemiche. A Milano, nei due o tre ultimi giorni di maggio, 500 si presentano all’ufficio di leva del comune e si arruolarono. E molti, fra essi, erano i cosiddetti «sovversivi»! il figlio Peppino a raccogliere una Legione garibaldina, che fu impiegata nelle Argonne, dove gli altri due figli, Bruno e Costante, persero la vita, nei primi sei mesi delle ostilità. Intraprese, poi, un viaggio a Londra e Parigi, per incontrare i maggiori leader politici francesi e britannici, ai quali prospettò, senza successo, la possibilità di formare un corpo di 30.000 volontari, in cambio di una nuova sistemazione del Mediterraneo più vantaggiosa per l’Italia. Anche il suo progetto successivo al 23 maggio 1915 (formazione di un corpo di spedizione garibaldino per operare nei Balcani) fu rifiutato per l’ostilità dello Stato Maggiore e per il veto opposto da Sonnino, timoroso di creare complicazioni nei rapporti con gli alleati. Su di lui, G. Monsagrati, in Dizionario Biografico degli Italiani, 52/1999 - http://www.treccani.it/enciclopedia/ricciottigaribaldi_(Dizionario-Biografico)/. Nota dei Curatori. (58) Sul punto, E. Rota, Del contributo dei lombardi alla guerra del 1848: il problema del volontarismo, in «Nuova Rivista Storica», 12, 1928, 1, pp. 1-52. Si veda anche C. Cesari, Corpi volontari italiani dal 1848 al 1870, Stabilimento Poligrafico per l’Amministrazione della Guerra, 1921; Id., Tradizioni del volontarismo italiano, Napoli, Rispoli, 1942.

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Parola unica: volontari. Ma essa conteneva varietà grande di sostanza. Accanto a quelli che non facevano se non anticipare di qualche mese o di un anno la chiamata della loro classe, e, anticipando, acquistavano il diritto di scegliere l’arma; altri, volontari autentici. Vi è l’invalido che dissimula o nega i segni dell’invalidità o, a forza d’insistenze, poiché qualche servizio lo può sempre rendere, riesce a farsi aggregare in qualche unità mobilitata, come Enrico Toti di Roma, mutilato di una gamba, ora bersagliere ciclista (59). Vi è il ragazzo di 15 o 17 anni che scappa di casa o di collegio – e centinaia ne scapparono! – per andare alla guerra, falsificando documenti o sostituendosi ad altra persona, come fece Roberto Sarfatti di Milano (60). Vi è il neutralista che, (59) Enrico Toti, popolano romano, ferroviere, mutilato della gamba sinistra per un incidente sul lavoro, dopo il 23 maggio 1914, presentò tre domande di arruolamento che furono respinte. Di sua iniziativa raggiunse il fronte, dove fu inquadrato come civile volontario e adibito ai «servizi non attivi», per essere poi obbligato a tornare alla vita civile. Nel gennaio 1916, grazie all’interessamento del Comandante della Terza Armata, il duca d’Aosta, Emanuele Filiberto, riuscì ad essere destinato al Comando Tappa di Cervignano del Friuli, sempre come volontario civile. Destinato inizialmente alla brigata Acqui, arrivò a farsi trasferire al battaglione bersaglieri ciclisti del 3° Reggimento. Nell’aprile successivo fu accolto tra le truppe attive. Il 6 agosto 1916, durante la Sesta battaglia dell’Isonzo, lanciatosi con il suo reparto all’attacco di Quota 85 a est di Monfalcone, fu ferito più volte dai colpi avversari, e con un gesto eroico, scagliò la gruccia verso il nemico, poco prima di essere colpito a morte. Fu decorato con la medaglia d’oro al valor militare alla memoria, con motu proprio di Vittorio Emanuele III, non essendo immatricolato come militare a causa della sua inabilità. Nota dei Curatori. (60) Roberto Sarfatti, figlio di Margherita, studente milanese interventista, a quindici anni, nonostante il divieto della famiglia, si arruolò volontario usando una documentazione falsa, forse ottenuta tramite Filippo Corridoni. L’inganno fu però scoperto e il giovane fu costretto a lasciare il 35° Reggimento Fanteria. Solo, nel 1917, raggiunta la maggiore età, gli fu concesso di arruolarsi, come volontario, nel corpo degli Alpini. Il 28 gennaio 1918, durante la battaglia dei Tre Monti, Sarfatti, alla testa della suo plotone, si batté valorosamente, facendo

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dopo aver fino all’ultimo avversato la guerra, quella guerra, vuol mostrare il significato di questa sua avversione, che non era paura, come Cesare De Lollis, dotto e battagliero maestro dell’Università di Roma, poco meno che cinquantenne, assolutamente libero da obblighi militari (61). Vi è il pubblico funzionario o il professore che non chiede o rifiuta l’esonero, cui avrebbe diritto. V’è il giovane prete o frate. E fra i 20.000 e più mobilitati, molti religiosi rifiutano di servire nella sanità ed entrano come soldati e cappellani nella truppa combattente. Vi è l’ufficiale di cavalleria che passa tra i fanti e mitraglieri. Vi è l’anziano che custodisce una tradizione di patriottismo domestico (parole di suo padre, del 1859 o 1866: «quando rifaremo la guerra all’Austria, io voglio che i miei figliuoli vadano a combattere...») ed è nel 1897 stato a Domokos a battersi contro i Turchi coi Garibaldi e con Antonio Fratti repubblicano romagnolo (62). prigionieri trenta austriaci, ma nel corso di un nuovo assalto cadde sotto il fuoco avversario. Il 19 aprile 1925 gli fu conferita la medaglia d’oro al valor militare, risultando il più giovane tra i decorati con la massima onorificenza della prima guerra mondiale. Nota dei Curatori. (61) Sul passaggio di De Lollis, eminente ordinario di Filologia romanza alla Sapienza e condirettore della prestigiosa, «La Cultura. Rivista di scienze, lettere ed arti», dal neutralismo al «volontarismo», F. Lanchester, Lo Studium Urbis e la memoria dei suoi caduti, in «Nomos. Le attualità nel diritto», 3, 2018, pp. 1-28. Sulla sua esperienza nel campo, si veda C. De Lollis, Taccuino di guerra, Firenze, Sansoni, 1941. Sul punto, A. Scarselli, Cesare de Lollis a scuola e nella trincea. Il suo Taccuino di guerra, Lanciano, Carabba, 1941. Nota dei Curatori. (62) Antonio Fratti partecipò alla campagna del Trentino nella guerra del 1866, tra le file garibaldine e si batté l’anno dopo a Monterotondo e Mentana. Fu proprio l’esito fallimentare di quest’impresa a convincerlo definitivamente dell’impossibilità di realizzare, all’ombra delle istituzioni monarchiche, un programma autenticamente rivoluzionario. L’ingresso nell’Alleanza repubblicana universale segnò per lui il passaggio a una posizione di totale rifiuto del sistema e trovò poi conferma sul piano ideologico nell’adesione piena e indiscussa alla dottrina mazziniana. All’inizio del 1877, si trasferì a Roma per dirigere il quo-

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Oppure, l’antico garibaldino o veterano delle guerre regie che vuol a sessanta o settanta anni combattere «l’ultima guerra del Risorgimento». Rappresentavano, questi, solo una forza morale: ma molti ne furono accettati egualmente e indossarono, sopra la camicia rossa, il grigio verde. Cosi Riccardo Luzzatto, garibaldino, Giovanni Tamiotti presidente della Società dei Veterani di Varallo, il petto fregiato di cinque medaglie; un Barsanti, aretino, che aveva fatto il 1866, Mentana, e la campagna di Roma nel 1870 ecc. E poi, i giovani fratelli Garibaldi, che si considerano esecutori di un legato domestico e custodi di una tradizione politico-militare italiana. Diverso fu l’animo di Gabriele D’Annunzio, che, giunto al culmine della sua vita e assaporati di essa tutti i frutti, cerca nuove emozioni nella guerra e forse, chi sa, una consacrazione. Potremmo chiamar «volontari», forse, solo quanti risposero alla chiamata della loro classe con animo di volontari. Che furono senza numero. Lombardia, Emilia, Romagna, Veneto fornirono il più. Passione politica, fascino di cose avventurose e grandi, tidiano «Il Dovere», con la cui fondazione i repubblicani si ripromettevano di unificare le forze del movimento, saldandole in una stretta difesa dell’eredità mazziniana. Fallita questa esperienza, si candidò alle elezioni politiche del 1891 e fu eletto nel collegio di Forlì. Abbandonata solo dopo un anno, la carriera parlamentare, tentò una manovra d’avvicinamento ai socialisti, che si scontrò con la diffidenza della base repubblicana più tradizionalista. Già presente nel Comitato pro Cuba, dopo lo scoppio della guerra greco-turca del 1897, divenne uno degli animatori del Comitato pro Candia. La possibilità di ridare lustro alla tradizione mazziniana e garibaldina di solidarietà con i popoli in lotta per la difesa della loro nazionalità, lo spinse poi a rispondere positivamente all’appello di Ricciotti Garibaldi che stava raccogliendo volontari per portare soccorso ai soccorso ai Greci. Sbarcato ad Atene il 1° maggio 1897, il 17 seguente fu tra i primi a cadere nella battaglia combattuta sull’altipiano di Domokòs nella Tessaglia, dove le forze elleniche furono sopraffatte. Su di lui, G. Monsagrati, in Dizionario Biografico degli Italiani, 50/1998 - http://www.treccani.it/ enciclopedia/antonio-fratti_(Dizionario-Biografico)/. Nota dei Curatori.

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insofferenza del quotidiano, schietto amor patrio, animano variamente costoro. Credono tutti, più o meno, che la guerra sarà breve. La concepiscono, di solito, come una rapida impresa, veloci marce, bandiere al vento, allegria di bivacchi, insomma, guerra a modo antico, piuttosto garibaldino che regio. In generale, i volontari sono disseminati nei vari corpi, salvo il battaglione, Volontari ciclisti, dove militano Filippo Tommaso Marinetti, i suoi seguaci e altri artisti italiani (63). E salvo i reparti alpini, specialmente del Cadore, la patria di Pier Fortunato Calvi, e, possiamo dire del volontarismo montanaro, nel 1848, essi costituirono formazioni speciali: i ciclisti, per qualche mese; gli alpini, sino alla fine della guerra, in file sempre più assottigliate. Ma i corpi che ricevevano il contingente delle maggiori città, dove era il grosso dei volontari, si trovavano ad averne dei nuclei notevoli, che davano a tutto reparto una sua fisonomia. Così i reggimenti della Brigata Alpi, comandata da Peppino Garibaldi (64). Così i Reggimenti 58° e 59° Fanteria che accolsero molti «sovversivi» milanesi e lombardi. Così la brigata Casale, che era piena di repubblicani romagnoli. Così il 51° Fanteria che contava molti operai ascritti ai partiti democratici, in ispecie repubblicani, livornesi e, egualmente, romagnoli. (63) Il Battaglione Lombardo dei Volontari Ciclisti e Automobilisti si costituì nel maggio 1915, Nell’8° Squadrone della 3a Compagnia si arruolarono Marinetti, Boccioni, Sant’Elia, Erba, Funi, Russolo, il critico vicino al movimento futurista, Mario Bugelli, e Anselmo Bucci che ne eternò le gesta nei Croquis du front italien, poi pubblicati a Parigi nel 1917. Nota dei Curatori. (64) Giuseppe Garibaldi, detto Peppino Garibaldi, figlio di Ricciotti Garibaldi, dopo aver assunto il comando della Legione garibaldina che operò fino al marzo 1915, a fianco dell’esercito francese, si batté sul fronte italiano alla guida della Brigata «Cacciatori delle Alpi», che 1918 fu inviata sul fronte francese a combattere con il Secondo Corpo d’Armata italiano del generale Alberico Albricci. Nota dei Curatori.

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Né è escluso che entro il nucleo dei volontari un altro, più ristretto, se ne formi, quasi volontarissimi, animati o da certo aristocratico disdegno per il profanum vulgus o da più temerario ardire, da più acceso desiderio di coerenza con se stessi. Cosi la Compagnia del Mantellaccio, nel 51° Fanteria, o la Compagnia della morte nel 58° Fanteria, con Filippo Corridoni, I più naturalmente escono dalle file dell’interventismo battagliero, che non intendeva far la guerra con la pelle degli altri. Anche operai e popolani dei gruppi sindacalisti e anarchici, spesso passati da un violento neutralismo a un incondizionato interventismo, come avvenne nell’Emilia. E i sobborghi di Parma malfamati per cronico spirito anarcoide, ma pur capaci di vampate di entusiasmo - solo che qualche cosa o qualcuno sapesse accenderle! - ne diedero alcune centinaia! Tutti trascinati da Corridoni! (65) Erano ancora la «plebe», in attesa di diventare popolo. Ma come naturale e come già nel Risorgimento, i più sono general(65) Capo indiscusso del sindacalismo rivoluzionario milanese, Filippo Corridoni militò nella campagna d’opinione interventista, rischiando di rimanere prigioniero delle iniziative dell’estremismo repubblicano, in occasione del complotto del febbraio 1915, finalizzato a creare il casus belli con l’Austria, e probabilmente a suscitare un moto contro la monarchia. Via via che si profilava sempre più chiaramente la dichiarazione di guerra, in armonia con i suggerimenti di Mussolini, attenuò i motivi repubblicani della sua campagna interventista, per instaurare con l’istituto monarchico una tregua sino a guerra finita. Arruolatosi come volontario, nel luglio 1915 fu trasferito al fronte. Il 23 ottobre 1915 cadde sul Carso. In memoria, gli fu assegnata la medaglia d’argento al valor militare, commutata nel 1925 in medaglia d’oro, quando Corridoni era già entrato nel Pantheon dei precursori del fascismo. Su di lui, Y. de Begnac, L’Arcangelo Sindacalista (Filippo Corridoni), Milano, Mondadori, 1943; B. Vigezzi, L’Italia di fronte alla prima guerra mondiale. I. L’Italia neutrale, Milano-Napoli, Ricciardi, 1966, ad indicem; D. D. Roberts, The Syndacalyst Tradition and Italian Fascism, Chapel Hill, University of North Carolina Press, 1979, ad indicem. Nota dei Curatori.

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mente borghesi, della piccola borghesia. Vengono dal socialismo riformista di Leonida Bissolati e seguono l’esempio del loro capo che fin dall’agosto 1914 si era offerto volontario (66); o dalle file repubblicane che avevano già dato il più dei volontari in Francia. Vengono soprattutto dai nazionalisti e dagli elementi più vivi del giovane liberalismo degli ultimi anni, cioè da quelli che più ave(66) Leonida Bissolati, leader del Partito socialista riformista, formatosi con la scissione del marzo 1912, dopo l’agosto 1914, si batté per la neutralità finché sembrò ancora possibile l’intervento italiano a fianco della Triplice alleanza. In seguito, fu tra i primi a reclamare l’alleanza con l’Intesa. Nel periodo della neutralità divenne uno dei più autorevoli esponenti dell’interventismo democratico e quando il ministero Salandra sembrò ormai deciso all’intervento, diede il suo sostegno alla maggioranza di governo. Dopo il 23 maggio 1915, si arruolò volontario nel 4º Reggimento Alpini, col grado di sergente. Partecipò ai combattimenti per la conquista del Monte Nero, e, ferito due volte, fu decorato di medaglia d’argento. Nel giugno 1916, entrò come ministro senza portafogli nel gabinetto Boselli. In quel ruolo, richiese una più energica condotta del conflitto, un più stretto collegamento politico con Francia e Regno Unito, sostenendo la necessità di dichiarare guerra alla Germania. La crisi politica dell’autunno 1917, successiva alla sconfitta di Caporetto, portò Orlando alla presidenza del Consiglio. Nel nuovo gabinetto, Bissolati assunse la guida del dicastero preposto all’Assistenza militare e delle Pensioni di guerra. Tuttavia, la sua posizione all’interno del ministero s’indebolì. Il disastro militare impedì, infatti, che la sostituzione di Sonnino, da lui caldeggiata, fosse effettuata, nel timore di rafforzare le correnti neutraliste. La permanenza del ministro segnatario del Patto di Londra risultò fatale alla linea di politica estera perseguita da Bissolati, ispirata al riconoscimento del principio di nazionalità. Al termine del conflitto, il 28 dicembre, dopo un violento scontro con Sonnino sulla questione dei rapporti con «gli Slavi del Sud», rassegnò le dimissioni dal governo. Una testimonianza, in presa diretta, dell’operato politico di Bissolati, nell’arco temporale della Grande Guerra e fino alla Conferenza di pace, è in I. Bonomi, Leonida Bissolati e il movimento socialista in Italia, Milano, Sestante, 1945, pp. 143-226: Id., La politica italiana dopo Vittorio Veneto, Torino, Einaudi, 1953. Sugli orientamenti di politica estera di Bissolati, durante e al termine del conflitto, si veda anche C. Sforza, Costruttori e distruttori, Roma, Donatello de Luigi, 1945, pp. 255-260; L. Valiani, La dissoluzione dell’Austria-Ungheria, Milano, Il Saggiatore, 1966, passim. Nota dei Curatori.

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vano rappresentato in sé e promosso negli altri il risveglio dello spirito nazionale, auspicato un rinnovamento della borghesia, ammonito essa a farsi meritevole della sua funzione direttiva con l’assumere il posto centrale nella guerra. Doveri e diritti! (67). Fra essi, non pochi i giovani agitati da una vera crisi spirituale; stanchi della quotidiana schermaglia politica; tediati del vano aspirare e interrogarsi e attendere non si sapeva bene che cosa; assetati di azione e conclusione, ma del tutto restii ad accettare obblighi precisi e fermi. Molti, pure, erano quelli che erano stati attraversati dalle varie correnti ideali degli ultimi anni. E questi sinceramente anelavano a conquistare un punto d’appoggio nella realtà. La guerra parve offrire il mezzo a tale conquista. Fra questi volontari, campeggiavano gli irredenti: Dalmati, Istriani, Trentini, Fiumani, Goriziani e qualche alto-atesino (68). Ogni villaggio o città dell’Italia d’oltre confine era rappresentato nell’esercito. Parecchi, tornati dall’America e da più lontano, come quel Giuseppe Degol che venne dall’Australia, dove aveva famiglia, figliuoli e posizione eccellente, e fu semplice soldato al nostro fronte e morì, nei primi mesi: proposto per la medaglia d’oro, decorato poi di medaglia d’argento (69). Qualcuno vi fu che, (67) Il riferimento di Volpe è al piccolo ma agguerrito gruppo dei «Nazionali Liberali», dove transitarono gli esponenti più rappresentativi della cultura italiana, raccoltisi, dopo l’agosto del 1914, attorno alla rivista, settimanale «L’Azione», fondata da Paolo Arcari e Alberto Caroncini, di cui proprio Volpe assunse la direzione effettiva, anche se non nominale, negli anni successivi. Sul punto, si veda supra, pp. 16-24 e passim.Nota dei Curatori (68) Sul punto, I volontari delle Giulie e di Dalmazia. Dati raccolti e ordinati a cura di Federico Pagnacco, Trieste, La Libraria, 1928. Nota dei Curatori. (69) Nato a Strigno, in provincia di Trento, il 29 agosto 1882, Giuseppe Degol prestò servizio nel Reggimento Tiroler Kaiserjäger dell’Esercito austroungarico. In seguito si trasferì in Australia, dove costruì una ragguardevole posizione economica. Allo scoppio della guerra, ritornò in Italia, si arruolò volontario

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rifiutato alla visita medica, si uccise, come Vittorio Baldassari, già disegnatore litografo nella tipografia del giornale «Alto Adige», che nel suo testamento lasciò una somma per un ricordo commemorativo del Trentino liberato. Erano fuggiti dall’Austria non per sottrarsi alla guerra ma per combattere «la loro guerra». Avevano disertato dal fronte galiziano per venir, molti di essi, a morire sul fronte italiano. Nei mesi della neutralità, si erano buttati al movimento interventista. Avevano fornito all’opinione pubblica elementi per lo studio delle questioni d’oltre confine; e all’autorità militare, elementi per la condotta della guerra. Avevano dato la caccia agli spioni che l’Austria mandava nei centri di raccolta dei profughi e avevano mantenuto segreti contatti con i Trentini rimasti in patria. Il neutralismo plebeo si era accanito contro di essi specialmente, come i maggiori provocatori di guerra. A Cesare Battisti si era impedito di parlare nella piazza di Reggio: e ne erano seguiti sanguinosi incidenti (70). Molti di essi erano iscritti nei battaglioni di nel Regio Esercito, e fu assegnato alla 56ª Compagnia del Battaglione Alpini «Verona», inquadrata nel 6º Reggimento Alpini. La sera del 14 novembre, al comando di una pattuglia di quindici uomini, cercò di occupare un posto avanzato nemico presso Vallarsa, tra la dorsale del Carega e il Pasubio. Colpito dal fuoco avversario, morì, dopo aver continuato a dirigere l’azione del suo plotone. Alla sua memoria fu concessa la medaglia d’argento al valor militare, poi tramutata in medaglia d’oro. Nota dei Curatori. (70) Cesare Battisti iniziò, giovanissimo, l’attività politica, coniugando irredentismo e socialismo. Soppressa al suo primo numero la «Rivista popolare trentina», da lui fondata nel febbraio 1895, l’anno successivo diede vita alla Società degli studenti trentini e al settimanale socialista «L’Avvenire del lavoratore». Preclusa ogni soluzione per il ricongiungimento della sua terra natale all’Italia dall’esistenza della Triplice Alleanza, per circa un decennio, pose al centro del proprio programma la lotta per l’autonomia amministrativa del Trentino e la richiesta di un’Università italiana a Trento. Eletto nel 1911 deputato alla Camera di Vienna, mostrò nei suoi discorsi di non credere più alla possibilità di una

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preparazione organizzatisi a Milano, a Verona, Padova, Torino, Roma. E ora, volontari, generalmente, si sforzavano di mantenersi uniti o vicini. Oltre 200 ne accoglie il 1° Reggimento Fanteria (Savoia) della Brigata Re, che aveva un passato di tre secoli, nel vecchio Piemonte guerriero. E sono quasi tutti Triestini e Istriani. Un centinaio se ne trovano poi nel 35° Fanteria. Oltre 400 Trentini militano fra le truppe di montagna, nel 6° Reggimento Alpini. Gran parte della Società Alpinistica tridentina è qui, dopo aver fatto dell’alpinismo una scuola di preparazione politico-militare. Conoscono ogni punta e ogni valle delle loro Alpi e hanno davanti agli occhi la visione di un delirante ritorno in patria, alla testa dell’esercito vittorioso. Tutti si battevano con i loro «nomi di guerra», riconosciuti anche ufficialmente dall’autorità militare italiana, per impedire che, cadendo prigionieri, subissero la sorte dei «rei d’alto tradimento», cioè la fucilazione o la forca. 2. - Accanto all’Italia dei volontari e degli irredenti, l’Italia degli emigrati: quadro di ombre e di luci. Il censimento del 1909 dava circa cinque milioni e mezzo d’italiani all’estero. Nel 1914, si calcolavano a sei milioni, cioè un sesto della popolazione italiana. Di essi, oltre cinque milioni in America; il resto, in Europa. convivenza del Trentino con l’Austria. Scoppiata la prima guerra mondiale, si stabilì a Milano, sviluppando un acceso programma interventista, con discorsi di propaganda tenuti in tutta l’Italia. Dopo l’ingresso del nostro Paese in guerra si arruolò nel 5º Reggimento Alpini, di cui divenne sottotenente nel dicembre 1915. Partecipò valorosamente a molte azioni e fu più volte decorato. Il 10 luglio 1916, sul Monte Corno fu fatto prigioniero con Fabio Filzi. Riconosciuto e sottoposto a giudizio marziale per alto tradimento e ribellione, fu condannato all’impiccagione con sentenza eseguita, il 12 luglio, a Trento, nel cortile del castello del Buon Consiglio. Su di lui, C. Gatterer, Cesare Battisti: ritratto di un “alto traditore”, Firenze, La Nuova Italia, 1975; S. Biguzzi, Cesare Battisti, Torino, Utet, 2008. Nota dei Curatori.

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I più, nell’Argentina, Stati Uniti, Brasile, Uruguay. Solo nel 1913, ne erano partiti oltre 800.000 per ogni parte del mondo, ma specialmente per gli Stati Uniti, l’ultimo Paese di immigrazione, in ordine di tempo, per i nostri emigrati, ma ormai il primo in ordine di importanza, capace, dato il suo sviluppo capitalistico, di assorbire circa metà della nostra emigrazione annua. Di questi milioni di Italiani, la guerra del 1914 cominciò a rimandarcene una piccola parte, uomini e donne e bambini, emigrati temporanei o fissatisi stabilmente nella nuova sede, ora espulsi o rimasti senza lavoro o profughi volontari: circa 450.000, dalla Francia, dall’Austria, dalla Germania, dal Lussemburgo, insomma dai Paesi belligeranti o comunque travolti dal turbine, che assorbivano i 9/10 della nostra emigrazione europea. Altri ne ricondusse la mobilitazione nostra. E più tardi, i successivi richiami delle varie classi: prima dai Paesi dove la mobilitazione fu subito ordinata, poi anche da quelli dove essa, per motivi di bilancio e difficoltà di rimpatrio, si compì solo più tardi, come dall’Australia, dal Cile, dal Giappone, dalla Russia, dalla Svezia, dalla Norvegia, ecc. (71). In Austria, ormai, non ce ne erano più, al principio del 1915: e i pochi ancora rimasti, o tornarono frettolosamente o, se validi, (71) Questa mobilitazione degli emigrati atti alle armi fu compito, insieme con varie altre funzioni, del Commissariato Generale dell’Emigrazione, retto fino al 1914 dal Conte Gallina, poi dal commendator De Michelis. Esso ebbe l’incarico di comunicare, volta a volta, alle nostre autorità diplomatiche e consolari, le varie chiamate alle armi di classi, specialità, categorie. Ciò, per via telegrafica o per mezzo d’istruzioni particolarizzate. I servizi, relativi all’imbarco e trasporto dei richiamati, furono assolti dalla Direzione Generale della Marina mercantile. Si veda Mobilitazione e smobilitazione degli emigrati italiani in occasione della guerra 1915-1918, a cura del Commissariato Generale dell’Emigrazione, Roma, Cartiere centrali, 1923.

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furono internati. Molti, invece, erano in Germania: e parecchi tornarono anche di lì, sebbene con la Germania non avessimo ancora guerra. Ma la guerra si presentava probabile anche con questo Stato. Vi fu poi larghissimo ritorno dalla Svizzera, Stato non belligerante. Fu la Svizzera rifugio di disertori di tutti i Paesi attorno; ma, data la vicinanza e l’azione vigilatrice anche di istituzioni private come l’Opera Bonomelli (72), e data la crisi grave che, si abbatté su la Confederazione all’inizio delle ostilità, i più si sentirono spinti al ritorno: anche perché i più erano emigrati temporanei e gravitavano sempre con maggiore o minor forza sul Paese d’origine. Così, su 25.000, forse solo duemila rimasero assenti. Tornò la grande parte di quelli che erano in Francia, Nazione alleata, più tardi costrettivi anche da convenzioni fra i due Governi, per la reciproca consegna dei disertori: e furono attorno ai 100.000, di cui 17.000 e 18.000 dalla giurisdizione consolare di Parigi, oltre 20.000 da quella di Marsiglia, circa 10.000 da quella di Lione, altrettanti da Nizza, da Tolone, ecc. Notevolissimo, fra essi, il numero dei piemontesi che davano alla Francia gran parte della loro emigrazione: ed era emigrazione elevata, in genere specializzata, a differenza di quella spagnola o polacca. Fra 12.000 e 14.000 rimpatriarono dalla Tunisia, rimanendone lì solo qualche centinaio celati nelle campagne e nelle miniere. E in genere, da tutto il bacino del Mediterraneo, dal Marocco, dall’Algeria, dall’Egitto, dall’Asia Minore, da Salonicco, la grande emigrazione rispose. E furono attorno ai 20.000. Solo l’Egitto, che ospitava 30.000 o 35.000 Italiani, ne diede 3.000. Invece (72) L’Opera Bonomelli, insieme alla Società umanitaria, operò, con interventi a supporto di sfollati dal fronte, di esuli e di emigranti italiani che, ritornando in patria, erano privi di dimora e di mezzi di sussistenza.

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parecchi renitenti, vi furono, in Inghilterra, anche per ragione dell’ambiente, refrattario al servizio militare obbligatorio. Nel complesso, fra i 130.000 e 140.000 tornarono dall’Europa, dopo la fine di maggio. Lo stesso dicasi dell’America. Qui, erano cinque milioni di Italiani nel 1914, quasi tutti nei tre maggiori Paesi: Stati Uniti, Brasile, Argentina. Il censimento del 1910 ne aveva segnalato 2.100.000 solo negli Stati Uniti; e di essi, il 66% maschi, di cui l’80 % oltre i ventidue anni. Di questi ultimi, il 34% erano naturalizzati o quasi e il 66% con la cittadinanza italiana. Si è calcolata che circa 1/2 milione d’individui, fra il 18° e 43° anno di età, cioè poco meno che 1/4 della cifra complessiva, avessero obblighi militari. Negli altri due grandi Stati, Brasile e Argentina, dove erano i rimanenti tre milioni di Italiani, minore era la percentuale di quelli che avevano obblighi militari, essendo lì più antica la nostra emigrazione e maggiore il numero degli Italiani divenuti cittadini americani. Si può calcolare, invece di 750.000, altri 500.000. In tutto, un milione. Le cifre dei ritornati, che noi possediamo, sono in verità molto approssimative perché rilievi precisi non furono fatti da nessuna autorità. Ma possiamo calcolare che furono fra 150.000 e 200.000. Cioè meno del 20% rimpatriarono dall’America. Aggiungendo i 130.000 o 140.000 circa tornati dall’Europa, giungiamo ad approssimativi 350.000. E poi, un certo numero, non determinabile, di uomini venuti per conto proprio e propri mezzi, o sorpresi dalla mobilitazione mentre si trovavano temporaneamente in Italia. I più tornarono nel primo anno di guerra, anzi nei primi mesi della guerra stessa. A tutto il 1915, oltre 200.000 erano già sotto le armi: cosa facilmente spiegabile, se si pensa che fra gli emigrati, specie del Nord America, grande era la prevalenza dei giovani fra i 20 e 30 anni; che gli uomini superiori ai 32 anni, già in tempo di pace – 231 –


esenti dal servizio militare, seguitarono a goder di tale beneficio; che le difficoltà materiali del viaggio crebbero in seguito più forse che non diminuissero, con l’estendersi della guerra sottomarina; che, infine, lo svolgersi delle industrie belliche nel Nord America per conto dei belligeranti e poi l’intervento degli Stati Uniti legò definitivamente i nostri emigrati validi al Paese dove vivevano, cioè alle fabbriche e all’esercito americano. Dal 6 aprile 1917 al novembre 1918, oltre 250.000 italiani, lì residenti, furono inscritti nei registri di leva dell’Unione Nord-Americana, di cui oltre 100.000 nella prima classe: e molti furono effettivamente chiamati. Così, fra i 700.000 e gli 800.000 rimasero in America. Tolti da questo numero gli invalidi, che erano pochi, dato che l’emigrazione voleva dar selezione, pur v’erano, si può calcolare fra i 500.000 e 600.000 uomini validi. Un grande esercito! In Italia, durando ancora la guerra, si disse mezzo milione, anche da uomini di governo. Piuttosto più che meno. In ogni modo, molti. Eppure nessuna delle altre Nazioni belligeranti, almeno Francia, Germania, Inghilterra, ebbero, relativamente, una così alta percentuale di cittadini residenti all’estero che rimasero sordi all’appello o, comunque, non furono presenti al loro posto, sebbene molti di quelle Nazioni rimasero, autorizzati, là dove erano, per non scompaginare la trama degli interessi nazionali all’estero, e contribuirono in altro modo alla propria guerra. Ma occorre tener presente che erano emigrazioni ristrette, di elementi scelti, in gran parte borghesi, cioè gente che soleva, anche lontana, vivere in perenne contatto spirituale con la patria, ben vigilata dai propri consoli, raccolta in nuclei coerenti nei centri urbani, laddove, fra gli Italiani, molti analfabeti e quasi spesso ignari degli obblighi di leva. Molti disseminati in tutti gli angoli d’America, furono tardi e mal informati della guerra e dei decreti di richiamo della loro classe. Molti, radicatissimi nella Nazione, – 232 –


dove avevano avviato piccole aziende agricole o commerciali che poggiavano solo sulla personale attività loro e costituivano tutta la loro fortuna. Molti, già cittadini del Paese, sebbene non avessero rinunziato alla cittadinanza italiana e non avessero perduto, in base alla nostra legge sulla cittadinanza del 1912, l’obbligo al servizio militare. Queste ultime categorie erano specialmente numerose in Argentina e, più ancora, in Brasile, i due Paesi di più antica emigrazione italiana. Meno antica, invece, era l’emigrazione degli Stati Uniti; e meno legati al Paese, gli Italiani lì residenti. Ma, mentre negli Stati del Sudamerica molti poterono essere spinti al ritorno dalla crisi che preesisteva alla guerra, e si aggravò con la guerra; negli Stati Uniti, la guerra portò un più intenso lavoro, richiesta di nuove braccia, rialzo di salari. E ciò trattenne quanti non erano sollecitati da un vivissimo sentimento del dovere. Anche perché miserrima cosa era l’indennità che il Governo italiano dava alle famiglie dei richiamati, senza far nessuna distinzione fra chi stava in patria e chi fuori, fra il bracciante pugliese e il mezzadro toscano e l’operaio specializzato stabilitosi a New York o Buenos Aires, dove i bisogni della vita e i guadagni erano tanto maggiori. Astrattezza e uniformità che caratterizzò non piccola parte della legislazione italiana. Ragione per cui si ebbero molti casi di Italiani che, per fruire dei più alti sussidi dati da altri Governi alle famiglie dei loro riservisti, mutarono nazionalità. Aggiungi il timore di non poter, più rientrare nel Paese, una volta usciti, date le tendenze restrizioniste già palesi in qualche Stato americano; l’idea largamente diffusa, per le esperienze del passato, che una buona amnistia avrebbe più tardi sanato tutto e reso a tutti la possibilità di tornare a casa; la propaganda per la diserzione fatta, specie nei grandi centri industriali degli Stati Uniti, da sovversivi italiani e, anche, variamente dissimulata, dagli agenti – 233 –


tedeschi e dagli organi germanofili. E si ebbero, persino, improvvisate bigonce tribunizie anche presso i consolati e nelle adiacenze dei grandi porti. Infine, occorre tener presente l’insufficienza del nostro servizio consolare, all’estero, incapace di fronteggiare l’enorme lavoro dell’avviamento di tanta gente verso i luoghi d’imbarco; la scarsezza e la cattiva organizzazione dei trasporti dall’America. Molti, forse i più, si mossero dalle loro residenze, pieni di buona volontà, spesso di entusiasmo, alla notizia della guerra italiana, della mobilitazione, della chiamata. I meridionali, i Siciliani specialmente, quasi tutti dediti al piccolo commercio, ai lavori manuali ecc., cioè accampati sul posto, si mossero, a quel che pare, più dei settentrionali, ad esempio, dei Piemontesi, divenuti in gran numero proprietari e quindi radicati a quel suolo. I giovani si mossero in gran quantità. E gli uomini che avevano prestato servizio militare si mossero più di quelli che non lo avevano prestato: segno di una benefica influenza della vita militare in patria, già rilevata, del resto, prima della guerra, nei rapporti dei nostri Consolati (educazione, contegno, fierezza, disciplina, ecc., si scrisse, erano maggiori negli emigrati che erano passati la caserma!). Fecero lunghissimi viaggi dalle lontane Pampas argentine, dalle più sperdute fazendas brasiliane, per giungere agli imbarchi. Ma poi, lungo la strada: il Console non ha fondi; il personale consolare difetta di precise istruzioni e non sa bene il significato del manifesto verde (ordine di mobilitazione), dove è prescritto il tempo della presentazione dei riservisti; le carte personali non sono in regola; manca il piroscafo per partire; ingorgo all’imbarco... Sarebbe stato necessario disporre di un certo numero di piroscafi ad hoc. Ma il Ministro della Guerra, interpellato dal Commissariato dell’Emigrazione, dice che non ne ha. E allora, – 234 –


mezzi ordinari. E per conseguenza partirono, alla spicciolata, almeno nei primi mesi. Sono finalmente in pieno oceano, sono in vista del porto di Palermo o di Napoli. Ma poi, sbarcati, accade che Tizio, Caio, Sempronio, o sono inabili o non appartengono alle categorie o classi richiamate. E allora, il Commissario dell’Emigrazione li riespatria: con qualche possibilità che, durante il nuovo viaggio, quella classe o categoria sia chiamata. E allora, quel Tizio o quel Caio sono dichiarati disertori. Gli altri non hanno potuto imbarcarsi. Ma può essere che aspettino il loro turno; una settimana, un mese, consumando i loro peculi. Per vario tempo, attorno ai richiamati aleggia la calda simpatia della colonia. E ancora nel luglio 1915, i giornali nostri riferiscono di proteste del ministro tedesco, in Argentina, per le dimostrazioni di incoraggiamento ai richiamati italiani (73). Poi, tuttavia, il primo entusiasmo si raffredda: viene meno la persuasione di un pericolo immediato che minacci la patria, mutano quelle condizioni di spirito che in un primo momento avrebbero fatto dimenticare il danno dell’abbandono del lavoro e della famiglia, le suggestioni negative prendono il sopravvento sulle altre. Ciò spiega perché il Brasile diede, relativamente, il minor numero di ritornati. Basti pensare a quell’immensa Nazione, dove pochi Consoli sorvegliavano un popolo di Italiani disperso nell’interno (74). Lo Stato italiano, così raccoglieva, quanto ad emigrazione, non molto, come non molto era quel che esso aveva seminato: (73) Proteste del ministro tedesco all’Argentina per le dimostrazioni ai richiamati italiani. Servizio particolare da Roma del 27 luglio, in «Corriere della Sera», 28 luglio 1915. (74) F. Coletti, Studi su la popolazione italiana in pace e in guerra, Bari, Laterza, 1923, pp. 71-83.

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quasi solo leggi protettive degli emigranti dalla speculazione degli ingaggiatori e degli armatori, negli ultimi quindici anni. Nel complesso, la classe dirigente italiana aveva guardato al fenomeno migratorio con interessato ottimismo: come sfoga­toio della popolazione e valvola di sicurezza; e come mezzo di pareggio del bilancio. Il problema era realmente immane, per una Nazione di modeste risorse come l’Italia, che né poteva dar essa a tutti i suoi figli quel che davano loro i Paesi d’oltre mare, quasi vergini e poco popolati, e perciò doveva pur lasciarli emigrare; né poteva dar efficace protezione, mantener i contatti, fornire le scuole, tutelar il carattere nazionale di questa gente che era partita e partiva analfabeta o quasi, che era dispersa su continenti vastissimi, che ignorava la patria o la desiderava solo come domestico focolare, che nei nuovi Paesi non si curava di chiedere, per i suoi figliuoli, l’insegnamento dell’italiano come pur avrebbe avuto diritto in taluni luoghi (ad esempio, negli Stati Uniti). Ma vero è anche che i politici italiani erano in tutt’altre faccende affaccendati. E quando si ebbe la guerra, si verificarono subito le deficienze sopra ricordate, nell’azione e coordinazione degli organi di governo delegati alla politica estera, alla guerra, ai trasporti, al Tesoro: deficienze che non solo tolsero a molti di tornare sotto le bandiere, ma anche, a molti, di rimanere dove erano. Poiché il problema era duplice, in momenti come quelli: aver soldati in patria e, insieme, mantener all’estero le posizioni occupate a difesa d’interessi che bisognava non pregiudicare per l’avvenire, di diritti che era necessario non lasciar prescrivere. Era, questo, il punto di vista del Commissariato dal1’Emigrazione. Ma prevalse quello dell’autorità militare, la quale poi non si può dire che facesse dei reduci il miglior uso possibile. Per citare un esempio, si richiamò da Alessandria d’Egitto il dottor Evaristo – 236 –


Breccia, direttore del Museo Greco-Romano (75), per cacciarlo in un ufficio di Roma: salvo, dopo un anno, rimandarlo in fretta e furia al suo posto, perché qualche Nazione amica lavorava a soppiantarlo… Valgano queste considerazioni a farci egualmente valutare le cifre dei ritorni. Esse attenuano la colpevolezza dei renitenti, accrescono il merito degli altri. Molti già allora lo riconobbero. Vi furono comandanti di piroscafi i quali, giunti in porto col loro carico di riservisti, dopo una navigazione a volte assai travagliata (vi furono incendi misteriosi in alto mare ecc.), dichiararono dover l’Italia considerarsi in grande debito verso questi reduci che avevano resistito a lusinghe e affrontato pericoli, pur senza che nessuno li potesse materialmente costringere (76). Da considerar quasi volontari di guerra anche essi, oltre i volontari veri e propri che non mancarono neppure dalle colonie d’America e o del Mediterraneo orientale o del Sud-Africa o da altri più lontani Paesi. Anche lì, qualche superstite delle Guerre d’indipendenza, che custodiva la poesia dei ricordi e si attaccava a essi come alla vita. E giovani nel fior degli anni, professionisti con avviatissime professioni, studenti, operai delle colonie francesi d’Africa che, dopo aver avuto in un primo momento l’esonero perché addetti a pubblici servizi o a costruzioni ferroviarie o a lavori minerari interessanti anche l’Italia, poi vi rinunciarono per non sottostare (75) Annibale Evaristo Breccia fu direttore del Museo Greco-Romano di Alessandria d’Egitto, succedendo nel 1904 a Giuseppe Botti. Fu poi docente di Antichità e Storia Greca e Romana presso l’Università di Pisa, di cui divenne Magnifico Rettore dal 1939 al 1941. (76) L’attentato al “S. Anna”, è opera dei tedeschi? Entusiastico arrivo di 8000 riservisti dall’America. Corrispondenza da Napoli, in «Giornale d’Italia», 25 settembre 1915; Le insidie austriache ai nostri riservisti. Corrispondenza da Napoli, in «Giornale d’Italia», 13 ottobre 1915.

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a ricatti d’imprenditori che si facevano forti della condizione di questi dipendenti per imporre condizioni inique di lavoro e di salario. Singolare fatto, l’accorrere in Italia di giovani cresciuti o nati all’estero, taluni appartenenti a famiglie stabilitesi fuori da due o tre generazioni e quindi ignari di quel che era Italia, spesso anche della lingua. Fra essi, anche levantini d’Egitto o di Salonicco o di Smirne, che, tolto il legame creato dalla cittadinanza, poco o nulla avevano d’italiano, salvo qualche simpatia per questa ignota patria da cui i loro antenati aveva avuto protezione per secoli o alle cui scuole essi si erano accostati. Nessun dubbio che anche all’estero la guerra e la mobilitazione italiana furono come uno squillo. Molti dormienti si svegliarono. Molta gente che, staccatasi dalla terra d’origine e non ancora del tutto legatasi alla terra d’elezione, si poteva considerar senza patria, si riaccostò all’Italia. Gli elementi dispersi della Nazione si chiamavano da lontani punti del mondo, si riconoscevano, sentivano fermentar dentro il sentimento, di una comunanza che fino allora era stato più fatto di natura che di coscienza. 3. - Così la grande macchina della vita nazionale, con qualche sforzo, con qualche cigolio, con qualche congegno, con molti congegni che non risposero o funzionarono male, cominciò a mettersi tutta in movimento. Lo fece l’esercito di prima linea, e il Paese intero, a scaglioni successivi, a mano a mano che i vari elementi suoi venivano investiti dalla guerra, attratti nel risucchio della guerra. Si trattava, anche per i civili, di organizzare una milizia, dei quadri, delle attività molteplici. Lo slancio iniziale fu assai vivace. Né solo di proposte e di offerte per servizi di ogni genere, che giunsero a diecine e centinaia di migliaia, specie al Ministero della guerra, dove fu costituito un ufficio apposito per – 238 –


esaminarle. Ma anche di opere. Molte città avevamo da qualche settimana o mese creato comitati interventisti o per la mobilitazione civile. Si prevedeva che la guerra, sottraendo uomini ai pubblici servizi, avrebbe all’interno scompigliato tutto. E si voleva ovviare anche a quel «perturbamento che, nel normale sviluppo dei pubblici servizi, sarebbe stato inevitabilmente conseguenza di una mobilitazione generale». Cosi, il 27 aprile 1915, si esprimeva, a Sassari, il Comitato di mobilitazione civile (77). Ma poiché «il primitivo disegno rimase senza attuazione», il Comitato si volse a opere di assistenza e conforto dei soldati e loro famiglie. Laddove nulla ancora si era costituito, i Comitati civili si costituirono rapidamente. Norme ad hoc emanò il governo centrale, già il 29 maggio. Prefetti e sindaci si adoperarono ad applicarle e promuoverne l’applicazione, riunendo i cittadini, suggerendo, stimolando. E i Comitati di mobilitazione civile furono subito migliaia, nei piccoli e grandi centri. Ebbero struttura elementare o si organizzarono come complesse aziende, con sottocomitati, o sezioni più o meno numerose. Così a Milano, dove il 4 giugno si costituì il Comitato Centrale di assistenza per la guerra e il Comune creò sette uffici: cioè «Sussidi alle famiglie», «Tutela della fanciullezza», «Disoccupazione e profughi rimpatriati», «Interessi economici e personali dei militari», «Assistenza morale ai feriti e convalescenti», «Opere sussidiarie». A Palermo, il Comitato fu diviso in sezioni per i sussidi, per la raccolta di riviste e libri pei militari, pel funzionamento delle squadre dei «Giovani Esploratori», per l’assistenza legale gratuita, per gli studenti bisognosi. (77) Il Comitato sassarese di mobilitazione civile nel suo primo anno di vita: 18 aprile 1915, 31 maggio 1916 e resoconto al 30 giugno 1917, Sassari, Tipografia G. Gallizzi & Co., 1916. Relazione del 31 maggio 1916.

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Il compito cui più generalmente si volse la sollecitudine cittadina, spontanea e viva, e forse viva perché spontanea, fu l’aiuto alle famiglie, oltre il sussidio che lo Stato forniva; la cura ai bambini dei richiamati, che andava dalla semplice offerta di buoni per il latte all’istituzione di asili e nidi; il collocamento degli orfani abbandonati. Inoltre, la ricerca di lavoro per le donne, a domicilio o in laboratori che subito, qua e là, nei centri maggiori del Nord, cominciarono a sorgere; l’assistenza ai feriti e agli infermi negli ospedali; l’istituzione di posti di ristoro alle stazioni, per i soldati in partenza o in arrivo o di passaggio. Spesso, anche pratiche per la legalizzazione delle unioni illegittime - materia che un Decreto Luogotenenziale del 24 giugno 1915 cercò di regolare - dando ai militari, durante la guerra, facoltà di sposare per procura (78). Ma vi erano lentezze burocratiche, specie della burocrazia militare che, quando ci si mette, non si lascia indietro l’altra. E solo più tardi, si semplificherà e accelererà. In qualche zona di rigogliosa vita agricola, anche Comitati di assistenza agraria, come fu nel Cremonese, in seguito ad una riunione di agricoltori promossa, ai primi di giugno. E si stabilì di mettere a disposizione dei Comuni della provincia, a prezzo equo, i cereali bastevoli per l’annata. A Bologna sorse un Ufficio Notizie, per le famiglie dei soldati. E ben presto, esso assunse proporzioni portentose. Dal centro si irradiarono una miriade di sezioni e sottosezioni e gruppi in tutta Italia, fino ai più remoti (78) Decreto Luogotenenziale del 14 ottobre 1915, n. 1496, pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale», n. 258 del 20 ottobre 1915, in base al quale, se il militare ha già rilasciato il mandato, ma muore prima che questo abbia esecuzione, i figli potranno essere legittimati, con effetto dal dì che il mandato fu fatto. Ciò, agli effetti della successione e della pensione. In questo caso, il ministro della Guerra rinunciava anche al suo diritto di assenso.

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villaggi. La sezione di Roma ebbe anche un Ufficio informazione per i marinai. Era da poco scoppiata la guerra, e già diecine e diecine di migliaia di lettere giungevano o partivano ogni mese solo da Bologna. Da tutte le sezioni del Regno, dall’estero, dai combattenti, dai privati. direttamente, si chiedevano al centro notizie; e dal centro si davano le risposte. A organizzazione compiuta (e fu dopo pochi mesi!), si contano 15.000 impiegati volontari: quasi tutti donne, anche nei più alti posti direttivi. La contessa Lina Cavazza, donna di energia e d’intelligenza singolari, presiede l’Ufficio centrale. Nei suoi scaffali, si accumula un materiale enorme, che è prezioso indice dello stato d’animo del Paese (79). Non meno delle nuove, agirono le istituzioni preesistenti. I tempi urgono e anche chi sonnecchia si sveglia. Migliaia di nuovi soci iscrive la Croce Rossa, che vede giunta la sua ora. L’Ordine di Malta esce fuori dalla penombra in cui viveva o vegetava, vince il sospetto in cui era tenuto per la forte prevalenza che vi avevano alti signori austriaci, recluta nuovo personale, organizza treniospedali, gareggia con la Croce Rossa. L’Unione femminile italiana, che aveva sede a Milano e sezioni in molte città, la Dante Alighieri, la Lega Navale, i gruppi dei Giovani esploratori, il Club Alpino Italiano, il Touring Club Italiano, le amministrazioni ospitaliere ecc., tutti si muovono in vario modo. E anche grandi aziende industriali e Banche prendono provvedimenti per il loro personale sotto le armi e per le famiglie. Ad alimentare tante opere, (79) Sul punto, L. Gaudenzi, La Grande guerra e il fronte interno attraverso le carte dell’Ufficio per notizie alle famiglie dei militari di terra, in «Storia e Futuro», 47, giugno 2018 - http://storiaefuturo.eu/la-grande-guerra-e-il-fronte-internoattraverso-le-carte-dellufficio-per-notizie-alle-famiglie-dei-militari-di-terra-e-dimare/. Nota dei Curatori.

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il Governo e le pubbliche amministrazioni stanziano contributi, i giornali aprono sottoscrizioni, si costituiscono piccoli e grandi centri di raccolta di oggetti, indumenti, cibarie, libri, cascami di lana ecc. In diversa misura, tutte le regioni e provincie e città si mettono al lavoro. Vi sono cittadinanze alacri e altre accidiose, amministrazioni municipali che subito capeggiano le iniziative locali e altre che a fatica si smuovono, o per insufficienza di uomini o per pregiudiziali antibelliche. A Milano, sempre primissima, la sottoscrizione promossa dal Comitato per la raccolta dei fondi si apre il 7 giugno con 1.600.000 di lire e, a tutto luglio, ha quasi sei milioni. I socialisti, come si erano divisi pro e contra la guerra, così ora si dividono nell’atteggiamento da prendere di fronte al fatto compiuto e alle provvidenze che potevano alleviarne i dolori, affrettarne il termine, agevolare la vittoria. Vi è chi non rifiuta di partecipare a opere di assistenza e chi rifiuta. Né mancano polemiche nel partito e tra i suoi uomini, a tal proposito. Ma buone volontà e buone opere ce n’è, poco o molto, da per tutto, già in questa primissima fase della guerra. Da principio, anzi, molteplicità, frazionamento, polverizzazione di iniziative. Nessuna intesa vi fu, anche per lavoro eguale: non fra città e città, non dentro la stessa città. In qualche luogo, fino a venti o trenta Comitati. E fu subito sentito il bisogno di qualche organo coordinatore che disciplinasse e accrescesse il rendimento degli sforzi del Paese. Così a Firenze, dove, per coordinare i trentadue Comitati locali, sorse l’Unione delle Previdenze, poi Federazione di Orsanmichele. Specialmente si sentì questo bisogno per quanto riguardava non esigenze particolari e locali ma generali, come potevano esser quelle per l’esercito combattente, del quale si voleva alleviare lo sforzo, soddisfacendo i mille piccoli bisogni della vita di trincea. – 242 –


Tanto più necessaria questa disciplina, dall’alto, in quanto maturavano rapidamente, ogni giorno, nuove ragioni e forme di assistenza pubblica, e poiché, dall’estate, già è grande il numero degli orfani. Ed ecco, il 12 agosto, a Roma, s’istituisce l’Istituto Nazionale per gli orfani di guerra. Si moltiplica, intanto, il numero dei mutilati che sono parzialmente o totalmente inabili. E bisogna ricoverarli, rieducarli al lavoro, provvederli dei necessari arti. Si popolano in Austria i campi dei nostri prigionieri, lugubri città, donde i prigionieri torneranno, quelli che torneranno, con ricordi spesso orrendi di sofferenze patite: sofferenze inevitabili, specialmente in un Paese che cominciava a scarseggiare per sé di molte cose; eppure evitabili e ed evitate altrove, come in Italia, agli altri prigionieri (80). Nel giugno, si costituisce, d’accordo col Ministero della guerra, la Commissione dei prigionieri di guerra della Croce Rossa. Suo primissimo compito, appena un combattente era dichiarato prigioniero o disperso, era chiedere in Austria notizie. E poi, anche, occuparsi dei confinati italiani in Austria, dei confinati austriaci in Italia, della trasmissione in Austria di notizie sui prigionieri nemici che si trovavano fra noi ecc., integrando, in quest’ultimo compito, la Commissione militare dei prigionieri di guerra che presiedeva da Roma a questo importante servizio interno. Quella Commissione dei prigionieri di guerra della Croce Rossa ha un ufficio per i prigionieri italiani in Austria e uno per i prigionieri austriaci in Italia; uno per ì confinati austriaci e uno per i confinati italiani. Nel settembre(80) Ridimensiona il numero degli internati italiani morti in prigionia, nei territorio della Duplice Monarchia, il saggio di A. Fornasin, Quanti soldati italiani morirono in prigionia nella Prima guerra mondiale, in «Contemporanea», 21, 2018, 2, pp. 223-240. Nota dei Curatori.

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ottobre 1915, già grande è il suo lavoro. Ogni giorno, vi giungono 7-8000 lettere, che chiedono informazioni. Solerte Presidente fu l’onorevole Emilio Maraini, finanziere e grande industriale dello zucchero (81). L’avanzarsi della stagione, la neve e il freddo nell’alta montagna già sensibile in agosto e settembre, il freddo e le piogge del Carso impongono altre opere: lana, lana, lana, agli alpini che svernano a 3000 metri, ai fanti che annegano sotto l’acqua e nel fango dell’Isonzo, ai marinai che battono in crociera l’Adriatico. E il Paese risponde anche a questo, come risponde alla richiesta di scaldaranci, mandati a milioni, all’invito pel dono natalizio e, in genere, pei doni ai combattenti. Alcuni comitati privati ne fecero larghi invii fin dall’estate ‘15, specialmente da Genova, ove sono il Comitato per i combattenti, con l’Ufficio doni, presieduto dal marchese, Giacomo Antonio Reggio (82), la Federazione (81) Emilio Maraini, nato a Lugano, il 27 novembre 1853, fu il fondatore dell’industria saccarifera italiana. Dopo aver svolto attività commerciale in Svizzera e in Olanda, si trasferì in Italia ove rilevò due fabbriche di zucchero da barbabietola a Rieti e a Savigliano e creò, infine, i grandi stabilimenti di Legnago e Bazzano. Nel 1898 costituì la Società italiana per l’Industria degli Zuccheri e nel 1904 la Società Unione Zuccheri. Ottenuta la cittadinanza italiana, s’impegnò attivamente nella via politica e sociale. Divenne vicepresidente della Croce Rossa, Consigliere comunale di Rieti e nel 1900 fu eletto alla Camera dei deputati rimanendovi fino al 1916, anno della sua morte. Nota dei Curatori. (82) Giacomo Antonio Reggio nacque, il 5 luglio 1858, a Oneglia. Laurea­ tosi in ingegneria a presso il Politecnico di Torino, fu Consigliere comunale a Genova, Vicepresidente ligure del Collegio degli Ingegneri e dell’Associazione elettrotecnica, fu delegato municipale del Consorzio autonomo del Porto e Presidente del Consiglio direttivo della Scuola navale superiore. Due volte deputato, nel 1904 e nel 1913, fu anche due volte Sottosegretario al Ministero dei Trasporti. Nominato senatore a vita nel 1920, venne dichiarato decaduto dall’Alta Corte di Giustizia per le Sanzioni contro il Fascismo con sentenza del 31 luglio 1945. Nota dei Curatori.

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armatori liberi, la Pro patria, l’Associazione stabile per il soldato, presieduta dal senatore Edoardo Maragliano (83). Questa materia dei doni, anzi, deve essere subito regolata, per ovviare all’inconveniente dei troppi borghesi che chiedevano entrare con i loro fardelli e la loro curiosità in zona d’operazione. E una circolare del Ministro della guerra, 17 settembre 1915, stabilì che i doni dovessero, sin dall’origine, essere consegnati agli organi militari. L’Intendenza generale e le Intendenze d’Armata, cioè i loro rispettivi Uffici doni, avrebbero curato la ripartizione. Di questi Uffici, sorse primo quello della Seconda Armata, distesa da Gorizia alla Carnia, dovuto a privata iniziativa del ricchissimo assicuratore, Evan Mackenzie di Genova, fatta propria e attuata dall’autorità militare. Armatori e Consorzio portuale fornirono i mezzi per l’impianto (84). L’idea si diffuse; e sorsero altri (83) Edoardo Maragliano nacque il 1° giugno 1849 a Genova dove si iscrisse alla Facoltà di Medicina e Chirurgia. Trasferitosi dal terzo anno del corso nell’Università di Napoli, si formò alla scuola clinica di grandi maestri, quali Cantani e Tommasi, e si laureò nel 1870. Nel 1875 conseguì la libera docenza e fu ammesso al concorso per la cattedra di clinica medica dell’Università di Cagliari. Nel biennio 1878-79 gli fu affidato l’incarico dell’insegnamento di Patologia generale dall’Università di Genova; e nel 1880 l’ateneo cagliaritano lo chiamò a insegnare come Professore straordinario Clinica medica generale e Patologia speciale medica. Dopo un solo anno fece però ritorno a Genova, chiamatovi a dirigere come Professore ordinario la cattedra e l’istituto di Clinica medica generale e a ricoprire l’insegnamento di Patologia speciale medica dimostrativa. Nel corso del primo conflitto mondiale, prestò servizio in zona di guerra come Maggiore generale medico, con la direzione dell’Università castrense di Padova e con l’organizzazione dei Centri militari di accertamento della tubercolosi. Centri che, essendo il Maragliano favorevole all’esonero dal servizio dei numerosi portatori di tale patologia presenti nell’esercito, egli riteneva di vitale importanza. Nota dei Curatori. (84) La funzione dei doni privati all’esercito e il servizio istituito presso le intendenze d’Armata, con speciale riferimento all’Ufficio doni dell’Armata Seconda, a cura del Regio Esercito Italiano - Ufficio Doni della II Armata, Udine, Tipografia

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tre Uffici, presso altre Armate, per opera dell’Intendenza generale dell’esercito. Lungo era il tragitto, dalle mani dei volenterosi cittadini alle trincee del medio Isonzo. E quanti smarrimenti e deviazioni e manomissioni! Il fante spesso ironizzava su questi doni, da paragonare un poco all’araba fenice. Ma, pure, molto giunse. E col dono, la lettera augurale dell’ignoto donatore, il saluto del bimbo lontano, la parola materna e rasserenante della donna che aveva vegliato su quelle grosse calze, su le soffici maglie. Era come un legame fra soldati e civili. Ed esso fu specialmente creato e mantenuto dalle donne. 4. – Insieme a questa assistenza più propriamente materiale, un’altra si svolgeva, per vie dirette, agli animi dei cittadini e dei soldati. Per i cittadini, si costituì subito, allo scoppio della guerra, l’Unione Generale degli Insegnanti italiani, che ai primi di giugno redasse e spedì alle sezioni, sempre più numerose, il suo programma: Per la guerra nazionale. Si cominciò anche a fare larga incetta di libri. A Sassari, una vera «mobilitazione libraria». Si curarono anche nuove edizioni ad hoc di vecchi libri, si redassero e stamparono libri e opuscoli nuovi. Attività editoriale vera e proD. Del Bianco, 1916. Evan Mackenzie, figlio di un nobile scozzese trapiantatosi a Firenze, negli anni settanta dell’Ottocento si trasferì a Genova dove aprì un’agenzia di assicurazioni che rappresentava alcune importanti compagnie francesi, inglesi e austriache. Nel 1898, approfittando degli investimenti tedeschi legati allo stringersi dei rapporti economici scaturiti dalla Triplice Alleanza, Mackenzie fondò l’Alleanza Assicurazioni, di cui erano soci anche una compagnia di Monaco di Baviera, la Nationalbank für Deutschland e la banca privata Manzi e C. di Roma. La compagnia aveva un capitale versato di un milione e mezzo di lire e operava in tutti campi assicurativi. Era la seconda più importante compagnia assicurativa operante a Genova. Sul punto, G. Doria, Investimenti e sviluppo economico a Genova alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, Milano, Giuffré, 1969-1973, 2 voll., II, pp. 279-280. Nota dei Curatori.

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pria, rivolta a sfruttare il nuovo e largo interesse per ogni sorte di problemi connessi con la guerra, e attività di propaganda e di assistenza si fusero insieme (85). Non pochi fondi di magazzino, non poca roba inutile, e per chi la possedeva e per chi doveva servirsene, affluì. Non poco ciarpame uscì dalle tipografie ed entrò in circolazione. Non era facile impresa, fra noi, raccogliere o dettare libri per il popolo: non ne esistevano o quasi; e mancava l’intimo affiatamento fra lettori e scrittori, cioè fra classi diverse di persone. Ma grandi rivoli di carta stampata, buona e cattiva, si misero in movimento dai centri di raccolta verso gli ospedali, verso le unità militari, verso le trincee. Ciò che già in piccola misura si faceva prima della guerra, ciò che era cominciato durante la neutralità, si fece ora con maggior lena. Sorsero collezioni e bibliotechine, come la «Bibliotechina illustrata Bemporad per la gioventù, per i soldati, per il popolo», che illustrarono le nostre finanze, l’igiene del soldato, la funzione della donna in tempo di guerra o le vicende del Trentino e della Dalmazia e dell’Istria, le nostre forze militari e il tenore di vita del popolo durante la guerra (86).

(85) L’Unione Generale degli Insegnanti italiani (UGII), sorta nella primavera del 1915 con un programma di «preparazione civile alla guerra», si era sviluppata, nel 1916, fino a raccogliere oltre seimila sezioni in tutto il Paese, divenendo una delle più efficienti e attive organizzazioni di propaganda bellica. Sul punto, A. Fava, Mobilitazione patriottica, assistenza all’infanzia, educazione nazionale nella scuola elementare dell’Italia in guerra (1915-1918), in Un Paese in guerra. La mobilitazione civile in Italia (1914-1918), a cura di D. Menozzi, G. Procacci, S. Soldani, Milano, Unicopli, 2010, pp. 147-182. Nota dei Curatori. (86) L’opera d’italianità della Casa Bemporad & F., di Firenze per la giusta guerra, Firenze, Spinelli & C., 1917. Sul punto, in generale, P. Boero - C. De Luca, La letteratura per l’infanzia, Roma-Bari, Laterza, 2008, al capitolo V. Nota dei Curatori.

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Anche per la propaganda religiosa, vi fu chi mise subito al lavoro. Il momento era propizio. Non mancò un Comitato per l’assistenza religiosa dei soldati. Si moltiplicarono le piccole pubblicazioni: opuscoli, calendari, biografie di caduti, cose nuove e ristampa di cose vecchie, come il Salterio del soldato, del padre Tosti, e quel Salmo che lo stesso Tosti scrisse nel ’48: «In quest’ora», dice l’editore, «in cui è dato vedere di che frutti è feconda l’unione di religione e patria ed è dato sperare in un’Italia più cristiana, la preghiera scritta per i soldati da un uomo come l’abate Tosti, che la patria ha amato con amore puro e che la religione ha servito con, quella, fedeltà di sacerdote che conduce al sacrificio, tornerà certamente grata e utile ai nostri soldati, ai quali è dedicato questo volumetto» (87). Un po’ era proselitismo religioso: un po’, mescolata a esso, propaganda patriottica. Vaghi dubbi ondeggiavamo per l’aria, domande con incerta risposta si facevano i credenti di più delicata coscienza! Può il cristiano essere soldato? Può esserne uccisore? E la guerra non è in contrasto con una religione che vuol amore e fratellanza? Si cercava chiarire questi dubbi, rispondere a queste domande, perché la fede non apparisse in contrasto con (87) L. Tosti, Il salterio del soldato, Milano, Edizione di “Vita e Pensiero”, 1915, (ma 1916). Vedi anche G. Genocchi, Piccola vita di Gesù per i soldati, illustrata con trentanove riproduzioni dei capolavori della pittura italiana, Roma, Desclé, 1916 (prefazione 1° ottobre 1915). Luigi Tosti, monaco benedettino e abate di Monte Cassino, esponente del neoguelfismo, ebbe un ruolo di primo piano nell’ambito della storiografia cattolico-liberale del XIX secolo, e fu coinvolto nei moti del 1848, sostenendo le idee di Vincenzo Gioberti e contribuendo a rilanciarle con il volume sulla Storia della Lega lombarda, dedicato a Pio IX, che si configurava come un invito rivolto a tutti i cattolici a partecipare alla costruzione dell’organismo politico unitario. Su Tosti, A. Forni, Lo storico delle tempeste: pensiero e azione in Luigi Tosti, Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 1997. Nota dei Curatori.

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l’azione pratica e l’azione pratica con la fede; perché fra guerra e cristianesimo scomparisse ogni antitesi. Problemi come questi si agitavano, sebbene senza grande interesse del pubblico, anche dagli studiosi, cattolici o protestanti o filo-protestanti che fossero, e davano luogo a schermaglie polemiche sulle loro riviste (88). Ma gli elementi spiccioli della discussione si cercò anche farli penetrare e circolare fra i combattenti. In generale, la guerra diede occasione e incitamento a una varia e intensa propaganda religiosa, fatta col libro, con l’opuscolo, con la parola, con le opere. Così dappertutto. Un po’ si riaffacciavano, si facevano vivi nelle coscienze i problemi centrali, quelli della vita civile e, ancor più, quelli della vita religiosa; un po’ le varie confessioni e Chiese si lanciarono anch’esse alla battaglia, per la difesa e la conquista, per la conservazione o l’espansione. In Italia, naturalmente, la propaganda fu più che altro cattolica. E non poco ne furono contrariati anticlericali e massoni che protestarono contro le suore negli ospedali, contro i preti addetti in gran numero ai servizi di assistenza. Rinfacciavano a essi disfattismo o, quanto meno, pacifismo, cioè pensieri, sentimenti, pratiche male appropriati a tener alto lo spirito di guerra. E vi fu chi riesumò Machiavelli e il suo giudizio sull’azione mortificante ed emolliente del cristianesimo. Non mancò, però, anche propaganda protestante. Veniva da qualche tempo crescendo lo sforzo di penetrazione delle Chiese evangeliche presso il popolo. L’emigrazione aveva creato qualche piccolo focolare protestante anche nelle campagne. Pel terremoto della Marsica, le supreme gerarchie protestanti in Italia offersero (88) Si possono consultare la rivista «Bilychnis» di Roma, filo-protestante, e la cattolica «Vita e Pensiero» di Milano.

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ospitalità in Roma a molti orfani che il Patronato Regina Elena non era riuscito a sistemare. Si ebbero un rifiuto: e fu accettato invece il soccorso della Gioventù Cattolica Italiana, presieduta da Paolo Pericoli dal 1900 al 1922 (89). Ma ora la guerra viene eccitando il proselitismo anglo-sassone: per il momento, quasi solo inglese; fra poco, anche americano. Si stampano e distribuiscono, già nei primi mesi di guerra, opuscoletti contenenti un Vangelo, l’epistola di Paolo ai Romani, «porzioni (!) scelte della parola di Dio», cioè brani di salmi o d’altra sacra scrittura ecc. Italiana, più o meno, la lingua; ma stampati, gli opuscoli, in Inghilterra, dalla Scripture Gift Mission o dal S.G.M. Publishing Office di Londra (90). Non solo in Italia, questa varia assistenza di guerra agli Italiani. Ma le piccole Italie disperse per il mondo videro tutte, più o menò, opere di tal fatta. Generalmente, cominciarono a funzionare, dietro invito del Console o di libera iniziativa della colonia, per agevolar la partenza dei richiamati, soli essi o anche le loro famiglie, fornirli di abiti, fare le spese del viaggio sino alla frontiera o ai porti d’imbarco, dar loro vitto e alloggio in attesa della partenza ecc. Così fu nei maggiori centri dell’emigrazione d’America. Cito l’esempio di S. Francesco, provincia di Cordova, dove, presso la «Società Venti Settembre» e «Lavoro», si costituì, per acclamazione, un Comitato «pro guerra» per i riservisti avvia(89) Su di lui, F. Piva, Uccidere senza odio. Pedagogia di guerra nella storia della Gioventù cattolica italiana (1868-1943), Milano, Franco Angeli, 2015, pp. 32- 37. Nota dei Curatori. (90) La Scripture Gift Mission (SGM) fu fondata nel 1888 dall’editore William Walters, con il programma di rendere accessibile la Bibbia e altri testi sacri, rendendoli disponibili gratuitamente. L’SGM produsse materiali biblici per le truppe nella guerra dei Boeri nel 1899, e da quel momento la fornitura di testi religiosi destinati ai militari divenne una parte importante del lavoro dell’organizzazione, in particolare durante le due guerre mondiali. Nota dei Curatori.

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ti a Buenos Aires. E una relazione di quel Comitato del 30 aprile 1916 concludeva: «Così il nostro comitato li ha seguiti, li ha accompagnati, li ha protetti amorosamente fino alla terra patria». Poi, l’aiuto ai partenti diventò l’aiuto ai rimasti: assistenza alle famiglie, provvedimenti per i disoccupati, stampa e distribuzione di opuscoli, le consuete ricorrenze patriottiche italiane festeggiate con maggior solennità, conferenze e cinematografie su la guerra ecc. E più d’uno ne ebbe la spinta ad arruolarsi (91). Poi vennero anche doni ai combattenti sul fronte italiano, indumenti di lana lavorati dalle signore, offerti alla Croce Rossa di Roma ecc. Il «Comitato delle Dame italiane pro guerra», di Valparaíso, formatosi nel luglio 1915, mandò il 27 ottobre 10.000 lire al governo italiano per gli orfani di guerra, che poi l’onorevole Boselli destinerà all’Opera nazionale per i figli dei contadini caduti. Molto fecero anche i Comitati e le sezioni locali della Dante Alighieri. Forse nessuna città, specialmente dell’America latina, rimase del tutto estranea a quest’opera: San Paolo del Brasile, la colonia di Bolivia, Valparaíso, Buenos Aires, ecc. Lo stesso discorso valga per i centri di emigrazione italiana nei Paesi neutrali e amici d’Europa: per Londra o Parigi, per Marsiglia o Barcellona o Zurigo. Da Londra, il Comitato «Pro Italia», mandò, entro il 1915, 37.000 indumenti di lana: oltre sussidi alla Croce Rossa e alle famiglie di lì. In Svizzera, dove erano circa 200.000 Italiani, le Società di beneficienza chiesero al nostro Ministero degli Esteri che permettesse esportazione di generi alimentari. E così fu istituito un Consorzio Cooperativo italiano con un credito di 100.000 franchi, per approvvigionare le famiglie indigenti, spe(91) Testimonianza raccolta dalla signora prof. Rinaldi, infermiera in un ospedale militare a Forlì.

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cialmente dei richiamati (92). Non sempre sani furono i nostri ambienti coloniali, d’Europa e d’America e del Nord Africa? Forse. Personalità e regionalismi e campanilismi ne ledevano la compagine e ne immiserivano lo spirito. Molta gente, ormai, si era estraniata alla patria di origine. Nessun dubbio, però, che la guerra portasse qualche alimento nuovo alla vita morale delle colonie.

(92) Traggo queste notizie sulle colonie d’Europa e d’America – e altre se ne potrebbero raccogliere - da rendiconti e relazioni, di solito anonimi, che si trovano nella Biblioteca dell’Istituto di storia del Risorgimento italiano, Roma. Si veda anche Gli Italiani di Valparaíso per la guerra. Corrispondenza da Torino, in «Giornale d’Italia», 12 ottobre 1915. Molti dati sono anche nel «Bollettino della Società Dante Alighieri» di quel tempo.

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Da Salandra a Boselli 1. - Il 18 giugno 1916, finalmente, si ebbe il nuovo Ministero Boselli, reso pubblico il 19 seguente. Fra i ministri scomparsi, senza che nessuno ne prendesse il posto, vi era Salvatore Barzilai, che nel ministero Salandra rappresentava, non l’interventismo di sinistra, ma l’Italia da redimere (93). E vi fu qualche delusione fra gli irredenti profughi in Italia, qualche allegrezza in Austria, come che nella vicenda parlamentare di un uomo potesse rispecchiarsi un programma. Delusione e allegrezza che Barzilai volle dissipare con una lettera pubblica al Comitato Centrale dei profughi irre(93) Salvatore Barzilai nacque a Trieste il 5 luglio 1860. Ancora studente liceale fu processato perché in possesso di materiale di propaganda irredentista. Trasferitosi a Bologna, fondò «L’eco del popolo», che veniva diffuso a Trieste. Entrato nella Camera dei deputati nel 1890, dal 1906 al novembre 1914, dedicò gran parte della sua attività politica a denunciare la permanenza dell’Italia, in seno alla Triplice Alleanza, in una serie d’interventi parlamentari e di scritti polemici poi raccolti nel volume Dalla Triplice Alleanza al Conflitto Europeo, Roma, Tipografia Editrice Nazionale, 1914. Dopo l’agosto 1914, le sue posizioni apparvero ispirate dalla convinzione che il perdurare della non belligeranza verso gli Imperi centrali fosse un «criminoso errore politico». Entrata l’Italia nel conflitto, partecipò al gabinetto Salandra, come ministro senza portafoglio, e fu posto a capo della Commissione consultiva per le regioni adriatica e atesina. Propugnatore del cosiddetto «imperialismo democratico», in seguito sviluppato da Bissolati sotto forma di una massiccia penetrazione commerciale nei mercati balcanici e orientali, che intendeva contrapporsi al classico imperialismo colonialista, alla conclusione delle ostilità, fu nominato membro della delegazione italiana a Versailles. In quel ruolo, condivise l’impostazione di Sonnino che prevedeva il rispetto delle clausole del Patto di Londra, l’annessione di Fiume e la rinunzia all’interno della Dalmazia, eccetto Zara e Sebenico, premendo, in caso di opposizione degli Alleati, per l’abbandono della conferenza. Su di lui, R. Colapietra, Dizionario Biografico degli Italiani, 7/1970 - http://www.treccani. it/enciclopedia/salvatore-barzilai_(Dizionario-Biografico)/. Nota dei Curatori.

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denti, con sede a Roma, il 17 giugno: nulla è mutato, nulla muterà nella politica dell’Italia verso l’Austria. Anzi, il contrario. Una volta, noi irredenti eravamo soli e combattevamo l’Austria, oggi sono con noi tutti gli Italiani. Poteva aggiungere: oggi alla testa del governo c’è il presidente della Dante Alighieri, l’uomo che rappresenta ai massimo grado, fra i liberali italiani, le aspirazioni irredentiste, Paolo Boselli (94). In cambio, si crearono altri dicasteri nuovi, altri ministri nuovi o quasi ministri, oltre a quelli che sostituivano gli uscenti. S’istituì il dicastero dell’Industria, Commercio e Lavoro (Giuseppe de Nava), staccato dell’Agricoltura; e quello dei Trasporti marittimi e ferroviari (Enrico Arlotta) si fece di Ubaldo Comandini, di Vittorio Scialoja, di Leonardo Bianchi altrettanti ministri senza portafoglio agli scopi dell’assistenza, della propaganda interna, della propaganda all’estero; si escogitò un Ufficio di Commissario (94) Ministro dell’Agricoltura nel terzo governo Crispi nel 1893, Boselli fu poi ministro delle Finanze dal 14 giugno 1894. Come titolare del portafoglio finanziario, approntò il regolamento definitivo per la neonata Banca d’Italia, nata dopo lo scandalo della Banca Romana che aveva portato alla fine del ministero Giolitti. Dopo la caduta dell’esecutivo Crispi in seguito alla battaglia di Adua, ritornò deputato, e fu chiamato a occupare il dicastero del Tesoro nel gabinetto Pelloux nel 1899. Interventista allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, nel 1916, caduto il governo Salandra a causa dell’insoddisfazione generale suscitata dagli scarsi risultati ottenuti dalle sanguinose offensive italiane, e dalla crisi del fronte trentino investito Strafexpedition austriaca, Boselli fu nominato Presidente del Consiglio dei ministri, rimanendo in carica dal 18 giugno 1916 al 30 ottobre 1917, guidando un esecutivo di «coalizione nazionale», dal quale però rimasero esclusi i socialisti. Boselli fu contrario all’intromissione parlamentare sulla conduzione della guerra, concordando pienamente, su questo punto, con le opinioni di Cadorna, di cui approvò la visione strategica del generale e i suoi metodi tattici. Dopo Caporetto, presentò le dimissioni dall’incarico e fu sostituito da Vittorio Emanuele Orlando. Su di lui, R. Romanelli, Dizionario Biografico degli Italiani, 13/1971 - http://www.treccani.it/enciclopedia/ paolo-boselli_(Dizionario-Biografico)/. Nota dei Curatori.

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politico per i servizi di guerra, e vi fu chiamato Leonida Bissolati. Insomma, un Ministero slabbrato e proprio per questo numerosissimo: diciannove ministri, con o senza portafogli Troppi! si disse da molte parti. Troppe cupidigie si sono volute appagare! Il Governo era non da allargare ma da restringere, si aggiunse. Cavour, ricordò qualcuno, nel 1859, raccolse in una sola mano, la sua, molti dicasteri... E poi Ministero quanto mai vario: anche giolittiani (Paolo Carcano), anche repubblicani (Ubaldo Comandini di Cesena, che per giunta era di quelli passati con qualche fatica all’interventismo, cioè alla collaborazione con la Monarchia per la guerra), anche socialisti riformisti (Bissolati e Bonomi) (95), anche cattolici (Filippo Meda, milanese), cioè anche quelli la cui partecipazione al potere, pur lentamente (95) Ivanoe Bonomi, eletto deputato nelle file socialiste, ne fu espulso nel 1912, per il suo appoggio alla guerra di Libia. In realtà, il vero motivo dell’espulsione furono le felicitazioni di Bonomi, Bissolati e Angiolo Cabrini a Vittorio Emanuele III per lo scampato attentato del 14 gennaio 1912. Assieme a Bissolati e altri dissenzienti del Partito Socialista Italiano, Bonomi fu tra i fondatori del Partito Socialista Riformista Italiano (PSRI), che, da quel momento, appoggiò i governi giolittiani. Durante il conflitto si schierò nei ranghi dell’interventismo democratico, coerentemente con la posizione assunta dal PSRI che dal dicembre 1915 conferì sostegno parlamentare al governo Salandra. Nel giugno 1916 fu chiamato da Boselli al ministero dei Lavori Pubblici. La collaborazione dei socialisti riformisti al «Ministero Nazionale» superò la crisi del giugno 1917, quando Bissolati e Bonomi diedero le dimissioni (poi ritirate), formalmente per protestare contro le iniziative personali di Sonnino sull’Albania, ma in realtà per gravi dissensi sull’indirizzo di politica interna del governo, e si prolungò nel gabinetto Orlando. Alle dimissioni di Bissolati (28 dicembre 1918), motivate dai contrasti sugli indirizzi della politica estera assunti dal governo, dopo la vittoria, il Bonomi - che era rimasto escluso dal gabinetto alla sua formazione - vi entrò, ancora una volta, come ministro dei Lavori Pubblici. Su di lui, L. Cortesi, Dizionario Biografico degli Italiani, 13/1971 - http://www.treccani. it/enciclopedia/ivanoe-bonomi_%28Dizionario-Biografico%29/. Nota dei Curatori.

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maturata, era, da anni e decenni, materia di viva polemica o di accademica discussione. Boselli, poi, avrebbe chiamato anche socialisti, poco poco che la loro opposizione alla guerra si fosse attenuata. Ma ciò non fu. E così, il nuovo Ministero poté apparire come governo della borghesia, più precisamente, della borghesia democratica nelle sue varie frazioni, quella che aveva voluto la guerra. Solidarietà di classe, di sotto le varie ideologie, commentò «La Confederazione», organo dei lavoratori organizzati, cioè della Confederazione del Lavoro, assai legata al Partito socialista. Fatto nuovo, aggiunse. Indica che vi sono problemi capaci di non separare nettamente la classe lavoratrice dalle varie gradazioni della borghesia, soprattutto da quella socialisteggiante. Un gran progresso politico si è compiuto nel Paese! Logico e naturale che questa varia borghesia democratica, ora abbia rovescialo il ministero Salandra che credeva poter far del Governo un monopolio del partito conservatore. Ma egualmente logico e naturale che la classe lavoratrice e organizzata sia contro questo nuovo Governo come già per contro il vecchio. Oggi la questione che divide è la guerra. Domani? Composto in tal modo, il ministero Boselli si poteva anche chiamare il «Ministero Nazionale», quel Ministero che si era composto in Francia al principio della guerra, quasi Comitato di Salute Pubblica, e che da tempo e da varie parti si era invocato in Italia, o per spirito scimmiesco o per intima convinzione che vis unita fortior. E «nazionale» lo fu, veramente, ma solo nel senso che riconosceva il diritto al governo dell’Italia in guerra a quanti avevano promosso la guerra, chiamava alla responsabilità del governo quanti si erano assunta la responsabilità dell’intervento e offriva possibilità di farsi valere a tutti i partiti e gruppi del variopinto interventismo. Il che era, a dire il vero, un’attuazione – 256 –


piuttosto meccanica o aritmetica del concetto di Governo nazionale. Il quale, per conseguenza, scontentò e suscitò critiche anche nel mondo interventista, anzi proprio fra i più accesi interventisti: come quelli del «Popolo d’Italia», nei quali era un’altra e, per lo meno in abbozzo, più organica concezione del governo di una Nazione in guerra. Questa è «la scala dei colori e la rosa del venti», come suonava il titolo di un articolo del giornale. Per concordia nazionale si voleva la raccolta delle energie miranti a intensificare la guerra, a fondere gli sforzi della democrazia italiana con la democrazia degli altri Paesi dell’Intesa, a salvare il Paese dal mercimonio e dal compromesso; non l’amalgama, l’ibrido connubio, la mistura degli elementi repugnanti e legati a un apparente consenso. Questo no, no, no! Specialmente contro giolittiani e cattolici era il giornale. Che cosa farne di questi uomini che hanno pencolato o sono così legati al passato o debbono prendere ordini da un altro Stato, come il Vaticano, che è dentro o contro lo Stato italiano? Come potrà, con tali impacci, portar i suoi frutti, la grande fede e la grande energia di Leonida Bissolati? E gettavano un grido di allarme e una parola d’ordine: «Interventisti italiani, i traditori del 1915 tornano in iscena. Sgominiamoli!» Insomma, quasi nuova invocazione ad una minoranza audace che scendesse in piazza, ad un nuovo «maggio radioso». Anche lo spirito caustico e demolitore di Claudio Treves si esercitò sul Ministero Nazionale. Egli tendeva a starsene piuttosto alla finestra, in quei giorni che furono del più vecchio e logoro stile parlamentaristico. Eppure, non si può dire che vedesse e giudicasse male quel che avveniva nelle piazzette e nei chiassuoli sottostanti. Che cosa è questa «eresia costituzionale», implicita nel nuovo Ministero, per cui non si considerano nazionali i Gabinetti – 257 –


di partito? E l’altra eresia, che si debba obbedienza, adesione di opere soltanto ai Ministeri ai quali noi partecipiamo? Curiosa idea della coscienza nazionale! Come riusciremo poi a essere concordi, per il fatto di essere, in un Ministero, uomini così diversi come questi? «Per volere rappresentare l’unanimità degli intenti, esso rappresenta la confusione delle idee e dei principi». Non c’è pericolo che, per volere creare la cosiddetta concordia nel Parlamento, corpo consultivo, si trasferisca la discordia nel Gabinetto, corpo esecutivo, che deve avere compattezza e unità d’indirizzo, con danno di quella stessa intensificazione dello sforzo di guerra, che voi proponete? (96) 2. - E tuttavia, larga soddisfazione, plausi, tripudio: che furono anzi, la nota dominante, tra gli interventisti della democrazia e del social-riformismo e del bonario e accomodante liberalismo, tutti rappresentati nel nuovo Ministero. E anche qui non ci si riscaldò per il «Ministero Nazionale». Si pensò e si disse: dopotutto, un Ministero vale per gli uomini che lo compongono, anzi per quegli uomini che gli danno l’impronta. E qui vi è Boselli, uomo di lunga esperienza e di specchiato patriottismo. Vi è Francesco Ruffini, uomo di dottrina e di sincerità e rettitudine impareggiabili, caldo di spiriti intesisti (97). (96) C. Treves, Il Ministero nazionale. Discorso del 29 giugno 1916 alla Camera, in Id., Come ho veduto la guerra, Milano, Edizioni della “Rassegna Internazionale”, 1925, pp. 69-92. Nota dei Curatori. (97) Francesco Ruffini, docente di Storia del Diritto e poi di Diritto Ecclesiastico, Preside della Facoltà di Giurisprudenza di Torino dal 1904 al 1907, e infine Rettore di quell’Ateneo dal 1910-1913, divenne capo gabinetto di Paolo Boselli al ministero della Pubblica Istruzione nel primo governo Sonnino, dal febbraio al maggio del 1906. Nominato senatore, il 30 dicembre 1914, tra il giugno 1916 e l’ottobre 1917, Ruffini, fervente interventista e aperto sostenitore

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Vi è Filippo Meda, al ministero delle Finanze, che, sebbene rappresenti solo se stesso e non un inesistente gruppo parlamentare cattolico, come si affrettò ad ammonire l’«Osservatore Romano», è bene accetto a tutta la parte cattolica nazionaleggiante e passa per eccellente finanziere. Vi è Bonomi, testa forte ed equilibrata del socialismo riformista, che porta nel Ministero la nota più propriamente «sociale» che del resto anche Boselli fece vibrare in quei primi giorni e dopo. Vi sono, specialmente, Sonnino e, Bissolati. Sonnino è l’uomo della tenacia e della fermezza, il ministro che aveva compiuto gli atti diplomatici risolutivi, che dava garanzia di piena fedeltà agli alleati e che, insieme col ministro della Guerra e della Marina, rimasti fermi al loro posto, rappresentava la continuità fra vecchio e nuovo Ministero. Bissolati è il socialista di nuovo tipo, non «ufficiale» non «riformista», non «rivoluzionario» ma di un socialismo animato da esigenze morali e nazionali. E poi, egli è interventista della prima ora, volontario di guerra a cinquanta anni, combattente e ferito da alpino sul Monte Nero, in ultimo, è leader di quella coalizione di gruppi parlamentari che invocavano guerra più energica, guerra estesa alla Germania; sequestro di beni nemici, difesa interna. Più che grandi e sostanziose dell’alleanza dell’Italia con le Potenze dell’Intesa, accettò la responsabilità del dicastero della Pubblica Istruzione nel governo Boselli. Secondo Artuto Carlo Jemolo, le sue idee politiche, fino alla stabilizzazione del regime fascista, s’ispirarono a «un conservatorismo laico con molte riserve verso Giolitti, in parte di ordine strettamente politico, in parte di ordine morale per quel che era, nel Mezzogiorno, la clientela dei deputati giolittiani». Su di lui, A. C. Jemolo, Introduzione a F. Ruffini, La libertà religiosa. Storia dell’idea, Milano, Feltrinelli, 1967, pp. XIX-XLI; F. Margiotta Broglio, Religione, diritto e cultura politica nell’Italia del Novecento, Bologna, il Mulino, 2011, pp. 25-90; Id., «Ruffini Francesco», in Dizionario del liberalismo italiano, cit., II, pp. 973-976; A. Frangioni, Francesco Ruffini. Una biografia intellettuale, Bologna, il Mulino, 2017. Nota dei Curatori.

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qualità politiche, lo facevano emergere la sincerità e la rettitudine personale, l’ardore che portava nei dibattiti, certa fiducia che ispirava di uomo dalle molte risorse e virtù fattive: laddove forse si trattava piuttosto di passione progettista e d’irrequieto affaccendamento, che dava l’impressione del molto fare e realizzare. Si aveva fiducia che egli avrebbe portato al governo il fervore, Sonnino il freddo calcolo; l’uno, l’impulso, l’altro, la direzione. Da Bissolati vi era anzi chi aspettava che, schioccando la frusta sul tardo Sonnino, riuscisse, a comunicar alla guerra italiana non solo una più alacre andatura ma, insieme, un più spiccato carattere di guerra «per la libertà e per la giustizia», di guerra combattuta da tutte le Nazioni liberali e democratiche, con magnanima dimenticanza di sé, dovunque si potesse vincere, e, dagli Italiani condotta «con maggior rispetto delle ragioni ideali e universali che nel maggio scorso spinsero l’Italia nell’intervento». Così «Il Secolo» del 15 giugno, in una corrispondenza parigina. Poiché per la democrazia italiana, specialmente massonica e «francofila», la nostra guerra non era mai abbastanza ideale e universale; e l’ideale essa lo vedeva più facilmente lontano che vicino, e l’universale lo concepiva come qualcosa di contrapposto agli interessi nazionali o, tutt’al più, una specie di somma degli interessi particolari. Anche l’andamento delle cose del Trentino, diffondendo ottimismo e fiducia, contribuiva al fortunato varo del nuovo Ministero. Dopo l’arresto dell’offensiva nemica, annunciato dal Bollettino del 3 giugno; dopo le gloriosissime giornate del Novegno (12-13 giugno) in cui la Brigata Cagliari e l’Ancona, ormai rifatte quasi «ex novo» dopo il terribile logorio dei giorni avanti, sostennero l’urto di cinquantadue battaglioni nemici e un formidabile concentramento di fuoco (un centinaio di grossi – 260 –


calibri, un paio di centinaia di medi e piccoli calibri). Poi attacchi sopra attacchi, combattendo spesso coi sassi, con la baionetta, col pugnale, ma chiudendo agli Austriaci la strada di Schio (98). E ancora i sempre rinnovati combattimenti sull’Altipiano di Asiago, a Monte Fior, a Castelgomberto, a Monte Spil, alla testata della selvaggia Val Frenzela donde si poteva scendere in Val Brenta vicino al suo sbocco nella pianura veneta (valore del Battaglione alpino Morbegno, quasi annientato, della Brigata Lombardia, della Sassari che ebbe il suo eroe nel triestino Guido Brunner) e poi al Monte Lèmerle e allo Zovetto, dove i fanti liguri e piemontesi della brigata Liguria, sostennero col loro bravo generale Achille Papa prove tremende attorno al 15 giugno, e vi guadagnarono medaglia d’oro (99). Dopo questi fatti, aveva avuto inizio la controffensiva nostra, il 15 giugno, il giorno stesso che il nemico, fallite ormai le speranze di sboccar al piano pur dalle posizioni avanzatissime che avevano raggiunto, dava ordine di cessar l’offensiva. Controffensiva sanguinosa e lenta i primi giorni, sempre per l’insufficienza dei nostri mezzi distruttivi, più rapida dopo il 24 (98) Nella prima quindicina del giugno 1916, il Monte Novegno fu la chiave di volta dell’estremo schieramento italiano lungo la destra dell’Astico, dove le nostre forze ressero all’urto dell’Undicesima Armata austroungarica che, scavalcandolo, sarebbe sfociata nella pianura veneta, precedendo la Terza Armata bloccata sul vicino Altopiano dei Sette Comuni. Grazie alla resistenza italiana fu, così, arrestata alle porte di Schio e sul limitare della pianura vicentina, la punta avanzata dell’Offensiva di primavera (Südtiroloffensive), progettata dal Capo di Stato Maggiore austriaco, Franz Conrad von Hötzendorf. Nota dei Curatori. (99) Sulla difesa dello Zovetto, e l’episodio del tenente Rusca, cui il nemico rese gli onori militari e Sua Maestà, il Re, la medaglia d’oro, vedi E. Bucci di Santa Fiora, Giuseppe Rusca e la Brigata Liguria, 1915-1916, Genova, Bozzo e Cocarello, 1919. Nel gennaio 1917, il comune di Asiago rivolgeva parole di grazie al generale Papa e lo appellava «salvatore dell’Altopiano».

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giugno, quando il Comando austriaco comandò la ritirata e le masse nemiche arretrarono improvvisamente, lasciando il vuoto dinanzi a sé, facendo saltare i forti, interrompendo con mine le mulattiere, serrando le strade, ponendo grovigli di fil di ferro in mezzo ai boschi ecc. I progressi della controffensiva italiana, ora che i nostri, non contenti di fronteggiare sul davanti il cuneo dell’invasore, lo martellavano ai fianchi, specialmente alla sua estrema sinistra, e persistevano a premere col grosso al centro, gli fecero vedere il pericolo di un accerchiamento. Il bisogno di provvedere ai bisogni urgenti del fronte galiziano, come lo spronava a fare il suo collega Erich von Falkenhayn, Capo di Stato Maggiore tedesco, e la preoccupazione di una vittoriosa offensiva italiana su l’Isonzo, che colpisse, «i nervi vitali della Monarchia», come lo stesso Falkenhayn scriveva il 25 giugno (100), persuasero Conrad della opportunità di accorciare, il suo fronte arretrando dalle posizioni raggiunte nel centro della linea attaccata. E, allora, i nostri già lanciati alla controffensiva, prima ancora di sapere e costatare l’arretramento nemico; i nostri, avanti!, sempre avanti! Completarono così l’occupazione dello Zovetto e del Lèmerle, occuparono Melette e il monte Longara, si spinsero con pattuglie di cavalleggeri ciclisti su Asiago e allargarono con squadroni di cavalleria la rioccupazione dell’Altipiano, nonostante i furiosi temporali rovesciatisi quei giorni sulle truppe, accentuarono la pressione ai fianchi puntando a destra verso la Bocchetta di Portuale e a sinistra nella zona del Pasubio, verso il Col Santo. E si ebbe, da questa parte, un audacissimo tentativo d’irruzione contro il Forte Pozacchio che parve impresa avventata ma che il (100) P. Schiarini, L’Armata del Trentino, 1915-1916, Milano, Mondadori, 1926, p. 172.

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nemico registrò come episodio fra i più caratteristici e onorevoli per gli Italiani. I due ultimi giorni di giugno, la nostra avanzata fu spinta con la massima energia. Specialmente dall’Astico alla linea settentrionale dell’Altopiano, essa fu tutta un combattimento. E tuttavia cominciò proprio in quei medesimi giorni il ritiro di armi e soldati nostri da quel fronte, in vista di altri obiettivi, sebbene il 1° e il 2° luglio si dovesse ancora sostenere un fierissimo combattimento sul Pasubio, base della difensiva e ora della controffensiva nostra e perciò agognatissimo dal nemico che ora concentrò forze per strapparcelo. Furono ore terribili. Il primo giorno, la Brigata Verona, col generale Masaniello Roversi, sostenne da sola il terribile urto. Solo la notte giunsero i rinforzi, attraverso aspre difficoltà. I furibondi attacchi di un’intera divisione austriaca furono tutti respinti. Dopo di che, le operazioni di quel settore ebbero una certa tregua. Nella storia della guerra italiana, del popolo italiano in guerra, quest’offensiva nemica e relativa controffensiva, del maggio, e del giugno 1916, segnano un momento centrale. Noi fummo vicinissimi a un’invasione che avrebbe fatto crollare tutto il fronte isontino e costretto noi ad arretrar fino all’Adige. Ci salvammo, tuttavia. E non per azione di miracolo ma per l’esemplare calma del Comando di armata, per lo spirito di sacrificio dei minori Comandi, sempre vigili in mezzo ai combattenti (morirono i colonnelli brigadieri, Carlo Giordana che si era segnalato dall’Adamello, Eugenio De Maria, Eduardo Suarez, Francesco Berardi, collocato in ausiliaria per età; ma poi richiamato in servizio, Marcello Prestinari, vecchio soldato coloniale, che settantenne si presentò ugualmente volontario, comandanti delle Brigate Benevento, Sassari, Volturno, Milano, Etna, tutti medaglia d’oro). E molto ci giovò il pronto accorrere delle forze fresche e la mira– 263 –


bile organizzazione dei trasporti e degli altri servizi che consentì di spostare in un mese mezzo milione di uomini su poche vie ferrate e altri 100.000 su automezzi e di portare in pochi giorni sui sitibondi altopiani, attraverso impianti di sollevamento, serbatoi, diecine di chilometri di condutture, l’acqua necessaria a tanta massa di combattenti (101). Ma soprattutto fu pegno di vittoria l’incrollabile volontà di resistenza che, dopo la sorpresa e lo sbandamento dei primi giorni, animò le nostre unità combattenti. Avemmo perdite gravissime. Qualche brigata, quasi, liquefatta. Molte rimaste con metà o due terzi degli effettivi. I battaglioni del 5° Reggimento Alpini, reclutati tutti nella regione, persero sangue da mille ferite, combattendo, veramente pro aris et foci. Ma non minori perdite ebbe il nemico. Peggio ancora: dopo non esser riuscito nei suoi intenti di sboccare al piano, e neppure di arrestarsi all’orlo meridionale delle montagne, fu fermato dagli Italiani, e poi costretto a ritirarsi di fronte alla loro controffensiva e alla vittoriosa avanzata russa, il nemico sentì quella battaglia del Trentino come una grossa sconfitta. E lo riconobbe. L’offensiva fu giudicata, dopo il fallimento, un «colpo di testa». Anche i rovesci sul fronte russo furono addebitati a Conrad e alla sua spedizione che aveva impoverito di truppe solide quel settore. Non mancarono neppure recriminazioni e accusa al Parlamento ungherese: cioè ripercussioni sulla compagine interna della duplice Monarchia. Viceversa, gli Italiani ebbero la coscienza di una vittoria, di una grande vittoria. E furono confortati in questo sentimento (101) Si vedano i dati forniti da C. A. Abetti, L’acqua potabile sugli altipiani, in «Nuova Antologia», CXCI. Serie VI, 1917, 1095, 1° settembre, pp. 79-84.

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anche da quel che si disse e si scrisse da corrispondenti stranieri sul fronte italiano che parlarono delle lotte del Trentino «come di lotte di titani, combattute fra vette e abissi», e che magnificarono la resistenza e lo slancio controffensivo delle truppe, la straordinaria attitudine delle nostre fanterie a mutarsi in truppa da montagna, la bravura dei nostri terrazzieri a improvvisare ridotte e strade e sentieri in ogni terreno. Riferendo in una serie di articoli sul «Times» dell’estate le sue impressioni di una visita al fronte trentino, Lord Alfred Charles Northcliffe, raccontava di guerra fra le nuvole, di filovie tese su abissi vertiginosi, di strade quasi tracciate nel vuoto. Affannosa gara fra la strada italiana e il cannone austriaco: con la vittoria della strada (102). Altri riconoscevano le benemerenze dell’Italia verso la causa interalleata e il vantaggio che ne era venuto alla vittoriosa offensiva franco-inglese sulla Somme; altri vedevano ormai non nei Russi ma negli Italiani i più animosi alleati. Altri, ancora, ammettevano che sugli Altipiani si era combattuta una vera battaglia strategica, insolita in quella guerra; non solo martellamento di artiglierie per ridurre in frantumi le trincee nemiche, ma un piano di operazioni vero e proprio, coordinazione di unità anche lontane, armonico impiego delle armi, compresa la (102) Le osservazioni Northcliffe erano riportate da Sidney Low, nel «Corriere della Sera» del 30 giugno 1916. In realtà, nel quotidiano milanese, i riferimenti alla corrispondenza di Sidney Low compaiono solo nei seguenti articoli: La parte dell’Italia nell’offensiva degli Alleati. Omaggio inglese agli ufficiali italiani, Londra, 2 luglio, ore 16.30, in «Corriere della Sera», 3 luglio 1916; L’offensiva austriaca diretta dai tedeschi? I critici inglesi della la nostra guerra, Londra, 3 luglio 1916, ibidem, 4 luglio 1916. Northcliffe aveva fondato, nel 1896, i «Daily Mail», che ottenne enorme successo raggiungendo il traguardo di un milione di copie di tiratura. Divenuto proprietario di altre testate, fondò il «Daily Mirror» e si assicurò il controllo del «Times», creando un vasto impero giornalistico in Gran Bretagna. Nota dei Curatori.

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cavalleria (103). A non contare, poi, lo spirito di colleganza che animò quei giorni con mirabile risultato il Comando italiano e il Comando russo. Così gli Italiani uscirono da questo sforzo con un sentimento, di sé, anche come soldati, perché prima mancava loro l’animo teso verso una più vigorosa guerra. Acquistò maggior forza persuasiva il discorso di quelli che affermarono la necessità di strappar alla vicina Monarchia quel cuneo di terra italiana che penetrava addentro nella valle del Po. Parve a molti Italiani che la vera guerra cominciasse per essi proprio allora, nel giugno 1916. Fino allora essa era andata avanti un po’ alla brava, con mediocre senso dei pericoli che bisognava affrontare e della somma di forza che bisognava impegnare. C’era la guerra e anche l’entusiasmo per la guerra, ma non l’animo di guerra, lenta conquista del popolo italiano su sé stesso, attraverso non tanto le azioni che i bollettini proclamavano «vittoriose», ma che lasciavano il combattente disilluso e amaro, quanto attraverso i rovesci animosamente e felicemente fronteggiati: e quello del maggio 1916, fra i monti del Trentino, fu il primo, con la sua sanguinosa azione educativa. 3. - Il frutto di quell’animosa resistenza fu, però, guasto dal mormorio parlamentare e dal mugugno neutralista. In tanta varietà e disorganicità di motivi e discussioni montecitoriali, una nota, la meno opportuna, prese il sopravvento e quasi diede il carattere a quella breve fase di vita parlamentare. E fu la nota della pace. L’onorevole Treves segnalò «le voci di popolo che si levano (103) Così Paul Adam nella sua corrispondenza trasmessa al «Journal», ripresa poi in Impressioni di Paul Adam su Cadorna, in «Corriere della Sera», Martedì 25 luglio 1916.

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dalle varie Nazioni belligeranti». Si augurò che «che l’Italia possa assumere al momento opportuno quella missione storica che, per la sua posizione geografica e per le sue tradizioni le compete, missione di concordia e di pace». Egli soggiunse: «Fremiti di speranza corrono il mondo. Se voi ascoltate queste voci, se voi comprendete che la tragedia è finita, questa nostra piccola patria tornerà a essere la regina del mondo» (104). I compagni chiosarono: Viva il socialismo! Abbasso la guerra! Qualcuno di essi fece anche la strana proposta di armistizio e insistettero perché l’Italia promovesse una conferenza di pace. Insomma si cominciò di proposito a fare nel Parlamento una cattedra di propaganda socialista. E ciò nel tempo in cui, fallita l’offensiva di Verdun e quella del Trentino, nei giorni stessi in cui la guerra europea divampava con nuova vita, gli eserciti dell’Intesa avevano ripreso o stavano riprendendo, in Macedonia, sulle Alpi, sul fronte occidentale, l’iniziativa delle operazioni, nei giorni stessi in cui un Bollettino del Comando Supremo italiano dava notizia con legittimo sdegno di una improvvisa azione nemica nella zona del San Michele e di San Martino del Carso, a base di gas asfissianti e di mazze ferrate che fecero strage di uomini tramortiti e che fu cosa orrenda sul nostro fronte. Eppure anche questo episodio non commosse molto i nostri deputati socialisti, per i quali esistevano solo militarismo, imperialismo, guerra con tutti i loro orrori. E quando l’onorevole Luigi Gasparotto fece la proposta di una Commissione parlamentare d’inchiesta per esaminare gli atti di guerra contrari al diritto delle (104) C. Treves, Il Ministero nazionale. Discorso del 29 giugno 1916 alla Camera, cit. Si veda anche Id., Sempre la guerra e la crisi parlamentare, in «Critica sociale», 26, 1-15 settembre 1916, pp. 231-234. Nota dei Curatori.

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genti, un deputato socialista accomunò nella stessa condanna tutti i combattenti, austriaci o italiani che fossero (105). (105) Luigi Gasparotto, celebre avvocato del foro milanese militò nelle fila del Partito radicale, con il quale fu eletto deputato nella tornata elettorale dell’ottobre-novembre 1913. Antigiolittiano e contrario alla Guerra di Libia, fu convinto fautore dell’intervento dell’Italia contro gli Imperi centrali, in modo da fermare la marcia dell’imperialismo germanico, di riacquistare al corpo della Patria le «terre irredente», e di esaudire le aspirazioni nazionali delle minoranze slave della Duplice Monarchia. Il 27 maggio 1915, quattro giorni dopo la dichiarazione di guerra, presentò domanda di arruolamento come semplice soldato di fanteria e quando il 17 giugno fu nominato sottotenente degli Alpini, chiese di essere inviato al fronte. Per il valore dimostrato, fu insignito di tre medaglie d’argento, una medaglia di bronzo, due croci di guerra, della Legion d’onore, conferitagli dal governo francese, e, il 14 ottobre 1917, ottenne la promozione a tenente. Della sua esperienza di guerra lasciò testimonianza nel Diario di un fante (Milano 1919; ultima edizione, Bologna, Nordpress, 2002). Il suo impegno sulla linea del fronte, non gli impedì, comunque, di essere sempre presente, con grande attivismo, nel Parlamento. Dopo la sconfitta di Caporetto fu tra i promotori del Fascio parlamentare di difesa nazionale, con Maffeo Pantaleoni, Bonomi, Enrico Corradini, Antonio De Viti De Marco, Luigi Federzoni, Salandra. Un raggruppamento, nato il 10 dicembre 1917, per volontà di alcuni ex interventisti con l’intento di combattere all’interno del Paese qualsiasi forma di «disfattismo» e di coordinare gli sforzi di quei deputati e di quei senatori, di diverso colore politico, risoluti comunque a portare avanti la guerra sino alla vittoria, senza piegarsi a un’eventuale pace separata. Nella prima metà di ottobre del 1918, scrisse due lettere al presidente del Consiglio, Orlando, esortandolo a intervenire presso il Comando supremo affinché fosse ordinato all’esercito di passare al più presto il Piave e attaccare gli Austriaci, per evitare che la guerra finisse prima della sconfitta di questi ultimi sul campo di battaglia, ad opera delle armi italiane. Al termine del conflitto, si schierò fra gli oppositori dei governi guidati da Nitti e da Giolitti, che essendo stati neutralisti nel 1914-1915, non gli apparivano idonei a far valere gli obiettivi per i quali il Paese era entrato in guerra, pagando il prezzo di più di 600.000 caduti. Il 4 luglio 1921, fu chiamato dal Presidente del Consiglio, Bonomi, a reggere il dicastero della Guerra. In quella carica, nel novembre 1921 fece tumulare la salma del «milite ignoto» (un soldato italiano non identificato), in un sacello posto sull’Altare della Patria, ai piedi del Campidoglio, come simbolo del supremo sacrificio per la patria offerto da tutti i caduti nel corso del conflitto. Su di lui, F. L. Pullè - G. Celesia di Vegliasco,

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La materia della pace non fu trattata, tuttavia, solo dai socialisti. Nella prima giornata del nuovo governo, l’onorevole Livio Tovini, cattolico, volle precisare, pur dopo che Boselli ebbe proclamato la sua inflessibilità contro quanti avessero concorso a deprimere la fiducia del popolo, il significato dell’ingresso di un cattolico nel Ministero. Non dedizione o compromesso, egli affermò, poiché le forze popolari cristiane sono lontane tanto «da chi vorrebbe trascinare verso una guerreggiata egemonia di stirpi e di civiltà quanto da chi le vorrebbe condurre verso una guerreggiata egemonia di classi». Insomma, Tovini proponeva, nel mezzo del conflitto che lacerava l’Europa e che divideva sugli obiettivi della guerra persino i gabinetti dell’Intesa «un ideale di collaborazione di classi, di stirpi, di civiltà in un’unica atmosfera spirituale e morale». A realizzare ciò, insisteva Tovini, molto avrebbe potuto contribuire un fattore di pacificazione umana, al quale mai come in questa guerra mondiale si è avvicinato il cuore di tutti i popoli, che nessuno può respingere senza affrontare una terribile responsabilità. E questo fattore era «un’autorità che assiste 300 milioni di coscienze, che fa udire la sua voce in ogni angolo della terra, che è il più autorevole rappresentante di un principio morale, il più convinto e libero apostolo di una definitiva sistemazione dei popoli, su la base della giustizia e del diritto»(106). Insomma, Memorie del Fascio parlamentare di difesa nazionale. (Senato e Camera), Bologna, Licinio Cappelli, 1932, ad indicem; L. D’Angelo, La democrazia radicale tra la prima guerra mondiale e il fascismo, Roma, Bonacci, 1990, ad indicem; D. Veneruso, La Grande Guerra e l’unità nazionale. Il ministero Boselli, cit., ad indicem; G. Orsina, Senza Chiesa né classe. Il Partito radicale nell’età giolittiana, Roma, Carocci, 1998, ad indicem; P. Melograni, Storia politica della Grande Guerra, cit., ad indicem. Nota dei Curatori. (106) Sull’intervento di Tovini, ricordato da Volpe, si veda D. Veneruso, La Grande Guerra e l’unità nazionale. Il ministero Boselli, giugno 1916 - ottobre 1917, Torino, Società Editrice Internazionale, 1996, pp. 85-86. Nota dei Curatori.

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Treves andava incontro all’internazionale socialista, e Tovini a quella cattolica, rappresentata dalla Santa Sede. La quale si sa che, non solo caldeggiava la pace ma anche ambiva a capeggiare il movimento della pace, ispirato e improntato a sé. «Vero arbitro e custode della pace non può non essere che il Sommo Pontefice», scrive nell’estate del 1916 «La Civiltà Cattolica», esponente, non meno dell’«Osservatore Romano» del Vaticano. E s’intendeva non solo della pace da instaurare ma anche della pace da consolidarsi e mantenere dopo. Utopistica, si disse, era la fratellanza dei popoli caldeggiata dai pacifisti e propagandata e poi affossata dal socialismo internazionale. Come può nascere la pace da una forza rivoluzionaria? Assai più efficace l’istituzione di un tribunale neutro, cioè alieno dagli interessi dei contendenti e destinato a risolvere le controversie fra le Potenze. Esso solo risponde alle reali condizioni della cristianità: «la quale ha un capo che di natura sua si trova sottratto a ogni invidia d’interessi temporali, perché è imposto da Dio ai popoli che tutti militano sotto la legge del fondatore del cristianesimo». Nella condizione presente degli Stati in lotta, nulla di più opportuno di codesto arbitrato, superiore e imparziale, dell’azione della Santa Sede per una composizione non già momentanea, sporadica, parziale ma, invece, decisiva e definitiva dei dissidi internazionali. Né, in fondo, si trattava di creare dal nulla. Da secoli e da millenni il Soglio di Pietro, e per esso, il Pontefice è forza di pace, è istituto arbitrale, essendo per esso la giustizia naturale vocazione. E «La Civiltà Cattolica» così continuava: «Vorranno le Nazioni ascoltare l’invito di Dio, la voce della ragione, l’ammaestramento della storia, il pianto delle famiglie, l’impulso della necessità?» (107). (107) Anonimo, L’internazionalità pontificia e l’arbitrato internazionale del Papa, in «La Civiltà Cattolica», LXVII, 1916, 3-4, pp. 129-144; 257-270, in particolare pp. 266-267.

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Come si vede, l’onorevole Tovini e circoli vicinissimi alla Santa Sede dicevan le stesse cose. E forse ciò accadeva non solo per caso o per una generica rispondenza di pensieri. Era da tener presente che la Chiesa aveva, negli ultimi anni, riorganizzato le sue forze in Italia. E ora si cimentava, con ogni strumento di azione, in un compito da cui poteva ripromettersi nuovo e maggiore prestigio nel mondo. Non solo voleva lenire i dolori della guerra, visitare i campi dei prigionieri e contribuire con mezzi finanziari alla loro assistenza, promuovere lo scambio degli invalidi e la loro ospedalizzazione nella Svizzera neutrale, come, da tempo, veniva facendo. Essa intendeva, ora, portar la sua parola nei congressi della pace, concorrere a una soluzione, non solo diplomatica, dei problemi della guerra, promuovere un nuovo ordine europeo e mondiale, rioccupare il posto e la funzione che già furono suoi nel Medio Evo. Ritornava così, seppur depotenziata nei toni ma non nella sostanza, la boria di dominio teocratico di Gregorio VII, Innocenzo IV, Bonifacio VIII. Anche dopo la bella prova delle armi italiane nella battaglia degli Altipiani, che l’adesione di molte coscienze di popolo e di borghesia, di laici e cattolici, persino di liberali giolittiani e di socialisti neutralisti, ostili alle ragioni della guerra, lo sforzo di mobilitazione del fronte interno, e il massiccio afflusso di volontari militari e civili avevano reso possibile, le debolezze italiane non erano, dunque, venute meno. Ci fu poi la sesta offensiva sul fronte isontino, anch’essa vittoriosa, con lo sgretolamento della linea austro-ungarica sul Sabotino, culminata con la presa di Gorizia. E a essa seguirono, tra il settembre 1916 e l’agosto 1917, le altre assai meno fortunate battaglie dell’Isonzo, con grandissima effusione di sangue nostro ripagato dal terribile logoramento dell’apparato militare avversario, il cui esito complessivo a favore del Regio Esercito fu, comunque, diminuito dalla sconfitta di – 271 –


Flondar (108), e dal fallimento tattico e strategico dell’attacco al Monte Ortigara (109). Il popolo in grigio verde si portò comunque bene in tutte queste prove, superando le attese del Comando Supremo e dei nostri alleati. Qualcosa, si disse, allora, era però mutata nella guerra italiana. E questa costatazione coglieva nel segno. Dopo quella battuta d’arresto, le debolezze dell’Italia in guerra aumentarono d’intensità e si trasformarono, infine, nei veleni che debilitarono il corpo della Nazione fino alla vigilia dell’ottobre nero di Caporetto.

(108) La battaglia di Flondar (3-6 giugno 1917), soprannominata «disfatta di Flondar» o «piccola Caporetto», fu un ardito contrattacco sferrato da reparti scelti austriaci al comando del generale Svetozar Borojević von Bojna contro le posizioni italiane attorno al Monte Ermada. Benché inferiori di numero, gli Austro-ungarici sorpresero le difese italiane e, impiegando nuove tattiche d’assalto, riuscirono a riconquistare alcune importanti posizioni. La sconfitta, che costò, al Regio Esercito pesanti perdite, tra cui circa 10.000 prigionieri, fu mal compresa dagli alti comandi che sottovalutarono le novità tattiche introdotte dagli Austriaci, e che, invece, ritennero responsabile dello scacco unicamente la scarsa combattività dimostrata delle nostre truppe. (109) La battaglia del Monte Ortigara fu combattuta dal 10 al 29 giugno 1917 sull’altopiano dei Sette Comuni. Lo scontro vide impegnata la Sesta Armata italiana del generale Ettore Mambretti, che attaccò in forze il settore austro-ungarico, difeso dalla Nona Armata guidata dal Generalmajor, Viktor von Scheuchenstuel. L’operazione è soprattutto ricordata per le cruente schermaglie che impegnarono gli Alpini per il possesso dell’Ortigara, sebbene essa fosse invece mirata per riconquistare vaste porzioni di territorio perse durante l’offensiva di primavera austro-ungarica del maggio 1916. Nonostante il grande impegno profuso dalle nostre truppe, i comandi italiani non seppero sfuttare al meglio le situazioni favorevoli né far fronte agli imprevisti. Inoltre, i tentativi di sfondamento furono non collegati in un unico insieme e spesso e mal gestiti. Il sacrificio di vite umane fu altissimo, e dopo quasi venti giorni di battaglia, Mambretti ordinò il ripiegamento sulle posizioni di partenza, ammettendo, di fatto, il completo fallimento dell’offensiva.

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Indice dei nomi (*)110 Abetti, Carlo Alberto, 264 Abriani, Maria, 183 Adam, Paul, 266 Amette, Léon Adolphe, 203 Arlotta, Enrico, 254 Baldassari, Vittorio, 227 Barsanti, Ciro, 222 Bartolomasi, Angelo, 202 Barzilai, Salvatore, 253 Battisti, Cesare, 227 Battistig, Romeo, 189 Benedetto XV, 202, 203, 205 Berardi, Francesco, 264 Bethmann-Hollweg, Theobald von, 211, 213 Bianchi, Leonardo, 254 Bissolati, Leonida, 225, 255, 257, 259, 260 Bocca, Ferdinando, 164 Bonifacio VIII, 272 Bonomi, Ivanoe, 255, 259 Boselli, Paolo, 251, 253, 254, 256, 258, 269 Botti, Giuseppe, 237 (*)

Breccia, Annibale Evaristo, 237 Brunner, Guido, 261 Bucci di Santa Fiora, Eugenio, 262 Caburi, Franco, 172 Cadorna, Luigi, 165, 174, 175, 179, 187, 208, 209, 210 Caldara, Emilio, 197, Calvi, Pier Fortunato, 178, 223 Cantore, Antonio Tommaso, 209 Capello, Luigi, 164 Carcano, Paolo, 255 Cavazza, Lina, 241 Cavour, Camillo Benso, conte di, 255 Cesari, Cesare, 219 Chauvet, Costanzo, 196 Coletti, Francesco, 235 Comandini, Ubaldo, 254, 255 Conrad von Hötzendorf, Franz, 180, 262, 265, Corridoni, Filippo, 224 Crispolti, Filippo, 213 Croce, Benedetto, 195

L’Indice dei nomi si riferisce al solo testo di Gioacchino Vope.

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Croci, Pietro, 217 D’Annunzio, Gabriele, 222 Dalla Torre, Giuseppe, 198 Degol, Giuseppe, 226 De Lollis, Cesare, 221 De Maria, Eugenio, 264 De Michelis, Giuseppe, 229 De Nava, Giuseppe, 254, De Rossi, Eugenio, 188 Douhet, Giulio, 187 Einaudi, Luigi, 164, Endrici, Celestino, 182, 184, Erzberger, Matthias, 204 Falkenhayn, Erich von, 262 Fratti, Antonio, 221 Gallina, Giuseppe Pietro Maria Giuseppe, 229 Garibaldi, fratelli, 222 Garibaldi, Giuseppe, 178 Garibaldi, Peppino, 221, 223 Garibaldi, Ricciotti, 218, 221 Gasparotto, Luigi, 268 Gasparri, Pietro, 203 Genocchi, Giovanni, 201, 248 Gerlach, Rudolph, 168, Giordana, Carlo, 264 Giusto, Riccardo, 179 Gray, Ezio Maria, 165

Gregorio VII, 272 Herrick, Roberto, 173 Innocenzo IV, 272 Low, Sidney, 265 Luzzatto, Riccardo, 222 Mackenzie, Evan, 245 Machiavelli, Niccolò, 249 Maffi, Pietro, 200 Mameli, Goffredo, 210 Maragliano, Edoardo, 245 Maraini, Emilio, 244 Mameli, Goffredo, 210 Marinetti, Filippo Tommaso, 223 Meda, Filippo, 212, 255, 259 Motta, Giuseppe, 172 Negrotto, Michele Pericle, 188 Northcliffe, Alfred Charles, 265 Oberdan, Guglielmo, 189 Paolo apostolo, 250 Papa, Achille, 261, Pellizzo, Luigi, 199 Pericoli, Paolo, 250 Perotti, Pierino, 210 Pe r r u c c h e t t i , G i u s e p p e Domenico, 190 Prestinari, Marcello, 264 Prezzolini, Giuseppe, 216 Reggio, Giacomo Antonio, 244

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Rinaldi, signora professor Rota, Ettore, 219, n. 58 Roversi, Masaniello, 263 Ruffini, Francesco, 259 Rusca, Giuseppe Salandra, Antonio, 165, 211-214, 253, 256 Salvatorelli, Luigi, 197 Sarfatti, Roberto, 220 Schiarini, Pompilio, 262 Scialoja, Vittorio, 254

Semeria, Giovanni, 201, 210 Sonnino, Sidney Costantino, 165, 259, 260, Suarez, Eduardo, 263, 264 Tamiotti, Giovanni, 222 Toggenburg-Sargans, Friedrich von, 184 Tosti, Luigi, 248 Toti, Enrico, 220 Tovini, Livio, 269, 270, 271 Treves, Claudio, 257, 267, 270 Vannutelli, Vincenzo, 203

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Gioacchino Volpe Scritti giornalistici sulla Grande Guerra



Pei fischiatori che non riflettono Corrispondenza da Berlino (*) Dopo le dimostrazioni anti-austriache, l’Italia ne prepara adesso altre contro lo Zar; questo van ripetendo i giornali a proposito dell’invito fatto dall’associazione radicale romana di aderire al movimento; già dunque i promotori chiamano a raccolta le forze, potrei dire i fischi che dovranno salutare il potente Imperatore al suo primo affacciarsi alle porte d’Italia. Ma è da sperare che il buon senso italiano vorrà reagire a tempo contro tale politica; per quanto questo divampare inconsulto di entusiasmi che son fine a se stessi - finite ieri le chiassate suscitate dal progetto di abolire la Facoltà giuridica, con lingua d’insegnamento italiana, a Innsbruck - non sia testimone di quel senso della realtà, di quella visione, chiara delle cose che una volta informò tutte le manifestazioni dell’attività nostra, dalla poesia alla politica, e che noi anche oggi seguitiamo a ritenere come il carattere distintivo delle razze latine, in genere, e dell’italiana in specie. A chi vive per un po’ fuori del nostro Paese, notizie come queste o affini producono, a lungo andare, uno strano senso di sorpresa. È come se egli si senta da un terreno solido trasportato a volo in una regione di sogni, ove gli uomini camminano sulle nubi, con gli occhi rivolti alle albe rosate, dimentichi di certi bisogni e norme elementari della vita. Nessuna occasione noi ci lasciamo fuggire per farci eco delle doglie del mondo, per protestare, per lanciare ordini del giorno. Contro chi poi? Le cose seguitano ad andar per la loro via e se una voce si unisce alla (*) «Corriere della Sera», 23 agosto 1903.

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nostra, in essa si esprime solo l’antipatia di popoli rivali: Tedeschi contro Russi, Russi contro Inglesi e via dicendo. Ma questa gran misericordia nostra che apre a tutto e a tutti le braccia e che fu già dono nobilissimo di quelle borghesie europee che nel secolo passato volevano per sé o per gli altri conquistare una patria, a Ungheresi, Italiani, Polacchi, ora minaccia da parte nostra di esorbitare stranamente da quei limiti entro i quali è permesso pensare agli altri senza dimenticare sé stessi. Per amore del nobile grido, del gesto sdegnoso, della protesta lanciata ai venti; per l’ambizione - del resto bella di per sé - di far dell’Italia la terra della giustizia piena, della politica disinteressata, noi perdiamo di vista certe necessità della vita internazionale, rendiamo difficili i rapporti nostri con tutti; forse ci tagliamo la via ad accordi e alleanze. E il giorno in cui per la nostra esistenza ci fosse necessario unirci allo Zar delle Russie o magari al Sultano di Costantinopoli, andremmo a rivangar noi, in tal caso, la rossa storia degli Armeni e degli ebrei di questi ultimi anni? È che noi, in genere, certe questioni, che ingrossano ogni giorno più fuori i nostri confini, le intravediamo attraverso le righe dei giornali ma le lasciamo pur sempre come nuotare alla superficie della nostra coscienza, senza acquistare un concetto chiaro della loro importanza. Ora, a chi è vissuto per quasi un anno, come accade chi scrive, in una grande città della Germania, mettiamo caso a Berlino (1), due fatti complessi, invece, saltano con tutta evidenza agli occhi: 1. La Germania, con la sua forza, la sua coltura, la sua eccellente organizzazione, è spinta irresistibilmente ad allargarsi, a (1) Sul soggiorno di studio di Gioacchino Volpe in Germania, che si protrasse dall’ottobre 1902 all’agosto 1903, si veda E. Di Rienzo, La storia e l’azione. Vita politica di Gioacchino Volpe, Firenze, Le Lettere, 2008, pp. 64-66.

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cercare nuovi sbocchi al commercio, a raccogliere i grossi frammenti dei popoli tedeschi che sono rimasti fuori del suo Impero. E a tutto questo è risoluta di giungere senza scrupoli e riguardi di sorta, larvando con speciosi titoli di diritto quel diritto del più forte che credevamo morto ma che è più vivo che mai, sempre più quanto più cresce per i grandi Stati produttori d’Europa il bisogno di un campo largo d’azione; e quanto più desta e pugnace diventa la coscienza della affinità etnica di popoli che fino ad ora hanno avuto esistenza e sorti diverse; come è il caso nei territori Slavi e Tedeschi. 2. Nel grande cozzo di queste due stirpi è il domani della storia d’Europa, quando alla marea slava che sale, sale e si allarga non potranno più far fronte le pacifiche dighe che si chiamano scuole, burocrazia, legami di commercio ecc., tirate su con grande tenacia nei Paesi intermedi. Gli Slavi vengono riguadagnando con progressi di ogni giorno ciò che, da Carlo Magno in poi, per opera delle organizzazioni religiose-cavalleresche del nord, dell’Austria, allora tedesca, del sud, delle colonie di agricoltori e minatori germanici, disseminate nella Slesia, nella Moravia, fino all’Ungheria, avevano perso. I Tedeschi cedono da tutte le parti, nonostante i mezzi di cui il Governo e le numerose associazioni per la diffusione della coltura dispongono. In Boemia, la loro situazione è poco meno che disperata; nella Slesia, gli Slavi si rafforzano senza tregua; sugli altri confini, i Polacchi si fan sempre più audaci come partito politico anti-tedesco e si fanno sempre più numerosi e insinuanti, in quanto son massa bruta di braccianti che emigrano nei distretti industriali dell’ovest o di contadini che vengono a rimpiazzare nei lavori delle ferrovie e sulle terre dei latifondisti prussiani quella enorme quantità di contadini e piccoli agricoltori tedeschi che sono andati a creare la ricchezza industriale della – 281 –


Slesia, della Sassonia, e della Vestfalia o che hanno fatto di Berlino una città di più di due milioni di abitanti. Di qui, la politica polacca della Prussia, per buona parte fallita, per quel che riguarda la germanizzazione di quei popoli. Di qui, i dolorosi episodi delle violenze ai ragazzi delle scuole, ostinati a non voler parlar tedesco: episodi non onorevoli per chi ne era parte attiva ma che noi, al solito, non abbiamo giudicato con piena giustizia, cioè con piena conoscenza dei fatti. Queste allora sono le conseguenze che noi tiriamo dall’osservazione di questi due grandi episodi della vita slavo-tedesca: 1° I Tedeschi saranno forse i probabili nemici nostri nel Trentino e nell’Istria, concorrenti sull’Adriatico; e non si è profeti dicendo che saranno un pochetto più potenti e pericolosi, se non più prepotenti, che non quel grigio impasto clerico-slavo-tedesco che ora ci fa carezze sul confine. 2° La Russia potrà essere la nostra alleata di domani. Non è senza dolore che diciamo ciò: ogni italiano, ogni uomo civile si augurerebbe che Tedeschi e Latini, i due popoli cui appartiene la civiltà ora diffusa nel mondo si trovassero uniti contro gli Slavi, almeno fino a che da questa enorme massa inorganica non verranno fuori forze organizzate, specializzate di coltura civile. Ma quest’augurio non può tradursi in realtà se i Tedeschi non rinunziano a scendere la valle dell’Adige o a specchiarsi nelle acque del golfo di Trieste. E a questo pericolo noi ci dobbiamo abituare a guardarlo in faccia, vigilando, considerandolo come il maggiore che con molta probabilità l’Italia avrà da affrontare in un tempo non lontano, e che naturalmente non potrà affrontare da sola. Le democrazie di Italia e Germania s’illudono stranamente sulla loro forza e sui loro interessi se credono di poter quel giorno dire: no! Non è chi non lo veda: la solidarietà internazionale esiste solo nei voti di plauso e in qualche centinaio di lire che gli – 282 –


scioperanti dei vari Paesi s’inviano. Nella realtà, invece, oggi vediamo che là dove è maggiore rigoglio di forze capitalistiche e operaie, le democrazie stanno diventando nazionali, troppo dipendenti essendo per ora i loro interessi e la loro vita dagli interessi e dalla vita dell’intero popolo e dello Stato, preso come unità economica e politica. È questo, come tanti altri, uno dei legati della borghesia del XIX secolo al proletariato del XX secolo, almeno sino a quando la società capitalistica non sia seppellita per sempre? Certo, borghesia e proletariato dovranno prima cooperare e risolvere nel centro e nell’est dell’Europa certe questioni che altrove furono tormento e gloria del secolo che è passato. Secolo che si spense nella serena illusione che, chiuso il periodo delle lotte per le nazionalità, fosse riservato ai figli e ai nipoti più largo e umano compito. Invece noi vediamo che quelle lotte riappaiono in altre terre d’Europa con un’urgenza estrema, assai più complicata di quelle, ieri, combattute e vinte, per la maggiore confusione degli elementi etnici e per la presenza di gruppi sociali che finora, in lotte simili, non avevano fatto sentire la loro voce. Là nei Paesi fra la Germania e la Russia, sulle due rive del medio Danubio, dove fino a non molti anni addietro erano solo magnati e contadini con un ceto medio incolore e povero, si viene ora formando, dove più, dove meno, una borghesia colta e battagliera che, organizzata in comunità grandi e piccole d’incerto carattere etnico, tende per ragioni diverse, alcune antiche, altre recenti, e dunque molto più forti, a rompere questi vincoli e ad accostarsi a est o ad ovest, alla Germania e alla Russia, un po’ per desiderio sincero, un po’ per tattica nella lotta contro altre nazionalità. In questo sforzo è la causa prima delle incessanti agitazioni di questi ultimi. Al loro risultato, qualunque esso sia, noi non possiamo guardare senza preoccupazioni, ma il pericolo nostro – 283 –


più immediato è nelle popolazioni tedesche che hanno per ora sulle altre il vantaggio di una maggiore coltura, di più desto sentimento nazionale, di più solida organizzazione, di più abbondanti mezzi di espansione sotto forma di capitale e d’istruzione etnica - senza contare la fiducia enorme nelle loro forze e nella loro superiorità di razza, risultato dei recenti trionfi militari e industriali - ed esse anelano ai porti dell’Adriatico per il loro commercio asiatico, rimanendo il mare del Nord a fronteggiare l’Inghilterra e le due Americhe. Né vi è da sperare troppo che il pericolo americano possa far sparire o almeno attenuare quel groppo di questioni politiche nazionali, economiche e religiose, imponendo all’Europa una maggiore unità d’azione, poiché esse hanno un valore grande in sé. Peggio ancora: non vi è neanche da sperar troppo che l’ultima parola spetti al Tribunale internazionale o alle Società per la pace o all’onorevole Odino Morgari (2). Il groppo, infatti, non sarà sciolto ma tagliato con la spada. E non ci potremo neanche consolare imprecando alle ambizioni dei Governi che pure hanno una loro parte di colpa nell’incitamento. Sarebbe, infatti, poco meno che citare all’Aja Attila e Gengis Khan, per violazione della pace pubblica. Il Kaiser Guglielmo II e lo Zar Nicola non sono (2) Odino Morgari fu promotore della cosiddetta corrente «integralista», formatasi per favorire la convergenza tra il grosso del PSI guidato da Enrico Ferri e i riformisti di Turati e Leonida Bissolati, che s’impegnò dopo l’agosto del 1914 contro l’entrata in guerra dell’Italia. Dopo la scelta del governo Salandra, Morgari dedicò le sue energie a ripristinare i contatti, perduti per il crollo della II Internazionale, fra i partiti socialisti europei, diventando così, di fatto, il rappresentante del socialismo italiano, in quell’organizzazione, durante la Grande guerra. Nel luglio del 1916, Morgari prese la parola alla Camera per pronunciare un discorso durissimo contro la prosecuzione delle ostilità. Su di lui si veda la voce di P. Mattera, in «Dizionario Biografico degli Italiani», 76/2012 - http:// www.treccani.it/enciclopedia/oddino-morgari_(Dizionario-Biografico).

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né Attila né Gengis Khan. Sono qualcosa di più e qualcosa di meno: per quanto recenti discorsi imperiali abbiano un po’ riabilitato la memoria del “Nemico di Dio”. Certi movimenti e raggruppamenti di popoli si presentano ora, però, con non minori caratteri d’impellente necessità di quel che non si presentassero allora le invasioni unne e mongole. E ogni giudizio morale, che noi ci sentissimo invogliati a pronunciare, si dissolve prima ancora che noi riusciamo a formularlo.

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Tornando dalla Dalmazia (*) Una rapida corsa di otto giorni: pochi per conoscere un Paese, specialmente un Paese che ha tanta varietà di storia, di natura, di genti ed è punto d’incontro non solo di Italiani e Slavi, ma di due costumi, di due mentalità, di due civiltà, Oriente e Occidente. Possono tuttavia bastare per prendere cognizione un po’ più esatta di problemi circoscritti, già a lungo dibattuti e discussi; per dare unità, organismo, vita, entro il nostro spirito, a quanto già si conosce per letture fatte e discorsi uditi. Prima impressione e persuasione che quasi si assorbe dall’atmosfera: la inscindibile unità di quella parte della regione che gravita su Spalato, Zara, Sebenico e che si trova entro il semicerchio segnato dal corso della Zermagna a nord e da quello della (*) «La Sera», 21 aprile 1919. Volpe redasse questa corrispondenza dopo una missione esplorativa in Dalmazia, di cui erano stati promotori due attivissimi membri dei circoli del combattentismo milanese. Giulio Bergmann, già vicino ai Giovani liberali di Giovanni Borelli, fondatore nel gennaio 1911 della sezione milanese dell’Associazione Nazionalista Italiana e poi esponente di spicco del Gruppo nazionale liberale di Milano, che nel 1919 era divenuto uno dei leader dell’Associazione Nazionale Combattenti del capoluogo lombardo. Eliseo Porro, Presidente dell’Ufficio tecnico di propaganda, «Pro Dalmazia», personalmente impegnatosi, dopo Caporetto, in un’azione di energico contrasto contro il sovversivismo socialista, che un rapporto di polizia dell’agosto 1919 avrebbe indicato come uno dei maggiori finanziatori, tramite l’ente da lui diretto, dei Fasci di combattimento, delle associazioni degli Arditi, del «Popolo d’Italia». Sul tutto ciò si veda, E. Di Rienzo, La storia e l’azione, cit., pp. 233-246. La missione di Volpe avveniva, comunque, anche sotto gli auspici e in diretto collegamento con le autorità militari italiane che avevano assunto il controllo delle regioni del nuovo confine orientale. Sul punto, A. Visentin, L’Italia a Trieste. L’operato del Governo militare italiano nella Venezia Giulia, 1918-1919, Gorizia, Libreria Editrice Goriziana, 2000.

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Cetina a sud. Si può tagliare in due la Dalmazia: ma il taglio non può essere fatto, se mai, che lungo la Cetina. Il Patto di Londra, con la sua arbitraria linea di divisione, male si giustifica e si spiega. Perciò ha offeso anche gli Italiani di Zara e di Sebenico: li ha offesi nei loro interessi provinciali, nella loro coscienza dalmatica, che cova in essi sotto la coscienza di Italiani. Qualcuno ha detto persino: meglio dar tutto agli Jugoslavi. Altri hanno pensato a una Dalmazia una e autonoma, sotto il protettorato italiano; persino a una Repubblica dalmata, ad una specie di Belgio adriatico, popolato di Slavi ed Italiani invece che di Valloni e Fiamminghi, organizzato come una grande zona franca, che avrebbe speciali accordi politici e commerciali con l’Italia e la Jugoslavia e compirebbe una funzione mediatrice fra i due Paesi. Altra impressione e persuasione: di quest’unità, che va dalla Zermagna alla Cetina, il centro è non Zara, non Sebenico, ma Spalato. Zara è una piccola città di funzionari e di mezzana borghesia terriera, senza grandi forze vive e forse senza capacità di sviluppo. Sebenico, pur con la sua magnifica rada e con le forze idrauliche del fiume Cherca, giace sul margine di un’enorme e desolata petraia che giunge sino a Dernis, cioè a 25 o 30 chilometri dalla costa. Le manca quel tanto di terra coltivata e coltivabile che anche una città industriale esige, se vuole svilupparsi oltre un certo limite. Rimane Spalato. Qui realmente si ha il senso di trovarsi in una città vera, di largo respiro, cui fa capo, per canali visibili e invisibili, la vita di tutta la regione. A Spalato sono industrie e un’ampia e fertile zona di coltivazione. A Spalato sono classi sociali bene differenziate. A Spalato sfocia sul mare una antica ed assai battuta strada che viene dall’interno della Balcanìa. Sembrano, qui, ancora attive e operose le forze che, millenni addietro, fecero di Salona, a due chilometri da Spalato, un grande centro dell’Adriatico. Chi ha Spalato è destinato ad agire for– 287 –


temente su tutta la regione. La Dalmazia di Zara e Sebenico non potrà non risentirne l’influsso e finirà con l’orientarsi verso quella direzione, sfuggendo quasi di mano, moralmente, a chi pure ne avrà il dominio politico. Quali, attualmente, le correnti più forti e visibili dell’opinione pubblica di quel Paese, in ordine ai problemi che si discutono al Congresso di Pace di Parigi? Gli Italiani, è risaputo, maggioranza a Zara, sono minoranza a Sebenico e a Spalato, per quanto non come le statistiche austriache e ora quelle peggiorate e scorrette degli Jugoslavi pretendono: specialmente a Spalato. In ogni modo, minoranza di fronte a maggioranza. Ma per dar un valore giusto a queste parole, bisogna tener presente la natura di tale maggioranza. Non trattasi di una massa compatta e omogenea. Sono Croati, Serbi, Morlacchi che fanno un po’ a sé. Sono cattolici e ortodossi. E si sa che cosa significa, presso popolazioni arretrate e, per giunta, balcaniche e mezze orientali, la differenza non di religione ma di setta. Politicamente, i Serbi prima inclinavano verso la Serbia, i Croati o verso l’indipedenza nazionale croata o verso l’autonomia sotto l’Austria. Durante la guerra, si sono avvicinati: ora appaiono di nuovo aspramente divisi. Verso di noi, sono ostilissimi i Serbi e i Croati nazionali, per lo meno gli elementi più giovani. Meno ostili sono i Croati nazionali della generazione più vecchia, formatasi nell’amministrazione italiana dei municipi e memore ancora del loro e nostro grande Antonio Baiamonti (1). Simpa(1) Antonio Baiamonti nacque a Spalato in Dalmazia, il 3 settembre 1822, da nobile famiglia probabilmente originaria di Parenzo in Istria. Di idee mazziniane, assorbite durante gli studi di medicina a Padova, fu podestà di Spalato dal 1860 al 1882 (salvo la parentesi del 1864-1865), e contribuì al rinnovamento civile della Dalmazia. Intorno a lui e alla sua «Unione liberale»,

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tizzanti o non affatto avversi, i Croati del Partito del diritto, cioè i Croati già fedeli all’Austria ed ora, crollata Austria, meglio disposti verso l’Italia che non verso la Serbia ortodossa; i Croati contadini, diffidenti di una Serbia guerriera, sospettosi di una Serbia che ora, in Croazia, in Bosnia, in Dalmazia, giuoca al bolscevismo, cioè aizza gli strati infimi della popolazione contro i proprietari terrieri, per scuotere le forze separatiste e particolariste che non vogliono essere assorbite dalla Serbia e soggiacere al violento centralismo di Belgrado. E si sa che questi Croati sono ora da per tutto, più o meno, in subbuglio contro l’occupazione serba. Serbi e serbofili hanno le loro sedi nei paesi vicini alla frontiera e poi nelle città e nelle isole. Croati antiserbi e non antitaliani sono, in generale, nelle campagne e nei villaggi dell’interno. Un’italiano, ad esempio, che da Sebenico risalga la Cherca verso Dernis, Knin, Kijevo, costata crescenti dimostrazioni di rispetto e simpatia da parte della popolazione. Contadini che si levano il cappello; ragazzi che si piantano sull’attenti e salutano scherzosamente; bimbi con nastri e coccarde tricolori addosso; qualche donna che sorride sull’uscio di casa. Fra i nostri soldati e la popolazione vi è cordialità, a volte intimità di rapporti. Qualche comandante di presidio è divenuto una piccola provvidenza per quella gente stremata dalla guerra, abbandonata a se stessa, senza scuole, senza medico, senza giustizia. A lui ricorrono, anche da oltre la linea d’armistizio, quanti hanno contese o questioni da da cui germinò l’Associazione dalmatica, si edificò il punto d’incontro delle correnti democratiche e liberali di Italiani e Croati. A favore di questi ultimi, Baiamonti, pur fautore dell’autonomia dalmata e contrario all’unione alla Croazia, istituì numerose scuole, favorì diffusione della lingua croata, da lui introdotta anche negli uffici della pubblica amministrazione. Sul punto, D. Salvi, Antonio Baiamonti ultimo podestà di Spalato, in «Rivista dalmatica», 33, 1961, 1-2, pp. 41-52, 56-57.

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sottoporgli; da lui sollecitano assistenza medica e medicinali. E giungono continue sollecitazioni dagli altri villaggi più lontani, perché gli Italiani avanzino: ciò che per essi significa ordine, sicurezza di persone e di beni, liberazione dalle prevaricazioni dei soldati serbi. Quest’atmosfera di benevolenza e di fiducia slave ci manca nelle città costiere, animate da spiriti nazionalistici, unitari, serbofili. Ma proprio qui sono, in cambio, i forti nuclei italiani. Qui è anche la massa dei nazionalmente indistinti che possono, quasi con egual diritto, essere rivendicati dall’uno e dall’altro campo. Trattasi di gente che parla slavo e italiano, che è politicamente indifferente, che vive del commercio con Italiani dell’altra sponda, che ha parentele e relazioni dall’una parte e dall’altra. E poi vi sono gli ascritti al partito socialista. A Spalato, sono poco meno che due migliaia. Sebbene essi si muovano fuori di ogni preoccupazione nazionale, pure sono meglio disposti verso di noi che verso una Grande Serbia. Come socialisti, riconoscono di avere ricevuto dall’Italia i primi germi di socialismo e di potersi ripromettere assai più dall’unione col forte Partito socialista italiano. Pur essendo per il 70 o 80 per cento slavi, ammettono che fino a 30 o 40 anni fa la città loro aveva carattere essenzialmente italiano e che anche ora essa è, quanto a coltura ed a vita industriale, italiana. Essi hanno molto apprezzato la prontezza e larghezza con cui l’Italia, senza chiedere in cambio nessuna dichiarazione di favore, ha rifornito di viveri la popolazione meno agiata, affidandone la distribuzione al Partito socialista ed alla Società Operaia, mentre la Serbia ha dichiarato di non poterne dare, l’America ne ha fornito in quantità minima, la Francia e l’Inghilterra non hanno neanche risposto alla domanda. Ora, questa somministrazione di viveri è cessata. Si è opposto il Governo provvisorio della Dalmazia («Vlada»), – 290 –


che vuol essere esso e solo esso il distributore; e la maggioranza dei comandanti interalleati gli ha dato ragione. Questa è propaganda, hanno detto; e qui ogni propaganda è vietata. Ma contro i nazionalisti jugoslavi della «Vlada» e contro i comandanti americani, inglesi, francesi, i socialisti di Spalato hanno avuto parole amare. Non si renderebbe dunque un’idea giusta di ciò che è, nazionalmente e politicamente, la Dalmazia chi mettesse di fronte due cifre, una, indicante gli Slavi, l’altra, gli Italiani. Guardando un po’ addentro quelle cifre, si vede che significano poco. Ciò che fa apparire tanto soverchianti le forze jugoslave è la loro innegabile attività, il loro zelo che è quasi fanatismo, la risolutezza e la violenza con cui si fanno valere. A Spalato hanno un punto di rannodamento che manca ai nostri, cioè il Governo provvisorio, insediato dai Serbi nel novembre. Ed hanno anche un altro gagliardo puntello: i tre comandanti navali francese, britannico, americano che, insieme col nostro, costituiscono lì la forza interalleata (2). Riconosciamolo: gli alleati nostri siedono assai più in funzione di alleati dei nostri nemici. Quel che è successo a Fiume, è successo, in proporzioni non minori, a Spalato. Con questo di aggravante: che a Spalato essi hanno potuto fare assai di più, perché lì esiste un governo provvisorio non italiano ma jugoslavo. Il quale governo, a rigore, dovrebbe esercitare il potere, solo come (2) Sul punto e per quel che segue, e cioè sulla conflittualità insorta, dopo la cessazione delle ostilità, tra Stati Uniti, Potenze dell’Intesa e Italia riguardo al destino del litorale adriatico, si veda C. Manfroni, I nostri alleati navali. Ricordi della guerra adriatica 1915-1918, Milano, Mondadori, 1927, pp. 275307; O. Foppiani, The Italian Navy in the Adriatic, 1918-1919. An Unknown Diplomatic Actor between Inter-Service Rivalry and International Competition, in «Nuova Rivista Storica», 101, 2017, 3, pp. 969-990.

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mandatario delle Grandi Potenze alleate; ma in realtà emana da Belgrado, è in rapporti strettissimi e palesi con Belgrado, pubblica nel suo giornale ufficiale ed applica o cerca di applicare leggi ed ordinanze promulgate a Belgrado. In linea di diritto, lo Stato jugoslavo non è riconosciuto ancora dall’Intesa: ma riconosciuto, di fatto, esso è, per il tramite di questo governo di Dalmazia che agisce come suo organo e da cui Inghilterra, America, Francia (Francia soprattutto!) forniscono il più cordiale appoggio, anche e soprattutto quando esso si traduce in danno nostro, in menomazione del nostro prestigio. Ne deriva che tardive e illusorie sono sempre le riparazioni a offese fatte a noi. In linguaggio povero: l’Intesa ha fatto pace separata con i nostri nemici adriatici (e forse anche con i nemici d’oltre Brennero); con quelli che intanto seguitano a proclamare il loro diritto su quanto lo stesso trattato di Londra ci garantisce, e non esitano persino a promulgare disposizioni legislative da far valere per la Dalmazia, l’Istria, il Goriziano. Cito, ad esempio, un’ordinanza dei Ministri di Belgrado, annunciata dal «Jadran» di Spalato del 28 febbraio, con la quale si regolano “ex novo” tutti i rapporti quasi di colonia in quei paesi. Amore di giustizia, simpatia per le piccole Nazioni ecc. ecc. muovono certamente gli alleati nostri. Ma noi ricordiamo certa vecchia austrofilia anglo-francese; ricordiamo certe oscure influenze venute a interrompere le nostre guerre di indipendenza ed a salvare l’Austria; ricordiamo certa strana fretta con cui noi abbiamo voluto (?) sei mesi fa arrestare la nostra avanzata e firmare l’armistizio, mentre le forze jugoslave del disfatto esercito austriaco si riorganizzavano sotto altro nome e altra bandiera ma con lo stesso identico spirito antitaliano. Intravediamo anche oggi, nella penombra, un luccicar di occhi avidi che si affissano sul porto di Fiume e sopra le sue imprese di naviga– 292 –


zione, sopra i boschi della Croazia o i cementifici di Spalato o le ferrovie della Dalmazia e della Bosnia… E allora un senso di profonda invidia ci prende per questi fortunatissimi amici nostri i quali trovano sempre una così perfetta coincidenza fra giustizia e loro interesse. Mentre a noi Italiani si rimprovera di coltivar interessi egoistici in odio alla giustizia e si ammonisce di rispettar la giustizia che, simile alla filosofia, va per noi costantemente «povera e nuda». Tutto questo è doloroso, dopo una guerra vinta e più di mezzo milione di morti. La solidarietà degli alleati ci è venuta meno: specialmente di taluni alleati che pure sono larghissimi quanto a parole e a propositi per l’avvenire. Noi ascoltiamo le parole, ma è necessario che non chiudiamo gli occhi ai fatti. E i fatti sono quello che sono; sono quelli che erano avanti la guerra. Bisogna pensare a una specie di incapacità organica dell’ Europa a capire l’Italia, ad una ostinata volontà di ignorarla. Ma noi esistiamo e non intendiamo più di essere ignorati. È finito il tempo in cui noi valevamo solo in quanto pedina del giuoco altrui. Questa coscienza è ormai saldissima negli Italiani che hanno fatto la guerra e offenderla troppo non sarebbe un bene per nessuno. Questi Italiani, questa Nazione di quaranta milioni di uomini, chiedono ora ad alta voce che la questione di Fiume, di per sé chiarissima, abbia soluzioni non equivoche, ma conformi al diritto nazionale, al voto e alla volontà della cittadinanza di quella che dovrebbero pur contare qualche cosa. Chiedono che sia osservato e integrato il patto di Londra per quanto riguarda la Dalmazia. Chiedono che sia liberato l’Adriatico da quella incomprensibile e ingiustificata invadenza interalleata che si risolve tutta a vantaggio dei nostri nemici. – 293 –


Chiedono che il problema adriatico e le altre questioni territoriali ed economiche per noi essenziali siano definite avanti che la pace con la Germania sia trattata e conchiusa. Chiedono che il patto di Londra e gli accordi di S. Giovanni di Moriana siano rispettati e sia tenuto conto del contributo nostro alla guerra, quando si risolveranno le questioni coloniali, specialmente nell’Asia Minore, indipendentemente da quanto ci fu riconosciuto dopo la guerra libica (3). Chiedono insomma che le loro giuste aspettative non siano tradite, che non siano dimenticate le belle promesse altrui dell’anno della neutralità. Bisogna che essi non escano dalla guerra solo con dei debiti verso gli alleati e con un’inferiorità industriale schiacciante di fronte ad essi. Bisogna che essi non debbano rimpiangere l’incrollabile fedeltà, con cui hanno fatto propria, fino all’ultimo, la causa dell’Intesa, e non si ricredano dalla persuasione di aver combattuto «per la civiltà e per la giustizia».

(3) Gli accordi di San Giovanni di Moriana (Saint-Jean-de-Maurienne), furono un patto d’intesa tra Francia, Italia e Regno Unito, concluso tra il 18 e il 21-22 agosto 1917 e poi ratificato il 26 settembre seguente. Il testo redatto dal Ministero degli Esteri italiano era volto al raggiungimento di un accordo tra le tre Nazioni al fine di trovare l’equilibrio dei loro interessi sui territori dell’Impero ottomano Sul punto e per l’insoddisfazione italiana per l’applicazione degli accordi, al termine del conflitto, si veda M. Toscano, Gli accordi di San Giovanni di Moriana. Storia diplomatica dell’intervento italiano, II. 1916-1917, Milano, Giuffrè, 1936; F. Imperato, Il miraggio dell’Oriente. L’Italia e gli accordi di San Giovanni di Moriana, in «Itinerari di ricerca storica», 32, 2018, 2, pp. 53-71.

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Radiose giornate di maggio (*) Nel mese di maggio del 1939 gli avvenimenti politici ci hanno più volte richiamato alla mente un altro maggio che venticinque anni addietro fu vigilia di storici eventi. Venticinque anni: e sembrano per noi un secolo. Difficile concepire un Paese meno preparato, allora, a un grande cimento. Progressi, certo l’Italia ne aveva fatti nell’ordine economico-sociale, nel pensiero politico, nel sentimento e nel presentimento dei valori nazionali. Contava anche al suo attivo l’impresa di Libia nel 1911-1912; la vittoriosa resistenza a Francesi o Inglesi nella questione del Dodecaneso; la non infelice battaglia diplomatica per salvare l’Albania. E tuttavia, quanta frammentarietà e incoerenza, ancora, in quell’Italia di anteguerra, quanta indisciplina interna, quanto rumore e ingombro di partiti, quanto discredito dello Stato e squilibrio di poteri! La Nazione cresceva, si rinnovava, non c’è dubbio; ma tra sobbalzi, arresti, deviazioni di pensiero, dispersioni di forze, incertezze su le vie da battere, debolezza di direttive. Momento difficile, quello, anche in fatto di relazioni internazionali. Intorbidati nuovamente i nostri rapporti con la Francia, come sempre ogni volta che l’Italia si muove nel Mediterraneo e in Africa: e ne era venuto il rinnovamento anticipato della Triplice. Ma anche con la Triplice non erano rose: specialmente con l’Impero asburgico. E più di una volta, il nostro ministro degli Esteri, San Giuliano dové ammonire che l’alleanza era in pericolo; che anzi era in pericolo la stessa pace fra gli alleati. Insomma, (*) Articolo redatto per il «Corriere della Sera», il 22 maggio 1939, poi rifiutato dal quotidiano milanese.

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nuova crisi dell’effimera amicizia francese e crisi dell’alleanza: e quindi isolamento. In quel momento la guerra esplose. Che fare? Inutile dire che Salandra non era animato da spirito battagliero. Altro volto il suo, dai Poincaré, dagli Iswolsky, dai Sazonov, dai Delcassé, dai Berchtold e dai von Jagow, tutti chini sulle leve di comando della politica mondiale, tutti intenti pur con linguaggio di pace a preparare coi fatti la guerra. In Salandra, vi era un’alta idea dello Stato liberale e dei suoi compiti, in confronto del suo predecessore. Ma vedeva il Paese sempre sotto la minaccia della guerra civile, le finanze in mediocre ordine, il Parlamento irrequieto ed esigente. In tali condizioni una guerra atterriva. E quale guerra! Pare che Salandra non s’illudesse: l’Inghilterra sarebbe intervenuta contro la Triplice. E per l’Italia liberale e costituzionale non era neppur pensabile una guerra con l’Inghilterra, patria del liberalismo e costituzionalismo, «tradizionalmente amica». Più ancora: che cosa sarebbe avvenuto delle città costiere italiane? Che della Libia, dove 50.000 uomini vivevano, giorno per giorno, dei rifornimenti della Madrepatria? Che dell’Eritrea, rinserrata tra Suez e Aden? E il carbone? E la lana? E il grano e il petrolio e il cotone che ci venivano dall’Inghilterra o attraverso il mare dominato dall’Inghilterra? Ma vi era il trattato della Triplice. Ebbene esso parlava solo di clausole che non erano state osservate dall’Austria. A rigore, l’Italia avrebbe potuto dichiarare rotto il patto. Si limitò a escludere il casus foederis. Fece tuttavia qualche assaggio a Vienna per i compensi: naturalmente terre irredente. Ma, lì, restava la solita idea fissa della debolezza militare italiana, anzi della paura italiana, la persuasione di poter provocare in Roma l’ascesa di un altro uomo politico al posto di Salandra, tutto questo rese sordi, l’ambasciatore a Roma, Alexander von Merey, il ministro degli Esteri, Leopold Berchtold, l’Austria insomma. Quindi, neutralità. – 296 –


E gli Italiani, e l’opinione pubblica, e i partiti, e la stampa? Voci tripliciste non mancarono. Anche benigne per l’Austria. E se la Triplice ci impegna a marciare, dicevano, marceremo. Dura lex, sed lex! Al che altri, dei piccoli gruppi nazionalisti e affini, aggiungevano che quella era occasione propizia perché l’Italia possa farsi viva nel mondo; anche mezzo per difendere i nostri recenti acquisti mediterranei da chi li insidia e per premunirci da gallici contagi... Ma dall’opposto campo, si levarono opposte voci, presto dominanti. I vecchi avversari della Triplice si precipitarono a far furia nella breccia aperta nella trentennale alleanza. Le pattuglie dei repubblicani erano in primissima fila, armate d’irredentismo e, non meno, di «principi», contentissimi, ora di poter rinnovare il processo alla «politica estera della Monarchia», cioè alla Monarchia. Motivazioni non identiche, ma identica opposizione l’avevano i socialisti del partito, identica, i socialisti riformisti. E, certo, quest’atteggiamento di una parte dell’opinione pubblica poté avere il suo peso, anch’esso, nel determinare la neutralità. Ma il tempo correva veloce. Le posizioni, appena raggiunte perdevano subito il loro valore. Davanti alla neutralità, ecco un altro obiettivo: la guerra. E carattere prevalentemente ideologico, rivoluzionario e francofilo ebbe questo primo interventismo. Ma presto si fece strada anche l’idea di una guerra a fianco, sì, dell’Intesa, poiché con gli altri non si era voluto o potuto andare, ma per l’Italia, non per la rivoluzione e per la Francia. L’Idea Nazionale fu tra i primissimi a invocarla. Da quindici anni le pattuglie nazionaliste parlavano della guerra come salutare e necessaria. Oltre Tunisi o Trieste, Mediterraneo o Adriatico, additavano uno scopo più vago ma più grande: ridare tempra al popolo italiano, attraverso una sanguinosa prova. Quel pensiero non fu estraneo anche a conservatori liberali tipo Sonnino. In quei tragici giorni di agosto, Corradini poteva – 297 –


dolersi del fallimento della Triplice, ma si rallegrava del crollo dell’ideale pacifista e umanitario, dell’internazionale proletaria o capitalista. E si esaltava allo spettacolo desiderato e atteso, che il mondo offriva: milioni di giovani sotto le armi, le Nazioni in moto come un sol uomo, sotto l’impero della disciplina. Ma ciò non poteva essere per gli Italiani solo uno spettacolo offerto dalla rombante letteratura nazionalistica. Così l’interventismo cominciava a perdere il carattere prevalentemente democratico, francofilo, massonico, rivoluzionario alla vecchia maniera e a prenderne un altro nazionale. Convincimento di una nostra solidarietà, ora più che con l’Intesa che non con la Triplice, ma non coincidenza di interessi permanenti in nome di principi. L’Austria poteva andare a catafascio; ma con la Germania, contenuta nel suo straripare, avremmo potuto trovarci concordi contro altre possibili egemonie. E si parlava (Dino Grandi) di «popoli giovani contro popoli vecchi», di «nazioni proletarie contro nazioni plutocratiche». E tra le prime s’includeva da taluno anche la Russia... Concorsero ad accentuare il carattere nazionale dell’interventismo, l’immigrazione dei Trentini e quella degli Adriatici che ormai avevano superato il vecchio irredentismo romantico, mazziniano, popolaresco, repubblicano, pacifista. Non ci nascondevamo il pericolo slavo, se vinceva l’Intesa. Ma avevamo un solo modo per fronteggiarlo: partecipare alla guerra al suo fianco. Ed era urgente farlo. Ora o mai più! Pochi italiani erano insensibili a queste voci. E il motivo irredentista fu come una passerella gettata ai fautori della neutralità. Molti passarono. Si ebbe così anche questo: mentre da principio, per l’interventismo di sinistra, il maggiore bersaglio era la Germania, la Germania imperialista, militarista, incarnazione dello spirito del male ecc.; ora sempre più, lo diveniva l’Austria e i vecchi Asburgo. Tornava nella sua – 298 –


piena attualità il Risorgimento, con i suoi problemi insoluti, i suoi eroi. Sintomatico e importante, in autunno, l’aperto passaggio del Corriere della Sera alla causa dell’interventismo: il Corriere voleva dire i ceti della cultura, molta borghesia industriale e agricola; e anche, al posto della nota francofila, una decisa anglofila. In autunno, maturò anche la crisi del partito socialista. Gran corpo, piccola anima. Esso era all’opposizione di ogni guerra. Guerra non voleva dire, infatti, collaborazione, solidarietà nazionale, proletari inquadrati da borghesi, valori patriottici? Quella guerra, poi, era anche democrazia e massoneria. Pericolo di perdersi in quel bailamme? E poteva, il partito, anche avere ragione. Ma pericolo non minore era l’assenza dalla guerra, lo stare a vedere. Questo capirono alcuni socialisti: primissimo l’uomo più dinamico e volitivo che i socialisti contassero, Mussolini. Invano egli aveva, prima di allora, cercato di dar un’«anima rivoluzionaria» al partito. A questo scopo, aveva forse sperato di ingaggiar battaglia anche sul terreno della nazionalità. Ora, dopo dichiarata, la neutralità aveva perso ogni valore rivoluzionario, mentre se ne saturava a modo suo e nuovo, l’interventismo. Così Mussolini passò all’interventismo: presto dominandovi. Il partito non lo seguì: ma molti, sì. E le forze interventiste si arricchirono di uomini lontani dalla vecchia democrazia, dal nazionalismo, dal liberalismo. Mussolini cominciò subito l’opera di demolizione del vecchio socialismo, per farlo rivivere come «socialismo nazionale», come nuova democrazia. Così l’interventismo diventava rappresentanza piena della Nazione: rappresentanza fatta non di partiti, tutti in crisi, tutti squassati e divisi, ma di elementi tolti da tutti i partiti, sintesi più che somma. Non grande omogeneità. E nel corso della guerra e dopoguerra, le venature cresceranno, e diverranno anzi fratture. Ma idealmente, nell’interventismo del 1914-15 è in nuce il fascismo o filofascismo del 1919. – 299 –


È il destino della vita che il moto crea nuovo moto. Il cresciuto vigore dell’interventismo, con Mussolini, sollecitò altre forze uguali e contrarie, anche fra liberali e conservatori: che non erano, tutti, gente pavida, incurante del bene della patria o sedotti dall’«oro tedesco», di cui pure si parlò, come si parlò, dall’altra parte, di «oro francese». Spesso, non c’è dubbio, ragionavano meglio degli avversari. Il dopoguerra darà ragione a molte loro previsioni. E tuttavia, il fiuto del tempo, il senso della direzione allora più giusta, lo avevano più gli altri, anche se gli altri si trascinavano dietro grosso bagaglio d’invecchiate ideologie, di cui i prossimi eventi avrebbero mostrato il valore contingente e strumentale. Si venne così al cozzo, che fu quasi di guerra civile. La partecipazione di Giolitti, nelle ultime settimane, inasprì il contrasto. Bisogna ricordare cosa era Giolitti, allora, per molta parte degli italiani: sinonimo di ogni corruzione. Il suo attuale neutralismo diede altro vigore all’interventismo, e gli offrì nuove armi. Ai fini della guerra, si aggiunse quest’altro: liberare l’Italia da Giolitti. Ma Giolitti era fortissimo in Parlamento: quindi, l’animosità contro Giolitti si riversò anche contro il Parlamento. Il risultato di questa lotta è noto. Giolitti fu battuto, il mondo parlamentare fu battuto. Il Re, al bivio, scelse la strada che era additata, oltre che da una valutazione realistica e insieme ideale dei problemi italiani e della situazione internazionale, dall’elemento più vivo della Nazione. Salandra fu riconfermato ed ebbe i pieni poteri. Ma rimase come un sordo rancore nel Parlamento, quasi per una violenza subita. E si considerò ferito l’istituto parlamentare. Si profetò che il primo colpo di cannone avrebbe segnato la fine del Parlamento. Realmente molte cose finirono in quelle giornate o si avviarono verso la fine. «Radiose giornate di maggio» furono esse dette dagli interventisti, e gli altri ripeterono ironizzando, mentre per essi erano piuttosto sudamericane giornate di maggio. Non tutto bello in – 300 –


esse. Ma «radiose» certo, lo erano se pensiamo all’animo di quella gioventù che invocava una guerra che essa stessa avrebbe dovuto combattere. Anche chi non capiva quei giovanili entusiasmi, intuì che qualcosa di nuovo nasceva in Italia. «Radiose» furono, poi, se si pensa che quella guerra fu il necessario suggello ad una Nazione nata da poco, ancora piena di incrinature, poco considerata e meno temuta dagli altri, procedente tra retorica esaltazione del passato e sfiducia nelle proprie forze. «Radiose» furono se si considera che, da allora, il sentimento nazionale permeò sempre più ogni classe e fu avviato il processo di ricostruzione dell’autorità dello Stato. La guerra era «necessaria», si sarebbe fatta anche senza l’interventismo: ma l’interventismo accese passioni, mutò la necessità in coscienza e volontà nazionale, determinò una più intima partecipazione del Paese alla guerra, elevò il valore della guerra stessa, la rese capace di più grandi conseguenze, fece dei combattenti come l’avanguardia di una Italia più energica e volitiva, più protesa verso l’avvenire. L’Italia d’oggi.

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INDICE Eugenio Di Rienzo, Gioacchino Volpe e l’Italia in guerra, maggio 1915-giugno 1916 . . . . . . . . . . Pag. 7 Dai «cannoni di Agosto» al «Maggio radioso» » 7 I «due fronti» e la questione del confine orientale » 52 Vigore e fiacchezze della guerra italiana . . . . . » 92 Verso Caporetto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 130 Gioacchino Volpe, Il popolo italiano nel primo anno della Grande Guerra . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Nota dei Curatori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Debolezze e spiriti vitali dell’Italia in guerra . . La tregua interna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Volontari, quasi volontari di guerra, volontari civili . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Da Salandra a Boselli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Indice dei nomi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Gioacchino Volpe, Scritti giornalistici sulla Grande Guerra . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pei fischiatori che non riflettono. Corrispondenza da Berlino, 23 agosto 1903 . . . . . . . . . . . . . . . Tornando dalla Dalmazia, 21 aprile 1919 . . . . Radiose giornate di maggio, 22 maggio 1939 . . – 303 –

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Minima Storiografica Piccola Biblioteca della Nuova Rivista Storica N.1. -Pietro Quaroni, La politica estera italiana dal 1914 al 1945, a cura di Luciano Monzali N.2. -Carlo Morandi, L’idea dell’unità politica d’Europa nel XIX e XX secolo, a cura di Alessandro Guerra N.3. -Roberto Ducci, La mestizia di Aldo Moro, a cura di Luciano Monzali N.4. -Alfredo Parente, La lunga vigilia. Pensieri e ricordi politici. Napoli 1939-1946, a cura di Gerardo Nicolosi N.5. -Gioacchino Volpe, Il popolo italiano nel primo anno della Grande Guerra. Testo inedito, a cura di Eugenio Di Rienzo e di Fabrizio Rudi N.6. -Roberto Gaja, Console a Tripoli 1949-1952. A difesa dell’interesse nazionale italiano in Libia, a cura di Luciano Monzali


Finito di stampare da EPX Printing srl - Cerbara (Pg)


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