GLI ANNI DELLA RABBIA

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«L'Italia considera la Sicilia una terra di cui ci si serve solo in caso di bisogno, per poi abbandonarla come una cosa cattiva o fastidiosa quando non serve più.» Il 1943 e gli anni successivi, fino al 1947, furono un periodo molto complesso nei rapporti fra la Sicilia e l'Italia. L'invasione delle forze alleate e l'insediamento di un governo cl' occupazione portò di fatto al distacco dal resto del Paese. La restaurazione badogliana del 1944 e i vertici politici della fase luogotenenziale, che fecero largo ricorso ad azioni di repressione, contrib ui··' rono ad aggravare la situazione. La rabbia indipendentista, la ribellione che per anni divampò nell'isola, servirono a seppellire il vecchio Stato italiano e portarono al compromesso del nuovo ordinamento regionale. Si pen ò che fosse finalmente venuto il tempo di realizzare un nuovo assetto politico e sociale per l'isola. Ma ben presto i siciliani sì accorsero che tutto era troppo cambiato perché qualcosa potesse cambiare. L'Autore descrive con intensa partecipazione ciò che accadde in SìcilJ,a in_qu~gli anni, in pa1tic0Jare le soffe: _ .~~,... renze della gente di Montelepre e dei paesi vicini, le vicende del bandito Salvatore Giuliano con sullo sfondo personaggi rimasti sempre al di sopra di ogni sospetto. Sandro Attanasio è stato pubblicista e saggista. Nel 1976 ha scritto, per Mursia, Sicilia .senm lta/i4 e ncl 1978 Parole di Sic,1ia.

I S B N 978-88-425-4295-7

Euro 18,00

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Sandro Attanasio

GLI ANNI DELLA RABBIA Sicilia 1943-1947

MURSIA


Nonostante le ricerche eseguile, non è stato possibile rintracciare gli aventi <liritlo. L'Editore si dichiara pienamente disponibile ad adempie re ai propri doveri.

11 nostro indirizzo Internet è: http://www.mursia.com © Copyright 1984 Ugo Mursia EJ itore S.p.A. Tutti i diritti riservati - Printed in Ttaly 2632/AC - Ugo Mursia Editore S.p.A. - Milano Stampato da DigitalPrint Scrvice - Segrate (Milano) Anno 12 I l 10 09

Ristam a 1 2 3 4


AVVERTENZA

In cento anni gli « avvenimenti di Sicilia » hanno cambiato l'Italia piu volte. Nel 1848 la rivoluzione, scoppiata a Palermo il 12 gennaio, accese il fuoco dell'insurrezione nazionale in tutta l'Italia e costrinse Carlo Alberto e gli altri riluttanti principi italiani a scendere in campo contro lo strani.ero. Nel 1860 il consenso e l'aiuto della popolazione siciliana resero possibile il successo dell'avventura garibaldina e fecero l'Italia Unita, anche se << cucita col fi!,o di ferro dell'esercito». Nel 1893 il fallimento dei Fasci Siciliani dei Lavoratori, unico tentativo di autorganizzazione di base del proletariato del nostro paese, significò la sconfitta della rivoluzione sociale e la vittoria del riformismo. Infine gli avvenimenti del 1943: invasione anglo-americana, governo militare d'occupazione e « rabbia separatista », provocarono una totale trasformazione politica e amministrativa dello Stato italiano. Questo libro, che racconta gli avvenimenti di Sicilia dal 1943 al 1947, anni che videro la definitiva sconfitta dello Stato unitario e accentratore italiano, lo devo all'affettuoso incitamento di un amico scomparso, Attilio Castrogiovanni, che rimase sempre fedele all'Ideale della « Nazione Siciliana >>. Moltissime persone mi hanno aiutato con notizie, informazioni e chiarimenti; li ricordo tutti con un ringraziamento che rivolgo al dottore Pasquale «·Pino» Sciortino, coerente protagonista delle vicende dell'EVIS. La costruzione « generale » del lavoro non mi ha permesso di scrivere piu dettagliatamente su vicende e personaggi in esso ricordati. Vicende che sono ancora coperte dall'inspiegabile mistero voluto dalle autorità dello Stato, e che forse sono alla radice del male che tormenta il nostro paese. Vicende che devono essere maggiormente approfondite, meglio comprese p~r essere, finalmente, giudicate dalla Storia: la tragedia di Portella delle Ginestre, le sofferenze della gente di Montelepre e dei paesi vicini, la vita di Salvatore Giuliano ... quella parte della vita 5


di Giuliano rimasta «oscura», ma che fu popolata da un'inquietante moltitudine di personaggi rimasti sempre « al di sopra di ogni sospetto ». È tempo oggi che questa ricerca, questa rivelazione storica, venga fatta. Per un dovere verso la Verità, verso la Sicilia e la sua Gente.

S.A.

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Sichilia miskinella comu si consumata ki eri tantu bella kindi eri invidiata! In lu mundu eri una stilla or si tutta scurata zo fu la genti fella ki intra ti esti siminata. (Povera Sicilia / come ti sei ridotta / tu che eri cos{ bella / che eri cosi invidiata! / Stella eri nel mondo / ora del tutto oscurata / a causa di gente vile / in te annidata.) .ANONIMO, Quaedam Profetia (XIV sec.)

« Siciliani! Voi siete grandi! Voi avete in pochi giorni, fatto piu assai per l'Italia, Patria nostra comune, che non tutti noi... E la Vostra Vittoria ha mutato le sorti italiane ... Dio benedica l'armi Vostre, le Vostre donne e i Vostri sacerdoti e Voi tutti ... » (GIUSEPPE MAzzINI, Ai Sidliani, Londra, 20 febbraio 1848)

« Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Ho la coscienza di non aver fatto del male, nonostante ciò non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio! » (GIUSEPPE GARIBALDI, Lettera ad Adelaide Cairo/i, settembre 1868)

« La Sicilia lasciata a sé troverebbe rimedio... una trasformazione sociale accadrebbe necessariamente sia col prudente concorso della classe agiata, sia per effetto di una violenta rivoluzione. Ma noi Italiani delle altre provincie impediamo che tutto ciò avvenga, abbiamo legalizzato l'oppressione esistente ed assicuriamo l'impunità all'oppressione » (SIDNEY SoNNINO, Inchiesta in Sicilia, 1876)

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I. COME SI GIUNSE ALL'ARMISTIZIO DEL 1943 « L'Italia, anche ridotta nella valle Padana non cede, questo i nostri avversari ormai sanno i.. (Rapporto del generale Ambrosio, capo di Stato Maggiore generale a Mussolini, maggio 1943)

:8 convlllZlone comune, confortata da parte della storiografia ufficiale, che gli avvenimenti che portarono alla caduta del fascismo e al successivo armistizio dell'8 settembre, furono dovuti all'invasione della Sicilia, alla sua successiva conquista da parte degli Alleati, e all'incombente minaccia sulla penisola. Presentati; in maniera cosf semplice e convincente, gli avvenimenti di quel tragico 1943, ne consegue un ragionamento che non fa una grinza: il cambio del regìme, e la resa, furono gli dfetti clamorosi e necessari che avevano come causa la drammatica invasione del territorio nazionale e l'impossibilità italiana di poter continuare a difendere tale « sacro territorio ». La verità è, e gli « addetti ai lavori » ne sono da sempre a conoscenza, esattamente il contrario. Lo sbarco degli Alleati in Sicilia fu effetto, e non causa, della decisione di capitolazione presa da tempo dalla classe dominante italiana. Per provocare il fatto politico militare determinante, e cioè il cambio del regime politico, e giungere all'armistizio con gli Alleati (non alla pace, in quanto si contava sul rovesciamento del fronte), era necessario provocare un fatto politico clamoroso anche se, in fondo, di limitata importanza militare sul piano generale. Ma la deformazione della storia ormai non vale piu e oggi siamo in grado di ricostruire con estrema chiarezza i fatti di quel tragico 1943 che dovevano rimanere scolpiti a caratteri di fuoco e di sangue nelle carni e nella memoria degli italiani. La determinazione alleata di sbarcare in Sicilia venne concordata fra le due parti, gli anglosassoni e gli italiani, e tenacemente perseguita durante i primi sei mesi del 1943; quando, la notte fra il 9 e il 10 luglio, la « grande armata » alleata (3.200 navi, la piu grande flotta di tutti i tempi) si presentò davanti alle coste della Sicilia, i giochi erano fotti . Le grandi operazioni combinate degli anglo-americani nel Mediterraneo furono in massima parte dovute a un'ampia visuale strategica globale elaborata dall'infaticabile Churchill fin dal 1941. Tale visuale rimase estremamente valida fino al disastro subito dalla 9


Wehrmacht &a le rovine di Stalingrado. Ma dopo tale data le sorti della guerra volsero definitivamente a favore dell' « ibrida » alleanza russo-anglosassone e la « strategia mediterranea » perse le sua importanza militare per acquistare un grande interesse politico. Se la primitiva scelta mediterranea di Churchill rimase invariata, e venne ancora piu tenacemente continuata, ciò si deve ad alcuni motivi: La tradizionale e naturale debolezza che fa dell'Italia l'elemento piu fragile di qualsiasi alleanza militare. Ciò è sempre avvenuto in tutte le guerre affrontate dall'Italia dalla sua riacquistata unità: nel 1859, nel 1866, nel 1915 e infine, nell'ultima guerra mondiale. Ogni volta l'Italia, spinta da un vistoso interesse politico, è entrata baldanzosamente in guerra per la solita « passeggiata » militare, ma ha subito clamorosi rovesci ed è entrata in crisi per dipendere presto dall'alleato di turno, trasformatosi subito in padrone. 2. Alla fine del 1942 gli inglesi dimostravano assoluta certezza che l'Italia « sarebbe uscita dalla guerra, dopo attacchi decisi e sferrati nel punto e nel momento giusti ».1 3. Il ragionamento, molto sensato, che tedeschi e russi continuassero ancora a svenarsi, e che il Mediterraneo, la penisola balcanica e il Medio Oriente venissero sottratti a qualsiasi presenza militare e politica sovietica. Di questi motivi il primo e il terzo erano estremamente corretti, mentre il secondo non aveva alcun fondamento logico. Come e da dove gli inglesi traevano la convinzione che l'Italia sarebbe uscita dalla guerra? Non certo dagli ultimi avvenimenti militari in Tunisia dove, per ammissione dello stesso generale inglese Montgomery, gli italiani si battevano altrettanto bene dei tedeschi. Anzi, spesse volte meglio: « Avevo visto la resistenza che tedeschi ed italiani venivano svolgendo in Tunisia e ritenevo che fosse essenziale prepararsi a una forte resistenza in Sicilia ».2 1.

Di fronte all'ottimismo di Eisenhower, il cauto Montgomery ribadiva al generale Alexander le sue preoccupazioni circa il buon risultato dd piano « Husky », e cioè l'invasione ddla Sicilia. Inoltre nel mese di maggio 1943, dopo un'ispezione in Sardegna, il capo di Stato Maggiore generale italiano, generale Ambrosio, scrisse un rapporto a Mussolini affermando di non credere in un'invasione della penisola perché sarebbe stata cosa lunga e non decisiva per il risultato finale della guerra. Il rapporto concludeva con queste parole: « L'Italia, anche ridotta nella valle Padana, non cede; 1

Cfr.

FRANCO BANDINI,

Cfr.

MoNTGOMERY

p. 198. 2

p. 112. IO

Vita e morte segreta di Mussolini, Milano, 1978,

B. L., Da el-Alamein al fiume Sangro, Milano, 1950,


questo i nostri avversari ormai sanno». Poche settimane dopo, lo stesso Ambrosio, con Roatta, assicurava Mussolini che « se gli anglo-americani si fossero azzardati a sbarcare in Sicilia avrebbero subito una tale sconfitta da far cambiare le sorti della guerra nel Mediterraneo». Mussolini, ingannato dalle parole del suo capo di S.M.G., aveva pronunciato l'infdice discorso del «bagnasciuga» del 24 giugno. Con quanto stava accadendo in Tunisia era dunque logico c}ie gli italiani si sarebbero battuti ancor meglio per difendere la loro patria. Inoltre niente lasciava sospettare che l'Italia fosse alla vigilia di quel crollo verticale che avvenne nel 1943. In Italia non v'era alcun movimento politico o popolare tale da mettere in difficoltà il regime né, tanto meno, da costringerlo alla resa. Gli scioperi delle fabbriche del Nord della primavera del '43, furono ingigantiti dalla successiva propaganda antifascista. In verità coinvolsero gli operai di alcune fabbriche e rientrarono dopo un paio d'ore, senza bisogno di ricorrere a particolari misure poliziesche o militari. Anche un eventuale raffronto con la situazione della Russia del 1917, della Germania e dell'Austria-Ungheria del 1918, non reggeva. E poi anche in tali paesi i movimenti popolari si verificarono dopo che gli eserciti s'erano ammutinati. Infine un ragionamento logico sulla crisi militare italiana era fuor di questione, per un motivo paradossale, ma vero. L'Italia era in crisi fin dai primi giorni della guerra, e cioè da tre anni. Precisamente negli alti vertici militari dimostratisi sempre confusi, indecisi e incapaci. Ma anche questa crisi di vertice militare fa parte della tradizione italiana. Invero la situazione militare era grave, ma non irrimediabile se, come affermò Hitler, il duce avesse avuto la far.la di ricorrere a « barbariche misure » come quelle prese in Francia da Pétain nel 1917 e in Russia da Stalin nel 1941. Ma questa soluzione era improponibile per Mussolini dittatore «all'italiana» che rifuggiva da ogni sorta di « barbarica misura». Dunque, alla fine del 1942 e all'inizio del 1943 non v'erano in Italia quelle premesse, anche apparenti, che dovevano portare al crollo dell'estate '43. Infine è da notare che, malgrado le gravi perdite già subite, nel 1943 le riserve belliche dell'I talla erano imponenti e ancora sufficienti per un serio impegno bellico. Secondo quanto risulta dal rapporto del capo di S.M. della Wehrmacht, generale Alfred Jodl,3 il materiale catturato dai tedeschi nei magazzini militari italiani dopo 1'8 settembre ammontò a: « 1.265.660 fucili, 38.383 mitragliatrici, 9 .988 pezzi di artiglieria, 970 carri armati, 15.500 automezzi, 4.553 aerei (compresi quelli in riparazione), 3

Cfr. Documents on Germany Foreign Policy, NCA 3-1167. II


10 caccia e torpediniere, 51 navi e unità minori piu le navi catturate in cantiere, 500.000 capi di vestiario, 67.600 muli e cavalli, 123.114 mc di carburante per veicoli». Senza contare il materiale di 51 divisioni « totalmente disarmate » e quello di altre 29 divisioni « probabilmente disarmate». Bisogna poi aggiungere il materiale dei reparti e dei magazzini caduti nelle mani degli anglo-americani, dei partigiani greci, albanesi, jugoslavi e francesi, il materiale finito in possesso delle popolazioni civili. E ancora rimase di che armare l'esercito della Repubblica fascista, quello del Regno del Sud e gli stessi partigiani italiani! Infine le fabbriche del Nord continuarono dopo l'armistizio a lavorare a pieno ritmo, a produrre materiale bellico per i germanici in quantità tanto imponenti che le torbide vicende legate a tali produzioni risuonano ancora oggi, a oltre quarant'anni di distanza, nelle aule giudiziarie del nostro paese. Ciò premesso, appare invece chiaro che tra la fine del 1942 e i primi giorni del 1943, fu la monarchia italiana che prese la decisione di staccare l'Italia dall'alleanza con la Germania, d'arrivare alla pace con gli Alleati e d'effettuare un rovesciamento del fronte. Per attuare questa decisione era necessario liberarsi di Mussolini e del regime fascista. Di tutto questo abbiamo una precisa testimonianza lasciataci dallo stesso Vittorio Emanuele III in una lettera scritta all'ex Ministro della Real Casa, l'intrigante e affarista duca Pietro Acquarone. In tale lettera l'ex monarca volle precisare: « Fin dal gennaio 1943 io concretai definitivamente la decisione di porre fine al regime fascista e revocare il capo del governo Mussolini. L'attuazione di questo provvedimento, resa piu difficile dallo stato di guerra, doveva essere minuziosamente preparata e condotta nel segreto piu assoluto, mantenuto anche con le persone che vennero a trovarmi a parlare del malcontento del paese. Lei è stato al corrente delle mie decisioni e delle mie personali direttive » continuava Vittorio Emanuele di Savoia con prosa poco regale come se volesse invocare la testimonianza del suo ex ministro, « e Lei sa che soltanto queste, dal gennaio 1943, portarono al 25 luglio 1943 ».

A onor del vero bisogna aggiungere che all'inizio e nella prima metà del 1943 il desiderio di staccare l'Italia dal Patto d'Acciaio e di raggiungere la pace era largamente diffuso. Lo stesso Mussolini, di ritorno dall'incontro avuto a Feltre con Hitler, aveva detto al generale Ambrosio che lo sollecitava a staccarsi dalla Germania: « Pensate che io non abbia meditato a lungo su questo problema?

Ma quale sarebbe il risultato di una pace separata? Quale sarebbe la reazione di Hitler? Credete proprio che egli ci lascerebbe la nostra libertà di azione?~ 12


E la mattina del 25 luglio, dopo la notte del Gran Consiglio, Mussolini ebbe un colloquio con l'ambasciatore giapponese Hidaka che era accompagnato da Bastianini. L'incontro avvenne a mezzogiorno e il duce aveva fatto sapere a Hidaka che sarebbe stato auspicabile che il governo giapponese si fosse fatto promotore nei confronti di Mosca di un inizio di conversazioni onde raggiungere la pace separata con la Russia. L'Italia non poteva resistere alla pressione anglo-americana e la Germania era fortemente impegnata all'Est. Nei giorni successivi avrebbe compiuto passi ufficiali per indurre la Germania a far la pace separata con la Russia. Se questa richiesta non fosse stata accolta, l'Italia si sarebbe vista costretta a rivedere le proprie posizioni. Poche ore dopo il colloquio con Hidaka, Mussolini fu arrestato a Villa Savoia. (La regina, commentando l'arresto avvenuto sulla soglia della casa del re, disse: « Potevano arrestarlo dove e quando volevano, ma non qui; qui Mussolini era nostro ospite; si sono violate le regole dell'ospitalità reale. Non è bello questo ».} Il problema dunque era quello di arrivare alla pace, di farla nel migliore dei modi e senza l'angoscia di quella terribile accusa di tradimento dell'alleato che tormentava Mussolini. Ma torniamo alla lettera di Vittorio Emanuele al duca Acquarone. Anche il lettore piu disattento si può rendere conto che se, nel gennaio 1943, il re d'Italia « concretò » la sua decisione, vuol dire che già da molto tempo egli si era posto il problema di come staccare l'Italia dall'alleanza con la Germania. Problema che, evidentemente, era stato studiato, valutato e dibattuto a lungo prima d'approdare al potere decisionale del capo dello Stato. Infatti oggi siarno a conoscenza che gli avvenimenti che portarono al 25 luglio e a1P8 settembre erano stati preparati da molto tempo, almeno da un paio di anni. Sono noti i numerosi contatti avvenuti con gli anglo-americani a partire dall'estate del 1942, i colloqui di Roma fra monsignor Montini, sostituto della segreteria di Stato vaticana, con l'inviato speciale di Roosevelt presso il papa, Myron Taylor, e altri colloqui, a Madrid, fra il nunzio apostolico e l'ambasciatore inglese Sir Samuel Hoare. Tutti aventi come argomento i problemi italiani e la loro soluzione. Tali colloqui erano la conseguenza di una vasta trama che coinvolse i piu disparati ambienti responsabili italiani; dinastici, militari, politici ed economici. All'inizio di questa trama troviamo la principessa Maria José che tra la fine del 1941 e l'inizio del 1942 aveva avvicinato a sé numerose personalità avverse al regime, favorevoli alla pace e a un rovesciamento del fronte. Dapprima la principessa era entrata in collegamento con Benedetto Croce; e con La Ma1fa e Federico Comandini, esponenti dell'appena nato Partito d'Azione. Questo avvicinamento avvenne tra-

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mite un altro azionista, il professor Carlo Antoni. Anzi, il professor Antoni cominciò a frequentare assiduamente il Quirinale, con la scusa di lezioni di filosofia da impartire alla principessa. Poi il giro dei contatti di Maria José si allargò fino a includere Adriano Olivetti, Filippo Burzio, lvanoe Bonomi, Luigi Einaudi, il conte Nicolò Carandini, l'avvocato Manlio Brosio e il potente «patron» della Banca Commerciale, Mattioli. È da notare che fra le persone incontrate dalla principessa, alcune erano già in contatto con i servizi segreti alleati o erano state avvicinate da emissari delle ambasciate alleate accreditate in Vaticano.4 Anche i due marescialli d'Italia, Caviglia e Badoglio, venivano tenuti informati delle singolari iniziative di Maria José e presto Badoglio cominciò a incontrarsi regolarmente e segretamente con la principessa ereditaria. Maria José aveva cercato dei canali di contatto con gli alleati attraverso l'ambasciatore britannico al Vaticano, Sir D'Arcy Osborne, e ricorrendo all'ambasciatore italiano a Lisbona, Francesco Fransoni, che avrebbe dovuto avvicinare il collega inglese Sir Ronald Campbell. Gli Alleati ritennero di non dare importanza alle iniziative di Maria José, ma fecero sapere, molto genericamente, che, in caso di uscita dal conflitto, « all'Italia sarebbe stata riservata una certa benevolenza». Le iniziative diplomatiche e politiche della principessa ereditaria furono bloccate al momento giusto da Vittorio Emanuele, il quale si oppose a che ulteriori contatti avvenissero tramite il Vaticano e invitò Maria José a tenersi in disparte. Tutto questo avveniva mentre le forze armate italiane erano tese in un disperato sforzo offensivo in Africa settentrionale (avanzata su el-Alamein) e nel Mediterraneo (« battaglia di Mezz'Agosto »). Sappiamo inoltre di un'altra iniziativa «dinastica» da patte italiana. Nell'autunno ?el 1942 Aimone, duca d'Aosta, precario re di 4 Potrebbe sembrar strano, ma in fondo non lo è, il diverso comportamento assunto dal Vaticano nel corso delle due guerre mondiali. Nella guerra 1915-1918, malgrado la legge sulle guarentigie, le rappresentanze diplomatiche degli Stati in guerra con l'Italia furono allontanate dalla Santa Sede e fatte trasferire in Svizzera. Nella seconda guerra mondiale le ambasciate dei paesi nemici dell'Italia non solo rimasero dentro la Santa Sede e rappresentarono un formidabile osservatorio nel cuore del territorio italiano, ma lo stesso Vaticano poté essere definito « il covo dello spionaggio anglo-americano » che si avvalse della collaborazione di alti prelati, delle nunziature e della stessa segreteria cli Stato. Uno dei maggiori collaboratori dei servizi segreti alleati fu il cardinal Montini che divenuto papa prese poi il nome di Paolo VI.


Croazia e fratello di Amedeo morto prigioniero in Kenia, tramite il console italiano a Ginevra Luigi Cortese e il giornalista Cicconardi, s'era messo in contatto col colonnello Victor Farrel del Secret Service inglese, dichiarandosi disponibile a capeggiare un «golpe» contro il governo di Mussolini al fine di attivare a un armistizio con gli Alleati. Di questo tentativo si trova conferma nella lettera scritta dal ministro inglese degli Esteri, Eden, al collega americano Cordell Hull in data 18 dicembre 1942 (la lettera elenca minuziosamente i numerosi tentativi di aggancio tentati dagli italiani fino a quel momento). Eden faceva sapere al collega ame~icano che il duca d'Aosta, per dare il via al suo «pronunciamento», avanzava alcune richieste e chiedeva garanzie; prevedendo che parte delle forze armate italiane si sarebbero opposte al tentativo di rovesciamento del regime, Aimone d'Aosta chiedeva: l'appoggio massiccio della RAF, e uno sbarco di forze anglo-americane sul territorio italiano; gli anglosassoni sarebbero dovuti apparire come « Alleati » e non come invasori o occupanti, senza avanzare pretese di consegna della flotta italiana; infine veniva chiesto il mantenimento in Italia dell'istituzione monarchica (tutte cose che, piu o meno, si verificarono regolarmente quasi un anno dopo). Eden, pur essendo persuaso della sincerità della proposta del duca, la scartava, e faceva sapere a Cordell Hull di non essere molto convinto della riuscita del piano proposto. Soprattutto perché, come giustamente scrive Franco Bandirtl,5 « ... Eden aveva le sue buone ragioni che tuttavia non rivelò subito ai suoi cugini americani. Da parecchi mesi infatti egli era in diretto contatto col maresciallo Badoglio e ne aveva ricevuto positive assicurazioni. Non soltanto quindi egli poteva contare su un concreto atteggiamento di Casa Savoia, Vittorio Emanuele III evidentemente compreso, ma anche su quello dello S. M. italiano, nella persona indubbiamente prestigiosa del maresciallo Badoglio ». Nel luglio del 1942 un emissario di Badoglio aveva incontrato a Vulpera (Bassa Engadina) John McCaffery, dei servizi segreti (Special Force) in Svizzera. Tale primo incontro ebbe un seguito e McCaffery informò il suo interlocutore che il governo britannico vedeva di buon occhio lo sviluppo dei colloqui. Gli inglesi avrebbero gradito potersi mettere in contatto con un generale italiano disposto ad assumersi un « ruolo alla De Gaulle » alla testa di un corpo italiano libero. Nello stesso periodo di tempo governo e Secret Service inglesi avevano in animo di far costituire un governo italiano in esilio i cui esponenti principali avrebbero dovuto essere Tarchiani, Sforza e Cianca che avevano già dato la loro adesione. Capo del gos Cfr., op. cit., p. 204.

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verno sarebbe stato Sforza. Il presidente Roosevelt s'era lasciato in un primo momento convincere e aveva dato il suo benestare. La cosa s'era risaputa in Italia dove aveva suscitato allarme e timore negli ambienti di corte, tanto che Vittorio Emanuele III aveva espresso chiaramente la sua preoccupazione. L'iniziativa inglese venne bloccata dalla Italian Section dell'OSS americano che fece notare la nessuna autorità e la pochissima credibilità di un simile governo fantasma. A seguito degli incontri in Svizzera, Badoglio e i suoi collaboratori si erano messi alla ricerca di un generale adatto allo scopo suggerito dagli inglesi. Fu lo stesso Badoglio che indicò nel settembre '42, in un suo fido ex divisionario, il generale Gustavo Pesenti, di Boves, l'uomo che faceva alla bisogna. Questo Pesenti vantava uno strano « merito », se cosf si può chiamare: alla fine del 1940, in Somalia, aveva difeso tanto tiepidamente il settore affidatogli che s'era fatto catturare dagli inglesi una brigata coloniale al completo. Chiamato dal viceré Amedeo di Aosta ad Addis Abeba a render conto del suo operato, Pesenti si era giustificato con una gravissima dichiarazione. Aveva affermato« che la guerra agli inglesi era stata una grossa bestialità » e che si sarebbe dovuto « chiedere la pace separata in Africa ». La cosa era finita all'italiana; invece di finire davanti a un plotone d'esecuzione Pesenti era stato semplicemente rimpatriato. V enne, dunque, deciso che Pesenti avrebbe dovuto raggiungere l'Africa settentrionale per mettersi alla testa di un fantomatico Corpo Italiano Libero da reclutare tra i prigionieri italiani in mano agli inglesi. Ma dopo una esasperante sequela di partenze annullate all'ultimo momento, di allarmi falsi o veri, di ripensamenti, alla fine Pcsenti era rimasto a Roma. Il che non fu un male (da notare che questo singolare uomo d'arme, oltre che nutrire aperta simpatia per il nemico, coltivava l'aspirazione di mettere in musica la Divina Commedia), Il risultato di tutti questi contatti e degli accordi presi fra italiani e britannici trova pieno riscontro nelle discussioni e nelle decisioni che erano seguite alla Conferenza interalleata di Casablanca, svoltasi dal 14 al 24 gennaio 1943. La delegazione britannica presieduta da Winston Churchill aveva fatto accettare ai riluttanti americani la scelta strategica mediterranea (gli yankees ritenevano che l'Italia avesse « un interesse strategico molto dubbio»; inoltre, fino al 1940, gli USA non avevano interessi politici nel Mediterraneo, ma solamente rapporti economici e culturali). Gli americani, poco convinti dell'impegno mediterraneo, avrebbero voluto intensificare la guerra nel Pacifico, riservandosi d'attaccare la fortezza Europa sulle coste della Manica. Solo l'US Army Air Force aveva manifestato grande interesse sulla possibilità, in pro-

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spettiva, di poter adoperare le basi aeree dd Centro e Nord Italia per attaccare la Germania. Ma poi, davanti agli ulteriori sviluppi ddla situazione italiana prospettati dai britannici, gli americani avevano accettato di dar via all'attacco alla fortezza Europa in Sicilia, cioè da una regione per niente fortezza e pochissimo europea. Lo sviluppo delle trattative con gli italiani aveva spinto Eden a presentare al gabinetto di Guerra il documento Armistizi e pr<r blemi relativi. Ciò per far fronte alla possibilità che la Russia, fumando armistizi separati, potesse dar vita a sistemi comunisti nell'Europa orientale. Lo stesso Eden, il 12 luglio '43 aveva presentato un altro documento: Administration of Italy after Defeat and Question of Instruments of Surrender. Secondo tale documento · gli Alleati non avrebbero dovuto occupare tutta l'Italia, né esercitare diritti sui territori non occupati. Gli Alleati non avrebbero dovuto avere poteri sovrani « né effettuare cambiamenti fondamentali nelle leggi locali e nel sistema di governo». Infine gli italiani non avrebbero dovuto avere alcun obbligo di collaborare con le potenze vincitrici, ma, in caso di ostilità, sarebbero stati sottoposti a « coercizioni a tutti i livelli ». (Queste proposte concordate con la controparte italiana etano soprattutto valide per bloccare le iniziative sovietid1e nei paesi dell'Est europeo.) Tanto a Casablanca quanto nella successiva Conferenza « Trident », che ebbe luogo a Washington dal 12 al 25 maggio, nei giomi della caduta della Tunisia, le operazioni militari contro l'Italia vennero limitate« alla sola Sicilia». Alan Brooke, capo dello S. M. imperiale, aggiunse che, ritenendo possibile il crollo ddl'Italia durante le operazioni militari in Sicilia « il generale Eisenhower avrebbe dovuto pensare ai termini di un armistizio e sino a dove si sarebbe potuta estendere la nostra occupazione dell'Italia». L'estensione delle operazioni militari alla penisola italiana fu dunque legata, fin da principio, a « sicuri » avvenimenti politici che sarebbero accaduti in Italia. A conferma di tale assioma, cioè del crollo politico e militare italiano, si stabili che alla fine della campaparte, le forze terrestri, gna in Sicilia sarebbero state ritirate, in aeree e navali dal Mediterraneo. Per la flotta venne deciso il trasferimento nel golfo del Bengala. Cosa che puntualmente avvenne, tanto che per lo sbarco a Salerno gli Alleati si presentarono con forze che si rivelarono inadeguate e corsero il rischio d'essere ributtati a mare, Quando gli americani proposero la Sardegna come zona d'attacco, il maresciallo Alan Brooke giustificò cosi la scelta operativa della Si-

gran

cilia: 6 6

Cfr. A. BRYANT, Tempo di guerra, Milano, 1972, p. 795.

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« Io vedevo pochi vantaggi nella scelta della Sardegna, ero un forte sostenitore della Sicilia, le distanze erano minori, gli sbarchi potevano essere appoggiati piu facilmente e ci saremmo trovati nella strada che menava dritta verso l'Italia».

A quanto afferma Alan Brooke c'era da ribattere: Non corrispondere a verità che l'Africa Settentrionale, maggiore base alleata, fosse distante dalla Sicilia meno che dalla Sardegna. È esattamente il contrario. 2. L'appoggio agli sbarchi non variava, tanto che lo sbarco fosse avvenuto in Sicilia quanto in Sardegna, Inoltre, a causa della maggiore distanza dalla penisola, la Sardegna aveva poche e difficili possibilità di aiuto da parte delle forze dell'Asse. 3. Avendo la Sardegna come base di attacco, si poteva minacciare tutta l'alta costa tirrenica, il Centro e il Nord Italia, e le coste meridionali della Francia. Mentre la scelta della Sicilia come « strada che menava dritta verso l'Italia » passava per quella famosa scelta di guerra peninsulare cui basta appena accennare per fare rabbrividire gli stati maggiori britannici di tutti i tempi. È assurdo che Alan Brooke accettasse a priori la raccapricciante idea di dovere risalire, combattendo passo passo, la penisola italiana, 1.

Un grave fatto avvenne poi ai margini della Conferenza di Casablanca; l'improvvisa e assurda dichiarazione di Roosevdt che la guerra sarebbe continuata « fino alla resa senza condizioni» che mise in imbarazzo tutti i partecipanti. Nemmeno Attila o Tamerlano s'erano mai sognati, nel corso delle loro sanguinarie gesta, d'escludere la possibilità di negoziati. La drastica affermazione rooseveltiana mise in crisi la propaganda alleata che fino ad allora si era sgolata ad affermare che gli Alleati « non combattevano i popoli, ma i capi » e sembrò aver compromesso le trattative che erano in corso con gli italiani. (Ma poi tutto venne superato e gli italiani, con l'armistizio «corto» di Cassibile e l'inaspettato armistizio « lungo » di Malta, accettarono le spietate condizioni alleate accompagnate da vaghe promesse di « future » revisioni.) Oggi possiamo dire che la gravissima dichiarazione del presidente americano fu dovuta al decadimento progressivo di Roosevelt, ma è certo che essa ebbe gravissime conseguenze e provocò forse il prolungamento della guerra. Intanto gli italiani avevano cominciato a dare agli Alleati la prova migliore della loro buona volontà di collaborazione. Specialmente la Marina italiana, a chiara conferma delle proposte avanzate da Aimone d'Aosta, aveva cominciato con la seconda metà del 1942 a rallentare la sua attività. I sommergibili italiani, che operavano

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efficientemente in Atlantico dalla base di Betasom di Bordeaux, furono definitivamente ritirati da ogni operazione d'attacco e trasformati in battelli da carico da e per il Giappone. Venne limitata allo stretto jndispensabile, tanto per non fare insospettire i germanici, la scorta dei convogli verso la Tunisia. La maggior parte della flotta italiana andò a rinchiudersi nei porti dell'Italia settentrionale dove rimase indisturbata, ma perennemente sorvegliata dall'osservazione aerea anglo-americana (dopo andò a consegnarsi agli Alleati a Malta, con indescrivibile giubilo dell'ammiraglio inglese Cunningham che 1'11 settembre 1943 trasmise all'ammiragliato britannico il famoso telegramma: « Prego informare le LL.SS. che la flotta italiana è all'ancora sotto la sorveglianza dei cannoni dei forti di Malta») . Durante la campagna di Tunisia l'ammiraglio tedesco Donitz aveva chiesto a Riccardi, sottosegretario della Regia Marina, il perché dell'inattività del grosso della Botta italiana che rimaneva chiusa nei porti: l'ammiraglio italiano aveva risposto che « la Botta italiana sarebbe intervenuta per difendere le coste della Patria» . _ Al che Donitz aveva profeticamente riferito a Hitler: « Sarebbe la cosa migliore che le navi italiane vadano in battaglia, anche a costo di pesanti perdite, piuttosto che cadere nelle mani nemiche nei porti e forse senza combattere ». È singolare notare a questo punto che le maggiori perdite subite dalla Regia Marina avvennero dopo l'armistizio del1'8 settembre.7 Le perdite ammesse dai documenti ufficiali italiani sono: 458 unità militari perdute dal 10 giugno 1940 al 7 settembre 1943; 659 unità militari perdute dall'8 settemore 1943 al 10 maggio 1945.

Come dire che i tedeschi inflissero alla Regia Marina piu perdite di quante essa ne aveva subite dagli anglo-americani. Da notare che la maggior parte delle perdite arrecate dai germanici avvennero nei pochissimi giorni che fecero seguito all'8 settembre.8 La sorte definitiva della Botta italiana fu decisa dalla Conferenza di Washington del maggio '43. Fu allora che i presenti non mostrarono alcun dubbio circa la sicura « cattura » della Botta « fascista». Infatti, tanto a Casablanca quanto a Washington, venne usata proprio la parola « cattura » e non quella piu logica e piu corretta di 7 Cfr. Ufficio Storico della Marina Militare, La Marina italiana nella seconda guerra mondiale, vol. II, Navi Militari perdute, Roma, 1969. 8 Nel 1981 articoli ap1>arsi sui giornali e interrogazioni presentate al parlamento italiano hanno dilfuso la notizia che durante la guerra la flotta italiana venne offerta contro pagamento in sonanti sterline all'ammiragliato inglese. Non sarebbe la prima volta che un fatto simile avviene. Anche nel 1860 gli ammiragli napoletani tradirono il loro paese consegnando le navi al governo piemontese.


«distruzione». È chiaro che gli accordi già presi con le autorità responsabili italiane consentivano agli Alleati la sicurezza di catturare la flotta italiana. Escludendo la possibilità, piu ragionevole, di distruggere in battaglia tale flotta e scartando la possibilità, onorevole e tradizionale, di un auto-affondamento. Gli Alleati erano tutti d'accordo che il destino d~a flotta italiana dovesse essere quello dell'eliminazione « per cattura »! Anche la precisa scelta della Sicilia come zona di sbarco degli Alleati avvenne di comune accordo fra anglo-americani e italiani che stavano trattando l'armistizio e il salto della quaglia del rovesciamento delle alleanze. La semplice invasione dell;isola era considerata come una spinta sufficiente per far crollare il fascismo e far uscire l'Italia dalla guerra. Tutto ciò anche se era da escludersi ogni importanza militare della Sicilia ai fini dell'economia di guerra. L'isola era esterna ed estranea al sistema difensivo europeo. L'operazione non comportava la cattura di zone produttive minerarie o industriali; tutt'altro. Né prevedeva l'annientamento di importanti forze militari dell'Asse, ma l'occupazione di una regione economicamente depressa e presidiata da una malandata guarnigione. In quel momento le forze armate italiane, nella loro totalità, erano nei territori occupati della Francia e della penisola balcanica, o nel Centro-Nord della penisola italiana. È nota infatti la sarcastica affermazione di Mussolini: « Con la guerra che minaccia il sud dell'Italia i miei generali si ostinano a tenere le loro divisioni nella pianura padana ». È impensabile quindi che gli Alleati puntassero sul collasso militare italiano distruggendo la modesta guarnigione siciliana. È invece chiaro che lo sbarco dovesse servire a provocare il collasso politico dell'Italia, offrendo al re l'occasione di liberarsi di Mussolini e di trattare liberamente la resa. Come si vede, questo è un altro dei punti a suo tempo avanzati da Aimone d'Aosta. In poche parole gli avvenimenti avrebbero dovuto svolgersi cosi: 1. L'Italia veniva invasa dagli Alleati in Sicilia. 2. Eliminazione di Mussolini. 3. Sganciamento dal III Reich e armistizio.

Fin qui la previsione e la successione dei fatti appaiono logiche. Dove la logica comincia a vacillare è quando si nota che italiani e Alleati ritennero che i germanici sarebbero andati via dall'Italia senza fiatare. Ripassando pacificamente le Alpi. E l'Italia, l'Italia che conta, quella ricca e industrializzata del Centro Nord, si sarebbe salvata dagli orrori della guerra. Che si sarebbero sfogati su una sola regione: la misera e periferica Sicilia.. Risulta dunque evidente che tanto da parte italiana quanto da parte degli Alleati non venne sufficientemente sviluppata la succes20


sione degli avvenimenti che doveva far seguito alla scelta strategica, politica e militare, nel Mediterraneo. Tre giorni dopo lo sbarco sulle spiagge dell'isola, gli eventi militari locali erano già risolti e due settimane dopo, con la caduta del fascismo, anche il nodo politico italiano era sciolto. Poiché questi avvenimenti erano previsti da almeno otto mesi, gli Alleati avrebbero dovuto essere pronti per la successiva azione militare nella zona di Roma e nell'Alto Tirreno. Mentre gli italiani, dal canto loro, avrebbero dovuto chiudere ai germanici i valichi alpini. Niente di tutto questo avvenne; gli Alleati tolsero dal Mediterraneo la maggior parte delle loro forze e le divisioni italiane non solo non furono capaci di bloccare un solo soldato tedesco, ma si fecero disarmare e catturare. L'Italia, invece di uscire dalla guerra, vi rimase intrappolata. Stavolta non da soggetto, ma da oggetto, come campo di battaglia di eserciti stranieri. Inoltre il paese precipitò in uno spaventoso caos soprattutto morale che faceva esclamare a Eisenhower: « Per tre anni ci siamo sforzati di distruggere il morale degli italiani... ci siamo riusciti anche troppo ».9 Nell'Italia meridionale subito occupata dagli Alleati avvenne il crollo « di un popolo che non aveva piu nessun orgoglio o dignità ... la lotta bestiale dominava su tutto. Il cibo era l'unica cosa che importava ... era il cibo a costo di qualsiasi abiezione e depravazione ».10 Divenuta la penisola un fronte secondario, i tedeschi la tennero con forze relativamente modeste, largamente compensati dalle possibilità di spoliazioni che il paese offriva; ma soprattutto, cosf facendo, tenevano lontana la guerra dalla Germania. Già condannata a diventare zona di sfogo della furia nemica, la Sicilia fu abbandonata a se stessa. Per mesi l'isola fu sottoposta a un crescente bombardamento no stop, il primo della storia. Le città, i paesi, i porti, le linee di comunicazione furono sconvolti. L'aviazione alleata si accani'. contro il passaggio obbligato dello stretto di Messina. Presto in Sicilia non giunsero piu rifornimenti e le popolazioni furono colpite dalla. fame fisiologica; le autorità civili furono esautorate, tutti i poteri passarono ai militari con le immaginabili conseguenze. Nessun rinforzo, tranne che da parte germanica, afflui'. nell'isola. Soltanto poche diecine di aerei e alcuni sommergibili e motosiluranti furono destinati a difesa simbolica delle coste siciliane. Anche nel campo delle informazioni militari lo S. M. generale italiano s'era preparato al « salto della quaglia». Esso aveva provveduto a creare un servizio segreto parallelo al SIM (Servizio Informazioni Militari) che operava con scopi totalmente differenti da quello ufficiale. Questo Supersim aveva il compito di collaborare con i serCfr. O . BRADLEY, Parla un soldato, Milano, 1952, p. 230. 1 Cfr. MooREHEAD, Eclipse, Londra, 1945, p. 62-63.

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vizi segreti alleati per facilitare l'esecuzione di quanto era stato precedentemente concordato. Quando fini la guerra in Tunisia gli Alleati fecero uscire dai compi di concentramento gli uomini che facevano parte di questo Supersim e li portarono ad Algeri, presso il Oub des Pins dove aveva la sua sede la centrale dei servizi segreti alleati (che veniva chiamata « Mignon »). I nomi degli uomini che entrarono a far parte del Supersim furono trasmessi agli Alleati dallo S.M. generale italiano e gli inte· ressati ricevettero precisi ordini da Roma.11 Ma non è compito di questo libro raccontare la storia dei servizi segreti italiani. Ci limiteremo a trattare soltanto quanto interessa le vicende connesse a questa rievocazione. In Sicilia, sede importantissima del Supersim fu la villa di Capo Soprano, a Gela, appartenente al principe Ferdinando Pignatelli Aragona-Cortez. La villa, già di proprietà dell'ammiraglio Maugeri, era stata comprata all'inizio della guerra dal principe con rogito notarile stipulato a Roma. Il Pignatelli, ex ufficiate· di Marina, aveva fatto fare dei grossi lavori di trasformazione all'immobile. Fra l'altro aveva fatto costruire in muratura una specie di ponte di nave sormontato da un altissimo pennone che, si sussurrava a Gela, somigliava a un'antenna RT. E infatti lo era. Infine, il principe, ex ufficiale, si ttasferf nella villa dove visse l'ultimo periodo della guerra, a pochi metri dall'abitazione dell'ex deputato popolare Aldisio che era il maggior centro politico antifascista dell'isola. Nel pomeriggio del 10 luglio 1943 un gruppetto di compiti ufficiali alleati di S.M. fece lunghe visite di cortesia alle due ville, quella di Aldisio e quella del principe. Fu nella villa di Capo Soprano che il principe Umberto, nelle sue periodiche ispezioni delle difese dell'isola, amava sostare e ricevere gli esponenti politici prefascisti, coloro che, per intenderci, Vittorio Emanuele chiamava sprezzantemente «fantasmi». Tali incontri non potevano sfuggire ai servizi d'informazione. Non bisogna dimenticare che in quel periodo comandante militare dell'isola era il generale Roatta che era stato per molti anni a capo del SIM (e che al momento dell'armistizio era capo dello S.M.E .) mentre il suo capo di S.M. era il generale Emilio Faldella, altro uomo chiave del servizio informazioni. Da Capo Soprano, dove c'era una stazione 11 « Al momento della cattura vidi con i miei occhi il colonnello A. [ si trattava del colonnello Agrifoglio che alcuni mesi dopo diventò capo del SIM badogliano] dirigersi con una barchetta verso le navi americane ancorate nd golfo di Tunisi. Egli era rimasto in mezzo a noi, in Tunisia, nella piu discreta clandestinità.~ Testimonianza dell'avvocato Silvio Astolfi di Pescara, già dd servizio informativo del comando militare della Tripolitania.

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radio in collegamento con Malta (il cui operatore era un ufficiale in servizio all'aeroporto cli Ponte Olivo), partirono gli ordini atti a facilitare in Sicilia l'esecuzione degli accordi presi con gli Alleati. (Qualche notizia riusd a filtrare all'esterno, tanto che nei giorni precedenti Io sbarco molti gelesi sapevano che « stava per accadere qualche cosa », ed era stato loro consigliato di starsene chiusi in casa, per poco tempo, « finché tutto fosse finito>>. Questi consigli partirono dalle ville di Pignatelli e di Aldisio.) Ma di tutte le trame, piu o meno torbide, che dovevano portare all'armistizio, questi fatti, già cli per sé poco onorevoli, potrebbero diventare anche comprensibili perché ammantati della solita « ragione di stato e per il bene del Paese». (Una «ragione» e un «bene» quanto mai criminali se da una parte si trescava col nemico e dal1'altra si incitava tutto un popolo a credere, obbedire, combattere e morire.) Ma si verificò allora un'ignobile iniziativa, assolutamente inqualificabile e ingiustificabile: la collusione evidente e provata di una parte di responsabili italiani con la mafia. In genere si addossa ai servizi segreti americani la colpa di avere utilizzato gangster e mafiosi per le loro necessità belliche in Sicilia, ma è altrettanto vero che un'azione parallela di recupero della mafia fu effettuata dai servizi segreti italiani. (Una storia forse tutta da scrivere quella della ricorrente collusione e dei rapporti tra forze di polizia e di sicurezza e cosche mafiose.) Con i decreti legge del 1941 e 1942 furono sospese le disposizioni di PS del 1925 (le famose Ordinanze Mori), la prima delle quali porta la data del 5 gennaio 1925. Le Ordinanze furono poi inserite nel decreto legge del 15 luglio 1926, legge 2 giugno 1927). Fu cosi che venne permesso il rientro in Sicilia dei mafiosi che si trovavano nei luoghi di confino di polizia. Ufficialmente l'operazione di rientro venne giustificata con motivi «umanitari». Strani motivi, se si pensa che i mafiosi erano stati allontanati dall'isola in tempo di pace. Farveli ritornare in tempo di guerra, quando l'isola era già zona di operazioni, poteva servire a migliorare le cose? La verità è che l'iniziativa parti dal Supersim, che fece pressioni sugli uffici del ministero degli Interni per poter utilizzare questi uomini. Sull'argomento molte cose potrebbe dire l'ex capo della polizia, Angelo Vicari, che è stato uno dei protagonisti dei servizi di sicurezza italiani per 35 anni. Negli anni 1942-43 Vicari apparteneva all'amministrazione del ministero degli Interni, ma era distaccato presso il gabinetto di Mussolini. Forse egli potrebbe spiegarci il perché dei decreti di liberazione dei mafiosi dal confino (e anche molti altri avvenimenti italiani fino ai nostri giorni). Il rientro in Sicilia di tali elementi mafiosi e pericolosissimi sa-

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rebbe stato inspiegabile se non fosse servito al completamento di tutte le trame che il Supersim stava mettendo a punto per rendere piu agevole l'invasione dell'isola da parte degli Alleati. Il Supersim aveva bisogno di questa gente spregiudicata per collaborare con gll Alleati prima, durante e dopo lo sbarco, nel periodo di vacanza delle autorità che sarebbe succeduto all'invasione, per tener calme le popolazioni. Per fare tutte queste cose non ci si poteva rivolgere alle autorità politiche e amministrative locali invitandole brutalmente alla collaborazione con l'invasore. La consegna del potere ai mafiosi avvenne tacitamente da parte degli italiani e ufficialmente da parte degli anglo-americani. Messa da parte l'autorità ufficiale, gli uomini della mafia, ma soprattutto i loro numerosi amici dal « sentire mafioso », assunsero il potere come « autorità naturale» e si schierarono senza scrupolo alcuno dalla parte degli invasori. Gli Alleati, dal canto loro, specialmente gli americani, avevano saputo creare buoni agganci con la mafia tramite il gangsterismo americano di origine isolana. Che cosa ottennero i mafiosi, oltre alla liberazione dalle carceri e dal confino e il rientro in Sicilia? Domanda ingenua, come ingenua fu l'iniziativa di servirsi dei mafiosi per poi, forse, poterli colpire in un secondo momento. Sistema non nuovo, ma ricorrente nella vita politica della Sicilia. Mafiosi e uomini dal « sentire mafioso» ottennero il definitivo inserimento nel nuovo sistema politico democratico che stava sorgendo in Sicilia e in Italia. «Potere» quindi; un potere che si è andato allargando a macchia d'olio e che oggi copre tutta la penisola. Infine, in occasione del trattato di pace del 1947, a completamento dell'art. 16 (con il quale lo Stato italiano s'impegnava a non perseguire quei cittadini che direttamente o indirettamente avevano servito la causa degli Alleati), fra le tante clausole destinate a rimanere segrete, venne stilato un preciso elenco di persone definite « in tutti i casi intoccabili ». Si tratta di 9 .600 nomi, d'« intoccabili », fors'anche « con licenza di uccidere»; fra questi piu di mille nomi erano di mafiosi. Ecco spiegata la sorprendente immunità goduta da tante persone che avrebbero dovuto invece essere rinchiuse in galera. L'elenco fu compilato dall'allora sottosegretario al ministero della Guerra, il comunista Palermo, e da due alti ufficiali della Commissione alleata di controllo. Tale documento è ancora coperto da segreto politico-militare. Uno dei tanti segreti di Pulcinella del nostro tormentato paese. Non si può quindi dissentire da quanto riportato dalla relazione conclusiva della Commissione antimafia: 12 12

Cfr. Commissione Parlamentate d'inchiesta sul fenomeno della Mafia


« ... [fu permesso] il rientro in Sicilia dei vecchi capi mafia dal confino di polizia ai comuni di origine. In queste località li raggiunse, con una meticolosissima attenzione, la ricerca spionistica americana. Esistono oggi motivi abbondanti per ritenere valida a tutti gli dfetti la supposizione d'un preciso collegamento tra i vari capi cosca americani e i residui della vecchia mafia».

Stando alla relazione, questo collegamento poté avvenire « con la complicità di elementi poco fidati del ministero dell'Interno dell'epoca che solo poteva detenere l'elenco dei mafiosi confinati. .. » 13 Fatto non nuovo e sempre avvenuto in Sicilia dove si usa combattere la mafia con la mafia, tanto che un proverbio afferma: « 'U sbirru mori mafiusu e 'u mafiusu mori sbirru ». Aperto il vaso di Pandora dell'infezione mafiosa, gli apprendisti stregoni del Supersim non riuscirono piu a chiuderlo.

in Sicilia, doc. XXXIII, n. 2, Relazione di minoranza, on.le Angelo Nicosia, Roma, 1976, p. 966. 13 lbid.

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II. ORIGINI E COMPITI DELL'AMGOT (Allied Military Government Occupied Territory) Io Harold R. L. G. Alexander, CCB, CSI, DSO, MC, generale comandante delle Forze Alleate e governatore militare del territorio occupato, proclamo: 1. Ogni potere governativo e giuridico nel territorio occupato, su gli abitanti del territorio, nonché la suprema responsabilità amministrativa appartiene a me ... 2. L'esercizio dei poteri del Regno d'Italia sarà sospeso durante l'occupazione militare... (PROCLAMATION N. 1, To the people of Sicily and Adiacent Islands, 10 luglio 1943.)

Molti sanno che le operazioni d'invasione della Sicilia ebbero dagli Alleati il nome in codice di un cane da slitta: l'Husky siberiano. Forse perché dovevano avere un effetto trainante sul resto delle operazioni belliche. Pochissimi, invece, sono a conoscenza dd nome in codice dato alla Sicilia nel quadro dell'operazione « Husky ». Tale code word fu « Horrified » ( atterrito o inorridito). Tale espressione, usata dagli Alleati con una buona dose di feroce soddisfazione, era quella, piu calzante, per indicare le effettive condizioni dell'isola e della sua popolazione nei mesi che precedettero lo sbarco alleato.1 Inoltre la piu equilibrata e profonda definizione che conosciamo degli anni della guerra in Italia, dal 1943 al 1945, ci è stata data dall'inglese sir Harold MacMillan, l'uomo politico divenuto poi premier del governo britannico, che, assieme all'americano Murphy, fu consigliere civile dell'Amministrazione Militare Alleata in Italia. MacMillan disse che gli italiani avevano vissuto « per quasi due anni la duplice esperienza d'essere "occupati" dai tedeschi e "liberati" dagli Alleati. Era difficile dire », aggiungeva, con britannico humour MacMillan, « quale dei due processi fosse stato piu doloroso e piu sconvolgente ».2 Invero l'affermazione oltremodo sincera dell'uomo politico inglese non è mai stata tenuta in debito conto dalla storiografia uffi. ciale italiana; per quanto poi riguarda la Sicilia, di « liberazione » non si dovrebbe parlare affatto, perché, a detta degli stessi Alleati, « la fase siciliana fu diversa da quelle susseguenti, in quanto gli italiani erano ancora ufficialmente nemici e le forze alleate un'armata di 1 2

Cfr. S. AITANASJO, Sièilia senza Italia, Milano, 1976, passim. CTr. A. SAMPSON, MacMillan, a study in ambiguiJy, Londra, 1967, p. 70.


occupazione; la popolazione doveva perciò essere considerata come ostile... Fu un governo militare puro e semplice i cui piani erano stati prestabiliti da lungo tempo » .3 C.ome dire che all'antica incuria dello Stato italiano si aggiungevano e si sovrapponevano le esigenze del governo militare alleato. Fra la fine del 1942 e l'inizio del 1943, in concomitanza degli avvenimenti militari, politici e diplomatici in corso, gli Alleati si posero il problema di come amministrare i territori europei che sarebbero stati occupati a seguito delle operazioni militari programmate per l'immediato futuro. Per affrontare questa prossima scadenza gli anglo-americani si resero conto che le precedenti esperienze di governo militare d'occupazione fatte dai britannici in Etiopia, Eritrea, Somalia, Cirenaica e Tripolitania e la singolare, e per molti versi anomala, esperienza avuta dagli americani nel Nord Africa francese, non potevano essere applicate a territori e popolazioni europei. Bisognava dar vita a un'organizzazione particolarmente adatta alle esigenze che si pro· spettavano .4 Fu cosi che i governi alleati decisero di creare due speciali corsi di addestramento per personale di governo militare. Il corso americano, personalmente seguito dal presidente Roosevelt, era a Charlottesville 'in Virginia; quello britannico a Wimbledon nel Regno Unito . Invero i britannici possedevano un'antica, vasta e ininterrotta esperienza d'amministrazione di territori coloniali, mentre per gli yankees le uniche esperienze di governo militare rimontavano ai poco edificanti precedenti della loro guerra civile e del conflitto ispano-americano. Gli americani, alla ricerca di esperienze piu recenti, si rifecero allora al1'amministrazione militare d'occupazione della Renanìa, imposta alla vinta Germania alla fine della prima guerra mondiale, trascurando il fatto che l'esperienza renana era stata totalmente negativa, tanto da costituire una delle concause del successo politico e della facile ascesa al potere di Adolf Hitler. Ma, come ebbe a dire il presidente Roosevelt, gli yankees erano sicuri che gli italiani sarebbero stati maggiormente ben disposti verso gli americani che non verso gli inglesi « in considerazione del fatto 3 Cfr. « Rassegna dell'attività del Governo Mi,litare Alleato e della Commissione Alleata in Italia dal 10 luglio 194} al 2 maggio 1945 ». Senza data, ma sicuramente del 1945. Il volume, propaganda di guerra, era stato debitamente « passato per la pubblicazione » dalla censura militare. 4 L'accordo Darlan-Clark riguardante il Nord Africa francese aveva stabilito che tale territorio fosse da considerarsi « amichevolmente liberato » e non « nemico occupato». Per. l'amministrazione del Nord Africa francese era stato creato il North African Economie Board con la partecipazione di americani, inglesi e francesi.


che un gran numero di cittadini statunitensi era di origine italiana». I britannici richiedevano, da parte loro, una maggior partecipazione al governo militare come « giusto compenso » per i colpi mortali che avevano saputo infliggere al nemico italiano e anche per essere ripagati per la minor parte avuta nelle attribuzioni di governo nel Nord Africa francese. Alla fine, però, i due puntigliosi alleati decisero che le responsabilità di governo in Sicilia sarebbero state paritetiche, dando vita, nel marzo 1943, a un comando congiunto degli Affari civili (C.C.A.C.) che avrebbe operato in stretto contatto con gli S.M. combinati. Nello stesso marzo 1943, agli ordini del sottosegretario John McCloy, nacque la divisione degli Affari Civili (C.A.D.) presso il dipartimento della Guerra di Washington. Gli inglesi già da tempo avevano un organismo similare: la O.E.T.A., che dirigeva le attività dei governi militari dell'Africa Orientale e della Libia. L'O.E.T.A. venne completata con un Comitato per l'Amministrazione dei territori europei che sarebbero stati occupati nel corso della guerra. Le direttive congiunte del governo militare per l'operazione « Husky » degli S.M. combinati furono trasmesse al generale Eisenhower il 28 giugno 1943; queste direttive, sotto forma di« Proclamations », vennero diffuse al momento dello sbarco e diventarono subito leggi operanti per la popolazione siciliana. Erano nuove leggi, straniere e incomprensibili, che si affiancavano e sovrapponevano a quelle italiane, già tortuose e poco chiare. Era previsto che i comandi militari provvedessero ad assumere l'immediato controllo delle località che a mano a mano venivano occupate con la nomina di un « Town Major » che disponeva di tutti i poteri civili e militari. In un secondo momento il « Town Major » militare avrebbe dovuto passare la mano all'organizzazione di un governo militare articolata in Unità Amministrative provinciali. Responsabile della Provincia era lo SCAO (Senior Civil Affairs O.fli.cer), con funzioni, dirette o indirette, di prefetto. Lo SCAO disponeva di CAOs (Civil Afiairs Ofli.cers) che controllavano le attività di tutti gli uffici dipendenti dalle prefetture, amministrazioni comunali comprese, e di ufficiali « specialisti » appartenenti a sei « divisiòns », specie di ministeri con i compiti che le stesse denominazioni ìndicavano: -

Legai Division o sezione legale Financial Division o sezione finanziaria Civilian Supply o rifornimenti civili Public Health o sanità pubblica Public Safety o Pubblica Sicurezza Allied and Enemy Property, ovvero Proprietà alleate e del nemico. 28


Inoltre nello staff del governo militare era prevista la presenza di un Educational Adviser (consigliere per la pubblica istruzione) e di un Adviser on Fine Arts and Monuments (consigliere per le belle arti e i monumenti). La sezione legale aveva il compito di dare strumenti e contenuti legali al governo militare, ai decreti e agli atti che sarebbero stati emanati, d'installare tribunali militari, di controllare i tribunali italani, di vigilare perché venissero rispettate le convenzioni internazionali in genere e quelle dell'Aja in particolare. La giurisdizione dei tribunali militari alleati era.strettamente limitata alla popolazione civile. Da essa venivano esclusi « i militari delle forze armate alleate » e i prigionieri di guerra secondo la Convenzione di Ginevra del 27 luglio 1929. I reati giudicabili dai tribunali militari comprendevano « quelli commessi contro le leggi e gli usi di guerra... contro qualsiasi proclama ordine o regolamento emesso per autorità dd governo militare alleato... contro le leggi dd codice penale italiano ». E, dulcis in fundo, « i reati commessi contro le ordinanze di ogni comune» . Come dire che qualsiasi motivo era buono perché il civile finisse davanti a una corte militare! Sebbene la Sicilia fosse una regione poverissima a confronto di quelle piu dotate della penisola, i compiti assegnati alla Financial Division erano ritenuti Io stesso molto importanti. Tanto che si pensò alla soluzione dei problemi finanzi.ari con ammirevole solerzia. In pratica la Financial Division era: « ... responsabile di tutte le questioni del circolante e dei mercati valutari, controllo di fondi, banche, compagnie di assicurazioni e altri Enti finanziari, pubblici e privati, imprese, monopoli di Stato, inclusa la supervisione dell'assistenza finanziaria a imprese ed Enti privati o governativi: la raccolta, l'analisi dei dati finanziari ed economici da registrazioni e altro materiale preso in custodia, e da altre fonti ... Supervisione dei tributi e delle leggi sulle dogane, sulle entrate... sulle spese... controllo dei prezzi, del potere di acquisto... nonché di tutta la contabilità e i relativi controlli in relazione a quanto sopra. »5

L'ufficio bilancio dell'AMGOT impostò il programma di preparazione degli ufficiali da adibire all'amministrazione finanziaria, con una serie di conferenze basate sul bilancio del Garden State, cioè dello stato americano del New Jersey! I risultati di tale preparazione furono tali che gli stessi Alleati riconobbero, in seguito, che la Sicilia era « un esempio deprecabile di governo civile alleato e della politica finanziaria del bilancio ».6 (Peggio avvenne in Sardegna dove 5 Cfr. A. M. K.AnucK, Politica finanziaria degli Alleati in Italia, Roma, 1977. 6

Op. cit., p. 48.

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il governo militare trasformò in denaro legale i titoli di credito commerciale, col risultato che tutte le banche dell'isola divennero Istituti di emissione senza che potesse essere effettuato alcun controllo.) Teoricamente non erano previsti gravami di spese di guerra a carico delle popolazioni, ma praticamente tali spese si manifestarono automaticamente: con le larghissime requisizioni e l'immissione di enormi quantitativi di moneta di occupazione. In previsione del sicuro assalto che risparmiatori e correntisti avrebbero dato agli sportelli bancari, era prevista la temporanea chiusura delle banche e, nello stesso tempo, l'instaurazione di una moratoria. Mentre per assicurarsi una pressoché illimitata disponibilità di valuta extra per le esigenze di governo, per il soldo alla truppa e per le spese di occupazione, la Financial Division aveva provveduto a creare un'agenzia bancaria di emissione che prese il nome di « Allied Military Financial Agency » (AMFA). All'inizio le disponibilità monetarie del governo militare per la Sicilia erano date dalla cosiddetta SpearheaJ Currency ovvero moneta di punta, d'avanguardia cioè: -

dollaro americano con sigillo giallo sterlina militare inglese (BMA) moneta italiana catturata in Africa Orientale, Libia e Tunisia; di quest'ultima disponibilità monetaria almeno 350 milioni di lire erano stati rastrellati in Africa Settentrionale.

Il cambio nei confronti della lira italiana venne fissato prima dello sbarco in lire 100 per un dollaro USA e in lire 400 per una sterlina (nella primavera del 1943 sul mercato libero di Tangeri e di Lisbona la lira, nei confronti del dollaro, veniva quotata 200 a 1). Il dollaro sigillo giallo si distingueva da quello in circolazione negli States che aveva il sigillo blu; era valuta legale degli Stati Uniti e come tale con controvalore in argento presso il tesoro USA. Il cambio del colore del « sigillo » serviva a facilitarne l'identificazione e il controllo da parte del tesoro statunitense. La sterlina militare inglese, detta anche BMA, era uno speciale circolante emesso dalla British Military Authority. Non era moneta legale né aveva corso in Inghilterra. Non aveva alcun controvalore. Si trattava di una moneta militare di occupazione, simile in tutto e per tutto alla « Reichskreditkassenscheine » usata dai soldati tedeschi nelle loro zone di occupazione. Le sterline BMA erano macchinose nei tagli, con conseguente complicata negoziazione e molta confusione fra la popolazione (dollaro a « sigillo giallo » e sterlina BMA furono ritirati dalla circolazione con l'introduzione delle AM-lire). L'esclusivo uso dell'improvvisata SpearheaJ Currency avrebbe comportato grosse difficoltà: la necessità di provvedere, con grandi quantità di dollari e di sterline, all'integrazione del circolante locale, 30


l'eterogeneità delle truppe di occupazione, il timore che la popolazione tendesse all'accumulo della moneta straniera scartando quella nazionale, ecc. Per impedire ciò il dipartimento americano del Tesoro aveva provveduto a far stampare grandi quantità di « Allied Military Liras » che, al momento dell'invasione della Sicilia, mancavano delle principali caratteristiche di identificazione: le parole « Lira » e « Italy ». Per la stampa era stata usata solo la lingua inglese. Sul retto della carta moneta erano scritte le propagandistiche quattro « Libertà atlantiche»: Freedom of Speech, Freedom of Religion, Freedom from Want, Freedom /rom Fear (libertà di parola, di religione, dal bisogno e dalla paura). I tagli erano di: 1-2-5-10-50-100-500 e 1.000 lire. La stampa era fatta con processo litografico e non con l'incisione in acciaio. La carta era terribilmente scadente. Tutto questo fece impazzire di gioia i falsari. La contraffazione piu facile era quella di « gonfiare » la moneta aggiungendo uno O ai tagli cli 50 e di 100 lite (un falsario particolarmente fantasioso mise in circolazione con grande successo un buon numero di biglietti di banca da lire 1.500 modificando biglietti da 50 lire con l'aggiunta di un 1 prima e di uno O dopo). Il 1° agosto 1943 gli uomini della 7a armata americana cominciarono a percepire il loro soldo in AM-lire e « il 9 agosto ben 2.163.200.000 lire erano state recapitate ».7 In seguito il « cobelligerante » governo italiano, in base alle clausole dell'armistizio, accettò di mettere a disposizione degli Alleati tutto il circolante che fosse stato richiesto, e di ritirare, alle condizioni poste dagli Alleati, « tutti i titoli di moneta emessi dagli Alleati nelle operazioni militari e d'occupazione del territorio italiano». La cosa fu possibile con un frenetico lavoro di stampa alla fine del 1945 e con il ripristino della zecca di Roma che il governo della repubblica fascista aveva trasferito al Nord. Fino a tale data gli Alleati continuarono a inondare la penisola di AM-lire. Solo nel 1946 la Banca d'Italia cominciò a esercitare un certo controllo sul circolante. (Dai 25 miliardi del 1939 si era arrivati nella primavera del 1945 a un circolante «presunto» di circa 400 miliardi. Tale importo continuò ad aumentare con un ritmo veloce e inarrestabile.) Infine nelle direttive finanziarie trasmesse al generale Eisenhower per l'invasione, ·si designava il Banco di Sicilia come banca centrale al posto della Banca d'Italia la cui direzione centrale era a Roma. Il Banco di Sicilia divenne cosi agente della finanziaria militare alleata. Le direttive aggiungevano che il governatore militare e le altre autorità « possono 7 Cfr. Rass. Attività Gov. Mil. All., dt., e Harris C.R.S., Allied Military Administration of Italy, 1943-1945, p. 6, Londra, 1957.


usare tale banca per gli affari ufficiali, ponendo a disposizione di essa crediti, fornendole AM-lire e ponendo tale Banca in condizione di finanziare altre banche e le loro filiali per la conduzione degli affari come stabilito dal governo militare ». Inoltre essendo il Banco un istituto di diritto pubblico « senza azionisti privati, non aveva [ o non avrebbe dovuto avere] funzioni speculative » (non bisogna dimenticare che il Banco di Sicilia aveva goduto, fino al 1926 del diritto di emissione; dopo, questo diritto rimase esclusivamente alla Banca d'Italia). Fu cosi che, chiuse le succursali della Banca d'Italia, il Banco di Sicilia ebbe le funzioni di banca centrale. Anche se il Banco di Sicilia di allora non era, come oggi, inquinato dalla lottizzazione politica selvaggia, questa scelta « diede esempio deprecabile». Per ammissione degli stessi responsabili alleati « il Banco di Sicilia non si rivelò all'altezza della situazione mostrando uno scarso spirito di iniziativa e la mancanza, in ultima analisi, d'una visione d'insieme dei problemi bancari ».8 V'è da aggiungere, però, che molti funzionari del banco seppero creare proficui rapporti personali con ufficiali alleati di governo. Anche il Civilian Supply aveva vastissimi incarichi. Esso doveva provvedere alPagricoltura, alla pesca, al reperimento, al razionamento e alla distribuzione dei generi alimentari, delle materie prime per ogni tipo di lavorazione, alla produzione in genere. E, last but not least, alle comunicazioni e ai trasporti in genere, compresi quelli ferroviari. Apparve già chiaro nei primi giorni che fecero seguito alle operazioni di sbarco che gli Alleati non avevano previsto le effettive condizioni dei rifornimenti della popolazione civile. Che erano tanto disastrate da potersi considerare come inesistenti. Eppure il comando alleato doveva essere stato informato dalla rete spionistica esistente nell'isola delle paurose condizioni alimentari in cui erano ridotte le popolazioni. E dell'impressionante successo conseguito con l'impenetrabile muro di bombe creato sulla strozzatura dello Stretto di Messina. Tanto che gli aerei alleati, nei loro ininterrotti raids sulle località dell'isola, oltre alle bombe sganciavano manifestini assicuranti l'affamata popolazione che « i raccolti dell'America e del Mondo Libero venivano accantonati per rifornire le popolazioni europee che aspettavano la liberazione dal nazifascismo ». Ma, promesse propagandistiche a parte, gli Alleati prevedevano forse di trovare una certa disponibilità di rifornimenti alimentari. (A Palermo, infatti, catturarono un magazzino militare con 1.600 tonnellate di farina, ma fu un fatto isolato.) Essi avevano creato una pica KARMAcK, op. cit., p. 55.

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cola scorta di emergenza di sole 13 .000 tonnellate di farina, latte evaporato, carne e zucchero. Materiale calcolato sufficiente per le esigenze di tre mesi per 500.000 persone. Era stato anche suggerito di allestire nel Nord Africa, per probabili, future esigenze, uno stock di altre 32.000 tonnellate di farina che non poté essere utilizzato per carenza di trasporti. E di un piccolo quantitativo di materiale igienico e sanitario consistente in un centinaio di tonnellate di sapone, medicine varie e vestiario. E infine una considerevole scorta di preparati contro il tetano, il tifo e la lue. Proprio nel campo sanitario, Li « Public Health », gli Alleati ebbero un disastroso impatto con i problemi dell'isola. Le forze d'invasione avevano appena messo piede sulle spiagge siciliane che fra i soldati scoppiò una larga e preoccupante epidemia caratterizzata da forti febbri. Ci si accorse che i soldati si ammalavano a causa di piccoli moscerini flebotomi che abbondavano nella sabbia delle spiagge. A queste improvvise e strane febbri causate da sandflies s'aggiunsero presto anche quelle provocate dalla malaria, antichissimo flagello di buona parte della Sicilia. (Nel terzo quadrimestre del 1943 1'8.. armata britannica contò nelle sue file ben 12.500 casi di « malaria primaria».) V'erano poi da ripristinare le primordiali esigenze d 'igiene pubblica di un paese che, selvaggiamente bombardato per mesi, aveva visto distrutta quasi tutta l'organizzazione sanitaria e sociale esistente. Bisognava provvedere alle imponenti masse di sfollati vaganti per il p$ese, all'assistenza dell'infanzia. E all'assistenza sociale il cui sistema era stato schiantato dalle operazioni militari. Se il compito primordiale della Public Health era quello d' « impedire le epidemie» quello della Public Safety, della P.S., era d'« impedire le rivolte»; oltre a tutti i problemi connessi con lo stato di guerra v'era anche la scelta delle forze da impiegare. Provvedere direttamente ai servizi di sicurezza pubblica sarebbe costato l'impiego di molte migliaia di uomini. Ne sapevano qualche cosa i tedeschi in molti paesi da loro occupati, con risultati non sempre buoni. Già nelle direttive trasmesse da Eisenhower venivano focalizzati il problema della pubblica sicurezza e la necessità di mantenere l'ordine già nelle fasi piu critiche delle operazioni militari. Per ottenere tali risultati le direttive stabilivano di utilizzare i Carabinieri Reali « notwithstanding the fact that this corps was formally a unit of the Italian Army », cioè nonostante il fatto che questo corpo fosse formalmente un'unità dell'esercito italiano. Infatti l'unica forza organica ed efficiente di polizia esistente nell'isola erano i carabinieri reali. È ben vero che nelle maggiori città esistevano le questure e i commissariati di PS, ma tali uffici disponevano di un numero estremamente ridotto di elementi che svolgevano quasi esclusivamente compiti 33


amministrativi e politici. Inoltre la polizia era considerata infida in quanto ritenuta maggiormente legata al regime fascista.9 I carabinieri avevano caserme sparse capillarmente in tutto il territorio dell'isola, godevano di tradizionale fama di efficienza, di collaudata, perfetta disponibilità e di assoluta dedizione verso il potere costituito. Fu cosi che i carabinieri, sebbene « fossero parte integrante dell'Esercito italiano», furono prescelti dagli Alleati per essere utilizzati nei servizi di ordine pubblico e di sicurezza da istituire nell'isola. Nelle colonie italiane gli inglesi, per ovvie ragioni politiche, avevano internato le forze italiane di polizia sostituendole con elementi nativi agli ordini di ufficiali britannici. Ma in Sicilia e alla luce degli accordi segreti già esistenti con gli esponenti militari e politici di Roma, i motivi, validi per l'Africa, venivano a cadere. L'utilizzazione dei carabinieri come Civil Police da parte degli Alleati provocò violenti dibattiti alla Camera dei Comuni di Londra. Numerosi deputati, sia dell'opposizione sia della maggioranza, attaccarono la decisione presa dal comando e dal governo militare alleato. Ma Anthony Eden tagliò corto a ogni discussione con le realistiche parole: « ... Supponiamo, per comodità di discussione, che non avessimo usato i carabinieri. Che cosa avremmo dovuto fare? Avremmo dovuto impiegare

almeno diecimila soldati britannici [e altrettanti o.mericani] a svolgere il loro compito non altrettanto bene, e ciò avrebbe preso uomini alle forze combattenti. »10

Per quanto servissero fedelmente l'AMGOT, i carabinieri subirono continui maltrattamenti e umiliazioni da parte degli Alleati. I militi erano esposti senza difesa alle violenze della eterogenea e multicolore soldataglia e alle angherie degli ufficiali anglo-americani. Si verificarono un'infinità di episodi penosi o disgustosi. Valga quanto accadde a Bronte, dove i carabinieri della stazione locale, accusati di 9 Fino al 25 luglio 1943 la PS era un'amministrazione civile alle dipendenze del ministero degli Interni. Dopo il 25 luglio uno dei primi decreti di Badoglio militari7.ZÒ la polizia assieme alla Milizia fascista. Cosi facendo il vecchio maresciallo riteneva di poter meglio controllare tali fo17.e che venivano trasferite sotto il potere militare. Gli effetti del decreto di Badoglio sono stati risentiti durante trentacinque anni di vita della Repubblica italiana fino a esplodere nelle violente richieste di smilitarizzazione e di sindacalizzazione dei nostri giorni. 10 L'impiego dei carabinieri provocò fra la popolazione un effetto sconvolgente, cosi descritto da G. Maxwell (Dagli amici mi guardi Iddio, Milano, 1957, p. 53): « Gli Alleati dovettero impiegare i carabinieri per imporre le leggi che emanavano e questi, che fino a poco tempo prima avevano rappresentato l'Italia fascista, ora apparivano agli occhi dei siciliani come un esercito di mercenari senza scrupolo ».

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chissà quale mancanza, furono fatti schierare nell'aula della pretura. Poi due comJ>Onenti il tribunale militare alleato, l'americano Longcbaney e l'inglese Reynolds li tempestarono di calci nd sedere. A cominciare dal maresciallo. Per una mezz'ora buona gli impiegati della pretura furono costretti ad assistere all'ignobile scena. Già prima dello sbarco, dunque, gli Alleati prevedevano di contare sulle forze di Polizia della Sicilia, forze in numero adeguato, a perfetta conoscenza dd territorio e delle popolazioni e con un grande ascendente su di esse. Non era mai accaduto che una forza d'invasione fosse tanto sicura ddla totale collaborazione ddla polizia di un paese che stava per essere invaso. In ogni modo 65 uomini della Polizia metropolitana londinese e un buon numero di ufficiali, particolarmente addestrati allo scopo era pronto ad assumere il controllo del « Public Order » in Sicilia. I compiti dell'« Allied and Enemy Property Division » erano estremamente semplici, ma vastissimi. Essa doveva assumere la custodia di tutti i beni dello Stato italiano, di quelli abbandonati dai proprietari fuggiaschi o assenti, di quelli ritenuti utili o nocivi per le Forze Armate alleate e infine ddle proprietà di cittadini alleati già custodite dal governo italiano. Era prevista la nomina di Controllori beni nella persona di ufficiali che disponevano « del controllo o amministrazione o Possesso o custodia di qualsiasi bene)>. In questo settore gli americani non avevano alcuna esperienza, ma se la fecero immediatamente, mentre gli inglesi erano particolarmente agguerriti per i precedenti acquisiti in Africa orientale e in Libia. Il Controllore beni aveva la facoltà di sospendere << o annullare ogni transazione fatta in qualunque tempo a riguardo di qualsiasi proprietà, cioè beni mobili e immobili» . Queste <<proprietà» comprendevano anche quelle << private, di compagnia, istituto, società anonima, ente o persona». Tutto questo era precisato nelle direttive congiunte e nel proclama n. 6. (Fu cosi che tante persone si videro costrette a « riacquistare )> i loro beni pagando sottobanco il Controllore beni.) Infine una resJ>Onsabilità difficile e gravosa sarebbe poi toccata alla sezione della Pubblica istruzione e delle Belle Arti e monumenti. In molti mesi di continui bombardamenti, le operazioni militari avevano arrecato danni incalcolabili al paese cosi eccezionalmente dotato di ricchezze storiche e artistiche di ogni epoca e tipo. Il patrimonio scolastico aveva subito danni gravissimi. Molte scuole erano andate distrutte per gli eventi bellici, le aule risparmiate dalla guerra erano impiegate per gli usi piu disparati: caserme, infermerie, magazzini, depositi, uffici, alloggi per senza tetto, ecc. Cosf articolato, il governo militare dipendeva dal comandante 3.5


supremo Eisenhower che agiva in stretta collaborazione con Harold MacMillan, rappresentante del governo di SM. Britannica e con Robert Murphy, rappresentante personale del presidente Roosevelt. Eisenhower designò il governatore militare della Sicilia nella persona del generale Alexander, comandante delle operazioni nell'isola. Infine capo degli Affari Civili fu nominato il maggior generale Lord Rennell of Rodd, mentre il brigadiere generale americano F . J. Mc Sherry assunse la carica di vicecapo. Prima dello sbarco si era insistentemente fatto anche il nome dell'ex sindaco di New York, l'italoamericano Fiorello La Guardia che svolgeva da tempo un'attiva propaganda radiofonica; ma il governo americano era fermo nel proposito di non utilizzare elementi civili per compiti militari e il segretario di Stato Stimson fece respingere tutte le domande di arruolamento presentate dall'ex sindaco. Ciò perché La Guardia, personaggio politico molto popolare, si era mostrato organizzatore poco capace nell'incarico di capo del servizio di difesa civile creato subito dopo Pearl Harbour. Scartato il nome di La Guardia, la scelta per la direzione degli Affari Civili cadde su un altro italo-americano, il tenente colonnello Charles Poletti, ex vice governatore dello Stato di New York. Venne anche stabilito che Poletti sarebbe stato coadiuvato dal commodoro britannico C . E. Benson. Il reclutamento degli uomini del futuro AMGOT presentò non poche difficoltà. All'inizio si ritenne che uno staff di 600 uomini sarebbe stato piu che sufficiente per coprire tutte le esigenze di governo in Sicilia, ed eventualmente anche per quella parte dell'Italia che sarebbe stata occupata in ·un prosieguo di tempo. Sennonché quando gli Alleati s'impadronirono della Sicilia si accorsero che per la sola isola erano necessari non meno di 2 .000 ufficiali. Poiché la popolazione della Sicilia era piu o meno il 10% di quella italiana ci sarebbero voluti non meno di 20.000 ufficiali d'amministrazione per tutta la pe· nisola. Alla base delle difficoltà incontrate per la organizzazione dell'AMGOT v'era poi l'assoluta necessità di poter disporre d'un adeguato numero di ufficiali in possesso almeno d'alcuni requisiti essenziali: buona conoscenza della lingua, delle leggi italiane e delle funzioni delle locali autorità. Né si poteva contare su un sufficiente numero di ufficiali italo-americani che avessero le caratteristiche richieste. Anche se fra le forze americane di invasione gli oriundi italiani rappresentavano un ragguardevole 15 % , gli elementi adatti alle fun. zioni di governo si contavano sulle punte delle dita (oltre al fatto che gli elementi piu validi militavano nell'ltalian Section dell'OSS). Negli anni '40 gli italiani d'America erano alla prima generazione d'immigrazione proletaria. Nella quasi totalità essi non avevano avuto


funzioni di autorità in Italia né, tanto meno, avevano acquisito tali funzioni in America. Si può dire che gli uomini disponibili per l'AMGOT fossero ben lontani dall'avere quelle caratteristiche di capacità e preparazione indispensabili ai gravi compiti che li attendevano. Come attitudine, come mentalità, essi erano completamente agli antipodi dei sistemi amministrativi e delle consuetudini delle popolazioni che si preparavano a governare. Non bisogna dimenticare che leggi e pubblica ammjnistrazione italiane erano, e sono, totalmente diverse da quelle dei paesi anglosassoni. Il contingente britannico, che era quello che sembrava mostrare maggior esperienza di governo, risultava composto in gran parte da funzionari coloniali che non avevano nessuna esperienza delle popolazioni e dei sistemi europei. V'erano poi uomini di affari, aristocratici e qualche intellettuale che poteva contare su amicizie locali acquisite prima della guerra. Lo staff americano addestrato presso l'università della Virginia si rivdò una vera frana. Fin dai primi giorni d'attività della scuola venne notato che « fra i 49 allievi della prima classe il 15% non ave- . va mai fatto esperienza di governo di nessun tipo, solo 1'8% aveva fatto esperienze all'estero e che l'età media era di 48,1 anni». Le cifre per i 107 allievi della seconda classe erano rispettivamente: 35%, 6 e 1/2% e 46,5 anni. Fra questi v'erano molti ufficiali della riserva « ed erano tutti esemplari del tipo: veterani di professione, patrioti organizzati, conservatori politici e sociali scaricati nella scuola da comandanti desiderosi di liberarsi dei loro subalterni meno utili ».11 Il maggiore italo-americano Aldo Raffa, professore della Georgetown University, che, fiero del suo incarico nel prestigioso AMGOT, si trovava sulla nave che portava in Sicilia lo staff americano di governo, si vide avvicinato da un tizio in divisa di capitano che gli rivolse sguaiatamente la parola. Raffa chiese allo sbracato ufficiale che cosa facesse a bordo e questi rispose che faceva parte dd governo militare. Poi spiegò cosi la sua appartenenza allo speciale e delicato organismo: « Well, maggiore, è andata cosi: ero furiere. Voi sapete come vanno le cose in queste occasioni. I ragazzi andavano in giro, trovavano una piazza facile e ci spartivamo il malloppo. Ma poi mi beccarono e mi misero alle strette. Mi dissero: ti diamo una scelta, Corte Marziale o Civil Affairs. W ell, sapete come va, uno non ha scelta ed ecco perché mi trovo qui. »u Il Cfr. D. ELLWOOD, L'alleato nemico, L4 politica dell'occupazione angloamericana in Italia, 1943-1946, Milano, 1977, J>. 250. u Cfr. G. R. GAYIIE, Italy in Transition, Londra, 1946, p. 115 sgg.

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Certamente gli uomini dell'AMGOT non erano hltti come l'intralJazzista furiere-capitano incontrato da Raffa, e forse è vera l'affermazione di Hcrsey che nell'AMGOT « non vi erano uomini veramente malvagi, ma ve n'erano di stupidi ».13 Ma è anche vero che « un buon numero di .questi ufficiali contava di ottenere alloggi confortevoli, ragazze compiacenti e profitti discreti sul mercato nero ».14 Stupidità, intrighi e boria intrisa di razzismo furono, infatti, le peggiori caratteristiche che contraddistinsero il comportamento degli anglo-americani in Sicilia. Con sfumature diverse nelle due zone di influenza in cui venne divisa l'isola e con una considerevole dose di gratuita brutalità nella Sicilia orientale dove dominò l'amministrazione militare inglese. I piu benevoli verso la gente siciliana condividevano in toto la opinione espressa dal generale Patton che i siciliani fossero « gente allegra, apparentemente paga del proprio disordine e sarebbe secondo me un errore cercare di elevarla al nostro tenore di vita che non apprezzerebbe e di cui non sarebbe soddisfatta ». Altro fattore negativo fu il fatto che, malgrado la convinzione degli ambienti responsabili alleati circa i buoni sentimenti che avrebbero mostrato i siciliani, le truppe d'occupazione non sembrarono !Ìcambiare tali sentimenti. I militari alleati, fossero truppe combattenti o addetti al governo militare, mettendo piede sull'isola erano stati convinti dalla propaganda bellica di arrivare in un paese che durante i vent'anni di fascismo « aveva rifiutato molti dei canoni riconosciuti dall'umanità civilizzata » .15 L'Italia tutta, posseduta dal« demonio fascista», era dunque considerata un paese semibarbaro e come tale da trattare. Tenuto per fermo questo presupposto, gli uomini dell'AMGOT arrivarono in Sicilia con lo scopo essenziale che si prefigge un governo militare di occupazione: evitare il caos materiale del paese soltanto « per consentire all'esercito conquistatore di proseguire piu efficacemente le operazioni ». . In subordine c'era poi il compito di cercare, nei limiti del possibile, di provvedere « al benessere e ai bisogni locali della popolazione civile ».16 Il compito subordinato assegnato all'AMGOT era difficilissimo; quasi impossibile da mettere in pratica data la situazione dell'isola, 13 Cfr. J. 1-IERSEY, Una campana per Adano, introduzione, Milano, 1946. Il libro di Hcrscy è considerato il miglj.or romanzo ambientato in Sicilia durante la seconda guerra mondiale. Adano sta per Licata, la cittadina marinara sulla costa sud dell'isola. · 14 Cfr. ELLWOOD, op. cit., p. 251. 15 Cfr. HARB.Is, op. cit., introduzione. 16 Cfr. introduzione di Lord Rcnnell of Rodd ai libri di Gayre.


ma, nello stesso tempo, apparentemente semplice. Per provvedere ai bisogni della popolazione civile bisognava per forza attingere alle risorse locali ormai quasi inesistenti. Quindi niente da fare da quel lato. Inoltre per le loro esigenze di guerra gli Alleati dovevano utilizzare tutte le risorse disponibili in loco. L'AMGOT fece quello che qualsiasi governo militare è solito fare in questi casi: portò via quel poco che era rimasto alle stremate popolazioni. Infine il programma politico che gli alleati avevano per l'Italia, anche se riferito a un futuro piu o meno remoto, era semplice e ultraconservatore. Per dirla con le parole di Churchill, gli anglo-americani, per conseguire i loro obiettivi di guerra, dovevano impedire nella penisola il caos, la bolscevizzazione e la guerra civile e non avevano alcuna intenzione di promuovere una rivoluzione sociale in Italia, tantomeno di assistere a una rivoluzione promossa da altri.17 Partendo da questo fermo presupposto e scartando l'esperienza fascista di governo, non rimaneva altra scelta che una pqlitica di restaurazione del fallito sistema politico pre-fascista. Fu cosi che con la pioggia di decreti abrogativi che l'AMGOT fece cadere sulla Sicilia prima e sul resto dell'Italia poi, furono annullate alcune leggi, iniziative ed esperienze politico-sociali che sebbene definite « fasciste» avrebbero potuto considerarsi valide. Inoltre gli Alleati, già nel corso delle operazioni belliche, come durante il periodo di governo militare, predeterminarono in senso capitalista il futuro economico d'Italia senza tener conto dell'estrema povertà di risorse di una nazione proletaria per eccellenza. Gli Alleati, dunque, non solo non si prefiggevano una politica di rinnovamento e di sviluppo politico e sociale dell'Italia, ma avevano in programma una totale, antistorica restaurazione, cancellando cosi di colpo vent'anni di storia e d'esperienze italiane, considerate scioccamente come globalmente negative. Fu scelta la politica dell'heri dicebamus. L'errore venne confermato dal comportamento reazionario della disponibile classe dirigente che si dichiarava antifascista, formata in massima parte dagli stessi invecchiati e superati uomini della democrazia liberale pre-fascista. Infine l'AMGOT, prendendo possesso della Sicilia, si trovò ad amministrare una specie di res nullius. La vita sociale era stata scompaginata dalle bombe e dalle operazioni belliche. Da tempo ogni tipo di legame con la penisola s'era affievolito sino a ridursi a un sottile filo logistico-militare assicurato piu dalla straordinaria efficienza organiizativa delle forze armate germaniche di stanza nell'isola che dalle capacità e iniziative italiane. I capi naturali e politici: prefetti, questori, podestà, segretari fe11

Cfr. D.

ELLWOOD,

op. cii ., p. 1.3.

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derali, presidi di provincia, alti funzionari, erano in parte fuggiti davanti agli eserciti invasori. Quelli rimasti ai loro posti furono arrestati o deportati o resi subito impotenti dal proclama n. 1 del comando alleato che dichiarava la totale ed effettiva sospensione della sovranità italiana. Fu una grande fortuna per gli Alleati se gli uomini dell' AMGOT poterono subito disporre per le loro funzioni di formidabili collaboratori: la Chiesa e la mafia. E della completa disponibilità dell'Arma dei carabinieri. Vedremo piu avanti quali vantaggi ottennero gli Alleati da questi loro stranamente assortiti, ma non improvvisati collaboratori, e quali difficilmente sradicabili privilegi ottennero questi ultimi dalla benevolenza anglo-americana. I compiti assegnati all'AMGOT, estremamente essenziali, portarono il governo militare a operare con straordinaria rapidità ed efficienza in alcuni settori indispensabili allo sviluppo delle operazioni militari. L'imposizione d'un potere diretto, sebbene possibile, non era consigliabile dal punto di vista militare, perché comportava, oltre all'impiego di un numero eccessivo di uomini, responsabilità che gli Alleati non avevano intenzione di assumere. L'AMGOT, tipica forma di governo indiretto, senza alcun obbligo di doveri, affrontò la grave situazione creatasi nell'isola con proclami e decreti dei quali abbiamo oggi copia nei rarissimi esemplari di « Gazzette Ufficiali » alleate. (La lettura di tali documenti ci offre una panoramica completa delle origini fortunose e dei successi politici di molti uomini che hanno detenuto il potere nell'isola negli ultimi trentacinque anni.) Non conosciamo però le migliaia e migliaia di bandi e disposizioni dovuti alle personali iniziative dei CAO che s'insediavano nei posti chiave delle località man mano che il paese veniva occupato. Quelli erano tempi in cui, secondo la lapidaria espressione dello SCAO di Catania, tenente colonnello Lord Gerald Wellesley, bisognava « seppellire i morti e sfamare i viventi ». In un primo momento, per suggerimento di Washington, s'era pensato di sostituire in blocco prefetti, podestà e funzionari d'alto livello con ufficiali alleati, ma s'era poi studiato il problema con maggiore realismo e nella programmazione fatta da Lord Rennell of Rodd prima dell'invasione si era individuato nel prefetto l'elemento maggiormente responsabile del governo locale. Era necessario quindi stabilire « il rapporto essenziale e indispensabile fra l'amministrazione locale e questo personaggio chiave dello Stato italiano». Il delicato argomento venne ampiamente trattato nei corsi tenuti nel Nord Africa a partire dalla fine di marzo 1943. Gli uomini venuti da Wimbledon e da Charlottesville furono fatti afHuire ad Algeri, nei campi di Chrea, Bouzarea, Tizi Ozou e Yakouran. Fu nello stesso periodo di tempo che il corpo insegnante del corso prese il nome di 40


sezione AF1IQ del governo militare che piu tardi divenne il « G .5 » agli ordini del brigadiere generale C. Holmes. I corsi erano indirizzati allo studio degli affari e della pubblica amministrazione italiana. Venne discussa la sostituzione dei prefetti e dei podestà « fascisti » e le varie forme di governo: diretta (nei primi giorni dell'invasione) per passare poi a quella indiretta e di supervisione dei tempi successivi. La soluzione del problema, semplice e brillante, fu trovata dallo stesso Lord Rennell of Rodd, che cosi la spiegò agli ufficiali del futuro AMGOT: « L'amministratore provinciale alleato di grado piu elevato deve sedere accanto al prefetto, per suggerire a questi quello che il governo alleato wole che si faccia ». Gli ·ordini alleati, attraverso il prefetto-portavoce, sarebbero giunti a tutti gli uffici e settori dipendenti. Dopo di che, ai CAO di grado subalterno non sarebbe rimasto altro compito che controllare la perfetta esecuzione degli ordini impartiti dal governo. Il fatto poi che i prefetti fossero funzionari statali e non elementi politici avrebbe reso il compito piu facile. Nelle località dove il prefetto era andato via con le truppe del!'Asse in ritirata il compito di portavoce sarebbe toccato al vice prefetto se ancora in sede; nella peggiore delle ipotesi le autorità militari alleate avrebbero provveduto alla nomina di un prefetto di loro scelta. Il «privilegio» d 'essere il primo prefetto-megafono nominato dallo straniero invasore toccò all'avvocato Arcangelo Cammarata che si insediò nella prefettura di Calt~ssetta il giorno stesso dell'occupazione americana della città. Il Cammarata veniva dalle file dell'Azione cattolica e il suo nome era stato segnalato dal vescovo della città, monsignor Jacono, che aveva saputo creare immediati, cordiali rapporti con le truppe nemiche. In un primo momento gli Alleati avevano offerto la carica di prefetto a un altro loro buon amico, l'ex deputato popolare di Gela Salvatore Aldisio. Ma l'esponente cattolico, molto ~ccortamente, aveva rifiutato l'incarico, indicando anche lui nel Cammarata l'uomo adatto alla bisogna. Aldisio, per il momento, si limitò ad accettare l'incarico « tecnico» di commissario del Consorzio di bonifica della piana di Gela, in attesa di spiccare un prodigioso volo politico dopo 1'8 settembre .. Anche il Cammarata continuò la sua brillante carriera politico-amministrativa sempre accanto ad Aldisio. Fu commissario regionale per l'alimentazione poi incappò nelle maglie della giustizia per fatti connessi alla gestione dell'ERAS (Ente Riforma Agraria Siciliana). Invece il primo sindaco cui toccò la palma della nomina AMGOT fu l'ex deputato Guarino Amella che venne insediato al municipio di Canicatt1. È certo che gli uomini del governo militare alleato che stavano per sbarcare in Sicilia sarebbero stati ben presto sorpresi nd


constatare l'illimitato potere che veniva messo loro a disposizione. Quasi tutti, secondo l'espressione anglosassone, « ebbero la loro por~ zione di torta di ciliegie » e la divorarono tutta. In nessun altro paese del mondo un comando integrato ebbe poteri militari e politici di pari dimensioni. Un potere cosi vasto che, alla fine del conflitto, il dipartimento di Stato americano riteneva di poter affermare con assoluta sicurezza: « L'Italia è l'unico posto d'Europa dove la politica anglo-americana ha avuto piena libertà di azione ed è quindi l'unico posto dove la politica anglo-americana verso l'Europa e il mondo trionferà».

Gli slogan della propaganda di guerra come: « Missione liberatrice e di civiltà», « Liberazione dell'Italia dall'oppressione fascista», « Libertà dei popoli», e cosi via, nascondevano a malapena lo scopo politico ed economico di ripristinare in Italia, dopo l'inquietante parentesi fascista, un sistema democratico parlamentare in linea con i corrispondenti sistemi occidentali. Fu cosi che gli ufficiali alleati, fieri della prestigiosa e potente sigla AMGOT, apposta sulle spalline delle loro divise, nei berretti, sui proclami già pronti, sulle fiancate degli automezzi, sulla carta intestata e sui frontespizi delle cartelle, si apprestarono a sbarcare nell'isola. Essi allora ignoravano che le due sillabe della parola AM-GOT in lingua turca indicavano rispettivamente gli organi genitali maschile

e femminile. Alla fine, quando qualcuno se ne accorse, la sjgla dal nascosto significato osceno venne modificata e abbreviata in AMG.

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III. IL GOVERNO MILITARE ALLEATO IN SICILIA « W ARNINGS » AMMONIZIONE COPRIFUOCO COMINCIA

AL TRAMONTO DEL SOLE

Tutte persone son inoltre ammonite che le guardie militari sono comandate di far fuoco su qualsiasi persona vista sulle strade che cerchi di nascondersi o di fuggire Per Ordine di H. R. ALEXANDER Generale 10 luglio -1943

La Sicilia fu il primo territorio europeo a essere invaso e occupato dagli Alleati. Un privilegio, se cosi si può chiamare, pagato a durissimo prezzo. ~ bene ricordare che la Siciµa fu l'unica regione d'Italia a essere « occupata » e i siciliani gli unici italiani a essere considerati «nemici » . Il resto dell'Italia, da Villa San Giovanni in su, venne, come si disse, « liberato » e ben presto gli italiani della penisola furono considerati « cobelligeranti ». Per la verità gli Alleati attraversarono un lungo periodo confusionale nella loro attività di governo militare in Italia. Nel novembre 1943, cioè dopo l'armistizio e la « cobelligeranza » italiana, ben quattro organismi militari alleati esercitavano funzioni assolute e autonome di governo nella penisola e nelle due isole maggiori: Sicilia, dov'erano due distinte e rivali amministrazioni, una britannica nella Sicilia orientale e una americana nella parte occidentale, Sardegna, Campania e Brindisi, presso il quartier generale della commissione alleata di Controllo. I quattro organismi di governo agivano autonomamente, separatamente, senza scambi reciproci. Comunicavano fra di loro soltanto attraverso il quartier generale delle forze alleate di Algeri. Tale situazione continuò anche nd 1945, dopo la fine della guerra sul territorio italiano, quando la penisola era amministrata da due distinti governi militari: uno a nord e l'altro a sud della cosiddetta linea Mason-Dixon. Fino al febbraio 1944 quattro province della Puglia: Bari, Brindisi, Lecce e Taranto, dipesero nominalmente dal governo italiano che non aveva alcuna capacità autonoma d'operare. Questo perché gli Alleati volevano giustificare de iure et de /acto la continuità del governo reale. Anche se dal novembre 1943 era stata creata la Commissione alleata di controllo che aveva il compito di governare l'Italia attraverso il governo Badoglio e liberando cosi gli 43


Alleati da oneri e impegni. Gli anglo-americani non avevano intenzione alcuna d'occuparsi in prima persona del governo dell'Italia; facendo cosi non si ritenevano responsabili delle dure condizioni che gravavano sulla popolazione. Nello stesso modo si comportavano i tedeschi nel Nord I talla dove si facevano scudo del governo di Mussolini. Vediamo adesso come gli Alleati governarono la Sicilia, regione « nemica » di un paese che non solo aveva concordato la propria resa, ma che si .apprestava a fare un completo dietro-front nelle sue alleanze. Anche se, per la verità, fu molto facile, per l'AMGOT, e nello stesso tempo quasi impossibile, governare i siciliani abituati da secoli al ruolo di conquistati. Lo sbarco alleato fu accompagnato da un proclama del generale Eisenhower diretto alla popolazione italiana. Nel proclama il generale americano dava l'annuncio dell'invasione « conseguenza ineluttabile della guerra»; affermava che gli Alleati non erano « nemici dd popolo italiano », ma avevano lo scopo di « distruggere la forza dominatrice della Germania ... e di liberare il popolo d'Italia dal regime fascista che Io aveva trascinato in guerra». E ciò perché l'Italia ridiventasse una « nazione libera». Il proclama aggiungeva che le forze alleate non avevano alcuna intenzione di cambiare o modificare le leggi e le usanze tradizionali del popolo italiano, che « nessuna attività politica di qualsiasi genere » sarebbe stata tollerata dalle autorit~ militari. Le organizzazioni fasciste comprese l'Opera Nazionale Dopolavoro, le organizzazioni sindacali e « la cosidetta organizzazione della gioventu » sarebbero state abolite, e cosf pure le leggi considerate « fasciste ». Il proclama terminava invitando gli italiani a « non resistere agli Alleati » ma a facilitare la loro missione che era quella di « liberare l'Europa dal giogo nazista ». Nello stesso tempo il presidente Roosevelt faceva consegnare al papa un suo messaggio personale. Il presidente americano si premurava di riconfermare a Pio XII l'assoluto rispetto dei diritti, e dei beni, della Chiesa in Italia e in Europa . Ma le parole nel proclama di Eisenhower furono subito contraddette dai successivi proclami o bandi delle autorità alleate di occupazione. A queste Proclamations fece seguito un'impressionante quantità di altri proclami, avvisi, decreti, ordini, con una minuziosa «modulistica», tradotti in una lingua italiana incerta e approssimativa. Il tutto accompagnato da un farraginoso complesso di norme, regolamenti, disposizioni e prescrizioni che instaurarono in Sicilia un regime d'occupazione militare altrettanto vessatorio e crudele cli quello nazista nel resto dell'Europa. (A parte è da considerare la fantastica quantità d'« ordinanze » ridicole e feroci promulgate dai

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Civil Affairs Officers addetti ai 357 comuni dell'isola. Sarebbe interessante scavare negli archivi comunali e riesumare questi incredibili documenti.) Con il bando n. 1, Harold R. L. G. Alexander, GCB, CSI, DSO MC (cioè Grand Cross of the Bath, Companion of the Star, Distinguished Service Order, Military Cross), in virtu dell'autorità conferitagli dal generale Eisenhower, procedeva a instaurare un governo militare nel territorio occupato. Alexander aggiungeva: « Ogni potere governativo e giuridico nel territorio occupato e sugli abitanti, nonché la suprema responsabilità amministrativa, appartiene a me» e sospendeva la sovranità e i poteri del Regno d'Italia. Ordinava poi che gli abitanti della Sicilia « will obey promptly all orders given by me under my authority » (obbediranno prontamente a tutti gli ordini impartiti da me o sotto la mia autorità). La stessa pronta obbedienza era particolarmente richiesta a impiegati e funzionari pubblici, compresi coloro che sarebbero stati « epurati », anzi, come diceva testualmente il proclama, « licenziati da me». Il settimo comma del 1° bando informava le popolazioni che con nuovi proclami, ordini, e decreti sarebbero state date <( notizie dettagliate di quello che dovete fare e di ciò che non potete fare» . II bando terminava magnanimamente: « finché voi rimanete tranquilli ed eseguirete i miei ordini, non avrete alcun disturbo ». Nello stesso tempo appariva il bando n . 2 « War Crimes » (reati di guerra) dalla traduzione italiana altrettanto approssimativa del primo (solo dopo l'occupazione di Palermo le traduzioni in italiano diventarono decorose e in buona lingua). Esso era composto da otto articoli ed era rivolto « al fine di prendere le indispensabili precauzioni per la sicurezza delle forze alleate ... e per il mantenimento del buon ordine e per la sicurezza generale nel territorio occupato ». L'articolo 1 concerneva i « Reati contro le forze alleate punibili con la pena di morte ». Erano 22 commi, che minacciavano la pena di morte per la minima trasgressione e per un'infinità di motivi: come mantenere « comunicazione col nemico o con qualsi.asi persona in territorio occupato da esso, in qualsiasi maniera per riguardo a qualsiasi cosa» (comma 2). Il comma 3 era oscuro, oltre che sgrammaticato. Diceva testualmente che la pena di morte era applicabile a qualsiasi persona <( mandi o riceva notizie da persone che diano informazioni per riguardo alle forze alleate o avendo ricevute notizie manchi d'avvisare prontamente il governo militare alleato ». La pena di morte era prevista poi per una infinità di altri motivi: <( portare le armi contro le Forze Alleate» ... il possesso di armi « o di qualsiasi apparecchio di guerra» ... il possesso di radio o di apparecchi trasmittenti... ingannare intenzionalmente i reparti alleati...

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aiutare o dar rifugio (o fare sfuggire alla cattura) prigionieri di guerra ... , entrare in « luoghi proibiti». Rubare « proprietà alleate o di qualsiasi addetto alle forze alleate di valore superiore a lire diecimila » ... rubare, danneggiare o distruggere materiale bellico, interrompere ( o danneggiare o distruggere), « comunicazioni di posta, telegrafo, telefono, radio o altrimenti ... trasporti per ferrovia, mare, aria, strada o per altro mezzo o qualsiasi mezzo di trasporto» ... interrompere operazioni di servizio pubblico « compresi l 'acqua, l'elettricità, il gas, la sanità o qualsiasi servizio simile ... o qualsiasi impianto o installazione di tali servizi}> ... saccheggio e spoliazione su morti o feriti ... tentare o costringere con violenza o minaccia a congiunzione carnale « infermiera o donna addetta alle forze alleate »... falsificare o cambiare permessi, licenze, lasciapassare, tessere, carte d'identità ... o essere in possesso di tali documenti falsificati ... contraffare monete o denari o esserne ( coscientemente) in possesso ... incitare alla insu"ezione o provocare dimostrazioni o adunanze per tale scopo ... Infuie il Comma 22 del bando estendeva la pena di morte a chiunque« altrimenti contravvenga a qualsiasi legge di guerra». Poiché nei 22 commi dell'articolo I la pena di morte era applicabile per qualsiasi mancanza, non si capisce che funzione avessero gli altri 22 commi dell'articolo II (reati contro le forzé alleate punibili con la pena di reclusione o multa). In ogni modo v'erano anche questi. L'articolo III nella traduzione italiana era assolutamente incomprensibile e non aveva niente a che vedere con il testo originale inglese. Chissà che cosa aveva in mente in quel momento il traduttore. La sezione I di tale articolo era cosi intitolata: « Cospirazione avvisando o assistendo a infrazione » ! La sezione II equiparava i « tentativi » a reati commessi, e prevedeva pene uguali. Con l'articolo IV si diceva che le infrazioni del codice penale italiano comportavano le pene previste da tale codice, ma erogate da tribunali militari. L'articolo V, dal contenuto molto grave, sanciva il principio della « responsabilità collettiva », stabilendo la diretta responsabilità « di qualsiasi podestà o principale rappresentante di qualsiasi comune ... per qualsiasi reato di cui gli abitanti sono ritenuti collettivamente responsabili ». Erano anche previste multe collettive da applicare alle comunità. L'articolo VII stabiliva l'accettazione delle norme di diritto internazionale ove palesemente applicabili; l'articolo VIII, gravissimo, si riferiva ad « Arresti e detenzioni » e « Arresti e perquisizioni »; autorizzava la perquisizione e l'arresto di qualsiasi persona sospetta, l'ingresso e perquisizione di qualsiasi luogo, sequestro e asportazione di qualsiasi oggetto. In galera finiva poi chiunque fosse sospettato di avere l' « intenzione » di com.mettere reati, mentre per gli « ufficia-


li pubblici e altri civili » era prev:i,sto l'internamento come « prigionieri di guerra ». Fu una fortuna che la popolazione fosse troppo stremata dalla fame, dai bombardamenti, dal passaggio della guerra, dalle sofferenze in genere e non avesse la forza di reagire. E che nemmeno un mese dopo la fine della campagna nell'isola, il fronte delle operazioni mi.litari si fosse già spostato a quasi 700 chilometri di distanza, oltre Napoli. L'ininterrotta pioggia di bandi poi continuava: disposizioni sulla valuta e il cambio, istituzione di tribunali militari che si articolavano in: Generali, Superiori e Inferiori che avevano giurisdizione su tutti gli abitanti del territorio occupato, per tutti i reati commessi contro le leggi e gli usi di guerra, contro qualsiasi proclama o disposizione del governo militare, contro il codice italiano. I processi cosi istruiti potevano essere « non pubblici »; agli avvocati poteva essere vietato l'ingresso nelle aule dei tribunali, il tribunale poteva nominare ufficiali alleati come avvocati d'ufficio anche senza l'assenso dell'imputato. Il regolamento di procedura veniva stabilito dallo stesso capo degli Affari Civili. I precedenti, buoni o cattivi, erano presi « in considerazione dal tribunale nel decidere la sentenza da emettere». Erano inoltre previsti: il domicilio obbligato, le multe sempre tramutabili in carcere, la confisca dei beni, la chiusura di attività commerciali, professionali o industriali (v'erano anche altri tipi di condanna: pulire latrine, spazzare strade, sgomberare macerie, ecc.). L 'appello nei confronti delle condanne poteva essere presentato entro trenta giorni dalla sentenza. In caso di condanne superiori a due anni di reclusione e 50.000 lire di multa esse potevano essere riesaminate da ufficiali degli Affari Civili, non inferiori al grado dicolonnello, che avevano il potere di annullare, sospendere, ridurre o commutare la sentenza. O di ordinare un nuovo processo. Per la sentenza di morte era prevista un'eventuale riconferma da parte del governo militare o di ufficiali non inferiori al grado di brigadiere generale o di comandante di brigata, appositamente delegati. In genere quest'ultima eventualità di sospensione della pena di morte venne largamente applicata. Ciò avvenne in considerazione dell'atteggiamento apatico e rassegnato della popolazione nei confronti dell'invasore. Le sentenze di morte eseguite furono pochissime: contro due rapinatori di Riesi, contro un contadino di Ventimiglia di Sicilia che assieme a un complice (un ragazzo di sedici anni che si buscò venti anni di carcere) aveva depredato i corpi dell'equipaggio di un aereo inglese precipitato. Altre numerose sentenze di morte, specialmente per reati politici (l'attuale deputato regionale missino Dino Grammatico rimase nella 47


« cella della morte» per oltre due anni), furono giudiziosamente sospese. Ormai la guerra era ben lontana dalla Sicilia, la popolazione continuava a mantenersi calma, presa com'era dal problema della sopravvivenza. Non v'era alcun bisogno di fornire «esempi» piu o meno sanguinosi. Quando avvenne il passaggio dei poteri fra le autorità alleate e quelle italiane, i condannati dei tribunali militari alleati ancora in carcere, anche i condannati a morte, furono affidati allo Stato italiano che si assunse il compito di far da carceriere ai suoi cittadini che spesso non avevano commesso nessun reato contro le leggi italiane. Si verificò una grande confusione e parecchia gente rimase a marcire in carcere. Racconta Max Corvo, comandante dell'OSS in Sicilia: « I carabinieri portarono al mio comando di via Danisinni, a Palermo, tre individui arrestati per tentata rapina. Due erano soldati americani, senza manette, il terzo era un civile, tale Giacomino Caccamo. Era incatenato come un orso. Dissi ai carabinieri di riprendersi il civile e di lasciarmi i due americani che feci subito rimpatriare. Tempo dopo (la guerra era finita da anni ed ero stato congedato) al mio paese, a Middletown, Connecticut arrivò una lettera che mi era stata indirizzata presso il comando di Washington. Era di Giacomino Caccamo che chiedeva aiuto. Per tutti quegli anni era stato dimenticato in carcere, senza processo, perché, gli dicevano, « risultava essere stato condannato dagli americani! ». Fino a ottobre i tribunali italiani rimasero chiusi, con il personale disperso o assente; l'amministrazione della Giustizia dipese soltanto dalla sommarietà deJle corti militari alleate. I tribunali militari condannavano la gente, come si suol dire, sul tamburo . L'ignoranza della lingua, delle leggi e della procedura anglo-americane, l'indifferenza degli ufficiali avvocati d'ufficio oltre alla traduzione approssimativa fatta da pedissequi e improvvisati dragomanni, giocavano a sfavore degli imputati. Nessuno, o quasi, usd assolto da un giudizio militare alleato. Si tratta forse di un irripetibile record giudiziario; tanto che le prigioni dell'isola, divenute chiaramente insufficienti, furono raddoppiate con l'utilizzazione di vecchie caserme e di altri edifici. Basta sfogliare i giornali siciliani dell'epoca che per quanto sotto la censura del PWB pubblicavano lunghi elenchi di condanne erogate dalle corti militari . In poco piu di un mese il tribunale sommario di Licata giudicò e condannò ben 1291 persone. (In una rara fotografia dell'epoca si vede una corte militare alleata in provincia di Agrigento. Dietro il presidente e i giudici americani, sullo sfondo di una grande bandiera a stelle e strisce, si vedono alcuni carabinieri di cui due in alta uniforme.) In verità le corti militari alleate furono assai rigide e comminarono pene severissime anche per reati di modesta entità. Per citare un caso: un tale Di Blasi di Catania, patito del gioco del lotto, fu


condannato in contumacia a 12 anni di carcere perché in seguito a perquisizione nel suo domicilio furono trovate due o tre « smor_fie » (gli almanacchi per l'interpretazione dei sogni per il gioco del lotto) che furono ritenute probabili cifrari; da qui la pesante condanna. Il rinvenimento, addosso o a seguito di perquisizione domiciliari, di una scatoletta di corned beef o di meat and vegetables o di un pacchetto di sigarette alleate comportava la condanna a mesi di carcere. Infine i condannati a pene pecuniarie restavano sbalorditi nel vedere che i giudici militati alleati usavano intascare, con ass~ Iuta disinvoltura, le somme delle multe. A Sciacca, il cavaliere Paladini, trovato in possesso di un « pneumatico » alleato e di un vecchio pistolone (con le pallottole a spillo, retaggio di un antenato) venne arrestato e giudicato da una corte alleata. L'interprete, che era tale Raffaele Aversa, ebbe un collasso quando si vide costretto a tradurre la condanna richiesta dal pubblico ministero militare: morte. Nell'aula scoppiò il finimondo con gente che piangeva e che si strappava i capelli. La cosa venne poi aggiustata: con 350 mila lire di multa ufficiale e 500 mila lire date sottobanco agli inflessibili giudici. La procedura, se· non fosse stato per la tragicità delle senten7,e, appariva quanto mai esilarante. Si contestavano le colpe agli imputati che dovevano rispondere : colpevole, oppure: non colpevole. Se si dichiaravano «colpevoli», la sentenza arrivava dopo pochi secondi; se « non colpevoli» ci voleva qualche minuto in piu; il tempo di far fare al difensore d'ufficio una brevissima, telegrafica, difesa verbale. Poi piombava come una mannaia la sentenza. Guai all'imputato che non rispettasse la prassi anglosassone del « colpevole » e « non colpevole» e si azzardasse a dire: « Vede signor presidente, le cose sono andate cosi. .. ». Veniva immediatamente fatto tacere e i giudici militari irritati per la sconveniente risposta dell'imputato lo stringavano a dovere, maggiorandogli la pena con un ulteriore reato di oltraggio alla corte. Col bando n. 6 ( « Controllore dei Beni ») il governo militare assumeva il controllo di tutti i beni dello Stato italiano e di altri Stati in guerra con gli Alleati. Venivano abrogate le disposizioni italiane sulle proprietà e i beni di cittadini alleati. L'articolo VI prevedeva il controllo di tutte le proprietà private « nocevoli o utili » alla causa alleata e le proprietà di cui il proprietario o il rappresentante fosse assente o mancante. Gli ufficiali alleati potevano procedere a « incassi e spese » senza alcuna responsabilità di dover « risarcire perdite o danni». Infine « ogni transazione fatta in qualunque tempo a riguardo di qualsiasi proprietà, cioè beni immobili e mobili » poteva essere sospesa o annullata a giudizio del capo degli Affari Civili o di ufficiali incaricati. I trasgressori sarebbero stati rinviati al tribunale militare. 49


« La chiusura degli istituti finanziari e dichiarazione di moratoria» venivano stabilite dal bando n . 5. Venivano sospese a tempo indeterminato le operazioni di « ricevimento o pagamento, di depositi, di servizio di custodia, con cassette di sicurezza o di qualsiasi operazione finanziaria ». Cioè: banche chiuse a tempo indefinito. (Nelle banche siciliane furono rinvenuti depositi per 6 miliardi di lire. Il « tesoro » del Banco di Sicilia era stato da tempo trasferito a Roma.) Con lo stesso bando veniva stabilita una larga moratoria per tutti i debiti e obbligazioni richiedenti pagamento in valuta. E il divieto di trasferimento di beni immobili e di fitti per un periodo superiore a un anno. La moratoria venne poi sospesa parzialmente poche settimane dopo, a metà agosto. Con ordine generale n. 1 e 2 a firma di Lord Rennell of Rodd per consentire il ripristino dell'esazione di tasse e imposte. (Venne anche abrogato il pagamento dei contributi sindacali che venticinque anni dopo sarebbero stati ripristinati presentandoli come « una conquista del sindacalismo democratico».) Il bando n. 7 riguardava la « Dissoluzione delle organizzazioni fasciste e l'abolizione delle Leggi». Veniva abolita, fra l'altro, la denominazione fascista di podestà e rimessa in uso quella di sindaco, mentre con la Proclamation n. 8 si procedeva a « Razionamento, stabilimento di prezzi, paghe e agricoltura ». Si confermava la forma già vigente di razionamento; paghe, salari e prezzi di generi alimentari venivano bloccati (era d'obbligo l'esposizione dei cartellini con i prezzi); era riconfermato l'ammasso di alcuni prodotti agricoli. Il Tribunale militare era previsto per i trasgressori. Anche il lavoratore che otteneva, e il datore di lavoro, fatto raro, che concedeva un salario superiore a quello fissato dal bando rischiavano di finire davanti a una cotte militare. Col bando n . 9 si istituiva la « Sicily Gazette » (Gazzetta della Sicilia) pubblicazione ufficiale riguardante l'attività e i decreti del governo militare. Il bando n. 10 stabiliva i « Regolamenti generali di Polizia e di Sicurezza»: denunzia di appareccpi radio riceventi (anche « pezzi o parti accessorie »), divieto di « sviluppare o di far copie di pellicole o di lastre fotografiche ». Obbligo di denunzia di « macchine ·fotografiche, telescopi, cannocchiali e binocoli, macchine di proiezione, materiale di sviluppo, carta fotografica e composizioni chimiche». (Gli Alleati poi sequestrarono e asportarono buona parte del materiale di archivio degli studi fotografici dell'Isola. Non è mai stato possibile conoscere il motivo di tali sequestri.) E ancora: coprifuoco a partire dal tramonto del sole, obbligo di possesso di tessera di riconoscimento, divieto di pubblicazione di « giornale, fascicolo, libro o altra materia stampata », divieto di adunanza o di assemblea. Gli ufficiali alleati avevano potere di disper-

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gere [sic!] tali adunanze: « Truppe alleate [e carabinieri] sono autorizzati a far fuoco contro coloro che si rifiuteranno di eseguire l'ordine di scioglimento ».' Vietati, ovviamente, l'inno nazionale italiano e l'esposizione « della bandiera o colori d'Italia». L'obbligo di consegna di tutte le armi si risolse in un colossale furto. Armi antiche, di precisione, preziosi fucili da caccia di grande valore e schioppi che servivano per l'innocente svago della caccia furono consegnati e si volatilizzarono. Tranne che per inutili ferrivecchi di nessun valore non risulta che i proprietari delle armi siano tornati in possesso dei loro beni. E dire che, per maggiore garanzia, le armi erano state consegnate alle caserme dei carabinieri. Col bando n. 12 si stabiliva il corso legale dei biglietti delle lire militari alleate (AM-lire) che avevano « per ogni effetto», un valore uguale a quello delle valute « aventi corso legale al momento del Bando». Appena occupata Palermo, sui muri della città, assieme alle Proclamations apparvero manifesti in italiano e in inglese, con un proclama alla popolazione del generale Patton (che venne ripetuto sotto forma di editoriale sulle colonne di « Sicilia Liberata» dell'8 agosto). Patton spiegava ai palermitani i motivi alleati della guerra e della sicura vittoria delle armi alleate. Confermava la liberazione dei prigionieri « siciliani di nascita ... i quali, fintantoché si asterranno dal dar fastidio, nulla avranno da temere da parte nostra». Diversamente, ammoniva Patton « ogni siciliano male intenzionato verrà senz'altro sottoposto a giudizio sommario ». Tanto per riportare onestà e moralità dopo tanti anni di « corruzione fascista», un'ordinanza alleata invitava la popolazione alla delazione, elencando in sette articoli le persone da denunciare ai comandi anglo-americani: « Ufficiali delle forze armate italiane e tedesche, militari in genere, paracadutisti, gerarchi del PNF, sabotatori; operator~ RT. »

I premi da assegnare a spie, delatori e « cascittuni » (confidenti) variavano da L. 2.000 a L. 20.000, a seconda del grado dell'arrestato e se si trattava « di informazioni risultanti nella cattura o di consegna delle persone ». 1 Ordinan2a del comando americano di Messina del 18 agosto 1943 a firma del tenente Jack L. Tomlin 2nd lt. C/30 III Int. L'ordinanza continuava dicendo che era d'obbligo un lasciapassare per recarsi nel capoluogo (Messina), che tutti i poteri di polizia dei paesi erano delegati ai carabinieri e che sarebbe stato aperto il fuoco su « chiunque fosse stato sorpreso a commettere delitti contro la proprietà i>.

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« Il versamento dei premi », assicurava l'ordinanza, « avverrà sul luogo e in contanti». Mai come allora fu preziosa la tanto vituperata omertà dei siciliani. Assieme e dopo i bandi venne la ridda dei W arnings, dei Notices aventi tutti carattere ufficiale e perentorio, e « ordinanze >> emesse in quantità dai poteri discrezionali che ogni CAO aveva nel comune di competenza: permessi, divieti, autorizzazioni, concessioni, rifiuti, sequestri, requisizioni ... La lettura di queste ordinanze fa meditare ancora ofgi. Ne ricordiamo uno solo, esemplare, di questi atti discrezionali. I permesso di porto d'armi concesso dal CAO americano di Villalba, tenente Behr, ai guardaspalle del capomafia don Calogero Vizzini, appena nominato sindaco del paese. Il documento, controfirmato dal maresciallo dei carabinieri Purpi, autorizzava questa gente a portare armi « per difendersi da eventuali offese da parte dei fascjsti », per consentire a Vizzini di « esplicare autorevolmente i compiti di sindaco... e dar manforte ai carabinieri». Fu tale l'aiuto dato ai carabinieri che pochi giorni dopo, nel paese sifiattamente « liberato », il maresciallo Purpi venne schiaffeggiato in piazza da un mafioso di ritorno dal confino. Il povero maresciallo incassò gli schiaffi senza reagire. Non bastò; due mesi dopo Purpi venne trovato steso a terra nel bel mezzo della piazza di Villalba. Lo avevano fatto fuori a pistolettate i soliti ignoti. Con l'occupazione alleata erano ricominciate le solite, misteriose « ammazzatine ». Secondo la relazione del tenente colonnello americano McCafiery, Senior CAO di Agrigento (prefetto della città, per modo di dire, era stato nominato l'ex deputato Edoardo Pancamo che godeva della simpatia della « gente intesa», cioè mafiosa), nel mese di agosto, nella sola provincia di Agrigento, vi furono ben sei omicidi. Di questi, due erano ritenuti causati da motivi di robbery and sex (rapina e sesso, cioè i soliti motivi d'onore) gli altri « apparentemente» per vendetta. McCaffery continuava cosi la sua relazione: « La mafia, adesso che i suoi nemici sono stati sconfitti, sta certamente tentando di riorganizzarsi, approfittando della confusione creata dalla nos~ra invasione. »

McCaffery era un grande ingenuo oppure non sapeva che in quel momento, a Palermo, il braccio destro di Charles Paletti era « don » Vito Genovese. I primi 12 bandi o Proclamations, chiaro esempio di legislazione sommaria ed eccezionale, erano stati preparati· in anticipo (prima dell'invasione), e portavano la firma del generale Alexander. Infatti, si era ancora nella fase in cui bisognava provvedere in tutti i modi all'organizzazione di sicurezza delle linee di comunicazione delle forze combattenti. Gli ufficiali AMGOT dipendevano

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operativamente dai comandanti d'armata e agivano principalmente per ragioni tattiche, piu che amministrative. Quando, il 7 agosto, Lord Rennell of Rodd si trasferi a Palermo nella sede di via Bari n. 8 (negli ultimi dieci giorni di luglio il QG dell'AMGOT era stato a Siracusa), ebbe inizio una nuova fase legislativa del governo militare. Si ricominciò con nuove raffiche di avvisi, con nuovi bandi, stavolta chiamati «ordini generali», contraddistinti da un numero progressivo. Gli ordini generali, spesso peggioravano, emendavano, modi6.cavano o cambiavano, e qualche volta mitigavano, i bandi precedenti. Con gli ordini generali si stabili il prezzo e la modalità di consegna del grano per l'ammasso obbligatorio, le razioni massime di pane (300 g al giorno) e della pasta (200 g la settimana), i prezzi massimi di tali generi razionati furono fissati in L. 3,60 al chilo per il pane e L. 4,20 per la pasta. Per la verità la razione di pane non superò mai i 100 g ed erano piu i giorni in cui il prezioso alimento mancava che quelli in cui esso era distribuito. La pasta venne poi distribuita, pochi grammi, solamente a dicembre, e la notizia fu magnificata come un muni6.co dono di Natale. Si tentò di regolamentare le tariffe dei pubblici esercizi, i prezzi di molte derrate alimentari, di merci varie. Tariffe e prezzi che nessuno voleva o poteva rispettare a causa dell'inllazione galoppante. Fu richiesta l'immediata denunzia dei « prodotti essenziali: prodotti agricoli o alimentari in genere, bibite, tabacco, ecc., abbigliamento, tessili, minerali, materiale da costruzione, droghe, sapone, prodotti chimici, legname, gomma, cuoi?..i carburanti, lubrificanti, veicoli». Il tutto dettagliatamente specincato. Dopo di che cominciarono le requisizioni: ogni tipo di attrezzature, impianti, scorte, locomotori e vagoni ferroviari, natanti... tutto. Dopo la guerra un catanese arruolato nella Legione Straniera francese vide in Indocina, nel delta del Mekong, il familiare pontone « Archimede » che per anni aveva lavorato nel porto di Catania. Vennero aboliti i sindacati e creati uffici del lavoro; a capo di quello di Palermo fu posto il capitano americano Dave Morse che aveva ricoperto un'uguale carica a New York. Infine furono stabilite drastiche restrizioni sulla circolazione degli autoveicoli. In quel momento gli unici mezzi pubblici di trasporto in Sicilia erano pochi, vecchi autobus affollati « fino all'asfissia. Un inglese morirebbe se dovesse viaggiare come passeggero dentro questo inferno » constatava Gayre.2 Il 6 settembre a Palenno e il 15 nel resto della Sicilia, con la riapertura delle banche, furono autorizzate, con molte restrizioni, alcune 2

Cfr. GAYRE, op. cit., p. 54.

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normali operazioni. Maggiore libertà per l'attività bancaria venne concessa con l'ordine generale n. 10 del 1° ottobre 1943 (per la cronaca: nell'aprile del 1945 le banche di Milano, all'arrivo delle truppe alleate, rimasero chiuse solo per un'ora) . Al momento della riapertura le banche disponevano di una massa valutaria pari al 25% dei debiti a vista. Le restrizioni concernevano il prelevamento di fondi dai vecchi conti, cosi come restavano inutilizzabili libretti postali e buoni del Tesoro. Questi depositi, in molti casi, rimasero bloccati fino alla fine della guerra quando i prezzi erano già aumentati diecine di volte. Ciò significò un'azione di irreparabile impoverimento per larghi strati di risparmiatori. Si poté accedere alle cassette di deposito e di sicurezza, ma soltanto alla presenza dell'ufficiale finanziario alleato. Il contenuto delle cassette doveva essere previamente ispezionato e valute·, obbligazioni straniere, metallo e oro erano posti sotto il controllo dello stesso ufficiale. Al legittimo proprietario non rimaneva scelta: o il conforto d'una ricevuta « in copia» o l'accordo half and half cash con l'ufficiale. Inoltre obbligazioni, valute straniere e riserve auree delle banche erano a disposizione dell'ufficiale finanziario alleato. Infine dopo la metà di ottobre il governo militare alleato iniziò una frenetica attività legislativa. Con innumerevoli decreti che entrarono in seguito tutti a far parte del corpus juris dello Stato italiano. Furono cosi clamorosamente smentite le parole di Lord Rennell of Rodd, che, insistendo sulla «temporaneità» del governo militare, aveva correttamente precisato: « ... un governo militare non deve pregiudicare l'attività futura con qualsiasi atto legislativo e pianificazioni a lunga scadenza... B inutile quindi raccomandare o proporre a governi militari legislazioni sociali irraggiungibili e riforme di bilancio o delle finanze. Un governo militate non è in grado e non è stato istituito per questo genere di cose, né, in realtà, il diritto internazionale permette ad esso di agire in questo

modo. »3

Vi fu, è vero, un'acuta e coraggiosa sentenza del tribunale di Palermo del 1° giugno 1946 che non ebbe alcun seguito se non il pagamento dei contributi turistici alle aziende di soggiorno e turismo che erano stati aboliti con un colpo di penna da Charles Paletti; ... la sentenza precisava: « L'occupazione bellica è un fatto di natura temporanea e perciò i provvedimenti emessi dallo Stato occupante sono transitori, senza di che, a pace stipulata, ne risulterebbe menomata la sovranità dello Stato 3

Cfr.

LoRD RENNELL OF R oDD,

Allied Military Government in Occupied

Territory, « Intc:rnational Affairs », voi. XX, n . J, luglio 1944, p. J07. 54


occupato, il quale, semmai, potrebbe essere tenuto a rispettare quei provvedimenti dello Stato occupante che riguardassero i propri interessi, avessero effetti duraturi e non fossero in contrasto con le istituzioni dello Stato occupato. In tutti gli altri casi la reviviscenza delle cose soppresse si verifica, sia pure ipso jure col trattato di pace. •

Un'attenta lettura dei decreti e dei provvedimenti dell'AMGOT è quanto mai interessante (ed edificante) per comprendere l'indirizzo postbellico della vita politica ed economica (e dell'etica politica) della Sicilia. Ma è innegabile che l'attività legislativa del governo militare alleato creò un sistema di governo regionale in tutti i campi delle attività, un sistema, e un precedente, che nessun futuro governo italiano avrebbe potuto cancellare o ignorare. I decreti, tutti a fuma di Charles Poletti, cominciavano con uno spagnolesco: « Io tenente colonnello Charles Poletti, capo degli Affari Civili della Sicilia, ORDINO e DECRETO .... » e giu l'infinita quantità di interventi, anzi di sommovimenti, nelle attività pubbliche e in quelle private. Spesso si trattava di interventi in pe;us. Fra l'altro la scuola media, creata dalla « riforma Bottai », definita di « marca fascista » venne abolita e sostituita da « ginnasio inferiore, magistrale inferiore, liceo scientifico e Istituto tecnico inferiore ». Il decreto fatto da Poletti dietro suggerimento di qualche parruccone reazionario venne emesso all'insaputa dell'Educatlonal Adviser Gayre e provocò una rabbiosa reazione di quest'ultimo che riteneva che la scuola media « sebbene creata nel periodo fascista » rappresentasse « un netto progresso ». Anche per la scuola media dovevano passare piu di vent'anni perché essa venisse ripristinata con camuffamento « democratico ». Furono decisi nuove norme, nuovi regolamenti, abolizioni di uffici, enti, istituti e organizzazioni esistenti e creazione di altri nuovi, con disposizioni, concessioni, permessi speciali, quasi sempre ad personam. Una perenne folla di postulanti (o di gente che protestava) stazionava in via Bari davanti al portone del QG dell'AMGOT a Palermo. Tanto che era difficile passare fra la folla « controllata dai pittoreschi carabinieri con le loro lucerne napoleoniche ».4 Si arrivò addirittura a promuovere arbitrari reclutamènti di guardie ferroviarie, guardie di PS e carabinieri. Tutta gente che entrò poi a far parte, e fece carriera, negli organici dello Stato italiano. E poi: nomine, nomine, nomine. Soprattutto ai livelli piu alti delle amministrazioni; magistrati di ogni grado: cancellieri, pretori, giudici, procuratori, presidenti, prefetti, questori e alti funzionari di 4

GAYRE,

op. cit., p. 83.

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prefettura e di questura, amministratori e dirigenti d'ogni specie. E una falange di personale generico. Tutto questo, in parte, si può controllare nel « Bollettino del Governo militare alleato della Sicilia», raccolta dei provvedimenti emessi dal 24 ottobre 1943 all'll febbraio 1944. (Dopo tale data la Sicilia passò sotto la giurisdizione, solo nominale, del governo Badoglio, ma gli interventi alleati, anche in questo campo, continuarono.) Il bollettino (come la « Sicily Gazett~ ») scomparve subito, e a buon diritto, dalla circolazione. I numerosi beneficati cercarono di far scomparire o di far dimenticare la torbida origine della loro carriera. Spesso le singolari nomine, le assunzioni, le promozioni comportavano sostanziali emolumenti retroattivi. Non vi è traccia documentabile (bisognerebbe far ricerche comune per comune, ufficio per ufficio) delle uguali, innumerevoli iniziative avvenute nelle· amministrazioni comunali, parastatali in genere, negli enti e negli istituti. Anche queste, tutte contra legem. Fu cos( che gli uffici, pubblici e non, ebbero gli organici trasformati dalle infaticabili autorità alleate. Le cariche elettive o per comando, le assunzioni pro tempore, i trasferimenti, avrebbero potuto avere una loro logica o una necessità dovute alle assenze di personale per fatti bellici (un po' meno le sostituzioni per motivi di epurazione improvvisata). Non trovano però giustificazione promozioni e nomine in settori che non presentavano « vacanze» da ricoprirsi con carattere d'urgenza, anche perché la quasi totalità di questi riconoscimenti fu data ad personam e avvennero dopo l'armistizio, quando l'Italia era già cobelligerante. Sarebbe stato piu corretto, piu serio, oltre che meno sospettabile, assegnare funzioni pro tempore all'incarico o al grado superiore, in attesa del ritorno dell'amministrazione italiana che avrebbe preso le opportune decisioni in ossequio alle leggi. Ma gli alleati pensarono d'approfittare dell'occasione per sistemare gli amici della loro causa o, come accadde spesso, gli amici personali degli ufficiali addetti ai servizi dell'AMGOT. Per esempio, un avvocato di Palermo divenne professore universitario, e tale rimase per piu di trent'anni, perché aveva la moglie « americana » e lui stesso era impiegato nell'ufficio del colonnello Gayre sovrintendente alla Pubblica Istruzione. Quando avvenne il passaggio della Sicilia all'amministrazione italiana i beneficiati dell'AMGOT ottennero dal governo italiano il riconoscimento e la convalida di tutte le nomine fatte fino a quel momento, che furono riconfermate in blocco. Un'iniziativa che ha lasciato segni incancellabili nella vita dell'isola. Ma l'azione piu ingiustificabile e forse piu sconvolgente del governo militare alleato fu la nomina manu militari di professori universitari: gli AM-professori, come furono chiamati dalla indignata opinione pubblica, che accettarono la nomina e s'insediarono senza titubanza nelle cattedre cosf fortunosamente ottenute, senza nem-


meno porsi il problema che, cosi facendo, si sarebbe messa in discussione la validità degli studi conseguiti e dei titoli ottenuti dagli studenti con i nuovi, improvvisati e illegali docenti. All'Università di Palermo i nuovi cattedratici furono: prof. Salvatore Catinella, diritto pubblico comparato. prof. Giuseppe Montalbano, procedura penale. prof. Giuseppe Cucchiara, folklore e letteratura popolare. prof. Virgilio Titone, storia moderna. prof. Gaetano Canziani, psicologia. prof. Gaetano Petrotta, letteratura albanese. prof. ·Francesco Serio, semeiotica. prof. Beniamino Gulotta, calcolo. prof. Salvatore Traina, genetica. prof. Francesco Cipolla, geologia. prof. Enrico Castiglia, scienza delle costruzioni. prof. Franco Resti.vo, istituzioni di diritto pubblico. prof. Giuseppe La Loggia, diritto del lavoro. prof. Salvatore Orlando Cascio, diritto dell'agricoltura. prof. Romano Cultrera, chimica agricola. prof. Salvatore Monastero, entomologia.

All'Università di Catania i professori nominati dall'infaticabile Gayre furono: prof. prof. prof. prof. prof.

Felice Paradiso, clinica pediatrica. Antonino Giacalone, chimica fisica. Alfredo De Luca, istituzioni di diritto privato. Salvatore Puleo, istituzioni di diritto pubblico. Tommaso Aiello, chimica farmaceutica.

All'Università di Messina le nomine furono le seguenti: prof. prof. prof. prof. prof. prof. prof. prof.

A. Falzea, istituzioni di diritto privato. S. Barberi, clinica pediatrica. F. Scullica, clinica oculistica. F. Monforte, chimica. G. Passanti.no, anatomia veterinaria. P. Aiello, ostetricia veterinaria. G. Carbonaro, farmacologia. F. Dulzetto, zoologia.

Con puritana modestia Gayre cosf commentò le nomine appena fatte: « If I had heen a fascist Minister of Education, what a good store of bribery this would bave represented » (Se fossi stato un ministro fascista dell'Educazione che bella bottega di corruzione ciò avrebbe potuto rappresentare) . 57


IV. LA SICILIA ALLA FINE DELLE OPERAZIONI MILITARI « Per anni ci siamo sforzati di distruggere il morale degli italiani... Ci siamo riusciti anche troppo. » Generale DWIGHT D . EISENHOWER

Mentre si compiva il sacrificio della Sicilia, erano avvenuti a Roma il colpo di stato del 25 luglio, l'arresto di Mussolini e la nomina

di Badoglio a capo di governo.

Con il cambiamento politico la guerra che si combatteva in Sicilia scomparve dalle pagine dei giornali. Come se non ci fosse piu o si svolgesse su un altro pianeta, Quattro milioni di italiani, generalmente considerati cittadini di seconda o terza categoria, furono deliberatamente ignorati, completamente dimenticati. Furono pochi gli italiani che piansero sulle sorti della disgraziata Sicilia. La solenne affermazione di Badoglio: « La guerra continua» non aveva ingannato nessuno; tantomeno i tedeschi. La totalità degli italiani aspettava la pace e si divertiva a leggere gli articoli che giornalisti, fascisti sino al giorno prima, scrivevano sugli amori di Mussolini e la Petacci. Alla Sicilia furono riservati i lacrimosi messaggi ufficiali che, date le circostanze, gli oscuri retroscena della vicenda e come si erano veramente svolti i fatti, avevano sapore di beffa. Cominciò Badoglio il 18 agosto dai microfoni dell'EIAR; egli si rivolse « agli amatissimi fratelli della Sicilia » per ricordar loro che « nessun evento potrà mai staccarvi dalla gran madre Italia». Li rassicurò che « ogni cuore italiano è con voi e per voi » e invitò gli svagati italiani a salutare « con tutto il nostro animo, con tutto il nostro cuore, i fratelli siciliani». Il giorno dopo anche Vittorio Emanuele Orlando volle dire la sua per ricordare agli isolani che « la salvezza e la fortuna della Sicilia sono indissolubilmente collegate con la fortuna e la salvezza d'Italia». Affermazione che, purtroppo, è stata sempre contraddetta dai fatti. Infine, il 20 agosto, la serie di messaggi radiofonici venne chiusa dal vecchio re che disse ai siciliani: « Il vostro re vi è sempre affettuosamente vicino, primo tra voi a soffrire i vostri stessi dolori». Chiacchiere radiofoniche a parte, la verità era che la Sicilia, regione povera e depressa, usciva dalle operazioni militari in condizioni spaventevoli. Con le città che, pestate dagli anglo-americani, venivano ripestate dalle bombe italo-tedesche. Mentre Catania, Siracusa, Augusta, Gela e Palermo subivano nuovi attacchi aerei, la riviera messinese veniva presa di mira dalle artiglierie dislocate sulla costa calabra. A Palermo, durante uno di questi bombardamenti, venne


centrata una nave americana carica di munizioni. L'esplosione che ne segui causò l'affondamento di altre navi e completò la distruzione dell'area portuale. Alla data del 18 agosto il comando militare alleato controllava « un territorio di 9 .923 miglia quadrate, comprendenti 9 province e 357 comuni, e una popolazione di piu di 4 milioni · di anime ». Territorio e popolazione erano ridotti in condizioni pietose. L'isola era stata colpita a morte nelle strutture, nella economia, nella popolazione decimata e sbandata. Il paese, già povero, era adesso in condizioni miserande. La rete viaria, già insufficiente, era sconvolta dalla distruzione di 2300 km di strade, di centinaia di ponti e manufatti. Le ferrovie, da mesi ridotte al minimo con le stazioni schiantate dalle bombe e i treni che camminavano a singhiozzo e si fermavano in campagna, alle porte delle città, si arrestarono definitivamente. Linee ferrate, ponti, viadotti e gallerie erano saltati in aria. Le navi traghetto dello Stretto di Messina giacevano in fondo al mare, affondate nel corso delle operazioni belliche. Il 10% delle abitazioni e dei pubblici edifici era andato perduto. Le case di 313 comuni, su 357, avevano subito distruzioni o danneggiamenti per un totale di 249.234 vani perduti (83.560 in provincia di Palermo, 46.855 in provincia di Catania, 33.352 in quella di Trapani, 46.077 in provincia di Messina e cosi via}. Nella città dello Stretto i fabbricati colpiti erano stati il 94%, dei quali il 30% distrutti, il 34% gravemente danneggiati e il 34% lievemente. A Messina l'esistenza « di scantinati, quella di ampie gallerie scavatenelle adiacenti colline, e soprattutto l'esodo dei cittadini verso la campagna, hanno di molto limitato l'eccidio della città fantasma ».1 Distrutti acquedotti, reti idriche ed elettriche, fognature. I porti erano in condizioni pietose con le banchine e le dighe foranee distrutte o sconvolte, le attrezzature e gli edifici portuali schiantati, i fondali impraticabili per i molti scafi affondati. La già povera economia dell'isola aveva subito colpi irreparabili. Le poche industrie distrutte o danneggiate, le scorte consumate o saccheggiate, le attrezzature fuori uso. Soprattutto ragricoltura, che rappresentava la maggiore attività economica dell'isola, aveva subito danni rodescrivibili: fattorie distrutte, danneggiate, saccheggiate; attrezzature e macchine agricole fuori uso; perduto il 20% del patrimonio zootecnico (dopo, le autorità alleate, per i loro bisogni di guerra sull'Appennino, avevano fatto incetta di muli e cavalli pagando con facili AM-lire). La produzione agricola era scesa a· livelli bassissimi: « Pregiudicati, per gran tempo, rimasero i raccolti per via della defi.1

CTr.

N1TTO SCAGLIONE,

Diario manoscritto, Archivio Comunale, Messina.

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cienza di adeguati fertilizzanti e della mancanza di razionali cicli rotativi delle piante, per l'insistenza dei ringrani, che riducevano il tasso di producibilità dei terreni. >>2 Il patrimonio forestale, già misero, aveva perduto molte migliaia di ettari di boschi. Distrutti vigneti, oliveti, agrumeti e gli impianti di irrigazione. Inutilizzabili altre migliaia di ettari, perché disseminati di ordigni di guerra. Dovranno passare anni prima che si possa provvedere a una completa bonifica dei terreni e al ripristino delle colture. Gli uffici pubblici, tribunali compresi, erano chiusi, spesse volte saccheggiati, il personale disperso e assente, gli archivi sconvolti. I fabbricati rimasti in piedi occupati da unità militari o da senza tetto. V'erano poi le condizioni della popolazione terrorizzata e affamata: « Nelle città, in tutti i centri, squallore e desolazione... turbe affamate migravano da un paese all'altro... un brulicare di ex soldati senza meta e senza famiglia, ovunque spettacoli di miseria indescrivibile. »3

Perché oltre alla sciagura delle bombe e a tutte le altre operazioni belliche, l'isola ebbe a subire anche un diffuso, sistematico saccheggio. Badoglio, nella sua famosa filippica del 13 ottobre, ebbe ad accusare i tedeschi delle razzie e dei sacclieggi commessi a Catania. La verità è che a Catania, come nel resto dell'isola, saccheggiatori furono tutti: militari e civili, italiani, tedeschi e anglo-americani; essi diedero l'assalto ai magazzini, ai depositi, ai negozi, agli uffici, alle abitazioni civili. Tutti rubavano tutto. (A Catania, e cosi altrove, le botteghe avevano cartelli che avvertivano: « Signori ladri! la bottega è vuota. Non c'è piu niente da rubare».) Le retroguardie tedesche avevano proceduto nella loro ritirata a un'affannosa requisizione di viveri e di mezzi di trasporto e perfino di carri funebri, asini, muli e biciclette... Poi arrivarono gli alleati con gli sbrigativi metodi di reparti d'avanguardia {le truppe canadesi fucilarono prigionieri e presero ostaggi tra la popolazione civile) e le requisizioni, o razzie, delle unità maggiori. Due tabors di truppe marocchine, che rappresentavano la partecipazione francese alla « causa della civiltà», commisero indescrivibili nefandezze. Compirono razzie, saccheggi e stupri che furono prontamente puniti dalla reazione dell'infuriata popolazione. Tanto che una compagnia di goumiers venne completamente annientata nei pressi di Capizzi.4 2

Cfr. SALVO D1 MATTEO, Anni roventi, Palermo, 1967, p. 13.3. D I MA'l'TEO, ibid. 4 I nordafricani, entrati in paese, avevano preso a tubare, forzare le case e afferrare le donne. La gente usd per strada armata cli doppiette, scuri, for3

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Fra i compiti dell'AMGOT v'era quello di « prestare tutto il possibile aiuto immediato alle popolazioni civili alle spalle delle armate, in modo da evitare epidemie e alleviare il disagio». Si trattava di un'espressione generica, da collocare nel quadro di un'eventuale possibilità futura. Mentre il vero, immediato impegno era quello di provvedere alla sicurezza delle linee di comunicazione, indispensabili per lo sviluppo delle operazioni militari. Conditio sine qua non per raggiungere il risultato, era « prevenire o impedire qualsiasi agitazione e provvedere alla sanità pubblica » e ripristinare le strutture portuali, stradali e ferroviarie indispensabili allo sforzo bellico. Le agitazioni popolari sembravano da escludere, lo spirito di resistenza delle popolazioni era stato :fiaccato e non esisteva piu. Soltanto nelle prime ore delle operazioni d'invasione c'era stata una partecipazione di civili alla caccia di paracadutisti alleati nelle zone di sbarco, da Gela a Santa Croce Camerina. Dopo la popolazione era rimasta apatica e passiva, e gli avvenimenti del 25 luglio avevano rafforzato e confermato definitivamente tale atteggiamento. Se la caduta dd fascismo fosse avvenuta a maggio o a giugno, l'isola avrebbe potuto condividere con il resto d'Italia la ragionevole speranza d'essere risparmiata dal « rovente rastrello della guerra ». Ma al 25 luglio due terzi dell'isola erano stati occupati dagli Alleati; per l'altro terzo era ormai questione di giorni, Il problema politico era stato risolto manu militari. Anche il saccheggio delle sedi fasciste era già avvenuto. Durante i primi mesi di governo militare alleato avvenne solamente una manifestazione popolare, anzi un tumulto, sfociato in violenze e distruzioni. Il grave fatto avvenne a Geraci Siculo il 24 agosto 1943. Le cause non furono politiche, ma provocate dalla gravissima situazione alimentare. Le forze di sicurezza alleate erano prontamente intervenute e il tribunale militare aveva giudicato 42 individui ritenuti istigatori della rivolta, Ventiquattro persone erano state condannate a pene varianti da sei mesi a tre anni. Il primo lavoro da fare, subito dopo il passaggio della guerra, fu quello di seppdlire i morti e di sgomberare le macerie che ingombravano le strade utili per le operazioni militari. Fu allora che i siciliani videro, per la prima volta, i grossi bulldozers. Nelle città i bombardamenti avevano accumulato rovine su roconi e randelli, e molti africani lasciarono la vita nelle strette viUZ7.e del paese. Il comando americano li fece ritirare dall'abitato, ma ormai la popolazione era scatenata e continuò la caccia « al turco». Una compagnia di goumiers, che bivaccava nei pressi del mulino ad acqua in contrada Pulchera, fu assalita di 50tpresa ed annientata da una turba di pastori e contadini. I goumiers furono fulminati da tonanti scariche di vecchi tromboni e da una grandinata di grosse pietre scagliate con mano sicura... Nessuno scampò, i feriti furono finiti a colpi di roncola o infilzati dai forconi.

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vine; i maggiori centri erano stati abbandonati dalle popolazioni. (A Catania erano rimaste circa 60:000 persone, a Messina 55.000 ; e divenne necessario emanare un proclama che minacciava di licenziamento i pubblici impiegati che avevano abbandonato il lavoro.) Nelle città erano cresciute le erbacce sulle rovine e negli interstizi della pavimentazione stradale. Il primo ordine dato da Patton a Palermo fu quello di riparare i danni del porto e di sgombrare le macerie. I prigionieri di guerra ebbero il compito di ripulire e di metter ordine, cosa che secondo Patton « non doveva essere stata fatta dai tempi dell'occupazione greca». Fu in quell'occasione che Charles Poletti ordinò che le macerie venissero scaricate a mare, sulla riva del Foro Italico, dalla Cala a Sant'Erasmo. Aggiunse Poletti che cosi « Palermo avrebbe avuto un bel giardino a mare». (Ne venne fuori, invece, una grandissima distesa fatiscente di terreno che risulta, ancor oggi, inutilizzata.) In quanto alla situazione della salute pubblica essa appariva molto grave soprattutto per lo stato di deperimento fisico, dovuto alla fame, di buona parte della popolazione. Le strutture ospedaliere dell'isola avevano retto in qualche modo sotto l'imperversare della guerra. Ciò fu dovuto piu all'abnegazione del personale ospedaliero che alle disponibilità di attrezzature e di medicine. (All'ospedale Vittorio Emanuele di Catania, divenuto ospedale di prima linea, si lavorò per 24 giorni - tanto durò la resistenza della città etnea - in conduioni drammatiche. Sotto un continuo grandinare di bombe e di cannonate. Ambulanze e autocarri scaricavano continuamente feriti militari e civili nella clinica chirurgica diretta dal professore Edmondo Malan che in seguito doveva acquistare fama internazionale. Nell'ospedale non c'era acqua; si usava quella di un pozzo, pochissimo cibo ... l'elettricità arrivava a singhiozzo... i feriti erano sdraiati dappertutto e i morti venivano seppelliti nelle aiuole del giardino ... Quando la situazione si normalizzò, l'amministrazione ospedaliera richiese ai medici « il pagamento dei pasti consumati in ospedale » durante le tragiche giornate della battaglia.) · Sotto il governo militare alleato le cose certo non potevano migliorare di colpo, anche se la direzione sanitaria dell'isola era stata affidata a un valente ufficiale medico italo-americano, il maggiore Bizzozero. L'organizzazione sanitaria alleata era esclusivamente militare, disponeva di grandi possibilità d'intervento nel campo chirurgico e traumatologico, ma sicuramente non poteva affrontare e risolvere i mille problemi sanitari d'una popolazione civile, di vecchi, donne e bambini. Inoltre gli alleati, sdegnando le strutture sanitarie militari italiane esistenti, installarono i loro ospedali militari in quelli civili e nelle cliniche universitarie. Come avvenne a Palermo dove l'ospedale ame-


ricano veniva fatto funzionare nelle modernissime cliniche della Feliciuzza o a Siracusa dove gli inglesi requisirono l'ospedale e il manicomio. Ma gli Alleati, considerando obiettivamente le condizioni e le possibilità, fecero lo stesso un gran buon lavoro. Risolsero bravamente alcuni problemi sanitari di emergenza, iniziarono una certa bonifica territoriale con i nuovissimi DDT e MYL e rifornirono, per quanto possibile., di medicine gli ospedali civili. Purtroppo la morbilità malarica ebbe lo stesso un fortissimo incremento passando dai 20.341 casi del 1941 ai 137.356 del 1944. Aumentarono anche i casi cli tubercolosi. Inoltre, fatto sintomatico di quegli anni di fame fisiologica, notevole fu la riduzione di alcune malattie: diabete, ipertensione, malattie cardiache, uricemia ... Fu poi una fortuna che alcune malattie come tifo, paratifo e altri mali infettivi, abbastanza diffusi per le particolari gravi condizioni igieniche, tranne alcuni focolai a Rosolini, Scordia e Avola, non raggiunsero quel grave carattere epidemico che si ebbe a Napoli e nelle altre città del meridione nell'autunno del 1943 e nel 1944. In spaventoso aumento poi le malattie veneree. A parte la miracolosa fruttificazione degli aranci in piena estate descritta con molta serietà da Montgomery nelle sue Memorie5 con le parole: « Era piena estate: gli alberi erano carichi di arance », l'AMGOT si impegnò a risolvere con serietà e competenza molti problemi strutturali e di funzionamento, tanto che il 24 agosto veniva ripristinato a Palermo, nella sola città, il servizio postale anche se limitato alle sole cartoline. Il 22 settembre il servizio corrispondenza fu esteso a tutta la Sicilia e alle isole minori. Con gravi limitazioni da parte della censura: le lettere dovevano essere scritte soltanto in lingua inglese o italiana e dovevano essere spedite aperte. Venne fatta, con grande rapidità, una emissione di francobolli AMGOT, oggi preziosi, con valori di 15 e 25 centesimi per cartoline e lettere dirette entro distretto postale, e 25 e 50 centesimi per quelle fuori distretto. (Bisogna riconoscere che il servizio postale di quei tempi non risultò meno efficiente di quello odierno.) Anche se il governo militare era un organismo unico per tutta la Sicilia, i due alleati inglesi e americani si spartirono subito le loro zone di occupazione e d'amministrazione militari ddl'isola. Le province orientali, quattro, furono assegnate agli inglesi, e le cinque occidentali agli americani. Nacquero cosi due Sicilie i cui confini furono scrupolosamente definiti e le cui competenze furono gdosamente custodite. Tanto che per un americano era pressoché impossibile, tranne che per particolari e ben precisati motivi di servizio, andare nella zona inglese e a un britannico accedere alla zona americana. s Cfr. MONTGOMERY, op. cit., p. 25.


La Sicilia occidentale rimase di competenza degli americani 1 quali, per la verità, si comportarono con molta umanità. Fra di loro v'erano molti italo-americani. Essi non razziarono, non rubarono. Casi sporadici furono dovuti a iniziative individuali di delinquenti comuni in divisa. Anche se spesso la MP, arrestando ladri in divisa e ladri civili, preferiva lasciare liberi i primi e mettere in galera i secondi. Gayre racconta di un ufficiale siculo-americano che obbligò il maresciallo dei carabinieri di Sant'Agata di Militello a liberare due suoi cugini « indigeni » in galera per rapina. Gli americani non tolsero, ma spesse volte diedero. Lasciarono liberi, cosi come avevano promesso, i prigionieri di guerra siciliani, e governarono con mano leggera anche se con comportamento apertamente e giocondamente « intrallazzista ». Paletti era un giovialone di specie particolare, spesso attorniato da individui certo non raccomandabili. Come il gangster italo-americano Vito Genovese, che divenne interprete e uomo di fiducia di Paletti. Genovese raggiunse un'invidiabile posizione d'autorità presso l'AMGOT: « ... rilasciò salvacondotti, permessi, patenti, ordini di sequestro, attestati di benemerenza. Si fece perfino epuratore! ».6 E creò una vasta organizzazione di mercato nero che abbracciava la Sicilia e l'intera Italia meridionale. Don Calogero Vizzini era anche lui di casa da Paletti che lo chiamava pomposamente « colonnello » (nella vasta fioritura di qud tempo di « colonnelli » fasulli e pericolosi la Sicilia anticipò l'Italia). Sempre a Palermo, troviamo con gli americani un altro torbido individuo ben noto alle squadre antidroga di tutto il mondo: Max Mugnani, cacciato via dalla milizia fascista perché tossicomane. Mugnani ebbe dagli americani l'incarico di fiducia di sovrintendenza al dipartimento medicinali dell'AMGOT! Paletti godeva di numerose amicizie femminili altolocate e instaurò a Palermo una specie di corte califfale frequentata dai migliori nomi dell'aristocrazia e ddl'alta borghesia, perennemente assetati di incarichi e di favori. Forse qualcuno gli aveva detto della storia dei potenti Emiri di Palermo, degli splendori dei loro palazzi e dei loro ginecei, e il buon « Charles Paletti, meno chiacchiere e piu spaghetti », non volle mancare di ripetere gli antichi fasti. Oltre alla cordiale natura dei Gl's v'era l'interesse elettorale che i due grandi partiti politici nordamericani hanno sempre avuto per l'elettorato italo-americano. E poi si resero meritevoli agli occhi della popolazione rimandando a casa i prigionieri siciliani. La decisione di liberare i prigionieri avvenne per caso. Con l'occupazione americana di Caltanissetta l'ufficiale italiano responsabile dei grandi magazzini militari italiani, tale colonnello Pagano di Siracusa, chiese al maggiore OSS Max Corvo a chi avrebbe dovuto effettuare 6

Cfr. G.

TAROZZI,

Made in ltaly, Milano, 197.3, p. 170.


le consegne. Al che Corvo rispose: « Ma che c...o di consegne! Dica ai suoi uomini di aprire i magazzini alla popolazione. Poi mettetevi in borghese e andatevene a casa». La stessa sera un soldato sbandato italiano venne catturato in abiti civili nei pressi del comando di Bradley e disse di trovarsi bene in borghese. Cosi la proposta che Corvo fece a Bradley e a Patton di rimandare a casa i prigionieri siciliani venne accettata. (Fu la migliore e piu proficua decisione politica presa dagli americani in Sicilia.) A differenza degli americani gli inglesi avviarono subito verso il Nord Africa i prigionieri militari e civili. Questi ultimi, in dispregio di ogni norma di diritto internazionale, furono considerati prigionieri di guerra e bollati con la casacca color senape e col marchio POW (Prisoners of War). (Altri tipi di uniforme per i prigionieri erano contraddistinti da cerchi color rosso scuro ai ginocchi e alla schiena.) Oltre alle normali prigioni, gli inglesi utilizzarono PW Camps « temporanei» a Siracusa, in località Fossa Creta (Catania), Messina Pisturina, e un immenso campo di «transito», che divenne poi definitivo, a Priolo, il 369 PW Camp. Esso venne chiuso nel 1944 e i prigionieri trasferiti al 371 PW Camp di Padula (Campania), nella Certosa. (Dalla seconda metà del 1944 la Certosa di Padula divenne campo di internamento per civili « fascisti » del Meridione e della Sicilia. Fra gli internati un certo numero di persone impazzi o si uccise. E vi furono anche decessi a causa delle gravissime carenze sanitarie. L'accademico d'Italia Paolo Orano, ormai settantenne, mori per mancato intervento chirurgico. Orano spirò sull'autocarro che troppo tardi lo trasportava all'ospedale di Nocera.) Nel campo di Priolo migliaia di militari e di civili rimasero per quasi un anno, dall'estate del 1943 alla primavera del 1944, all'aria aperta. Senza tende, senza baracche, senza assistenza medica, buttati sulla nuda terra e occhiutamente sorvegliati da sentinelle di colore. La gente di Priolo aveva accolto con ingiurie e sassate i primi prigionieri militari cui rimproverava la mancata difesa dell'isola. Ma quando vide le condizioni inumane in cui versavano i disgraziati prigionieri fu prodiga d'aiuti d'ogni .genere. Se quei poveretti sopravvissero lo si deve ai soccorsi della gente del posto e della folla di parenti e amici accorsa d'ogni parte della Sicilia. Il campo di concentramento sorgeva in una zona altamente malarica, senza che le autorità britanniche se ne dessero pena. Un intervento del vescovo di Piazza Armerina presso il comando inglese ottenne un risultato immediato; ... due giorni dopo il campo pullula.va di cartelli: « Attenzione! Zona Malarica ». Non si sa se i terapeutici cartelli furono dovuti a insipienza burocratica militare o a sottile ironia britannica, Il« Corriere di Sicilia» del 28 settembre 1943, venti giorni dopo l'armistizio dell'8 settembre, informava i suoi lettori che « per una


specialissima, gentile concessione dell'autorità competente» era stata autorizzata la raccolta di libri per i prigionieri italiani « di un campo della Sicilia ». Erano esclusi i Jibri aventi carattere « parzialmente politico e taluni gialli», mentre erano accettati libri « d'amena lettura, di grammatica, di lingua italiana, opere di tecnica agricola, manuali di matematica, Vecchi e Nuovi Testamenti di qualsiasi formato». E il 10 gennaio 1944 lo stesso giornale rinnovava l'appello d'aiutare i prigionieri di Priolo. Ancora alla fine della primavera 1944 v'erano a Priolo 7 .000 prigionieri che dormivano all'aria aperta, trattati come animali bradi al· pascolo. Le persone e i loro beni erano considerati res degli occupanti. Gli Alleati disdegnarono di utilizzare gli uffici e le caserme delle Forze armate italiane, ma si installarono, requisendoli, in alberghi, edifici pubblici e abitazioni private. Facevano saltare lucchetti e serrature, sfondavano le porte e prendevano possesso degli appartamenti con tutto quanto essi contenevano: mobili, biancheria, suppellettili... I proprietari, cacciati in malo modo, non avevano nemmeno la possibilità di ritirare qualche indumento necessario. (Anche Gayre confessa nel suo « Journal » di essersi comportato cosi. Fece sfondare la porta di una rimessa, proprietà privata, per impossessarsi di una vettura Lancia subito requisita. E minacciò d'arresto il barone Ferrara, proprietario del palazzo Costantini di via Maqueda, vicino ai Quattro Canti di Palermo. il Ferrara, che si era visto requisire il palazzo, era colpevole di cercare di resistere al perentorio ordine di provvedere anche all'arredamento delle stanze vuote dell'edificio. E dire che Gayre era uno di quelli che sembravano trovare « simpatici » i siciliani.) Talvolta l'appartamento, semidistrutto dai vandalismi degli occupanti, veniva lasciato libero, con le porte spalancate, senza avvertire i legittimi proprietari. Gli ufficiali alleati avevano il diritto, o se lo prendevano, di requisire ciò che volevano. Niente sfuggi alla loro rapacità. Senza biglietto di requisizione, senza alcuna giustificazione legale o formale, entravano nelle case e ne cacciavano i proprietari. Poi quadri, argenterie, pellicce, mobili, quanto v'era di prezioso, prendevano il volo . La soldatesca, con alla testa la trista genfa dei sergenti, rubava o distruggeva quant'era rimasto. il grande piazzale della Villa Bellini, il giardind pubblico nel cuore di Catania, fu subito adibito a luogo di raccolta dei veicoli che a mano a mano venivano requisiti; il giardino, circondato di filo spinato, venne adibito a Rcst Camp per truppe di colore. Un intero quartiere di Catania attiguo al porto, la Civita, fu recintato da piazza dei Martiri a piazza San Placido. Un alto e largo reticolato tagliava in due, per lungo, la via Vittorio Emanuele. I.a. popolazione del

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quartiere, piu di diecimila abitanti, appena tomata a casa dopo le bombe, venne fatta sgomberare precipitosamente da una fulminea ordinanza del 21 agosto a fuma del tenente colonnello G. Wellesley, addetto agli Affari Civili. L'ordinanza concludeva ipocritamente: « L'autorità britannica non risponde di eventuali danni per merce lasciata nei magazzini o nelle abitazioni. » Come avrebbe potuto, la gente, portare in salvo masserizie, mobili e merci, quando, nel migliore dei casi, non ebbe nemmeno il tempo di chiudere dietro di sé la porta di casa? Il quartiere fu riservato all'alloggio della colorata folla al seguito dell'8a armata nelle cui file vi ei:ano: malgasci, nigeriani, indiani, congolesi... Molto tempo dopo, quando venne finalmente sgomberata, sulla Civita sembrava che fosse passato un tornado. Abbiamo visto che le installazioni universitarie erano state prontamente occupate, ma non sempre esse furono utilizzate per i loro scopi istituzionali, o finalizzati come accade per l'ospedale americano nelle cliniche della Feliciuzza. Nell'università di Catania, tutto il materiale dell'Istituto di mineralogia, diecine di migliaia di campioni, molti dei quali di raro valore scientifico e frutto di secoli di paziente lavoro di raccolta, vennero buttati via come roba trascurabile, ammonticchiati nel cortile dell'edificio universitario, pronti a essere gettati insieme alle macerie nella pubblica discarica. Ciò perché le sale contenenti le raccolte servivano per altri scopi; vedremo poi quali. Un funzionario dell'università riusci fortunosamente e a rischio della vita (un soldato gli puntò il fucile allo stomaco) a salvare la preziosa raccolta. Gli armadi raccoglitori fini. rono tutti in fumo, usati come legna da ardere. « Poi cannocchiali, microscopi, apparecchi elettrici e altro materiale scientifico furono rapinati. Simiglianti rapine furono ufficialmente consumate nei locali del fiorente Istituto industriale; dal quale furono poi asponati macchine e apparecchi costosissimi. »7

Il rettore dell'antica università di Catania, professore Condorelli, poi senatore della Repubblica, colpevole d'aver clamorosamente protestato per la devastazione del Sicurolum Gymnasium da parte della soldataglia, fu duramente malmenato. Venne costretto a spazzare via Etnea con due coraggiosi soldati « liberatori » che lo pungevano con le baionette. Poi venne caricato su un autocarro e scaraventato nella bolgia del campo di concentramento di Priolo. Invero la protesta dd rettore era ampiamente giustificata dall'uso indegno che le auto, rità britanniche fecero ddl'univérsità di Catania: Caffè open air con musica nell'ampio cortile del palazzo, l'Aula magna tramutata in sala di ballo; e poi: bar, ristoranti, sale da gioco e da divertimenti vari e ... bordello. 7

Cfr. G. ZINGAU, L'invasione della Sicilia, 194], Catania, 1962, p. 376.


(« Testimonianze inoppugnabili parlano dd ritrovamento, in occasione della pulizia, di numerosi presidt sanitari... I busti degli insignì scienziati sparsi nell'intercolumnio avranno arrossito di tanta vergogna. »)8 Lo stesso Gayre, nd suo prezioso diario, doveva confessare che fu « un peccato che l'università di Catania fosse stata adibita a ritrovo per militari, mentre sarebbe estremamente utile per il suo proprio scopo ... fortunatamente essa è tenuta molto bene, a di.ffo. renza dell'Università di Palermo che, sotto l'occupazione militare, tende a sfasciarsi ». E dire che il maggiore « sfasciatore » universitario era proprio lui: Gayre. Gli Alleati, poi, non tenevano in nessun conto i sentimenti della popolazione. Nelle strade principali delle città, negli edifici storici e sempre bene in vista agli occhi della popolazione, furono installate le Pro-stations dove i militari facevano la fila per la profilassi antivenerea. In un paese, scrive Gayre, un bordello militare fu installato in una casa accanto alla chiesa. Solo quando la protesta ddla gente sembrò sfociare in aperta rivolta il pos~bolo venne spostato altrove. La persecuzione contro i «fascisti», o presunti tali, rasentò il grottesco. Bastava semplicemente protestare contro una prepotenza, o un furto, per essere considerati « fascisti » e finite in calaboose: « Un giovane passa in bicicletta lungo la rotabile che rasenta il campo di Priolo. Un britannico lo ferma, chiedendogli la bicicletta; quegli resiste, ed allora viene ficcato dentro, perdendo cosi la bicicletta e la libertà ».9 Nei primi tempi avvennero arresti e internamenti barbari e assurdi. Non si trovava il ricercato e si arrestava un parente al suo posto. Quasi sempre gli internati erano persone che non avevano fatto nulla o nulla potevano fare di male contro l'occupante; senza contare gli ammalati cronici, i paralitici, le donne, i ragazzi, i vecchi ottantenni, come il generale della riserva Giannitrapani, colpevole di essere stato fiduciario di un qualche gruppo rionale fascista di Palermo, o i mutilati di una gamba, come il giovanissimo Gulisano di Centuripe, o di un braccio, come il futuro sindaco di Catania, Ignazio Marcoccio. Si sbatteva la gente in galera, al campo di concentramento o in Africa per precauzione, per persecuzione, per errore, per togliere loro qualche cosa: un appartamento, un quadro, mobili, gioielli, un oro· logio da polso ... o, come abbiamo visto, una bicicletta. Fra i « fascisti », come al solito, furono i soliti « stracci » a vo- · lare per aria: oscuri impiegati, umili operai che spesso erano stati fascisti per salvaguardare un modesto stipendio. g

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G. ZINGALI, ibiJ. G . ZINCALI, op. cit., p. 386.

ar.

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« .•. il prof. S., un medico di fama e di grande serietà, fu arrestato... gli inglesi dal berretto rosso andarono a scovarlo alla cassa mutua dov'era direttore, lo presero a calci davanti a tutti ... e se lo portarono via; ... ma poi si seppe che era stato denunciato da un suo collega per invidia ».10 Mentre chi aveva ricoperto importanti cariche fasciste non solo restava indisturbato, ma veniva premiato. Come accadde per il prof. Fortunato, direttore dell'Istituto di cultura fascista di Palermo (poi senatore comunista), per Giuseppe La Loggia e Franco Restivo nominati professori universitari dall'AMGOT, che fecero brillante carriera politica democristiana; il prof. Petroncelli, nominato rettore dell'università di Catania al posto dell'internato Condorelli, il prof. Albeggiani, provveditore agli studi di Palermo che però « era amico personale di Benedetto Croce» e ottimo collaboratore dell'AMGOT ... Persecuzione e farsa andavano a braccetto; a Nissoria mori un certo Scandurra e i familiari si vestirono di nero come d'uso. Furono immediatamente arrestati dagli MP perché ritenuti « fascisti ». (Nei primi giorni dell'invasione i paracadutisti americani fucilarono due contadini di Vittoria, padre e figlio di nome Curciullo, in « camicia nera» perché in lutto. Altri soldati americani, con la stessa accusa di «fascismo», fucilarono il podestà di Acate, Giuseppe Mangano, il figlio di quattordici anni e altre dodici persone.) A Leonforte, tale Spadafìna, aiutante del becchino comunale che si chiamava Battaglia, fini al campo di concentramento perché, interrogato dal CAO, rispose coerentemente: « Sono l'aiutante di Battaglia ». L'avvocato Gaetano Drago, poi deputato all'Assemblea regionale siciliana, appena nominato da Poletti commissario della camera agrumaria siciliana, fu arrestato dagli inglesi e portato al 3 71 PW Camp di Padula. Tempo dopo, quando venne liberato, Drago fu costretto dagli inglesi a firmare una dichiarazione con la quale si impegnava a non collaborare piu con gli americani. L'ex consigliere nazionale, professor Gaetano Zingali di Catania, emarginato da molti anni dalle file del partito fascista, verso il quale era stato in fiera polemica, fu epurato dagli inglesi dall'insegnamento universitario perché « non era stato antifascista, ma un cattivo e insoddisfatto membro del partito». Gli americani annullarono l'epurazione e ripristinarono Zingali nell'insegnamento, ma subito dopo gli inglesi non solo lo riepurarono, ma lo spedirono al campo di concentramento per un paio di annetti. La persecuzione politica, comune a tutte le categorie sociali, assumeva aspetti di sottile odiosità verso la parte piu rappresentativa della popolazione: professionisti, insegnanti, funzionari, pubblici am10

Cfr. M. OCCHIPINTI, Una donna di Ragusa, Milano, 1976, p. 68.


ministratori ... ; persone perbene, cittadini esemplari e stimati, gente incapace della benché minima azione dannosa o pericolosa, che avevano l'unico torto di avere servito onestamente il governo legale del paese. Prima di essere arrestati e deportati venivano umiliati e costretti a spazzare le strade con accompagnamento di pugni, pedate, colpi di calcio di fucile. Il pretore di Ramacca, un omino mite e dignitoso, si permise di esprimere il proprio dolore nel vedere il brutale comportamento di un Civil Affairs Officer che si faceva strada fra gli « indigeni » a colpi di frustino. Aveva cominciato con le parole: « Ma, tenente, non si può fare di tutta l'erba un fascio ... », che venne buttato a terra da una gragnuola di pugni e di calci, mentre l'indegno ufficiale gridava: « Fascio!? Y ou fascisti? ». Venne spedito a scavare inutili fossati. Anni dopo, tale Giovanni Consiglio, divenuto agente di PS, cosf raccontava la sua «cattura»: « Mi trovavo a passare davanti al Carcere Vecchio di Catania mentre un gruppo di prigionieri veniva fatto salire su un autocarro. Mi fermai a guardare la scena. Un soldato inglese mi afferrò e mi spinse verso i prigionieri. Cercai di resistere, di spiegare; gridai: "Almeno contateli, cosi potete vedete se sono uno di loro". Niente da fare: mi presero a legnate, Fu cosi che andai a finire nel campo di Priolo ... •

Il custode del macello di Ramacca fu deportato e un paio d'anni dopo liberato con la rituale frase britannica: « SM il Re non vi ritiene colpevole e pertanto siete libero. » Il povero uomo ripeté poi per tutta la vita che « Sua Maestà il Re » si era interessato della sua liberazione. Gli interrogatori erano condotti con feroce humour inglese. « Lei fiducciario? » chledeva un sergente a un inoffensivo, anziano professore di Belle Lettere. « Allora Mussolini avere "fiduccia", in Lei», continuava, implacabile, l'inglese senza dare il tempo di rispondere. E il disgraziato finiva nella stiva d'una nave in partenza per il Nord Africa. Verso i famigerati campi gestiti con ferocia dai neovincitori francesi. Molti finirono in carcere o in Africa senza sapere il perché. Per sentirsi poi dire, dopo un paio d'anni, « è stato un errore». Nei primi tempi furono arrestati o deportati i familiari al posto dei ricercati. Gli ammalati ricoverati in ospedale, anche quelli intrasportabili (ce n'era un buon numero all'ospedale Santa Marta di Catania), erano lo stesso agli arresti e sorvegliati da piantoni. Trovato morente dagli MP l'avvocato Motta di Catania spirò dopo alcuni giorni di agonia, sempre piantonato da MP e da carabinieri. Poteva capitare, come spesso avvenne, che l'arresto fosse dovuto a incomprensione linguistica. Un tale, professore di ginnasio, fu accu70


sato di mendacio perché nel suo libretto risultava scritto « Insegnamento superiore». Secondo l'ufficiale di Intelligence che interrogava, « superiore» stava per « universitario». Affermando d'essere professore di ginnasio il disgraziato s'era reso colpevole di « mendacio e inganno ». Il povero professore passò molti mesi in campo di concentramento, fino a quando « menti veramente e riconobbe di essere professore universitario. Solo cos{ fu liberato ». 11 Casi come questi avvennero a migliaia. Nel giugno 1944 avvennero nuove retate di «fascisti» a Catania; fra gli arrestati v'erano anche donne, come la professoressa Italia Profeta e la dottoressa Edvige Platania. Finirono tutti a Padula per essere liberati nel 1946. Non è mai stato possibile conoscere il numero delle persone arrestate con rito sommario, o di quelle internate o deportate. Furono tutte inglobate nel grande numero dei prigionieri di guerra. Anche perché quasi tutti i perseguitati mantennero un rigoroso riserbo sulle vicissitudini sofferte. Per paura di incorrere in altre persecuzioni e arresti del nuovo governo italiano, e per potersi inserire nel nuovo sistema politico (tanto che alcuni di loro, militando nelle file di partiti «democratici», divennero deputati). Spesso le denunzie all'occupante erano fatte da delatori e confidenti, già al servizio della polizia fascista, che s'erano messi subito a disposizione dei nuovi padroni, o da chi sperava di sostituire nell'incarico la persona fatta arrestare o epurare. Nelle università di Palermo e <li Messina, com'era già avvenuto a Catania, gli alleati epurarono i rettori dell'università e ne nominarono altri di loro gradimento. A Messina, il nuovo rettore fu il professor Gaetano Martino, divenuto poi ministro della Repubblica. Martino era molto apprezzato da Gayre e fors'anche dal Secret Service inglese. A Messina 36 professori, di cui sedici titolari di cattedra, furono sospesi ed epurati. A Palermo, cacciato via il rettore Leotta, perché prima dello sbarco « aveva pronunziato discorsi contro la Gran Bretagna», come nuovo rettore venne nominato il professor Baviera. Anche a Pakrmo 35 professori, di cui 9 titolari di cattedra, furono epurati. (Per la verità tanto Baviera quanto il rettore di Catania, Petroncelli, si prodigarono, senza successo, per salvare dall'epurazione i loro colleghi.) A dirigere le epurazioni e le nuove nomine dei professori era il colonnello G.R. Gayre, un professore universitario inglese nominato Educational Adviser dell' AMGOT, una specie di ministro della Pubblica istruzione, ma con poteri discrezionali. Gayre era professore di antropologia e « fisicamente ricordava una mummia egiziana ed era quindi in carattere con la sua materia ».U 11 Cfr. G. u C[r. G.

ZINGALI, ZINGALI,

op. cit., p . 389. op. cit.

7I


Malgrado l'aspetto cosi poco attraente, Gayre, in Sicilia, riscosse ammirazione e gentilezze da parte di un gruppetto di signore interessate. I nomi di queste persone, assieme a numerosissimi altri, sono indicati dallo stesso Gayre nel suo « Journal » apparso a Londra nel dopoguerra. Tale diario, pubblicato col titolo Italy in transition, ebbe un formidabile successo di vendita. Le copie giunte in Italia sparirono immediatamente dalla circolazione. Anche quelle circolanti in Inghilterra si esaurirono di colpo. Furono incettate in blocco. (Gayre aveva «operato» non solo in Sicilia, ma anche nell'Italia meridionale. Nominando fasulli professori AM anche presso le università di Napoli e di Bari.) Moltissime persone erano ricordate nel libro, spesso con giudizi poco lusinghieri. Certo è che parecchia gente s'era rivolta al colonnello-professore per ottenere concessioni, incarichi e per soddisfare vendette personali. Gayre, scrivendo a un redattore del settimanale « Tribuna del Sud» di Messina, che aveva pubblicato uno stralcio dell'opera, dichiarò di non meravigliarsi « che non circolassero copie » del suo libro. Aggiungendo: « Può darsi che alcune cose che ho scritto siano imbarazzanti per certa gente (certain people) che ha cambiato le sue vedute o la cui presente condotta non è coerente con le precedenti manifestazioni del tempo in cui ero consigliere dell'AMGOT all'Istruzione». Gayre fece cassare dai libri di testo tutte le frasi « fasciste » o nazionaliste, e aboli tre materie universitarie: diritto corporativo, · storia e dottrina del fascismo-e cultura militare; altre materie furono cosi modificate: « economia ·politica corporativa » in « economia politica »; « demografia generale >> e « demografia comparata delle razze » in « etnologia »; « legislazione del lavoro» in « diritto del lavoro »; « diritto corporativo e diritto del lavoro» in « diritto del lavoro » (idem), « diritto coloniale» in « diritto coloniale comparato »; « principi di economia generale corporativa statistica » in « principi di economia politica e statistica »; « biologia delle razze umane » in « biologia umana »; « diritto costituzionale italiano » in « diritto pubblico comparato». A Palermo, con opera meritevole, diede vita alle cattedre di lingua albanese e di psicologia e antropologia sociale, e creò un istituto di antropologia nei locali del Museo Pitré alla Favorita. Anche a Messina fece sorgere nella facoltà di lettere e filosofia una cattedra di greco e due nuove cattedre nella facoltà di medicina. Grande pubblicità venne data alla distruzione del « Diario Balilla » (un diario scolastico tipo quello di Vitt o di Paperino oggi in uso, ma in chiave retorico-nazionalista). Infine Gayre epurò e sostitui i provveditori agli studi (tranne il buon amico Albeggiani), molti presidi e professori, fece falò di un buon numero di libri di testo facendo approntare

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altri manuali scolastici che furono affrettatamente preparati con testi discutibili, stampa atroce e con difficoltà indicibili a causa della mancanza di carta. In omaggio alla riacquistata libertà, gli insegnanti « dovevano essere vagliati preventivamente dal punto di vista politico [in parole povere: censurati] e fu a Palermo che venne ideata la scheda personale per separare i pochi buoni dalla maggioranza dei fascisti » .U Charles Paletti, chissà perché, aveva abolito la scuola media; Gayre, da parte sua, si diede a proteggere la scuola religiosa, ritenuta « perseguitata dal fascismo », perché « obbligata a seguire i programmi ministeriali di studio ... e costretta a esporre nelle aule i ritratti del re e di Mussolini accanto al crocifisso». Fu cosi che la scuola confessionale in Sicilia si guadagnò un sacco di privilegi e Gayre, sebbene di fede anglicana, la simpatia degli ambienti cattolici. Tanto che monsignor Ballo, vescovo di Mazara del Vallo, scrisse a Gayre una lettera osannante. In tale lettera il vescovo, dimenticando le larghissime, forse eccessive, concessioni « fasciste » dei Patti Lateranensi, affermava: « La libertà concessa alla Chiesa nel campo scolastico dal governo alleato appaga finalmente le ansiose aspettative di molti e molti anni d 'innaturali coercizioni dei cattolici e perciò ne sono sommamente lieto e immensamente grato». Le scuole dell'isola furono riaperte, con immense difficoltà, il 1° dicembre 1943. Mancavano le aule e nacquero cosi i doppi, tripli turni scolastici giornalieri che sopravvivono fino ai giorni nostri. Il 4 novembre l'università di Catania inaugurò il suo 510° anno accademico (lo Studium Generale fu voluto da Alfonso di Aragona nel 1434). Per l'occasione vennero sospesi per alcune ore i trattenimenti danzanti e i drinks dell'Aula Magna. Il rettore magnifico Petroncelli, alla presenza del ten. col. T .V. Smith, professore della Chicago University, tenne una cauta prolusione. A Palermo la cerimonia ebbe luogo il 5 dicembre. Il giorno prima, all'interno dell'unive1sità, la polizia militare segreta aveva arrestato uno studente « fascista ». Alla cerimonia erano presenti « il cardinale Lavitrano e le phi alte autorità alleate e locali ». Il magnifico rettore Baviera, ammantato d'ermellino e con una grossa catena dorata al collo, « dopo aver premesso che oggi non si inaugura solo l'anno accademico, ma ha inizio la nuova era spirituale dell'ateneo, ha additato alla gratitudine della città i generali Patton, Rennell of Rodd e McSberry, i colonnelli Poletti, Gayre e Smith, e i maggiori Raffa e Bizzozero, ai quali il senato accademico ha deliberato di concedere la laurea ad honorem ».14 Ebbero tutti lauree in scienze politiche, tranne Bizzozero che ebbe quella, meritata, in medicina e chirurgia. 13 14

Cfr. « Rass. att. gov. milit. i>, op. cit. Cfr. « Sicilia Liberata» del 6 dicembre 1943.

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La decisione del senato accademico piombò inaspettata sui moltissimi presenti provocando un silenzio imbarazzante. Era la prima volta nella storia dell'ateneo palermitano, come delle altre università dell'isola, che venivano concesse lauree ad honorem. Prima di allora tali riconoscimenti erano stati dati alla « memoria » e solo a studenti caduti in guerra. Per minimizzare la cosa si disse, dopo, che la storia delle lauree era avvenuta dietro una precisa richiesta delle autorità alleate e anche per risolvere il problema del rientro in Sicilia del prof. Giovanni Musotto, poi deputato socialista, figlio del neo prefetto di Palermo. (Il prof. Musotto allora si trovava in Sardegna e gli Alleati negavano il suo rientro in Sicilia a causa dei suoi trascorsi fascisti. In piu, il prof. Giovanni Musotto, oltre a esser stato fascista, era un conoscitore profondo del codice penale germanico, studio chiaramente ... fuori moda dopo quanto era accaduto.) Malgrado tutte queste cose, in seno al senato accademico v'era stata baruffa; due professori di sinistra s'erano strenuamente opposti alla concessione delle lauree. Si erano arresi dopo pressioni durissime e minacce formulate dal comando alleato. In mezzo agli altri diplomi di laurea ne era « scappato » anche uno per il « disinteressato» Gayre, e un altro per il cardinale Lavitrano, che aveva visto ripagata la subitanea simpatia dimostrata per gli americani fin dal giorno del loro ingresso a Palermo. Il cardinale Lavitrano « a little man with a shrewd and intelligent /ace» (un ometto dal viso furbo e intelligente) era stato costantemente informato già prima dello sbarco alleato dell'attività politica dei cattolici e del movimento d'opinione antifascista, da parte di Aldisio, Mattarella e Alessi, e altri esponenti « popolari» . Altre notizie, riguardo alle intenzioni alleate, riceveva dal Vaticano e dal vescovo di Monreale, Ernesto Filippi. Quest'ultimo era collegato con i servizi segreti alleati ed era « uomo inteso » della potente mafia di Monreale. Vedremo meglio la torbida attività di · questo singolare uomo di chiesa nelle vicende delle cosche mafiose e della banda Giuliano. Alla vigilia dell'occupazione americana di Palermo, Lavitrano aveva fatto esporre una grande bandiera biancogialla con la Tiara, quella vaticana, dal balcone del convento di San Vincenzo alla Noce dove aveva preso alloggio. Era la prima, trionfale presa di posizione del clero per la riconquista del potere politico perduto nel 1870. Che i rapporti fra la Chiesa siciliana e gli anglo-americani fossero eccellenti, a parte i buoni rapporti personali già instaurati con i vari vescovi dell'isola, venne confermato dallo stesso generale Pat· ton : « A Palermo abbiamo stabilito eccellenti rapporti con Sua Eminenza il cardinale, per tramite di Lui, con la Chiesa». Anche la laurea al cardinale Lavitrano aveva provocato accese

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discussioni in seno al Senato accademico e un professore anticlericale s'era messo a urlare: « Al diavolo il cardinale! Al diavolo anche il papa! ». Ma poi discussioni e proteste furono messe a tacere. Infine l'ultima cerimonia d'inaugurazione dell'anno accademico avvenne all'università di Messina il 2 gennaio 1944. Il nuovo rettore, prof. Gaetano Martino, si dovette accontentare, in mancanza di generali, di distribuire le lauree al colonnello Story, medicina, ai maggiori Deutsch, medicina, Washburne pedagogia, e Sherwood, lettere, e al capitano Pino, medicina. Mentre il solito Gayre si vedeva infliggere una seconda laurea, stavolta in filosofia. La folla indignata degli studenti accompagnò il servile show accademico con un tuonare di assordanti bordate di fischi e sberleffi. Gayre non poté leggere il suo discorso. Quello del rettore, Martino, venne poi dato per letto e pubblicato sull'annuario. Il fischiatissimo rettore Martino sospese gli esami e fece chiudere precipitosamente l'università. Poi, con un ultimo sussulto di dignità, accennò a una suo dimissione dal rettorato. Ma Gayre lo convinse facilmente a rimanere in carica. « In questa scena selvaggia Martino si comportò con grande dignità e sebbene egli volesse rassegnare le dimissioni io rifiutai di accettar1e. » La colpa della protesta fu data a un gruppo di « mascalzoni e di anarchici ». Dopo la pietosa cerimonia, finita a fischi e pernacchie, Martino, Gayre e gli altri ufficiali neo-laureati andarono a rinfrescarsi e a festeggiare l'avvenimento in un ristorante. Nei primissimi giorni dell'invasione, gli Alleati ebbero due giornali militari: l'americano « Stars and Stripes » e l'inglese « Eighth Aimy » stampato presso la Società Tipografica di Siracusa che aveva anche una pagina scritta in pessimo italiano chiamata « Corriere di Siracusa» (fra i redattori v'era il giovane Pasquale Bandiera, poi deputato repubblicano). A Ragusa il giornale del governo militare fu « La Voce di Ragusa » diretto da F.L. Belgiorno, seguito, a settembre, dal trisettimanale « La Gazzetta» dell'ACC. A Palermo furono soppressi «L'Ora» e il « Giornale di Sicilia». Sotto il controllo del P.W.B. alleato apparve il nuovo quotidiano « Sicilia Liberata » che veniva stampato in via Stabile. . A Catania il giornale del PWB fu « Il Corriere di Sicilia » che utilizzava gli impianti tipografici del soppresso « Popolo di Sicilia » fascista. (Gli impianti tipografici dell'ex giornale fascista, in seguito a oscure manovre mai chiarite, finirono nelle mani di privati.) A Messina il giornale del PWB fu il « Notiziario di Messina ».15 A Caltanissetta il giornale « Sicilia Centro » usd il 1° agosto ed era curato da G. Bianca e E.N. Colajanni. Il 23 agosto cambiò 15 Cfr. l'interessante libro 1A stampa periodica e le correnti politiche di Messina Dalla caduta del f asdsmo al Referendum di Gabriella Fiorentino, Messina, 1978.

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testata in « Il Centro » e si avvalse della collaborazione di Calogero Natale, A. Desti, Michele Giordano, Carlo lngrasci, Mario Farinella e altri. Il giorno dopo l'armistizio, con sconcertante tempestività, usci « L'Unità », settimanale cattolico che aveva come collaboratori B. Mattarella, S. Aldisio, Giuseppe Alessi e altri. Il 7 agosto 1943 erano riprese le trasmissioni di Radio Palermo, autodefinitasi « Avamposto dell'Italia Libera». L'emittente operava dalle ore 20 alle 24, su una lunghezza d'onda di metri 491 ,8 pari a chilocicli 610. Giornali e radio erano sotto il controllo di censura del Censorship Branch (lnc. AFHQ). Con il totale controllo della stampa e della radio il PWB si sforzava di minimizzare la gravissima mancanza di generi alimentari che aveva ormai superato anche le peggiori previsioni. Nel suo primo numero del 6 agosto 1943, il quotidiano palermitano« Sicilia Liberata», che edito dall'ufficio propaganda di guerra si definiva « giornale libero», sprizzava ottimismo da tutte le sue righe. Riportava che« l'annoso problema alimentare, in via di soluzione, sarà tra poco un ricordo, un brutto ricordo del passato... ». Lo stesso giornale due settimane dopo, il 19 agosto, doveva poi confessare: « E inutile nascondere il sole con la rete. La verità è che l'alimentazione è veramente grave. Non c'è regolare distribuzione di pane, non c'è pasta, non ci sono altri generi razionati. Il mercato nero, bestia tentacolare che risucchia i poveri risparmi degli impiegati a stipendio fisso e degli operai, prospera a dismisura, questa è la verità ». In quel momento i salari fissati dall'AMGOT erano: L. 1.200 mensili, per 25 giornate di otto ore per manovali, L. 1.800 per operai qualificati, L. 2.000 per gli operai specializzati. Uguali o quasi erano gli stipendi degli impiegati. Come dire che la paga giornaliera di un· operaio bastava appena per comprare un chilo di pane al mercato nero, che costava 40-50 lire al chilo. Il fenomeno del mercato nero, già prospero prima dell'invasione, assunse dimensioni gigantesche. Poiché mancava tutto, tutto divenne oggetto di commercio poco ortodosso. Era una vis cui resisti non potesi. La gente era costretta a ricorrere al mercato nero perchç non veniva distribuito nessun genere razionato. Per comprare al mercato nero bisognava attingere dai magri risparmi, o vendere oggetti preziosi o cari, o commettere furti e altri reati, o, per le donne, prostituirsi. Teoricamente la tessera del razionamento avrebbe dovuto assicurare al suo possessore 1200 calorie al giorno, in pratica ne dava 500 o 600, mentre per assicurare la sopravvivenza a un individuo ne occorrono almeno 2.000 giornaliere. Non rimaneva altra soluzione che ricorrere a sistemi di fortuna e i prezzi toccarono vertici irraggiungibili per la massa della popolazione. Facevano eccezione i prezzi d'affitto delle case, bloccati a livelli pre-bellici da una legge fascista riconfermata dall' AMGOT.

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In quel periodo le case si svuotarono di mobili, della biancheria, delle suppellettili, di oggetti svenduti per acquistare cibo. La rarefazione, la scomparsa di derrate e mercanzie, fu cosi acuta da provocare la paralisi di tutti i settori economici. La maggior parte dei negozi aveva scaffali e vetrine vuoti, qualche bottega metteva in mostra mandorle, nocciole, fichidindia secchi (un piomboso impasto composto in massima parte da semi indigeribili). Strani liquori, frutto di alchimie improvvisate, furono inventati per spegnere l'implacabile arsura che divorava perennemente i soldati alleati. Non c'era isolano che non indossasse almeno un capo di provenienza militare e la gente assunse l'aspetto di una zingaresca armata brancaleone. Nei mercati folle cenciose si scambiavano miserabili merci: fiammiferi fatti in casa, lampadine dai fili staccati e pazientemente rimessi a posto, filo per cucire ricavato dalla sfilacciatura degli stracci, scarpe vecchie riparate alla bell'e meglio, dolcificanti ottenuti dallo sciroppo di fichi e di carrube ( un tale di Siracusa mise sul mercato un prodotto che andò a ruba: il Kamiel, ottenuto appunto dalle carrube), coperte di casermaggio che sarti affamati riuscivano a trasformare in preziosi capi di vestiario. Erbaggi, lupini, castagne, fichidindia, arance, formavano l'alimentazione di tante persone. Qualsiasi cosa serviva per panificare. Per fare pane e pasta venne utilizzata farina di ogni tipo: avena, orzo, miglio, e quella ottenuta dai legumi secchi: fave, ceci, fagioli, lenticchie. La mancanza di tutto fece agu22are l'ingegno della gente: si ottenne il sapone dalla cenere, lastre di vetro con procedimenti rudimentali, bicchieri con il taglio di vecchie bottiglie, filati e tessuti di cotone e di lana con telai improvvisati, attrezzi e utensili con rottami. Con attrezzature primordiali furono realizzati prodotti che, altrove e in altri tempi, avrebbero avuto bisogno di apparecchi sofisticati per essere fatti. L'unico mezzo di trasporto possibile era quello trainato dagli animali; le città si riempirono di carri e carretti; in alcune località furono rimesse in uso le antiche «periodiche», vere diligenze tirate da cavalli o muli, gli arricchiti con il mercato nero sfoggiavano carrozzini e « scappacavalli » tirati da giumente di razza. I mozziconi di sigarette, allora non esistevano ancora quelle con il filtro, raggiunsero ineguagliabili valori di mercato. Valeva la pena di pedinare pazientemente i soldati americani per impossessarsi dei lunghi mozziconi buttati via con noncuranza. I rivenditori di tabacco « riciclato » pesavano la loro « pregiata » merce su ingegnose bilance di precisione ricavate da scatolette da ·tucido per scarpe. Mentre rettangolini di carta velina, o foglietti di calendario, erano le indispensabili cartine per fabbricare sottili e approssimativi « spi77


nelli ». Tanti fumavano personali miscugli ottenuti con foglie secche. A Catania un geniale, quanto disonesto, commerciante fece fortuna rivendendo a grammi una grossa partita di polvere di tabacco comprata per uso agricolo. La polvere, mescolata a stallatico ben secco, deliziò i bronchi di irriducibili fumatori. L'unica merce che abbondava sul mercato erano i profilattici di gomma reclamizzati al grido di « Paracadute d'America»! L'apparizione degli MP provocava il temporaneo sbandamento dei mercanti straccioni. Al grido « La pula! » (la polizia) i gruppi si scioglievano per ricostituirsi subito dopo lo scampato pericolo. Buona parte del mercato nero era alimentato dalle truppe di occupazione che si procuravano cosi i soldi per i loro acquisti e per le spese voluttuarie: alcool e donne. I militari vendevano ai civili sigarette, razioni militari, pneumatici, benzina, coperte, scarpe, indumenti. Spesso, dopo aver effe.ttuato l'acquisto, il malcapitato civile si vedeva fermato da altri soldati che gli sequestravano tutto perché si trattava di « merci alleate ». Quasi sempre erano gli austeri e compassati poliziotti, gli MP, che procedevano alla confisca. Cosi la merce veniva venduta di nuovo ad altri ignari acquirenti da rapinare. Gli orologi esercitavano uno straordinario fascino sui soldati inglesi che riuscivano sempre a farseli consegnare dalla gente, con le buone o le cattive maniere. A mano a mano che le truppe alleate risalivano la penisola, carovane di gente spregiudicata e avventurosa le seguivano alla ricerca di merce da «commerciare>~. Molti borsaneristi erano reduci fortunosamente rientrati dai vari fronti di guerra, gente incensurata che cercava una qualsiasi fonte di guadagno e di sopravvivenza e << che non si rassegnava alle azioni di repressione del piccolo intrallazzo effettuate dalla polizia che lasciava invece svolgere sotto il proprio naso il grande contrabbando della mafia e dei gangsters ».16 Viaggiare in quel tempo era una pericolosissima avventura. L'unica possibilità di trasporto era data dai facilmente corruttibili autisti militari. Si passava in barca lo Stretto di Messina. Tariffa, solo andata, da lire 500 in su, secondo i casi e con il pericolo di venire bloccati e arrestati dalle motovedette alleate. Le merci piu ricercate dagli avventurosi viaggiatori erano: medicinali, chinino, insulinici, cardiofrenici, sulfamidici ecc., filo per cucite, chiodi, fiammiferi, colla, cuoio e pelli, zucchero, stoffe, lampadine elettriche... tutto. La maggioranza della popolazione viveva alla giornata, rovinata dalla fulminea inflazione, dalle quasi inesistenti possibilità di lavoro e dalla mancanza di merci e di produzione. Con esclusione dei borsaneristi e dei protetti dai vincitori. 16

Cfr. M.

PANTALEONE,

Mafia e politica, Torino, 1962.


Prest~ cominciò l'inarrestabile ascesa di stipendi e salari, fenomeno inutile perché non faceva che seguire, senza mai poterlo raggiungere, il prezzo delle pochissime merci disponibili. « I prezzi avevano raggiunto livelli insopportabili. La stessa "democrazia" sta diventando una presa in giro avendo dato meno di quanto avesse dato il fascismo. C'era un modo di dire corrente a Palermo : "Quando dicevamo buon giorno avevamo il pane ogni giorno, oggi che diciamo gudbai non l'abbiamo mai". »17 Le poche mercanzie sfuggite alla guerra, alle requisizioni e alle razzie erano in mano dei vincitori e degli intrallazzisti... l'unica possibilità di sopravvivenza per « gli affamati fu il commercio nero consentito dagli occupanti ai grandi speculatori annidati nell'AMGOT... ma ostacolato con ogni mezzo ai piccoli mercanti... non sempre l'odissea dei portatori di grano si concludeva felicemente. Spesso i carabinieri fermavano con i moschetti spianati i commercianti straccioni. C'era chi si rassegnava a lasciare che il prezioso carico fosse sequestrato, ma la maggior parte opponeva una rabbiosa e disperata resistenza ».18 Per il sequestro di un sacco di grano un ragazzotto di Montelepre di nome Salvatore Giuliano divenne un terribile bandito che per sette anni tenne in scacco lo Stato e le sue forze . « Speculazione, traffici, delitti s'intrecciarono alle spalle di vasti strati della popolazione che resistevano alle lusinghe della corruttela intristendo nella assoluta miseria ».19 La Sicilia fu l'unica regione d'Italia che trattò con freddezza e ostilità lo straniero, tanto tedesco che anglo-americano, e che rifiutò in blocco ogni forma di collaborazione militare con gli Alleati, prima e dopo l'armistizio badogliano. Le eccezioni furono dovute a elementi mafiosi e a coloro che miravano a ingraziarsi i nuovi padroni. Ma la massa, la stragrande maggioranza del popolo, non volle aver niente a che fare con nessuno. Soffri e fece la fame con dignitoso silenzio. È vero che in molte località, specialmente nella Sicilia occidentale, ci furono manifestazioni di gioia, sarebbe piu appropriato dire di sollievo, all'arrivo delle colonne alleate. Ma i temporanei applausi di piccoli gruppi di persone erano diretti, piu che all'invasore, a ciò che il suo arrivo significava per una popolazione sfinita dai pericoli e dalle sofferenze: fine del terrore delle bombe e, cosi come era stato promesso dagli Alleati per radio e con volantini lanciati dagli aerei, fine della fame. Avrebbero battuto le mani anche ai marziani pur di togliersi di dosso l'annoso, atroce peso d'una guerra ormai inequivocabilmente perduta. Subito dopo la popolazione, nella 17

Cfr. GAYRE, op. cit., pp. 97-98. 18 Cfc. SANSONE e INGRAscf, Sei anni di banditismo in Sicilia, Milano,

19.50, p.

,2.

19 Cfr. SANSONE e INGRAscf, ibid.

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sua generalità, si isolò e non volle e non ebbe contatti con l'occupante. Inoltre la popolazione immiserita, con generoso slancio, diede protezione e rifugio a moltissimi soldati sbandati o disertori. Anche alcune centinaia di soldati germanici, disertori o tagliati fuori nel corso della ritirata, trovarono nell'isola sicura ospitalità sino alla fine della guerra. I casi di collaborazione e di amicizia con gli Alleati furono limitati a certi ambienti aristocratici e alto borghese, specialmente a Palermo, fra i politici piu o meno mafiosi20 e nel sottobosco delle città dove prostitute, ruffiani e intrallazzisti mantenevano rapporti d 'affari con i soldati. Per il resto vi fu un netto distacco fra la popolazione e le truppe straniere. La criminalità crebbe in maniera impressionante. Banditi e disertori infestavano le campagne, ladri e rapinatori i centri abitati. Il brigantaggio, triste retaggio dei tempi dimenticati, ricomparve in tutta l'isola. La vecchia mafia, quella del feudo, riassunse la sua antica funzione di guardia armata. Essa era « ancora disorganizzata, ma rispettatissima e temuta, taglieggiando, ricattando, dando protezione per i suoi insani scopi ai briganti, in perpetuo compromesso fra l'acquiescenza dei pavidi e la collusione coi potenti ».21 Poliziotti e carabinieri, demoralizzati e insufficienti di numero, erano sfruttati e maltrattati dagli Alleati. Spesso venivano aggrediti e impediti nel loro servizio dagli stessi soldati anglo-americani. Molti anni dopo il generale dei carabinieri Paolantonio doveva tristemente ammettere davanti alla Commissione Antimafia: « ... i carabinieri accorrono, la polizia recupera la refurtiva, ma arrivano gli americani, bastonano i carabinieri e fanno restituire la refurtiva ai ladri, perché a molti americani i ladri servono. Molte case a Palermo le hanno svaligiate anche loro ... ».72 Gli Alleati utilizzavano carabinieri e polizia nelle impopolari e vessatorie repressioni annonarie e nelle persecuzioni politiche. Reparti speciali di carabinieri in divisa inglese si resero particolarmente invisi alla popolazione della Sicilia orientale. 20 « Perciò gli Alleati, che avevano interesse a mantenere la Sicilia tranquilla mentre la guerra procedeva sul continente, rimisero al potere una categoria di uomini politici che derivavano dal passato pre-fascista e, una volta fatto, non ci fu modo di tornare indietro, perché essi fecero presto a trincerarsi efficacemente. Il quasi analiabeta Vizzini e i suoi soci richiamarono in vita tutte le vecchie pratiche di clientdaggio, banditismo, terrorismo e omertà per crearsi un immenso potere.» Cfr. D. MACK SMITII, Storia della Sicilia medievale e moderna, voi. III, Bari, 1973, p. 719. 21 Cfr. S. DI MATTEO, op. cit., p. 137. 22 Cfr. Testo delle dichiar111.ioni del generale dei carabinieri in congedo, doti. Giacinto Paolantonio, all. 22, C.Ommissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia, doc. XXIII, n. 2 sexies.

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Di sera le strade erano deserte. Si scorgevano solo militari ubria« segnorine » e ladri. Anche se in Sicilia non avvenne un totale tracollo della pubblica morale come a Napoli o come a Saigon durante la guerra del Viet-Nam, la prostituzione improvvisata e temporanea aumentò di colpo. Molte disgraziate i cui uomini erano prigionieri o comunque lontani da casa per le vicende della guerra, dovendo scegliere tra la fame e vendere i loro corpi, fecero la pur ignobile scelta della prostituzione che assicurava almeno la sopravvivenza. « Alle donne che protestavano per il mancato pagamento dei sussidi per le famiglie dei militari il segretario comunale di Ragusa gridò: "Andate a fare le puttane con gli americani" ... a questa offesa ci rivoltammo e una lo afferrò per le. parti delicate » .13 Un discorso a parte meriterebbero i rapporti allacciati tra ufficiali alleati e donne dell'aristocrazia e dell'alta borghesia. Rapporti che si concretavano in sostanziosi favori e concessioni per la parentela delle generose donne. La visita celtica era d 1obbligo per tutte le donne che frequentavano militari alleati. Perfino alcune signore e signorine che accettarono inviti alle feste da ballo organizzate nei circoli militari angloamericani, furono sottoposte all'umiliante visita sotto gli occhi cli mariti e genitori. Quando poi, nel novembre 1943, venne trasferita in Sicilia la divisione « Sabaudia », si formarono incivili bande di soldati e cli giovinastri autonominatisi tutori della pubblica morale: questi teppisti si ersero, infatti, a giudici « rapando a zero » le disgraziate donne che « frequentavano » i militari alleati. Il 3 settembre 1943, sotto una tenda tra gli ulivi e i carrubi cli un campo di Cassibile, un paesino in provincia di Siracusa, il generale Castellano firmò per conto del governo Badòglio l'armistizio « corto ». Le clausole dell'armistizio sarebbero dovute restare segrete per piu di due anni onde evitare reazioni da parte dell'opinione pubblica italiana.24 « Uno sporco affare » fu il commento del generale Eisenhower che riteneva che dovessero passare non meno di dieci anni prima della pubblicazione. Lo stesso giorno l'8a armata sbarcava sulla costa calabra. Il giorno prima, in località Quarto Mulino di San Giuseppe Jato, Salvatore Giuliano aveva « fatto fuori » il suo primo uomo, il carabiniere Mancino.

chi,

23

Cfr. M.

OccmPINTI, op. cit., p. 69. L'armistizio « lungo » venne firmato poi da Badoglio il 29 settembre nel quadrato della corazzata Nelson , ancorata nel porto di Malta. Le clausole di tale 1ocumento condizionavano ogni sviluppo politico, sociale ed economico dell'Italia nel dopoguerra. Dopo la firma dell'armistizio Badoglio si mise a impartite consigli strategici ai generali alleati, ma venne messo a tacere in ma1o modo con un'umiliante interruzione: « Siamo sicuri che tutto quello che Lei dice è sbagliato » gli disse il generale Alexander. 24

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V. IL MOVIMENTO INDIPENDENTISTA SICILIANO (M.I.S.} -

Qual è il principale dritto e bisogno dei

Siciliani? -

-

L'Indipendenza. Che intendete per Indipendenza? Che la Sicilia si governi. da sé, senza dipendere da Principi o Nazioni stra·

niere. (Dal Catechismo politico siciliano, attribuito a Nicolò Palmieri da Termini, membro dd Parlamento in Palermo, negli anni 1812, 1813, 1814, vittima dd colera del 1837.)

Il 23 luglio 1943, il giorno dopo la pacifica occupazione di Palermo da parte della truppe americane, esplose nella capitale dell'isola un fatto politico d'eccezionale importanza per la sopravvivenza stessa dello Stato unitario italiano, ferito mortalmente dalla disfatta militare e dalla crisi politica. Quel giorno Andrea Finocchiaro Aprile insediò il Comitato di Coordinamento del Movimento Indipendentista Siciliano, in via Cerda, nei locali del giornale « L'Ora » di proprietà del commendator Lo Verde. Alla riunione presero parte alcuni deputati pre-fascisti, frettolosamente reclutati dai servizi segreti alleati e dall'infaticabile Charles Paletti: Aldisio, Guarino Amelia, Termini, La Rosa, La Loggia, Vacirca ... e altre note personalità, influenti per censo e per titoli. A chiusura dell'incontro fu deciso d'inviare un memorandum al comandante delle forze alleate, generale Alexander. I democristiani presenti alla riunione, pur approvando il documento, non vollero firmarlo. Tale memorandum vide la luce alcuni giorni dopo, il 28 luglio, quando venne trasmesso sotto forma di proclama politico alla popolazione siciliana a mezzo di manifesti e volantini. Esso fu poi diffuso anche all'estero: i servizi segreti alleati e il PWB (Psychological Warfare Branch } si premurarono di diffondere il testo della risoluzione indipendentista alle agenzie d'informazioni dei paesi neutrali europei: a Zurigo, Lisbona e Stoccolma. I giornali svizzeri « Der Bund » e « Neue Ziircher Zeitung » dedicarono alla notizia lunghe corrispondenze e illustrarono il manifesto separatista e la figura di Finocchiaro Aprile. Il documento, dopo un lungo preambolo storico e dopo aver elencato le colpe della monarchia sabauda, dello Stato unitario liberale prima e fascista dopo, nei confronti della Sicilia, affermava che


il popolo siciliano era maturo « per nuovi e piu alti destini e anelava alla sua libertà e alla sua indipendenza». A conclusione si chiedeva la costituzione di un governo provvisorio siciliano al fine di predisporre e attuare un plebiscito perché si dichiari decaduta in Sicilia la monarchia sabauda nelle persone di Vittorio Emanuele III e suoi successori e la Sicilia sia eretta a Stato sovrano indipendente a regime repubblicano»; sempre a Palermo il giorno dopo la riunione separatista dei quaranta notabili, apparve un manifesto delle sinistre, d'ispirazione comunista: « Fronte Unico della Libertà» che auspicava una « Repubblica Federativa Siciliana». A voler esaminare attentamente l'episodio con il senno del poi, il primo atto ufficiale degli esponenti indipendentisti fu un clamoroso errore. Il movimento separatista apri il gioco con un « gambetto siciliano» che risultò essere una mossa sbagliata. Invece di proclamare apertamente l'indipendenza dell'isola e di costituirsi immediatamente in governo provvisorio i Quaranta si appellavano agli Alleati per « ottenere il permesso )> di chiedere queste cose. Con un futuro plebiscito che, secondo una concezione molto ingenua della politica, avrebbe dovuto rappresentare la giusta risposta all'« inganno italiano » perpetrato contro la Sicilia con il plebiscito annessionista del 18601 Era piu d'un mese che Finocchiaro Aprile e i suoi amici accumulavano errori. 1112 giugno 1943 v'era stato un « Appello ai siciliani». Il documento era vago, anche se d'opposizione al fascismo e al nazismo. Non parlava di indipendenza della Sicilia e terminava con un breve cenno d'incitamento alla resistenza « passiva )>. Invece quello era proprio il momento di creare una vera e propria organiz. zazione clandestina di governo, con 'diramazioni, se non in tutta l'isola, almeno nelle città principali. In quei giorni, esponenti comunisti e socialisti avevano proposto a Finocchiaro Aprile e agli altri indipendentisti un progetto d'insurrezione armata. Anche se irrealizzabile sul piano pratico, il progetto era da discutere e approfondire sul piano politico. Ma le sinistre ebbero un preciso rifiuto lasciato cadere con aria di sufficienza. Fu risposto che « tutto si sarebbe svolto con facilità e senza alcun altro intervento». 1110 luglio venne fuori un altro proclama, verboso quanto inutile, mentre invece esso avrebbe dovuto proclamare l'indipendenza dell'isola. Pochi giorni dopo la proposta insurrezionale avanzata dalle sinistre poteva esser messa in pratica a Palermo con grandi possibilità di successo. La sera del 21 luglio la città era stata abbandonata dalle forze dell'Asse e dalle autorità. Era quello il preciso momento per effettuare un colpo di mano storico quanto clamoroso: un governo provvisorio indipendentista avrebbe dovuto insediarsi a Palazzo dei Normanni o a Palazw Pretorio e proclamare alla Sicilia e al mondo la libertà e l'indipendenza della Sicilia. Facendo trovare il fatto compiuto alle « ai governi alleati di consentire


t I u ppc nmcricane che entrarono a Palermo nel pomeriggio del 22 luRlio. . Nessuna di queste iniziative fu presa e si arrivò alla riunione interlocutoria del 23 luglio che non solo non venne sottoscritta da tutti i partecipanti, ma non fu degnata di risposta da parte degli Alleati. Tanto che nei giorni successivi Churchill rispondendo a un'interrogazione ai Comuni, aflermò che l'AMGOT non avrebbe mai appoggiato « direttamente >> alcuna attività politica da parte degli abitanti della Sicilia, ed escludeva categoricamente ogni eventualità d'esperimenti di autogoverno dell'isola. L'unico a rendersi conto immediatamente e correttamente del clamoroso errore commesso dagli esponenti « separatisti » fu don Sturzo il quale, pur vivendo esule negli Stati Uniti, mostrò di avere una chiara visione degli avvenimenti che stavano maturando in Sicilia. Egli mise a fuoco l'episodio di Palermo con un acuto commento apparso sul giornale « Italia Libera » di New York del mese di settembre. Il battagliero prete si esprimeva con durezza nei confronti dei promotori separatisti in un articolo che aveva come titolo « I Quaranta di Palermo». Precisava don Sturzo che i separatisti « invece di appellarsi al popolo per dichiararsi indipendenti dal regno italiano, s'indirizzano agli anglo-americani per domandare l'indipendenza » e concludeva cosi lo scritto: « Cari signori Quaranta, indipendenti si è per propria volontà o per volontà storica accettata con convinzione; nessuna autorità straniera può renderci indipendenti quando manca la coscienza di esserlo per virtu propria o per altrui convinzione ». C'è da aggiungere che qualsiasi iniziativa separatista nella primavera-estate del 1943 avrebbe trova to gli Alleati forse non consenzienti ma sicuramente non dissenzienti. Gli Alleati, pur avendo trattato da molti mesi con la controparte italiana, diffidavano di essa e della sua capacità di mantener fede agli impegni presi. Lo dimostra il fatto che malgrado gli accordi con la monarchia e lo SM generale italiani, gli Alleati si presentarono davanti alle coste della Sicilia con quel po' di forze d 'invasione. E poi essi non erano affatto sicuri che Mussolini e il fascismo si sarebbero fatti eliminare cosi facilmente come avvenne il 25 luglio. Agli Alleati, in quel momento, poteva riuscire comodo disporre d 'un governo « Quisling » siciliano. Questa prospettiva politica doveva cadere poi nelle settimane successive: quando gli avvenimenti italiani si svolsero con quella cronologia già prestabilita da tempo: caduta di Mussolini e del fascismo e armistizio (e cobelligeranza). Gli Alleati ebbero cosi nelle loro mani ben due, e quali! « Quisling» : Vittorio Emanuele e Badoglio, rispettivamente capo dello Stato e capo del Governo, che, forse de jure se non de facto. rap-


presentavano l'Italia. Infine, nell'ottobre 1943, dopo l'armistizio e la cobelligeranza, gli Alleati non avevano alcun motivo, almeno per il momento, di cambiare le cose in Italia, e avevano dato il loro consenso per il mantenimento, fino a guerra finita, dell'istituto monarchico e della dinastia sabauda. L'indipendentismo siciliano non appariva piu utile o interessante per la causa degli Alleati. Esso venne abbandonato al suo destino anche se qualche ufficiale dell'AMGOT continuò a mostrare personale simpatia e amicizia verso qualche esponente separatista. Ciò che gli Alleati sicuramente non prevedevano fu l'insperata fortuna e l'innegabile successo che il M.I.S . avrebbe avuto fra le popolazioni dell'isola. È stato detto che, in buona parte, tale successo fu dovuto all'eccezionale personalità del suo indiscusso leader, Andrea Finocchiaro Aprile: « Bell'uomo, dal portamento discinto e disinvolto, ottimo parlatore... astuto politico e parlamentare espertissimo, Andrea Finoc:chiaro Aprile seppe toccare, al momento giusto, le corde piu sensibili dell'animo siciliano... e seppe dare un contenuto politico, anche se polemico, alla chiave di volta dell'inserimento della Sicilia nell'ambito della realtà italiana. >>1

Questo ritratto vero, ma non completo non ci mostra altre caratteristiche dell'Uomo che invece recarono involontario nocumento alle possibilità di completo successo della causa indipendentista. Né ci mostra i suoi limiti, molti dei quali imposti dalla confusa situazione politica italiana e internazionale, che risultarono alla fine predominanti nella vicenda separatista. Il capo del M.I.S. aveva un'esperienza politico-parlamentare d'estrazione liberale, anzi giolittiana, culminata nella rassegnata e negativa posizione aventiniana. (Educazione politica che assieme ali'« astuzia » sono elementi che, purtroppo, predominano in Italia, con i risultati a tutti noti). Egli era, si, un ottimo parlatore, anzi, come dicevano i romani: vir bonus diCt?ndi peritus, ma in un periodo domi. nato da Uomini-Mito gli mancava quel carisma che da sempre trascina il popolo sulle barricate. Finocchiaro Aprile era massone di altissimo grado e, come tale, legato alla solidarietà di Loggia. Coltivava l'ingenua convinzione, valida soltanto in Sicilia e fra siciliani, di potere contare « su gli amici e sulla amicizia ». Credeva fermamente che le sue amicizie politiche, anche internazionali, i legami massonici, le conoscenze presso la Corte inglese avrebbero spianato tutte le difficoltà. Riteneva di poter gestite la procellosa vicenda siciliana con il solito ragionamento siculo: « Il tale mi è amico e ci aiuterà ». « Il talaltro non ci potrà negare tale favore » e cosi via. Mentre tutti i rapporti umani, in particolar modo quelli politici e sociali, 1 Cfr. introduzione di M. GANCI in A . Indipendentista sidliano, Palermo, 1966.

F'INOCCHIARO APRILE.,

Il Movimento

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sono sempre e soltanto rapporti di forza o di convenienza. Infine Finocchiaro Aprile era un abile uomo politico per la vita parlamentare del tempo di pace, ma non il capo di un movimento di liberazione nazionale in tempo di guerra, che ha il diritto e il dovere d'impiegare ogni mezzo per raggiungere il suo scopo: la libertà e l'indipendenza del paese. Egli era certamente della scuola di un Giolitti, ma non certamente di un Ben Bella, di un Ho Chi Minh o di un Fidel Castro. Ma chi era questo Finocchiaro Aprile, improvvisamente riapparso in Sicilia in tempi tanto tragici, che si trovò alla testa di un movimento politico che in poche settimane, senza svolgere alcuna attività di propaganda, riusd ad accendere d'entusiasmo centinaia di migliaia di simpatizzanti? Egli era nato in Sicilia da famiglia siciliana, ma era quasi sempre vissuto fuori dell'isola, a Roma. Ai tempi della sua carriera parlamentare, l'unico legame conservato con la Sicilia era la cura per il collegio elettorale. Deputato dal 1913 al 1924, Finocchiaro Aprile fu piu volte sottosegretario di Stato prima della grande guerra e poi, nei ministeri Nitti, sottosegretario al Tesoro dal 1919 al 1921. Durante il periodo fascista si era ritirato dalla vita politica per esercitare a Roma l'attività di avvocato. Egli, l'abbiamo detto, era un alto esponente della massoneria, .33 della loggia di rito scozzese; di sentimenti sicuramente antifascisti, intratteneva buoni rapporti con esponenti fascisti. Era buon amico di Carmine Senise, il potente capo della polizia fascista. (In seguito i suoi avversari « unitari » gli rimproverarono un entusiastico telegramma inviato a Mussolini all'epoca dell'occupazione dell'Albania. Poi della cosa non si parlò piu, perché quasi tutti gli « antifascisti », anche quelli piu irriducibili, avevano avuto uguali momenti di debolezza verso il regime o verso il duce.) Finocchiaro Aprile aveva estesissime amicizie dovute alla sua personalità, alla notevole attività politica svolta in un passato abbastanza recente, e al suo importante grado nella massoneria. Egli contava poi su influenti amicizie anche all'estero. Fra l'altro era grande amico di Lord James Rennell of Rodd, ambasciatore inglese a Roma dal 1908 al 1919 (poi fervente sostenitore di Mussolini alla Camera dei Pari). Altri stretti vincoli legavano Finocchiaro Aprile a Sir d'Arcy Osborne, ambasciatore inglese presso la Santa Sede negli anni dell'ultima guerra. E sappiamo bene quali formidabili vantaggi seppero ottenere gli Alleati dalle varie attività politiche svolte dal Vaticano. Nei suoi frequenti viaggi in Gran Bretagna, l'ultimo dei quali si concluse nel gennaio 1940, Finocchiaro Aprile era solito essere ospite di Lord Rennell of Rodd nella residenza di Shamley Green nel Surrey. Durante questi soggiorni egli si legò d'amicizia anche

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col figlio cli Sir James, quel barone Francis che aveva conosciuto bambino a Roma e che nel luglio 1943 fu messo a capo dell'AMGOT in Sicilia e mostrò simpatia e comprensione per il nascente movimento separatista. Quasi sicuramente Finocchiaro Aprile approdò per caso all'ideale «nazionale» siciliano, ma è confermato che egli, attraverso il Vaticano, era rimasto sempre in contatto con i suoi importanti amici inglesi. Nella seduta dell'Assemblea Costituente del 19 luglio 1946, Finocchiaro Aprile affermò d'aver inviato lettere ai capi cli Stato alleati fin da prima dell'invasione, e « aveva nettamente affermato che il suo proposito era di addivenire in Italia a una Confederazione di Stati, solo mezzo per superare il conflitto esistente fra la Sicilia e l'Italia». (Tale iniziativa è da inquadrare fra le tante prese in quel tempo da numerose anche se non qualificate persone.) Finocchiaro Aprile giunse in Sicilia agli inizi del 1942 per un giro di presa di conoscenza politica, forse dietro suggerimento delle logge massoniche italiane e anglosassoni, e dei suoi amici inglesi. In quell'occasione si incontrò con don Lucio Tasca Bordonaro, patrizio e proprietario terriero, noto per le sue non nuove e tenaci posizioni autonomistiche. Negli incontri con Lucio Tasca egli sposò la causa dell'indipendentismo, all'inizio come un avvocato accetta di difendere una causa; in seguito « il suo animo retto e sincero fu conquistato dalla causa siciliana, facendola propria, sacrificandole ogni personale interesse o principio, fino alle ultime conseguenze ».2 Certo è che nei successivi incontri in casa Tasca, Finocchiaro Aprile poté assicurare i suoi ospiti d'essere in contatto con gli Alleati che « avevano promesso aiuti per rendere la Sicilia indipendente ». E aggiunse con ardore che la Sicilia « doveva diventare la Svizzera del Mediterraneo». Da allora Finocchiaro Aprile cominciò a far la spola fra la sua residenza di Roma e la Sicilia. Non gli veniva difficile ottenere i relativi permessi di viaggio anche quando l'isola venne dichiarata zona di operazioni militari. In quel tempo egli creò validi contatti con numerosi elementi massonici, con i Gruppi Sicilia e Libertà, con gli azionisti il cui rappresentante era l'avvocato Augusto Martino di Messina, con gli esponenti comunisti Franco Grasso e Giuseppe Montalbano e con l'ex deputato socialista Cigna. Secondo la relazione di minoranza della Commissione Antimafia, i gruppi clandestini Sicilia e Libertà ebbero molta importanza riei collegamenti fra « servizi segreti, capi cosca americani, residui della vecchia mafia, e residui delle vecchie formazioni politiche distrutte dal regime fascista ».3 2

3

Dichiarazione di Francesco Paternò Castello, duca di Carcaci. Cfr. Comm. Pari. Antimafia, doc. XXIII, n. 2, Roma, 1976, p. 966.


Può darsi che ciò sia avvenuto, ma è bene precisare qui che i Gruppi Sicilia e Libertà ebbero come matrice il movimento di Giustizia e Libertà nato negli anni '30 in Italia e in Francia dall'iniziativa di Carlo Rosselli. All'inizio del 1940, quando la guerra appariva ormai inevitabile, Vincenzo Purpura aveva dato vita appunto ai gruppi Sicilia e Libertà. Poiché il solo antifascismo in Sicilia non avrebbe potuto funzionare (cosi come d'altronde non aveva attecchito il fascismo), il programma di base dei gruppi era sicilianista e aveva come scopo la costituzione di uno Stato repubblicano indipendente di Sicilia. (Giustizia e Libertà, Sicilia e Libertà e il successivo Partito d'Azione furono originariamente formati da elementi appartenenti alla massoneria ed erano fortemente appoggiati dal servizio segreto inglese nelle cui file militavano molti appartenenti ai gruppi e al Partito d'Azione.) Il Purpura, come in seguito dissero i separatisti, era stato nazionalista e dopo un breve periodo di indipendentismo, con la soppressione di alcune lettere, divenne «azionista ». Ai Gruppi Sicilia e Libertà aderivano Cipolla, Petrigni, il giudice Piazza, Traina, Raia e Palazzolo, a Palermo, Canepa, Onofrio e Di Marco a Catania, Martino e Cianci rispettivamente a Ragusa e Siracusa ... Tutti questi elementi svolgevano un'attività politica clandestina. Ma un gruppetto, capeggiato dal professor Canepa, divenne presto operativo. Entrò in collaborazione col SIS britannico e iniziò un'attività di sabotaggio e d'appoggio a incursori britannici nella provincia di Catania e nel messinese. A metà giugno 1943, alcune settimane prima dello sbarco alleato, Finocchiaro Aprile s'assentò da Palermo per effettuare un largo giro dell'isola con lo scopo di costituire un comitato indipendentista atto a diventare, al momento opportuno, governo provvisorio. Raggiunse l'ex deputato popolare Aldisio nella sua residenza di Capo Soprano di Gela (una delle località dove sbarcarono gli americani la notte del 9 luglio) . Col discepolo politico di don Sturzo Finocchiaro Aprile ebbe un lungo colloquio. Egli disse d'essere in contatto con l'ambasciatore inglese presso la Santa Sede, d'avere avuto precise promesse da parte degli Alleati (ma anche Aldisio aveva i suoi buoni contatti con gli anglo-americani). Alla proposta di aderire alla causa separatista e di farsi portavoce presso il clero affinché la Chiesa siciliana l'appoggiasse, Aldisio rispose con un netto rifiuto. Le origini dei due uomini erano profondamente diverse, diversi erano anche nella concezione politica. Aldisio era agricoltore, provinciale e con piedi ben fermi nel realismo politico; inoltre aveva delle idee ben precise su quello che sarebbe dovuto essere l'assetto politico del post-fascismo. Finocchiaro Aprile era aristocratico e radicale di destra. La sera precedente lo sbarco degli Alleati in Sicilia, Finocchiaro Aprile fece ritorno a Palermo in attesa degli eventi. Quella stessa 88


notte fecero la loro apparizione manifesti contro il fascismo, inneggianti alla Sicilia indipendente. Si disse in seguito che la stampa di tali manifesti fosse stata effettuata a Malta. Anche se precedentemente il testo venne approvato dai servizi di informazione alleati, la stampa di questi e altri simili manifesti venne fatta con una pedalina fortunosamente trasferita da Enna a Palermo. (La macchina tipografica era stata portata in un primo tempo in una fattoria di Vallelunga, sotto il fieno di un carro trainato da buoi. Per colmo d'ironia il carro viaggiava con un regolare lasciapassare pieno di bolli, rilasciato dalle autorità addette ai servizi d'approvvigionamento e, per un bel pezzo di strada, era stato scortato dai carabinieri. I proprietari del fieno fornivano di latte i militari italiani e tedeschi di Passo Cuniccheddi e di contrada Lumera e avevano avuto il permesso di acquistare il foraggio a Enna. Il trasporto fu curato da don Calogero Vizzini il patriarca mafioso di Villalba.) Nel corso delle operazioni militari, secondo quanto ebbe a dichiarare Finocchiaro Aprile (discorso di Partinico del 20 agosto 1944), rappresentanti indipendentisti si erano presentati agli avamposti anglo-americani « con la bandiera siciliana portante il fatidico motto dei Vespri "Antudo,. per recare il saluto della nuova Sicilia "ed esporre" le aspirazioni del popolo siciliano». Emissari separatisti « s'impegnarono a precedere l'avanzata delle truppe liberatrici, raccomandando ai reparti italiani, in progressivo dissolvimento, di non tentare veruna resistenza e, alle popolazioni, di ricevere amorevolmente i liberatori». In verità l'affermazione di Finocchiaro Aprile era fantasiosa e dettata da pura convenienza politica. Si riferiva a iniziative mafiose o ad altre, non coordinate, ma giustificate dal « salviamo il possibile», praticate dai notabili di paese. Ma come si poteva spiegare il fatto che dopo ottant'anni di rigidissimo regime unitario in Sicilia vi fossero fermenti indipendentisti tanto forti da sfociare presto in un movimento politico di massa e in tentativi insurrezionali volti a staccare l'isola dal resto d'Italia? :È bene accennare sinteticamente alle origini del « sicilianismo ». Alla caduta dell'impero romano la Sicilia aveva subito un destino storico e politico completamente differente dal resto d'Italia. I suoi dominatori e governanti erano stati tutti, e sempre, stranieri: bizantini, arabi, normanni, svevi, angioini, spagnoli. Per un millennio i legami con la penisola furono pochi e deboli. Legata a dinastie straniere e lontane, la Sicilia conservò sempre una forma di autonomia molto larga, anzi, per la precisione, si trattò quasi sempre di forme d 'fodipendenza collegate a precisi rapporti di unioni dinastiche. Con le guerre napoleoniche, la Sicilia, rimasta tagliata fuori dalla ventata rinnovatrice della rivoluzione francese, perse alcune delle sue


prerogative d'indipendenza e si vide maggiormente legata a Napoli sotto l'etichetta borbonica di « Regno delle due Sicilie ». Ebbe allora inizio un tumultuoso periodo di rivolte e di moti insurrezionali. Moti baronali e liberali per la realizzazione di un ordine costituzionale nel 1812, insurrezione nel 1820 per ottenere una reggenza autonoma da Napoli, tumulti e moti rivoluzionari nel 1824, nel 1837 (motivi politici s'assommarono a fanatismo dovuto al terrore del colera che devastava l'isola). Nel 1848 una nuova rivoluzione obbligò i borbonici a ritirarsi dall'isola e i siciliani offrirono ad Amedeo di Aosta, che rifiutò, la corona del regno di Sicilia. Tornato nel 1849, dopo un anno di confusa e inebriante libertà, il dominio napoletano, ricominciarono i moti rivoluzionari: nel 1850, nel 1854, 1856, 1859. Nel 1860 l'avventura garibaldina nell'isola fu resa possibile dall'adesione delle masse popolari all'ideale rivoluzionario nazionale. L'insurrezione scoppiata a Palermo il 4 aprile 1860 e domata dai napoletani nella città, continuò nei paesi e nelle campagne. Garibaldini e picciotti insorti liberarono Palermo, sconfissero i borbonici a Milazzo e tutta la Sicilia si autoliberò. Le « guerriglie » siciliane costituirono il nerbo di quell'esercito meridionale che risali vittorioso la penisola fino a Napoli e al Volturno, e contribuirono a « fare l'Italia» . Alla base dell'adesione delle masse contadine alla spedizione meridionale c'erano i decreti sociali garibaldini stilati dall'infatica· bile Crispi che promettevano la concessione delle terre pubbliche ed ecclesiastiche a coloro i quali avessero partecipato alla guerra contro il Borbone. La classe dominante dell'isola - aristocratici e « galantuomini » proprietari e professionisti - era convinta che la Sicilia, nel contesto della nuova situazione italiana, avrebbe goduto d'una larga autonomia. Prima e dopo l'unità, il pensiero politico siciliano era stato indirizzato verso forme d'autonomismo, di regionalismo e di federalismo, con l'opera di uomini insigni come Michele Amari, Emerico Amari, Paolo Perez, Francesco Ferrara, Vito d'Ondes Reggio, Francesco Napoli, Napoleone Colajanni. E, in tempi piu recenti, Nunzio Nasi e Luigi Sturzo. Tali aspirazioni regionaliste confortate dai decreti della dittatura garibaldina, della pro-dittatura e dall'instaurazione della Luogotenenza, furono totalmente annullate dall'azione politica della Destra storica allora al potere che pose mano alla strutturazione d'uno stato fortemente centralizzato di tipo francese. Furono annullati i decreti sociali garibaldini, i contadini non ebbero le terre promesse; venne pure abrogata la Luogotenenza. La Sicilia perse tutti i privilegi e le garanzie autonomistiche. Le classi dominante e dirigente, rassicurate dalle parole di Cavour che « per fare l'Italia si poteva bene ricorrere alla rivoluzione, ma non alla rivoluzione sociale » si schierarono col governo di Torino. Eppure quella sociale era l'unica rivo-


luzione possibile nel Meridione e in Sicilia dove contadini e plebi cittadine chiedevano « pane e lavoro ». Dall'Italia Unita i diseredati ebbero il liberalismo e non la libertà, e ancora: stato d'assedio, tribunali militari, stragi, fucilazioni sommarie, deportazioni, paesi assediati, saccheggiati, incendiati... L'esercito fu « il filo di ferro che cuci l'Italia», doveva amaramente riconoscere Luigi Settembrini. Nel 1862 tutta l'isola aded generosamente alla spedizione garibaldina finita nel sangue ad Aspromonte, e la Sicilia ne pagò il fallimento con indicibili persecuzioni governative. Nel 1866, dopo sei anni di unità e di « piemontismo », le condizioni dell'isola erano tali da provocate un'estesa insurrezione a Palermo e nella sua provincia. Ci volle l'intera flotta in legno del giovane stato italiano, e un corpo d'armata comandato dal generale Raffaele Cadorna, per stroncare la rivolta palermitana che innalzava la bandiera rossa al grido: Repubblica e Santa Rosalia! Per sette giorni e mezzo le navi italiane scampate al disastro di Lissa bombardarono ferocemente Palermo. Non si è mai potuto sapete il numero delle vittime: i militari ebbero piu di mille uomini morti o feriti. La popolazione, si pensa, almeno settemila morti. (Per il bombardamento di Messina del 1848 Ferdinando II di Borbone fu bollato come « Re Bomba», per quello di Palermo del 1860 Francesco II si guadagnò il nome di « Re Bombino>>. Per il bombardamento di Palermo del 1866 Vittorio Emanuele II era e rimase il « Re Galantuomo». Una feroce pagina di storia mai apparsa sui libri di testo.)4 Quando andò al potere la Sinistra, nulla cambiò nel sistema di malgoverno dell'isola. Anzi le sue condizioni andarono vieppiu aggravandosi: esoso fiscalismo, drenaggio dei capitali dell'isola che vennero investiti in iniziative industriali, opere pubbliche e spese militari nell'Italia settentrionale, sperequazione costante nei tributi e nelle pubbliche spese, protezionismo industriale del Settentrione a discapito del Mezzogiorno, carenza di opere pubbliche, deterioramento dei rapporti agrari, collasso dell'ordine sociale, inserimento politico delle cosche mafiose e camorristiche... La generale depressione dell'isola portò a nuovi fenomeni politici e sociali, resi ineluttabili dalle gravissime condizioni in cui versavano le misere popolazioni. Le masse contadine, ormai consapevoli dei propri diritti, diedero altissima prova di maturazione politica e spirituale. Dando vita a quello che è considerato l'unico tentativo di autorganizzazione di base delle masse del nostro paese: i Fasci Siciliani dei Lavoratori. Organizzazione sindacale variamente politicizzata con accentuati aspetti spartachisti. 4

Cfr.

SANDRO A TTANASIO,

Gli occhiali di Cavour, Milano, 1980.


Il fenomeno dei Fasci fu sicuramente sicilianista. Lo dimostrarono la sua precisa collocazione regionale, i difficili rapporti con la « chiesa socialista » del Nord che aveva già fatto la sua scelta operaia e guardava con disprezzo il cafone contadino perseguendo un suo fumoso programma cU collettivizzazione delle terre. Ma il generoso tentativo del proletariato siciliano venne duramente stroncato dal governo con una spietata repressione poliziesca e militare. Ancora stato di assedio e tribunali militari. E poi: stragi, arresti, deportazioni, epurazioni di impiegati pubblici e privati, chiusura delle sedi dei fasci e loro scioglimento, censura postale e dei giornali ... Bastava che le misere folle contadine si radunassero nelle piazze dei paesi, con i gonfaloni sacri, il tricolore, la bandiera del fascio e il ritratto dei reali, gridando: « Pane! Terra! » perché carabinieri e soldati in servizio d'ordine pubblico aprissero il fuoco sulle popolazioni inermi. Quando a sparare non erano guardie municipali e campestri, campieri, vile sbirraglia mafiosa al servizio della classe dominante. Il vecchio Crispi che da giovane era stato l'estensore dei decreti sociali di Salemi, fu quello che maggiormente infier.i sui suoi corregionali {purtroppo c'è sempre un siciliano al servizio di Roma pronto a sfogare il suo raptus poliziesco sui conterranei). Ossessionato dalla paura del disfacimento dell'opera d'unificazione dell'Italia, Crispi vide nei moti sociali del- . l'isola un movimento separatista. Un provocatorio e falso rapporto di polizia rifeci di un incontro avvenuto a Santo Stefano di Quisquina fra esponenti del fascio e un « inviato » del governo francese. E sappiamo bene quale importanza ha sempre avuto nella vita del nostro paese la provocazione poliziesca! (Pare che il falso rapporto venisse stilato per vendetta da un funzionario di PS che aveva inutilmente insidiato la moglie di un esponente dei fasci.) Crispi prese le peggiori iniziative repressive, anche se, dopo, cercò di compensarle con una legge agraria la quale, avversata da socialisti e agrari, non venne mai discussa in parlamento e scomparve nei polverosi archivi di Montecitorio. Fu allora che si produsse un altro eccezionale fenomeno sociale: l'emigrazione in massa. Un fenomeno che fu una jattura per l'isola e una vergogna incancellabile per l'Italia. Braccianti, pastori e artigiani che vivevano nei borghi contadini, plebei delle città dove dominavano la disoc01pazione e la sott0-0ecupazione scelsero l'emigrazione come unica via di scampo all'ergastolo di miseria a loro riservato. Era una forma di spreco suicida anche se praticato da un popolo molto prolifico. Al governo italiano non parve vero di poter risolvere cosi il problema meridionale e fece del suo meglio per facilitare l'esodo della gente del Sud. Nello stesso tempo pareggiava il suo bilancio con le rimesse degli emigrati.


Un nuovo risveglio sicilianista avvenne nei primi anni del secolo in segno di protesta contro la persecuzione giolittiana di Nunzio Nasi, l'uomo politico cui andò la solidarietà delle genti dell'isola . . Poi vennero le teorie regionalistiche e il rifiuto della strategia dell'inutile massacro praticato ciecamente dal comando supremo italiano durante la guerra 1915-1918. Uno dei motivi della nomina del siciliano Vittorio Emanuele Orlando a presidente del Consiglio fu appunto la grave situazione dell'isola con i suoi centomila disertori che rifiutavano d'accettare la morte sicura decretata dai forsennati strateghi degli attacchi frontali. Infine era venuto il fascismo. Anche se esso aveva fatto nell'isola un buon numero di lavori pubblici e sistemato la rete viaria, erano tutti lavori che giungevano molto in ritardo, almeno cinquanta o sessant'anni dopo che erano stati promessi e dunque si rivelarono superati dai tempi. Anche la speranza suscitata dal piano fascista d'« Assalto al Latifondo » e la promessa che la Sicilia sarebbe diventata il « centro geografico dell'Impero », giunsero tardi, alla vigilia della guerra, per avere pratica esecuzione. Poi erano venuti la guerra, la fame, i bombardamenti, le distruzioni e l'invasione. I siciliani si erano sentiti veramente soli, abbandonati dal resto dell'Italia. Si può dire che la rabbia separatista prese corpo dal disperato rancore che provarono i siciliani nel vedersi soli, indifesi e abbandonati davanti alla furia nemica. Ancora una volta l'Italia aveva fatto una precisa scelta, sacrificando la Sicilia e il sud della penisola per garantire e salvare il Centro-Nord. Ecco come s'erano maturate le condizioni che diedero vita alla tempesta indipendentista che travolse la popolazione siciliana. C'è da aggiungere che nel cuore di ogni siciliano c'è sempre un fondo di nazionalismo isolano, e fra la Sicilia e il resto dell'Italia esiste un rapporto di odio.amore che si può sintetizzare nella frase: « Nec tecum nec sine te vivere possum ». Con l'aggravarsi della situazione militare e politica, un certo risveglio antifascista si era notato anche nell'isola. Che, per la verità, durante il ventennio aveva mostrato poco entusiasmo per il regime mussoliniano. La quasi totalità della popolazione non era fascista, ma nemmeno antifascista. Era, come sempre nei secoli, politicamente apatica. Di contro alle « fascistissime » regioni del Nord e Centro Italia, la Sicilia era ritenuta, anche dai comandi militari alleati di invasione, « una parte ben nota per la sua apatia politica .5 Dopo la guerra il ruolo si capovolse e il Centro-Nord divenne ferocemente antifascista, scelta politica che la popolazione isolana

s Cfr. «Rassegna... », op. cii., p. 11. 93


si rifiutò di condividere, specialmente negli eccessi sanguinari e persecutori. Un po' dovunque s'erano formati gruppetti di critici o avversari del regime. In genere era gente innocua, che si abbandonava al piacere di parlar male del fascismo e del suo duce, ma che era lasciata in pace dalla polizia che sembrava conceder loro una specie di ;us murmurandi. Il centro antifascista piu importante dell'isola era quello di via Notarbartolo a Palermo, nella casa del professore Baviera, ex deputato liberale ed ex rettore dell'Università di Napoli. A sera, nella casa del Baviera, alcuni esponenti politici del prefascismo si riunivano attorno a un tavolo da gioco. Le carte dovevano servire da giustificazione nel caso di una, peraltro improbabile, irruzione della polizia. Oltre al professor Baviera v'erano il professor Enrico La Loggia, già sottosegretario alle Finanze, e il figlio, avvocato Giuseppe; gli ex deputati Aldisio, Scialabba e Guarino Amella, gli avvocati Sorge, Varvaro, Giulio Randelli, Ramirez e Bernardo Mattarella (quest'ultin10 molto vicino alla Curia di Palermo), il professor Guarino, preside della facoltà di giurisprudenza, il presidente di tribunale, Piazza, il professor Lauro Chiazzese e altri. Questi uomini professavano ideologie politiche contrastanti anche se erano momentaneamente uniti dalla comune avversione al fascismo. Altri centri a Palermo di dissenso moderato, con relative mormorazioni, erano il Circolo Bellini e casa Selleria, dove si incontravano altri elementi della politica pre-fascista che da una ventina di anni s'erano ritirati a vita privata. (In genere fra i « mormoratori » palermitani e delle altre province occidentali della Sicilia abbondavano gli elementi dal « sentire mafioso » costretti dal regime a vivere a « pascolo asciutto».) V'erano poi gruppetti comunisti di Montalbano e Franco Grasso e i socialisti che facevano capo agli ex deputati Musotto e Cigna. A Catania l'antifascismo verbale amava riunirsi attorno all'an· ziano e stimato avvocato Luigi Castiglione, socialista di antico stampo; v'erano: Gigi Macchi, Attilio Palmisciano, Carmelo Bucalo, Giovanni Gorgone, i professori Salanitro e Carmelo Gaudioso, l'avvocato Casalaina, Michelangelo Tignino, Memmo Rosa ... Gruppo a sé facevano gli ex deputati Bruno di Belmonte, La Rosa e Rindone che avevano simpatie indipendentiste. A Messina agiva una potente loggia massonica che faceva capo al dott. Placido Lauricella e al professor Salvatore Altomare. La loggia, apparentemente in sonno, aveva creato una vasta rete di adesioni fra le persone piu importanti della città, « indirizzando » i gruppi liberali e quelli azionisti dell'avvocato Martino. Nel marzo 1943, nella città dello stretto, i giovani Spartaco e Libero Millimaggi, figli di un noto antifascista già confinato politico, diedero vita a un movimento chiamato « Si94


cilia Libera ». All'inizio tale movimento raccolse una trentina di aderenti, quasi tutti impiegati comunali e formò due gruppi nella città, e altri a Nizza di Sicilia, Tortorici e Roccalumera. Con un « Comitato centrale segreto » diretto dai fratelli Millimaggi e da Gino Cerrito. Con l'ingresso delle truppe alleate, il movimento « Sicilia Libera » si rafforzò con l'adesione di almeno duemila persone già appartenenti a partiti politici del pre-fascismo e formò una specie di « Comitato di Liberazione» locale. Venne adottata la bandiera rossa con al centro una «Trinacria» gialla racchiusa in un cerchio azzurro, mentre gli iscritti portavano al collo uno sgargiante fazzoletto rosso. « Sicilia Libera» che propugnava una « Repubblica Sociale Siciliana » entrò in crisi con 1'8 settembre quando i suoi aderenti disertarono per aflluire nei partiti politici che andavano ricostituendosi. A Messina l'unica forza politica efficiente fu la loggia massonica, il cui potere venne immediatamente sancito dagli Alleati che nominarono prefetto della città il candidato massonico avvocato Stancanelli. Ma in tutta l'isola il gruppo piu efficiente era quello indipendentista di Palermo dove i principali esponenti erano Lucio Tasca, il duca Avarna, la duchessa Cesarò, il barone Stefano La Motta, l'avv. Cacopardo, il principe di Linguaglossa, l'ex deputato Arturo Verderame, il duca di Pietratagliata, il magistrato Piazza, l'avvocato Milito... Akuni di loro erano figli o nipoti degli orgogliosi baroni che avevano avversato il governo borbonico. A Catania il programma separatista era condiviso da numerose personalità della provincia: oltre agli ex deputati Bruno di Belmonte, La Rosa e Rindone, v'erano gli avvocati Gallo Poggi, Paterniti, Romeo, Gaglio, Bruno, Nicolosi Tedeschi, Castrogiovanni, i professori Galante e Rapisardi, il dott. Vecchio, il barone Cosentino, l'ex sindaco Carlo Ardizzone, i fratelli Franz e Guglielmo Patemò, duchi di Carcaci, Grassi, Giuliano ... Come abbiamo detto gli avversari del regime fascista erano dei mormoratori, dei critici; si lamentavano del fascismo, raccontavano barzellette sul regime, ma nessuno di loro era capace d'esprimere un'azione politica valida (né d'altra parte ve ne era la possibilità), né tantomeno di ricorrere alla violenza e alle armi. Tanto che nella primavera del 1943, quando i gruppi comunisti tentarono d'ideare un'eventuale azione armata, e cercarono di coinvolgere gli altri gruppi politici, il loro esponente Franco Grasso si senti rispondere dal separatista Piazza che sarebbe stato inutile ricorrere alle armi: « Tutto sarebbe accaduto da sé». A maggio, Lucio Tasca e Finocchiaro Aprile diedero la stessa risposta a Giuseppe Montalbano che, reduce da una riunione tenuta da esponenti della sinistra a Santa Margherita Belice, aveva loro esposto un fantasioso piano di insurrezione. 95


Anche Vincenzo Purpura affermò, dopo molti anni, d'aver parlato di un progetto d'insurrezione armata con Lucio Tasca, Piazza e altri. Ma nel vasto panorama di cauto dissenso politico siciliano, v'era nell'isola un gruppo capace d'effettuare azioni armate. Esso operava da tempo nel catanese e aveva come capo il professore Antonio Canepa docente dell'università di Catania. Canepa era un personaggio ragguardevole sotto ogni punto di vista, di grande ingegno e d'altrettanto grande cultura. E molto attivo, anzi, terribilmente irrequieto. Canepa era un « cospiratore per vocazione», come l'ebbe a definire il suo compagno di lotta Attilio Castrogiovanni. Da cospiratore furono tutte le contrastanti iniziative politiche che Canepa svolse nel corso della sua breve, intensa, vita. (Fra le altre cose, ci fu un tempo che si mise a studiare il sottosuolo di Roma per cercare di raggiungere, attraverso un cunicolo, palazzo Venezia, e piazzare una potente carica esplosiva sotto la sala del Mappamondo dov'era l'ufficio di Mussolini!) Compilatore e diffusore di ciclostilati antifascisti fin dall'epoca del delitto Matteotti, Canepa si laureò brillantemente e nel 1932 si iscrisse al PNF. Ciò non gli impedi di progettare un fantasioso golpe contro la Repubblica di San Marino. Il tentativo venne effettuato nel 1933 con il fratello Luigi e una dozzina di giovani universitari altrettanto irrequieti. L'azione doveva culminare con _l'occupazione della pacifica repubblica e avrebbe dovuto dimostrare « a Mussolini e al mondo intero che in Italia c'erano ancora persone che non si adeguavano alla volontà del dittatore ».6 Il piano del singolare tentativo era quello di catturare la « fascista » famiglia Gozzi che deteneva il potere a San Marino, impadronirsi della locale caserma (?!), della stazione radio e del pubblico tesoro. E cosi alimentare la lotta « contro il fascismo»! Ma gli strambi congiurati furono bloccati nelle loro città di origine prima ancora di mettersi in viaggio verso San Marino. Furono tutti rilasciati dopo qualche giorno di fermo di polizia. Luigi Canepa e un altro giovane, tale Attinelli, catturati in territorio di San Marino, si beccarono una severa condanna, rispettivamente a 10 e 15 anni di reclusione. Vennero liberati dopo un paio di anni passati nelle deserte prigioni della repubblichetta. Antonio Canepa, ideatore e organizzatore dell'inusitata protesta, venne arrestato, ma l'intervento della potente famiglia della madre, i Pecoraro, sempre influente sotto tutti i governi, gli evitò il processo. Canepa fu ricoverato in una clinica per malattie mentali, prima a Roma e poi a Palermo. Vi rimase per circa un anno, ma 6

Cfr.

SALVO BAIUIAGALLO,

Una rivolu%ione mancata, Catania, 1974, p. 34.


poi la sua influente parentda gli spalancò le porte della clinica, fece dimenticare alle autorità di polizia l'avventura di San Marino e gli facilitò l'ingresso nell'insegnamento universitario. D'altronde il suo grande ingegno e il suo vasto sapere giustificarono la libera docenza di cultura e dottrina del fascismo, storia delle dottrine politiche, storia dei trattati e politica internazionale presso l'università di Catania. A Catania, durante quegli anni, Canepa visse una vita intensa: insegnava all'università, scriveva « buoni » libri sul fascismo e coglieva clamorosi successi in campo femminile. Fu allora che ebbe un figlio, oggi parlamentare socialista, nato da un turbinoso legame con una ragazza. I suoi libri riscuotevano ammirazione e plauso negli ambienti fascisti piu autorevoli e rispecchiavano una perfetta ortodossia politica: Sistema di Dottrina del Fascismo del 1937, Gli studi itaUani sulla Dottrina del Fascismo nel quinquennio XII e XVI E.F. del 1939 e L'Organizzazione del Partito Fascista del 1940. Infine, tramite l'amica famiglia inglese dei Nelson della Ducea cli Bronte, Canepa entrò nelle file del Secret Service inglese. All'inizio della guerra raggiunse un campo militare britannico dove venne addestrato alle tecniche della guerriglia, del sabotaggio e dell'informazione politica e militare. Pare che l'avventuroso viaggio sia stato fatto su un sommergibile britannico che sbarcava incursori sulle coste siciliane. Al suo ritorno dal campo d'addestramento, Canepa guadagnò alla causa alleata alcuni giovani studenti: Pippo Amato, De Marco, Onofrio Catania, Sangiorgi, che collaborarono con incursori inglesi in alcune azioni di sabotaggio. Una di queste azioni pare sia avvenuta nella primavera del 1943 nella zona dell'aeroporto di Gerbini. A Catania il palermitano Canepa abitava in via Roccaromana, ma presto egli si cercò un rifugio sicuro in una villa cli via Etnea, ospite del collega, professor Mario Petroncelli, rettore fascista della facoltà di giurisprudenza. È cli quel periodo un violentissimo libello antitaliano dal significativo titolo La Sicilia ai siciliani. che venne cliffuso sotto forma cli ciclostilato e dato alle stampe dopo l'occupazione alleata dell'isola . Il 1° aprile 1943 il giovane professore che, non si sa come, aveva evitato il servizio militare, si fece trasferire all'università di Firenze. Per tre mesi viaggiò in su e in giu per la penisola. Con tanto cli lasciapassate rilasciato dalle autorità. Ma il 5 agosto 1943, quando 1'8a annata britannica occupò Catania, Canepa si fece trovare nella città dell'Etna. Lasciò la Sicilia con un nuovo incarico alcuni giorni dopo. Prima di partire suggeri alle autorità militari inglesi di nominare magnifico rettore dell'università di Catania l'amico e ospite, professor Petroncelli, il quale, pur noto fascista, era caldamente raccomandato anche da monsignor Carmelo Patané, arcivescovo della città. 97


VI. IL RISVEGLIO DELL'ATTIVITA POLITICA IN SICILIA « I piu antifascisti delle Due Sicilie non erano sempre i piu ubbidienti alla legge e i cittadini piu sani, specialmente dove sopravvivevano tradizioni di mafia e di camorra. Colui che all'arrivo degli Alleati si vantava di essere loro amico e accusava tut~i gli altri di essere fascisti, non sempre era disinteressato. » (Right Hon. LoRD llENNELL OP Ronn, KBE, CB, Capo dei Civil Affairs della Sicilia, 194.3)

È stato scritto fino alla nausea che le nomine fatte dagli Alleati in Sicilia riguardavano per il 90% mafiosi e separatisti e, per rafforzare tale affermazione, si citano i soliti nomi: i mafiosi Calogero Vizzini sindaco di Villalba, Salvatore Malta sindaco di Vallelunga e Giuseppe Genco Russo capo dell'Ente Comunale Assistenza di Mussomeli; nonché i separatisti Lucio Tasca, sindaco di Palermo, e Attilio Castrogiovanni, sindaco di Linguaglossa. In genere l'elenco inizia e finisce con questi nomi. Qualche volta l'elenco prosegue con l'aggiunta di qualche altro nome definito « simpatizzante» separatista che, guarda caso, emigrò quasi subito nelle file dei partiti « unitari » di governo. Inoltre nessuno degli « storici » e dei « cronachisti » di quel periodo ha ritenuto degno di nota il fatto che, nella sua breve esistenza organizzativa ed elettorale, il Movimento Indipendentista Siciliano fu quasi inesistente nelle province definite « mafiose » della Sicilia occidentale (nemmeno una sezione, pochissimi iscritti e voti nella provincia di Caltanissetta, considerata feudo di don Calogero Vizzini!). Mentre ebbe un grande numero di iscritti e di voti nelle province di Catania e di Messina, allora immuni dalla infezione mafiosa, e a Palermo secolare roccaforte del patriottismo isolano. La verità è che gli Alleati diedero gli incarichi agli amici o collaboratori della loro causa, o a coloro che non avversavano i loro scopi di guerra. Nella maggior parte dei casi l'iniziativa delle nomine fu dovuta ai Town Majors dei primi giorni e ai successivi Civil Affairs Officers locali. Secondo Lord Rennell of Rodd gli ufficiali alleati cadevano « nel tranello di scegliere il propagandista di se stesso che piu si metteva in mostra». Generalmente il Town Major dei primi giorni d'occupazione creava un immediato contatto con il comando della stazione dei carabinieri e l'esponente locale del clero che si mettevano


volenterosamente a disposizione. Furono preferiti appunto elementi raccomandati dal clero che in buona parte si mostrò « amico » degli anglo-americani, appartenenti alla massoneria, qualche aristocratico dal nome altisonante e notabili del prefascismo, che nella Sicilia centrale e occidentale erano spesso intrisi da forte « spirito mafioso ». « Gli uomini cosi portati alla ribalta del potere politico amministrativo avevano per lo piu varcato la cinquantina, ed erano peraltro uomini che ora, nella caduta del regime per la quale non avevano attivamente operato, videro l'inizio provvidenziale d'un processo di restaurazione di strutture politiche dell'Italia pre-fascista ... La rapidità con cui questi uomini si riportarono ai tempi e ai problemi della politica prefascista (heri dicebamus) testimonia anche del loro isolamento culturale politico, dell'ignoranza di quanto fuori dell'Italia era venuto maturando nei vent'anni di regime. »1 I nuovi prefetti della Sicilia furono nominati fin dai primi giorni dopo lo sbarco o dopo un periodo di reggenza affidata ai vice prefetti rimasti in sede. Abbiamo visto che il primo prefetto AMGOT fu quello di Caltanissetta, avv. Arcangelo Cammarata. Poi vennero le nomine di Antonio Dessena a Enna (12 agosto), dell'avv. Paolo D'Antoni a Trapani (12 agosto), dell'avv. Giovanni Cartia a Ragusa (Cartia vantava singolari meriti antifascisti: aveva difeso in tribunale alcuni oppositori del regime e nel 1935 era stato « minacciato» di confino dal federale Falliero!). Ad Agrigento il prefetto AMGOT fu l'ex deputato Edoardo Pancamo e a Messina Luigi Stella poi sostituito dal massone avv. Stancanelli, mentre l'ex deputato Francesco Musotto accettò la carica di prefetto di Palermo 1'11 settembre. A Catania a reggere la prefettura fino al 18 ottobre, rimase il vice prefetto Azzaro che durante le operazioni belliche era stato nominato prefetto sul campo da Mussolini. (Il valoroso fun. zionario aveva retto la prefettura con capacità e impegno quando il prefetto Grazioli, il cui nome risultava nell'elenco dei « criminali di guerra » per la sua precedente attività nella penisola balcanica, aveva tagliato la corda.) Dopo Azzaro venne nominato prefetto l'avv. Fazio il cui nome fu suggerito dall'arcivescovo della città monsignor Patané. L'arcivescovo Carmelo Patané godeva di grande influenza presso le autorità militari alleate, ed aveva fama di antifascista per il fermo atteggiamento assunto anni prima, durante la crisi dell'Azione Cattolica. (Aveva subito anche pesanti interventi delle autorità fasciste per un episodio boccaccesco-ancillare che aveva coinvolto elementi che gli erano molto vicini. Lo scandalo era stato 1 Cfr. GIUSEPPE GIARRIZZO, Sicilia politica 1943-1945, in « Archivio Storico per la Sicilia Orientale•, voi. II, 1970, p. 11. L'opera di Giarrizzo è indispensabile per chi voglia comprendere la confusa attività politica isolana di quel tempo.

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fatto rientrare quasi subito per ragioni di convenienza politica.) Le amministrazioni comunali delle grandi città furono tutte definitivamente rinnovate dopo 1'8 settembre. A Catania, al momento della conquista della città, gli inglesi riconfermarono il podestà fa. scista Antonino Patemò Castello, marchese di Sangiuliano. I due vice podestà furono il dott. Stefano Russo per gli affari amministrativi e il dott. Enrico Avelne, di lontana origine inglese, per gli affari tecnici. Una commissione di 'cittadini, sempre nominata dagli inglesi, collaborò con l'AMGOT. Essa era cosi composta: on.le Santi Rindone, monsignor Carciotto, avv. Luigi Castiglione, avv. Roberto Giuffrida, ing. Francesco Russo, avv. Antonino Fazio, avv. G. Tedeschi, comm. C. Patané, principe R. Biscari, avv. Agatino Bonfiglio, avv. Domenico Albergo, duca Franz Carcaci, avv. Vinci Juvara, principe Camillo Borghese, comm. A. Di Bella, avv. Carmelo Villarà, ing. A. Re, on.le Bruno di Belmonte. La riconferma del marchese di Sangiuliano non sembrò esser dovuta a particolari motivi di scelta politica, ma al cordiale, personale rapporto che il marchese instaurò con gli invasori. Alcuni alti ufficiali inglesi: Lord Gerald Wellesley, settimo duca di Wellington, Sir Guys Elwers, Pari del Regno Unito e cavaliere di Malta, il primo conte, Pari d'Inghilterra, Shrewsbury e altri, furono invitati dal PO<lestà-marchese nella sua bellissima villa suburbana. L'incontro diede vita a un reciproco rapporto di stima e di amicizia dovuto alla comune appartenenza al ceppo aristocratico. Fu cosa naturale che nella quiete della villa della Leucatia « dopo una tazza di the, un bicchiere di whisky e quattro amichevoli chiacchiere, nella riposante frescura del parco, il governatore per Sua Maestà britannica confermasse nella carica di primo cittadino della conquistata città l'ex podestà Antonino Patemò Castello, undecimo marchese di San-. giuliano e dell'aurea città di Capizzi, due volte pari del Regno di Sicilia, nonché nipote di colui che era stato amico personale di Edoardo VII e proclamato dall'università di Oxford ex antiquissima stirpe nortmannica oriundt1s. Un compatriota dunque, in tutto e per tutto ».2 Peccato che ai piedi della collina dove sorgeva l'amena villa sede dell'idilliaco incontro vi fosse una grande città semidistrutta dalle bombe, con montagne di macerie che coprivano un imprecisabile numero di cadaveri e una popolazione stremata dalla fame e dalle sofferenze. In ogni modo il marchese di Sangiuliano si dimise dalla carica il 5 novembre e al suo posto venne nominato l'avvocato Carlo Ardizzone che era stato l'ultimo sindaco prefascista. 2 Cfr. Il Movimento per l'Indipendenza della Sicilia, memorie del duca di Carcaci, Palermo, 1977, p. 21.

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Dopo gli anni di retorica fascista cominciavano quelli dell'ipocrisia democratica. In un articolo apparso su « Sicilia Liberata » del 19 agosto si cercava di calmare le lamentele per la totale mancanza di generi alimentari e si cercava di spiegarne le cause. L'articolo chiudeva con un'affermazione arrogantemente falsa: « Si vive in piccoli centri discretamente e anche i prezzi dei generi sono in questi ultimi tempi diminuiti {?!) grazie anche alle nuove libere elet.ioni di uomini voluti da/, popolo ai posti di comando». Si gabellavano dunque per libere elezioni le nomine manu militari fatte dall'AMGOT! A Palermo l'ammistrazione comunale all'inizio venne retta dal vice sindaco barone Fatta del Bosco e ciò fino al 27 settembre. Dopo tale data a Palazzo Pretorio si insediò il sindaco Lucio Tasca, indipendentista, con una giunta composta da elementi di differenti colori politici, ma che si dimostrò efficiente: avv. Guido Napoli, avv. Filippo Sanfilippo, prof. Roberto Indovina, sig. Luigi Buffa, avv. Bernardo Mattarella, avv. Rocco Gullo, avv. Antonino Varvaro, avv. Antonio Ramirez, avv. Nicolò Maggio, sig. Antonino Calderone, dott. Giuseppe Paladino, sig. Francesco Paolo Tulumello, duca Fabrizio Alliata di Pietratagliata, sig. Alberto Samonà. Fino all'8 settembre l'unica palese attività politica venne svolta dai separatisti con il tacito consenso delle autorità militari alleate. Già alla fine di agosto circolavano per l'isola ingenui volantini, con la Trinacria, del comitato centrale dei Siciliani Liberi. Veniva riportato il testo del giuramento, da sottoscrivere con « firma autografa» dell'aderente, richiesto per « divenire siciliano libero » di una « libera repubblica siciliana ». Il giuramento, scritto in lingua incerta, sanciva impegno di fedeltà d'altri tempi: « Non tradirò mai i miei compagni quali autorizzo usare verso di me la legge del taglione» e terminava con un truculento « Morte ai traditori » .3 Gli altri partiti politici si andavano ricostituendo sotto il controllo alleato e sotto forma di Fronti e di Comitati per la Libertà, espressione di interessi locali. A causa dei divieti dell'AMGOT i partiti, in fase d'organizzazione, si dovevano muovere con molta cautela e senza il supporto della stampa. Si andavano formando cosi i quadri dirigenti dei futuri partiti, anche se pet il momento si trattava di generali senza soldati. Le autorità alleate amavano trattare con le persone e non con le organizzazioni. Un proclama del1'agosto 1943 della Democrazia Cristiana navigava nel mare dell'utopia con un'accozzaglia di generose enunciazioni e auspicava « uno stato italiano basato sui principi della libertà e della democrazia ... che doveva difendere la libera iniziativa e la libertà di concorrenza combattendo però la concentrazione capitalistica... sopprimendo i 3 Cfr. il manoscritto cli Silvio Papalia Jerace, presso l'Archivio Comunale di Messina.

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monopoli dell'imperialismo economico e nazionalizzando gli altri di interesse pubblico ». Provvedendo a queste iniziative, lo Stato « doveva eliminare la proletarizzazione del lavoratore e favorire il mo· vimento cooperativistico ... ». Come si vede l'attuale confusione politico-economica italiana ha lontane origini. Ma un'abbastanza vasta attività politica ebbe inizio in Sicilia solo dopo 1'8 settembre. Con l'armistizio e il collasso dello Stato italiano vennero a cadere tutti i motivi di prudenza e, forse, d'ordine morale che impedivano a molte persone di svolgere attività politiche in collaborazione col governo militare alleato. A settembre, Finocchiaro Aprile e Guarino Amella, con un largo seguito di persone, si recarono a Gela per proporre ad Aldisio la costituzione di un governo provvisorio siciliano formato da ex deputati. Ma alle tesi indipendentistiche dei suoi visitatori anche stavolta Aldisio, e a maggior ragione, oppose fermamente quei principi di autonomia regionale che già prima del fascismo erano propri dello schieramento cattolico popolare. Nel successivo mese di ottobre, il professor Enrico La Loggia dieqe vita a un'azione di vasto respiro politico con la costituzione del Fronte Unico Siciliano Unitario. La Loggia, ex deputato e sottosegretario di Stato, uomo per molti versi veramente notevole, era stranamente sensibile a interessi e rivalità provinciali. « Storica » era la rivalità che lo divideva da Guarino Amelia. Per questo suo contraddittorio comportamento, Andrea Finocchiaro Aprile aveva usato sprezzanti parole: « Rabagas, che è stato socialista e reazionario, democratico e conservatore, massone e radicale». Anche se c'era del vero nelle taglienti parole del leader separatista, La Loggia rimaneva sempre un uomo di vasta cultura e di grande capacità politica. Il Fronte di La Loggia nasceva per contrastare efficacemente il M.I.S. (e Guarino Amelia) e rispolverava le vecchie tesi del meridionalismo nittiano, ritenendo che fosse sufficiente che lo Stato Unitario, con azione riparatrice, provvedesse alla perequazione economica della Sicilia alle altre regioni italiane piu dotate. Ciò doveva avvenire con lavori pubblici, con « trapianti industriali in Sicilia e a opera delle grandi società azionarie alleate da agevolezze tributarie, ferroviarie ed espropriative e da libertà di dividendi», con acquisizione alle colture « di terreni bonificati » e la concessione « entro certi limiti territoriali » in enfiteusi obbligatoria dei terreni latifondistici. Il programma del Fronte era tratto dalle tesi esposte nell'opera « Ricostruire » dello stesso La Loggia, che fu la prima pubblicazione a essere autorizzata dall'AMGOT. All'iniziativa di La Loggia diedero la loro adesione numerose personalità appartenenti a diversi schieramenti politici: Baviera, Ramirez, Mattarella, Restivo, Montalbano, Mineo, Lo Presti che firmarono una dichiarazione anti-indipendentista che, « tramite i carabinieri» ( !?) fu inviata a Badoglio. 102


La dichiarazione consegnata ai carabinieri il 24 ottobre 1943 affermava « ... piena fiducia in quella forma di governo che il popolo italiano sarà per scegliere ... i diritti e gli interessi dell'isola, saranno, per il suo libero immancabile avvenire, pienamente riconosciuti e tutelati». Il documento era accompagnato da un lungo, e prolisso, memoriale che iniziava con un retorico collegamento « ... col pensiero e l'anima dei grandi italiani da Dante a Mazzini a Garibaldi ... la sacra memoria dei martiri del Risorgimento », poi si addentrava in statistiche e percentuali di attività industriali, commerciali e finanziarie, ecc., con un largo riferimento alla carente produzione elettrica dell'isola, dati che facevano risaltare l'arretratezza economica della Sicilia. Infine veniva toccato il problema agricolo siciliano per il quale veniva suggerito un programma di bonifica integrale, analogo a quello fascista, con la creazione di piccole proprietà, case coloniche, agevolazioni creditizie, :fiscali, ecc. Con la sua nascita, il fronte di La Loggia poneva un'ipoteca sul potere politico dell'isola e « affidava la lotta contro il separatismo alle forze conservatrici-moderate »,4 e ciò anche se tra i firmatari del documento v'erano il comunista Montalbano e il socialista Mineo. È doveroso però aggiungere che in quel tempo pochissimi erano gli « antifascisti » e fra questi ancor meno erano gli « unitari ». Quasi tutti esprimevano concetti e idee indipendentiste, autonomiste o federaliste . Fra tutta questa gente, divisa dalle diverse ideologie, v'erano profonde rivalità elettorali vecchie piu di vent'aru1i. E interessi politici altrettanto vecchi, ridiventati attuali. In quei giorni risorsero rivalità e odi profondi che, negli anni a venire, avrebbero insanguinato con molti misteriosi omicidi la parte sud-occidentale dell'isola. L'iniziativa di La Loggia e dei suoi colleghi lasciò apparentemente immutata la situazione politica della Sicilia. E poi i governi alleati ritenevano che « Vittorio Emanuele e Badoglio sarebbero stati in grado di fare di piu per quella che era diventata la causa comune, di qualsiasi governo italiano formato da esuli o da avversari del fascismo » .5 In quanto agli ufficiali alleati che governavano la Sicilia, essi, oltre che ubbidire alle direttive generali dei governi anglosassoni, dovevano prendere atto di quelle che erano l'opinione pubblica e la realtà politica dell'isola: una straripante adesione all'indipendentismo . La forza separatista appariva cosl'. cospicua che il colonnello Gayre annotava sul suo diario: << il movimento separatista occupa davvero molta gente e pochi sono coloro che vi si oppongono fondatamente ...

ma

4 5

Cfr. GTARRIZZO, op. cit., p. 18. Cfr. W. CH'URCHILL, La seconda guerra mondiale, vol. I, Milano, 1951,

p. 202.

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i separatisti sono molto decisi con le parole, ma se lo fossero altrettanto con i fatti in 24 ore si libererebbero dall'Italia ».6 Partendo da questa realtà politica alcuni ufficiali alleati espressero comprensione verso il movimento indipendentista e lo appoggiarono ufficiosamente, mai ufficialmente. In quel tempo Lord Rennell of Rodd si ritenne in dovere di criticare il deputato inglese Sir Thomas Inskip che alla camera dei Comuni aveva espresso seri dubbi sulla scelta politica del Governo militare in Italia, ma soprattutto sulla consistenza del movimento indipendentista in Sicilia. In tale occasione il capo degli Affari Civili scrisse che Inskip « sembrava non voler credere che realmente ci fosse un movimento separatista siciliano. Ma a torto. C'era e c'è anche ora un forte movimento indipendendista il cui significato è una separazione dalla Corona e dal governo. Secondo me » concludeva Lord Rennell of Rodd, « ne ascolteremo delle belle su questo movimento separatista». Gli Alleati continuarono la loro politica di simpatia verso i separatisti anche se non a favore del separatismo. Ignorarono le richieste formulate dalle sinistre del Fronte della Libertà di «licenziare» gli esponenti separatisti dalle pubbliche cariche, almeno fino a quando l'opinione pubblica si fosse mostrata favorevole al M.I.S. Favorevole era anche la gente che contava politicamente. In una riunione tenutasi a Catania all'Hotel Bristol nei giorni 29 e 30 novembre, alla presenza di Charles Poletti, i prefetti dell'isola rifiutarono di firmare un ordine del giorno che chiedeva il passaggio della Sicilia all'amministrazione italiana. Gli unici firmatari del documento furono Cartia, prefetto di Ragusa, e Cammarata, prefetto di Caltanissetta. Nella stessa riunione i prefetti fornirono a Paletti i melanconici dati dell'ammasso del grano, meno di 100.000 quintali in, tutta l'isola, cioè il 2 o il 3% della normale produzione. Malgrado la presa di posizione dei prefetti era chiaro che si avvicinava il giorno del passaggio, formale ma non sostanziale, della Sicilia all'amministrazione italiana del governo Badoglio. La notizia che annunziava tale prossimo evento venne ufficialmente data da Mattarella al convegno democristiano tenutosi in casa Alessi a Caltanissetta il 16 dicembre. I partecipanti al convegno furono altresi informati della prevista nomina di un alto commissario per la Sicilia. La riunione fu tempestosa. La divisiope fra i presenti fu lacerante: v'erano unitari, autonomisti e indipendentisti e si stava per arrivare a una rottura del partito. Alessi, Tudisco, Caristia, La Ferlita, Pecoraro, Cortese, Aldisio si dichiararono rigidamente unitari. Una mozione di Milazzo, tendente a ottenere che il partito si facesse « promotore d'iniziative atte a conseguire al popolo siciliano l'imprescindibile diritto di decidere delle proprie sorti», fu violentemente avversata 6

Cfr. GAY.RE, op. cit., p. 159.

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e rigettata dagli unitari. La maggioranza approvò un ordine del giorno unitario di Mattarella e rimandò a un futuro congresso DC ogni decisione da prendere in merito alla pregiudiziale istituzionale. Milazzo, La Rosa, Marullo, Libertini e altri abbandonarono il convegno, ma non il partito. Dalla riunione, Salvatore Aldisio usci riconfermato capo indiscusso della DC siciliana. La minaccia d'una « restaurazione » italiana fu prontamente avvertita dai separatisti che tennero un convegno segreto nella Villa Tasca. Alla riunione erano presenti Finocchiaro Aprile e Termini di Palermo, Santi Rindone e La Rosa di Catania, G. Faranda e G. Stancanelli di Messina, D. Cigna, Guarino Amelia e A. Parlapiano Vella di Agrigento, Edoardo Di Giovanni di Siracusa, Mariano Costa di Trapani e Calogero Vizzini. La presenza del capo mafia don Calogero Vizzini indicava l'interesse che le cosche mafiose mostravano per il movimento separatista che, in quel momento, sembrava essere lo schieramento politico di maggior successo. (A conferma che le cosche mafiose si affiancano sempre, o almeno tentano di affiancarsi, con gli uomini o i partiti politici che detengono il potere.) La riunione dei separatisti si chiuse con un pubblico appello al1'amministrazione militare alleata con il qua1e si chiedeva che alla Sicilia venisse risparmiata « la sciagura di essere consegnata al cosiddetto governo Badoglio ». Nello stesso mese di dicembre arrivò in Sicilia una missione sovietica guidata da Andrea Wischinsky che rappresentava la Russia nella Commissione consultiva per l'Italia ed era membro del Comitato alleato per il Mediterraneo. Nella sua permanenza a Palermo Wischinsky ebbe esclusivi e segreti contatti politici col professor Montalbano, rappresentante del PCI, anche se non disdegnò incontri ufficiali con numerosi altri esponenti politici. Nell'isola si diffuse la notizia, prontamente ripresa e ingigantita dalla propaganda fascista della RSI, che la venuta di Wischinsky fosse dovuta a una richiesta russa di trasferire bambini dell'isola nell'Unione Sovietica, cosi com'era accaduto in Spagna durante la guerra civile (lo stesso accadde nel 1945 in Grecia). Com'era naturale la notizia provocò in Sicilia un fortissimo allanne e molta paura. Wischinsky, dopo aver preso conoscenza dei problemi dell'isola, disse a Montalhano, e lo confermò in un pubblico discorso tenuto a palazzo Pretorio, che la Russia voleva il passaggio della Sicilia all'amministrazione italiana e che si sarebbe opposta alla creazione di uno stato siciliano indipendente e alla modifica dello status quo mediterraneo «ameno di importanti contropartite». L'allusione alla contropartita era dovuta alle richieste che i sovietici avevano avanzato agli anglo-americani. I russi ritenevano superato il patto di Montreux 105


del J936 sulla navigazione del Bosforo e avevano chiesto di poter disporre di una base navale nel Mediterraneo in Sicilia, o in Sardegna o in Libia. O addirittura che gli inglesi cedessero la base di Gibilterra. La richiesta era stata seccamente rigettata dagli angloamericani. Era chiaro che questa schermaglia fra i componenti la malassortita alleanza contro Hitler era l'inizio di quelle complesse trattative che avrebbero portato agli accordi di Y alta e alla spartizione del mondo fra russi e americani. E dire che soltanto pochi mesi prima, con la proclamazione della Carta Atlantica, gli anglo-americani avevano solennemente affermato: « Inghilterra e Stati Uniti non desiderano mutamenti territoriali che non siano di accordo coi desideri liberamente espressi dalle popolazioni interessate»! Ai primi del 1944 l'iniziativa politica cominciò a sfuggire di mano ai separatisti. Il 10 gennaio le autorità alleate abrogarono quasi tutte le restrizioni alle attività politiche che erano state sicuramente pregiudizievoli per i partiti unitari. L'l 1 gennaio si fece avanti Vincenzo Vacirca con la sua Federazione Socialista Siciliana, versione americanizzata di un social-riformismo anticomunista. Gli ispiratori della Federazione di Vacirca erano il dipartimento di Stato e il sindacalista italo-americano Antonini. Tale Federazione Socialista fu una anticipazione della scissione socialista del 1947 fatta fare a suon di dollari appunto da Antonini. Vacirca presentò all'AMGOT un progetto per l'autonomia della Sicilia che gli Alleati avrebbero dovuto «imporre» al governo italiano. Nel progetto v'erano molte richieste che poi troveremo esaudite nello statuto regionale concesso alla Sicilia nel 1946, anche se poi non sono mai state messe in pratica per la mancata attuazione integrale dello statuto. Veniva richiesta la riforma degli organi amministrativi e di polizia giudiziaria con la creazione di una polizia regionale (secondo il vigente statuto regionale siciliano - art. 31 - il presidente della Regione è, formalmente, il capo delle forze di polizia dell'isola, sostanzialmente in materia di PS egli conta meno di uno scritturale di questura), un nuovo completo sistema giudiziario, favorevoli dazi doganali, perequazione di tasse e tributi. Al governo italiano era lasciato il compito di provvedere alla politica estera e a quella militare, e alle grandi opere pubbliche. E di disporre di organi di controllo, non di veto, attraverso un commissario generale. Per la buona riuscita del suo progetto, Vacirca si faceva forte dell'appoggio del dipartimento di Stato americano e dell'attività prestata nelle file del servizio segreto USA che gli aveva consentito il rientro in Sicilia mentre erano · ancora in corso le operazioni militari nell'isola.7 Ma il progetto Vacirca si attirò l'ostilità dei due opposti schiera, Lettera all'A. di Max Biagio Corvo, comandante operativo dcll'OSS prima in Sicilia e poi nella penisola.

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menti. Finocchiaro Aprile, per tener fede alle posizioni rigidamente indipendentiste lo avversò, anche se il progetto esponeva chiaramente la tesi di uno Stato sovrano (la Sicilia) legato da patto federativo con un altro Stato sovrano (l'Italia) (ragionamento che varrebbe anche per l'attuale statuto siciliano se ci fosse una precisa volontà politica dei partiti rappresentati a Sala d'Ercole). In quanto a La Loggia e ai suoi atnici del Fronte Unico, essi attaccarono Vacirca perché erano contrari a ogni forma di parlamentarismo regionale, ma favorevoli alla creazione d'una consulta con alcuni compiti di carattere economico e sindacale che avevano lo scopo di giungere a una « giustizia sociale regionalmente perequata ». Tutte le tesi e le controtesi avevano generosi intenti e nobili aspirazioni per il futuro, specialmente economico, dell'isola; erano però assenti i richiami, e le soluzioni, alla gravissima situazione sociale ed economica che pesava sulla Sicilia. Infine il 28 gennaio 1944, col sospettoso permesso della Commissione Alleata di Controllo, ebbe luogo, organizzato dal Partito d'Azione, quello che fu chiamato il « Congresso di Bari ». Il quale avrebbe dovuto rappresentare una presa di contatto fra i movimenti politici dell'Italia meridionale e non certo, come si disse allora, un'« Assemblea Costituente». Gli Alleati, anche se concessero il loro permesso all'ultimo momento, si diedero da fare per mettere a disposizione i mezzi di trasporto perché i « delegati » potessero partecipare alla manifestazione. La delegazione della Sicilia orientale, formata dai DC Franz Carcaci e Giuseppe Agnello, il socialista Albergo, il democratico del lavoro Longhitano, l'azionista Palmisciano e il repubblicano Rinaldi, usufrui di un aereo militare inglese che da Catania volò direttamente all'aeroporto di Bari. Meno fortunata, la delegazione della Sicilia occidentale, guidata da Aldisio, fu costretta ad affrontare un disa~ stroso viaggio in auto e giunse a Bari a Congresso iniziato. Il Congresso di Bari, definito « rappresentativo e democratico » non fu in realtà né l'uno né l'altro. I delegati si erano autonominati tali e rappresentavano se stessi o piccole conventicole. I lavori si svolsero in un'atmosfera d'estrema confusione al Teatro Piccioni di Bari, severamente piantonato da una dozzina di polizie militari di tutto il mondo: v'erano « berretti rossi» americani e inglesi, « Navy Patrols », policemen indiani col turbante bianco, carabinieri italiani, MP del corpo di spedizione polacco e di reparti di colore ... A presiedere i clamori e i tumulti dell'Assemblea furono chiamati Alberto Cianca e Tito Zaniboni; quest'ultimo vantava il singolare merito di avere progettato un attentato contro Mussolini. Un tizio propose, con grande ingenuità, di procedere alla veri.fica dei mandati: « Fu un istante di generale costernazione: bisognava confessare pub107


blicamente che ogni mandatario era rappresentante di se stesso e non già rappresentante di popoli, genti e paesi come pretendeva ».8

Parlarono Croce, Sforza, Tarchiani, Rodinò e numerosi altri. Risultato dd Congresso furono accesi discorsi contro la monarchia, una richiesta d'immediata abdicazione cli Vittorio Emanuele e la costituzione cli una giunta esecutiva composta da sei partiti: Democrazia dd Lavoro, Democrazia Cristiana, liberali, comunisti, socialisti, Partito d'Azione. Il primo atto ufficiale della giunta, embrione dei Comitati di Liberazione nazionale e dell'attuale arco costituzionale, fu quello di mettersi agli ordini della Commissione Alleata cli Controllo, cli intrigare con essa e Badoglio per futuri incarichi ministeriali e di inveire contro il re chiedendone l'abdicazione. A Bari, Aldisio e altri delegati siciliani trattarono il loro ingresso nd « futuro prossimo » governo Badoglio. Pochi giorni dopo la baraonda di Bari, a partire « dalle 00,1 ddl'undicesimo giorno cli febbraio 1944 » cessava formalmente cli funzionare il governo militare alleato in Sicilia. Avvenne però che il 1O febbraio un comunicato ufficiale dd governatore Charles Poletti avvertiva che « dagli ordini e dalle disposizioni dd governo italiano è esclusa la Sicilia>>. Quarantott'ore dopo, il 12 febbraio, gli Alleati precisarono che « anche la Sicilia era trasferita all'amministrazione italiana ». Un proclama del generale Alexander avvertiva che l'AMGOT, nonché i proclami e le ordinanze da esso emessi, avevano fine. L'amministrazione della Sicilia passava al governo italiano « fermo restando i poteri, i diritti e immunità delle Nazioni Unite, del comandante in capo delle forze alleate e delle Commissioni di controllo ». Sostanzialmente non cambiava nulla, gli Alleati erano sempre i padroni. Lo stesso giorno, in un proclama diretto alle popolazioni delle regioni che tornavano sotto l'amministrazione italiana, Badoglio riconosceva validi e legali tutti i bandi, i decreti, le ordinanze e le sentenze giudiziarie dell'AMGOT: « Quelle che fossero le delusioni, il ritorno all'amministrazione italiana, rese il ricordo dell'AMGOT, al confronto, quasi idillico. Il paese era affamato, il brigantaggio aveva assunto proporzioni imponenti, la maggior parte delle amministrazioni locali era tornata nelle mani dei vecchi notabili ». In questo contesto si inseriva l'azione, definita da taluno arrogante e spregiudicata, dei C.LN ., aggravata dalla continua rissa interna fra i partiti che li componevano. Era ormai chiaro che il momento magico era sfuggito dalle mani del movimento indipendentista. Il M.I.S. passò al contrattacco con a DuCA DI I08

CAB.CACI, op.

cit., p. 56.


l'imponente manifestazione del 13 febbraio 1944 al Teatro Massimo di Palermo. Finocchiaro Aprile fece un lunghissimo excursus sulle « ragioni della Sicilia». La conferenza, piu che discorso, fu prolissa e carica di riferimenti retorici, letterari, storici e rievocativi-personali. Alla fine la voce del capo separatista si fece minacciosa e Badoglio e il suo governo avrebbero capito presto che non si trattava di vane parole. Finocchiaro Aprile chiuse il suo discorso avvisando che, in certe circostanze, i separatisti avrebbero reagito: Con aperta e completa disubbidienza o resistenza passiva agli ordini del governo Badoglio. 2. Col rifiuto dei militari di presentarsi in caso di mobilitazione generale o di chiamata alle armi: « dappoiché i siciliani non potranno piu servire sotto le insegne imbrattate di fango di un re fedifrago e fe}. Ione». 3. II diniego « dei contribuenti di pagare le tasse e le imposte statali». 1.

Ma già il 10 novembre 1943 la Commissione Alleata di Controllo aveva autorizzato il trasferimento della divisione di fanteria « Sa· baudia » dalla Sardegna alla Sicilia. Il trasporto della divisione, completato solo il 21 dicembre, ebbe luogo con l'impiego dell'incrociatore Montecuccoli (600 uomini a ogni viaggio), il caccia Velite, una nave Liberty e sei LST britanniche.9 Il 15 gennaio 1944 la divisione «Sabaudia )> era cosi distribuita in Sicilia: comando a Enna con distaccamento comando a Catania. Comandi inferiori a Palermo, Caltanissetta, Piazza Atmerina, Messina, Belpasso, Caltagirone, Calasdbetta, Aidone, oltre a distaccamenti nei vari aeroporti. · Gi~ il 10 gennaio reparti del 46° fanteria formavano guardia fissa a Palermo: presso la Caserma Marina, all'Uditore, alla Centrale elettrica di Piana degli Albanesi, agli Ospedali americani n. 2 e n . 34 della Feliciuzza. Altri posti di guardia erano al deposito americano di Monte Pellegrino presso le stazioni ferroviarie: Centrale, Lolli, Marittima e Brancaccio, e alle polveriere di Villagrazia, Altofonte, Lercara Friddi e Scolilli. Inoltre i fanti della <(Sabaudia)> provvedevano ad assicurare servizi vari e di scorta. A Messina il II/45° sorvegliava la B.I.S ., la capitaneria di porto, l'ex palazzo Littorio, i depositi di oli e carburanti, il R.E.M.E. e vari istituti e collegi della città: lgnatianum, Don Bosco, Casa dello 9 Queste e altte notizie risultano dal diario storico della divisione « Sabaudia » dal quale sono estrapolati quasi tutti i documenti. Venne escluso dal trasferimento in Sicilia il 345° rgto. Fanteria, già CLXXVI Legione MVSN, che rimase in Sardegna incorporato nella 203a divisione costiera. (Erano stati congedati gli uomini delle classi dal 1907 al 1912. I congedati dovevano consegnare tutti gli effetti militari e fare ritorno a casa in abiti civili.)


Studente, Capo Italia ecc., diventati sedi di comandi e di uffici

militari. A Catania altri reparti del 45° fanteria ponevano posti fissi di guardia alle stazioni Centrale e Acquicella e al porto e provvedevano alla scorta del treno Catania-Siracusa. Per ordine del ten. col. Tennent GSO del I distretto britannico militare di Catania (gli ordini alle truppe italiane venivano impartiti dai comandi alleati, comandante del distretto di Catania, 51° Carrier Wing, 56° Area e SCAO di Catania era il generale Heidemann) corpi di guardia della « Sabaudia » venivano istituiti anche negli aeroporti di Catania, Gerbini, Comiso e Ponte Olivo. Nello stesso tempo venivano create colonne mobili per « azioni antiparacadutiste e di servizio di ordine pubblico ». In una nota operativa inviata dal comando della « Sabaudia » al I distretto britannico (Catania) (come si può leggere nell'allegato n. 7 del 22 gennaio 1944 del « Diario Storico » della divisione « Sabaudia ») si relazionava l'occupante straniero che « dato il malcontento esistente tuttora nella popolazione siciliana» la costituzione di colonne mobili, tutte autotrasportate, nonché l'impiego d'interi reparti, davano sufficienti garanzie che l'ordine pubblico potesse essere mantenuto e comunque ristabilito qualora fosse necessario. La relazione poi lamentava un'intensa propaganda da parte « dei siciliani », « per fare allontanare dalle file i nostri soldati, promettendo loro o il passaggio dello Stretto con minima spesa o possibilità di lavoro in Sicilia ». La relazione aggiungeva che « la popolazione portata alla sfiducia » viveva esercitando traffici clandestini. I prezzi erano « in costante aumento», i generi razionati venivano distribuiti irregolarmente, tutti erano « costretti a ricorrere al mercato nero che viene pubblicamente esercitato » e la gente era ormai convinta che si potesse svolgere impunemente « qualunque attività contraria alla legge ». Il documento terminava affermando che se non si poneva termine alla insostenibile situazione « certamente si avranno torbidi di portata imprevedibile» . Con l'arrivo in Sicilia della divisione « Sabaudia» apparve nell'isola il generale Berardi, esponente dell'esercito del Sud. Berardi si spinse a visitare l'atroce campo di Priolo. Ma non per fare liberare i disgraziati prigionieri o comunque per alleviare le loro pene, ma in cerca di personale per la mensa del suo comando. I prigionieri accolsero l'incauto generale con una valanga di insulti e lo coprirono con una prodigiosa quantità di sputi. Berardi si lamentò con il comandante italiano del campo, colonnello Andrea Leto, ma ottenne una sorprendente onesta risposta: « Eccellenza » gli disse Leto, « ringrazi il cielo che qui manca l'acqua, i prigionieri soffrono la IXO


sete e hanno la bocca secca; altrimenti Lei sarebbe annegato negli sputi! ». Purtroppo alla ridicola figura che si era andato a cercare Berardi, si contrapponeva la tragica situazione che si andava delineando in tutta la Sicilia: il ricorso alla repressione militare, antico e sempre attuale strumento di governo dell'isola. Nel gennaio 1944 scoppiarono disordini causati dalla fame a Canicatti che furono a stento sedati dalla forza pubblica; lo stesso avvenne a Raffadali e a Ganci. Il 3 marzo ci fu una manifestazione a Caltanissetta, con un'imponente massa di popolo che al grido « Pane! Pane! » si abbandonò ad eccessi. Fu necessario richiedere l'intervento di 300 uomini del 16° reggimento artiglieria. Cinque giorni dopo altri cento artiglieri dovevano correre a Villarosa per tenere a bada la popolazione affamata in rivolta. Il 31 marzo, a Partinico, un maresciallo dei carabinieri e un ragazzo rimasero uccisi nel corso d'una manifestazione contro gli accaparratori di grano. La forza pubblica arrestò numerosi comunisti locali accusati d'aver fomentato la manifestazione e d'avervi preso par~. . Il 19 aprile una folla di manifestanti assediò il municipio di Naso con l'intento di poter mettere le mani addosso al commissario prefettizio. Una bomba scoppiò in piazza e i carabinieri chiusero la sede del partito comunista e arrestarono una trentina di elementi di sinistra. Il 27 maggio gravi fatti avvennero a Regalbuto nel corso di un comizio di Finocchiaro Aprile. Il comizio era nel chiuso di un teatro ed era già alla fine quando in paese giunsero un paio di autocarri pieni di gente armata. Erano comunisti e monarchici, quest'ultimi reclutati a Catania dal principe Flavio Borghese, &atello di Valerio, il principe nero della X Mas. Alla provocazione partecipavano militari in borghese della «Sabaudia». V'era anche una camionetta dell'esercito con due ufficiali armati di mitra. I nuovi arrivati cercarono di invadere il locale dove si teneva il comizio separatista, ma i carabinieri in servizio d'ordine si opposero e aprirono il fuoco. Ne seguf una grande confusione con altri spari, poi la folla si diede alla fuga. Rimasero a terra un morto, colpito alla nuca e due feriti. Poco distante cadde uno dei comunisti che aveva partecipato all'assalto del teatro ed era stato rudemente trattato dai carabinieri. Era tale Melisenna, fulminato da un crisi cardiaca. Nelle sue tasche furono trovate una pistola con un colpo mancante e una bomba a mano. L'jnfartuato Melisenna (e non il poveraccio colpito alla nuca), « fu innalzato agli onori del martirio, e furono intitolati a costui cooperative e circoli comunisti ».10 Infine il 28 maggio, a Licata, una folla d'esasperati braccianti 10

Cfr. F'ItANz

CARCACI,

op.

cit. III


agricoli e di mietitori disoccupati diede l'assalto all'ufficio comunale di collocamento i cui funzionari erano accusati di favoritismo e di corruzione. In quell'occasione furono devastati l'esattoria e l'ufficio imposte che ebbero tutti gli incartamenti distrutti. L'intervento della forza pubblica fu durissimo, provocando tre morti e quindici feriti. Poi, poliziotti, carabinieri e soldati rastrellarono il paese casa per casa e arrestarono centoventi persone, fra queste v'era il presunto istigatore della rivolta, tale Giuseppe Mucia. Nei mesi successivi, il Comitato Nazionale del M.l.S. rivolse un appello ai ministri degli Esteri dei paesi alleati per denunziare il comportamento del governo italiano che aveva instaurato in Sicilia « il regime della piu abominevole oppressione». Al M.I.S. venivano << negate le libertà» e praticate « violenze d'ogni genere». La libertà di stampa concessa a tutti i partiti veniva vietata agli indipendentisti ai quali veniva negato « di pubblicare un solo giornale». Cosf come veniva loro vietato « anche il piu insignifìcante manifesto». Le tipografie « erano quotidianamente perquisite dalla polizia » per impedire la stampa di materiale di propaganda separatista. E ancora: ai separatisti veniva interdetto « il diritto di riunione », gli aderenti al M.I .S. « minacciati, perseguitati, o anche aggrediti, come avvenuto a Regalbuto dove subivano un'aggressione da una banda di comunisti e monarchici, fra i quali erano ufficiali della divisione "Sabaudia" tutti armati di fucili mitragliatori e di rivoltelle ... ». Le città siciliane erano « come in stato di assedio ... un enorme numero di carabinieri e di agenti di PS, di ufficiali e di militari dell'esercito italiano con atteggiamento provocatorio ... mentre si farebbe molto meglio a dar loro un compito sui fronti di battaglia ... ». Iofine il messaggio affermava che il governo italiano stava « svuotando la Sicilia d'ogni cosa ... carri ferroviari, autobus, automobili, turbine elettriche, impianti industriali, materiali e merci di ogni genere », che venivano portati « in ·continente >>. Ma le proteste dei separatisti non provocarono nessun effetto. Inoltre dal 6 marzo 1944 il XII corpo d 'armata badogliano del generale Mariotti aveva ricostituito il Comando Militare Sicilia (posta militare 126) procedendo all'installazione di tribunali militari. Altri tristi tempi si preparavano per la Sicilia.11 11 Sin dal 4 ottobre 1943 il capo di S. M. generale Ambrosia, fuggito da Roma e riparato a Brindisi, aveva fatto ricostituire i tribunali militari. Nello stesso tempo veniva emesso un bando con il quale si faceva obbligo ai militari sbandati « in seguito alle circostanze dell'8 settembre » di presentarsi alle autorità militari italiane. Chiunque non avesse ottemperato a tale ordine sarebbe stato considerato disertore e punito con le pene previste dall'articolo 146 del codice penale militare di guerra aumentate da un terzo alla metà. (L'art. 1~ Diseroone fuori della presenza del nemico prevedeva non meno di cinque anru di reclusione militare.)

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VII. LA SICILIA RITORNA SOTTO L'AMMINISTRAZIONE DEL GOVERNO ITALIANO. STRAGE DEGLI INNOCENTI IN VIA MAQUEDA A PALERMO « La Sicilia mi è sembrata un paradiso governato da Satana. » (AGOSTINO DEPRETIS)

L'8 marzo 1944 il prefetto di Palermo, Francesco Musotto, venne nominato, da Badoglio alto commissario governativo per la Sicilia. Pare che la scdta sia caduta su Musotto dopo il fermo rifiuto opposto dal professor Baviera al ministro dell'Interno, Vito Reale, che lo sollecitava ad accettare la carica. · Musotto godeva dell'appoggio della Commissione alleata di controllo, ddle simpatie di partiti politici e anche ·del movimento separatista (e, pare, di certi ambienti para-mafiosi delle Madonie}. Egli era un uomo integro ed equilibrato; soltanto le sinistre lo avversavano rimproverandogli una certa simpatia per il movimento separatista e un antifascismo tiepido. Fra l'altro dicevano che era stato Musotto a persuadere Vittorio Emanuele Orlando a entrare nel listone fascista di vent'anni prima. Fossero vere o no le accuse dei suoi avversari, Musotto restava una persona moderata che aveva sicuramente a cuore il bene dell'isola e delta sua popolazione. Inoltre egli assumeva un compito gravosissimo che pochi altri avrebbero avuto il coraggio di assumersi. Un compito i cui risultati, a causa delle circostanze, avrebbero avuto il destino di non poter accontentare nessuna delle forze politiche. A onor del vero, se Musotto aveva precedentemente mostrato simpatia per la causa separatista, appena egli assunse il nuovo inca· rico manifestò una decisa evoluzione politica, prendendo le debite distanze dall'indipendentismo ufficiale ed esercitando senza faziosità e con assoluta imparzialità il suo alto incarico. Tanto che in una trasmissione radio della RSI, chiamata « Radio Tevere», lo speaker fascista, in polemica con la trasmissione « Italia combatte» di « Radio Bari » che incitava. le popolazioni del Nord alla guerriglia e all'uccisione indiscriminata dei « fascisti », doveva ammettere: « Anche noi potremmo fare come "Radio Bari" e incitare la gente al terrorismo. Per esempio: potremmo dire di assassinare Musotto, alto commissario per la Sicilia. Ma per qual motivo? Musotto è un galantuomo e fa quello che può per alleviare le sofferenze dd popolo siciliano ... »

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Musotto si insediò il 30 marzo alla presenza del capo del governo Badoglio venuto appositamente in Sicilia. Il vecchio maresciallo visitò poi altre città siciliane incontrandosi con autorità, funzionari ed esponenti politici. A Catania, Badoglio ebbe un incontro con i dirigenti del M.U.I. (Movimento Unitario Italiano) che contrastava duramente il movimento separatista. Il colloquio ebbe luogo nella villa del prefetto in corso Italia. In tale occasione pare che gli esponenti del M.U.I. abbiano chiesto armi per combattere i separatisti ricevendo vaghe promesse e l'apertura di contatti con il SIM (in ogni modo alcuni mesi dopo il M.U .I., accusato di neo-fascismo dalle autorità inglesi, venne sciolto e i suoi esponenti arrestati e, senza processo, spediti al campo di concentramento di Padula) . L'alto commissario Musotto godeva della collaborazione di una commissione consultiva nominata il 21 aprile i cui componenti erano: Salvatore Aldisio, che dal 12 febbraio era prefetto di Caltanissetta al posto dell'avv. Cammarata, nominato commissario regionale all'alimentazione, il prof. Salvatore Altomare, il prof. Andrea Guarnieri, il prof. Enrico La Loggia, l'avv. Bernardo Mattarella, l'avv. Salvatore Monteforte, il prof. Giuseppe Montalbano, l'avv. Vincenzo Saitta, l'avv. Francesco Taormina. Il giorno dopo la nomina della Commissione consultiva per la Sicilia venne formato il nuovo governo Badoglio che aveva come ministro dell'Interno Salvatore Aldisio e il catanese Albergo sottosegretario alla marina mercantile (saputo dell'incarico ministeriale i lepidi concittadini del neo sottosegretario gli riempirono l'auto d'allusive barchette di carta). Aldisio condizionò la sua accettazione della carica al riconoscimento di massima, appena possibile, del regime autonomistico per la Sicilia. L'attività di Musotto coincise con un apparente miglioramento commerciale. Nelle vetrine e negli scaffali dei negozi cominciarono a riapparire alcune merci scomparse da tempo: Solo che i prezzi rimanevano inaccessibili alla quasi totalità dell'immiserita popolazione che riusciva a stento a procurarsi, col mercato nero, gli indispensabili pane e pasta. L'alto commissario tentò la strada di un calmiere regionale dei prezzi. Tale iniziativa ebbe poco successo, anche se per il controllo e l'applicazione del calmiere i privati cittadini furono chiamati a formare ~< squadre di vigilanza» che avevano il compito d'affiancare l'azione annonaria di carabinieri, guardie di finanza e vigili urbani. I «vigilantes» ebbero buon gioco contro i piccoli esercenti e i bancarellari dei mercati, ma furono facilmente sconfitti e dispersi dagli accaparratori e da grossi borsaneristi e speculatori. Alla fine dell'estate Musotto dispose l'aumento del 50% degli assegni familiari e delle pensioni che vennero rivalutate in misura


variabile dal 53% al 70%. (Aumenti di salari e stipendi erano stati disposti dall'ufficio del lavoro di Palermo a fine ottobre 1943. Ma nessun datore di lavoro aveva accettato e applicato tale aumento. All'inizio del 1944 PAMGOT aveva decretato una sistemazione provvisoria delle retribuzioni, con aumenti a valere nel corso del 1944, in misura variabile dal 38% al 70%. Ma erano tutti provvedimenti chiaramente insufficienti e largamente in ritardo a confronto con l'inflazione travolgente.) Per la stagione granaria 1944 il governo stabili un provvedimento di conferimento obbligatorio di prodotti agricoli che prese il nome, intriso di demagogia, di « granai del popolo» (che era uguale a quello fascista che aveva avuta l'autoritaria denominazione di « ammasso »). Il decreto portava la data del 2 maggio 1944 e si dilungava in una complicata serie di articoli repressivi: l'art. 1 stabiliva le pene per gli evasori dei « granai », reclusione da « sei mesi a sei anni», e multa pari a venti volte il prezzo legale della quantità sottratta « non inferiore, nel minimo, a lire cinquemila». Tutto questo oltre alla confisca dei cereali sequestrati e alla perdita del diritto alle trattenute per uso familiare. Gli altri articoli del decreto erano maggiormente severi, fino ad arrivare al decadimento dalla conduzione agricola per affittuari, mezzadri e coloni evasori. Il prezzo di conferimento per il grano era stato stabilito in L. 1.000 al quintale per il grano duro e L. 900 per il grano tenero. Per le province siciliane veniva stabilita una quantità minima di conferimento in 3.100.000 quintali. Si diceva che due terzi di tale quantitativo sarebbero stati. sufficienti per assicurare una razione quotidiana pro capite di 200 g di pane e 100 g di pasta. S'era tenuto conto del passaggio della guerra e dei danni sofferti dalle colture, dalle mancate semine, dalla carenza di fertilizzanti, di macchine e di animali per lavorare la terra. Non s'era tenuto conto che il prezzo di conferimento era assolutamente insufficiente in rapporto ai costi di produzione, del costo della vita in perenne ascesa e dell'allettante richiamo del mercato nero. Una proposta, avanzata dal commissario regionale all'alimentazione Cammarata, prevedeva maggiori prezzi per i cereali conferiti ai « granai ». Con un prezzo politico per il pane e la pasta da riservare alle categorie meno abbienti e ai lavoratori a reddito fisso, cioè per la gran parte della popolazione. Ma la proposta del prezzo politico venne ignorata perché avrebbe comportato un gravoso onere per le finanze pubbliche. I separatisti, temendo che il conferimento ai « granai del popolo» avrebbe potuto pregiudicare l'autosufficienza alimentare della popolazione siciliana, iniziarono un'accesa, e ben accolta, azione di IIJ


propaganda. Incitarono apertamente all'evasione con lo slogan: « Siciliani, il vostro grano sarà portato via, in continente. Difendetevi difendendolo ». I « granai del popolo», cosi com'era avvenuto per l'« ammasso» fascista, si rivelarono un fallimento completo, tanto in Sicilia quanto nel resto d'Italia. Ai «granai» della Sicilia fu conferito circa un milione di quintali di frumento, cioè meno di un terzo della · prevista quota minima e pari a un quinto della reale produzione . globale. L'azione repressiva contro gli evasori dei «granai», quelli piccoli perché i grandi evasori allora, come sempre, godevano di una sorprendente immunità, fu duta e di vastissima proporzione. La repressione veniva pubblicizzata dai giornali dell'isola con rubriche quotidiane e lunghi elenchi di sequestri, arresti e condanne. L'antico giornale palermitano « Il Giornale di Sicilia» (riapparso nelle edicole il 12 giugno - costava due lire - con la scomparsa del quotidiano dell'AMGOT « Sicilia Liberata») riportava che al 15 luglio i carabinieri della VI brigata avevano denunciato 1.519 persone e le guardie di Finanza della 13a legione 104. Il 27 luglio una retata effettuata a Palermo portò all'arresto di altre 108 persone. Il « Corriere di Sicilia» di Catania, dal 19 luglio al 18 agosto, cioè in appena un mese, riportò 350 condanne per complessivi 410 anni di reclusione. Il pretore di Ramacca condannava alla stessa pena tanto il piccolo quanto il medio evasore: 3 anni di arresto e 30.000 lire di multa. La stessa pena valeva « per trasporto indebito di 49 chili di frumento » (« Corriere di Sicilia », 26 luglio 1944). Il « Giornale di Sicilia » nella sua quotidiana rubrica « severe condanne ad evasori di granai » riportava i nomi degli evasori e le quantità di cereali oggetto di mercato nero, in genere uno o due quintali, e la conseguente condanna: molti mesi di carcere e migliaia di lire di multa. Le pene variavano poi, con l'intramontabile sistema italico, a seconda delle preture e dei pretori. Per reati concernenti la medesima quantità di cereali in un posto venivano comminati mesi di carcere, in un altro anni. « ... nel catanese, nel semestre dal giugno al novembre 1944, furono arrestati quasi duemila evasori... in tutto il 1944 nella sola giurisdizione della Corte di Appello di Catania i tribunali emisero 7864 sentenze, i pretori 12.275 sentenze e 12.280 decreti penali. »1

Gli amministratori comunali furono ritenuti responsabili del buon esito dei conferimenti e nei comuni dove maggiore appariva t

Cfr. S. DI MATTEO, op. cit., p. 232.

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l'evasione ai granai i sindaci furono destituiti e deferiti alle commissioni per il confino di polizia. Ciò avvenne a San Cono, Castel di Judica, Grammichele, Gela ... Le carceri erano piene di detenuti fino a scoppiare. All'irrisolubile problema alimentare s'aggiungeva la gravissima situazione dell'ordine pubblico. Problema sempre presente in un paese povero e mal governato come la Sicilia, che in quel momento di gravissima crisi generale aveva raggiunto dimensioni storiche. Del problema dell'ordine pubblico s'era a lungo discusso nel convegno dei sindaci e dei presidenti delle deputazioni provinciali che si tenne a Palermo il 4 giugno 1944 sotto la presidenza di Lucio Tasca. In tale occasione una relazione, approntata da Guarino Amelia, riassumeva in undici punti le iniziative da prendere contro la criminalità dilagante. La relazione sottolineava l'esigenza d'adeguare il prezzo del grano alle necessità agrarie e a quello del pane e della pasta, e le razioni giornaliere ai bisogni alimentari e alle possibilità economiche delle popolazioni. Una coperta troppo corta che, se copriva le spalle, lasciava scoperti i piedi e viceversa. Nel documento v'erano poi tutte quelle altre proposte che vengono puntualmente presentate in tempo di crisi dello Stato e quindi crisi sociale oltre che di sicurezza pubblica : il reclutamento di nuovi poliziotti, il garantire alle forze di polizia migliore retribuzione e alimentazione, armi moderne, mezzi celeri di trasporto, ecc. Infine Guarino Amelia avanzava alcune, sorprendenti, richieste: l'inasprimento e l'intensificazione dei provvedimenti di confino di polizia e la costituzione di corpi privati di polizia, come dire altri « vigilantes», stavolta armati, al servizio dei ricchi e dei potenti. Il che tradotto in lingua siciliana equivaleva a « bonache », « compagni d'artne », « guardaspalle», « battitacchi», « campieri »; impunita e truculenta sbirraglia mafiosa di tutti i tempi e sempre al servizio del potente. Ma, grazie a Dio, qualsiasi iniziativa doveva fare i conti, oltre che con la pubblica opinione, anche con i numerosi giornali che avevano visto la luce con la cessazione ufficiale dell'AMGOT. Da marzo in poi erano apparsi « La Voce Comunista » diretta da Franco Grasso, « Popolo e Libertà » diretto dal DC Mattarella, « La Voce Socialista» di Gioacchino Giordano, « L'Azione del Popolo», azionista di Vincenzo Purpura, il governativo « Giornale di Sicilia» di Ardizzone, « L'Ora nuova» demolaburista di Gaetano Salanitro e « Ricostruzione Liberale» di Lauro Chiazzese. V'erano poi numerosi altri settimanali o periodici; fra questi i piu importanti furono il satirico « Il Becco Giallo » e i fogli economici « Sicilia Agricola » e « L'Economia siciliana ».

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11 4 giugno, con la liberazione di Roma, re Vittorio Emanuele si ritirava e nominava luogotenente del Regno il figlio Umberto I. Il governo Badoglio presentava le dimissioni. Il nuovo governo, espressione del C.L.N. con il necessario consenso della Commissione Alleata di Controllo, era presieduto da Ivanoe Bonomi con ministri designati dai partiti ciellenisti. Tranne i monarchici, e i repubblicani che non volevano collaborare con la monarchia. Poiché nel nuovo gabinetto non vi erano ministri siciliani, il governo chiamò due autorevoli siciliani, Vittorio Emanuele Orlando e Pietro Tornasi della Torretta, a presiedere due organismi fantasmi: la Camera dei Deputati e il Senato del Regno. {In quel momento un buon numero di deputati - consiglieri nazionali - e senatori, era in galera o nei campi di concentramento delle due parti in cui era divisa l'Italia.) La nomina dei due siciliani sembrava, apparentemente, inutile, ma faceva riacquistare alla Corona il diritto di scegliere il primo ministro dopo le consultazioni di rito coi presidenti dei due corpi rappresentativi. Nell'estate del 1944 l'inflazione nell'Italia «liberata» raggiunse livelli drammatici. Il costo della vita superò indici sconvolgenti: 4.000 contro i 100 del 1938! (Nel territorio controllato dalla repubblica fascista e dai tedeschi tale indice era di 850 contro 100.) La situazione alimentare era cosf preoccupante che papa Pio XII rivolse un appello al mondo perché si aiutasse l'Italia che soffriva la fa.me fisiologica con un tasso di mortalità in inarrestabile ascesa. La tragica situazione economica ed alimentare era aggravata dal caos politico. La grande importanza politica e di potere assunta dai C.L.N. provocò la rottura del precario equilibrio politico che si era raggiunto in Sicilia. I partiti che componevano i C.L.N. non avevano radici locali, erano formati da gruppetti di uomini sempre in fiero contrasto di interessi fra di loro e con aspirazioni di classe dirigente emergente. In quel momento gli uomini del C.LN. si battevano per sostituire nelle cariche coloro che erano stati nominati dall' AMGOT. Il C.LN. di Palermo aspirava all'assunzione del potere politico su tutta la Sicilia, ma veniva avversato dai C.LN. di Catania e degli altri capoluoghi isolani. Ebbe allora inizio il braccio di ferro fra il C.L.N. palermitano e l'alto commissario Musetto che veniva adesso accusato apertamente e ingiustificatamente di incapacità. d'inerzia politica, oltre che di sentimenti separatisti. In verità Musotto, o chiunque altro al suo posto, avrebbe potuto fare ben poco piu di quel tanto che era stato fatto. In mezzo a un iniquo coro di voci ostili verso Musotto soltanto il « Giornale di Sicilia » dimostrava pacatezza ed equilibrio affermando che l'opera di Musotto era stata sempre al disopra della

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mediocrità, del tornaconto e deJl'egoismo delle patti m contrasto . E sempre « illuminata e riscaldata dall'amore per la propria terra e dalla purezza del proprio costume ». Ma la situazione palitica era ormai definitivamente cambiata e gli uomini dei C.L.N. ne approfittavano in tutti i modi. I loro oppasitori ribadivano che la pretesa ciellenista di monopolizzare la cosa pubblica era infondata oltre che ridicola. La formula C.LN. poteva andar bene nel Nord I talla ancora nelle µiani di fascisti e tedeschi; ma che valore avrebbe potuto avere in Sicilia? Tanto piu che in Sicilia erano stati gli eserciti alleati a distruggere il regime fascista e non certo la propaganda o l'azione, anche fiancheggiatrice, di gruppi politici. I C.LN. non solo non avevano concorso in alcun modo alla liberazione dell'isola, ma in quanto originati da autoinvestitura non esprimevano nessuna designazione o consenso da parte della papolazione. Infine i C.L.N. parevano cosf arroganti e tanto poco democratici da negare l'ingresso ad altre formazioni politiche oltre ai sei partiti che li componevano. (Ecco l'origine «storica» dell'arco costituzionale.) Mentre s'infiammava il contrasto fra i C.LN. e i loro avversari, il Consiglio dei ministri, in data 17 luglio, approvava a maggioranza, con l'astensione dei socialisti Saragat e Mancini, la nomina di Salvatore Aldisio ad alto commissario della Sicilia. In poco piu di un anno il notabile siciliano ne aveva fatta di strada! Dalla villetta di Capo Soprano, dove la mattina dello sbarco gli ufficiali alleati erano venuti a fargli visita di cortesia, alla piu alta carica politica e amministrativa dell'isola. A dir la verità si arrivò alla nomina di Aldisio dopo non pochi contrasti e con la rinunzia di altri candidati. La Loggia aveva dovuto rinunziare a causa del veto posto sul suo nome dagli Alleati e l'avvocato Salvatore Tessitore, noto antifascista e direttore del giornale «L'Ora» fino al 1926, aveva declinato l'incarico con le parole: « Nori sono stato capace di sistemare le mie cose, figuriamoci se posso mettere a pasto la Sicilia! ». La nomina di Aldisio significò la ferma presa di posizione del governo e del C.L.N. romano contro il pericoloso movimento eversivo dell'indipendentismo siciliano. Movimento che veniva considerato responsabile e istigatore della grave agitazione permanente della popolazione siciliana e di tutte le clamorose manifestazioni che a tale agitazione venivano collegate: tumulti per il carovita, fallimento dei granai del popalo, rinascita del brigantaggio e della mafia e, come vedremo presto, renitenza massiccia dei richiamati alle armi, insur· rezione popolare e guerriglia. A nessuno di Roma venne in mente che era esattamente il contrario, che il movimento separatista era effetto del profondo disagio della popolazione e non causa.


L'insediamento di Aldisio nella carica di alto commissario significò guerra aperta contro il movimento indipendentista. Per prima cosa Aldisio chiese che la Commissione Alleata di Controllo allontanasse dalla Sicilia gli ufficiali alleati che avevano mostrato simpatia per il separatismo. Dopo di che Aldisio cominciò ad allontanare dalle cariche i separatisti o coloro che erano sospettati di esserlo. La prima carica a cadere fu la sindacatura di Lucio Tasca che pure aveva svolto un'importante e seria attività di riorganizzazione e ricostruzione ddia città. La crisi della giunta Tasca avvenne ex aula, con le dimissioni imposte ad alcuni assessori ciellenisti. Poi il CLN. palermitano non si mise d'accordo sulla spartizione dei seggi assessoriali e si dovette nominare un commissario prefettizio nella persona del barone Enrico Merlo. L'arroganza di potere del C.L.N. si manifestava in qualsiasi occasione, anche la piu banale. Il 30 luglio, una manifestazione ciellenista indetta per celebrare la caduta del fascismo venne fissata al teatro Politeama. Poi, senza una ragione plausibile, venne spostata nell'atrio dell'università e ciò perché gli studenti della « Corda Fratres », associazione studentesca sorta dopo la caduta del fascismo, avevano fatto sapere che l'università « doveva restare estranea a qualsiasi manifestazione politica ». Quel giorno un coerente gruppo di studenti chiuse i cancelli dell'università e fece allontanare il comunista professor Montalbano che si trovava nell'atrio. Ma subito dopo una folla di manifestanti di sinistra, guidati da un gruppo d'operai del cantiere navale, forzò i cancelli, irruppe nell'edificio e malmenò gli studenti cacciandolj via. La manifestazione ebbe poi luogo con la sola presenza di socialisti e comunisti e l'assenza degli altri partiti CL.N. Con il mese d'agosto il partito comunista iniziò una seria opera di organizzazione in tutta la Sicilia, Girolamo Li Causi raggiunse la Sicilia dopo un fortunoso viaggio iniziato a Milano, attraverso l'Italia settentrionale, la Jugoslavia e l'Adriatico. Mentre Palmiro Togliatti nella seduta del Consiglio dei ministri del 31 agosto definiva il movimento separatista come « fenomeno fascista»! Secondo Togliatti «gruppi . viventi ai margini del fascismo e sotto le sue ali s'erano impadroniti di sorpresa di determinati posti di comando nell'isola al momento della Liberazione». Durante il suo intervento, Togliatti, dopo una scontata filippica contro « baroni feudali, agrari, e prefetti reazionari», doveva convenire che la propaganda separatista aveva successo perché si collegava « a tradizioni storiche di lotta per la libertà del popolo siciliano ... tutt'altro che sparite e tutt'altro che da disprezzare», e sfruttava« il vastissimo elenco dei torti che veramente sono stati fatti in Sicilia nd sistema dello Stato ita· liano ». I20


« Mommo » Li Causi, che prima di arrivare in Sicilia s'era incontrato con Togliatti e, non si capisce il perché, anche con Kostilev, rappresentante sovietico presso il governo di Bonomi, veniva nell'isola per assumere la Segreteria regionale del PCI e metter ordine nelle file comuniste isolane inquinate da simpatie separatiste e da tendenze rivoluzionarie bordighiste e libertarie. Fra separatisti e comunisti c'era già stato, a livello di capi come Finocchiaro Aprile e Togliatti, un breve amore. Finocchiaro Aprile, ricordando la sua personale amicizia per i ministri sovietici Cicerin e Molotov e la sua ammirazione per l'esercito russo « vero vincitore della guerra» aveva confermato la piena libertà politica che sarebbe stata assicurata ai comunisti nella futura « Repubblica sovrana di Sicilia ». Dichiarò che sarebbe stato ben lieto di vedere deputati comunisti all'« Assemblea Nazionale Siciliana>>. Poi si spinse ancora oltre e disse che « se... dovessimo per avventura soccombere, le nostre falangi, le nostre legioni, confluirebbero verso il comunismo». Il che era ciò che volevano veramente Togliatti e il PCI. Togli.atti, da parte sua, rispondeva a Finocchiaro Aprile dalle colonne de « l'Unità » e della « Voce comunista » con consumata diplomazia. Giustificava le richieste dei siciliani (« un popolo di lavoratori che ha sete di libertà e fame di terra »), ammetteva il successo della propaganda separatista che si collegava a « tradizioni storiche di lotta per la libertà del popolo siciliano ». Ma si trattava di reciproche lusinghe e ciascuno dei due movimenti politici tirava per la sua strada che era quella della conquista delle masse e del potere. Compito di Li Causi in Sicilia era quello d'organizzare il partito, ma soprattutto l'importante massa contadina dell'isola, e di combattere il separatismo, ritenuto pericoloso per il forte fascino rivoluzionario-avventuristico che esercitava sulla popolazione e per il suo rifiuto di partecipare alla perdurante guerra della penisola. V'era dunque la necessità d'attirare i contadini nel PCI e conquistarli alla tesi gramsciana dell'alleanza, forse irrealizzabile, fra gli operai del Nord e i contadini del Sud. E di rompere il complesso rapporto che legava la classe contadina al fenomeno criminale dell'isola: apparente solidarietà con il brigantaggio e timore e omertà verso la mafia. L'impatto dell'opera di « Mommo » Li Causi con la realtà socio-politica della Sicilia diede vita il 16 settembre 1944 al clamoroso avvenimento di Villalba. Quel giorno Li Causi tenne un comizio nel paese di don Calogero Vizzini. I promotori della manifestazione avevano awta da don Calogero l'assicurazione che il comizio non sarebbe stato disturbato a patto che « non venissero fatti nomi paesani e trattate questioni locali». La <<buona» disposizione di don Calò era confermata dal fatto che alcuni giorni prima, con I2I


gesto definito «generoso», il boss mafioso aveva proposto alla federazione comunista di Caltanissetta d'aprire una sezione a Villalba. Secondo l'amena ricostruzione dei « fatti di Villalba » data dal foglio separatista « Indipendente», quel 16 settembre don Calò « indugiava cordialmente, come è nelle sue abitudini, con i vari cittadini, e specialmente con i democratici cristiani, un po' piu allontanati, s'intende, per la gazzarra che andavasi preparando e che veniva a turbare la pace del loro paese sempre tranquillissimo, e _pregò tutti di restare calmissimi». Secondo lo stesso giornale, che d'altra parte non è mai stato smentito, fra i sostenitori di Li Causi v'erano: Michele Pantaleone « fascista attivo e intransigente, già capo settore del PNF », Calogero Vaccarella, « fondatore del Fascio di Villalba, ex segretario politico e primo podestà fascista», Pietro Immordino, « altro fondatore del Fascio di Villalba, scgretado politico per la bellezza di 13 anni, sciarpa littorio, centurione della Milizia», ecc... già arrestato dagli Alleati e rilasciato « a seguito di generosa intercessione del cav. Calogero Vizzini che, per la sua dirittura politica, fu dal popolo tutto acclamato sindaco della liberazione », Giuseppe Vasta e Rosario Marsala « militi fascisti volontari in Spagna», Giovanni Pellegrino « facente parte della polizia segreta della federazione dei fasci di combattimento»... L'elenco continuava a lungo con nomi di « aberratissimi fascisti ». Ma torniamo alla nostra storia. L'arrivo dei sostenitori di Li Causi aveva provocato un certo fermento nel paese. I seguaci di don Calò militavano ndle file della DC e s'erano radunati nella sede, in piazza. Sindaco del paese era il DC Beniamino Farina, nipote del Vizzini. Nel paese non vi era alcuna sede separatista, o di altri partiti. Ndla mattinata giunse in paese un autocarro con simpatizzanti comunisti che aveva a bordo una rumorosa fanfara e attirò un buon numero di curiosi. Erano volati anche alcuni ceffoni, alla presenza del maresciallo dei carabinjeri, fra il sindaco Farina e l'avv. Vincenzo Immordino « esponente comunista ed ex capomanipolo della milizia fascista ». Quando il comizio ebbe inizio, nella piazza del paese le posizioni erano ben definite. Da una parte era il palchetto dell'oratore con Li Causi, il segretario comunista Michele Pantaleone, e il gruppo dei loro sostenitori. Dall'altra i paesani, piu o meno seguaci di Vizzini; al centro della piazza c'era don Calò nella posa abituale: mani in tasca, occhiali tenuti scivolati sulla punta del naso e labbro inferiore rilassato e sporgente. Li Causi prese a parlare d'un torbido affare che riguardava proprio don Calò Vi.zzini: l'affitto del feudo Micciché, 122


di 714 ettari, della principessa di Trabia. Fin dal 1921 il feudo era stato dato in affittanza collettiva a una cooperativa di contadini, ma dopo lo sbarco alleato Vizzini se l'era fatto assegnare dall'« runico» Cammarata, « prefetto della liberazione » di Caltanissetta. Quando Li Causi gridò ai contadini di ribellarsi agli sfruttatori, di non farsi piu ingannare, di non dare retta al nuovo affittuario « che vi pro· mette una salma di ottimo terreno per avervi con lui » Vizzini dal centro della piazza gridò: « Tutto quello che dite è falso». Scoppiò un parapiglia. Tale Gerace, di Caltanissetta, si avventò contro Vizzini urlando di lasciar parlare l'oratore. Ma venne atterrato da un colpo di bastone assestato da tale Luigi Scarlata. Poi da una parte e dall'altra venne aperto il fuoco . Non è stato mai possibile individuare chi sparò per primo, ma è certo che a un bel momento tutti sparavano. (Vizzini ebbe a dire che il primo colpo era stato diretto a lui, tanto che aveva colpito un· tale Pellitteri che si trovava lungo la traiettoria.) Il « vivace» sindaco Beniamino Farina si mise a tirar bombe a mano contro il palchetto, e le schegge d'uno degli ordigni ferirono Li Causi al ginocchio. Michele Pantaleone sparava colpi di pistola dall'alto del palco. Gli unici a mantenere il sangue freddo furono Li Causi e Vizzini che si misero a gridare « calma, calma » cercando di rabbonire i loro scatenati sostenitori. Alla fine della spa. ratoria la piazza rimase deserta. Li Causi venne caricato su un'auto e portato a Palermo dove fu ricoverato alla clinica Candela. V'erano stati quattordici feriti, fra questi un ragazzo che aveva avuto la pleura bucata da un proiettile. Nella piazza deserta s'affacciò cautamente un appuntato dei carabinieri, diede uno sguardo in giro e fece subito ritorno in caserma. Dove stava rintanato il maresciallo che, memore della fine fatta dal suo predecessore Purpi, attese prudentemente l'arrivo di rinforzi. Il giorno dopo, la forza pubblica effettuò, con sommarie indagini, un buon numero di arresti. Gli arrestati appartenevano a una sola parte politica. Anche se v'era stata una colossale rissa, dove le parti in lite si erano sparato addosso reciprocamente, per la polizia gli unici rissanti e sparatori furono quelli di parte DC, definiti « separatisti». Fra questi v'era il sindaco-bombardiere Farina. Don Calogero s'era dato a una prudente, ma nota latitanza. La stampa dell'epoca defìni l'episodio «strage» e lo presentò come « agguato mafioso», termini ancora oggi usati dalla storiografia ufficiale. Una settimana dopo la sparatoria di Villalba l'avvocato Bernardo Mattarella, futuro deputato e ministro della repubblica, personaggio influente tanto negli ambienti della Curia di Palermo quanto tra la « gente di rispetto» dd Trapanese e del Palermitano, dalle colonne del giornale DC « Il Popolo » invitava i « separatisti » a I23


ravvedersi e a entrare nelle file della DC. Il processo che venne istruito dopo i « fatti di Villalba » durò un'eternità. Iniziato nel 1944 a Caltanissetta venne trasferito a Cosenza e poi a Catanzaro. Gli imputati beneficiarono di amnistie, condoni, indulti, sentenze di appello oltre che del solito smarrimento dei fascicoli giudiziari. Le condanne di vario grado furono ridotte dalla Corte d'Appello di Catanzaro e infine graziate dal presidente Gronchi nel 1958, quattro anni dopo la serena morte di don Calogero Vizzini. Vizzini non solo non fece un solo giorno di carcere, ma nel corso della sua «latitanza» rafforzò la sua posizione, confermandosi numero uno dell'onorata società. Per far questo gli venne comodo il tempestivo passaggio nelle file democristiane. Quando la Sicilia ottenne l'autonomia, Vizzini venne elevato al rango di plenipotenziario delle cosche mafiose presso l'amministrazione regionale. In tale qualità egli trattò tutti gli « affari » che interessavano gli « amici » e gli « amici degli amici ». Inoltre, cosa strana, dopo l'episodio di Villalba, fra Li Causi e Vizzini si creò un rapporto di reciproco rispetto che sembrò ta· sentare l'amicizia. Mentre a Villalba si sparava, un rapporto al ministero degli Interni indicava quale fosse la consistenza numerica degli iscritti ai vari partiti in Sicilia: « Movimento per l'Indipendenza, iscritti 480.000; Democrazia Cristiana, 35.000; PCI 25.000; Democrazia del Lavoro, 3.000 ... ». La relazione poi sottolineava che si notavano continue defezioni dalle file di tutti i partiti a favore delle varie correnti separatiste. I separatisti, forti della loro consistenza numerica e del successo che la loro causa riscuoteva fra la popolazione, si apprestavano a organizzare il loro primo Congresso nazionale. Esso aveva un vasto e impegnativo programma: riorganizzazione del movimento col SU· peramento delle divergenze ideologiche esistenti fra i vari partiti siciliani aderenti, conferma del principio democratico per l'elezione delle cariche, autonomia della « Lega giovanile», rifiuto d'accettare pregiudiziali istituzionali, lotta ai CLN spuntati in Sicilia un anno dopo la sua liberazione dal fascismo. Il Congresso apri i suoi lavori il 20 ottobre a Taormina nel1'albergo Belvedere semidiroccato dalle bombe. Buona parte delle macerie che ingombravano l'edificio vennero sgomberate e furono creati dei tramezzi ricoperti da triquetre (simboli della Sicilia) e grandi bandiere con i colori giallo-rosso della Sicilia. I lavori erano appena iniziati e gli oratori si succedevano davanti al microfono quando cominciarono ad arrivare le prime noti.zie di incidenti, non meglio precisati, accaduti il giorno prima a Palermo. (Non c'è da meravigliarsi, la notizia che il terremoto aveva devastato la valle del 124


Belice nel 1968 giunse a Palermo, a poco piu di cinquanta chiler metri, dopo 24 ore!) Mentre i lavori dd Congresso continuavano avvenne un incidente di poco conto subito sedato con l'espulsione dàll'aula di un oratore, certo avvocato Di Pietra, fautore di un fantomatico « Movimento della 49a stella» che propugnava l'aggregazione della Sicilia agli Stati Uniti d'America. Il Di Pietra venne prima zittito e poi messo alla porta. (Il « Movimento ddla 49" stella» godeva dell'appoggio degli americani che lo contrapponevano ad altro movimento fantasma, sostenuto dagli inglesi che auspicava un protettorato britannico sull'isola. Secondo i fautori del movimento filoamericano la simpatia dei siciliani per le « Stars and Stripes » sarebbe stata giustificata dal fatto che numerosi isolani avevano familiari emigrati negli Stati Uniti. E poi non era una novità. Nella rivolta di Palermo del 1866, scoppiata contro il malgoverno «piemontese», numerose squadre di insorti avevano fatto propria la bandiera nord-americana.) Nel corso del suo intervento congressuale Finocchiaro Aprile precisò che il M.I.S. non aveva chiesto aiuto o riconoscimenti a nessun paese; aveva invece chiesto, e chiedeva, agli Alleati « soltanto che il popolo sia chiamato ad esprimere con un plebiscito il suo fermo volere». Plebiscito che doveva avere luogo sotto controllo internazionale. Richiesta peraltro che si rifaceva alle quattro libertà e ai principi della Carta Atlantica. Ma le sempre piu gravi notizie che venivano da Palermo posero fine, affrettatamente, ai lavori dell'assemblea. Dirigenti e congressisti del M.I.S. abbandonarono Taormina e si precipitarono a Palermo. Nella capitale dell'isola il 19 ottobre era stato giorno d'orrore, di sangue, di paura, di lagrime, di rabbia. All'origine dei tragici fatti era stata una banale vertenza sindacale: i lavoratori della città erano in attesa di miglioramenti economici che il governo aveva già concesso ai dipendenti statali, e dei risultati di altre trattative sindacali in corso a Roma per estendere tali miglioramenti anche ai dipendenti delle aziende private. Anche i dipendenti comunali avevano avanzato richieste di miglioramenti per ottenere una indennità di carovita uguale a quella concessa a Roma, Napoli e Firenze dichiarate « città disagiatissime ». Ma il commissario prefettizio, barone Merlo, aveva respinto tali richieste adducendo motivi di bilancio che non consentivano nuovi aggravi finanziari all'amministrazione comunale. I dipendenti comunali erano entrati in sciopero assicurando alcuni servizi come la nettezza urbana e l'ufficio razionamento. Uno sciopero generale previsto per il 18 ottobre era stato fatto rientrare perché i sindacati erano riusciti a strappare alle autorità un accordo 125


di massima per l'indennità di carovita. I dipendenti comunali insoddisfatti, avevano deciso di continuare lo sciopero e d'effettuare una manifestazione il 19 ottobre, con un corteo di protesta davanti agli uffici dell'alto commissario e della prefettura. · In quel momento la piu alta autorità esistente a Palermo era il vice prefetto, tale Pampillonia. Le maggiori autorità responsabili: alto commissario, prefetto e questore erano assenti. Inoltre, come abbiamo visto, a Palermo non vi era un sindaco, ma un commissario prefettizio. Una grande città, con mille problemi tutti gravi e prioritari, in stato di allarmante tensione politica e sociale era rimasta affidata a un modesto funzionario la cui unica iniziativa fu quella di far consegnare in caserma 400 soldati da adibite a servizio di « ordine pubblico ». Il corteo dei dimostranti era appena formato all'inizio di via Maqueda, ché cominciò a ingrossarsi con un continuo flusso di popolo, in maggioranza donne, bambini e ragazzi. La gente sbucava a frotte dalle viuzze dei Quattro Mandamenti. Quella che sarebbe dovuta essere una manifestazione di categoria divenne in pochi istanti un'irrefrenabile protesta di popolo. Negozi e uffici chiusero precipitosamente. La gente dei Mandamenti, quel proletariato urbano che da anni soffriva pene indicibili, tormentato dalle sofferenze della guerra, dalla perenne disoccupazione e dalla fame endemica, usci dai catoi e dagli abituri ricavati fra le macerie dei bombardamenti e si mise a urlare la sua indignazione, le sue pene. Presto dalla folla sorsero cartelli con le scritte « Pane! Lavoro! ». Si levarono alte grida contro gli speculatori, contro le autorità che tolleravano gli abusi invece di reprimerli. Una ventina di carabinieri che avrebbero dovuto seguire il corteo e tenerlo sotto controllo furono inghiottiti dalla folla e sparirono. Il portone della prefettura venne precipitosamente sbarrato, le forze di polizia si chiusero dentro l'edificio e chiesero rinforzi. Fuori dell'edificio, per strada, la folla tumultuava con grida e invettive. Chiedeva pane, lavoro, aumento dei salari, lotta al carovita, galera per i profittatori. Il rumore assordante delle serrande metalliche dei negozi, battute con sassi e bastoni, sovrastava ogni cosa. Alcuni negozi non avevano fatto in tempo a chiudere ed ebbero le vetrine infrante e saccheggiate. Fu allora che il vice prefetto Pampillonia chiese l'intervento dei reparti dell'esercito che erano stati messi in allarme fin dalle prime ore della mattinata. Un primo scaglione di 51 uomini ( 47 soldati, tre sottufficiali e il comandante, sottotenente Lo Sardo) della 1a e 2" . compagnia del 139° fanteria furono fatti armare e montare sugli autocarri. Con l'ordine di raggiungere la questura centrale. 126


I fanti erano armati di fucile modello '91 e munizionamento da combattimento. Quelli della 1a compagnia avevano in dotazione due caricatori e due bombe a mano a testa, gli uomini della seconda compagnia sei caricatori e niente bombe. Dalla questura i militari furono spediti alla prefettura e, giunti ai Quattro Canti, ebbero l'ordine di caricare le armi. Gli autocarri con i soldati a bordo si inoltrarono a passo d'uomo tra la folla che protestava o applaudiva con grida e battimani. Quando i due autocarri giunsero in prossimità della prefettura si ud.i un'esplosione presso il primo automezzo. Quasi contemporaneamente i soldati aprirono il fuoco di fucileria e iniziarono il lancio di bombe sulla folla. Fu un massacro. La gente cadeva a grappoli. Una scena indescrivibile: mentre i soldati continuavano a sparare e a tirar bombe la folla cercava riparo lungo i muri, nei portoni, fuggendo nelle vie traverse. Alcuni animosi, con rabbia inutile, reagirono lanciando pietre. (Dopo la tragedia si disse che dalla folla erano stati sparati colpi di pistola, e che, per strada, erano state rinvenute alcune bombe a mano, stranamente inesplose, che non erano in dotazione ai militari. La solita messa in scena poliziesca.) Finalmente la sparatoria cessò; i soldati, che forse avevano finito le munizioni, « si rifugiarono scompostamente nell'atrio della prefettura ». Gli autocarri rimasero abbandonati in mezzo alla strada. L'orrore dominava su un lungo tratto di via Maqueda ricoperto di-morti e di feriti. Il sangue delle vittime copriva il selciato e scorreva lungo i marciapiedi. Dappertutto grida e lamenti delle povere vittime e dei superstiti. La folla piangente si diede da fare adagiando morti e feriti su tavole, scale, carrettini a mano e altri mezzi di fortuna e si diresse verso gli ambulatori di pronto soccorso e gli ospedali. Alla prefettura accorsero altri reparti armati che presidiarono le strade adiacenti. Subito dopo furono messi in funzione gli idranti e potenti getti d'acqua cancellarono dalla strada il sangue della carneficina. Quella notte autocarri militari con truppa armata pattugliarono la città. Non è mai stato possibile conoscere il numero esatto delle vittime del massacro. Aldisio, al suo rientro a Palermo, parlò di 19 morti e di 108 feriti, di cui 18 gravi ... L'inchiesta fatta_dai rappresentanti del C.L.N. rivelò che i morti erano stati 30 e i feriti 150. Fu una strage degli innocenti. La maggior parte delle vittime era giovanissima, bambini o ragazzi dai 7 ai 16 anni. Nel primo elenco pubblicato dal « Giornale di Sicilia» si leggeva: « Bambino non identificato dall'apparente età di 7 anni ... di 10 anni...». Undici soldati massacratori rimasero feriti da schegge di bombe 127


a mano, ferite che si erano procurati con lo scomposto lancio di ordigni. Il massacro fu descritto dai giornali secondo il colore politico della testata. Per il « Giornale di Sicilia » (n. 130 del 20 ottobre 1944) gli scioperanti ammassati in via Maqueda e nei pressi della prefettura erano stati « molte migliaia». L'« Avanti! » che il 21 ottobre s'era limitato a riportare la versione governativa, il 27 ottobre riduceva tale numero a « una folla di 400 persone, in maggioranza donne e bambini ». Il quotidiano palermitano si limitava ad accennare a « detonazioni che provocavano un parapiglia » e un bilancio « di sedici morti, per la maggior parte minori » e di centoquattro feriti. E aggiungeva: « i:: inutile cercare altrove l'origine dei luttuosi avvenimenti. f:: nell'altissimo costo della vita, nell'anarchia materiale e morale dei mercati ... la richiesta dei dimostranti era pane e pasta ... Ma l'uno e l'altra riassumevano in una sintesi fondamentale lo stato di disagio e la corda che i consumatori di ogni classe sociale tengono al collo... la stessa merce esposta ieri a lire 60 l'indomani la vedi a lire 90 ... un nuovo doloroso richiamo alla realtà che pone il governo di fronte ai propri doveri verso la popolazione siciliana. »

Terminava dicendo che le « autorità competenti avevano deciso una rigorosa inchiesta per accertare tutte le responsabilità». L'« Avanti! » chiariva che l'arrivo « di un camion di soldati spaventò terribilmente la folla provocando grida di indignazione ~ qualche innocuo agitamento di bastoni » ... a ciò fece seguito la sparatoria dei soldati... « essendo la via molto stretta si spiega facilmente come il lancio delle bombe abbia finito per colpire gli stessi uomini della forza pubblica ». L'« Unità», invece, con un durissimo editoriale del 21 ottobre che aveva per titolo Non si spara sul popolo aveva riportato correttamente i fatti e aveva precisato che erano stati i soldati a far uso delle armi ed erano rimasti feriti a causa dello scoppio delle loro stesse bombe. Per il « Risorgimento Liberale » (22 ottobre 1944) a provocare il massacro era stata addirittura la folla, « ingrossata da elementi estranei provenienti dai bassi strati della popolazione» [sic!] . Qualcuno della folla aveva lanciato la prima bomba e i soldati avevano risposto al fuoco ... Rimasero sempre un mistero i motivi e la dinamica della carneficina . Non si poté mai sapere da chi, ai Quattro Canti, i soldati avevano avuto l'ordine di caricare le armi. Se la prima bomba fosse stata scagliata dalla folla o contro la folla. Il sottotenente Lo Sardo, i tre sottufficiali e ventun soldati che avevano in dotazione le bom128


be che provocarono la strage, furono deferiti al giudizio del tribunale militare. I soldati per strage e l'ufficiale per omicidio colposo. Il processo si svolse per legittima suspicione a Taranto e si concluse tre anni dopo, il 22 febbraio 1947. Con una significativa lungaggine della giustizia militare che di solito è molto sbrigativa, anzi sommaria. Le imputazioni furono derubricate e ridotte a omicidio e lesioni colpose, per « eccesso colposo in legittima difesa ». Per gli inflessibili giudici militari, a Palermo non era avvenuta alcuna strage, ma i soldati si erano bravamente difesi da un terribile attacco di donne e bambini. Intanto sui poveri morti di via Maqueda, secondo l'intramontabile costume italiano, si era scatenata la speculazione politica dei partiti. Furono lanciate accuse nefande contro tutti e in particolare contro i separatisti, che erano impegnati nel loro congresso di Taormina. L'« Avanti! » chiedeva di « colpire spietatamente il separatismo e i separatisti... che armano la mano dei sicari per provocare le repressioni sanguinose». (Un ragionamento pericoloso e controproducente che poteva portare a riferimenti all'attentato cli via Rasella che in quei tempi era entrato fra le glorie resistenziali.) Contro i monarchici, forse perché gli autori dell'eccidio appartenevano a un'unità che aveva il bieco nome «Sabaudia». Contro i soliti fascisti, per la loro mancata epurazione dagli impieghi. In un isterico ordine del giorno del C.L.N. si parlava di « ceti reazionari che vorrebbero istaurare una nuova dittatura fascista ... di infiltrazioni fasciste e neo-fasciste nella divisione "Sabaudia" ». Poi lo stesso C.L.N., con un secondo ordine del giorno si rimangiava quanto aveva scritto nel primo e criticava severamente « le folle tumultuanti»; affermava che « le povere vittime testimoniano l'angoscioso travaglio del popolo smarrito » e sollecitava « la fiduciosa calma del popolo ». Anche la Camera del Lavoro « invitava alla calma e alla comprensione». Alclisio, in una dichiarazione alla stampa romana, pur ammettendo che gli incidenti erano « d'origine strettamente economica», dava la colpa ai lavoratori che avevano scioperato e ad elementi che avevano aggredito « alcuni carri cli farina che transitavano per le vie del centro»! I separatisti, dal canto loro, additarono i loro avversari all'odio popolare con un violento proclama che parlava di « strage di siciliani inermi con piombo sabaudo ». La « Voce Socialista » se la prendeva con i dipendenti comunali in sciopero, accusandoli di incoscienza e di mancanza d'organizzazione. « Essi » diceva il giornale socialista, « si riuniscono, votano 129


ordini del giorno di protesta, disertano gli uffici, scendono in piazza, gridano. » Ai redattori del reazionario foglio socialista _non passava per la testa che questi fossero normali ~omportamenti sindacali di tutti i tempi. Nessuno degli uomini politici, dei partiti che facevano a gara nel gridare, ebbe il coraggio di riconoscere che la popolazione era scesa in piazza a gridare la sua protesta perché era profondamente « disfizziata » ed . era stanca di soffrire e di morire in silenzio per fame e per malattie. E nessuno ricordò che l'eccidio era stato provocato dai barbari ordini diffusi dalla circolare Badoglio del 26 luglio 1943 (ma pare che l'estensore dei feroci ordini fosse stato il generale Roatta). Ordini che etano stati integralmente riconfermati dal generale Taddeo Orlando il .31 agosto 1944, e ribadivano l'impiego di reparti del1'esercito per servizio di O .P. (« Ordine Pubblico »). Con la prescrizione alle truppe d' « agire contro il popolo senza esitazione », di reprimere con le armi « qualunque perturbamento dell'ordine pubblico». Contro la popolazione si doveva « procedere in formazione di combattimento e si apra il fuoco, anche a distanza, con mortai e artiglierie, senza preavviso di sorta, come se si procedesse contro truppe nemiche ». E « truppe nemiche » venne considerata l'inerme e affamata popolazione di Palermo : i numerosi bambini che giacevano sfigurati e coperti di sangue sul selciato cli via Maqueda. Un'inchiesta condotta, chissà perché e a quale titolo, da una commissione composta da elementi del C.L.N. e da un ispettore governativo, si sciolse quasi subito per il totale disaccordo fra i suoi membri. Alcuni di loro presentarono poi una personale conclusione, dove la colpa veniva vagamente data « all'educazione antidemocratica delle truppe >>. Cosi sfumò la « rigorosissima inchiesta... per punire i colpevoli materiali e morali dell'eccidio». L'« Avanti!» che s'era spinto a chiedere il trasferimento della divisione «Sabaudia», che era allora comandata dal firmatario dell'armistizio di Cassibile, generale Castellano, non andò piu avanti nella: proposta. E i reparti dell'esercito continuarono a prestare il nefando « servizio di ordine pubblico ». Il timore di un'irrefrenabile esplosione d'ira popolare contro le autorità, contro i « sardignoli badogliani » {i soldati della « Sabaudia » erano tutti sardi), fece intensificare i controlli di sicurezza. La sezione di Censura civile di Palermo (B/I comando delle Forze Alleate I.N.C.) moltiplicò il numero degli «esaminatori» e quello della corrispondenza controllata, con la trasmissione dei commenti, sulle lettere censurate o trattenute, ai numerosi servizi di sicurezza IJO


alleati e italiani: O.S.S., CM.S., P .W.B., R.A.O.C., S:I.M. In quei giorni il soldato Pittui Salvatore, Ospedale Militare n. 1, Palermo, scriveva a Giovanni Antonio di Florinas, Sardegna: « ... mi accennate che anche in Sardegna comincia la rivolta... lo posso credere perché qui è scoppiata... la situazione è molto grave noi specialmente ci troviamo piu male perché i borghesi non possono vedere i militari, specialmente l'hanno con noi sardi ... » (foglio 2067 del 23 ottobre

1944).

Il prof. Gaetano Falzone, via Rapisardi 15, scriveva al dott. Enzo Calisse, reggente la Società Nazionale Dante Alighieri di Firenze, che per « evitare dolorosi episodi di violenza» sarebbe stato meglio « concedere ai separatisti i mezzi indispensabili per una propaganda legale» (foglio 2070, id.). Tale Palmegiano, via Rosalia 8, Palermo, in una lettera diretta a Rosalba Bella, presso Salvato, San Cipirello, confermava: « ... i soldati fecero fuoco (fucili e bombe a mano) sulla folla dimostrante alla prefettura, che poi gridava tantof ma non assaliva nessuno, tant'è vero [ ciò J che i carabinieri e gli agenti di PS non hanno fatto uso delle armi. »

E spiegava come il popolo volesse vendicarsi « contro i sardignoli, perché i soldati sono quasi tutti della Sardegna». Aggiungeva che bisognava punire subito: « ... il capo responsabile della morte di tanti innocenti vittime cadute... per la giustizia e la libertà... » (foglio 2063 del 21 ottobre 1944).

Anche Pietro Cannamela, corso Calatafi.mi 656 Palermo, scrivendo al rev. padre Angelo Guttilla del convento di S. Maria di Porto Salvo, Messina, confermava che a provocare il massacro erano stati i <~ sardignoli ». E aggiungeva: « Vi sembra una legge giusta? I carabinieri e gli agenti di PS facevano servizio regolare senza agire con· le armi, perché i dimostranti parlavano con la bocca e non con le armi... Adesso ci sono i dimostranti che si vogliono vendicare » (foglio 2065 del 20 ottobre 1944 ).

Greco Luigi, Villa Ripparto alla Rocca, Palermo, scrivendo a Nicola Greco, Casa Biondi, Agrigento, riferiva di una nuova « nutrita sparatoria fra dimostranti e soldati, perché solamente a loro è dovuta questa tragedia » avvenuta in via Montalbo. E continuava: « ... Sui muri della città si leggono scritti di questo tenore: "Morte agli assassini del popolo", "Morte ai badogliani della Sabaudia"» (foglio 2066, del 24 ottobre 1944). 131


Feno Gianni, Corso Calatafi.mi 172, Palermo, in una lettera a Liborio Correnti, Piazza S. Francesco, Enna, diceva: « ... i sardignoli hanno aperto un fuoco micidiale sulla moltitudine ... centinaia e centinaia di vittime... donne e bambini. Fanno presto loro ad ammazzare la gente, quella gente che non sa piu come vivere e che chiede la disciplina, la serietà sui mercati, sui prezzi ... » (foglio 208.5, id.).

Il sacerdote Giuseppe Vaiana, via Agrigento 6, Palermo, scriveva alla famiglia, ad Agrigento, sull'eccidio degli innocenti e precisava: « Non è stata rispettata la legge; niente squilli cli tromba, niente ordini da parte del commissario cli PS ma un forsennato ordine di sparare sulla folla ... L'indignazione è stata generale e si domanda giustizia. E come suole accadere in simili casi la signora autorità se la piglia con quelli che non c'entrano affatto: entrano nei locali del movimento separatista ed asportano, le guardie, tutto quanto ivi si trova. Anche per loro verrà il Dies Irae con il relativo De profundis! » (foglio 2074 del 23 ottobre 1944).

Una testimone oculare, la signora Teresa Morvillo, via C . Nigra 7, Palermo, descriveva cosf il massacro a Franca Morello, via Crati 10, Roma: « Noi dalle finestre dell'ufficio abbiamo assistito a una fase di esso... Se tu avessi visto! la maggior parte era costituita da bambini dai 10 ai 12 anni! C'erano giovanotti imberbi, qualcuno piu grande... gridando si son messi a fare gran baccano dovunque: insomma sciopero. Ma nessun bastone o arma era · nelle loro mani... il gruppo piu grosso si trovava a reclamare pane e pasta dinanzi il Palazzo della Prefettura; nient'altro che questo faceva. Quando meno se l'aspettava ha visto arrivare un camion con un gruppo di badogliani, sardignoli, i quali, non si sa perché, appena giunti in mezzo ai dimostranti hanno buttato bombe a mano e sparato poi con fucili mitragliatori. Hanno fatto circa 200 tra morti e fe.. riti, la maggior parte bambini, giovanottini e, come sempre, altre vittime innocenti che non prendevano parte alla dimostrazione ma o guardavano o si trovavano là vicini!!! « Ciò ha prodotto la generale indignazione, e l'indomani, cioè ieri mattina, sono apparsi dei manifestini con scrittovi che "la cittadinanza era a lutto per le vittime del piombo sabaudo"» (Lettera del 21 ottobre 1944, esaminatore 1001).

I morti di Palermo, come quelli dei mesi successivi in tutta la Sicilia, erano da dimenticare e presto, Essi furono sepolti e sparirono da ogni ricordo; da allora non se n 'è piu parlato. Erano morti scomodi. In quel tempo si dovevano sfruttare altri « cadaveri eccellenti », atti a creare nuovi miti per una « Nuova Italia ». Nel Consiglio dei ministri tenutosi a Roma il 20 ottobre, poche 132


ore dopo la strage di Palermo, Aldisio aveva sottolineato le gravi condizioni della Sicilia, dicendo che nell'isola v'era grano solo fino al 15 dicembre e che era praticamente impossibile aver aiuti dagli Alleati. Il generale Wilson aveva detto: « ... alla Sicilia non verrà dato grano», mentre l'ammiraglio Stone2 chiedeva « ... statistiche». Nel corso del Consiglio dei ministri, Aldisio disse di avere disposto l'arresto di Finocchiaro Aprile. Saragat e Sforza si dichiararono favorevoli al provvedimento, ma il Consiglio dei ministri respinse tale proposta. Tornato a Palermo, Aldisio approfittò della situazione venutasi a creare e accusò i separatisti di preparare un colpo di mano. Vietò i funerali pubblici per le povere vittime, istituf in città lo stato d'assedio col divieto di riunione e di assembramenti stradali. Infine ordinò la perquisizione della sede del M.I.S., ove furono rinvenuti i soliti opuscoli di propaganda politica trionfalmente dichiarati « documenti antistatali ». La sede del M.I.S. venne chiusa a tempo indeterminato. L'azione di Aldisio fu proterva quanto ingiustificata, tanto che il 16 novembre il generale Carr, capo della Commissione Alleata di Controllo in Sicilia si vedeva costretto a intervenire e disponeva la scarcerazione di alcuni giovani separatisti che erano stati arrestati perché sorpresi ad affiggere manifesti di protesta per la chiusura della sede del M.I.S. Carr ordinava poi ad Aldisio e al procuratore militare di Palermo di smettere ogni azione persecutoria contro gli indipendentisti. Pochi giorni dopo la strage di Palermo, nasceva l'Esercito Volontario d'Indipendenza Siciliana (E.V.I.S.) a seguito di un incontro avvenuto il 23 ottobre, fra Antonio Canepa e Finocchiaro Aprile, nella clinica Rindone di via Papale a Catania. Se ne trova traccia in un rarissimo documento del tempo, il fo2 L'ammiraglio Stone, capo della Commissione Alleata di Controllo, era il vero padrone dell'Italia. Funzionario d'una società telefonica, divenne in Italia proconsole. Per meglio capire l'uomo è bene ricorrere a un aneddoto. Quando Giorgio VI d'Inghilterra visitò il fronte italiano, per evitare imbarazzanti incontri fra il sovrano inglese e Vittorio Emanuele, il vecchio e sofferente monarca italiano fu fatto sgomberare in fretta e furia dal modesto alloggio che occupava. Vittorio Emanuele commentò l'episodio con qualche intimo e fece un amaro paragone fra tale trattamento e le cortesie usate da Carlo V a Francesco I dopo la battaglia di Pavia. Le parole del Savoia, riferite al comando alleato, crearono seri problemi agli uomini del PWB e dei servizi segreti. Nessuno di loro riusciva a stabilire a quale battaglia avesse potuto alludete Vittorio Emanuele. Ma l'ammiraglio Stone taglie'> corto a ogni discussione; dicendo che la cosa non li riguardava in quanto <.e Pavia era al di fuori della competenza della Commissione Alleata di Controllo, dentro la linea del fronte tenuto dai tedeschi ,.. E quindi la frase del sovrano italiano riguardava i germanici.

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glio clandestino « Sicilia indipendente», anno I, n. 1, 15 novembre 1944, stampato forse a Catania. Il foglio, oltre a notizie varie e a un articolo a firma « Mario Turri » (Canepa), riportava un chiaro comunicato: « Mario Turri ricevuto da Finocchiaro Aprile, Catania, 24 ottobre ». « Nel pomeriggio di ieri Andrea Finocchiaro Aprile ha ricevuto Mario Turri, reduce dall'Italia settentrionale, il quale gli ha portato il saluto e il consenso dei siciliani colà residenti. 11 colloquio si è protratto per circa due ore. Sono stati esaminati e discussi problemì concernenti l'organizzazione del Movimento. Un compito particolarmente delicato, su cui per ora va mantenuto il riserbo, è stato affidato a Mario Tu"i ».

Era la risposta che il movimento indipendentista si preparava a dare all'attività « persecutoria » cli Aldisio3 •

3 Canepa, dopo l'occupazione alleata di Catania, aveva raggiunto Firenze dove aveva continuato a svolgere attività per conto del S.LS. britannico. A Firenze nel 1944 aveva dato vita a un « Partito dei Lavoratori», un movimento di sinistra che aveva come simbolo la « stella » poi adottata dalle Brigate Rosse. Alla notizia degli avvenimenti di Sicilia aveva deciso di rientrare nell'isola interrompendo la sua missione e troncando la relazione con la donna che gli aveva dato un figlio ed era una fedele militante del PCI. Rientrato a Catania, Canepa cominciò a frequentare la locale federazione comunista e riprese i vecchi contatti con l'ambiente universitario e i gruppi « Sicilia e Libertà». In.fine ottenne il consenso di Finocchiaro Aprile e di altri esponenti per la costituzione dell'EVIS.

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VIII. BRIGANTAGGIO, MAFIA « Siculi autem pessimi, dice San Paulo. La Sicilia ab antiquo si chiamava Trinacria; li Greci la chiamarono Sicilia dal verbo sicilizin greco, che significa male agere. » (Lettera del viceré di Sicilia, marchese Domenico Caracciolo al ministro Acton, 17 agosto 1783.)

Il 20 dicembre 1963, con legge n . 1720, a seguito dell'ondata d'orrore e sdegno suscitata dalla strage di Ciaculli, a Palermo, dove un tenente dei carabinieri, due marescialli e cinque militari avevano perduto la vita per l'esplosione di una «Giulietta» imbottita di tritolo, il parlamento italiano nominò una commissione parlamentate d'inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia. La Commissione, una delle tante volute dal parlamento per la Sicilia dal 1860 in poi, venuta a scadenza, fu ricostituita il 4 ottobre 1968, e visse alterne vicende per ben tre legislature. Cioè per circa 14 anni. La Commissione, meglio conosciuta come Antimafia, non aveva scopi giudiziari. Suo compito era quello di indagare sul fenomeno socio-criminale tipico dell'isola e di suggerire al parlamento e al governo le iniziative da prendere in sede legislativa contro la criminalità mafiosa. Cosa che l'Antimafia, malgrado i suoi molti anni di vita, puntualmente non fece. Per quattordici anni la Commissione, attraverso il lavoro di . sottocommissioni e di comitati, raccolse molte tonnellate di documenti, interrogò migliaia di persone e pubblicò alcuni ponderosi volumi. Alla fine approvò ben tre « relazioni finali»: una di maggioranza e due compilate dalle opposizioni. Rispettivamente dal PCI e dal MSI. Tre relazioni che non nascondevano gli scopi politici dei loro :firmatari. Per ammissione d'una delle relazioni di minoranza, quella dell'onorevole Nicosia del MSI! La Commissione aveva dovuto reagire « a manifeste pressioni di clamoroso insabbiamento delle sue attività». Ma aveva raccolto dd materiale che, « anche se diretto in parte agli archivi di Stato e disponibile fra quarant'anni, purtuttavia è materiale di ricerca e di studio». Dunque « ricerche e studi» resì possibili solo a partire dall'anno 2016! ma non per stroncare oggi la tremenda infezione sociale! Fu cosi che sparirono dalla circolazione documenti d'ogni ge1

Doc. XXXIII, n. 2, p. 962 e segg., Roma, Tip. del Senato, 1976. 1 35


nere e di grandissima importanza, « i resoconti stenografici, tranne poche eccezioni, delle sedute di plenum e di quelle, innumerevoli, dei comitati e dei sottocomitati ». La forza e la validità della Commissione d'inchiesta consisteva appunto nell'immensa quantità di materiale raccolto. Ma tale materiale invece d'essere trasmesso all'autorità giudiziaria venne volutamente seppellito per quarant'anni. Rimase poi scandalosamente impunito il colpevole atteggiamento d'un gran numero di pubblici funzionari chiamati a collaborare con la Commissione d'inchiesta, che si rifiutarono recisamente di farlo negando testimonianze e documenti. A cominciare dai ministeri degli Interni e degli Esteri: questi rifiutarono di consegnare documenti ufficiali e d'aprire « le loro casse segrete dei documenti legati agli avvenimenti del 1943, dell'armistizio e del trattato di pace che pur tanta importanza hanno per chiarire il violento risorgere mafioso del 1943 ». Nei volumi dell'Antimafia, in genere, si leggono solo fatti noti. Nomi di personaggi minori: « scassapagghiara » {ladruncoli di campagna), fuorilegge già clamorosamente noti, delinquenti di mezza tacca con eloquenti e remoti precedenti penali. Qualche personaggio di maggiore importanza viene semplicemente sfiorato, mai inquadrato dalla relazione di maggioranza. Un maggior numero di nomi e di fatti contemporanei è preso di mira nelle relazioni del PCI e del MSI, in particolar modo nelle relazioni Niccolai e Pisanò. Per quanto riguarda le collusioni con il « pubblico potere » la relazione di maggioranza è silenziosa in maniera inquietante . Un silenzio che si può definire scandalosamente omertoso. Infatti nelle 495 pagine della relazione di maggioranza l'unica collusione con i pubblici poteri ricordata riguarda i fatti connessi con l'omicidio Notarbartolo del 1° febbraio 1893! Con le « prove irrefutabili dei contatti che il parlamentare [ il deputato crisp.ino Raffaele Palizzolo] aveva avuto con mafiosi e pregiudicati della zona di Palermo e di numerosi interventi che egli aveva effettuato a loro favore presso pubblici funzionari ».2 Gli « onorevoli » senatori e deputati, compilatori della relazione di maggioranza, stanchi, ma soddisfatti d'aver acclarato fatti che risalivano a ottant'anni prima, ignorarono deliberatamente fatti e persone a noi piu vicini o contemporanei. Relegando in tempi remoti quello che invece è un fenomeno politico-criminale di bruciante attualità. La Commissione d'inchiesta, nei suoi 14 anni di attività, non ha fatto rivelazioni sensazionali malgrado queste siano state ripetutamente e autorevolmente annunziate. Ha affossato la maggior parte 2

Ibid., p. 108 sgg.

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dei documenti rivelatori e non ha saputo suggerire alcuna azione legislativa atta a combattere il fenomeno mafioso, tranne la monotona, antica richiesta di rafforzamento delle forze di polizia. Non si è mai pronunziata sui «potenti», perfino ministri della repubblica, che la voce pubblica, e qualche volta anche certa stampa coraggiosa, accusavano di collusioni mafiose. Un volume dell'Antimafia tratta dei rapporti « tra mafia e banditismo in Sicilia», ma dedica le sue 777 pagine esclusivamente al bandito Giuliano e alla truce e ancora oggi (volutamente) incomprensibile strage di Portella delle Ginestre. Il tutto col solito polverone di «testimonianze» che s'annullano a vicenda. L'importante fe. nomeno brigantesco che afflisse l'isola negli anni dell'immediato dopoguerra, e che, nella breve introduzione, è accennato come « manifestazione di rottura del sistema » {quale « sistema » non è indicato né sarebbe facile poterlo indicare, perché nel dopoguerra, in Sicilia, v'era soltanto caos istituzionalizzato), non viene nemmeno sfiorato. Non solo, ma nel volume, in un polverone di testimonianze di comodo, si arriva al falso storico, con il rapporto che il generale, dei già reali carabinieri, Amedeo Branca, inoltrò in data 9 ottobre 1946 al comando generale dell'Arma. Il rapporto, purtroppo, è quello che è. Con ammirevole candore il generale Branca, non solo nega recisamente che « la cosiddetta mafia... abbia collaborato con la polizia per combattere la risorta delinquenza dell'isola» (anzi, aggiunge con forza, « non è vero affatto»), ma con strabiliante sicurezza afferma: « il separatismo e l'indipendentismo, checché ne dicano gli onorevoli Finocchiaro Aprile, Varvaro e Castrogiovanni, ha avuto una parte notevole nella riorganizzazione della mafia e nello sviluppo della delinquenza ». Come dire che lo starnuto è la causa del raffreddore. È chiaro che il rapporto del generale Branca aveva scopi di sicurezza politica e non pubblica, non si prefiggeva la ricerca della verità giudiziaria, né tantomeno di quella storica. Le pubblicazioni dell'Antimafia, però, non sono completamente inutili. Sono semplicemente difficili da capire per i non addetti ai lavori. Esse sono l'espressione piu genuina di quel sistema d'incomunicabilità che il mondo politico, regionale e nazionale, ha saputo creare negi ultimi 35 anni. Ciò premesso, è bene cercare di precisare i limiti e le sfere operative dei vari fenomeni criminali che risorsero improvvisamente in Sicilia nel secondo dopoguerra: mafia e brigantaggio, e quale importanza ebbero tali fenomeni (assieme al crimine organizzato nord-americano) nelle vicende della sempre infelice isola. Cominciamo dal brigantaggio. Esso è la piu primitiva e la piu an137


tica forma cli crimine organizzato. Ma anche cli protesta sociale. Ciò è spesso accaduto in altri paesi, e qualche volta in Sicilia. La fantasia popolare, con la complicità cli scrittori e cli giornalisti, ha qualche volta creato un alone cli simpatia e cli romanticismo attorno alla figura del brigante. Si è creato il mito del « bandito buono», del « brigante gentiluomo», che protegge gli umili e gli indifesi, e colpisce il potente e il malvagio. Da Robin Hood a Jesse James, da Fra Diavolo al Passatore, il filone romantico popolare ignora le vittime e si mostra benevolo e comprensivo verso il bandito ladro e assassino. Può essere capitato, come afferma Hobsbawm che « si diventa banditi perché si commette qualche cosa che pur non essendo considerata criminale dalla coscienza popolare del luogo, invece lo è per lo Stato o per i governanti locali ».3 Ciò avvenne in Sicilia nel periodo borbonico, nel decennio successivo all'Unità d'Italia e durante la prima guerra mondiale. Cosi come, spesso, l'atto cli brigantaggio era un fatto transitorio e stagionale. I « picciridcli » avevano fame e il padre, disperato, si metteva « al passo » armato cli un vecchio schioppo o cli una zappa. Poteva anche accadere che il fuorilegge diventasse tale per aver regolato una disputa secondo le locali tradizioni d'« onore», che per le leggi dello Stato costituivano un reato e come tale da punire. Oppure che lo Stato mostrasse « interesse per un contadino a seguito d'una piccola infrazione della Legge, e questi si dà alla macchia perché non può sapere quello che gli deriverà da un sistema che ignora e non comprende i contadini, e che i contadini a loro volta non comprendono ».4 Dopo l'unità, le bande cli briganti che infestavano l'isola ebbero origine o furono rafforzate dall'inaspettata leva militare obbligatoria e dal truce sistema poliziesco delle «ammonizioni». Nel 1866 il 5% della popolazione di Palermo risultava « ammonita » e quindi passibile di finire in carcere in qualsiasi momento e per qualsiasi motivo. Renitenti, disertori e ammoniti, diventati fuorilegge, dovevano per forza ricorrere ad atti criminosi, per sopravvivere alla macchia: crebbero cosi furti, rapine, estorsioni, rapimenti e uccisioni. Durante la prima guerra mondiale renitenti e disertori furono nell'isola in numero imponente: da ottantamila a centocinquantamila, a seconda delle fonti, chiaramente extra legem; tra essi non pochi peggiorarono la propria situazione dandosi al brigantaggio. Con l'invasione dell'isola nel 1943 si ripresentò puntualmente il fenomeno brigantesco: soldati sbandati, renitenti, disertori, latitanti ricercati per reati vari diventarono quasi automaticamente ban3 E. J. HOBSBAWM, 4 HOBSBAWM, ibid.

I ribelli, Torino, 1966, p. 22.


diti. V'erano Poi gli evasi, fuggiti dalle carceri danneggiate dai bombardamenti o per le vicende dell'8 settembre. (Soltanto dal penitenziario di Volterra presero il volo sessanta ·ergastolani siciliani che poi raggiunsero l'isola.) Tutta questa gente aveva poca scelta: il carcere o la vita alla macchia; buona parte di essa era tarata, fisicamente, moralmente e socialmente. Scrive Danilo Dolci : « Nella zona di maggior banditismo, Partinico, Trappeto, Montelepre con 33.000 abitanti, dei 350 "fuorilegge" solo uno ha entrambi i genitori che abbiano frequentato la quarta elementare. A un totale di circa 650 anni di scuola, nemmeno la seconda elementare di media ( e quale seconda!), corrispondono 3.000 anni di carcere. E continuano i processi contro i "banditi". Superano il centinaio gli ammalati di mente, gli storpi, i sordomuti! »s

Già alla fine del 1943 operavano in Sicilia 37 bande accertate, composte da persone che si erano messe fuori della legge per motivi contingenti: la guerra, la gravissima situazione economica, l'ignoranza, il disordine sociale e diventarono presto tristemente noti i nomi di Trabona, Croci, Mulé, Di Maggio, Avila, Jannuzzo, Stimoli, Giuliano, Virzi, Labruzzo, Li Calzi ... Le statistiche criminali subirono un'improvvisa, impressionante impennata in tutta l'isola. Nelle quattro province « calde >> della Sicilia occidentale: Palermo, Agrigento, Trapani e Caltanissetta il crimine esplose in maniera indescrivibile. Nella provincia di Agrigento di fronte a una media d'una ventina di omicidi per anno nel triennio 1940-1942 si arriva a una cifra di 83 omicidi nel 1944; nella provincia di Palermo la media del triennio era stata di 30 omicidi l'anno, nd 1944 si contarono 245 uccisioni, e a Trapani da venti, in media, a 154 nel 1944! E cosi le rapine che ad Agrigento passarono da poco piu di 10 a 282; a Palermo da poco piu di venti, in media, a 646 nel 1944; a Trapani da 15 a 564. Lo stesso « balzo di numero>> avvenne per estorsioni, sequestri di persona e altri reati gravi. In genere i fuorilegge avevano norme di comportamento improntate a un'indicibile, e spesse volte gratuita, brutalità. Essi erano truci scorridori di campagna, desesperados senza vincoli morali che infierivano sui contadini con razzie, feroci bastonature e uccisioni. Spesse volte, dopo aver depredato il povero contadino di una mezza forma di cacio o di un sacco di frumento o di un bottiglione di vino, gli prendevano, per « godersela », anche la moglie o la figlia. Erano ribaldi che sfogavano il loro gusto per la violenza sulla gente povera e indifesa, quando non si ammazzavano fra di loro. Erano cani arrabbiati. s

DANILO DoLCI,

Banditi a Partinico.

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Anche a voler cercare una giustificazione «politica» nell'ope· rato di qualche banda ci si trova in difficoltà. Le bande che si ammantarono di colori politici furono tre: i « monteleprini ~> (Giuliano), i « niscemesi » (Avila) e i « centuripini » (Dottore). « Separatiste » le prime due, «comunista» la terza. Dottore firmava le lettere di estorsione facendo precedere il suo nome dalla dicitura « bandito politico ». La carriera di Dottore e dei suoi uomini, che si dichiaravano «comunisti», ebbe inizio con la rapina di un poveraccio e un « esproprio proletario » ai passeggeri della sgangherata corriera Centuripe-Catania. Solo che l'esproprio, non portato a termine, venne fatto a colpi di bombe a mano e con raffiche di mitragliatore. All'inizio della carriera criminale Dottore e i suoi ladroni erano convinti che « il partito » sarebbe intervenuto per cancellare le loro ribalderie. Avila e i suoi uomini furono « scassapagghiara », poi feroci scorridori di campagna. Passarono alla storia per la loro breve alleanza con l'EVIS e per orrendi e inutili massacri di carabinieri. Soltanto Giuliano, che ader( appassionatamente all'ideale patriottico dell'indipendentismo, fa storia a sé. Per circa un anno militò nelle file dell'EVIS, con funzioni di comando, assalti alle caserme dei carabinieri e scontri con le forze armate (nello stesso tempo commetteva rapine ed estorsioni per « finanziare » la guerra che conduceva). Dopo il ritiro dei separatisti dalla lotta armata, gli ultimi quamo anni d'attività di Giuliano e dei suoi uomini furono dedicati a un'irriducibile « guerra personale», con collegamenti con esponenti politici rimasti sempre nascosti, ma non ignoti. Nella << banda » di Turid<lu Giuliano troviamo uomini liberi che aderirono alla vita di fuorilegge per libera scelta, attratti da motivi p~triottici e politici (indipendentisti), da legami di parentela, dal carisma esercitato dal giovane capo e per il gusto dell'avventura. Francesco Barone, i Cucinella, Frank Mannino, Badalamenti, Pisciotta, Rosario Candela, Terranova, Madonia « Titi » e gli altri, erano incensurati. Scelsero liberamente di far parte delle forze dell'EVIS e rimasero poi legati alla vita fuorilegge. Molti di essi erano reduci dai vari fronti di guerra, altri avevano militato nelle file partigiane del Centro e Nord Italia, come gli appartenenti all'Associazione reduci di San Cipirello che, sull'esempio di Pasquale « Pino » Sciattino, diedero la loro adesione alla « Brigata Palermo » dell'EVIS comandata dal «colonnello» Salvatore Giuliano. L'unico vero, tradizionale « delinquente » della « banda » Giuliano, con una condanna all'ergastolo sulle spalle, fu Salvatore Ferreri, detto Fra Diavolo o Totò il palermitano. Ma, guarda caso, costui non solo era « raccomandato e protetto», dall'onorevole Aldisio, ma risultava essere confidente della po· 140


lizia e dei carabinieri. Era stato fatto infiltrare nelle file della banda con scopi di provocazione e di delazione. (Ferreri venne « fatto fuori » dai carabinieri in circostanze mai chiarite.) Subito dopo l'invasione, nel 1943, v'era poco da fare per combattere la criminalità rurale e cittadina. Gli Alleati si disinteressavano del problema e le forze di polizia erano poche, demoralizzate e male armate. Venivano impiegate nella repressione del mercato nero e per compiti politici e di ordine pubblico. Le bande prosperavano e si dividevano le zone di influenza. Insirure erano le strade delle città e andare in campagna significava esporsi a ogni tipo di violenza. Meglio aiutare i banditi spontaneamente piuttosto che essere costretti a farlo col pericolo di rimetterci anche di piu, magari la pelle. Le cosche mafiose rurali non avevano ripreso il loro compito tradizionale di mantenere l' « ordine » nelle campagne. Anzi, in quei tempi, le cosche si videro costrette a subire l'imbarazzante presenza delle bande brigantesche, anche se cercarono di volgere a proprio profitto l'attività dei fuorilegge. La mafia, o, meglio, le cosche mafiose dei vari paesi cercarono di indirizzare in un certo modo le azioni dei banditi facendosi mallevadori e mediatori fra i banditi e le loro vittime. Incassavano tangenti dalle azioni banditesche e fornivano ai fuorilegge, dietro pagamento in valsente o in servizi, aiuto, protezione, rifugio ... Quando le cosche mafiose si rafforzarono e ricrearono i contatti con le autorità dello Stato, il destino dei briganti fu segnato. Essi non servivano piu a nessuno... Furono avviati verso il destino che solitamente li attende: la morte o il carcere. I banditi non ebbero piu scampo. Da una parte v'era la mafia, dall'altra le forze di polizia. Se poi riuscivano a sopravvivere, subivano condanne pesantissime anche per reati minori, perché v'era sempre l'aggravante del reato « commesso in tempo di guerra ». La pena di morte era stata u.fE.cialmente abolita con decreto luogotenenziale del 10 agosto 1944, ma veniva lo stesso applicata dai .tribunali militari. E in quel tempo, per un motivo o per un altro, era facile spedire la gente davanti ai tribunali militari che operarono anche dopo la fine della guerra. (Inoltre la p ena capitale fu largamente applicata dai cosiddetti tribunali del Popolo e dalle Corti d'Assise straordinarie nei procedimenti contro fascisti o presunti tali, senza contare un« temporaneo» ripristino avvenuto nel giugno del 1946 con decreto del presidente provvisorio della Repubblica.) Infine è noto a tutti che buonissima parte del brigantaggio siciliano del secondo dopoguerra fu debellato dalla mafia e non dalle forze di polizia. « In cambio dell'eliminazione dei banditi, Messana


assicurò protezione alle cosche mafiose del feudo. »6 Dice un'espressione in uso in Corsica, ma che sembra essere stata scritta in Sicilia: « Ammazzato dopo morto come un bandito dalla polizia ». In Sicilia da sempre, molto spesso, è capitato che i banditi siano stati « ammazzati » dalla polizia solo dopo morti. Ciò avvenne specialmente nell'ultimo dopoguerra. Salvatore Giuliano venne « sparato » dai carabinieri nel cortile della casa di Castelvetrano, quand'era morto già da un bel pezzo. II suo corpo dissanguato aveva raggiunto il rigor mortis quando le pallottole del mitra del capitano Perenze finirono di oltraggiarlo. Salvatore Trabona, detto l'« arricchiatu » (rachitico) fu « fatto fuori» mentre dormiva in contrada Tavernola di Valledolmo. Ucciso a colpi di scure. Trabona, ufficialmente, risulta morto in conflitto coi carabinieri. Rosario Avila, detto « Canaluni » per la sua alta statura, capo banda ufficiale dei « Discernesi » (il vero capo della banda era Rizzo), fini i suoi giorni all'età di 47 anni. Il suo corpo, mancante di un orecchio, venne trovato bene in vista adagiato ai bordi della strada Niscemi-Gela. La mutilazione era stata praticata dall'uccisore per disporre di un documento valido per riscuotere la vistosa taglia posta dal ministero degli Interni. Avila era stato « fatto fuorj » col « du' botti », sicuramente a tradimento. Un colpo di fucile da caccia alla schiena e un secondo, di grazia, alla fossetta jugulare. Capobanda dei « Discernesi » dopo la morte di Canaluni e l'arresto del figlio Rosario junior, fu Vincenzo Arcerito, un bel ragazzo di vent'anni « dagli occhi dolci e dal viso d'angelo». Arcerito fu « capo » per due o tre giorni. Poi qualcuno si prese la briga di crivellare di colpi di mitra il ragazzo.capobanda e lo seppelH sotto le macerie di una casupola fatta crollare a colpi di bombe a mano. Il resto della banda, compreso il figlio di Canaluni, venne catturato dai carabinieri, ma pare che sei componenti di essa, fatti fuori dalla mafia, siano seppelliti senza nome nel cimitero di Mussomeli. Anche gli otto componenti la banda di Luciano Alfano furono ammazzati da sconosciuti; i loro corpi vennero bruciati nel rogo di un pagliaio in contrada di Gurgo di Sale di Mussomeli. Rosario Mulé che « operava » nel territorio di Altavilla Milicia fu « fatto fuori » dai « soliti ignoti ». Mentre Giuseppe Labruzzo fini la sua sanguinaria carriera di brigante (53 omicidi, 32 sequestri di persona e una caterva di altri reati tutti gravi) in fondo a un pozzo. Sebastiano Liuzzo Tarallo, capo della banda dei « tortoridani », cadde fulminato da una moschettata mentre caracollava superbo 6 Dall'intervento del deputato regionale Michele Pantaleone, · Assemblea regionale siciliana, 17 luglio 1949.


in groppa alla sua giumenta. Il sole era aÙramonto e Tarallo si divertiva a sparare contro una fattoria che aveva intenzione di razziare. Qualcuno gli piantò in corpo una precisa pallottola. Il successore di Tarallo, Antonino Molano, fu « giustiziato », da un puritano gregario, Sebastiano Sanfilippo detto« Tabò », con una raffica di « Maschinenpistole ». « Tabò » rimproverava a Molano stupri e altre ignobili violenze. Tali ignominie furono talvolta commesse sotto gli occhi dei mariti o dei genitori delle vittime, costretti ad assistere alle violazioni. « Tabò », che era stato partigiano in Val d'Ossola con Moscatelli, fini poi in galera. Gli altri « tortoriciani » finirono quasi tutti al solito modo, « con le scarpe ai piedi». Due di essi, un tale Triscano e un altro rimasto sconosciuto, furono scannati come capretti dai componenti di una famiglia contadina che si ribellò alle loro violenze. Anche Giovanni Toni da Grotte, della banda di Stefano Fasino, dato dalla polizia come morto in conflitto, fu trovato « già rigido da molte ore». Fulminato da una fucilata sparatagli a bruciapelo mentre dormiva all'ombra di un masso in contrada Girafi. di Cammarata. Calogero lngrao, detto << l'Acquavivisi », (era nativo di Acquaviva Platani), fu spacciato con una raffica di mitra in una strada di Vallelunga. Tre tizi sconosciuti furono trovati in fondo a un pozzo a Cinisi, mentre Giovanni Passatempo ed Emanuele De Maria, secondo quanto ebbe a dire il tenente dei carabinieri di Monreale, non furono uccisi in conflitto, ma assassinati in un agguato. I loro corpi erano straziati da raffiche di mitra e pallettoni di lupara. Aggiungeva il tenente: « Le indagini sono sempre difficili, perché nessuno parla. La mafia fa sempre da padrona. Questo delitto resterà avvolto nel mistero come tanti altri». Il sanguinario Giuseppe Dottore mori il 6 agosto 1946. Rientrava a tarda sera al suo rifugio. Cavalcava spensierato cantando la canzone Vivere, di moda a quel tempo. Giunto alla strofa « ... son padrone alfin della mia vita .... », una precisa raffica lo buttò giu di sella. Colpiti dalla stessa raffica morirono altri due fuorilegge, padre e figlio, Domenico e Giuseppe Castiglione. Un altro, tale Palazzo, rimase ferito. All'agguato notturno parteciparono i carabinieri, ma fu un « uomo d'onore » (a cui Dottore aveva fatto uno « sgarbo ») a scoprire il rifugio, organizzare r agguato e sparare la disastrosa raffica. I carabinieri non spararono, né i banditi ebbero il tempo d'usare le armi. Nel rapporto ufficiale l'episodio venne descritto come un duro e prolungato conflitto a fuoco durato piu di un'ora! Una ventina di latitanti armati che usavano far capo alla « masseria )> di don Vincenzo Corvo di Marianopoli si volatilizzò improvr43


visamente nel giugno del 1945 proprio quando aveva deciso cli aderire all'esercito clandestino separatista. Alcuni giorni prima Calogero Vizzini aveva appresa la notizia del probabile reclutamento e s'era espresso con dispetto nei confronti di Corvo: « Chi va firriannu chistu? » (che cosa va cercando costui?) aveva esclamato. E don Vincenzo smise per sempre di « furiare ». Fatto sta che di don Vincenzo Corvo e dei suoi venti latitanti si perdette anche il ricordo. Vincenzo Catalano e la sua donna Pippina (« A campanazza ») furono falciati dalle pallottole mentre, seduti sulla soglia di casa, si godevano il fresco d'una sera di agosto. Il brigante « sularinu » (solitario) Giovanni Gioia fu fatto a pezzi dalla lupara nei pressi di Vallelunga Pratameno. Uno sconosciuto lo aspettava al varco, nascosto fra i rami d'un ulivo, e gli scaricò addosso la doppietta. Salvatore Passatempo, della banda Giuliano, finf i suoi giorni assassinato da «ignoti» (che poi erano quelli della mafia di Camporeale), nelle campagne della provincia di Trapani. U suo corpo fu trovato rosicchiato dai cani randagi. Salvatore Passatempo era fra coloro che si trovavano nella casa del cosiddetto « avvocaticchio » di Castelvetrano nelle ore immediatamente precedenti la notte che i carabinieri misero in scena l'« ammazzatina » di Giuliano. L'intera banda di Nino Mancuso di Valledolmo, detto « Ninu 'u foddi » (Nino il pazzo) scomparve senza lasciar traccia. Lo stesso Mancuso fu adescato con la promessa dell'espatrio in Tunisia. Invece dell'espatrio la mafia fece trovare i carabinieri che lo aspettavano al varco. Gli uomini della sua banda erano tutti di Valledolmo: Nino Mazzarese, Orazio Taverna, Antonio Corcorellaro, Calogero Ippolito e Rosario Calà. Di questi uomini si disse che erano stati uccisi e seppelliti in aperta campagna. Si fece anche il nome del proprietario del terreno divenuto tomba dei fuorilegge. Al.fio Pellegriti, un pezzo d'uomo alto quasi due metri, mori a trentacinque anni. Venne ucciso mentre dormiva in una casa del centro di Adrano. Mentre i carabinieri stavano «appiattati» nella strada, dentro l'abitazione esplodevano fragorosi i colpi che « facevano fuori)> Pellegriti. Solo allora i carabinieri, all'esterno, aprirono un rumoroso fuoco diversivo. Quando i militi entrarono, la casa sembrava un mattatoio. V'era sangue dappertutto, schizzato dal grande corpo dell'ucciso. Anche Giovanni Dina risulta ucciso in conflitto dai carabinieri. In verità pare che il Dina sia stato narcotizzato con un tubetto di luminal e poi « fatto fuori ». « Nella seduta del 16 settembre 1952 alla Camera dei Deputati è

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stata formulata una richiesta di riesumazione del cadavere, ancora oggi la morte di Dina è un segreto. »7

I fratelli Ignazio e Giuseppe Giambra risultano morti in conflitto coi carabinieri « in contrada Carcatizzi di Villalba, a 800 metri dalla casa di campagna di don Calò. I familiari ancor oggi ripetono che i loro congiunti sono stati assassinati mentre mangiavano nella casa di un amico » .8 Altri banditi vennero fatti fuori dai separatisti dell'EVIS che avevano la necessità di tenere tranquille le zone attorno ai loro campi di addestramento. Fu in uno scontro tra forze dell'EVIS e ladroni che taglieggiavano i contadini che cadde sul Monte Soro il giovane separatista catanese Francesco Ilardi. Precisava Concetto Gallo, comandante dell'EVIS: « Quando gli uomini dell'EVIS salirono sulle montagne briganti e banditi dovettero fare i conti anche con quegli uomini. L'EVIS aveva bisogno di tranquillità per operare e per organizzarsi come esercito clandestino. E le scorrerie dei briganti, alle quali seguivano i rastrellamenti della polizia, non erano l'ideale. Allora si decise di fare i patti chiari con i banditi... un giorno rimasero sul terreno tre banditi della banda Franco. I giornali l'indomani pubblicarono che erano stati ammazzati dai carabinieri. Non era vero. Ma a noi andava bene cosL »9

Anche Giuliano s'incaricò di ripulire le campagne dai fuorilegge suoi concorrenti o rivali, cosa che fece con rara abilità « fino a restare egli soltanto, con la sua banda, misteriosamente, l'unico a sopravvivere alla rapida ecatombe di tanti banditi non meno coraggiosi di lui ». 10 E i magistrati di Viterbo, nella nota sentenza del 1952, con ammirevole ingenuità, non riuscivano a spiegarsi il « fatto che di tante bande armate costituite in Sicilia solo quella comandata da Giuliano abbia potuto sopravvivere per tanti anni ... egli [Giuliano] solo per le forze di polizia era diventato inarrivabile, mentre chiunque venisse in Sicilia poteva vederlo, intervistarlo, fotografarlo». Alla banda Giuliano, assieme ad altre uccisioni, fu attribuita 7 Cfr. M. PANTALEONE, Il sasso in bocca, Bologna, 1970. Per il banditismo in Sicilia negli anni del secondo dopoguerra vedi anche gli interessanti: L'impero del mitra, Milano, 1975 e Professione brigante, Milano, 1976 di SALVATORE N1cows1. Nicolosi, capo cronista del quotidiano « La Sicilia», di Catania ha vissuto gli anni del dopoguerra in Sicilia con serio impegno giornalistico. 8 Or. PANTALEONE, ibid. 9 Cfr. E. MAGRf, Storia dell'Esercito che tJoleva liberare la Sicilia, intervista di Concetto Gallo, comandante dell'EVIS, « L'Europeo » inserto speciale, 15 ottobre 1975. 10 Or. SALVATORE RoMANo, Storia della Mafia, Milano, 1963.

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l'eliminazione di cinque latitanti i cui corpi, allineati come se fossero stati giustiziati da un plotone di esecuzione, furono rinvenuti in località Balletto alle porte di San Giuseppe Jato. Ognuno dei cinque aveva sulle spalle uno zaino militare con munizioni, e alla cintura la fondina vuota della pistola (ma anche questa esecuzione è da attribuire alla mafia). Non si contano poi i fuorilegge che furono catturati dalla forza pubblica a seguito di delazione mafiosa. È noto infatti che con gli accordi presi con l'ispettore di polizia Messana prima e col CFRB (Corpo Forze Repressione Banditismo) del colonnello Luca dopo alcuni mafiosi di Borgetto, Alcamo, Monreale, S. Giuseppe Jato, Camporeale, Castellammare, fecero catturare quasi tutti i componenti la banda Giuliano. Qualcuno dei fuorilegge venne addirittura « consegnato a domicilio » alle caserme dei carabinieri, ben legato e imbavagliato. Ma che cos'è questa mafia di cui tutti parlano e nessuno sa niente? Che cos'è questa spietata «organizzazione» che organizzazione non è? (Che cos'è il suo corrispettivo, per modo di dire, nordamericano che è stato battezzato col pittoresco, ma insignib.cante nome di « Cosa Nostra?»). Quali sono i rapporti tra mafia e popolazione? tra mafia e potere politico, tra mafia e Stato, tra mafia e forze di polizia? La maggior parte della gente, e in questo la vasta letteratura esistente e i mass-media hanno la loro colpa, immagina la mafia come una compatta organizzazione piramidale, con gerarchie di vario livello e un ferreo corpus di leggi. Un'armata clandestina, comandata da un capo carismatico e indiscusso (capo dei capi) pronta a far marciare i suoi battaglioni di « picciotti » armati di tuonanti lupare. Niente di vero in tutto questo. Sgombriamo il terreno dalle fole che sono state messe in giro. La mafia non è una organizzazione cen· tralizzata, non ha sistemi gerarchici. Né leggi e regolamenti che ne regolano l'esistenza e le funzioni, anche se le varie «cosche» seguono alcune norme comuni di comportamento non originali, ma tratte dal sistema subculturale già esistente in Sicilia e ancora oggi in parte valido. La mafia è comportamento, è mentalità, è « spirito mafioso)>, « sentire mafioso». Non esiste una mafia, ma tante mafie quanti sono gli individui e le cosche mafiose. Individui o unioni di individui che praticano in una certa maniera pragmatica e mai dogmatica l'« arte del crimine)>, Con precisi limiti territoriali, settoriali, categoriali. Gli appartenenti alle varie « cosche )> spesso non si conoscono fra di loro ma, incontrandosi, si riconoscono immediatamente. Si può essere mafiosi senza mai


valicare i limiti imposti dal codice, cosi come si è criminali senza essere mafiosi. Perché la mafia sta appunto nell'individuo intriso di mafiosità. Sia esso gabellotto o deputato, professionista o bottegaio, imprenditore o sindacalista, esponente politico, venditore ambulante, funzionario, operaio, magistrato, artigiano, giornalista ... A tutt'oggi una precisa definizione delle parole « mafia » e « mafioso » non è stata data, né sarà facile darla. Mafia di volta in volta significa: arroganza, spavalderia, prepotenza, complicità, protezione interessata, abuso, prevaricazione, sfrenato esercizio del potere ... È soprattutto collegamento di interessi comuni fra coloro che detengono il potere, e che pur di conservarlo e di ingrandirlo, ricorrono « anche » al crimine. L'unione di piu individui mafiosi forma una «cosca}>. Le « cosche » possono agire di comune accordo fra loro o entrare in conflitto se i loro interessi vengono a contrasto. La grande trasformazione delle cosche mafiose avvenne dopo il 1943. I contatti avuti con elementi del gangsterismo e del sindacato del crimine nordamericano accelerarono i tempi della modernizzazione mafiosa. Dalla preminenza delle vecchie mafie rurali: del feudo, dei giardini, delle acque di irrigazione, del controllo delle produzioni agricole e armentizie, si passò alla mafia del mercato nero, dei terreni edificabili e delle costruzioni, degli appalti pubblici, dei trasporti e del contrabbando. Nello stesso tempo furono potenziate le attività delle cosche che controllavano alcune floride attività cittadine: mercati, bische, sistema cli distribuzione, servizi comunali, rackets, ecc. Spesso nella vecchia mafia rurale o cosiddetta tradizionale, il capo cosca poteva essere anche un uomo non ricco, ma egli era sempre e soprattutto un uomo di prestigio e di grande buon senso: un uomo «inteso», il cui parere doveva essere ascoltato sempre, cli « sostanza » che aveva uno spiccato senso della realtà, di « panza}> perché rispettava il sentimento di omertà, di «onore» perché ligio alle norme subculturali di comportamento e cosf via. Un uomo influente e potente, i cui ordini (dati sotto forma di consiglio o di cortese richiesta) venivano sempre prontamente ascoltati ed eseguiti. L'uomo cli «rispetto», perché incuteva rispetto e formalmente manifestava rispetto, non nascondeva le sue « qualità» mafiose, anzi con il suo comportamento amava confermarle e ostentarle in ogni occasione. Con il cambiamento del 1943 cominciò a prevalere la figura del capo cosca che tende unicamente al rapido arricchimento, somigliando sempre piu al modello del « boss » nordamericano la cui unica meta è appunto la ricchezza. Non è stato mai possibile individuare le origini del fenomeno 1

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mafioso. Di volta in volta si è creduto di ravvisare tali ongtru nell'estremo tentativo di autodifesa delle comunità musulmane rimaste nell'isola dopo la restaurazione cristiana dei normanni, nelle fratellanze contadine, nel bravismo alimentato da baroni e proprietari terrieri, nel giustizialismo di sette segrete come la leggendaria setta dei Beati Paoli. In verità, nel fenomeno mafioso dei tempi moderni c'è un po' di tutte queste componenti originarie. Che hanno dato luogo a un composito fenomeno sociale intriso di elementi contrastanti: conservatorismo e mantenimento dell'« ordine», sia esso politico sia economico e sociale, e, nello stesso tempo, rivoluzionarismo sprigionato da elementi audaci e socialmente emergenti. Elementi contrastanti, ma chiaramente visibili in un paese vissuto fino al 1812 in pieno regime feudale e per secoli dominato da lontano da sovrani che, come papa Oemente IV aveva detto di Carlo d'Angiò, non erano: « né visibili, né udibili, né affabili, né amabili». Fra le nebulosa figura del re e la popolazione, in funzione sempre oppressiva, si ergeva la figura del viceré, delegato dal potere regio a esercitare un governo sempre volto a proteggere gli interessi di un piccolo gruppo di sfruttatori. (« 'Ncapu 'o Ré sta 'u V icierré » dice un proverbio che iodica appunto la degenerazione oppressiva del potere delegato.) Fu allora naturale che in molte zone dell'isola sorgessero altre forme di potere piu dirette e contrapposte a quello reale o vicereale. Alcune erano intese a favorire l'esercizio del potere da parte di ceti privilegiati, altre esprimevano forme di autodifesa di classe. Una difesa che si appoggiava a un concetto subculturale di antiche e ben precise tradizioni da far rispettare, e al disprezzo per un potere legale lontano e artificioso. L'autorità del re o del viceré veniva esercitata a Palermo e nelle altre maggiori città, ma nei paesi e nelle campagne era il barone che esercitava « il mero e misto imperio » cioè tutti i poteri. Agli ordini del barone v'era un corpo di polizia· privata composto da bravi e rafforzato da gabellotti, campieri e famigli. Nel 1812, quando in Sicilia cessò ufficialmente il sistema feudale, i bravi erano stati sostituiti dalle compagnie d 'arme che, forse, rappresentano l'embrione della moderna mafia operativa. Le compagnie erano una polizia rurale alle dipendenze della locale autorità. Avevano il compito comune a tutte le polizie del mondo: garantire e proteggere gli interessi della classe dominante. In questo caso, aristocratici, proprietari terrieri e galantuomini (borghesi di paese). Le compagnie combattevano il ladrismo rurale e tenevano sottomessi i contadini. Si comportavano cioè cosi come piu


tardi doveva agire la mafia del feudo. Per far questo le compagnie erano facilitate dalle prerogative di cui godevano. Esse, infatti, ave· vano il compito di mantenere la sicurezza pubblica in territori ben delimitati, dentro i confini di essi esercitavano compiti di preven· zione e di repressione. Le compagnie avevano « in appalto » il servizio di polizia: in cambio della mercede che ricevevano avevano l'obbligo di rimborsare parzialmente furti, rapine, estorsioni e altri delitti che avvenivano nel territorio di loro competenza. Avveniva però che i « compagni d'arme » castigassero con pronta ferocia lè scorrerie delle bande ladresche provenienti da altri territori, mentre raggiungevano un modus vivendi con le bande della ·propria zona di competenza. Riuscivano sempre a recuperare una parte della refurtiva e mai a catturare i colpevoli. (A differenza della moderna polizia che arresta qualche volta il presunto colpevole e non rintrac· cia mai la refurtiva.) Con questo modo di agire i « compagni d'at· me» si rendevano utili ai ladri, ai derubati e a se stessi. Dal comportamento delle compagnie hanno forse origine comportamento e funzioni delle cosche mafiose del feudo. Nel 1860 le compagnie furono disciolte ed ebbero presto una breve e violenta riapparizione sotto il nome di milizia a cavallo, ma i componenti di quest'ultima finirono tutti in galera perché colpevoli di numerosi reati. Dopo di che le funzioni di « ordine » dei « com· pagni d'arme » e dei militi a cavallo continuarono a essere esercitate dalla mafia del feudo. Gli interventi protettivi delle cosche erano terroristici. Essi però non vanno confusi « con un'altra proporzione di criminalità... vanno interpretati come sanzioni di un sistema giuridico informale non appena ci si rende conto di tutta la problematica delle peculiarità subculturali e delle necessità dell'aiuto privato nel sistema sociale subculturale » .•.11 Si spiega dunque come reati che dalle Leggi dello Stato erano considerati minori: ladrismo rurale, abigeati, reati sessuali, ecc., e come tali blandamente puniti, per la giustizia informale mafiosa meritassero castighi feroci, spettacolari e, spesso, la pena di morte. «Avvertimenti» e punizioni avevano aspetti clamorosi e terroristici che sono diventati rituali: incendio di pagliai o di messi, taglio di alberi e di viti, sgarrettamento o sgozzamento d'animali, « scasciatine di chiarenza », cioè una fucilata pericolosamente vicina, lettere minacciose fumate con croci, pugnali, casse da morto ... erano avvertimenti che non si potevano ignorare. Cosi come non si poteva ignorare la simbologia che accompagnava le « ammazzatine »: i genitali recisi e messi in bocca ai colpevoli cij delitti sessuali, la lin. gua tagliata o il sasso in bocca o una luparata in faccia a chi « parla 11

HoEss, Mafia, Bari, 1973, p. 194.

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troppo », gli occhi cavati a « chi ha visto qualcosa che non avrebbe dovuto vedere», un ficodindia nella tasca di un ladro restio a ogni avvertimento... La diversità di valutazione d'una medesima azione, intesa come delitto o atto legale, diversità determinata dall'inserimento dell'azione in questo o quel sistema sociale, è in verità una separazione ideale tipicamente astratta.12 Tale separazione è tanto astratta che, prima e dopo l'Unità e nel secondo dopoguerra, la collaborazione (o la collusione) tra mafiosi e organi dello Stato è stata continua e, considerata la perenne carenza dell'autorità morale dello Stato in Sicilia, paradossalmente anche proficua. Se in aléune province siciliane il brigantaggio veniva vigorosamente combattuto, se il ladrismo rurale era tenuto sotto controllo, se l'attività della malavita cittadina era mantenuta a livelli ritenuti sopportabili, ciò si deve appunto alla accettazione, da parte degli organi dello Stato, della mafia come organo disciplinare. Abbiamo in merito una lunga casistica: dal questore di Palermo Albanese che negli anni successivi al 1860 reclutava i suoi poliziotti fra mafiosi e « malandrini », faceva assassinare latitanti o, peggio ancora, ricercati che si costituivano, agli ispettori di polizia Messana e Verdiani, al colonnello dei carabjnieri Luca, capo del C.F.R.B., che nell'ultimo dopoguerra si avvalsero dell'attiva collaborazione mafiosa per combattere le bande dei « fuorilegge ». Dalla continua collaborazione con le« forze dell'ordine », le cosche mafiose ebbero vistose contropartite. Nella loro funzione di organi disciplinari le cosche assursero a posizioni stabili e ufficiose di potere: assicuravano la loro protezione ai privati, usavano banditi e delinquenti come manovali e collaboravano con polizia, carabinieri e servizi segreti. Il gesto violento che eventualmente poteva scaturire da queste attività era l'effetto obbligato della politica di deterrenza praticata dalle cosche. Negli ultimi anni del periodo borbonico gli « uomini di rispetto », che allora si chiamavano « honache » ( « honaca » è la cacciatora di velluto, abbigliamento tradizionale di gabellotti e campieri) , svolsero attività apparentemente contrastanti fra di loro: nelle rivoluzioni del 1820, 1848 e 1860, se da una parte rafforzarono le squadre dei rivoltosi, dall'altra provvedevano a creare controsquadre che avevano il compito della difesa della «proprietà» e dell'ordine sociale insidiato dalle anarchiche squadre contadine. Non per niente le piu feroci ribellioni contadine del 1860, seguite da altrettanto feroci repressioni garibaldine, avvennero a Bronte, Biancavilla, Alcara Li 12

lbid.

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Fusi, Mascalucia, Leonforte, ccc., cioè nella Sicilia orientale, dove il fenomeno mafioso era sconosciuto. Mentre nella Sicilia centrale e in quella occidentale, dove era, ed è, indiscusso il potere degli « uomini di rispetto», il ribellismo contadino venne bloccato e indirizzato verso scopi « patriottici »: guerriglie contadine fiancheggiatrici delle forze garibaldine. Nd 1860, a seguito del nuovo ordinamento municipale, avvenne l'inserimento degli uomini di rispetto nella nuova realtà politica, facilitati in ciò dal sistema dettorale per « censo » allora vigente. Essi fecero la loro scelta aderendo ai due partiti costituzionali di allora: il liberale unitario e il partito garibaldino d'« azione ». Ciò che sotto il Borbone era un · fenomeno para-criminale spicciolo, in genere rurale e perfettamente tenuto a bada, col nuovo sistema politico si chiamò mafia e seppe inserirsi abilmente nel gioco dei partiti e nell'esercizio del potere.13 Con l'opera I Mafiusi di la Vicaria di Palermo di Giuseppe Rizzotto, del 1863, che contiene scene di vita carceraria improntate di violenza e di prepotenze, fatti sempre attuali nelle prigioni italiane, le parole « mafia » e « mafiusu » cominciarono ad acquistare il significato attuale. Fin dal suo sorgere lo Stato unitario italiano, oltre ad avere mille gravi problemi, a cominciare da quello della sicurezza dei suoi confini settentrionali, ebbe la necessità di fare una precisa scelta politica, militare ed economica. Doveva scegliere tra l'Europa e l'area mediterranea. Fu allora che venne deciso di seguire una politica strettamente europea. Forse, in quel momento, non si poteva fare altrimenti. Fu cos{ che tutte le risorse del giovane Stato italiano furono indirizzate a potenziare le regioni settentrionali della penisola, mentre quelle meridionali furono praticamente abbandonate alle iniziative locali che, per forza di cose, erano molto limitate. Nel corso degli anni il Meridione venne totalmente trascurato, riducendosi a serbatoio di voti elettorali per il partito governativo. Ciò avvenne fin dai primi giorni della fortunata avventura garibaldina. La « rivoluzione siciliana», che aveva assicurato il successo della « campagna meridionale», venne fatta prontamente rientrare con l'impiego delle stesse armi garibaldine, e il potere locale fu affidato alle categorie sociali ritenute «moderate» e d'« ordine». Lo stesso avvenne in " Fino al 1863 le parole « mafia » e « mafiusu » erano perfettamente ignorate nel loro significato attuale. Nel dizionario siciliano-italiano di Vincem.o Mortillaro di \fillarena, fino alla sua terza edizione del 1876, alla parola « Mafia» si legge: « Parola piemontese introdotta nel resto d'Italia, che equivale a: camotta ». E a « Mafiusu » si legge: « Aggiunto di mafia, divotamonti ». Cioè spaccone, significato che ha conservato nella patte orientale dell'isola, dove « mafiusu » vuol dire, appunto: spaccone o prepotente. 151


tutto il sud della penisola con la scandalosa accettazione d~ll' « ordine » fatto regnare a Napoli dalle squadre camorriste di don Liborio Romano. In Sicilia il disinteresse governativo e l'abbandono politico significarono l'ascesa, come forza moderata, degli « uomini di rispetto». Lo Stato avev:i ben altro da fare e affidò buona parte dell'isola all'aristocrazia «liberale» e alla classe emergente: la borghesia degli « uomini d'onore». Ad essi venne concessa una quasi ufficiale funzione mediatrice di potere. Ci fu, è vero, all'epoca della rivolta dj Palermo nel 1866, una breve spaccatura fra gli uomini di rispetto {una parte di essi partecipò alla ribellione e l'altra si schierò con le autorità), ma, subito dopo, tutti assieme, affondarono le mani nei beni ecclesiastici che il governo aveva espropriato e messo all'asta. «Galantuomini», gabellotti, « cappeddi » e campieri emersero socialmente in maniera prepotente, formando una borghesia « proprietaria » rapace e arrogante. La nuova borghesia, padrona delle amministrazioni locali, cominciò a gestire in maniera spregiudicata il po· tere. Negli anni di governo della Destra le cricche locali perfezionarono sistemi e organizzazioni fino a raggiungere posizioni di straripante dominio con l'avvento al potere, nel 1875, della Sinistra. E alla vittoria della Sinistra la Sicilia partecipò in maniera determinante con l'elezione di ben 40 deputati di sinistra su 48 collegi elettorali. · Il trapasso del regime dalla Destra alla Sinistra segnò l'inizio d'un periodo di sfrenato sfruttamento del potere da parte degli ex repubblicani che si adattarono benissimo allo Stato monarchico, tanto che gli stessi uomini della Sinistra definirono « trasformismo» questo tipo di gestione politica. La Sinistra infine asservi le masse al governo e affrettò la degenerazione del regime parlamentare: « Quando acchiappò le redini del governo era affamata di potere, assetata di vendetta, esaurita in una opposizione infeconda, aveva molti risentimenti da sfogare. <( Da allora in poi lo spirito della mafia non scaturi piu esclusivamente dalle sorgenti dell'ufficio di polizia, del principe, del latifondista, del gabellotto, del campiere, del "compagno d'arme". Ma su queste sorgenti s'innestò, e spesso prevalse, l'influenza del deputato, e talora del semplice candidato governativo ... nell'universale credenza che il diritto non valga e che i deputati amici del governo possano tutto e tutto debbano tentare, naturalmente in favore dei loro • • 14 amici

» ...

14 Cfr. N. CoLAJANNr, Nel Regno de/Ja Mgfia, La Sicilia dai Borboni ai

Sabaudi, Palermo, 1971. 152


Fu allora che alla mafia dei « don » si aggiunse e si sovrappose quella intramontabile degli « on. ». Fu cosi che la « mafiosità » si diffuse nei gangli vitali del paese, nelle pubbliche amministrazioni e in numerose attività economiche. Le questioni di diritto civile e penale, l'ordine pubblico, furono di competenza quasi palese della gente di rispetto. Il brigantaggio, con le sue vaghe venature di carattere sociale, e il ladrismo rurale, venivano tenuti sotto controllo finché ritenuti utili per l'onorata società, per essere poi annientati con efferate esecuzioni. Lo stesso avveniva per quei « delitti » considerati tali dalle norme subculturali vigenti nell'isola. Nel campo della giustizia l'uomo di rispetto svolgeva funzioni di «paciere» in maniera piu efficace dei magistrati togati. Con la sua influenza nella società, con il rispetto che emanava con la sua spiccata personalità, tutto veniva sistemato in maniera sbrigativa ed efficace: un ratto violento, un dissenso per contestati diritti di proprietà, un credito o un debito, difficilmente esigibile o pagabile, il rispetto degli usi agricoli, il recupero di armenti involati, la composizione bonaria di una qualunque lite ... e cosi via. Nel campo politico l'opera di mediazione avveniva &a le autorità dello Stato, il deputato governativo e la forza di persuasione dei gruppi dominanti. Ciò si verificava all'epoca del voto per censo e nei collegi elettorali uninominali, ma continuò anche dopo, con l'estensione del diritto di voto e il sistema proporzionale. (Ancora oggi, e siamo negli anni '80, vi sono « eletti del popolo » che hanno chiaro il marchio dell'origine mafiosa.)15 · Il prefetto, il deputato, il funzionario ripagavano la collaborazione degli uòmini di rispetto chiudendo un occhio, o addirittura tutti e due, nelle vicende politiche e amministrative locali. Si arrivò a fornire ampia protezione giudiziaria agli uomini di rispetto che per mera ventura fossero incappati nella vicenda della giustizia. Nei processi di mafia si inserf la costante delle assoluzioni per insufficienza di prove ... Don Vito Cascio Ferro, considerato il realizzatore del moderno sistema d'organizzazione delle « cosche» siciliane e delle «famiglie » nordamericane, era allo stesso tempo protetto e protettore di deputatì e di altri esponenti politici. Del deputato De Michele don Vito 15 La Relazione conclusiva di maggioranza della Commissione antimafia, a p. 108 cosf si esprime: « Non v'è autore che si sia occupato della sua storia che non attesti la presenza costante di un rapporto della mafia con la politica, o piu in generale, con i pubblici poteri. Nella seconda metà del secolo XIX e nella prima metà del XX questo rapporto si espresse, tra l'altro, nella collaborazione prestata dai mafiosi alla polizia nella lotta contro i banditi, ma soprattutto nell'appoggio ai candidati nelle elezioni amministrative e politù:he ».

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era addirittura il «curatolo» e amico di famiglia. Il Cascio Ferro usci sempre indenne dalle numerose incriminazioni. Anche dall'omicidio del detective americano Petrosino, che don Vito esegui personalmente con l'ineccepibile alibi fornitogli dall'amico deputato (sembra che don Vito, ospite del deputato, abbia lasciato la dimora del parlamentare, il tempo necessario per sparare a Petrosino e fare ritorno nella casa ospitale). Vito Cascio Ferro fu poi incastrato dal « fascista » prefetto Mori con una, forse inventata, accusa di contrabbando, e mod in carcere. I legami fra politici e mafiosi venuti fuori nei processi di vario grado relativi al delitto Notarbartolo, dimostrarono che una vasta rete di complicità collegava mafiosi, deputati, uomini politici, funzionari e forza pubblica. E ancora, in tempi recenti, don Calogero Vizzini godeva di tale rispetto da acquistare indiscussa influenza negli uffici del governo militare alleato; lo stesso proconsole americano Charles Poletti gli si mostrava amico ed estimatore e lo chiamava pomposamente « colonnello »; e lo stesso dicasi del periodo successivo ai tempi dell'alto commissario. Con la creazione della Regione Siciliana il « cavalier Vizzini » divenne il mediatore ufficiale dej traffici fra le « cosche » e la pubblica amministrazione regionale. Leggi, finanziamenti e appalti favorevoli alle «cosche}> furono sollecitati e contrattati dal semianalfabeta patriarca di Villalba che aveva porte aperte e libero accesso agli assessorati regionali. Malgrado ciò la Giustizia non ha mai pensato di chiarire questi fatti. Come non ha mai pensato di scoprire quanti e chi furono (e chi sono) i funzionari regionali assunti per « chiamata mafiosa». Né a dar esito giudiziario alle numerose indagini che riguardano uomini politici che la voce pubblica, e non solo essa, accusa insistentemente di essere mafiosi. I voluminosi dossier che riguardano queste persone restano sempre segreti, immobilizzati da forze misteriose e potenti. E guai a quei magistrati che tentano di riesumare i dossier; ci lasciano la pelle! In genere si ritiene che si diventi mafioso aderendo alla « cosca » con riti piu o meno pittoreschi e segreti. Questi impressionanti riti coreografici erano in uso nelle antiche « fratellanze » che si estinsero nella seconda metà dello scorso secolo: i « FratuZ'..d » di Bagheria, l'« Oblonica » di Agrigento, gli « Stuppaghiara » di Monreale, gli « Scagghiuni » di Enna, « Fontana Nuova» di Misilmeri, la « Fratellanza}> di Favara, ecc., oggi servono. a colorire fantasiosi racconti· giornalistici o scene cinematografiche. Invero si diventa mafiosi per « virtu » propria, se cosi si può dite, anche se è doveroso fare un distinguo fra la mafia di ieri che aveva una sua funzione, per cos{ dire, sociale, e qualche tenue con1 54


notato di umanità, e la sempre spietata criminalità odierna che di veramente mafioso ha solamente la collaudata tecnica. Nella mafia di ieri si diceva che l'« uomo di rispetto » dovesse essere « giusto », doveva cioè rispettare le « leggi » in uso nella subcultura dominante. Il mafioso si mostrava corretto nei rapporti con le altre persone, non sopportava la prepotenza né la praticava era equo e moderato se richiesto d'esprimere un giudizio o un'opinione. Egli era devoto verso la Otlesa e la Religione e di costumi estremamente austeri.16 Infine il mafioso era strettamente legato agli affetti familiari, ai consanguinei, a « compari » e « figliocci » che, secondo le antiche tradizioni isolane, sono paragonati a consanguinei. Da questi legami di affetti traeva origine e forza il nucleo della cosca mafiosa. In verità, in apparenza, il mafioso rispettava l'autorità e le leggi dello Stato che nel suo animo disprezzava e che infrangeva regolarmente e senza titubanza quando lo riteneva necessario. Ma quasi sempre, il ricorso alla violenza avveniva un tempo per « stato di necessità » e non per il semplice gusto di delinquere, mentre negli ultimi venticinque anni la situazione è totalmente cambiata; fatta eccezione per qualche rara « cosca » di paese, la mafia tradizionale è scomparsa per dar vita a una feroce criminalità, dove si mescolano interessi economici e politici. Un esempio classico: nella «famiglia» esemplare del Padrino americano di Mario Puzo che pare sia la biografia romanzata del

boss Joe Profaci nativo di Villabate, i personaggi che meritano la qualifica di «mafioso» sono pochi, appena tre: don Vito Corleone, il figlio Michael e il « consigliore » (che poi è la traduzione « brucculinu » della parola inglese counsellor) irlandese Hagen. Gli altri: il figlio Sonny, i killers Luca Brasi e Rocco Lampone, i « capi regime» Clemenza e Tesio, ecc., sono « musclemen », mentre il figlio Fred e il genero Rizzi sono «nessuno», nobody. Solo i primi tre, che fra l'altro suscitano la « simpatia» del lettore, incutono rispetto e timore. E «pensano }>. Gli altri sono « non pensanti», ed hanno compiti di bassa o alta manovalanza.

16 Un grande conoscitore di « cose di mafia », il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, assassinato nel 1979 alla Ficuz:z:a dai « soliti ignoti », raccontò a chi scrive il seguente episodio di « morale » mafiosa: in un paese dove la « vecchia» e la «giovane» mafia si disputavano il potere, un anziano « don » mise in giro la voce che uno dei « giovani » era un « uomo di merda » perché « usava contro natura con la moglie ». L'uomo accusato portò la moglie a Palermo e la fece sottoporre a visita di perizia da parte di un collegio di medici. Ritornato al paese, rese pubblk:o il documento medico che confermava... l'integrità « posteriore » della donna, e sparò in bocca al calunniatore. Lo stesso colonnello Russo, accennando ai rapporti tra mafia e uomini politici, amava ripetere che, andando in pensione, era sua intenzione di scrivere un libro su tale argomento, con il titolo, molto significativo: LQ schiffo.

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Una volta l'affermazione del mafioso avveniva per pubblico riconoscimento, cioè quando l'uomo di rispetto, per i suoi «meriti», veniva confermato «mafioso» dalla gente. Era sempre infatti la « pubblica voce » a consacrare l'« uomo di rispetto ». Egli era noto a tutti, autorità di polizia comprese, come « pezzo da novanta »,17 come « uomo di onore». A lui si rivomeva deferente e timorosa la popolazione. Fu sfruttando la « pubblica voce » che il prefetto Mori diede un fiero colpo alle cosche mafiose. Dall'azione di Mori non si salvarono nemmeno autorevoli esponenti dd regime, come il medico oculista Alfredo Cucco, alto gerarca fascista, e il ministro ddla Guerra, generale Di Giorgio. Emblematica fu la vicenda di Francesco Cuccia, sindaco di « rispetto »di Piana degli Albanesi. Il Cuccia indicato, correttamente, dalla pubblica voce come « pezzo da novanta» era perfino riuscito a diventare «compare» del Re. Durante una visita a Piana degli Albanesi, Vittorio Emanude III venne a trovarsi ndla Chiesa Madre del paese mentre era in corso un battesimo. Con perfetta regfa, Vittorio Emanuele si vide attorniato, in pochi istanti, da una piccola folla plaudente. Una donna gli mise in braccio un neonato. Poi l'imbarazzato monarca venne spinto verso il fonte battesimale. Fu cosi che il re d'Italia tenne a battesimo il figlio del sindaco mafioso Cuccia. Con aumentato prestigio di quest'ultimo che, da quel momento in poi, divenne per tutti « il compare del re ». Anni dopo il Cuccia, stavolta nelle vesti di « podestà » fascista, accompagnava Mussolini in visita al paese. Vedendo la scorta di polizia che accompagnava il « duce », il Cuccia ebbe la tracotanza di esclamare : « C'era bisogno che Vostra Eccellenza venisse con tutti questi sbirri? qui Vostra Eccellenza è sotto la mia protezione e non Le può accadere nulla di male». Cuccia fu immediatamente spedito al confino di polizia e Mussolini fece dare pieni poteri a Mori per stroncare la mafia. Nelle parole dette a Mussolini dal sindaco mafioso di Piana degli Albanesi c'era, si, tracotanza, ma anche perfetta buona fede. Perché il mafioso si considerava « uomo d'ordine», conscio d'assolvere compiti validi per tutta la società. Il massaro mafioso di Piccola Pretura del magistrato scrittore Lo Schiavo tiene a precisare al giovane pretore: « ... non siamo ribelli ... ma veri uomini d'ordine ... )>, e aggiunge: « ... mi stringa la mano: sono un galantuomo». E, infatti, non esisteva mafioso che non si considerasse, o che venisse considerato, «galantuomo», « uomo d'onore», « uomo giusto», persona moderata ed equilibrata. 17 « Pezzo da novanta • era il piu grosso dei mortai usati per i fuochi d'artificio, quello piu fragoroso e di maggiore effetto.


Nella grande repressione del fenomeno mafioso ordinata da Mussolini a Mori, e nei famosi Decreti Mori diventati poi leggi nel 1926 e 1927, non ci fu niente d'eccezionale, ma molto di spettaco-

lare.

Polizia e carabinieri spazzarono via il brigantaggio e ripulirono a fondo gli ambienti della malavita. Tolsero cosf di me:,,ro la massa di potenziali manovali dei mafiosi: latitanti, ladri, teppisti, sfruttatori, truffatori, vagabondi, giocatori di professione, pervertiti... L'eliminazione degli « uomini di rispetto » avvenne con altrettanta facilità. Da sempre essi erano indicati come tali dalla pubblica voce. Furono catturati e spediti in carcere o al confino di polizia. In· mancanza di prove valide, che qualche volta vennero perfino inventate, furono dichiarati « socialmente pericolosi >> e assegnati ai luoghi di confino. Quasi sempre, prima dell'arresto, il mafioso veniva umiliato in pubblico; con metodi sbrigativi e studiatamente insolenti.. .. Il delegato di PS affrontava il mafioso nella piazza principale del paese sotto gli occhi di tutti gli abitanti. Gli faceva saltare a suon di ceffoni la « coppola » dalla testa e gli « ordinava » il taglio immediato delle basette e del ciuffo mafiosi. L'uomo di rispetto veniva poi ammanettato e trascinato via mentre la popolazione paesana seguiva attentamente, e in silenzio, la scena. Avveniva cosi il crollo dell'autorità e del prestigio mafiosi. Alcune iniziative come l'anagrafe del bestiame per stroncare le secolari tradizioni di abigeato e l'abbassamento dei muretti di campagna, per impedire ]'altrettanto secolare abitudine degli agguati, ebbero notevole importanza psicologica. Ma fu soprattutto il nuovo sistema politico imposto dal fascismo che sorti l'effetto migliore. Con l'abolizione del sistema elettivo furono tagliati tutti i legami che legavano la mafia alla classe politica e questo fece definitivamente cessare l'influenza degli esponenti politici liberali che per cinquanta e piu anni avevano assicurato protezione e vantaggi agli uomini di rispetto. i;: da notare infine che oggi, come ieri, l'attenzione delle autorità e della pubblica opinione verso il fenomeno mafioso si attiva solo in occasione di episodi clamorosi e cruenti. Solo allora la stampa insorge sottolineando la gravità del pericolo mafioso e la . necessità di combatterlo. Spesso i delitti di mafia, specialmente ne.gli ultimi dieci anni, sono tali soltanto tecnicamente, mentre la loro matrice è da ricercare in motivi politici o di malavita, anzi, nel binomio malavita-politica. Il gioco è semplice: le cosche mafiose scelgono i loro indirizzi economici e sociali, gli uomini politici offrono loro gli strumenti legali, la delinquenza quelli illegali. Alle forze di polizia non rimane 1 57


altro compito che l'eliminazione degli elementi che non godono di protezione o che non servono piu. Il verificarsi d'episodi clamorosi e di sangue vuol dire che le cosche sono in crisi e quindi indebolite. Mentre quando non v'è clamore e tutto è calmo significa che le attività delle cosche prosperano. Infatti la mafia si può paragonare a un iceberg la cui parte piu importante e piu pericolosa è quella sommersa. Se da una parte v'è il braccio operativo della manovalanza delinquenziale facile da trovare e da comprare, dall'altra esiste la mente criminale formata da cittadini apparentemente onesti e perbene, che usufruiscono del delitto di mafia, ma che nello stesso tempo assicurano larga e sicura protezione presso autorità politiche e amministrative, banche, enti, istituti, pubblici uffici. Stimati professionisti che investono i ca· pitali della loro clientela (che fa finta di ignorare le origini degli alti proventi) in operazioni di finanziamento del contrabbando di sigarette e di droga, uomini politici e funzionari che approvano, fi. nanziano e collaudano appalti di lavori pubblici che puzzano di mafia, banche e imprenditori che riciclano quattrini di torbida origine ... Tutta gente che vive tranquilla e che si gode serenamente le ingenti fortune accutnulate mentre i « manovali » s'ammazzano fra loro per poche diecine dr migliaia di lire. I n questo campo, negli ultimi anni, il « buon esempio» non viene dal « paese della verità » (cosi è chiamala la Sicilia negli ambienti siculo-americani) , ma dagli Stati Uniti. Le cinque famiglie para-mafiose di New York, ormai da molti anni, stanno vivendo un periodo di incredibile, tranquilla prosperità, operando in silenzio e proficuamente. E i perturbatori dell'ordine mafioso sono stati prontamente eliminati. La cosa ha fatto piacere a tutti, soprattutto alla polizia. La « famiglia pazza», quella dei fratelli Gallo, che aveva osato ribellarsi alle «regole», fu fatta fuori al completo. L'ultimo dei Gallo, « Crazy Joe », che aveva ripetutamente e imprudentemente sfidato l'autorità e gli accordi delle cinque « famiglie » di New York, commise alla fine l'ultima imprudenza che gli riusd fatale. Andò a sfidare i « bosses » fin dentro Little Italy, il piu storico quartiere italiano di New York, diventato da molti anni zona neutrale e amministrato di comune e buon accordo dalle « famiglie » consorziate a tale scopo. Per festeggiare il suo compleanno « Crazy Joe » Gallo e la sua donna presero posto in un tavolo dietro la vetrina di « Umberto's », un ristorante del quartiere specialista in « scungilli », « clams » ed altri « seafoods ». Pochi minuti dopo « Crazy Joe » cadeva fulminato da un colpo di pistola. Il suo uccisore, con incredibile sangue freddo, concluse 1.58


l'esecuzione con chiaro simbolismo : sparò i rimanenti proiettili della stia arma nelle natiche del morto Nel giugno 1971 il boss Joseph Colombo che s'era messo in testa assurdi programmi politici con un movimento antistorico denominato « Italian Power » fu eliminato, forse dietro .pressante suggerimento dello FBI. Nel corso della cerimonia dell'Unity Day, in Columbus Circle, un killer negro mezzo drogato, camuffato da fotografo, sparò a Colombo e venne a sua volta abbattuto nella confusione che segui l'attentato. Per le ferite riportate Colombo fini i suoi giorni paralizzato, e senza senno, su una sedia a rotelle. Infine Carmine Galante che dopo quattordici anni trascorsi in carcere, tentava di reinserirsi brutalmente negli alti vertici di un establishment che ha chiaramente ripudiato i clamorosi metodi di una volta, è stato freddato nel 1979 in un ristorante di Brooklyn. Lo « scassacazzi » Galante raggiunse l'altro mondo dopo un lauto pasto mentre si godeva serenamente il fumo d'un grosso sigaro. Si trattò d'un perfetto esempio di esecuzione mafiosa, portata a termine con le regole tradizionali: un « uomo di rispetto », condannato dalla «cosca» (o dalla «famiglia»), dev'essere eliminato sempre di sorpresa e, possibilmente, « umanamente» . Dopo un lauto pasto o un convegno sessuale. Deve morire, come si suol dite: « sazziu comu Giufà ». Fu la fine che nel 1931 il giovane Lucky Luciano e i suoi amici Costello, Adonis e Genovese riservarono al vecchio boss Giuseppe Masseria che non voleva ritirarsi dagli affari per lasciare il posto ai «giovani». Dopo un ricco pranzo in un ristorante di Coney Island, don Giuseppe e Lucky si misero a giocare a carte. Poi Lucky si assentò per andare alla toilette, il gruppo dei killers entrò nel locale e fece fuori don Masseria. A Luciano non rimase altro che piangere il vecchio boss, cosa che fece con molto impegno. C'è poi da ripetere quanto è già stato detto: i mafiosi spesso non si conoscono fra di loro, ma si riconoscono... al fiuto. Non usano particolari segni piu o meno misteriosi di riconoscimento. Quello che viene gabellato per linguaggio mafioso è semplicemente un linguaggio <<furbesco», cosa comune in tutte le «male», con espressioni gergali siciliane della malavita, della classe contadina e di alcuni mestieri. Piu che le parole, sono il tono e il modo di parlare, e l'effetto terrificante che ne consegue, che distinguono il mafioso. Egli è sem· pre estremamente cortese e « ragionevole ». Le minacce non vengono mai espresse chiaramente, ma adombrate come eventuali pericoli in cui si può incorrere. Il « pezzo da novanta » non esprime mai una opinione recisa, ma pacati consigli e suggerimenti carichi di buonsenso. Anche le azioni violente e criminose vengono adoro159


brate piuttosto che decise e ordinate. Con espressioni tipo: « il tizio non wole sentire ragioni », oppure « il Caio crea delle noie » o « Sempronio s'è messo nei guai». La cosca è quasi sempre formata da consanguinei, da compari, da amici, tutte persone estremamente fidate. Per le azioni criminose vengono utilizzati «balordi» pagati con poche lire. Se fortunati, questi esecutori, e a seconda della loro capacità e del loro comportamento, possono anche essere acquisiti dalla cosca. Ma quasi sempre, quando il « manovale » non serve piu o viene meno alle regole dell'omertà o diventa pericoloso perché pretenzioso o loquace ( « dcbbuli di stomacu » o « lentu di 'ncasciu »), viene eliminato. Piu raramente viene consegnato alla polizia. A conferma degli antichi rapporti di collaborazione, e di collusione, tra mafia e forze di polizia, esiste il già citato proverbio, sempre attuale, che recita: « 'U sbi"u mori mafiusu e 'u mafiusu mori sbirru ». Spesso l'azione del « manovale» mafioso è particolarmente brutale e spettacolare. Ma spesso ciò rappresenta la manifestazione dei tratti psicopatici degli esecutori, anche se non si può ignorare il particolare effetto che il terrore esercita sull'avversario da neutralizzare o da sottomettere. Infine non esiste e non è mai esistito un « capo dei capi», « un patri granni » un « boss o/ the bosses ». Anche se, di volta in volta, nel ruolo di primus inter parcs emergono personaggi della statura di un Vito Cascio Ferro, un Pasquale Enea, un Calogero Vizzini e, in tono minore, un Giuseppe Genco Russo che arrivano a godere del rispetto e della stima generale delle cosche. Essi diventano allora i rappresentanti plenipotenziari degli interessi delle cosche, assumono posizioni di mediatori nelle dispute e nei contrasti che spesso si accendono fra le varie cosche. Ogni cosca, cosi anche ogni « famiglia » americana agisce autonomamente, anzi sovranamente, nei limiti del proprio territorio o settore di competenza. Quando nascono conflitti di interessi o di competenza, essi sono risolti con incontri chiarificatori a vario livello. Fino ad arrivare a veri e propri «vertici». Tali summits si verificano anche per cercare di coordinare in un comune intento strategico, anche temporaneo, le tattiche delle varie cosche o famiglie. Per procedere all'assegnazione dei compiti e alla spartizione di settori o di aree di competenza. In questo momento, per esempio, nel campo del controllo della droga, assistiamo a un perfetto accordo internazionale fra: produttori del Medio Oriente, finanziatori americani, raffinatori marsigliesi e italiani, trasportatori napoletani e coordinatori siciliani. In tempi meno recenti avvenne il famoso summit siculo-americano, fra il 10 e il 14 ottobre 1957, dell'Albergo delle Palme di Palermo. 160


Fu un incontro di consultazione fra elementi del crimine organizzato americano e alcuni mafiosi con lo scopo di studiare la possibilità di riciclaggio di hot money americana e di trovare una soluzione ai dissensi che in quel momento travagliavano le famiglie nuovaiorchesi. Vito Genovese stava emarginando Franlc Costello (mesi prima Costello era sfuggito per miracolo a un attentato commissionato da Genovese). Il parere dei «saggi » mafiosi venne accettato, elevato al rango di arbitrato e subito messo in pratica. Meno di due settimane dopo l'incontro di Palermo, il pomeriggio del 25 ottobre, il sanguinario Albert Anastasia (detto « Mad Hatter », « picconiere pazzo», perché amava usare il piccone per far fuori le sue vittime) venne abbattuto in maniera spettacolare nel salone di barbiere del Park Sheraton Hotel. « Big Al » era nella sua solita poltrona, col viso avvolto d.a umidi panni caldi, quando due uomini mascherati gli scaricarono addosso le pistole. La morte di Albert Anastasia fu immediatamente seguita (14 novembre) da un affollato summit del sindacato del crimine, sollecitato con intento pacificatore da Magaddino. Dozzine di capi famiglia, giunti d.a tutti gli States, si diedero convegno nella villa di Joseph Barbara di Apalachin, una località dei monti Catskills dello Stato di New York. Il summit ebbe un epilogo movimentato a causa dell'imprevisto intervento della polizia, ma sembra che abbia sortito Io stesso un risultato efficace. Dopo d'allora regnò tra le «famiglie » la grande bonaccia, propugnata da elementi moderatori ed equilibrati come don Carlo Gambino, prima, e Aniello Dalla Croce, oggi. Quando nei summits non si raggiunge un accordo, la crisi diventa irresolubile e scoppia la guerra fra le cosche. Tali guerre sono cruente e spesso durano anni. Come la guerra fra i Greco e i La Barbera di Palermo che ebbe fine solo con l'eliminazione fisica dei fratelli La Barbera e degli uomini della loro cosca. O la guerra che le giovani leve mafiose di Palermo hanno oggi in corso con i vecchi clan dei Badalamenti, Di Maggio, Bontade, ecc. Durante il periodo fascista l'azione repressiva, qualche volta terroristica, del prefetto Mori diede risultati strepitosi. Ma se molti « uomini di rispetto » e la loro manovalanza furono incarcerati o confinati, l'<< alta mafia», chiamata anche « mafia in guanti gialli o dei colletti bianchi », composta da uomini dal « sentire mafioso », sempre al di sopra d'ogni sospetto (ivi compresa la classe politica liberale pre-fascista), venne solo sfiorata. Tagliata fuori d'ogni possibilità di accesso al potere politico, entrò « in sonno». Le popolazioni, già tiranneggiate dalle cosche, tirarono un sospiro di sollievo e cominciarono a scrollarsi di dorso l'obbligatorio vincolo dell'omertà. I crimini nelle campagne: rapine, omicidi, estorsioni, abigeati e furti scesero a livelli bassissimi, e :r6I


gli estagli delle gabelle dei terreni salirono di colpo di valore. Poderi che per decenni avevano fruttato poco o niente ai loro proprietari, divennero di colpo remunerativi. Anche nelle città l'attività della malavita scese a livelli quasi irrilevanti. La gente cominciò a dire che « con Mussolini si può dormire con le porte aperte ». Il che rispondeva a verità. Tale situazione durò fino al 1943. Con la, per certi versi inspiegabile, abrogazione dei Decreti Mori tra la fine del 1942 e il 1943 rientrarono in Sicilia gli uomini di rispetto. L'alta mafia, sotto la spinta degli avvenimenti militari e politici, cominciò a ridestarsi. Nello stesso tempo i servizi segreti alleati avevano preso contatto con gli elementi politici para-mafiosi del pre-fascismo e i « pezzi da novanta» che rientravano in Sicilia dai luoghi di confino. L'incontro tra mafia e servizi segreti americani avvenne tramite i buoni uffici delle «famiglie» della costa atlantica degli States. L'accordo scaturi da un incontro avvenuto all'albergo del Sole di Palermo fra don Calogero Vizzini, autorevole esponente della mafia del feudo, e Vito Genovese a quel tempo esule forzato in Italia, ma che negli Stati Uniti, assieme a Lucky Luciano e Frank Costello, era stato nel direttorio di vertice di quel sindacato criminale generalmente chiamato, per fantasiosa brevità, « Cosa Nostra». Cosi facendo, Vito Genovese si guadagnava il biglietto di ritorno in America. Questa gente, ripresi i contatti con la già influente classe politica prefascista che in quel momento stava riorganizzando le proprie file, s'assunse il compito d 'assicurare un'efficace collaborazione alle armate anglo-americane che si preparavano a. invadere l'isola. Cosi come, in altri campi, stava facendo il Supersim creato apposta per facilitare l'esecuzione degli accordi già presi dalla monarchia e dallo stato maggiore generale italiani con gli anglosassoni. Quale aiuto potevano dare agli Alleati gli « uomini di rispetto » e i loro amici dal « sentire mafioso »? Sicuramente non un diretto aiuto militare. Tant'è vero che le ingenue proposte d'insurrezione armata, avanzate dagli inconsistenti gruppi comunisti isolani, furono . seccamente respinte dagli altri gruppi politici clandestini. Mafiosi o persone di loro fiducia aspettavano lungo le coste le PT boats e i sommergibili che sbarcavano agenti e sabotatori, offrivano sicuri rifugi e preziosi collegamenti. Il colonnello inglese Hancock, che doveva poi sostituire Paletti, fu fatto sbarcare nei pressi di Gela la notte del 16 aprile 1943. Alcuni «picciotti» lo accompagnarono alla villa dell'ex deputato Arturo Verderame. Dopo un breve soggiorno a Gela, Hancock si trasfed a Palermo e trovò rifugio in un appartamento di via Mariano Stabile, vicino ai Quattro Canti di Campagna. Nello stesso edificio aveva lo studio l'avvo162


cato Ramirez che con l'occupazione americana della città fu nominato assessore comunale e pochi mesi dopo divenne sottosegretario del governo Badoglio. Elementi dei servizi segreti alleati, appoggiati alla rete delle conoscenze mafiose, la notte fra il 9 e il 10 luglio crearono il caos nelle comunicazioni delle forze di difesa. Provocarono interferenze telefoniche e tdegrafiche, interruzioni stradali, segnalarono con razzi multicolori gli obiettivi a paracadutisti e truppe da sbarco. Infine attaccarono alle spalle capisaldi e comandi della difesa costiera. Le pattuglie dell'OSS che precedevano l'avanzata delle truppe americane, vestivano abiti borghesi ed erano guidate da uomini della mafia. È noto che lo stesso don Calogero Vizzini fu avvertito con messaggi lanciati da un aereo. All'arrivo degli americani a Villalba, don Calogero prese posto su un carro armato · che sventolava una bandiera giallo-oro con una « L » nera al centro. Vizzini e il figlioccio Damamiano Lumia, detto « Dam » perché era vissuto a lungo negli States, guidarono le colonne americane fino a Cerda. Inoltre, nei mesi precedenti lo sbarco, gli anglo-americani cominciarono a ricevere dettagliate informazioni militari sulla Sicilia. Anche se gli Alleati disponevano di notizie di prima mano e da fonti originali, corroborate dalla perfetta fotografia aerea che i velivoli effettuavano quotidianamente su tutta l'isola, la cosa sicuramente non dispiaceva ai comandi anglosassoni. Ma, a parte tutto questo, i mafiosi della Sicilia centrale e occidentale ·si rivelarono un aiuto prezioso per gli Alleati... in vari

modi. Essi riuscirono ad ammorbidire lo spirito combattivo dei reparti italiani. Per ottenere questo risultato ricorsero all'antica, suadente dialettica del «ragionamento» mafioso. Con sottili discorsi fatti a base di: « La guerra è perduta e ogni altro sacrificio è inutile», « Fu;iri è virgogna ma è salvamentu di vita», « 'U mortu è mortu a;utamu 'u vivu », << Calati ;uncu ca' passa la china» (Piegati giunco e lascia passare la piena: sta per sapersi adattare alle peggiori evenienze), ecc. Aggiungevano che la resistenza a oltranza « avrebbe provocato altri lutti e distruzioni fra le popolazioni » e riuscivano a far breccia nei cuori dei soldati che dal canto loro erano già spontaneamente ben disposti . In molti casi gli « uomini di rispetto » si imposero ai comandanti di reparto decisi a resistere, obbligandoli invece a desistere. Assieme alla popolazione che fu prodiga d'aiuto verso i soldati sbandati, essi procurarono abiti · borghesi agli uomini dei reparti che si dissolvevano. I siciliani se ne andarono a casa, i « continentali >> si arresero, o trovarono rifugio presso commilitoni isolani o famiglie ospitali, o cercarono di ripiegare verso Messina. « Le truppe italiane, dislocate nella zona delle Madonie, lungo il


crinale di Manchi, per le pendici del Monte S. Pieri, Alia, fino al bivio di Cerda e dal versante opposto sul Monte Cammarata e lungo la valle del Platani fino a Lercara, vennero sottoposte a pressioni per desistere dalla resistenza e deporre le armi. A Villalha, Mussomeli, Valledolmo, Vallelunga, Lercara, Caccamo, Sciara, Termini e in molti altri paesi le armi vennero raccolte da noti esponenti della mafia ... »1• Uguale, sottile opera di convincimento veniva condotta verso la popolazione, terrorizzata dall'arrivo degli invasori, specialmente dei «turchi» (negri} che « prendevano le donne, uccidevano i bambini e razziavano ogni cosa ». I mafiosi si presentarono alla popolazione come gli << unici tutori dell'ordine», il che era forse vero, considerato il momento · storico e lo squagliamento delle autorità.19 I mafiosi dicevano· che solo loro potevano ottenere dagli americani il rispetto della popolazione civile, che fra i soldati invasori v'erano molti « amici e paesani» che portavano pane e cibo in abbondanza. S'inserivano poi abilmente nella vacanza di potere che s'era creata davanti all'avanzata del nemico, assicuravano di poter mantenere l'ordine in quanto solo loro avevano l'autorità e la forza per mettere a posto eventuali malintenzionati che avessero voluto approfittare della situazione per darsi alle razzie e ai disordini. Fra la paura e la stanchezza generale, le abili parole dei mafiosi trovarono un terreno fertile e la gente, in qualche località, accettò anche il consiglio di applaudire i soldati nemici <~per tenerli buoni e predisporli benignamente». La speranza della fine della guerra e delle sofferenze spinse alquanti ad applaudire. Cosa che molti fe. cero con una gran voglia di piangere rinserrata nel cuore. L'opera di «persuasione» della mafia continuò sotto il governo militare alleato e servi a tener tranquille le popolazioni di alcune località, e a bloccare ogni atto di ostilità verso gli invasori. Gli Alleati ebbero cosi la sicurezza delle retrovie. (Anche il clero si prestò, a fini umanitari, in quest'opera di disarmo morale delle truppe e della popolazione. C'è però da precisare che nei paesi di mafia il clero è quasi sempre complice volontario od obbligato delle cosche mafiose. A parte ogni altra considerazione sono note la partecipazione del clero al gruppo di potere locale che secondo il 18 19

M. PANTALEONE, La Mafia ieri e oggi, Palermo, 1967, p. 19. Il ddcreto di militarizzazione del territorio della Sicilia era apparso sulla « Gazzetta dd Regno» il 4 giugno 1943. Tutti i poteri erano passati alle autorità militari. Le autorità civili erano state esautorate: prefetti, questori, podestà, segretari federali non ebbero piu alcuna voce in capitolo. Cominciò lo sbandamento. La gente non sapeva ph1 dove, come e a chi rivolgersi. Con l'esautoramento dei suoi capi naturali, il popolo senti ancor di piu l'abbandono. In quei giorni i quadri fascisti si dissolsero.


detto popolare sta sul trinomio « sbirri, mafia e parrini - preti - » e l'incapacità d'opposizione e reazione della Chiesa contro il fenomeno mafioso.) Nella Sicilia occidentale gli americani vennero accolti un po' dappertutto dagli applausi di gruppetti di persone, sapientemente orchestrate dagli uomini dell'onorata società. Ma fu a Monreale che gli yankees ebbero un vero e proprio trionfo. La famosa cittadina alle porte di Palermo era a quel tempo dominata dal vescovo, monsignor Ernesto Filippi. Questo singolare principe della Chiesa aveva avuto un burrascoso soggiorno in Messico. Durante quel periodo pare che Filippi avesse avuto l'incarico di alienare i beni della Chiesa insidiati dalla politica antireligiosa del governo messicano. Si disse che buona parte di questi beni fossero andati a finire nelle mani della vasta parentela del prelato. Venuto in Sicilia l'abile vescovo aveva saputo crearsi un bel posticino al sole. Aveva assunto una posizione di tutto rispetto nell'ambiente degli « amici degli amici» e durante gli anni della guerra s'era guadagnato la simpatia dei servizi segreti alleati. Infine il sorprendente uomo di Chiesa ebbe un ruolo di primo piano nelle complicate vicende che coinvolsero il bandito Giuliano, gli uomini della sua banda e le maggiori cosche mafiose delle province di Trapani e di Palermo. Durante le operazioni militari nell'isola gli americani completarono la loro operation underworld aprendo le prigioni ai detenuti disposti a collaborare con i loro servizi segreti. Altri « amici » della causa alleata furono arruolati ne1 carcere di Caltanissetta, ai « Cavallacci» di Termini Imerese, all'Ucciardone di Palermo, alla Favignana ... Anche il Secret Service britannico arruolò collaboratori &a i detenuti delle carceri di Siracusa, Catania e Messina e dei penitenziari di Noto e Augusta.20 Il « cavaliere » don Calogero Vizzini, per la sua attività a favore della causa alleata, fu nominato sindaco di Villalba. La carica gli venne data dai CAO americani, tenenti Beher e Richard L. Criley della compagnia A.U.S. di Mussameli. La cerimonia si svolse nella locale caserma dei carabinieri, alla presenza di una folla 'di 20 « Dal giorno 10 luglio 1943 al 22 aprile 1944 sono stato alle dipendenze del ma;or Fieldman e del captain O' Donnell (inglese il primo, irlandese il secondo), ambedue poliglotti; essi fin dal principio ebbero a clinni che il mio sacri.ftcio era appunto per abbreviare la guerra in Sicilia, e risparmiare vite umane, Diecine sono state le missioni pericolose da me compiute... il maggiore Fieldman faceva "raccolta" di oggetti di valore: oro, tele dipinte, ed oggetti antichi... ne aveva "raccolti" tre casse... ». Testimonianza scritta del sig. A.A. in data 4 settembre 1976 in possesso dell'autore. L'A.A. alla data del 10 luglio 1943 si trovava detenuto nel carcere di Siracusa; venne arruolato, con promessa di liberazione, dal Secret Servicc inglese e poi ricompensato con un impiego presso il monicipio di Siracusa.


«amici» ed estimatori. Fra questi v'erano il dottor Calogero Volpe, poi sempre rieletto deputato DC al parlamento e piu volte sottosegretario della Repubblica, e padre Piccillo della Curia vescovile di Caltanissetta, I buoni rapporti di don Calò con la Santa Chiesa erano consacrati da due fratelli preti e due zii vescovì. La cerimonia della nomina del sindaco fu accompagnata dai numerosi presenti con festose grida di « Viva don Calò », « Viva la mafia » e « Viva la delinquenza! ». Don Calogero Vizzini raggiunse i piu alti vertici del potere e del prestigio. Visse rispettato, adulato, ossequiato dalla classe politica che s'era impadronita dell'isola. Vizzini fu tra i maggiori esponenti del movimento separatista 6n quando questo sembrava aver speranze di successo; poi, con tempestiva e felice scelta, passò alla Democrazia Cristiana. Tanto che alla vigilia delle elezioni regionali del 1947, l'avvocato Alessi, che di li a poco sarebbe diventato il primo presidente della Regione siciliana, riconobbe pubblicamente i meriti del patriarca mafioso. Nel suo comizio a Villalba, Alessi dichiarò che « dietro l'onesto e illustre casato della famiglia Vizzini v'è tutta la Democrazia Cristiana». Ipse dixit. Quando 1'11 luglio 1954 don Calogero Vizzi.Di mori, per la Sicilia che «conta» fu una grandissima perdita. Una folla cli uomini politici, pubblici amministratori, « amici » e « amici degli amici » arrivò in mesto pellegrinaggio a Villalba per rendere l'estremo saluto alla salma del patriarca mafioso. La Chiesa Madre del paese espose un grande drappo nero con un solenne epitaffio che diceva: Calogero Viv.ini Con l'abilità di un genio, innalzò le sorti del distinto Casato. Sagace, dinamico, mai stanco, diede benessere agli operai della terra e delle zolfare. Operando sempre il bene si fece un nome assai apprezzato in Italia e fuori. Grande nelle persecuzioni, assai piu grande nelle disdette, rimase sempre so"idente. Ed oggi con la pace di Cristo, ricomposto nella maestà della morte, da tutti gli amici, dagli stessi avversari, riceve l'attestato piu bello: Fu un galantuomo.

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IX. NON SI PARTE! « La Sicilia ai siciliani e l'Italia al primo figlio di puttana che la vuole ».

(Scritta appars~ sui muri delle case di Catania nel 1944.)

Il governo Badoglio dichiarò guerra alla Germania il 1.3 ottobre del 1943. Tale atto ufficiale fu voluto dagli Alleati soltanto per scopi politici, in quanto gli anglo-americani non riconoscevano alcuna capacità bellica all'Italia e alle sue forze armate che si erano dissolte. Il maresciallo Badoglio e il vecchio re avevano cercato di resistere alle pressanti richieste avanzate dagli Alleati; Vittorio Emanuele III obiettava che era meglio aspettare la liberazione della capitale Roma, che si presentava vicina, per la dichiarazione di guerra. Alla fine MacMillan riusci a convincere Badoglio facendo presente che, fino a quando non fosse stata dichiarata la guerra, i soldati italiani che si battevano contro i tedeschi non avrebbero avuto uno status, ma, a norma delle Convenzioni Internazionali, dovevano ritenersi « franchi tiratori ». Tanto che i germanici avevano già spietatamente applicato tali leggi di guerra a Cefalonia e altrove. Dopo il 13 ottobre passarono quasi due mesi prima che gli Alleati prendessero in considerazione l'eventuale apporto bellico dell'Italia. Soltanto alla fine di dicembre gli anglo-americani decisero un incontro con le massime autorità militari italiane per studiare un piano di cooperazione bellica. L'incontro ebbe luogo in Santo Spirito, un sobborgo di Bari, presso la sede del comando del XV Gruppo d'armate anglo-americane. Gli italiani presenti erano il capo del Governo, maresciallo Badoglio e il maresciallo Messe, capo di S.M. generale, il quale era stato fatto rientrare dalla Tunisia dov'era prigioniero per prendere il posto del generale Ambrosia. I rappresentanti alleati erano: i generali Eisenhower e Alexander con i rispettivi capi di SM. Smith e Richardson, il generale Joyce presidente della Commissione Alleata di Controllo in Italia e il generale Robertson che dirigeva i servizi amministrativi del comando· supremo alleato. Motivo determinante dell'incontro erano state le notizie giunte dal Nord Italia che confermavano la rapida ricostituzione dell'esercito italiano della Repubblica Sociale e l'annuncio che unità di tale esercito, oltre che operare alla frontiera delle Alpi orientali, si apprestavano a entrare in linea contro gli anglo-americani. Tale annun-

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do aveva provocato l'azione dell'8 dicembre 1943 nella zona di Monte Lungo sul fronte di Cassino. Nell'azione il I Raggruppamento Motorizzato italiano, inquadrato nella 36a divisione americana, s'era comportato molto bene. (Dopo Monte Lungo il Raggruppamento si trasformò in Corpo Italiano di Liberazione e venne sciolto con l'occupazione di Roma per essere riordinato in Gruppi da Combattimento. In tale occasione i soldati italiani, per disposizione del comando alleato, smisero di indossare il grigioverde, in dotazione dal 1911, per vestire la divisa inglese.) Nell'incontro di Bari gli Alleati accettarono, solamente in linea di principio, la richiesta d'« una maggiore partecipazione italiana • alla guerra ». Si precisò che « eventuali truppe combattenti italiane» sarebbero state armate ed equipaggiate dagli Alleati, mentre quelle d'« occupazione » (? !) avrebbero avuto dagli Alleati solamente il vestiario (vecchie uniformi usate, sdrucite e scolorite) . Questo stanco tentativo di ridar vita a un modesto esercito italiano non venne mai preso sul serio dagli Alleati, tanto che il giorno che a Londra si parlò incidentalmente della collaborazione militare italiana alla causa alleata, la Camera dei Comuni proruppe in una corale sghignazzata. Anche la promessa alleata d'armare «modernamente» i nostri reparti non aveva alcuna consistenza. Anzi, gli anglo-americani si presero le nostre armi: il « vituperato fucile mod. 91, il mortaio da 81, il cannone da 75, la mitragliatrice Breda. Insomma il materiale e le armi accumulate nei magazzini dell'Italia meridionale ».1 Lo stesso Badoglio sarà costretto a confessare: « Ho detto che non ci vennero date armi; devo aggiungere che, in compenso, molte ci furono tolte ».2 Gli Alleati non solo si appropriarono di armi e munizioni, ma ripulirono i magazzini militari di viveri, vestiario, casermaggio e oggetti di corredo, tanto che, come vedremo, le cartoline di richiamo alle armi faranno riferimento a questi oggetti. I mesi che passarono dopo l'incontro di Bari furono dedicati a un frenetico scambio di carteggi e di piani fra i vari uffici militari. Un timido tentativo, avanzato a giugno 1944, di poter sostituire con reparti italiani le truppe nordafricane che facevano scempio della popolazione civile del Sannio e della Ciociaria, con stupri, saccheggi e massacri venne totalmente ignorato dal comando alleato.3 • Cfr. CAltLO DR BIASE, L'Aquila d'Oro, Milano, 1970, p. 447. 2 Cfr. P. BADOGLIO, L'Italia nella seconda guerra mondiale, Milano, 1951,

p . 142.

3 Cfr. Ministero della Difesa S.M.E., Ufficio Storico, I Gruppi di combattimento, 1943-1945, Roma, 1973.

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Ad agosto 1944 gli Alleati facevano sapere che avevano localizzato nella zona di San Giorgio del Sannio il luogo di addestramento delle divisioni «Cremona» e «Friuli» per ragioni politiche denominate « Gruppi di C.Ombattimento », mentre gli italiani avrebbero preferito le zone montuose dell'Abruzzo. Solamente nel dicembre 1944 un paio di Gruppi, il «Cremona >> e il «Friuli», sembravano in grado di poter operare. Nel frattempo le autorità militari italiane proponevano l'esecuzione di alcuni provvedimenti ritenuti urgenti: propaganda per cercare di valorizzare il contributo dell'esercito italiano nella guerra di Liberazione, bloccare l'azione di alcuni partiti politici contro l'esercito, ripristino dell'obbligo di leva, provvedimenti coercitivi contro renitenti e disertori, aumento dei sussidi alle famiglie dei richiamati, istituzione di polizze assicurative a favore dei militari e delle famiglie ... Secondo le disposizioni degli Alleati, le truppe combattenti italiane non dovevano superare gli effettivi di 57 .000 uomini, piu un dieci per cento per unità ausiliarie e complementi, per un totale complessivo di 62.700 uomini. Essi dipendevano dal MM.I.A. (Missione Militare Alleata in Italia). Per l'addestramento e le operazioni dovevano sottostare al B.L.U. (British Liaison Units), per le armi, i mezzi di trasporto, il vestiario, l'addestramento, i collegamenti, ecc., era responsabile il comando dell's• armata britannica. Gli ordini venivano redatti in inglese e poi tradotti in italiano. ll CO· mando inglese distaccò in ogni Gruppo di C.Ombattimento « nuclei ed elementi inglesi destinati formalmente per una funzione di collegamento ma che nella sostanza finirono con l'assumere vere e proprie funzioni ispettive e di controllo ... fino a ferire l'amor proprio, il prestigio e la stessa capacità dei nostri comandanti e dei nostri quadri...». Cfr. Ministero della Difesa, op. cit. Le disposizioni alleate stabilivano che le truppe combattenti italiane potevano operare solo se inserite nei reparti inglesi e mai autonomamente. All'inizio del mese di settembre 1944 le forze armate del Regno del Sud avevano raggiunto la forza massima consentita dagli Alleati: 474.000 uomini. Gli effettivi erano cosi distribuiti: carabinieri 55.000, amministrazione 27 .000, sicurezza interna 37 .000, complementi 18.700, addetti ai servizi delle forze armate alleate 172.600. Le truppe combattenti erano, come abbiamo visto, 57.000. (Con i 75.000 marinai, tutti alle dirette dipendenze della Royal Navy britannica e i 31.000 dell'Aeronautica messi a disposizione dalla USAAF e della RAF si arriva appunto a 473 .300 uomini.) A onta dell'asserita « partecipazione popolare alla guerra di Liberazione» i «volontari » dell'Esercito del Sud erano pochini:


5.288, compresi 788 « part1g1aru » che avevano operato nelle Marche, in Abruzzo e in Toscana. Le divisioni italiane di stanza nel Meridione, in Sardegna e in Corsica: «Piceno », «Mantova», «Nembo», «Legnano», « Bari », « Sabaudia », « Calabria », « Cremona», « Friuli », piu dodici divisioni costiere e reparti vari per circa 400.000 uomini, soprav· vissute allo sfacelo dell'8 settembre, vennero « intaccate, menomate, mortificate per costituire battaglioni di lavoratori e divisioni ausiliarie che servivano le armate alleate per i servizi di queste ». I militari italiani indossavano divise smesse degli inglesi, avevano una razione viveri ridotta di un terzo e « anche nella forma furono asserviti agli inglesi, all'umiliante livello di un esercito di colore ».4 Tutto questo in nome della « cobelligeranza ». « Una brutta parola con suono cattivo» scriveva il « Times » del 1° ottobre 1943. (Alcuni mesi dopo Badoglio confessava al corrispondente della Reuter Cecil Sprigge: « Se mi chiedete quali vantaggi l'Italia abbia tratto dalla cobelligeranza ... la risposta sarebbe assolutamente nes-

suno, ma questo non si può dire».) Altro che cobelligeranza, altro che combattere « contro il tedesco invasore per la liberazione dell'Italia ». I soldati italiani dovevano servire, e servirono « in qualità di facchini, di conducenti di salmerie, artieri e manovali. Migliaia e migliaia di giovani italiani vennero impiegati in questo umile lavoro, assai spesso a fianco a negri».' Il richiamo di nuove classi avveniva, dunque, non per creare altre unità combattenti, ma per soddisfare le esigenze delle armate alleate che avevano bisogno di altri scaricatori, facchini e mulattieri. Poi v'era la necessità di congedare gli uomini delle classi anziane, snervati da otto, dieci anni di servizio militare e di guerre e che minacciavano di disertare o di ribellarsi. Fu cosi che il ministero della Guerra il 23 settembre 1944 dispose « la presentazione alle armi di militari aventi obblighi di servizio delle classi dal 1914 al 1924 compreso» (poi furono aggiunti anche due scaglioni del 1925). Il richiamo doveva avvenire per quote regionali a cominciare dal Lazio e la Campania, e "terminare a dicembre-gennaio in Sicilia. In quest'ultima regione i richiamati, previsti in 73.725, dovevano presentarsi ai distretti militari in due periodi: dal 15 al 22 dicembre e dal 3 al 5 gennaio. Una bella strenna di Natale! Secondo gli Alleati, il sistema italiano di mobilitazione era stato « corrotto dai metodi fascisti » e per tale motivo « ... le diserzioni erano numerose. Una divisione, ad esempio, perse i suoi uomini in 4 Cfr. P. BRRA1ll>I, Memorie di un Capo di Stato Maggiore dell'Esercito, Bologna, 1954, p. 74. 5 Cfr. AGOSTINO DEGLI EsPINOSA, Il Regno del Sud, Firenze, 1955, p. 79.

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ragione di 250 individui al giorno, riducendo cosl'. i suoi effettivi da 7.500 a 2.500. Nell'autunno del 1944 una chiamata alle armi nel Lazio, raccolse 3.700 uomini mentre il numero previsto era di 11.000 ». Ma poi le misure consigliate dalla sottocommissione alleata « dettero degli eccellenti risultati ... ». Un giornale per le forze armate ( « La Patria ») e una razione giornaliera di cognac contribui. rono a tenere su il morale delle truppe ...6 La verità era che non fu possibile fare un calcolo, anche approssimativo, dei richiamandi alle armi. In Sicilia i distretti e gli uffici leva erano andati distrutti per eventi bellici, per saccheggi e devastazioni. Si conoscevano soltanto i gettiti che le classi soggette a richiamo avevano dato all'inizio della guerra. Ma v'erano state le perdite dovute alle operazioni belliche e allo sbandamento del1'8 settembre. Il numero di 73.725 corrispondeva, all'incirca, a un quarto del gettito all'inizio della guerra. Circa 20.000 uomini erano da reclutare nella provincia di Palermo, 15.600 in quella di Catania, 9.000 a Siracusa e cosi via ... C'è da aggiungere che con il passaggio dell'isola all'amministrazione italiana erano stati ricostituiti i distretti militari. In tale occasione moltissimi sbandati, che avevano fatto ritorno a casa, si erano spontaneamente presentati ed avevano sistemato, senza fiatare, la loro posizione militare. Era pacifico per loro avere chiuso con la guerra e col servizio militare.' Nella maggioranza si trattava di uomini che avevano fatto anni di guerra ed erano rientrati nell'isola dopo 1'8 settembre, a costo d'incredibili vicissitudini. Erano venuti a piedi dalla Francia, dalla Jugoslavia, dal Centro e Nord Italia. Altri, con improvvisate imbarcazioni, erano rientrati dalla Grecia e dall'Albania. Diecine di migliaia di moderne « anabasi » e « odissee ». In previsione dei richiami alle armi, l'organizzazione militare dell'isola era stata completata con lo sdoppiamento, e il relativo rafforzamento, della di-. visione « Sabaudia» in due divisioni S.I. (Sicurezza Interna) che presero i nomi di « Sabaudia » e « Aosta ».a Dei 73.725 uomini da richiamare in Sicilia, le autorità militari prevedevano di poterne utilizzare non piu di 20.000. Tale prudente calcolo teneva conto delle particolari condizioni morali e politiche delle popolazioni. Fu cosi che nella seconda settimana di dicembre Cft. « Rassegna delle attività», ecc., ccc., cit. Queste le dignitose parole dette da Frank Mannino della « Banda » Giuliano, nella seduta del 2 luglio 1970, alla C.Ommissione Antimafia: « ... I nostri ufficiali dissero: ragazzi chi si salva si salva. Io ero un ragazzo di appena vent'anni, m'avevano inculcato l'amore per la patria, quindi il sentirmi dire dai miei ufficiali "chi si salva si salva" fu una cosa mortificante... C.Omunque voltammo le spalle e ce ne. andammo... 1>. 6

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8 Cfr. « Diario Storico» della divisione « Sabaudia» n. 6220, prot. ali. 4 del 6 settembre 1944.

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1944 commcrarono ad arrivare le cartoline rosa di richiamo alle armi. I richiamati dovevano presentarsi ai distretti con « gavetta, cucchiaio, forchetta e coperta». Questi oggetti, assieme ad altri di dotazione militare, eventualmente in possesso dd richiamato, sarebbero stati rimborsati dall'amministrazione militare. La cartolina precetto elencava, infatti, un dettagliato tariffario di rimborso. Già fin dalla metà di novembre la notizia dei richiami alle armi aveva provocato cortei e dimostrazioni di protesta che si erano poi sciolti pacificamente (ma a Chiaramonte Gulfi, il 17 novembre, la folla aveva invaso e devastato l'esattoria comunale. I carabinieri avevano sparato e due giovani erano caduti) . Dappertutto cominciavano ad apparire manifesti e scritte murali contro il reclutamento: « Non presentatevi », « Non si parte! », « Morte ai Savoia », « Viva la Sicilia libera », « Siamo una terra invasa, non tocca a noi fare la guerra ». A Comiso una scritta diceva: « Giovane! conserva il tuo sangue per la repubblica. Viva la repubblica! » « Chi si presenta è un vile monarchico ». A Modica: « Basta! Vogliamo soffrire in pace! Abbasso il censimento militare! Abbasso il re! ». A Ragusa il 9 dicembre, nella piazza dell'Impero ribattezzata piazza Libertà, si leggeva: « Coraggio Fascisti - Duce! ». Altre scritte apparivano nei paesi: « Non vogliamo combattere per gli Alleati! Non vogliamo andare contro i nostri fratdli del Nord! Il Duce ritornerà! Disertare non è un disonore ». E ancora: « Lasciateci piangere in pace » e volantini: « Siciliani! reclamiamo la nostra libertà e chiediamo di essere lasciati soli. Siamo già stufi e non vogliamo piu sentire di solidarietà nazionale. Abbasso dunque ogni eventuale chiamata alle armi e che nessuno si presenti ; qualunque sia la forza che ci opponga, mostriamoci degni :figli dei Vespri siciliani per la difesa della nostra sacrosanta libertà! »

Un altro diceva: « Siciliani, i latifondisti unitari e i monarchici cercano d 'affamare il nostro popolo, non ci lasceremo ingannare. Siciliani! disprezzate gli unitari, essi tradiscono la nostra terra e affamano il nostro popolo! ».9 E ancora scritte: con minacce, imprecazioni, maledizioni, ingiurie contro tutti e contro tutto. Per arrivare alla suprema ingiuria che metteva a tacere tutte le altre: « La Sicilia ai siciliani e l'Italia al primo figlio di puttana che la vuole! ». Il 20 novembre i giornali reiteravano l'ordine di « censimento 9 Cfr. l'interessante rievocazione di G . LA TEIUtA, Le sommosse nel ragus11110, in « Archivio Storico per la Sicilia orientale •, 1973, fase. II, p. 259 e seguenti.


di militari delle classi dal 1914 al 1° quadrimestre del 1924 ». La collera popolare continuava a montare. Il 22 e il 23 novembre, a Catania, cortei di dimostranti protestavano con grida e cartelli che dicevano « Abbasso il censimento. Non ci presenteremo! ». Ai primi di dicembre avvennero gravi tumulti ad Alcamo, causati da una ordinanza del commissario prefettizio che vietava ai mulini di macinare per conto terzi (il prezzo del pane era arrivato a 230 lire al chilo). La folla incendiò il municipio e gli altri uffici pubblici. Un giovane avvocato del posto, di nome Cassarà, ritenuto istigatore del tumulto e « separatista », fu arrestato dai carabinieri e tenuto « sequestrato » per 75 giorni, senza esser deferito alla autorità giudiziaria. Il 14 dicembre 1944 il quotidiano di Catania, « Corriere di Sicilia», usciva con l'editoriale Per la bandiera, intriso della peggiore retorica patriottica che era stata rimproverata ai fascisti. L'estensore dell'articolo ignorava quant'era accaduto: l'invasione della Sicilia, l'armistizio dell'8 settembre, la fuga a Pescara del re, di Badoglio e del gregge dei generali, le dozzine di divisioni «dimenticate» in terra straniera e abbandonate alla furia di tutti, per incitare i gi~ vani a tornare a combattere. Ma ormai nessuno poteva piu credere alle frasi d'effetto patriottico. Lo stesso 14 dicembre, nella mattinata, un gruppo di richiamati, e gli studenti che avevano disertato le scuole, si diressero verso il distretto militare di Catania. In pi.azza Stesicoro, il corteo fu ingrossato dalla folla di mercanti-straccioni che sostavano perennemente davanti al Cinema Olimpia. Superata la strada in salita, la folla cominciò a manifestare davanti al distretto accanto alla chiesa di San Domenico. I senzatetto, stivati nell'attigua fatiscente caserma-convento, osservavano la scena. La folla gridava slogans e protestava; nient'altro. Fu allora che dal distretto partirono alcuni colpi di fucile sulla folla. Un ragazzo di 25 anni, un sarto di nome Antonino Spampinato che teneva in mano un cartello « Non partiremo », si accasciò a terra col cranio fracassato da un proiettile. La folla si disperse in cerca di riparo. Quando nello spiazzo e nella scalinata davanti al distretto non vi fu piu nessuno, si apri un portoncino e ne uscirono due soldati che afferrarono il corpo del caduto e lo trascinarono dentro. Pochi secondi dopo il portoncino si riaprf per lasciare passare un altro militare che, armato di scopa e raccoglitore, spazzò alcuni grumi di materia cerebrale rimasti a terra dov'era caduto lo sventurato sarto. Quello che poi accadde a Catania è stato definito, e liquidato, dalla storiografia ufficiale come « uno scatenamento della teppaglia ». Tale facile spiegazione chiarisce una volta e per sempre l'antico detto siciliano: « Chi vind è beddu figghiolu e chi perdi si gratta 'u ci-


trolu ». L'esasperata protesta popolare non vinse e non poteva vincere. Altrimenti oggi assisteremmo alle solite, commoventi rievocazioni con sventolio di bandiere e suono di inni patriottici. Ma torniamo ai fatti. La folla di richiamati e studenti ridiscese tumultuando verso piazza Stesicoro. Un intervento moderatore del questore Giuffrè (che chiese l'aiuto degli esponenti separatisti Guglielmo di Carcaci e Concetto Gallo) non serv{ a niente. Gruppi di dimostranti si diressero verso il vicino tribunale e lo misero sottosopra. Altri presero d'assalto l'esattoria comunale, l'agenzia delle imposte di piazza Cutelli, l'ufficio leva di via Garibaldi e la sede del « Corriere di Sicilia». Tutto devastando e incendiando. Poco dopo mezzogiorno una massa scomposta di gente, tumultuante e minacciosa, si diresse verso il palazzo comunale. I vigili urbani fecero appena in tempo a chiudere precipitosamente il grande portone centrale che subito risuonò di calci e pugni rabbiosi. Il separatista Attilio Castrogiovanni s'arrampicò sulla base d'una delle colonne che affiancano il grande portone e si mise ad arringare la folla. Dentro l'edificio era scoppiato il panico. Impiegati, vigili e amministratori non sapevano che cosa fare. Era in corso una riunione della giunta comunale presieduta dal sindaco Carlo Ardizzone, ritenuto simpatizzante separatista. _(Ardizzone era stato l'ultimo sindaco pre-fascista; nell'ottobre 1922 aveva dovuto lasciare il municipio dalla porta secondaria mentre le trionfanti squadre fasciste entravano dal portone centrale. Ridivenuto sindaco, dopo piu di vent'anni, aveva preso possesso della carica con un altisonante proclama che diceva: « Ritorno a fronte alta, ecc., ecc. ».) Dopo ventidue anni dalla prima fuga, Carlo Ardizzone si vide costretto a scappare dalla stessa porticina della salvezza di tanti anni prima. Quella porticina rappresentava forse il limite massimo del successo e della popolarità dell'uomo politico. Mentre il sindaco e buona parte della giunta si mettevano in salvo, fuori, nella piazza, la folla si scatenava. Poiché il portone resisteva bravamente alla tempesta di calci e di pugni, un giovane fece allontanare la folla e scagliò una bomba a mano contro il portone. Al primo ordigno ne fece seguito un altro, ma con poco effetto; il portone sembrava incrollabile. Allora la gente, « incazzata », si precipitò sulle vicine rovine d'un palazzo schiantato dai bombardamenti aerei. Una folla volenterosa si caricò sulle spalle un grande trave da usare come ariete e prese la rincorsa. Al terzo colpo di ariete si apd un portoncino e apparve un vigile urbano che sventolava uno straccetto bianco. Fu fatto uscire insieme agli altri impauriti colleghi. I malcapitati furono lasciati liberi senza subire particolari violenze. Volò qualche scappellotto e qualche insolente calcio nel sedere. 1 74


Poi la massa furente penetrò nel palazzo: « Gli altri membri della giunta presi in trappola ... si precipitarono per le scale confondendosi con gli assalitori e incitandoli anzi a salire e a saccheggiare. Autorità e forza pubblica si dileguarono ». Il prefetto Giammichele « ... si asserragliò nella sua sede provvisoria e chiamò a difenderlo le poche truppe che c'erano a disposizione ».10 Ben presto si videro uscire le prime fiamme dalle finestre dello storico palazzo ,mentre file di saccheggiatori uscivano dall'edificio carichi d'ogni sorta di cose. Ma i rivoltosi avevano creato una specie di servizio d'ordine e buona parte di quanto era stato asportato fuu in un grande falò che ardeva al centro della piazza, accanto all'elefante di pietra lavica. Un tizio s'affacciò dal balcone centrale, fece cenno a quelli che stavano sotto di scansarsi e lasciò cadere un busto di Vittorio Emanuele. III; poi si esibi in una serie di saluti... fascisti. Quando sopraggiunsero i pompieri, la folla li accolse con un turbinio di sassi e tagliò le manichette dell'acqua e i pneumatici delle autobotti. I pompieri, impotenti ad agire, se ne tornarono in caserma. In breve tempo l'illustre e storico edificio fu un immenso braciere. Uno degli incendiari rimase fino all'ultimo minuto dentro il palazzo per completare la sua opera di distruzione. Lo si vedeva apparire tra le fiamme che uscivano dalle finestre dell'ultimo piano. La folla gli gridava <li scendere, di mettersi in salvo. Ma il forsennato rispondeva gridando: « No! sono stato una vittima di questi cornuti del municipio! ». E forse anche lui, a modo suo, aveva la sua buona parte di ragione. Quel pomeriggio continuarono le scorrerie di gruppi per la città. Un soldato motociclista venne bloccato, e sonoramente legnato, davanti alla Posta della Villa Bellini. La motocicletta scomparve. Un autocarro militare fu fermato dalla folla in via Etnea, davanti al cinema Sala Roma. Qualcuno appiccò fuoco al telone che copriva l'autocarro. Ma poi ci si accorse che nel cassone v'erano dei fusti di benzina e tutti si diedero da fare per spegnere le fiamme. Un bottegaio si vide strappare e fare a pezzi l'insegna del negozio « Principe di Savoia ». Nello stesso tempo gruppi di malintenzionati davano l'assalto a negozi e botteghe. Forza pubblica e militari inglesi e italiani se ne stavano rintanati nelle caserme. Quella sera il comandante inglese di Catania decise di dichiarare lo « stato di emergenza »; uguali misure precauzionali furono prese a Messina. II giorno 15 « l'autorità civile» di Catania chiedeva l'immediato IO

Cfr.

DUCA DI ÙRCACI,

op. cit., p. 129.


intervento di « reparti militari autocarrati che disperdano i dimostranti senza sparare ». (« Diario Storico » dell '« Aosta »; dal diario mancano tutti gli allegati, per il solito motivo di estrapolazione.) Per due giorni la città era rimasta esposta a ogni offesa e la teppaglia stava prendendo il sopravvento: la forza pubblica ricominciò ad apparire e disperse a fucilate gruppi di teppisti che s'erano radunati in piazza del Carmine. Poi cominciarono gli arresti. Cinquantatré giovani finirono in galera. Di questi giovani tre, studenti universitari, erano schedati come separatisti: Egido Di Maura, Salvatore Padova da Ispica, individuato fra le migliaia di attaccanti del palazzo comunale, e Giuseppe La Spina che aveva partecipato alla devastazione dell'Ufficio Leva. In mancanza di migliori accuse, una sfilza di esponenti separatisti furono denunziati a piede libero come presunti istigatori. Intanto il palazzo comunale continuava a bruciare. Bruciò per una quindicina di giorni. Una colonna di fumo prima nera, poi grigia e infine azzurrina si alzava dall'edificio incendiato. Quattro giorni dopo i luttuosi fatti, la Giunta comunale nominò una Commissione di inchiesta. Essa era composta da quattro persone: un democristiano, un comunista, un socialista e un liberale. « Sembra che soltanto il liberale sapesse scrivere ed è a costui che è dovuta la relazione che subito fece testo » scrisse con sottile ironia il duca di Carcaci .11 . In verità i quattro rappresentanti del C.N.L. furono l'avv. Agatino Bonlìglio (PSI), l'avv. Vincenzo Schilirò ( DC) , il dott. Michelangelo Tignino (PCI) e il prof. Silvestro Simili (PLI). La relazione « scritta » dal Simili rispecchiava quella « ufficiale » e falsava spudoratamente i fatti. Essa diceva che il povero sarto Spampinato era stato ucciso « da uno speciale ordigno esplosivo » lanciato dalla folla, che lo aveva « colpito alla nuca ». Tale falsa ricostruzione dei fatti rimase ufficialmente acquisita anche quando la perizia necroscopica provò che lo Spampinato era stato colpito da una pallottola di fucile '91. E l'indagine militare fatta dal generale Casaretti, pur ammettendo che i soldati di guardia al distretto, sparando, avevano « compiuto il loro dovere nel difendere la caserma», finiva col proporre l'imputazione per omicidio colposo per due militari. Bisognava trovare dei responsabili. Essi furono trovati nei separatisti, che proprio la mattina dei fatti avevano tenuto una riunione dell'organizzazione femminile del M.I.S. in casa Carcaci. Il prefetto e il questore della città furono immediatamente rimossi dalla carica, il colonnello Milazzo, comandante il distretto, un ma11

Op. dt.


turo ufficiale mutilato di una gamba, visse un lungo periodo di terrore a causa delle minacce che gli provenivano da tutte le parti. Il povero sindaco Carlo Ardizzone si trovò a essere « cornuto e mazziato ». Venne accusato di favoreggiamento soprattutto perché il suo segretario particolare, Salvatore Campisi, era un noto separatista. Anche se il « Giornale di Sicilia» di Palermo (del 15 dicembre) dedicava alla rivolta di Catania esattamente 9 righe, titolo compreso: « Incidenti a Catania per il richiamo alle armi» (nello stesso numero del giornale v'erano però alcune colonne diversive sulla solita « Rivolta nel Salvador »), la notizia dei fatti di Catania si diffuse come un lampo per tutta la Sicilia. Dappertutto si formarono cortei · di protesta, si bruciarono in pubblico le cartoline precetto e si assalirono le sedi municipali e gli altri edifici pubblici. A Castel di Judica gli agricoltori assalirono il locale « Granaio del popolo» per riprendersi il grano consegnato. Poi la folla invase il palazzo comunale, l'esattoria e gli uffici dell'UPSEA, tutto devastando e incendiando. Quando giunsero da Catania carabinieri e soldati, la gente della frazione Carrubbo li accolse a schioppettate. I militari faticarono non poco per disperdere i ribelli che si ritirano nelle campagne. Anche a Ramacca i campagnoli si ripresero il grano consegnato all'ammasso. A Pedara, il 17 mattino, avvenne un fragoroso lancio di bombe d'avvertimento. A Paternò, nell'assalto al palazzo comunale, che poi venne dato alle fiamme, una guardia municipale di nome Mangili sparò sulla folla e ferf una bambina. I rivoltosi afferrarono lo sparatore e lo defenestrarono da un alto edificio. All'incauto vigile andò bene; riusd a sopravvivere alle numerose fratture riportate nell'inatteso volo. A Zafferana Etnea, la sera del 14, la popolazione diede l'assalto a due depositi di tessuti {durante le operazioni belliche i ricchi commercianti catanesi avevano trasferito le loro merci nei paesi. Merce che non venne piu immessa nel normale mercato, ma servi ad alimentare lo sfrenato intrallazzo) . A Scordia appena arrivò l'autocarro che doveva prelevare i richiamati, la gente scese in piazza e appiccò fuoco alla pretura, al municipio e all'UPSEA . Lo stesso avvenne a Vizzini dove il municipio venne incendiato dopo un forte discorso pronunziato da tale Giarrusso. I carabinieri spararono e ammazzarono due dimostranti. A Sciacca la gente si riversò per le strade, bruciò la caserma dei carabinieri e s'impossessò della cittadina marinara mentre soldati e forze di polizia si rintanarono nelle caserme. Dopo alcuni


giorni un buon numero di giovani accusati di aver partecipato alle manifestazioni furono fermati e bastonati « a &eddo ». Ad Ucria il riuscito assalto del municipio vide alla testa dei manifestanti un giovane entusiasta che divenne in seguito autorevole ministro della repubblica. A Siracusa, le manifestazioni davanti al distretto furono disperse dall'intervento dei militari, e un principio di sommossa al carcere giudiziario, combinato con manifestazioni esterne, venne subito stroncato dai soldati di guardia con colpi di fucili intimidatori.12 Ancorata nel Porto Grande di Siracusa la corazzata Andrea Doria puntava i suoi minacciosi cannoni sulla città. Per collaborare al ·pattugliamento della città furono fatti sbarcare picchetti armati di pretenziosi marinai che « per dormire schifavano la paglia stesa nell'accantonamento allestito nella prefettura in quei giorni di emergenza, e continue erano le lamentele per l'acqua calda, per i ranci freddi ... ». A Modica dopo una manifestazione avvenuta il 12 dicembre, una seconda manifestazione ebbe luogo il 15 al grido « Non si parte! ». Un tumultuoso corteo, guidato da elementi poi definiti fascisti, si diresse verso la piazza dello Stretto dove si teneva la fiera del bestiame. Ci fu una grande confusione, due bombe esplosero nella cava sottostante 1a piazza e provocarono un disordinato fuggi-fuggi di uomini e animali. Ai primi dimostranti, studenti e operai, si aggiunse una massa furente di contadini armati di bastoni e randelli. La folla fece passare brutti momenti a due militari di scorta all'autocarro adibito alla raccolta dei richiamati. I due soldati furono bastonati a dovere e spogliati delle uniformi, rimasero vivi ma nudi. Dopo Ja gente si diresse all'Ufficio Leva, a quello telefonico e all'ufficio distrettuale delle imposte. Che furono coscienziosamente devastati. I carabinieri, comandati da un sottotenente, si barricarono in caserma, mentre tutte le altre autorità fuggivano dalla città. I rivoltosi riuscirono a catturare il cavalier Francesco Betta, un maturo commissario di PS, e lo strapazzarono un poco, ma poi lo rilasciarono. Pare che il palazzo comunale abbia preso fuoco senza subire alcun assalto. Le fiamme scoppiarono improvvisamente nei locali dell'ufficio razionamento (chissà chi aveva interesse a bruciare i documenti annonari), poi si estesero a tutto l'edificio. L'incendio durò alcuni giorni e venne spento per l'intervento dei pompieri di Ragusa. Una parte dell'arredamento e degli incartamenti degli uffici comunali furono messi in salvo dagli stessi dimostranti. Men12 Cfr. U. DE LoRENZis, Dal primo all'ultimo giorno, Ricordi di Guerra, 19)9-1944, Milano, 1971, p. 320 sgg.


tre accadevano questi fatti altri gruppi di rivoltosi avevano devastato il Circolo Ufficiali in congedo, alzato barricate agli ingressi del paese e catturato due autocarri con alcuni soldati inglesi a bordo. A sera, quando giunse una compagnia di fanti dell'« Aosta », la rivolta si era esaurita. La gente, però, persisteva nel rifiuto di andare sotto le armi e di « combattere per una causa che non poteva piu essere quella della Sicilia» (testimonianza del sig. Giorgio Murana di Modica). A Piazza Armerina i coscritti rastrellati dai carabinieri furono radunati in piazza Botteghelle, e lf « festeggiati » dalle autorità. Ma una grande folla di dimostranti contro il richiamo si radunò nella piazza superiore, dove c'è il monumento ai Caduti, e cominciò a tumultuare. A guidare la manifestazione di protesta erano Ciccio Fumari, Russo della Pagliara e un certo Napoli, ex sergente dell'aeronautica. Ne venne fuori un grande parapiglia; i coscritti, approfittando della confusione, si squagliarono e i carabinieri spararono prima in aria e poi sulla folla ammazzando un ragazzo. I rivoltosi risposero con lancio di bombe, l'incendio dell'ufficio dello Stato Civile e l'assalto all'ufficio delle Imposte per distruggere i ruoli. Furono tagliati i fili del telefono e del telegrafo e la cittadina rimase isolata. A Palma di Montechiaro, i richiamati alle armi, il 14 dicembre, si radunarono in piazza Umberto e bruciarono le cartoline precetto. Dopo, la folla si ingrossò, si diresse verso i mulini, li assali e saccheggiò. Poi tutti si volsero verso l'esattoria comunale e il palazzo del municipio che vennero invasi e furono devastati con l'asportazione dei documenti che furono bruciati per strada. Anche la biblioteca e l'archivio comunale subirono la stessa sorte e molti preziosi documenti andarono distrutti. I carabinieri del paese in un primo tempo si diedero da fare per calmare gli aninù ma poi, presi dalla paura, tagliarono la corda e si rinserrarono in caserma. Un gruppo di predatori cercò di dare l'assalto alla sede del Banco di Sicilia e nella tumultuosa sparatoria che ne segui ci scappò anche un morto. Quella notte la gente rimase radunata in piazza Garibaldi e tutto fuu con una singolare abbuffata d'uva passa che rappresentava il carico di due autocarri di passaggio per il paese e subito «catturati» dai dimostranti. I soldati arrivarono il 16 dicembre, ma già i tumulti s'erano calmati. I renitenti e altri partecipanti alle dimostrazioni furono arrestati e portati via, sotto buona scorta, dai carabinieri.13 u Testimonianza del sig. Capizzi impiegato comunale di Palma di Montecbiaro. 1 79


A Scicli, il 15 dicembre, la folla affrontò a sassate la forza pub. blica e due carabinieri: tre agenti di PS rimasero feriti. Subito dopo si formò nel paese un fronte moderato che comprendeva · notabili ed elementi della sinistra d'osservanza ortodossa agli ordini del C.LN. Con l'aiuto di questa gente la forza pubblica riusci a dominare la situazione e a impedire nuove manifestazioni. Ad Acate la gente ne aveva avuto abbastanza della cosiddetta «liberazione» (un anno prima, la notte dello sbarco, i paracadu·tisti americani avevano fucilato il podestà del paese Giuseppe Mangano, il figlio quattordicenne Valerio e altre dodici persone). Avvenne l'abituale devastazione degli uffici pubblici e il rogo delle cartoline precetto. Venne incendiata l'esattoria comunale e occupata l'UCSEA che era l'ufficio comunale che sovrintendeva all'ammasso del grano. Ad Acate furono elementi della sinistra rivoluzionaria, in rotta con i partiti ufficiali, ad assumere la guida della rivolta. Con l'occupazione del municipio la giunta comunale venne mandata a casa e ne fu insediata una nuova, di sinistra. Poi la folla attaccò la caserma dei carabinieri che era nel castello del principe Biscari. I militi si arresero e le armi catturate passarono agli · insorti. Cortei, dimostrazioni che sfociarono in tumulti con incendi, devastazioni e saccheggi di pubblici edifici avvennero in tutta la Sicilia: a San Giovanni di Galermo, Gangi, Santa Margherita Belice, Raffadali, Raddusa, Mineo, Fiumefreddo, San Michele di Ganzeria, Canicatti, Favara, Palazzolo, Santo Stefano di Camastra, Leonforte (dove venne bruciato il municipio), Rosolini, Solarino, Avola (dove i rivoltosi fecero addirittura saltare in aria il ponte ferroviario) ... in pochi giorni il fuoco della ribellione fiammeggiò per tutta l'isola. A Giarratana, la notte dal 13 al 14 dicembre i rivoltosi costituirono la « Repubblica di Giarratana ». Un triunvirato, pare di colore fascista, formato da Dell'Agii, Impeduglia e Trigona, assunse il potere ed emanò severissime ordinanze che prevedevano la fucilazione in caso di furti e violenze. Dopo di che venne occupato il palazzo comunale e fatto un bel falò con gli incartamenti degli uffici Leva e Razionamento. Infine furono alzate le barricate agli ingressi del paese. Il triunvirato fece distribuire, a prezzo d•ammasso, il grano e l'orzo dei magazzini del consorzio (tale sistema di distribuzione durò anche dopo la sommossa, fino a luglio). Il giorno dopo giunse in paese l'autocarro che doveva servire al trasporto dei richiamati, ma la scorta venne fatta prigioniera e l'automezzo bruciato fuori paese, sulla strada per Buccheri. Il 16 dicembre una forte colonna militare superò le barricate senza bisogno di sparatorie. I soldati si 180


sistemarono nella caserma dei carabinieri dove piazzarono armi pesanti alle finestre che guardavano verso il centro del paese. Un autocarro armato di mitragliatrice sbarrava l'ingresso alla caserma. A sera e durante la notte i soldati effettuarono alcuni arresti. Anche il «triunviro» Dell'Agii si trovava fra i prigionieri. Ma, al mattino, la popolazione aveva disarmato l'autocarro di guardia, e bloccava, minacciosa, l'ingresso della caserma. Fra rivoltosi e militari si addivenne a un accordo. Dell'Agii e gli altri arrestati furono liberati e soldati e popolo parteciparono a un rito di pacificazione nella Chiesa Madre. Il Natale e il Capodanno del 1944, considerati i tempi, passarono abbastanza tranquillamente. Nei paesi non si videro più gli autocarri del reclutamento, preceduti e seguiti dai carabinieri addetti alla cattura dei renitenti. Le autorità militari lasciarono ai richiamati un po' di respiro. Le autorità _politiche e i partiti del C.L.N. si sforzavano di calmare gli animi, di spiegare i motivi della nuova guerra. Li Causi visitò i paesi dove la base del PCI era franata aderendo alla posizione di rifiuto assunta dagli anarco-rivoluzionari. Egli era venuto a portare ai comunisti l'ordine del partito che era quello di «partire». Ma la sua missione non ebbe successo, anzi « trovò resistenza e suscitò meraviglia il fatto che proprio lui chiedeva nuovi sacrifici per una nuova guerra ».14 A Ragusa il 16 e il 28 dicembre s'erano svolte ordinate manifestazioni dei « Non si parte » (questa era la denominazione assunta dai riottosi). C'erano stati cortei e pubblici discorsi. Nella stessa città si era costituito un comitato provvisorio clandestino composto da dieci membri « che si proponeva di scuotere e sollevare tutte le altre province della Sicilia». Gli elementi piu attivi del movimento erano separatisti, fascisti e anarcorivoluzionari. La grande massa era formata da ·gente convinta che con 1'8 settembre fossero finiti la guerra e il servizio militare; gente che non aveva alcuna intenzione di ritornare a fare il soldato. A fine anno il comandante militare della Sicilia comunicava a mezzo stampa che i provvedimenti di rigore: arresto, traduzione dinanzi a tribunale militare straordinario e condanna (con differimento della pena), presi nei confronti dei militari precettati dai distretti e non presentatisi, venivano momentaneamente sospesi. Coloro i quali si fossero presentati ai distretti dal 29 dicembre al 3 gennaio sarebbero stati « guardati con indulgenza » dalle autorità. Le cose però non migliorarono: « A Ragusa, con l'anno nuovo, i motivi di scontento e di malessere aumentarono ... fu sospeso il pagamento dei sussidi generici di cui godevano i disoccupati e i piu 14

Cfr. dichiarazione del deputato comunista Cagnes in G. LA TERRA, op.

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bisognosi». Bloccati anche i sussidi straordinari in denaro o in generi alimentari. Il 3 gennaio soldati e carabinieri riapparvero in forze nella città. Avvennero scontri con la popolazione che reagiva a sassate e a colpi di bastone; alcuni soldati furono disattnati. Lo stesso giorno il prefetto Naitana, che aveva sostituito il prefetto AMGOT Cartia, ordinò il coprifuoco dalle ore 19 alle 7 del mattino e il divieto di assembramento con piu di tre persone. Durante la notte, militari e forze di polizia rastrellarono le strade cittadine arrestando una trentina di persone tra renitenti e inadempienti al coprifuoco. Ma la massa dei renitenti aveva guadagnato le campagne ed era sfuggita alle retate. Il giorno dopo, 4 gennaio, l'azione di rastrellamento dei richiamati ebbe inizio dal quartiere pi6 popolare della città: la Russia. « Un camion carico di giovani veniva avanti come un carro funebre»; carabinieri e poliziotti perquisivano le case e ne traevano fuori i ricercati. Una folla di donne si mise a gridare, a piangere, a scongiurare i militari di lasciar liberi i loro figli, i loro mariti. Una coraggiosa, giovane donna incinta, Maria Occhipinti, moglie di un richiamato, si stese a terra, nel fango, davanti alle ruote dell'autocarro. Nacque un parapiglia; i giovani che erano sull'autocarro ne approfittarono per saltar giu, darsi alla fuga e sparire. I militari aprirono il fuoco e ferirono un raga7.zo; furono disarmati.. ., il ferito si torceva per terra... un giovane operaio puntò una pistola contro il maresciallo dei carabinieri gridando: « Portatelo all'ospedale sennò vi faccio fuori! » .15 Dopo la prima vittima ne caddero altre. Nel pomeriggio si verificò un atroce episodio che doveva provocare l'insurrezione in massa della popolazione ragusana. Un uomo, di nome Criscione, sagrestano della Chiesa di San Giovanni, si rivolse a un gruppo di soldati per chiedere: « Ma insomma che cosa volete dai giovani che ormai sono tutti stanchi dalla guerra? ». Come tutta risposta un ufficiale tirò una bomba addosso al povero sagrestano « staccandogli la testa dal busto». L'assassino in divisa di ufficiale - che non fu mai perseguito e di cui non si poté mai conoscere il nome - « fuggf minacciando di colpire con un'altra bomba che aveva in mano » le donne che erano accorse per prestare aiuto al povero scaccino.16 Una donna di Ragusa, Milano, 1977, p. 88. Nel diario storico della divisione «Aosta i. (gennaio-febbraio 1945), alla data del 5 gennaio viene riportato un episodio che sembra quello da noi narrato. I fatti, ovviamente, sono presentati in maniera diversa. 11 «Diario» riporta che un gruppo di elementi del I/1J90 fanteria comandati dal sottotenente Dante Signorini « in servizio di ordine pubblico ha dowto sostenere un con1s Cfr. M. O CCHIPINTI, 16

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Fino a quel momento la popolazione di Ragusa s'era limitata a fare dimostrazioni senza violenze. Quel pomeriggio la gente divenne furente e corse alle armi. In breve tempo una moltitudine di armati invase la città. Decisi gruppi di popolani si diressero verso il posto di blocco di Beddio a un chilometro dalla città per impedire l'afllusso di nuovi rinforzi militari. Nel centro della città la prefettura rimase assediata, ma non furono staccati i collegamenti telegrafici e telefonici. Nell'edificio del governo erano rinserrati autorità, esponenti del C.LN., forze di polizia e un plotone di soldati. Il prefetto Naitana nominò questore politico sul campo il socialista Giovanni Lupis, dell'intramontabile dinastia politica dei Lupis. Con la speranza che egli riuscisse a calmare gli animi. Speranza che non si verificò. Anzi Lupis scampò, in seguito, a ben due attentati; a un lancio di bomba che non esplose e a colpi di pistola che mancarono il bersaglio. (Inoltre per il resto della sua vita Giovanni Lupis, a diflerenza del fratello Peppino. non riusci mai a diventare deputato. E Dio sa quanto egli tenesse alla « medaglietta ».) Nel pomeriggio del 6 gennaio, giunse dalla parte di Caltagirone un'autocolonna con una compagnia di fanti. Si scontrò con gli insorti al posto di blocco di Beddio e ne venne fuori un confuso e fragoroso combattimento. I soldati impiegavano mitragliatrici e mortai, ma pare che anche gli insorti disponessero d'un mortaio azionato da esperti serventi. L'autocarro di punta fu preso in pieno dal fuoco degli insorti, caddero il comandante di compagnia, un altro ufficiale e l'autista. Anche gli insorti ebbero dei caduti: Carmelo Licitra, Salvatore Di Stefano, Giuseppe Burgaletta... Il combattimento si fece duro, morirono altri soldati e altri insorti. I soldati sparavano dalla strada, a riparo degli autocarri, da alcune villette ... i rivoltosi erano appostati dietro i muretti che limitano i poderi. Piu tardi, dopo alcune ore di fuoco, intervennero i contadini con i loro fucili da caccia e presero alle spalle i militari. I feriti furono numerosi da una parte e dall'altra. Alla fine i soldati alzarono bandiera bianca e si anesero: erano circa duecento e furono fatti schierare, con. le braccia in alto, davanti alla chiesa di Sant'Antonio. Un gruppo di carabinieri che si era barricato nel mulino continuò a sparare, ma i rivoltosi risposero col fuoco d'una mitragliatrice catturata. Quando la sparatoria cessò tutti i prigionieri furono avviati sotto buona scorta per essere rinchiusi in un edificio fuori città. Alla Prefettura la sparatoria continuava con un intenso fuoco di fucileria e di mitragliatrici. Alla battaglia assistevano numerosi CU· riosi che si defilavano dietro gli angoli delle strade. Vicino alla posta filtto con la folla (?!) che aveva malmenato un ufficiale [quello della bomba sul cranio del sacrestano?] e due fanti. Il reparto ha aperto il fuoco contro i rivoltosi disperdendoli ». Un bel modo, che ha fatto scuola, di scrivere la « storia ».


cadde appunto uno di questi curiosi, tale Salvatore Firrincieli, padre di quattro figli. Uno dei tanti soldati sbandati tornati a casa dopo le vicissitudini dell'8 settembre. I rivoltosi avevano disarmato i vigili del fuoco e i carabinieri che non avevano opposto resistenza e s'erano impadroniti del distretto militare di Ragusa Ibla, catturando altri soldati e altre armi. Oltre alla prefettura anche la questura e l'edificio scolastico erano assediati. Una mitragliatrice pesante, issata dagli insorti sul campanile dell'Ecce Homo, dominava la città.17 Il 7 gennaio tre battaglioni di fanteria, con armamento pesante, convergevano su Ragusa. Due battaglioni venivano da Messina ed erano agli ordini del comandante della « Sabaudia », generale Ronco; il terzo battaglione, col colonnello Trapani, veniva da Siracusa. Il trasporto delle truppe veniva effettuato con autocarri civili requisiti perché le autorità militari inglesi del « District of Catania » s'erano rifiutate di concedere autocarri militari. Gli inglesi si dichlararono « neutrali in ogni questione interna italiana ». Non avevano alcun interesse militare o politico nella faccenda; che gli italiani si ammazzassero pure fra di loro. La colonna Ronco si trovò ad affrontare un durissimo combattimento nei pressi del bivio di Giarratana. Fu una vera battaglia che durò molte ore. Vi morirono tre ribelli e quattro militari : il tenente Lechls del 145° fanteria, un sottotenente e due fanti . Numerosi furono i feriti, alcuni gravi. I soldati superarono altre sparato· rie, con pochi feriti, alla stazione di Ibla e all'ingresso della città, e finalmente penetrarono nell'abitato. Gli insorti fecero in tempo a raggiungere le campagne o a rifugiarsi nelle case. Cominciò il terrore delle violenze poliziesche, dei rastrellamenti, delle perquisizioni domiciliari, delle feroci bastonature che precedevano, accompagnavano e seguivano gli arresti e gli interrogatori. Ma vediamo intanto che cosa era accaduto neJ.Je altre località. Il 4 gennaio un autocarro del 139° fanteria che transitava da Monterosso Almo fu attaccato con fuoco di fucili e lancio di bombe. Un povero fante, tale Azzero Boscaglia, venne ferito gravemente alle gambe e alla mascella. Lo stesso giorno, a Santa Croce Camerina, furono disarmati i carabinieri e le armi catturate nella caserma furono mandate a Vittoria per aiutare i rivoltosi di quella città. Anche a Vittoria, nel mese di dicembre, v'erano state numerose manifestazioni e comizi al grido di « Non si parte! ». In tale occasione era stato formato un comitato composto da una diecina di giovani: Giuseppe Genovese, Giovanbattista Gravina, Luigi Stel17 Alla difesa della prefettura pare che abbi.ano partecipato anche elementi del PCI, e&. « La Voce comunista i. del 6 febbraio 1945.


la, Alberto Avarino, Salvatore Cilia, Domenico Comisi, Antonio Dainotti, Puccio Ganci, Antonino Novara... Alcuni di questi ragazzi erano ritenuti «fascisti». Il 6 gennaio il comitato di Vittoria, con l'aiuto di alcuni giovani di Comiso, passò all'azione. La caserma della guardia di Finanza venne catturata senza colpo ferire e i militari consegnarono armi e munizioni. Altri fucili furono prelevati dal fondo del Tiro a segno nazionale. Poi venne dato l'assalto al locale nucleo di PS di via Cialdini, e dopo una violenta sparatoria, fortunatamente senza vittime, cadde anche la caserma dei carabinieri di via Bixio. I rivoltosi entrarono in possesso d'un fucile mitragliatore Breda, di altri fucili e di un buon numero di casse di bombe. Infine la folla tumultuante si diresse verso il carcere, sfondò le porte e liberò i detenuti. Non vi furono saccheggi perché il Comitato aveva impartito severe disposizioni. Mentre succedeva questa baraonda i rivoltosi litigavano e si sparacchiavano fra di loro: fascisti da una parte e comunisti dall'altra. Quella sera gli insorti tentarono di bloccare un autocarro pieno di carabinieri che attraversava la città a tutta velocità. I militi reagirono a moschettate e uccisero un passante, un pescivendolo ventenne di nome Giovanni Palacino. Un ragazzo dei « Non si parte! », Fortunato Lunetta, rimase ferito. Il giorno dopo i gruppi armati di Vittoria e di Comiso tentarono un'azione congiunta per impadronirsi del deposito di munizioni del vecchio campo di concentramento sulla strada per Scoglitti. L'impresa non si presentò facile perché il deposito era difeso da una compa.:,ania di soldati con mitragliatrici e un cannone. La sparatoria durò molte ore, pare che i militari abbiano sparato un buon numero di cannonate. Per dare aiuto ai feriti, il comandante del campo, che era il maresciallo Migliore, chiese una tregua che venne concessa. Il vero motivo della tregua era quello di guadagnare tempo in attesa dell'arrivo di rinforzi. Gli insorti minacciarono un attacco in forze per il giorno dopo, con la fine della tregua. Ma, per la verità, nelle file dei rivoltosi regnava un totale disaccordo; comunisti e fascisti si fronteggiavano con le armi in pugno. Nel frattempo era scattata l'operazione militare che doveva portare alla « conquista » di Vittoria. Una forza del 6° fanteria « Aosta », comandata dal generale Brisotto giunse in ferrovia fino alla stazione di Vittoria (secondo le informazioni fornite dai carabinieri di Gela la ferrovia « risultava interrotta»). Brisotto disponeva anche d'una batteria motorizzata del 16° artiglieria e di un'altra batteria del 22° (peccato che tutti questi soldati italiani, formidabilmente armati, non fossero stati presenti a Vittoria, il 10 luglio 1943, quando gli americani avevano avuto a che fare solo con una mezza dozzina di irriducibili soldati germanici). All'approssimarsi dei can-


noni e delle truppe i ribelli opposero poca resistenza, si ritirarono e poi si dispersero. La colonna Brisotto entrò a Vittoria il 17 gennaio. Il generale s'incontrò col commissario prefettizi.o Russo e con un esponente socialista. Alcuni giorni dopo il commissario Russo venne richiamato e sostituito dal barone La Rocca, ex ispettore federale fascista! (Si ritiene che a Vittoria siano stati contati almeno 400 ribelli armati, sostenuti da tutta la popolazione.) A Comiso le dimostrazioni erano cominciate alla fine di novembre, con pubblico rogo dei ritratti del re e asportazione delle lapidi che celebravano eventi dinastici. Due studenti universitari, Alfredo Battaglia e Francesco Marziano, avevano tenuto un pubblico comizio di grande successo. Dopo di che un comitato rivoluzionario cominciò a riunirsi in una casa di via Regina Margherita. Inoltre, nel paese, veniva svolta una grossa azione politica con rara abilità, da parte dell'ingegnere Carrara, conosciuto però con il nome di Renzo Renzi. In seguito si disse anche che il Carrara fosse un agitatore fascista della RSI, venuto espressamente in Sicilia per organizzare la rivolta. 18 Ma chiunque fosse questo misterioso Renzo Renzi, egli era certamente un abile organizzatore che si era infiltrato nell'ambiente della Camera del Lavoro e :fin dal mese d 'agosto intratteneva operai e contadini al Cinema Vona. All'attento uditorio Renzo Renzi « spiegava » nella maniera piu pratica e piu accessibile i vati problemi sociali, invitandoli a collaborare per la costruzione della « nuova » Italia. Cosa che, per la verità, non sapevano fare altrettanto bene gli esponenti del C.L.N., intenti com'erano a spartirsi cariche ·e prebende. A Comiso si cominciò a sparare il 5 gennaio. Quando la folla bloccò un autocarro militare addetto al rifornimento della caserma dei carabinieri. Nel tafferuglio due militi rimasero feriti ed ebbero scampo nella caserma. Poco dopo, alcuni automezzi, con a bordo militari inglesi, tentarono di entrare in città, ma furono respinti dal fuoco degli insorti. Comiso era nelle mani dei rivoltosi che assediavano a fucilate la caserma dei CC.RR. e il commissariato di PS. L'assedio· durò tutta la notte con una continua, assordante spara" Secondo la citata rievocazione di G. LA TEllA (Cfr., op, cit., p. 282), « a Comiso, parc:cchie centinaia, organizzate espressamente da Salò per prepararvi la rivolta, approfittarono del malcontento generale per agire allo scopo di capovolgere le sorti della guerra (?!); perciò uno fu il loro grido disperato, categorico e impegnativo: resistere in attesa degli aiuti del Nord! ». Retorica a parte, in Sicilia come in tutta l'Italia meridionale, era operante un disorganizzato movimento clandestino fascista, fatto di giovani entusiasti e inesperti, Per gli avvenimenti del « Non si parte! i., si disse anche che all'aeroporto di Comiso in mano ai ribelli presero terra aerei del Nord, fascisti o tedeschi, con armi e altri aiuti per i ribelli. .

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toria. Al mattino carabinieri e poliziotti si arresero e uscirono fuori con le braccia in alto. I prigionieri vennero rinchiusi nelle camere di sicurezza della stessa espugnata caserma. Il mattino del 7 gennaio venne costituito il Comitato Provvisorio del Popolo di quella che venne chiamata la « Repubblica di Comiso ». Con tanto di « Avviso» che comminava « la pena di morte mediante la fucilazione alla schiena... per chiunque venga sorpreso in tentativo di furto o di qualsiasi violazione della proprietà privata » ( « Rivoluzionari » s{, ma non bisogna dimenticare che, soprattutto in Sicilia, la «roba» non si tocca!) Capo comitato e « sindaco » della città venne nominato l'universitario Marziano che prese il posto del commissario prefettizio Nicastro. Altri giovani universitari assunsero le altre cariche di « governo »: Alfredo Battaglia fu nominato commissario del popolo addetto all'alimentazione; Francesco Bombace alla difesa de.li patrimonio pubblico e privato, Francesco Schembari, Carmelo Marino e Giacomo Cagnes addetti alla difesa militare, e Biagio lntorrella alla vigilanza notturna. Nel comitato, come pure nella massa dei « nonsiparte », si notavano le solite componenti politiche: fascisti e comunisti rivoluzionari, gli estremi « si toccavano » e « sj scontravano» fra di loro. Oltre che minacciare di morte i ladri il Comitato decretò: c0prifuoco per i «civili» dalle ore 20 alle 5, divieto di entrare e uscire dalla città senza uno speciale permesso, un fondo per le « spese di gestione» (un pasto caldo venne distribuito giornalmente agli indigenti), e la distribuzione alla popolazione dei generi razionati: pane, pasta, olio, farina, petrolio, ecc., al « prezzo di consorzio», cioè a prezzi d'« ammasso ».19 Quel pomeriggio del 7 gennaio un reparto di fanti e di carabinieri agli ordini del capitano Sabatini tentò di forzare la difesa della città. I soldati iniziarono un violento attacco in contrada Canicarao e si spinsero verso il centro dell'abitato. Ne nacque un confuso scontro sostenuto da un intenso fuoco di fucili, mitragliatrici e lancio di bombe. Caddero due ribelli e due soldat,i, poi la pressione dei rivoltosi si fece pesante e i soldati si ritirarono disordinatamente abbandonando il loro comandante. Lo sfortunato capitano venne afferrato e sottoposto a un rude trattamento. Poi venne fatto passare per le strade della città, tra una fitta ala di gente che lo ingiuriava e lo scherniva... Dopo una giornata di prigionia il malcapitato fu portato in piazza Fonte di Diana per... essere giustiziato! Mentre il Sahatini, mani legate e faccia al muro, aspettava la fatale scarica, tra la folla della piazza scoppiarono fieri 19

Cfr. Lrno RIMMAUDO, Le otto giornate di Comiso, « La Sicilia 1>, Cata-

nia, 4 e 5 gennaio 1980.


dissensi che presto si estesero ai componenti del Comitato. Esaltati facinorosi chiedevano l'immediata fucilazione, altri riflessivi e moderati si opponevano al delitto. Grazie a Dio prevalsero il buon senso e il sentimento di umanità, e il povero capitano salvò la pelle. Sempre il 7 gennaio v'erano stati altri tentativi da parte dei militari di riprendere il controllo della città, tentativi che erano finiti malamente con la morte di due innocenti: un bambino e una vecchietta che stava attingendo acqua a una fontana. I due sventurati erano stati raggiunti da pallottole vaganti (ecco in parte spiegata la furia dei « giustizieri ») . Lo stesso giorno una folla infuriata aveva tentato di bloccare una « Littorina », proveniente da Palermo, che aveva a bordo una settantina di carabinieri ed era in sosta alla stazione ferroviaria . C'era stata una fitta sparatoria con i rivoltosi che sparavano come matti e i carabinieri che tiravano moschettate dai finestrini del treno. Alla fine la « Littorina » sforacchiata di colpi riusci a mettersi in moto e si allontanò verso Ragusa. Un altro « nonsiparte », un contadino diciottenne di nome Anton.io Guastella, mori quel giorno; Guastella cadde a! posto di blocco all'uscita della città, mentre assieme ad altri giovani tentava di fermare un autocarro di soldati che, diretto a Ragusa, aveva attraversato la città. Il mattino dell'8 gennaio la massa della popolazione partecipò ai solenni funerali dei caduti del giorno prima. Giunse notizia che a Ragusa l'insurrezione era stata domata dai militari. Il presidente del Consiglio Bonomi aveva inviato ad Aldisio un duro telegramma ordinando di « ristabilire prontamente l'ordine in provincia di Ragusa. Stop. Azione per stroncare definitivamente sedizione deve essere condotta at fondo et senza alcuna incertezza. Stop ... ». Il generale Brisotto, incaricato della repressione nel ragusano, aveva a sua disposizione un reggimento di fanteria; altri reparti convergevano su Comiso. Fu fatto sapere alla popolazione della neorepubblica che una squadriglia inglese di bombardamento era pronta a lasciare l'aeroporto di Licata per attaccare Comiso. (In verità i militari disponevano d'un solo aereo da osservazione e poi agli Alleati non importava niente di quanto stava succedendo .in una regione lontanissima dalla zona delle operazioni di guerra.) Brisotto lanciò un ultimatum: « •.. se Comiso non si fosse arresa sarebbe stata rasa al suolo». L'atterrita cittadinanza si rivolse allora al clero che di solito, nel nostro paese, ha sempre dato prova di possedere equilibrate virtu sconosciute alle pubbiche autorità. Venne incaricato di trattare con i militari il parroco della Santissima Annunziata, monsignor Fran188


china. Ma il Franchina non si senti di abbandonare i suoi fedeli jn quelle tristissime circostanze e dispose che un altro sacerdote, monsignor Tornasi, fosse incaricato delle trattative di resa. Fu cos{ che una delegazione composta dal Tornasi, dall'ex commissario prefettizio Nicastro e dal giovane Intorrella del comitato rivoluzionario si presentò ai militari. I tre furono caricati su una jeep e portati alla prefettu~a di Ragusa dove venne poi firmata la resa della « Repubblica di C.Omiso ». La delegazione aveva chiesto e ottenuto che una volta deposte le armi non ci sarebbero stati arresti e persecuzioni ma, come al solito, le autodtà non mantennero le loro promesse. Cosf 1'11 gennaio 1944 cadde la « Repubblica di Comiso ». Definita di volta in volta « rigurgito fascista >> o « rivolta sovversiva comunista», ma che fu la prevedibile esplosione di un profondo malessere che travagliava la popolazione. In quei primi giorni di. gennaio erano scoppiati tumulti e rivolte in quasi tutta la Sicilia e dovunque gli edifici pubblici erano stati dati a11e fiamme. Colonne di soldati percorrevano l'isola in rivolta, comportandosi come truppe d'occupazione d'un paese straniero e nemico.

A Palma di Montechiaro abbiamo visto che vi erano stati dei tumulti. Il 4 gennaio, a Rio della Battaglia, un conflitto a fuoco era durato ben otto ore, con un carabiniere ferito. Il 6 gennaio un reparto del 22° artiglieria in servizio O.P. aveva sostenuto, sempre a Palma, una violenta sparatoria « con dementi facinorosi ddla popolazione». A Naro, 1'11 gennaio, la popolazione era insorta impadronendosi dell'abitato e occupando la caserma dei carabinieri. Nella sparatoria era caduto un capitano. All'alba del 12 gennaio un reparto 0.P. del 22°, con carabinieri e poliziotti, venne attaccato dagli insorti e costretto a riparare attorno e dentro il casello ferroviario ... I ribelli si spinsero fino a cinquanta metri dal casello, bersagliando la costruzione. Solo nel pomeriggio, quando giunsero rinforzi da Agrigento, e con l'impiego di mortai che presero di mira l'abitato, fu possibile sbloccare la situazione. Rimase ferito l'artigliere Gio·· vanni Mura. Solo il giorno 13 fu possibile ai militari di penetrare nell'abitato di Naro, dove i carabinieri iniziarono subito perquisizioni e arresti. Uno degli arrestati venne legato e trascinato da una camionetta fino al cimitero, dove giunse una poltiglia sangu,inolenta. Lo stesso giorno altre colonne battevano le campagne e rastrellavano le case di Campobello di Licata. A Palazzo Adriano la popolazione siculo-albanese insorse il 25 gennaio e proclamò la « Repubblica Popolare » che durò tre giorni. Fino a quando il paese venne attaccato da un battaglione dell'« Aosta» (139° fanteria), nugoli di carabinieri, artiglierie e un carro armato. Vi furono <i numerosi arresti e perquisizioni ». E il 3 feb-


braio altri reparti del 139" furono spediti ad Agrigento « per concorrere con i CC.RR. ad azioni di rastrellamento di delinquenti éomuni e di renitenti alla chiamata alle armi ». (Gfr. gli «estrapolati» « Diari Storici » delle divisioni << Sabaudia» e « Aosta».) La rivolta dei « nonsiparte » si andava spegnendo schiantata dalle gravi misure militari. Solo la « Repubblica Popolare » di Piana degli Albanesi continuava a resistere fin dal 31 dicembre. Da quando un piccolo agricoltore del posto, tale Giacomino Petrotta, durante un affollato comizio tenuto al Circolo Unione aveva dato il via alla rivolta: la popolazione di antica origine albanese intendeva protestare contro tutto e contro tutti. Contro il richiamo alle armi, contro la miseria, la disoccupazione, la corruzione dilagante fra le autorità locali ... alcuni giorni prima era avvenuto un furto di grano presso il locale « granaio del popolo ». Furto che, si era saputo, era stato commesso da un carabiniere di guardia al « granaio ». Petrotta era un convinto antimilitarista, animato da generose aspirazioni di progresso sociale. Si era dimesso da poco dal partito comunista perché non condivideva la posizione del PCI sulla « guerra di Liberazione ». Si mise alla testa di un numeroso gruppo di giovani, gente fiera e dura, come in genere sono i siciliani di origine skipetara. Il paese rimase bloccato da barricate erette agli ingressi dell'abitato, si poteva entrare o uscire solo con un lasciapassare, furono tagliate le linee telefoniche e telegrafiche. Oltre a proclamare la « Repubblica », Petrotta si dichiarò « capo di un popolo indipendente » e dette vita a una costituzione paesana che aveva pochi ma ben definiti principi: « unione, fratellanza, disubbidienza alla autorità dello Stato e alla chiamata alle armi ... agli inadempienti: pugnalate» .1!J La repubblica di Piana visse cinquanta giorni e senza violenze. Petrotta, capo indiscusso, seguito da tutta la popolazione, allontanò dal paese alcuni funzionari che si erano resi invisi, nominò un consiglio direttivo di quattro commissari. (Uno di questi era il vescovo greco-cattolico della comunità albanese; monsignor Giuseppe Perniciaro), e un consiglio esecutivo. Il sindaco Baldassare Di Fiore venne lasciato al suo posto con l'unico incarico di avallare le decisioni del consiglio repubblicano. Poi Petrotta mise in pratica un ingenuo, ma efficiente sistema di ridistribuzione delle ricchezze: proprietari e ricchi agricoltori, in base ai loro averi e dietro rilascio di regolare ricevuta, dovevano versare quantitativi di cereali che venivano subito distribuiti agli indigenti. (Un sistema semplice ed equo 20

S.

D1 MATTEO,

op. cit., p. 335 sgg.


che nessuno governo cosiddetto legale avrà mai il coraggio di mettere in esecuzione.) La civile e incruenta Repubblica di Piana degli Albanesi ebbe termine il 20 febbraio 1944. Una colonna di circa duemila uomini fra fanti, alpini e carabinieri, raggiunse e occupò Piana con auto· blindo e cannoni. Petrotta e i suoi sostenitori finirono all'Ucciardone. Quando fu catturato Petrotta era a letto, con la febbre a 40° per un fiero attacco di orecchioni. Ciò non gli rispartniò una terribile bastonatura inflittagli dai militari. (Per sedare la rivolta della Sicilia erano giunti un paio di battaglioni di alpini. Forse erano quelle truppe alpine promesse nell'agosto 1943, mentre si combatteva aspramente a Troina e sui Nebrodi e mai arrivate. Il generale Guzzoni, che comandava allora la difesa della Sicilia, aveva chiesto disperatamente truppe alpine e lo SM. di Roma aveva risposto di ... aspettare.) Alla :fine di febbraio, Ravanusa e Racalmuto erano stati assediate dai soldati mentre le forze di polizia rastrellavano gli abitanti perquisendo le case, una per una. Moltissimi furono gli arresti di renitenti e di ... favoreggiatori. Secondo le cifre ufficiali le vittime del « Non si parte » furono 39 morti e 89 feriti; ma queste cifre non rispecchiavano la verità. Di Matteo, di solito bene informato, riporta, per i soli caduti di Comiso, questi numeri: « Morti 19 rivoltosi e 63 feriti; fra i militari 15 fra carabinieri e soldati, due ufficiali, un sottufficiale, mentre i feriti furono 245 » . Ma in Italia in questi casi, come in altri, è sempre impossibile che le notizie « ufficiali » siano anche vere. La responsabilità dell'estesa rivolta venne data a generiche« mene separatiste» o « all'eco di propaganda e insinuazioni nelle quali si esercita il fascismo ancora annidato nell'Alta Italia». A nessuno passò per la testa che i siciliani s'erano ribellati perché ne avevano abbastanza di sofferenze e non volevano patirne altre, perché « la Sicilia era una terra invasa e non aveva motivo di fare altre guerre». I 14.600 siciliani che si presentarono ai distretti, spesso con i « ferri » ai polsi e in mezzo ai carabinieri, furono considerati in sede politica come un grande successo che dimostrava « l'entusiasmo del popolo per la guerra di liberazione ». In verità essi rappresentavano meno di un quinto dei richiamati previsti e furono in buona parte il risultato dei rastrellamenti, degli arresti o di pesanti minacce poliziesche alle famiglie. Chi scrive ricorda una colonna di richiamati, con una forte scorta di carabinieri con i moschetti pronti a far fuoco, che sfilava per via Di Sangiuliano di Catania verso la stazione ferroviaria. All'ordine di «cantare», i richiamati intonarono con voce cupa e minacciosa un inno fascista le cui parole dicevano: « Duce, Duce chi non saprà morir! il giuramento chi mai rinne-


gherà ... » che provocarono il susseguente ordine, inascoltato, di smettere la sfottente canzone. (Gli stessi richiamati giunti a Reggio Calabria devastarono la caserma dove erano stati accantonati e si dispersero per la città, per tornare a casa, in Sicilia.) A Siracusa i richiamati si ammutinarono: « ... anziché scendere in cortile per l'adunata, rimasero nelle camerate e cominciarono a gettare in cortile, dalle finestre, delle bombe a mano». Nella città scoppiò il panico ... i nervi del prefetto e del questore saltarono in aria, il comandante dell'Andrea Doria « annunciava di avere fatto puntare i cannoni della corazzata e che ... attendeva ordini! ».21 Gli ammutinati finirono tutti davanti ai tribunali militari. Per meglio conoscere il fenomeno, rimasto sempre sconosciuto, della renitenza in massa dell'Italia Meridionale e delle isole parlano chiaro j documenti dei tribunali militari dell'epoca che celebrarono « alcune centinaia di migliaia di processi » .Zl Centinaia di migliaia di buoni cittadini, che per anni avevano servito il paese con onore e fedeltà, anche in numerose campagne di guerra, si videro bollati come renitenti o disertori. Con anni di carcere e la scritta in rosso sui fogli matricolati. Colpevoli solo di avere creduto agli ordini del re, di Badoglio e dei generali che 1'8 settembre erano fuggiti gridando che « la guerra era finita ».13 Spietate furono la repressione militare e le persecuzioni poliziesche che si nbbatterono sui « nonsiparte » e sulle loro famiglie. Gli arresti furono fatti con duri rastrellamenti e truci perquisizioni domiciliari che investivano spesso interi paesi. Gli arresti erano 21 22

Cfr. DE l..oRENZIS, op. cit., p. 328. Cfr. AA.Vv. (Achille Battaglia), Dieci anni dopo, 1945-1955, Bari,

! , La rivolta della popolazione siciliana aveva suscitato vasta eco nel Nord Italia. Lo stesso Mussolini ne aveva parlato nel discorso tenuto al Teatro Lirico a Milano la mattina del 16 dicembre, e in un articolo Pane e sangue apparso sulla « C.Orrispondenza repubblicana » del 17 gennaio. Mussolini interpretava correttamente la rivolta della popolazione dell'isola scrivendo che « il disagio di quella popolazione ha un duplice aspetto politico ed economico. L'uno e l'altro sono in funzione reciproca». Nell'articolo aveva poi calcato la mano scrivendo che i sicilianì erano stati richiamati alle ·armi « a combattere oggi contro la Germania e domani, come è stato ufficialmente annunciato, contro il Giappone, a undicimila chilometri dalla loro terra ». La notizia che truppe italiane sarebbero state mandate contro il Giappone s'era effettivamente diffusa per tutte le regioni del Sud. In quanto al « separatismo » nei moti del « Non si parte », Mussolini lo definiva come « una gonfiatura dei circoli governativi romani » e in parte il duce era nel vero. E da notare che tanto nell'originario programma fascista del 1919, quanto nei famosi «punti» di Verona del neofascismo repubblicano, era prevista una larga autonomia amministrativa delle isole maggiori. Infine il governo della R.S.I., per i fatti del ragusano, pare che abbia concesso la medaglia d'oro per la Città di Ragusa e quella d'argento per C.Omiso. Cfr. G. NOBILE, Questi miserabili, Genova, 1953, p. 34. 1955.

23


sempre accompagnati da botte da orbi, da colpi di calcio di moschetto, da spietate percosse. Gli arrestati, legati in lunghe « fu. nate», venivano fatti passare tra due file di militari e ferocemente « spolverati» a colpi di cinturone, bandoliere, d'elmetti, con i calci

dei fucili. « Dopo giorni di torture, sfiniti e sanguinanti, i fermati venivano ·c ondotti al carcere, mentre avrebbero fatto meglio a condurli al piu vicino posto di pronto soccorso ... nessun riguardo fu usato, né agli anziani, né alle persone gracili o fisicamente deboli. »24 I segni della violenza, clj un'indicibile brutalità,. erano impressi su ogni uomo che tornava dagli interrogatori. Maria Occhipinti, l'ardita popolana che si fece un paio di anni di carcere duro, ricorda: « Mi presentarono un certo P. almeno tre volte, perfino con l'elmetto in testa, per farmi confessare che l'avevo visto. Ma anche se l'avevo visto, dopo tante notti di insonnia forzata e di legnate, come potevo riconoscerlo in quel cadavere vivente che mi presentavano?... Vidi un ragazzo di 15 anni, non di piu, che si chiamava Turiddu, lo conoscevo dall'età di sette anni ... quando me lo mostrarono non lo riconoscevo piu; aveva la mascella gonfia come un pallone e rossa, sembrava una maschera. Si teneva la faccia senza avere la forza di lamentarsi... Che mezzi avevano usato quei carnefici per gonfiarlo cosf? "

Gli «sbirri» non risparmiarono la tortura a nessuno. Tutti i «fermati»: donne, fanciulli o ragazzi, persone anziane ... subirono violenze e umiliazioni indescrivibili. Cilia, altro « nonsiparte » torturato, ricorda che il giovane Giorgio Cascione « fu preso per i capelli e sollevato in piedi... un forte fiocco di capelli restò nella mano bruta di quel militare ». Cascione ebbe appena la forza di sussurrare un ultimo: "Non so niente ... " dopo cadde col viso coperto di sangue e non parlò piu ». Ufficiali clell'esercito, senza ritegno e senza rispetto per l'uniforme che indossavano, assistevano agli interrogatori e alle torture. È ancora Maria Occhipinti a parlare: « Entrai e vidi quattro uomini in divisa militare coi filetti d'oro al berretto, un commissario e vari agenti... Seppi che quei militari erano il generale e gli altri comandanti della divisione Sabaudia ... ». La repressione militare si fece sempre piu pesante. La Commissione Alleata di Controllo autorizzò l'impiego di truppe italiane in servizio O .P. (Ordine Pubblico) senza bisogno di preventiva comunicazione ai comandi alleati. Ma la N.O.B. americana di Palermo pretese che in caso di perturbamento in città, i soldati del 6° « Aosta » dovessero operare a disposizione del comando USA. Il co24

Cfr. S.

CILIA,

Non si pmte, Ragusa, 1954, p. 105.

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mando territoriale1 dal canto suo, ribadiva ai reparti dipendenti che « le truppe "tuori presidio" devono sempre portare al seguito armi automatiche e bombe a mano», mentre nei limiti del presidio ciò doveva avvenire solo se esplicitamente richiesto dalle autorità civili. Inoltre il comando militare territoriale ammetteva che in Sicilia erano state effettuate « azioni di sabotaggio, anche se non di importanza notevole», che era stata rilevata « la presenza di agenti nemici che hanno il compito di assumere informazioni, e di organizzare e dirigere azioni di sabotaggio », che vi erano stati « disordini da parte di civili contro l'attuale governo italiano» e si aveva motivo di ritenere che « altri disordini si verificheranno affiancati da elementi armati ». Infine veniva segnalata « la probabilità di lancio di paracadutisti nemici sul territorio siciliano » ciò perché la RAF aveva notato lancio di razzi nella zona di Giardini.25 Ai primi di febbraio i « nonsiparte » arrestati nel ragusano fu. rono trasferiti in catene nelle prigioni delle altre province dell'isola e a Ustica. Cilia ricorda che la sua partenza dal carcere di Ragusa avvenne improvvisamente, la notte tra il 2 e il 3 febbraio, alle 3 di notte. Gli autocarri diretti ad Augusta « erano undici stracarichi di uomini, piu due di scorta con militari ». E Maria Occhipinti, anch'essa incatenata: « I soldati che ci accompagnavano erano cosi inferociti che fermavano apposta la colonna dei camions per togliere ai contadini la roba militare che avevano: giacche, bustine, mantelli ». Ma un vecchio, nonostante quell'apparato di forze, si rifiutò di consegnare il mantello: «Ammazzatemi » disse. « ma la roba è mia, l'ho portata dalla grande guerra. Ho &eddo e non ho come coprirmi ». I prigionieri diretti a Ustica furono molte centinaia. Vennero portati al confino sull'isola con gli incrociatori Montecuccoli e Duca degli Abruzzi declassati a prigioni galleggianti. « Quando ci allontanammo da terra, la nostra destinazione era ancora un mistero. Molti padri di famiglia piangevano rivolgendo l'ultimo addio alla cara terra di Sicilia e alla famiglia lontana. Sulla nave c'era chi piangeva per il figlio che aveva accanto, mentre il giovane impassibile, senza una lagrima, voleva dimostrare al padre ch'era un uomo e che con lui si sentiva sicuro. Io non piansi... Uno sbirro, quello delle legnate, mi guardò, ma io con gli occhi puntati su di lui dissi: "Noi non siamo dei venduti, siamo degli onesti cittadini". • 26 25

26

Cfr. i « Diari Storici•, cit. Cfr. M. OccmPINTI, op, cit., p. 100.

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I tribunali civili e militari « lavorarono » a pieno ritmo per anni, processarono interi paesi. Gli arrestati del ragusano, assieme ad altri, donne comprese, presi un po' in tutta la Sicilia, rimasero in carcere fino all'estate del 1946. Furono rilasciati con l'« amnistia della Repubblica». La coraggiosa Maria Occhipinti venne trattenuta in carcere abusivamente ancora per alcuni mesi. Alcuni morirono in carcere. Alberto Avarino di Vittoria, un ragazzo di appena vent'anni, debilitato dalle torture e dai lunghi periodi di cella d'isolamento, spirò nel Carcere Vecchio di Catania. Erasmo Santangelo, condannato a ventitré anni di reclusione (era pregiudicato e lo « incastrarono» addebitandogli l'uccisione di un finanziere), si uccise nel carcere romano di Rebibbia. Sali su uno sgabello, legò una cordicella alle sbarre della finestra e se la passò al collo. Poi allontanò lo sgabello con un calcio.

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X. L'EVIS (Esercito Volontario Indipendenza Siciliana) ~ Fino a poco prima del 1860, l'idea di libertà in Sicilia fu perciò connessa con quella d'indipendenza dell'isola. In conseguenza non v'ha nulla di sorprendente che la tradizione duri ancora oggi... E dal giorno dell'ingresso di Garibaldi a Palermo principiò, fra i siciliani e i governanti d'Italia d'ogni partito e d'ogni colore, quel colossale malinteso che dura pure adesso e durerà chi sa per quanto ancora. » FRANCI-IE'l"l'I-SoNNINO,

Inchiesta in Sidlia,

1876.

Nell'autunno del 1944 a Palermo vi furono numerosi casi di vaiolo, ma l'organizzazione sanitaria militare alleata si rivelò di grande efficienza e, in pochi giorni, piu di quattrocentomila cittadini furono vaccinati. Poi cominciò la stagione fredda. L'inverno 1944-1945 fu estremamente rigido in tutta quella parte dell' Italia occupata dalle truppe alleate. La situazione della popolazione italiana era cosi'. allarmante che la rappresentante del Connecticut, dopo una visita nella penisola, dichiarò in una conferenza stampa: « Gli italiani stanno letteralmente morendo di fame ». Un'eccezionale ondata di freddo si abbatté sulla Sicilia. A Palermo, e lungo le coste, nevicò ripetute volte. Nella capitale dell'isola si moltiplicarono le iniziative assistenziali. Numerose cucine economiche furono impiantate nelle parrocchie, mentre il comando della base navale americana (NOB), si prodigava per la distribuzione quotidiana della minestra ai bambini poveri. Malgrado queste iniziative ogni giorno si contava un gran numero di persone morte per inedia o assideramento. Tanto che il « Giornale di Sicilia » (n. 4 del 4 gennaio 1945) dedicava ben due colonne delle sue quattro scarne paginette a un articolo di fondo che aveva il titolo drammatico « Assiderati». In esso si leggeva: « ... i mendicanti si sono moltiplicati con un crescendo impressionante. Se ne vedono ovunque... spesso si tratta di gente giovane, addirittura ragazzi... talvolta sono vecchi e vecchie ... mamme smunte, ridotte fisicamente ai minimi termini, e che pure devono sfamare un pargolo che succhia da quella esistenza avvizzita ... ». Lo stesso giorno, nella morgue di Palermo, v'erano otto cadaveri « di sconosciuti rinvenuti in questi giorni ... morti per assiderazione [sic!] ».


Un tribunale alleato costituito nel distretto di Agr igento. L'anno è il 1943.


1943-1945: un'immagine consueta di quegli anni , l'alt delle for ze dell'ordine.

Andrea Finocchiaro Aprile.


1943-1945: il separatismo viene definito come una ventata di rabbia. Una rabbia che, stando ai commentatori, verrà strumentalizzata dalle piu diverse parti politiche.



Ai primi di gennaio 1946 si ha un assalto - da parte della banda Giuliano - alla radio di Palermo. Nell'immagine: arresti operati dai carabinieri.

1944-19SO: sono anni in cui i controlli si intensificano sino a far dire che, nel paese, « la guerra continua ».


Il professore Antonio Canepa.

li I 7 luglio I 945 Antonio Canepa e due giovani, Rosano e Lo Giudice, cadono colpiti dal fuoco di una pattuglia di carabinieri. L'illustrazione riproduce il monumento eretto a memoria del tragico episodio.


Salvatore Aldisio, deputato e proprietario terriero.

Un disegno elementare in cui appare Giuliano che stacca la Sicilia dal!' Italia per annetterla agli USA .

La repressione: i paesi rastrellati e occupati militarmente, gli abitanti arrestati, confinati , deportati, sono una realtà del I 946.


Il nemico da arrestare è il contadino che chiede pane e lavoro.


Pattuglie e colonne di carabinieri e di agenti della Pubblica Sicurezza in azione nella ~ zona di Montelepre.

L 'avvocato Attilio Castrogiovanni.


I O maggio 1947: la strage di Portella delle Ginestre; nell'immagine, le bare di due piccole vittime.

Mariannina Giuliano partecipa alla campagna elettorale del M.l.S.: è il 1947.


La seduta inaugurale dell'Assemblea Regionale Siciliana. Tutto è stato cambiato, ma nulla è cambiato ...


Concetto Gallo Nicotra . Uomini del corpo repressione banditismo fotografati nel 1950.


Una curiosa immagine di Giuliano nel 1948.


Il corpo del bandito Giuliano; chiaramente visibile la macchia di sangue sul dorso nella foto in alto. (5 luglio 1950: Castelvetrano, Cortile Mannone.)


Un' immagine di Gaspare Piscion a.


Don Calogero Yizzini. GiuSt:ppc Genco Russo (al centro della foto).


Di fronte alla tragica situazione dell'isola che sfociava in aperta rivolta che investiva intere province, il Consiglio dei ministri del 21 dicembre prendeva posizione con estrema durezza: affermava che il governo si sarebbe opposto a « ogni movimento che miri a separare una regione italiana del resto dell'Italia e fare di questa regione uno Stato distinto ». In quel momento fermenti separatisti o federativi erano diffusi in tutto il Meridione, a Bari, Caserta, Ma­ tera ... Lo stesso Consiglio dei ministri però deliberava un'even­ tuale, futura concessione dell'autonomia amministrativa per la Sici­ lia. I primi passi verso questa autonomia sembravano essere fatti col decreto luogotenenziale n. 416 del 28 dicembre 1944 redatto sotto la spinta dei gravissimi avvenimenti che avevano avuto luogo nell'isola. Il decreto stabiliva la creazione d'una consulta regionale e di un comitato regionale per la bonifica e la colonizzazione delle terre in Sicilia, nello stesso tempo concedeva vastissimi poteri all'alto commissariato che servivano ad Aldisio nella sua lotta mortale ingag­ giata col movimento separatista. I poteri erano amplissimi; con essi Aldisio era a capo di « tutte le amministrazioni statali, civili e mili­ tari, degli enti e istituti di diritto pubblico»; inoltre aveva la fa. coltà di «dirigere e coordinare l'azione dei prefetti, e delle altre autorità civili dell'isola». Il nuovo proconsole della Sicilia, con un discorso alla radio, comunicò alla popolazione le decisioni prese dal governo. Spiegò che cosa signittcassero. Alla fine del discorso Aldisio pretendeva di togliere alla gente anche la magra abituale soddisfazione di lamen­ tarsi, condannando « le ormai sciatte declamazioni di maniera sul tradizionale sfruttamento dell'isola nostra». Il decreto luogotenenziale, le dichiarazioni del Consiglio dei mi­ nistri e i pieni poteri concessi ad Aldisio, rintoccarono a morto per gli indipendentisti. Essi lo capirono perfettamente, tanto che l'esponente separatista Attilio Castrogiovanni chiuse il suo studio legale di Catania e mise alla porta un cartello che diceva: « Studio chiuso. L'avvocato è stato richiamato alle armi dalla Patria Sici­ liana». E si buttò nella mischia. Nel Nord infuriava la guerra civile. A Roma regnava un caos indescrivibile. Vi dominavano avventurieri politici di ogni tipo. Uno di questi, tale Umberto Salvarezza, aveva dato vita a un consistente e torbido movimento chiamato « Unione Proletaria » che imperava incontrastato. Ma il nuovo padrone di Roma era un giovanissimo de­ linquente gobbo, il diciassettenne Domenico Albano detto « Il gob­ bo del Quarticciolo » che capeggiava una formidabile banda, pare fossero almeno 700 uomini dediti a delitti di ogni genere. Con molta difficoltà, alla fine la forza pubblica riusci a fare fuori il «gobbo». 1 97


Per domare la reazione dei « partigiani » amici del morto fu necessario usare carri armati e autoblindo. Anche in Sicilia la situazione della pubblica sicurezza era pesante. Il 5 gennaio, per l'inaugurazione dell'anno giudiziario della Corte d'Appello di Palermo, il procuratore generale Gentile elencava l'attività giudiziaria del distretto durante l'anno 1944: reati denunziati 57 .791, con 32.620 processi e 14.567 sentenze ... 452 omicidi semplici aggravati, 1050 lesioni di vario grado, 41 reati « contro la stirpe », 742 contro « la libertà sessuale » e l'ordine delle famiglie, 1.345 rapine, 245 estorsioni, 18 sequestri a scopo di ricatto, 24 .834 furti ... Negli altri distretti isolani la situazione non era certamente migliore di quella di Palermo. Si vivevano dunque giorni tragici. Anche se il fronte era sul1'Appennino tosco-emiliano, l'isola sembrava essere tornata ai giorni di guerra: stato d'assedio, coprifuoco, tribunali militari, posti di blocco, arresti indiscriminati... Canepa scriveva sul clandestino « Sicilia indipendente » che migliaia di persone erano state arrestate « non perché scoperte in flagrante, con le armi in pugno ... ma per suggerimento di qualche alto papavero del cosiddetto "Comitato di Liberazione" ». Nelle prigioni di Catania, che erano state raddoppiate con l'utilizzo del borbonico « Carcere Vecchio», fuori uso da quarant'anni, i detenuti erano « in cinque per cella, senza materasso, costretti a dormire sul pavimento con una sola coperta ». Gli arrestati « dopo quarantacinque giorni, erano ancora trattenuti senza mandato di cattura e nemmeno un solo interrogatorio... alcune centinaia di questi infelici sono stati trasferiti a Ustica, senza far loro conoscere di che cosa sono accusati ». Le uniche .iniziative distensive messe in pratica dalle autorità furono: la distribuzione, dopo molti mesi di attesa, di razioni di pasta nelle grandi città (la razione fu disuguale: 300 g a Palermo, 500 a Catania e 600 a Messina) e un acconto per il mancato pagamento della gratifica natalizia. Con paterna generosità Aldisio elargiva, ma solo agli impiegati statali, « un'anticipazione di mille lire» . Iniziativa che il « Giornale di Sicilia » definiva meschina e qualificava come affronto. Lo stesso giorno Finocchiaro Aprile, in un'intervista concessa alla « Voce Repubblicana », cadeva ingenuamente nella trappola della propaganda governativa. Egli scagionava i separatisti dall'accusa di aver partecipato alla rivolta di Catania, attribuendone invece la colpa ai soliti « fascisti » che s'erano impadroniti della città, determinando « incendi e distruzioni, provocando gravissimi danni ad importanti edifici pubblici ... senza che le autorità intervenissero in verun modo, pur avendone il dovere e la possibilità ». Cosi facendo , Finocchiaro Aprile avallava la tesi governativa che


faceva risalire a opera di mestatori « fascisti », o « sovvers1vt » in genere, la rivolta della Sicilia e negava i veri motivi popolari e sociali della protesta. Motivi che, in un attimo di sincerità, erano stati ammessi perfino dal Consiglio dei ministri che in un comunicato dell'll gennaio aveva riconosciuto che « l'ordine è stato gravemente turbato in una zona della Sicilia. I disordini che sono ancora una volta da mettere in relazione con la chiamata alle armi d'alcune_ aliquote di militari... ». Nella stessa intervista il leader separatista, riferendosi all'esteso movimento del « Non si parte», dichiarava che i giovani siciliani sarebbero accorsi volentieri alle armi « sotto il comando di ufficiali siciliani e sotto il vessillo rosso-giallo della nuova Sicilia ». A:ffermazione gratuita, questa, che non aveva alcuna rispondenza con la realtà e con l'opinione popolare. In verità in Sicilia nessuno voleva ritornare sotto le armi e per nessun motivo.1 Nello stesso tempo la sempre piu rigida azione governativa faceva si che il Comitato Siciliano d'Azione che si era costituito a Roma tentasse la strada della « Federazione Italiana» con uno schema di progetto che indicava la soluzione dei problemi dell'isola nel contesto di un ordinamento federativo italiano. Ciò anche se, il 1° febbraio, il Comitato Nazionale del M.I.S. aveva votato un documento che, in una serie di concisi articoli, stabiliva i punti programmatici immediati di un governo indipendente dell'isola. Che erano: amministrazione della Sicilia con l'<< assistenza» degli Alleati, contributo dell'isola allo sforzo bellico delle Nazioni Unite, divisione della Sicilia in cento circoscrizioni elettorali, voto attivo a 18 anni e passivo a 25 anni, convocazione dei Comizi Elettorali per l'Assemblea Costituente siciliana, autonomia ai Valli (province o gruppi di province) e ai Comuni ... Si avvicinava la Conferenza di San Francisco: la situazione politica in Sicilia e nel resto d'Italia era molto tesa. Gli autori del colpo di stato del 25 luglio erano stati allontanati dalla scena politica: Vittorio Emanuele III era stato costretto a mettersi da parte, Am1 In quei giorni gli attivi gruppi separatisti di Catania svolgevano un'in· tensa azione per bollare i metodi « colonialisti e fascisti » impiegati dalle autorità militari nella repressione del « Non si parte ». Inventarono un « messaggio » di Mussolini ad Aldisio che diffusero con un volantino. « Caro Aldisio » diceva il testo con sferzante sarcasmo, « con la notizia dell'azione ferrea che svolgi nel centro geografico del perduto impero, riconoscendo le tue benemerenze, ho disposto che ti venga concesso l'onore della tessera con anzianità 1922. Tira diritto. Tieni duro. Vedrò poi per la sciarpa littoria. Al momento avrai un "portafoglio", forse quello delle Colonie, poiché la Sicilia è l'unica colonia che d resta. Grazie dell'ospitalità che dai ai miei fidi nel Partito Democratico Cristiano. A chi la Sicilia? A Noi!

F .TO MUSSOLINI »

1 99


brosio era sparito dalla circolazione, Roatta era detenuto, ma veniva fatto fuggire dall'Ospedale Militare del Celio e riparava in Spagna, Badoglio veniva dichiarato decaduto da Senatore (Acquarone salvava il laticlavio e i quattrini, ma non la reputazione). La guerra volgeva alla fine. Nell'Italia settentrionale il comando tedesco trattava l'armistizio con gli Alleati alle spalle di Mussolini. Il « duce » e la sua Repubblica, costituita con vent'anni di ritardo, si avviavano verso una tragica fine. Il 31 marzo 1945, « 663° Anniversario del Vespro», Finocchiaro Aprile inviò un « memorandum » alle delegazioni degli Stati alleati che a San Francisco si accingevano a dare vita all'ONU, organismo che sembrava suscitare grandi speranze dopo la scomparsa della deludente Società delle Nazioni. Con il solito excursus storico e una sequela di lamentele contro l'azione del governo italiano, Finocchiaro Aprile affidava alle Nazioni Unite « il compito nobilissimo di tutelare i supremi interessi del popolo siciliano ». Secondo il leader separatista le Nazioni Unite « come dichiareranno l'indipendenza dell'Austria e di altri paesi, vorranno provvedere all'indipendenza della Sicilia come atto di riparazione e di giustizia ». Solo che la Conferenza di San Francisco seguiva di alcune settimane gli accordi di Yalta e dietro la cortina di promesse e di belle parole si poteva vedere la verità: la Russia e l'America s'erano spartite il mondo e tutti gli altri paesi presenti alla Conferenza erano caudatati, presenti per atto di captatio benevolentiae verso le due megapotenze vincitrici. Il « memorandum » di Finocchiaro Aprile venne ignorato dalla Conferenza e dalle Delegazioni dei paesi presenti. Non solo il documento non venne preso in considerazione, ma in Sicilia ebbe l 'effetto sorprendente e violento di un boomerang di inaudita potenza. Aldisio prese delle iniziative provocatorie e violente con l'organizzazione di « spontanee » manifestazioni che culminarono con l'assalto e la devastazione delle sedi separatiste e la chiusura manu militari delle sezioni del M.I.S. · Nei giorni 14, 15 e 16 aprile v'era stato a Palermo il 2° Congresso nazionale del M.I.S . I lavori avevano avuto luogo con una vasta partecipazione di delegati e simpatizzanti. Era presente anche « una folta schiera convocata in gran parte da Stefano La Motta che giunse dai bellicosi centri di Nicosia e Mistretta, armati addirittura, oltre che d 'entusiasmo, anche di pistole, di bombe e di propositi indeterminati ».2 I lavori del Congresso, però, si svolsero ordinatamente sotto il controllo di imponenti masse di forza pubblica. Alla 2

Cfr.

200

DuCA DI CAB.CACI,

op. cit., p. 151.


fine del Congresso v'era stato il solito tentativo di corteo, in genere sempre vietato ai partiti d'oppasizione. Ma un grintoso. schieramento di truppa all'altezza di piazza Teatro Massimo aveva bloccato l'iniziativa e la grande .folla era rifluita verso piazza Politeama e la via Libertà, per poi sciogliersi pacificamente. Alcuni giorni dopo arrivò puntuale la risposta di Aldisio. Sabato 21 aprile fu ripristinata improvvisamente, e per l'occasione, la festa fascista del Natale di Roma e vennero sospese le lezioni nelle scuole. Le scolaresche sfilarono per le vie della città con bandiere tricolori per una « manifestazione patriottica » per l'italianità di Trieste e dell'Istria, gravemente compromessa dagli «alleati» jugoslavi che stavano massacrando le popolazioni italiane di quelle regioni. Il corteo venne pilotato verso la sede « separatista » di via Ruggiero Settimo dove gruppi di studenti sostarono vociando e scagliando sassi. Poi numerosi carabinieri in divisa e alcuni borghesi che si qua~ li.6.carono come «partigiani», diedero l'assalto all'edificio. Jolanda Varvaro che quel giorno si trovava nella sede separatista (cfr. « Democrazia Internazionale» 2 maggio 1945) vide irrompere i carabinieri negli uffici. Dopo aver sfondato la porta, i militari puntarono le armi sui presenti, che furono tratti jn arresto e portati via con l'accompagnamento delle solite «legnate». I locali furono coscienziosamente devastati. Alla fine, quando la distruzione venne completata, i militi trascinarono fuori, tirandolo per i capelli, il giovane avvocato Silvio Micale che, ferito a una gamba, non poteva reggersi in piedi. Secondo un successivi;) comunicato della D.C. la colpa dei disordini e della devastazione dei locali ricadeva sui separatisti che, dai balconi della loro sede « avevano provocato la folla con gesti osceni »! 3 A Catania l'assalto alla sede separatista che era nel Palazzo Carcacì dei Quattro Canti, raggiunse le piu alte vette della tragicommedia. Avvenne il 1° maggio con imponenti forze di polizia e dell'esercito. A difendere i locali della sede indipendentista erano rimasti Attilio Castrogiovanni e Peppino Emanuele. I due avevano collocato un groviglio di fili elettrici lungo la scala a chiocciola che conduceva agli uffici, e gridarono agli assalitori che i fili erano collegati con l'alta tensione e che tutto l'edificio era minato. Avvenne allora uria fuga precipitosa delle forze dell'ordine che si concentrarono a distanza ·di sicurezza e cominciarono le trattative con i due assediati. La farsesca situazione, che creò momenti di reale 3

Cfr. « Giornale di Sicilia», 22 aprile 1945. 20I


angoscia, si protrasse per tutta la giornata. A sera, Castrogiovanni dichiarò « d'avere disinnescato i mortali ordigni» e si arrese. Poi, con infinita cautela, la forza pubblica penetrò nei locali e sequestrò ogni cosa. C.On la fine della guerra il governo lasciò libero Aldisio di provvedere alla « pacificazione dell'isola » con i metodi ritenuti migliori. C.Osa che il solerte alto commissario si accinse a fare accentuando la già pesante opera di repressione. A fine aprile, il cardinale Lavitrano, che aveva mostrato un'intollerabile simpatia per la causa separatista, venne allontanato dalla carica di primate dell'isola con un'improvvisa promozione a prefetto delle congregazioni religiose a Roma. Mentre il chiacchierato vescovo di Monreale, Ernesto Filippi, restava al suo posto, al centro d'una torbida vicenda fatta di trame politiche, mafiose, brigantesche e di servizi segreti. Forze di polizia ed esercito ebbero l'ordine di schiacciare il movimento indipendentista. Specialmente nelle sue componenti estremiste e velleitarie. In questa azione s'inquadra l'episodio culminato con l'eccidio di Randazzo. La breve stagione « guerrillera », la « primavera di bellezza » di Canepa e dei suoi giovani compagni, durò poco piu di due mesi. Essi non svolsero azioni di guerra né atti di sabotaggio, né tantomeno effettuarono azioni terroristiche. Non uccisero, non ferirono e nemmeno spararono. Non rappresentarono un pericolo per lo Stato e per le sue istituzioni. Gli esponenti del M.I.S ., a parte uno sparuto gruppetto di massimalisti, erano tutte persone moderate che rifuggivano dalla violenza e miravano a una soluzione pacifica e politica del problema siciliano. Non avrebbero mai dato il loro consenso a iniziative violente o cruente. Se qualcuno di essi in seguito lo fece, fu per ritorsione contro la repressione scatenata da Aldisio e dal governo di Roma. Scopo dell'E.V.I.S. era « ad ultimata organizzazione, di formulare precise richieste al governo, con la minaccia che in Sicilia erano già pronti, in armi, giovani decisi a reclamare i diritti del popolo ».4 Dopo l'episodio di Randazzo, uno dei sopravvissuti, Nando Romano, rimasto ferito nella sparatoria, dichiarò « ai sottufficiali del1'Arma, di Randazzo prima, e successivamente al sig. procuratore militare » che il professor Canepa aveva assicurato i giovani evisti che restavano fuori dell'orbita della loro attività tutti gli « atti di violenza, assalti a caserme e attentati a scopo di sabotaggio» ... e 4 Dalla confessione, resa dopo l'arresto, del barone Stefano La Motta, in Rllpporto dell'Ispettorato Generale di PS per 111 SidlitZ, Bande armate dell'EVIS e loro azioni delittuose, rapporto al procuratore miliblte del Regno,

7 marzo 1946. 202


che l'addestramento all'uso delle armi si prefiggeva lo scopo « d'imporre con esse il plebiscito per la separazione della Sicilia dall'Italia » . Uguali concetti esprimeva venticinque anni dopo Pasquale Sciortino alla Commissione Antimafi.a5 affermando che « l'obiettivo non era quello d 'attaccare le forze dell'ordine». Oltre che come esercito in nuce della futura Repubblica Siciliana, l'EVIS doveva essere utilizzato come uno spauracchio, come elemento di pressione politica. Tant'è vero che l'attività degli uomini di Canepa fu quasi scoutistica. Non meritavano di essere attirati, come pai avvenne, in un agguato e di far la fine violenta che fecero. Infatti Canepa e i suoi ragazzi furono uccisi senza potersi difendere, senza aver usato le armi che pure ostentavano. Gli uomini dell'EVIS si dichiaravano «soldati» d'un esercito chiamato Esercito Volontario per l'Indipendenza Siciliana che era in corso di formazione. Avevano una bandiera e regolari uniformi con segni vJsibili di riconoscimento, portavano apertamente le armi e avevano un capa riconosciuto e responsabile: Mario Turri alias Canepa. Il tutto corrispondeva esattamente a quant'era richiesto dalla convenzione internazionale dell'Aja. Dopo la rivolta del « nonsiparte » Canepa aveva elaborato un progetto di costituzione di « reparti d'assalto», divisi in vari gruppi. Tre gruppi avrebbero dovuto avere sede in Palermo, tre a Messina e tre a Catania. Uno era previsto nel centro dell'isola, a Marianopoli, e un altro a Giarre, nel catanese. Altri gruppi dovevano essere costituti a Siracusa e nelle altre province. II nucleo principale e originario era quello formato da Canepa e altri pochi giovani. Alcuni dei quali, fin dal 1942, avevano militato nelle file di « Sicilia e Libertà » e del S.I.S. britannico. Il progetto organizzativo di Canepa aveva una base ideologicorivoluzionaria, cosa naturale per un futuro esercito di « liberazione nazionale ». Tale progetto-schema venne consegnato a Finocchiaro Aprile e Guglielmo di Carcaci nella prima quindicina del febbraio 1945. I due esponenti separatisti diedero il loro benestare di massima e alla fine di marzo una diecina di giovani: Nino Gullotta, Lo Giudice,.Amato, Velis, Rosano e altri, accompagnati da Canepa, raggiunsero Cesarò. Con l'assistenza degli indipendentisti del luogo: Ninetto Leanza, il farmacista Schifano, i fratelli Pace e il medico Travaglianti, i giovani si sistemarono nelle case di Sollazzo d'Amhola, di proprietà dei Leanza. Il gruppetto passò l'intero mese d'aprile in quella zona, addestrandosi all'uso delle armi e ascoltando le lezioni d'ideologia rivoluzionaria del professor Canepa. Che amava ripetere ai suoi giovani s Cfr. op. cit., p. 57:5. 203


compagni i versi della poes1a-me1tamento scritta da Kipling per il figlio : Per essere un uomo. Dopo Cesarò il gruppo si trasferf nella fattoria del barone Cupani a Cutò, e infine, a metà maggio, s'installò nella casermetta della Guardia Forestale di Sambuchello da anni deserta. Gli evisti non si nascondevano, anzi, amavano ostentare la loro presenza: « I campeggi non solo non erano nascosti, ma erano additati da appositi cartelli che segnavano il cammino per giungervi. Bisognava mostrare alla opinione pubblica, e particolarmente agli Alleati, che i siciliani erano in fermento e cominciavano a impugna.re le armi a sostegno del proprio diritto. »6

Canepa e il suo aiutante Rasano si assentavano « sia per mantenere i contatti con il comando generale {Guglielmo di Carcaci) sia per accudire alla recluta di altri giovani ». Durante questi spostamenti, qualche volta, Canepa ·poteva abbracciare la figlioletta di pochi mesi, Teresa, nata da una rdazione sentimentale con una ragazza di Messina. {I due figli naturali di Canepa, dopo la tragica scomparsa del professore, furono riconosciuti e legittimati dal nonno Pietro Canepa, anche lui professore · universitario.) Canepa non aveva mancato d'insistere presso il comando generale perché anche nel palermitano venissero creati campi come nella Sicilia orientale. V'era però un grave problema di sicurezza da risolvere, perché le campagne erano percorse da bande di fuorilegge. Bisognava per lo meno instaurare rapporti di convivenza con questi banditi .. L'insistenza del professore fece si che avvenissero i primi contatti con Salvatore Giuliano e altri fuorilegge: Avila, Molano, Dottore ... T aie decisione venne presa non senza vivaci contrasti, in una riunione avvenuta in casa Tasca a Palermo (Don Lucio ricordò ai presenti che nelle file delle « guerriglie » · siciliane che avevano marciato con Garibaldi nel 1860 avevano militato fuorilegge ed evasi dalle carceri). Fu Calogero Vizzini, che partecipava alla riunione, ad appianare contrasti e difficoltà, assicurando d'essere in grado di tener sotto controllo i fuorilegge; in tale occasione affermò che « senza l'appoggio della mafia. la polizia era impotente contro i banditi ». Il che, in fondo, rispondeva a verità. Con Molano e Dottore non si concluse niente. Con Giuliano le cose andarono differentemente. Il contatto col bandito di Montelepre avvenne tramite Pasquale Sciortino di San Cipirello che, rien6

Cfr.

204

DUCA DI CARCAC1,

op. cit., p. 174.


trato nell'isola dopo un'esperienza partigiana a Roma e in Toscana, aveva sposato la causa separatista. Sciortino apparteneva a una cospicua e stimata famiglia, era diventato assiduo frequentatore di casa Tasca e godeva della fiducia dei maggiori esponenti indipendentisti. Pare che il primo contatto con Salvatore Giuliano abbia avuto luogo il 15 maggio 1945 in una casupola di Montagna Lunga sopra il cimitero di Montelepre. Attilio Castrogiovanni s'incontrò con Giuliano che vestiva alla maniera dei pecorai, con una pelle di montone sulle spalle. Nell'incontro, durato poco piu di un'ora, i due chiarirono le loro rispettive idee. Turiddu non solo promise che non avrebbe creato problemi ai giovani dell'EVIS, ma affermò di simpatizzare per la causa separatista. Aggiunse d'essere disposto ad appoggiarla. Castrogiovanni ribadi le finalità politiche del movimento e precisò che qualsiasi futura azione dovesse essere collegata con questi scopi politici ed espressamente coordinata e autorizzata. I due si lasciarono con l'intesa d'un successivo incontro. Anche i contatti con Avila, tramite gli ambienti separatisti di Caltagirone, erano stati proficui, tanto che i due Avila, padre e figlio, ebbero nel mese di aprile la tessera del M.I.S. Ma la faccenda, alJora, non si spinse oltre all'iscrizione dei due banditi. Ma il destino degli evisti di Canepa era ormai segnato. Da tempo essi erano sotto il controllo della polizia e dei servizi segreti. Inoltre pare che nelle file dei pacifici guerriglieri vi fossero degli informatori della polizia. (Dopo l'eccidio di Randazzo si sparse negli ambienti del M.I.S. la voce che due di questi informatori etano stati individuati e « condannati a morte per tradimento». Condanna che, ovviamente, non venne eseguita.) A metà maggio l'operazione anti-EVIS, coordinata dal responsabile del SIM di Catania, maggiore d'artiglieria Guercio, era ormai pronta a scattare. Mentre i separatisti s'illudevano sulla buona disposizione degli Alleati per la loro causa e mandavano inutili memorandum a San Francisco, la situazione politica internazionale era totalmente cambiata. V'era stato l'incontro di Yalta fra Stalin, Roosevelt e Churchill. Quest'ultimo, parente povero della situazione, s'era dovuto accontentare di vaghe promesse di futura compartecipazione da parte dei cugini nordamericani. Com'era da aspettarsi i vincitori s'erano messi sotto i piedi le promesse e i solenni giuramenti fatti durante la guerra: il diritto dei popoli all'autodeterminazione, le assortite « libertà » atlantiche, l'eliminazione delle dittature, la pace nel mondo, l'uguaglianza dei popoli, ecc. Con Y alta l'Italia era entrata definitivamente nella sfera d'influenza americana e le vaghe simpatie espresse da qualche ufficiale statunitense nei confronti dei separatisti siciliani s'erano sciolte al .205


caldo sole di Crimea dov'erano avvenute le intese fra Stalin e Roosevdt. . Con la nuova situazione creatasi a Yalta gli americani s'affrettarono a sistemare i problemi politici interni dei paesi che rientravano nella loro sfera d'influenza. A parte l'Italia gli Alleati avevano avuto gravi problemi in Grecia dove, con la Liberazione, era scoppiata una feroce guerra civile fra comunisti e filoccidentali. Non volevano che l'Italia, appena uscita dalle operazioni belliche e dalla guerra civile, ripiombasse in un altro conflitto. Nella primavera del 1945, sebbene la guerra fosse finita, la situazione italiana era veramente tragica. Il Nord Italia era nelle mani di Comitati di Liberazione e di incontrollabili bande di partigiani, migliaia di uomini armati formidabilmente, appartenenti, nella maggioranza, ai partiti della sinistra. La frontiera alpina occidentale era minacciata dalle pretese annessionistiche francesi e le regioni orientali : Venezia Giulia, Friuli, Istria erano invase dagli jugoslavi. In tutte le regioni dd Nord avvenivano spaventosi massacri di « fascisti », o di persone ritenute tali, con esecuzioni sommarie e, qualche volta, con processi burla d 'improvvisati e sanguinari tribunali dd popolo. Anche i funzionari, gli agenti di polizia e i carabinieri inviati al Nord dal governo di Roma venivano assassinati. In Emilia e Romagna v'era un « triangolo della morte», dove imperversavano le uccisioni, che costarono la vita anche a numerosi sacerdoti. E cosi nelle Langhe, nd Veneto, nelle cinture delle città industriali ... Mentre il comando alleato provvedeva, con molta difficoltà, al disarmo delle unità partigiane, era necessario inviare maggiori forze di polizia nelle regioni del Nord. Per far questo bisognava sguarnire le regioni meridionali e la Sicilia, dove il problema dell'ordine pubblico in quel momento era minacciato anche dall'azione secessionista dell'EVIS . L'elemento piu pericoloso del secessionismo isolano veniva indicato nd gruppetto di Canepa, sia per gli avventurosi precedenti del professore, sia per l'attività che il gruppo aveva svolto durante la guerra. Era dunque Canepa che doveva esser messo in condizione di non nuocere. Il S.I.S. inglese oppose in un primo momento delle difficoltà all'operazione in quanto riteneva il suo ex agente ancora ricuperabile, ma poi lo mollò. Ai primi di maggio alcuni ufficiali siciliani del SIM, che fino a quel momento avevano operato nel Nord Italia, furono fatti rientrare nell'isola. Uno di questi, laureando all'università di Catania, era stato infiltrato per quasi due anni in qualità di interprete presso il comando germanico di Bolzano. Rientrato a Catania, questo ufficiale riprese le vesti di studente e cominciò ad aggirarsi nell'ambiente universitario prendendo contatto con Canepa e Rosano. Ai due evisti presentò alcuni elementi siculo-americani dell'OSS, che 206


promisero appoggio militare alla causa separatista. Per dar maggiore credibilità alle promesse venne esibita una lettera (pare apo· crifa), dd generale De Witt. In quei giorni Canepa stava trattando il passaggio nelle file d'un gruppo di latitanti armati, ricercati per reati minori o sbandati che vivevano alla macchia per spirito d'avventura. Questa gente usava riunirsi nell'agro di Marianopoli, nella fattoria di don Vincenzino Corvo che era simpatizzante separatista ... Con questi uomini e altri di sicura fede separatista e l'aiuto degli « americani », Canepa pensava di metter su un nuovo e piu efficiente « campo». Mentre gli incontri si succedevano, gli uomini del SIM e dd1'0SS cercavano di farsi rivelare da Canepa l'ubicazione dei « campi» già esistenti. Promettevano l'arrivo d'esperti istruttori dalla Tunisia con grandi quantitativi d'armi e munizioni. Per conquistare la fiducia di Canepa venne perfino simulato un conflitto a fuoco « con morti e feriti» fra carabinieri e « ribelli » nell'agro di Nissoria. La notizia dello scontro, divulgata dai giornali, e confermata dai contadini del luogo che effettivamente udirono la sparatoria, mise in crisi i carabinieri del posto che cercarono inutilmente le tracce del conflitto. Nello stesso tempo il colonnello Agrifoglio capo del SIM italiano e l'americano Max Corvo, comandante dell'OSS, effettuavano frequenti viaggi nell'isola. L'ultimo incontro, avvenuto alla fine di maggio, fra gli uomini dei servizi segreti e Canepa e Rosano, aveva come scopo la fornitura di apparecchiature radio per gli evisti, e di armi e munizioni. Quest'operazione, negli ambienti del SIM aveva il nome convenzionale di « Operazione Delta » (o Simeto). Poi, improvvisamente, i due evisti, perché avevano subodorato l'inganno o .per altri motivi, si resero irreperibili. Ma ottnai i servizi segreti avevano localizzato il campo di Cesarò che risultò essere l'unico esistente. In quei giorni le autorità facevano pressione sugli ambienti moderati del M.I.S. catanese per far sciogliere i « reparti armati». Chiedevano che gli uomini si costituissero; offrivano in cambio vaghe promesse di futura clemenza senza offrire alcuna garanzia reale. Fallito questo tentativo, reparti dell'esercito e dei carabinieri s'accinsero a effettuare una grande battuta nei boschi tra San Fratello e Cesarò. La notizia dell'azione trapelò negli ambienti separatisti e Attilio Castrogiovanni si precipitò a Sambuchello per informare gli evisti del pericolo. Gli armati abbandonarono la casermetta forestale e si dispersero con l'intesa di rivedersi di li a pochi giorni. Alcuni di loro ripiegarono verso Maniace. Quel giorno il campo separatista era stato visitato da Guglielmo Carcaci, Giuseppe Tasca e Carlo Pattino e v'era stato un falso allarme. Canepa era assente; c'era però Concetto Gallo. Il professore s'era recato a Marianopoli 207


per prendere gli ultimi accordi con don Vincenzino Corvo per l'arruolamento dei fuorilegge. Ma don Vincenzo e i latitanti erano spariti da alcuni giorni. S'erano volatilizzati e non se ne ebbe mai piu notizia. L'operazione militare nei boschi di Cesarò, comandata dal generale Fiumara, con una forza pari a quasi due reggimenti e carri armati, scattò a vuoto. I militari raggiunsero la posizione separatista dopo una lunga e cauta marcia nei boschi. La caserma forestale era vuota, anche se tutto attorno v'erano ancora le tracce del campo. Nei giorni seguenti la procura militare di Catania cominciò a spiccare mandati di cattura contro gli esponenti separatisti. Il primo mandato venne emesso contro Castrogiovanni che era stato riconosciuto a un posto di blocco la notte che era andato ad avvertire i ragazzi a Sambuchello. Nella zona dell'ex campo rimasero un paio di battaglioni comandanti dal maggiore dei carabinieri Antonino Denti di ForH. Il campo separatista s'era intanto trasferito nelle terre di parenti di Canepa. Nella seconda settimana di giugno Canepa incontrò a Messina la sua compagna. In quell'occasione disse alla donna d'avere preso in affitto un appartamento a Catania; presto si sarebbe liberato d'ogni impegno e la famigliola si sarebbe riunita. Diede appuntamento alla donna per la mattina del 18 giugno a Catania. Un paio di giorni dopo, il professore partecipò a una riunione a Maniace, nella Ducea Nelson. Questo incontro, al quale fu sicuramente presente un agente del SIS inglese, decise la sorte di Canepa e dei suoi ragazzi . Domenica 17 giugno, alle ore 8 del mattino, Canepa, il suo aiutante Rasano e gli evisti Velis, Amato, Lo Giudice e Romano, erano su un motocarro con un carico di armi da nascondere prima di sciogliere il gruppo. Erano diretti verso Francavilla, in una proprietà di parenti materni del Canepa (il professore era cugino di Franco Restivo che in seguito fu presidente della Regione e piu volte ministro della Repubblica). Il motocarro era giunto alle porte dell'abitato di Randazzo quando una pattuglia di tre carabinieri (maresciallo maggiore Rizzotto, vicebrigadiere Rosario Cicciò e il milite Carmelo Calabrese) fece segno di fermare. Amato, che stava alla guida del mezzo, finse di rallentare, poi aumentò la velocità e superò i militi. Per fermarsi una quarantina di metri piu avanti. A partire da questo punto tutta la storia diventa confusa e incomprensibile. Il rapporto che il prefetto Vitelli di Catania inviò al ministro degli Interni, copia esatta di quello dei carabinieri, non va d'accordo con altro rapporto presentato dal capo della polizia. Anche le dichiarazioni dei due superstiti « loquaci», Velis e Amato (il terzo, Romano, è stato sempre taciturno in maniera impressionante), non svelano la dinamica dei fatti, anzi sembrano reticenti. 208


La versione del prefetto di Catania, che dovrebbe essere ufficiale, appare costruita a tavolino. È confusa, macchinosa e densa di contraddizioni. Arriva ad affermare che il corpo del Canepa « presentava vasta e profonda ferita [alla coscia sinistra] da scheggia [ di bomba a mano] ... » e altre ferite, sempre da scheggia, « in varie parti del corpo ». Mentre nella perizia medica fatta dal direttore dell'Istituto di medicina legale si legge che, oltre alla larga ferita « in corrispondenza della faccia antero-mediale del terzo medio della coscia sinistra [ un grosso foro slabbrato, da parte a parte della coscia], ... nessun'altra lesione si nota nell'ambito esterno del cadavere ». I rapporti «ufficiali» somigliano piu a un romanzo giallo, che deve finire per forza in un certo modo, che a un corretto rapporto di polizia giudiziaria: secondo tali rapporti i carabinieri s'avvicinarono al Guzzi che si era fermato solo dopo spari di intimorimento e non notarono nulla di strano nel motocarro e nei suoi occupanti. Che indossavano ttttti un'inequivocabile uniforme militare ed erano palesemente armati! « ..• dall'ispezione dei cadaveri è risultato che tutti vestivano un'uniforme costituita da una tuta militare color . kaki, d'un fazzoletto giallo-rosso, d'uno scudetto distintivo metallico portante la parola "Etna" in campo giallo-rosso e scarpe di gomma» (Cfr. « Giornale di Sicilia» del 21 giugno 1945) . Recita ancora il rapporto: il carabiniere Calabrese s'avvicinò al furgone e « scorgendo nel cassone armi e munizioni, in uno ai sottufficiali, impugnando i moschetti, gridava "mani in alto"». Dopo di che i tre carabinierj rimasero stranamente paralizzati per un bel po' di tempo . Durante questo tempo i « cinque» (vedremo poi perché i « sei » erano rimasti in « cinque »), « tentavano di corrompere i carabinieri mostrando un pugno di biglietti da mille, ammiccando», e subito dopo sparavano addosso ai militi, con una Mascbinenpistole e altre armi, « una diecina di colpi», e ferivano due dei tre carabinieri. Poi « tre degli individui che si trovavano a bordo, balzarono subito a terra, abbandonarono le pistole di cui erano armati, per il lancio delle bombe che tenevano in tasca, bombe non adoperate, evidentemente per la breve distanza che li separava dai militari » [ ! ? ] . Solo allora i tre carabinieri (di cui due feriti), svegliatisi dall'improvvisa paralisi « reagirono dopo essersi tirati un po' indietro » e aprirono il fuoco coi loro moschetti. Un fuoco tanto preciso che, con pochi e aggiustati colpi, fece fuori tutti e quattro gli assa· litori. Il professore fu mortalmente ferito dallo « scoppio d'una bomba a mano che lo stesso deteneva evidentemente in tasca» . L 'esplosione fu provocata da una pallottola che colpi la bomba. « Intanto il furgone targato Enna 2.34, fatto segno ad altri colpi, si fermava 680 metri avanti il luogo del conflitto, dopo aver inve209


stito il muro dell'abitazione n. 73 della via Marotta di Randazzo. Approfìttruono di questo frangente per dileguarsi il conducente e altro giovane. » Nel cassone del motocarro furono rinvenuti gravemente feriti il professor Antonio Canepa, che aveva in tasca una falsa carta di identità a nome Presti Armando fu Isacco nato a Leopoli, e l'universitario Carmelo Rosano aiutante del Canepa « colpito gravemente al torace e all'addome da schegge dello stesso .ordigno » che aveva ferito il professore. Gli altri feriti furono lo studente ginnasiale diciottenne Giuseppe Lo Giudicè e l'universitario ventunenne Armando Romano. I feriti furono assistiti e trasportati all'ospedale di Randazzo. Lo Giudice spirò durante il tragitto, mentre Canepa e Rosano morirono in ospedale. « Gli accertamenti in luogo sono stati eseguiti dal signor procuratore della sezione autonoma del tribunale militare di Catania assistito per gli esami necroscopici dal prof. dott. Nicoletti, direttore dell'Istituto di medicina legale di questa Regia università. Le salme sono state tumulate nel cimitero di Jonia » continuava il rapporto ufficiale. (Jonia era il nome del grande comune sorto dalla « fusione » fascista delle cittadine di Giarre e Riposto; oggi i due comuni sono di nuovo separati.) Non si sa perché venne scelta tale località per la sepoltura. Fra Randazzo e « Jonia » vi sono almeno una ventina di paesi con altrettanti cimiteri. Continua il rapporto delle autorità: « A bordo stavano armi, ordigni, munizioni e valori: due moschetti modello 91, due pistole mitragliatrici tedesche, una carabina automatica, due moschetti mitra Beretta, tre pistole automatiche, 24 bombe a mano Breda, due bombe a mano SIPE, sei bombe a mano tedesche, 345 cartucce varie e altro materiale d'equipaggiamento, nonché la somma di L . 305.000 (che nel rapporto del capo della polizia diventa di L . 350.000. La somma rappresentava due anni di stipendio arretrato che il professore aveva appena riscosso). Vediamo adesso che cosa raccontarono i superstiti della sparatoria. Nino Velis afferma d'essere saltato giu dal furgone non appena esso rallentò. Dopo aver scavalcato un muro di cinta s'allontanò nella campagna. Quando udi le detonazioni era già lontano. Armando Romano non ricorda o non vuole ricordare nulla. Tranne che fu colpito due volte. Una pallottola lo prese mentre era sul furgone e una seconda lo fece stramazzare a terra svenuto mentre cercava scampo fuori del Guzzi. Amato invece ricorda d'avere accelerato superando i carabinieri e di non aver sentito colpi di intimorimento. Poi Canepa fece segnale di fermare : « lo mi fermai. Che cosa sia avvenuto non so. Sentii Canepa urlare: "Perché sparate? Che bisogno c'è di sparare?" 210


e dall'altra parte: "Perche non vi siete fermati?" ... dopo crepitarono le armi... accelerai per guadagnare la curva... trovai Canepa e Rosano che perdevano sangue. Canepa non parlava. Rosano mi chiedeva di lasciarlo in un posto dove lo potessero curare. M'affrettai a rimettere il furgone in moto e a portarlo nei pressi dell'ospedale di Randazzo, dove lo abbandonai dopo aver richiesto aiuto ».7 Le cose invece andarono cosi: premesso che i movimenti di Canepa e dei suoi giovani compagni erano sotto controllo delle forze di polizia, il servizio predisposto dai carabinieri doveva portare alla cattura di Canepa e degli altri, e non alla loro uccisione come poi sciaguratamente avvenne. Con i tre carabinieri del debole posto di blocco, v'erano altri uomini armati, divisi in due gruppi, nascosti ai lati della strada. Bastava soltanto che il motocarro si fermasse per consentire la cattura. Erano le 8 di domenica 17 giugno quando il Guzzi sbucò dalla strada di Cesarò e prese la statale 120 per Randazzo. Sulla strada, a distanza, apparvero i tre carabinieri che facevano segnale di alt. Il furgone rallentò e Velis spiccò un salto, superò un muro di cinta e prese la strada dei campi abbandonando i suoi compagni. Poi il motocarro, arrivato all'altezza dei militi, accelerò e li superò: al che i carabinieri spararono in aria. Canepa fece segnale al conducente di fermarsi. Cosa che avvenne subito. Canepa scese dal motocarro protestando per gli inutili spari e si diresse verso i militari che accorrevano. Continuando a protestare, Canepa estrasse di tasca i documenti d'appartenenza alle forze armate inglesi che aveva fin da quando era nelle file del SIS inglese e che gli erano stati utili in tante occasioni. Fu a questo punto che il professore scorse gli altri uomini nascosti, si voltò e corse di nuovo verso il motocarro. Vedendo sfuggire la preda, uno degli armati nascosti inconsultamente lasciò partire la prima raffica subito imitato dagli altri. Rasano e Lo Giudice, raggiunti dai colpi, precipitarono dal motocarro. Rasano, colpito all'addome e al torace, cadde sul fondo del cassone. Canepa venne raggiunto da una pallottola esplosiva mentre rimontava sul furgone e si abbatté anche lui sul fondo del cassone. La dissennata sparatoria degli uomini nascosti raggiunse anche i tre carabinieri. La maggior parte dei colpi piovve verso la parte posteriore del motocarro. « Fecero fuori » gli evisti e colpirono all'emitorace destro il maresciallo Rizzotto che era al centro della strada. Il carabiniere Calabrese stava dietro il furgone e ricevette due colpi: uno alle terga, alla zona sacrale, e l'altro all'emitorace destro. Il vicebrigadiere Ckciò che stava sul fianco destro 7

ar.

S.

BAJtBAGALLO,

Una rivoluuone m{l11cata, Catania, p. 130. 2.XI


del furgone, ma col viso rivolto ai suoi colleghi, fu fortunato. Una pallottola gli si infilò nella punta della scarpa. Altri colpi incrociati raggiunsero il motocarro sul lato sinistro anteriore. La sparatoria fu brevissima; il furgone riprese la marcia. A terra feriti, erano ri-_ masti due evisti e due carabinieri. Il conducente del Guzzi, Amato, raggiunse la curva dove si fermò per pochi secondi, il tempo di constatare quanto era accaduto ai suoi amici. Poi si diresse verso l'ospedale di Randazzo dove lasciò i due feriti che giacevano dentro il furgone. Le condizioni di Canepa e Rosano si rivelarono disperate; i medici si accorsero che non c'era piu niente da fare. Rosano, adagiato su un lettino, volle che il suo fazzoletto rosso-giallo venisse legato alle sbarre e attese la morte che giunse a sera. La pallottola esplosiva, che aveva fatto un foro grosso quanto un pugno nella coscia di Canepa, aveva causato « la rottura completa del!'arteria femorale, ddla vena femorale, del nervo grande ischiatico, nonché di vasi minori » .8 A causa dell'imponente emorragia che « avrebbe sporcato lenzuoli e materassi » Canepa venne fatto sdraiare a terra, sul pavimento. E a terra mori. Un sacerdote, accorso per dare gli ultimi conforti, scambiò col morente poche frasi. Poi Canepa perse conoscenza. Il sacerdote rimase inginocchiato accanto al professore che si spegneva, mormorando le preghiere degli agonizzanti. Carabinieri e infermieri seguivano la scena. A Randazzo accorrevano intanto militari, autorità di polizia e magistrati civili e militari. Nessuno ebbe il coraggio di dire la verità, di raccontare i fatti cosi come erano avvenuti. Di riconoscere che c'era stato un tragico errore. Venne cosi fuori il rapporto fantasioso scritto dalle autorità con lingua incerta. Il prefetto di Catania (rapporto al' ministero dell'Interno, 22 giugno 1945) sentiva il dovere di riferire « unanime la deplorazione per il sangue che si continua a spargere ... quanto si è dolorosamente verificato, quanto ancora turba la serena tranquillità di tante famiglie che hanno lontano da casa i loro giovani figli e sono in trepidazione continua ». Poi se ne usciva dando la colpa del tragico episodio al « duchino » Carcaci per la sua opera « inconsulta e deleteria ». Da parte sua il capo della polizia (rapporto al ministro dell'Interno del 4 luglio 1945) doveva riconoscere che « il conflitto, con le sue tragiche conseguenze, ba destato penosa impressione nell'opinione pubblica». Anche il capo della polizia addossava la colpa « ai dirigenti del movimento indipendentista la cui attività antinazionale continua a esser causa di lutti, di danni, di gravi 8 Cfr. « Processo Verbale di Perizia», Tribunale di Catania, 18 giugno 1945, prof. F. Nicoletti.

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preoccupazioni per il generoso popolo siciliano». In verità i dirigenti del M.I.S. di Catania, sconvolti dalla notizia dell'eccidio, si erano precipitati dal prefetto di Catania offrendo la loro collaborazione per impedire nuovi massacri. Chiedevano clemenza e comprensione per i giovani evisti costretti a vivere alla macchia. Ma « la tardiva offerta non è stata neanche presa in considerazione», rdazionava fieramente il prefetto che aveva gustato il sapore del sangue. Lunedf 18 giugno giunse a Catania la compagna di Canepa. Quel giorno, con il suo uomo, avrebbe dovuto prender possesso della nuova abitazione, e la famigliola, finalmente riunita, avrebbe potuto iniziare una nuova, piu serena vita. La donna apprese alla stazione ferroviaria, dai giornali, la tragica fine di Antonio. Non le fu permesso di vedere il cadavere del suo uomo, né le fu comunicato il luogo della sepoltura. Un anno dopo, la compagna di Canepa fu convocata dai carabinieri e il pretore di Jonia le rivelò il luogo della tomba del professore; l'autorizzò ad una visita l'anno, di dieci minuti, alla sepoltura, a patto che non rivelasse mai e a nessuno, l'ubicazione della tomba. Dodici anni dopo i fatti narrati i resti di Antonio Canepa furono restituiti alla famiglia e tumulati nel cimitero di Catania.9

9 Dopo l'episodio di RandaZ7.0 le fotte di polizia individuarono due depositi di armi: uno nei pressi di Alcara Li Fusi e l'altro a Francavilla di Sicilia, in una proprietà della contessa Majorca. Furono attestate anche una quarantina di persone contro le quali venne iniziata una istruttoria. Fra gli arrestati v'era anche il giovane Michele Papa che negli anni '80 avrebbe acquistato notorietà intetnazionale per i suoi rapporti amichevoli con il colonnello Gheddafi e il fratello del presidente americano Carter.

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XI. LA FINE DELLA GUERRA. L'ARRESTO DI ANDREA

FINOCCIIlARO APRILE

« L'unione della Sicilia all'Italia fu l'origine prima delle nostre disgrazie e, se dovesse persistere, arresterebbe fatalmente, come nel passato, ogni progresso e ogni sviluppo dell'isola. « Da ciò è nata la ferma decisione dei Siciliani di organizzare la loro tetta a Stato sovrano e indipendente. » Memorandum alle Nazioni Unite del Movimento per l'Indipendenza della Sicilia. Conferenza di San Francisco. PALERMO, 31 mano 1945, 633° anniversario del Vespro Siciliano.

Con la fine della guerra la situazione politica italiana sembrò che stesse per cambiare totalmente. Le sinistre attaccarono rudemente Bonomi che Pietro Nenni definiva « vecchia ciabatta». Il C.N .L. Alta Italia, che all'arrivo delle truppe alleate era stato ddcgato_a rappresentare il governo di Roma, cominciò a chiedere con forza e decisione « tutto il potere ». La maggioranza dd C.L.N.A.I. era composta da uomini dei partiti della sinistra; fu naturale che essi chiedessero la presidenza del Consiglio dei Ministri per il socialista Pietro Nenni. Tale pretesa era avversata dalle autorità alleate che il 26 maggio fecero arrestare Pietro Nenni e Palmiro Togliatti i quali, contravvenendo alle disposizioni del governo militare alleato, s'erano recati nell'Italia settentrionale per svolgervi attività politica. La candidatura di Nenni, come quella di V.E. Orlando, avanzata dalle forze moderate, cadde per l'opera svolta da De Gasperi e da altri esponenti centristi. Si addivenne, però, a un compromesso, e il 17 giugno il Luogotenente del Regno conferi al professor Ferruccio Parri, esponente del Partito d'Azione e comandante dei Volontari della Libertà, l'incarico di formare il nuovo governo. Con la formazione del governo Parri (20 giugno .1945) il C.LN.A.I. sembrò aver vinto il braccio di ferro con gli esponenti politici romani. Il nuovo governo, basato su una larga coalizione di forze politiche, sembrava ispirare molte speranze adesso che la lunga e infausta guerra era finita. Ma per il Mezzogiorno d'Italia tali speranze non si avverarono. Il « vento del Nord», che soffiava dalle regioni settentrionali sconvolte dalle guerra civile e dai mas214


sacri, era lo stesso vento che aveva flagellato il Sud fin dal 1860. Il ministero dei Trasporti del governo Parri toccò al siciliano La Malfa che cominciava cosi un'intramontabile carriera ministeriale. La Malia, come tutti gli altri componenti la compagine ministeriale, era al governo solamente in funzione d'interessi settentrionali. La sua carriera politica, come quella precedente di bancario, si svolgeva sotto la protezione di Mattioli, il potente « patron » della Banca Commerciale italiana. La Malfa era uno dei « pupilli » di Mattioli già fascista, poi finanziatore del movimento partigiano e ispiratore, domino e mecenate del Partito d'Azione che in quei tempi ostentava truci atteggiamenti giacobini. Altri siciliani del governo Parri erano il democristiano Mario Scelba, ministro alle Poste e Telecomunicazioni, e i sottosegretari Enrico Paresce democratico-lavoro (Finanze), Pompeo Colajanni, comunista (Guerra), e Carlo Ardizzone, demo-laburista (Marina). Con la vittoria del « vento del Nord » si confermò la restaurazione del sistema parlamentare pre-fascista, che aveva stavolta come base i partiti politici, e si ribadiva la scelta economica capitalista. Falliva cosi il salvataggio della Camera « corporativa » fascista che, concettualmente e praticamente, si era rivelata piu moderna e piu efficiente del tradizionale sistema parlamentare. Lo stesso Pier ro Nenni aveva piu volte affermato, con scritti e discorsi, la validità d'una futura « Camera dei Consigli economici» (cfr., anche, « Avanti! » del 25 febbraio 1945), in sostituzione del superato e monarchico Senato. Inoltre, fin dal suo nascere, il Partito Popolare cattolico di don Sturzo s'era fatto propugnatore del vasto indirizzo corporativo dell'Enciclica Rerum Novarum. L'ordinamento corporativo era stato ripreso dalla nuova Democrazia Cristiana del meridione d'Italia che ne aveva studiato e approfondito i concetti per giungere all'enunciazione: « ... accanto alla Camera dei Deputati si costituirà, in sostituzione del Senato, un'assemblea rappresentativa degli interessi organizzati prevalentemente eletta dalle rappresentanze del lavoro e della professione ... il corpo rappresentativo della regione si fonderà prevalentemente sull'organizzazione professionale». C.On la ricostituzione delle organizzazioni sindacaJi ,i lavoratori avrebbero goduto cli piena libertà di riunione e di associazione. Tuttavia, « per regolare i contratti collettivi e i conflitti di lavoro... per rappresentare gli mteressi della categoria in confronto dello Stato e degli Enti pubblici saranno creati organismi professionali di diritto pubblico comprendenti, per iscrizione di ufficio, tutti gli appartenenti alla categoria (lavoratori, tecnici, imprenditori) i quali eleggeranno col sistema proporzionale i loro organi direttivi. Le rappresentanze regionali, nominate prevalentemente da tali organismi, eleggeranno infine i membri della seconda Assemblea Nazionale [ al posto del Senato]... C.Os{ le forze del lavoro, riunite per gruppi d'interesse ~ professioni (agricoltura, .215


industria, commercio, ecc.), a mezzo del suffragio economico integreranno

il suffragio politico senza assorbirlo ». 1 La ricostituzione democratica della Camera corporativa fu strenuamente avversata e impedita tanto dalle forze reazionarie e capitalistiche quanto dal partito comunista. Non solo, ma in nome di un antifascismo viscerale, perfino la parola « corporazione » venne demonizzata, tanto che oggi ha assunto, immeritatamente, un significato assolutamente deteriore. Anche se la crisi delle Camere rappresentative è fortemente attuale e suscita imbarazzate e confuse proposte di soluzione. La lotta per il governo di Roma aveva provocato in Sicilia una ferma presa di posizione da parte di Aldisio che temeva di perdere i larghi poteri che gli erano stati attribuiti. Aldisio s'era cosi attirato i fulmini dei partiti di sinistra che lo accusarono d'essere « separatista » ed espressione di gruppi reazionari. Ma poi, con il raggiunto compromesso a livello di governo, anche la polemica contro Aldisio si acquetò. Proprio in quei giorni avveniva la sparatoria di Randazzo che provocava grande emozione negli ambienti isolani. In tale occasione gli esponenti separatisti assunsero un atteggiamento molto cauto con un memoriale inviato al prefetto di Catania. Il memoriale ricordava che la chiusura delle sedi del M.I.S. ordinata dalle autorità aveva reso impossibile ai dirigenti del movimento il controllo degli elementi piu entusiasti o piu estremisti. Questi giovani esasperati e delusi, continuava il memoriale, si erano « affidati agli impulsi della loro giovinezza... Ciò malgrado nessuna violenza hanno mai commesso, giacché lo scontro del 17 non ebbe luogo per iniziativa dei giovani che, scesi dall'automezzo in obbedienza alla intimazione dei RR.CC., vennero uccisi a terra perché riconosciuti dai loro distintivi come indipendentisti, e soltanto perché tali ». L'episodio di Randazzo, inoltre, aveva provocato l'inizio della fuga dal M.I.S. da parte degli occasionali simpatizzanti, dei tiepidi fiancheggiatori che cominciarono ad affluire nelle file dei partiti « unitari » che adesso offrivano chiare possibilità di carriera politica e di futura sistemazione. (Se si volesse fare un elenco degli ex separatisti, o simpatizzanti, affluiti nei partiti « unitari » e divenuti poi esponenti politici, senatori, deputati e qualcuno perfino ministro della Repubblica, se ne trarrebbe uno studio interessante sulla coerenza degli uomini.) Nell'estate del 1945 i giornali pubblicavano l'offerta d'ingaggio, 1 Cfr. in AA.VV., I cattolici dall'opposizione al governo, A. DE GASPERI, L4 parola dei democratici cristiani 194)-1944, Bari, 1955, p. 477 sgg.

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da parte del governo britannico, di « lavoratori italiani per l'Estremo Oriente ... »; i lavoratori avrebbero avuto « assistenza spirituale da parte di sacerdoti italiani e sindacale da parte di appositi rappresentanti ... ». (Cfr. « Giomale di Sicilia», 19 giugno 1945.) Nelle province siciliane la situazione s'aggravò pesantemente nel primario settore dell'agricoltura. Scoppiarono disordini dappertutto, causati dalla spartizione dei prodotti della terra stabilita dal decreto Gullo sulla mezzadria. Ciò avvenne specialmente nelle province di Enna, Agrigento e Caltanissetta, dove i proprietari terrieri si rifiutavano di applicare un accordo stipulato a Palermo fra la Federazione dei lavoratori e l'Unione regionale degli agricoltori, accordo che era stato reso esecutivo da un decreto dell'Alto commissario. Coloni e mezzadri da una parte e proprietari e gabellotti dall'altra si fronteggiavano con le armi in pugno. La forza pubblica era spesso costretta a intervenire e a procedere a numerosi arresti. Soltanto con il precipitoso arrivo del ministro dell'Agricoltura Gullo e del suo sottosegretario Segni si poté addivenire, il 18 luglio, a un nuovo accordo integrativo,. frutto precario d'un ennesimo compromesso. Nello stesso mese di luglio, il giorno 22, il presidente del Consiglio, Parti, giunse a Palermo accompagnato da Scelba e La Malfa. Parri incontrò a Palazzo d'Orléans gli esponenti politici ed economici dell'isola. In tale occasione Enrico La Loggia, a nome « d'alcuni consultori aderenti al partito liberale» lesse una relazione sulla situazione economico-finanziaria della Sicilia. Si trattava d'una analisi dei problemi dell'isola e ne prospettava le soluzioni. La Loggia avanzava la solita richiesta d' « ordine » che fa sempre parte del bagaglio politico dei ceti moderati: « rafforzamento della forza pubblica, ... decisione e fermezza ... il rispetto della legge ... nella liquidazione dei rapporti colonici ». Veniva poi richiesto il potenziamento dell'attività zolfifera, dell'agricoltura in generale e dell'agrumicoltura e dei suoi derivati in particolare. Infine La Loggia avanzava una singolare richiesta. Sollecitava « la nazionalizzazione della produzione e della distribuzione dell'energia elettrica, con la creazione di un'"azienda di stato" con la "partecipazione di capitale privato" ». Si trattava d'una logica richiesta, se fatta dalle sinistre, ma quanto meno sospetta in bocca a un liberale. (In quel tempo una società privata, la SGES, aveva il monopolio delJ'energia elettrica in Sicilia. Azionjsti e amministratori di tale società mostrarono sempre una spiccata e tangibile simpatia per il partito liberale.) La spiegazione dell'insolita richiesta di statizzazione avanzata da La Loggia è data dal fatto che la SGES aveva visto i suoi impianti distrutti dalla guerra e da due anni i suoi bilanci si chiudevano in forte perdita. La proposta dunque nascondeva a malapena 217


lo scopo di far accollare allo stato le perdite per far godere gli utili ai privati. (Venticinque anni dopo, la proposta di La Loggia venne tirata fuori, e rispolverata per dare vita all'ENEL e all'inizio del dissesto delle finanze della Repubblica.) Infine La Loggia faceva appello affinché il governo e la burocrazia statale fossero animati da « uno spirito meno antlautonomistico » nei loro rapporti con « l'Istituto Alto Commissariale in Sicilia » considerato che era allo studio « il nuovo ordinamento amministrativo italiano su base regionale ». Alla relazione di La Loggia ne fecero seguito altre di Dante Maiorana, Girolamo Li Causi e del dottor Marino. La risposta di Parti raggelò gli entusiasmi e le speranze dei presenti. Il presidente del Consiglio chiarf che « riforme profonde di strutture organiche come questa dell'organizzazione regionale, non possono essere improvvisate e bisognerebbe che fossero mature nella coscienza popolare, in modo che possano uscire solo dall'Assemblea veramente rappresentativa della volontà popolare». Patri aggiunse che i siciliani dovevano metter da parte la loro impazienza « per quello che riguarda l'autonomia regionale ... il problema regionale non è diverso per la Sicilia da quello che sia per il Piemonte e la Lombardia e per qualsiasi altra· regione d'Italia ». Poi ammise che « qualche volta » nel passato la Sicilia aveva subito « un certo sfruttamento economico » e mai politico. Parti concluse il suo scostante discorso ricordando ai presenti la « superiorità (anche} democratica » del Nord Italia sul Meridione. Disse che nell'Italia settentrionale v'erano stati « due anni di lotta che hanno portato come conseguenza un'esperienza piu democratica di quella che era stata compiuta in Sicilia e nelle altre regioni dell'Italia meridionale ». Nessuno dei presenti si alzò per chiedere a Patti se erano da considerare « esperienza democratica piu avanzata » due anni di guerra civile e gli atroci delitti perpetrati a guerra finita che ancora insanguinavano il Nord della penisola. Le affermazioni di Patri suscitarono nell'isola un coro di proteste che pochi giorni dopo si tramutarono in violenta indignazione. Infarti, il 27 luglio 1945, il Consiglio dei ministri presieduto da Parri coi Decreti Legge n. 545 e 546 (che portarono la data del 7 settembre} approvava la concessione dell'autonomia alla Valle d 'Aosta. Anche se i governanti italiani non sono mai stati esempio di serietà e di coerenza politica, né di efficienza amministrativa, non era mai accaduto che un presidente del Consiglio si smentisse cosi clamorosamente e nello spazio di poche ore. A giustificare la decisione di Parri e del suo governo era la violenta richiesta della neo vincitrice Francia che chiedeva vistose retti218


fiche territoriali della frontiera alpina occidentale. Richieste che fu. rono prontamente calmate con larghe concessioni politiche ed econornkhe, la promessa cessione di Briga e Tenda e l'autonomia alla Valle d'Aosta. Si pose in quella occasione un interrogativo ancora oggi non risolto: se l'Italia avesse perduto la guerra assieme alla Germania o se l'avesse vinta al fianco degli Alleatì. Ancora una volta il governo italiano aveva perduto una magnifica occasione per mostrarsi previdente, cauto e dignitoso. Con la concessione dell'autonomia alla Valle d'Aosta, esso aveva mostrato la sua estrema debolezza verso le richieste straniere e forse non poteva fare altrimenti. Ma se, nello stesso tempo, avesse confermato la futura autonomia anche alla Sicilia, alla Sardegna e al Sud Tirolo, il governo non solo avrebbe salvato la faccia, dimostrando che la riforma regionale era nei programmi della « nuova Italia», ma sicuramente avrebbe evitato gravi, future crisi. Concedendo liberamente ciò che in seguito sarebbe stato costretto a cedere con la forza. La verità è che lo Stato e il Governo di allora non avevano alcuna intenzione di concedere riforme regionali se non, forse, alle « marche » di frontiera dove l'impiego della forza, dei carabinieri e dei tribunali militari, era assolutamente impossibile per motivi di politica internazionale e di estrema debolezza nazionale. Durante lo stesso mese di luglio i separatisti avevano riorganizzato le loro file . Anche il movimento armato si riprese dopo lo sbandamento che aveva fatto seguito alla morte di Canepa. (Nel M.I.S., in quanto movimento, confluivano una gran quantità di partiti qualificati ideologicamente: partito comunista siciliano, socialista, liberale, ecc. Le organizzazioni piu « accese » erano la Lega Giovanile e il GRIS, altro braccio armato come l'EVIS.) Il 25 luglio il comando operativo delle forze armate clandestine separatiste venne affidato a Gallo. A differenza di Canepa, che era un ideologo, cospiratore e , romantico di altri tempi, uomo sempre misterioso e imprevedibile, Gallo era un sanguigno idealista fortemente legato ai sentimenti e alle leggi dell'antica tradizione cavalleresca. Un uomo coraggioso e generoso ma anche irruento e ingenuo. Gallo assunse il comando dell'EVIS con un breve proclama firmato col nome di battaglia « Turri Secondo ». «Siciliani» diceva il proclama, « Antonio Canepa (Mario Turri) primo comandante dell'EVIS è caduto per piombo italiano. Sia gloria a lui! A noi basta la fiaccola dell'ideale. Da oggi, eletto dalla truppa, assumo il comando dell'EVIS. Se anch'io dovessi morire è pronto il successore. Fratelli! tenetevi pronti per il gran giorno! Indipendenza o morte! » 219


Nello stesso tempo gli esponenti separatisti accantonavano ogni residuo scrupolo nell'operazione d'agganciamento dei fuorilegge. Mentre fallirono i tentativi fatti presso le bande di Nino Molano e di Dottore, ebbero successo quelli fatti con le bande Avila e Rizzo (che si erano unite in una unica banda detta dei « niscemesi ») e con Giuliano. Gli attivi elementi indipendentisti di Caltagirone fecero mettere Gallo in contatto con Avila e Rizzo, mentre l'incontro con Giuliano ebbe luogo in quella che poi passò alla storia come « la conferenza di Sagana ». Pare che la decisione dell'alleanza con i fuorilegge sia stata presa nel corso d'una riunione tenutasi a Palermo ai primi di agosto. Alla riunione erano presenti: Finocchiaro Aprile, Franz e Guglidmo di Carcaci, Lucio e Giuseppe Tasca, Varvaro, Castrogiovanni, La Motta, Sirio Rossi, Giuseppe Cammarata e Calogero Vizzini. All'inizio, quasi tutti i presenti erano contrari alla proposta d'alleanza, ma nel corso della discussione si addivenne alla conclusione che tutti i movimenti di liberazione hanno sempre accettato nelle loro file per il raggiungimento dei loro scopi, chiunque fosse disposto a battersi. Non era dunque il caso d'avere scrupoli. (« Anche Garibaldi, nella sua campagna in Sicilia, accettò i briganti nelle sue file », sbottò don Lucio Tasca.) L'incontro di Sagana, come quello precedente del mese di maggio sulla montagna di fronte al cimitero di Montelepre, fra Turiddu e Castrogiovanni, venne combinato dall'infaticabile Pasquale Sciortino. L'incontro di Sagana, che il rapporto di polizia indica come avvenuto dopo l'arresto di Finocchiaro Aprile, avvenne invece ai primi di settembre. Da parte indipendentista erano presenti: Guglielmo di Carcaci, Pietro Franzone, Concetto Gallo, Stefano La Motta e Sciortino. Il gruppetto separatista parti da Palermo per raggiungere Giuliano. L'auto era guidata da Stefano La Motta e raggiunse Sagana per fermarsi all'altezza del Ponte, alle Case Vecchie. Un uomo sulla strada fece segno di scendere. L'auto rimase sulla « trazzera». La comitiva raggiunse una casetta a breve distanza dal ponte. Giuliano aspettava gli ospiti cittadini; alcuni uomini armati stavano attorno, ma a distanza, e facevano buona guardia. Il gruppo prese posto su delle grosse pietre all'ombra di una casetta e la « conferenza » ebbe inizio. Nel corso della discussione durante la quale Giuliano si dichiarò convinto assertore della causa siciliana, venne arruolata la banda di Montelepre nelle file dell'EVIS. I capi indipendentisti avanzarono la proposta di spostare i loro gruppi armati nella zona controllata da Giuliano. Ma « Turiddu » disse con molto buonsenso che tale progetto era irrealizzabile in quanto la zona era molto povera, e offriva 220


a stento da vivere ai suoi uomini. Giuliano poi oppose un preciso rifiuto all'invito di trasferirsi nella Sicilia orientale o di operare in città. Con un lampo di malizia negli, occhi precisò che i « balatuna » (i lastroni stradali) della città non erano fatti per le scarpe chiodate del contadino; c'era pericolo di prendere « qualche pericoloso scivolone ». In quanto a spostarsi nell'altra parte dell'isola niente da fare. Egli si sentiva sicuro nella sua zona. E aveva ragione. Giuliano chiese armi e quattrini che gli furono promessi e in parte (pochi) poi consegnati, ed assicurò che avrebbe operato in base alle disposizioni che sarebbero arrivate del «comando» dell'EVIS. Fu su questa base che venne stipulato il patto d'unità di azione fra Giuliano e quelli del M.I.S. In seguito Castrogiovanni affermò che a Turiddu non vennero fatte « cervellotiche promesse ... non potevamo promettere di trasformare lui da fuorilegge in cittadino, proprio noi che, per amore di Patria, ci eravamo trasformati da cittadini in fuorilegge». Era però pacifico che con la vittoria della causa separatista e con la raggiunta indipendenza dell'isola, Giuliano e i suoi uomini da «banditi» sarebbero diventati « cittadini e patrioti». Un'evoluzione, questa, sempre verificatasi, e la storia, anche quella attuale, è ricca di simili metamorfosi. La proposta di finanziare la « causa » con rapimenti ed estorsioni fu avanzata dal barone La Motta (e poi reiterata per lettera) ma in quell'occasione Giuliano la respinse sdegnosamente. In ogni modo anche se l'accordo fosse avvenuto non avrebbe dovuto scandalizzare nessuno. È prassi abituale dei movimenti armati di resistenza o di liberazione finanziarsi anche in tale maniera. La «conferenza» ebbe durata abbastanza breve. Ebbe termine col raggiungimento d'un accordo di massima sui punti discussi senza entrare in altri particolari. Sciortino avrebbe provveduto a curare i collegamenti fra Giuliano e il comando dell'EVIS. I « cittadini » se ne tornarono a Palermo mentre Concetto Gallo rimase con Giuliano per due giorni e due notti. Gallo disse poi d'aver passato le notti in una grotta di monte Cuccio, l'aguzza montagna che sovrasta Palermo, « alternandoci nel servizio di guardia. Uno vegliava, l'altro dormiva». Gallo aggiungeva: « A parlargli cosi in confidenza, Giuliano mi fece l'impressione d'un bravo ragazzo, con un profondo senso della giustizia e un profondo risentimento per i tradimenti che aveva ricevuto dall'ordine costituito». (Che Giuliano fosse stato conquistato dall'ideale indipendentista lo confermano anche i documenti dell'Antimafia2 dove si legge « Nel movimento separatista troviamo lo stesso Giuliano al servizio di un'idea e pare che Giu2

Cfr. doc. XXIII n. 2, sexies p . .31. 22I


liano abbia dimostrato con i suoi atti e col suo atteggiamento un profondo convincimento separatista».) Secondo il citato rapporto dell'ispettorato di PS, alla data del 31 gennaio 1946, Giuliano e altri « 47 malfattori» risultavano denunziati per otto omicidi, due tentati omicidi, tre conflitti a fuoco con la forza pubblica, sei rapine, tre estorsioni, una tentata estorsione, quattro furti aggravati, una procurata evasione, una precedente aggressione contro una caserma dell'Arma, cinque ricettazioni». Nei giorni successivi all'incontro di Sagana si sparse la voce che i separatisti si preparavano a far scoppiare una vasta insurrezione in tutta l'isola e si arrivò a precisarne la data: 27 settembre. Tale notizia è confermata solo da parte delle autorità (e poi ripresa da giornalisti e scrittori), ma non trova riscontro da parte indipendentista. Infatti non si capisce bene quale « D. Day » avrebbero potuto organizzare o preparare, o pensare di organizzare, i separatisti che in quel momento, compresi i fuorilegge fiancheggiatori, potevano contare solo su poche centinaia di uomini armati. L'entità di tale debole forza trova conferma nei documenti di polizia (Rapporto ispettorato PS citato) ove si legge che l'EVIS comunicava « a fini propagandistici ... per attirare giovani inesperti nel GRIS che alla data del 27 agosto 1945 ben 2.328 giovani avevano chiesto di far parte di esso e che 35 di essi facessero parte di speciali squadre d'assalto » mentre dalle testimonianze raccolte e dalle indagini esperite in contrada di San Mauro di Caltagirone e in quella di Montelepre, dov'erano le uniche formazioni armate, s'arrivava alla conclusione che la prima formazione contava 58 elementi « e una ottantina la seconda, compresi in esse i delinquenti delle bande armate ». La cifra dei 2.328 evisti era stata divulgata dallo stesso foglio clandestino « Sicilia Indipendente» (anno Il, n. 14 del 1° settembre 1945), anche se è certo che in un centinaio di comuni dell'isola erano state costituite squadre armate. Se la notizia del piano insurrezionale venne messa in giro per comodità poliziesca non si può negare che il progetto d' « un colpo di mano » era una fantasia molte volte discussa fra gli elementi evisti piu accesi. Era stato Canepa a vagheggiare una clamorosa scorreria, il cui piano venne trovato fra le sue carte dopo la morte. Canepa affermava che bisognava scegliere uno di quei paesini siciliani « arrampicati a mezza costa e sulle vette di un monte, avendo una sola strada d'accesso. Piu il paese sarà in posizione strategica (?!), piu la strada sarà stretta e tortuosa, tanto piu sicuro e completo sarà il successo». Secondo Canepa l'azione doveva avvenire in piu tempi: occupare il paese, disarmare i carabinieri, issare la bandiera giallo222


rossa sul « castello o sul municipio», suonare le campane « a stormo », chiamare a raccolta i cittadini: « spiegare il valore dell'idea » e « seminare la rivoluzione ... reclutare volontari ... indi preparare la trappola per le forze nemiche ». Bisognava poi annunciare (per telegramma) la conquista del paese da parte delle forze dell'EVIS, cosicché « i nemici non tarderanno ad accorrere... imbottigliarli in un pezzo di strada facendo saltare un ponte davanti e uno di dietro a loro ... Prenderli poi sotto un fuoco d 'inferno con mitragliatrici e bombe a mano dall'alto delle inaccessibili rupi... Distruggere totalmente le forze italiane di qualsiasi entità esse siano ... Tornare in paese, annunciare la vittoria, trasmetterla per telegrafo, poi ripiegare a piedi o a cavallo ... ». Canepa dunque continuava l'antica farneticazione del beau geste, della marcia su San Marino di 12 anni prima. La verità è che i capi responsabili separatisti, non solo non avevano mai pensato a un'insurrezione armata piu o meno diffusa nell'isola, ma erano contrari a colpi di mano. Essi consideravano l'EVIS uno spauracchio da sventolare davanti agli occhi delle autorità politiche, uno strumento di pressione e nient'altro. ~ dunque da ritenere che le allarmanti notizie d'un piano insurrezionale siano state diffuse a bella posta per provocare e giustificare l'azione di repressione poliziesca. E l'ordine di repressione giunse puntuale: « Gli allarmi di Aldisio si facevano sempre piu pressanti», la situazione in Sicilia veniva presentata come sempre piu grave, piu esplosiva... Parri in una intervista concessa al giornalista Marcello Cimino (dr. «L'Ora» del 29 marzo 1966) doveva ammettere: « ... in base agli ultimi, quasi disperati appelli di Aldisio decisi l'internamento di alcuni capi separatisti ». Fu cosf che Finocchiaro Aprile, Varvaro e Restuccia furono prelevati dagli uomini dell'ispettore di PS Agnesina ( « uno dei piu biechi e piu turpi sgherri del tempo fascista » scrivevano i giornali dell'epoca) e condotti a Ponza. L'arresto di Finocchiaro Aprile e di Varvano avvenne a Palermo la sera del 1° ottobre 1945 alle ore 20.30. I due esponenti politici con alcuni amici e conoscenti dd M.l.S., avevano lasciato l'Extra Bar di piazza Politeama che era diventato il loro abituale punto di ritrovo dopo che la sede del M.I.S. era stata devastata dai carabinieri e chiusa dalle autorità. Finocchiaro Aprile e Varvaro si diressero verso l'abitazione di via Caltanissetta. In via Libertà, una lunga fila d'auto a luci spente si accostò al marciapiede. Dalle auto scesero numerosi uomini armati guidati da Agnesina e dai commissari di PS Guarino e Basile. L'avvocato Sirio Rossi dall'altra parte della strada ebbe appena il tempo di gridare: « Attento onorevole! » che i due erano già stati afferrati e spinti dentro un'auto che partl a tutto gas. Dieci minuti dopo Fi223


nocchiaro Aprile e Varvaro erano al porto, prigionieri sulla corvetta

Pomona che mollò subito gli ormeggi diretta all'isola di Ponza. L'avvocato Francesco Restuccia, ritenuto dalla polizia capo militare dell'EVIS, venne arrestato a Messina, nella tarda serata del giorno dopo e tradotto alle carceri di Poggioreale a Napoli . L'operazione di decapitazione politica del M.I.S. venne segulta da un'ondata di arresti, da perquisizioni domiciliari, diffide e ammonizioni a carico di altri aderenti al movimento. Le poche sezioni separatiste ancora aperte furono definitivamente chiuse. Vietate le riunioni, le assemblee e qualsiasi altra manifestazione organizzativa o politica del movimento. Nelle principali città dell'isola autocarri, con truppa in assetto di guerra pronta a intervenire, pattugliavano le strade e agguerriti posti di blocco vennero istituiti un po' dovunque. Forze armate, carabinieri, polizia e guardie di finanza rimasero consegnati nelle caserme in· stato di allarme e pronti a intervenire. Le giustificazioni governative arrivarono tre giorni dopo le gravissime disposizioni prese, con un comunicato del ministero degli Interni. Il movimento indipendentista veniva accusato d' « insistere con pervicacia e insolenza nella propaganda contro l'unità nazionale » tanto che aveva inoltrato un appello « alla conferenza di Londra per chiedere il distacco dall'unità nazionale», di promuovere « la formazione di un esercito volontario ... [con] ... il proposito di ricorrere alla insurrezione armata ... , [che] nelle ultime settimane le autorità erano state informate della preparazione di colpi di mano a breve scadenza ». Erano tutte accuse gravissime che, se provate, avrebbero dovuto fare scattare un gran numero di articoli del codice penale contro i responsabili di tali reati. Ma il comunicato del ministero degli Interni continuava affermando che si era proceduto al « fermo » dei tre esponenti separatisti « per la tutela dell'ordine pubblico e con riserva di deferirli all'autorità giudiziaria ». Era stato dunque commesso un abuso, l'ennesimo. Perché, se i tre erano colpevoli di qualche cosa dovevano essere immediatamente denunziati all'autorità giudiziaria, e non trattenuti illegalmente come avvenne. I tre esponenti separatisti non furono mai consegnati al potere giudiziario per essere processati, né tantomeno furono interrogati. Rimasero « sequestrati » per sei mesi nelle mani della polizia. Un « sequestro -di Stato » praticato da un governo che si dichiarava espressione di « libertà e di democrazia». Tutto questo appena cinque mesi dopo 1a schiacciante vittoria della « libertà » che era costata all'Europa e al mondo sei anni di guerra atroce. Era dunque l'ignobile sistema poliziesco borbonico dell'« ampara » che, dopo ottant'anni, riappariva truce e minaccioso nella vita 224


politica italiana che avrebbe dovuto essere rinnovata dagli « ideali di libertà della Resistenza »!3 Gli esponenti separatisti rimasti liberi risposero al comunicato governativo con un abile ordine del giorno che smentiva ogni rapporto « fra M.I.S. ed EVIS », ma che riaffermava la solidarietà nei confronti dei leader « sequestrati ». I tre capi separatisti trattenuti a Ponza per « misura di polizia » intanto venivano sottoposti a angherie gratuite. La posta indirizzata ai tre deportati veniva trattenuta per settimane prima di essere consegnata, quando non era addirittura cestinata. L'abitazione di Finocchiaro Aprile a Roma venne requisita dal C.Omtnissariato Alloggi e assegnata a un grosso papavero politico. (Al ritorno da Ponza, Finocchiaro Aprile dovette penare non poco per allontanare di casa l'intruso che si era comodamente installato e non aveva alcuna intenzione di lasciare la facile e comoda posizione.) I giornali, che pur inneggiavano alla riacquistata libertà dopo il « bieco ventennio fascista», plaudirono all'arbitrario arresto dei tre capi separatisti. Soltanto « La Voce Repubblicana» ebbe il buonsenso di definire l'atto illegale come « politicamente stupido». Fu veramente un atto illegale, politicamente stupido, anzi insensato, che innescò Io svolgersi di Una lunga serie di tragici avvenimenti.

3 « Ampara • o piu correttamente « empare » dal francese « s'emparer • , era una procedura abusiva praticata dalla polizia per rendere innocui gli individui sospetti. Il governo borbonico aveva legafu.zato l'abuso con il rescritto dcll'8 agosto 1838. Tale illegalità continu~ ad essere praticata dallo stato monarchico e liberale italiano nei primi anni dell'unità. :E stato ripreso in varie occasioni, dal 1946 in poi, dalle autorità della repubblica italiana. Anche nei nostri giorni. Nei confronti di veri o presunti « terroristi i. di vario colore.

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XII. LA GUERRIGLIA « Sintiti! Sintiti! Sinti.i.i.ti!

li ordini di lu Cumannu Militari.i.i! Fimmini! aviti du uri di tempu pi' fari [la spisa. »

(Banditore comunale di Montelepre all'epoca del coprifuoco, 1945·1950.)

L'arresto dei capi separatisti produsse rabbia, sgomento e tensione nelle file del MJ.S. Ma non provocò manifestazioni né particolari atti di violenza. Vi fu, è vero, la considdetta « scorreria» di Falcone, ma essa fu piu una beffa che una scorreria. Il 10 ottobre 1945 due uomini in divisa d'ufficiali dell'esercito, seguiti da altre persone, si presentarono alla caserma dei carabinieri di Falcone, un paesino in provincia di Messina. Gli assalitori, che tali poi si rivelarono, disarmarono e catturarono un brigadiere e un appuntato, li rinchiusero nella camera di sicurezza della piccola caserma e s'impadronirono delle armi esistenti. Poi gli uomini, stavolta in parte armati, si diressero verso il municipio, acciuffarono il sindaco e lo costrinsero a distribuire alla popokzione l'olio e le altre derrate alimentari depositate presso il locale magazzino dell'ammasso. Il tutto avvenne con scene di giubilo da parte della popolazione. Dopo la distribuzione degli alimenti, gli assalitori recisero il filo del telegrafo, abbandonarono il paesino e presero la strada dei monti. Ma un fatto ben piu grave e cruento doveva avvenire il 16 ottobre alle porte dell'abitato di Niscemi, in una fattoria di contrada Apa. Una truce bravata di malviventi che costò la vita a tre carabinieri: A sera un gruppo di otto « niscemesi », fra questi v'erano gli Avilà padre e figlio e Rizzo, si presentò alla fattoria. I banditi, come era solito avvenire in questi casi, chiesero ai contadini « da mangiare e un posto per dormire». Furono subito accontentati e si appartarono nel locale loro indicato. Un paio d'ore dopo giunse alla fattoria una pattuglia di carabinieri per un normale servizio di perlustrazione. Mentre i militi si attardavano a controllare i documenti dei contadini, i fuorilegge, non visti, saltarono da una finestra e si misero al sicuro nei campi. Poi tra di loro scoppiò una furiosa discussione. Ce l'avevano con i carabinieri che venti giorni prima, il ventisei settembre, avevano compiuto un vasto rastrellamento nel niscemese. In tale occasione, anche le mogli dei fuorilegge latitanti erano state arrestate. Adesso erano irritati per essere stati disturbati mentre mangiavano e riposavano. A tutto ciò s'era aggiunto l'effetto 226


dd vino abbondantemente bevuto. Rizzo chiuse la discussione con la frase : « Gli sbirri si devono togliere il vizio di camminare di notte». Gli otto malfattori s'appostarono dietro una fitta siepe di rovi e di fichidindia che dominava la « trazzera » che i militi dovevano percorrere. Appena i carabinieri apparvero i fuorilegge aprirono un furioso fuoco con mitra, moschetti e bombe. Avevano anche una mitragliatrice leggera. La sparatoria fu brevissima. Tre carabinieri, compreso il capopattuglia, appuntato Miceli, caddero fulminati. Poi uno dei banditi ordinò di cessare il fuoco. Tre militi, uno ferito e due incolumi, riuscirono a scappare sparendo nella notte. Un ultimo carabiniere, tale Garufì, era rimasto a terra, ferito tra i suoi camerati morti. I banditi spogliarono i caduti. Anche il carabiniere rimasto vivo venne depredato, ma fu subito lasciato libero . Fu una sanguinosa, inutile bravata quella che i « niscemesi », portarono a termine, perché avvinazzati o perché erano entrati nella aberrante logica partigiana ddl'agguato al nemico in divisa. Non esiste nessun'altra spiegazione, se si considera che sino a quel momento i « niscemesi » erano stati attivi, ma volgari « scassapagghiara )> {ladri di campagna) e non assassini. Il salto d'attività, per dire cosi, dei « niscemesi » doveva poi pesare gravemente anche sull'EVIS.1 Proprio in quei giorni sui muri delle case di Palermo e dei paesi vicini erano apparsi manifesti, a fuma Giuliano, che incitavano i giovani ad arruolarsi nella banda del fuorilegge monteleprino. · Ecco il testo: « Popolo! Centomila lire al mese a chi wol arruolarsi nella mia banda, nel nuovo esercito che si costituirà al solo scopo di lottare contro i nemici della libertà che hanno solo la forza del governo nelle mani. In tale lotta possono partecipare anche le donne. lo non vi prometto niente, né vi faccio dei castelli in aria; solo in caso di vittoria vi saranno riconosciuti i diritti umanitari sociali e morali dell'uomo. State attenti e bocca chiusa, perché spie possono insinuarsi per scoprirmi. Il modo di venire 1 Gli otto che parteciparono all'agguato furono: i due Avila padre e figlio, Milazzo, Buccheri, Militello, C'.ollura, Rizw e tale Buscemi non meglio identificato. Il rapporto dei carabinieri dell'll febbraio 1946, a firma del generale Branca, riferiva che durante il cruento agguato la banda « wolsi capeggiata personalmente da C'.oncetto Gallo». L'accusa era totalmente infondata; Gallo, in qud periodo, era a San Mauro e all'oscuro di quanto avveniva. Inoltre tanto gli evisri quanto i fuorilegge fiancheggiatori avevano awto precisi ordini dal comando dell'EVIS di starsene quieti. Nel rapporto citato il generale precisava ,che la formazione di San Mauro risultava composta da 58 elementi, mentre quella di Giuliano di Montelepre contava una cinquantina di dementi in prevalenza « delinquenti comuni e in minima parte studenti e altri dementi di fede separatista ». Inoltre Giuliano era « in grado di mobilitare circa 80 altri elementi raccolti qualche ora prima delle azioni delittuose».

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a me è quello di cercar la via tra gli amici che si riconoscono degni di appartenere a me. » L'incitamento ebbe grande risonanza e un certo successo. Fra i volontari accorsi nella banda vi furono molti monteleprini è gli iscritti all'Associazione Reduci diretta da Sciortino, ma molti di quest'ultimi diedero solo una adesione formale. Con i primi risultati dell'arruolamento gli evisti continuarono i loro sforzi organizzativi. Il campo di San Mauro si andava organizzando con criteri militari, con ufficiali, sottufficiali, addestramento sul campo e un sufficiente servizio di approvvigionamento. Le armi erano di varia provenienza. Anche se in seguito, per comodità politica e poliziesca, si parlò di forniture da parte degli Alleati, in partkolar modo dell'armata polacca in Italia gli evisti (e i fuorilegge) avevano armi e munizioni residuati nell1isola dopo il passaggio della guerra. . Gli « armaioli » dell'EVIS a Catania erano Gaetano Carcaci, Ruggero Patemò ed Enzo Moncada. Le armi venivano acquistate nelle campagne, dov'era passata la guerra, e abbisognavano di pulizia e di revisione. Cosi anche le munizioni che arrivavano a sacchi, alla rinfusa. Il miglior acquisto fatto fu una mitragliatrice Maxim bicanne usata poi a San Mauro. La revisione e il controllo delle armi avvenivano in un locale della villa Carcaci in piazza Santa Maria di Gesu a Catania. (Una volta mentre la polizia perquisiva la villa Franz di Carcaci sparse nel giardino, come concime, una quantità d'esplosivo ricavato da cariche cli artiglieria.)2 A San Mauro erano state posizionate una cinquantina di tende, disposte con buon criterio e protette da postazioni di mitragliatrici. Il campo era dominato da una costruzione adibita a comando. Gli uomini che venivano addestrati erano continuamente rassicurati circa la loro posizione. Essi erano « combattenti regolari » e come tali riconosciuti e garantiti dalle convenzioni internazionali. (In seguito si disse che Turiddu Giuliano avesse piu volte ispezionato il campo di San Mauro nel mese di novembre 1945. Ciò avvenne una sola volta. Giuliano rimase a San Mauro un paio di giorni. Forse il giovane Gaetano di Carcaci, che sovrintendeva agli approvvigionamenti del campo, fu scambiato, le altre volte, per Giuliano.) Mentre l'EVIS, braccio armato apparentemente minaccioso del M.I.S., preparava i suoi uomini per le future battaglie, gli esponenti politici del M.I.S. si davano da fare per arrivare a un accordo politico con le autorità. Per far riconoscere al M.I.S. i diritti politici che 2

Da un'intervista con Ruggero Patcmò dd 14 settembre 1981.

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gli erano negati, per ottenere la liberazione dei leaders confinati a Ponza, per trovare una soluzione del « problema Sicilia ». Il gruppo palermitano dei Tasca e quello catanese dei Carcaci trattavano con le autorità di Roma, soprattutto con le autorità militari e con gli ambienti vicini al Luogotenente del Regno, àttraverso l'opera di Vittorio Emanuele Orlando e di altre influenti personalità siciliane. Anche la Segreteria di Stato del Vaticano veniva interessata per una soluzione politica e pacifica dello spinoso problema isolano. I contatti col Vaticano venivano mantenuti attraverso l'opera di padre Ambrogio Gullo, professore dell'Angelicum. Il Vaticano sembrava contrario al distacco della Sicilia dall'Italia, ma consenziente per una vasta revisione dei rapporti politici e amministrativi &a l'isola e Roma.3 Lo stesso Santo Padre, papa Pio XII, s'era espresso molto cautamente con Lucio Tasca. Il pontefice aveva detto: « Se il popolo siciliano avesse voluto veramente e fermamente la sua indipendenza confidi che l'Onnipotente esaudirà il suo voto ». Mentre continuavano le trattative con Roma, gli esponenti del M.I.S. tenevano a bada gli elementi estremisti dell'EVIS, vietando loro qualsiasi azione armata. Nello stesso tempo sollecitavano la massima autorità militare dell'isola, il generale Paolo Berardi, ad assumere uguale contegno di attesa. Nei numerosi incontri avuti con Berardi a Palermo, a Catania e a Roma, negli uffici del ministero della .Guerra, gli esponenti separatisti trattavano su questi punti: 1. Scioglimento dell'EVIS e amnistia per tutti i suoi componenti, con esclusione di coloro i quali si fossero macchiati cli reati comuni. 2. Il movimento indipendentista si sarebbe trasformato in movimento autonomista (possibilmente monarchico, speravano alcuni ambienti sabaudi). 3. Tale movimento autonomista avrebbe goduto della libertà politica, organizzativa e propagandistica riservata a tutti i partiti politici.

Negli incontri avvenuti e nelle trattative che seguirono, si discusse anche delle soluzioni politiche e costituzionali atte a soddisfare le aspettative e le speranze delle genti dell'isola. Fra le altre soluzioni gli ambienti monarchici proposero l'Unione dinastica. Una federazione monarchica, un Commonwealth in miniatura, con l'unione dei due «Regni», quello d'Italia e quello di Sicilia, nella persona di Umberto di Savoia. La soluzione prospettata non era insensata, aveva lontane e ben radicate origini storiche. Per un millennio, dal secondo periodo J

Dichiarazione del duca Franz di Carcaci del 18 giugno 1981. 229


musulmano fino al 1816, la Sicilia era stata un Regno a sé stante Solamente la persona del sovrano l'aveva unita ad altri paesi, ma amministrativamente, e qualche volta anche politicamente, l'isola aveva goduto d'una sostanziale indipendenza. Non per niente s'era parlato per lunghi secoli di un « Regno di Sicilia » ambito da tutti. Per circa quattrocento anni l'isola era stata unita alla Spagna nella persona del comune sovrano, ma con istituzioni proprie. Uguale « unione personale» fino al 1816 v'era stata col Borbone di Napoli. Carlo III di Borbone, incoronato a Palermo re di Sicilia, aveva prestato giuramento alle « Istituzioni Costituzionali della Nazione Siciliana». Soltanto nel 1816 il Borbone di Napoli tirò fuori il suo Regno delle Due Sicilie, pur lasciando all'isola la maggior parte dei suoi privilegi; ma la Sicilia reagi con cinquant'anni di sommosse e di rivolte al colpo di mano napoletano. L'unione personale, inoltre, avrebbe riconfermato il plebiscito annessionista del 21 ottobre 1860 con il quale i siciliani avevano scelto l'Italia Unita « con Vittorio Emanuele, re costituzionale, e i suoi legittimi discendenti ». Tutta l'operazione avrebbe fatto conseguire ai separatisti un completo successo politico e, nello stesso tempo, avrebbe rafforzato l'istituto monarchico e la dinastia sabauda (proprio in quei giorni, a Messina, 700 reclute della Regia Marina s'erano rifiutate di prestare « giuramento » al re). Né questa soluzione era impossibile da raggiungere nel marasma costituzionale che da anni aveva sommerso l'Italia. Dal 25 luglio 1943 l'attività politica e amministrativa del paese si svolgeva al di fuori dello Statuto albertino. Costituzionalmente l'Italia era una monarchia parlamentare, ma da anni non v'era piu un parlamento. Col 25 luglio le due camere s'erano dissolte. Molti parlamentari erano stati uccisi, gli altri si trovavano in galera o nei campi di concentramento, erano latitanti o s'erano prudentemente defilati. Tutti i governi che si erano succeduti dopo il 25 luglio erano incostituzionali e quindi illegali. E cosf tutte le leggi emanate durante gli anni della tragedia nazionale. L'Italia, divisa in due tronconi, era stata, per modo di dire, « governata » da governi rivoluzionari, provvisori e illegali. Tanto la repubblica di Mussolini al Nord quanto i governi di Badoglio, Bonomi, Patri e De Gasperi al Sud erano stati governi fantoccio nelle mani dello straniero invasore. Il vuoto costituzionale e le illegalità durarono fino all'entrata in vigore della Costituzione repubblicana e all'insediamento delle nuove Camere. Nel paese, dunque, v'era un governo rivoluzionario e provvisorio, insediato dagli stranieri e da essi manovrato, che agiva a colpi di decreti legge mai discussi e approvati dal parlamento. 230


Un barlume di pseudo-legalità sembrava esservi soltanto presso il luogotenente del Regno, che il 15 maggio 1946 avrebbe approvato il decreto, anch'esso incostituzionale, che sanciva lo Statuto della regione autonoma della Sicilia. Pertanto un ennesimo atto incostituzionale riguardante l'« Unione personale» fra i due «Regni» sarebbe sicuramente passato, e forse senza eccessiva difficoltà, solo se voluto, oppure non contrastato, dalla Commissione Alleata di controllo. Ma proprio alla fine del 1945 la vita politica italiana stava subendo un preciso indirizzo dato dagli Alleati. La guerra fredda stava prendendo piede nel mondo dominato dalle due superpotenze beneficiarie di Y alta e aveva gravi ripercussioni anche in Italia. A fine novembre la caduta del ministero Parri apriva la strada all'ascesa al potere del partito cattolico con un governo De Gasperi. In quest'atmosfera di profondo cambiamento politico, il 1° dicembre 1945 avevano avuto inizio a Palermo i lavori della quinta sessione della Consulta regionale con il compito di discutere e approvare un progetto di statuto autonomistico per la Sicilia. Ciò sulla base di alcune bozze di progetto presentate all'apposita commissione che, a suo tempo, era stata insediata con tale specifico incarico. Della Commissione, insediata il 1° settembre, facevano parte: Alfredo Mirabile, presidente (Partito d'Azione) poi sostituito dal prof. Giovanni Salemi, avv. Giuseppe Alessi (DC) poi sostituito da Pasquale Cortese, Giovanni Guarino Amelia (DC), Mario Mineo (PSI), Giuseppe Montalbano (PCI), Carlo Orlando poi sostituito dal prof. Enrico La Loggia (Democrazia del Lavoro), Franco Restivo (DC) e Ricca Salerno (PLI}. Alla Commissione erano state presentate alcune bozze di Statuto contrastanti fra di loro. Un progetto avanzato dal duca Avarna di Gualtieri, a nome di un movimento per l'Autonomia siciliana formato da ex indipendentisti o simpatizzanti moderati del M.I.S., era di chiara impronta federalista (si trattava del programma «minimo» del M.I.S.). Un altro, elaborato da Mario Mineo, rispecchiava in parte la tendenza del partito socialista. Esso era chiaramente limitativo e aveva solo contenuti economistici. Molto restrittivo era il progetto di Giovanni Salemi presentato a titolo personale. Infine nella bozza elaborata da Giovanni Guarino Amelia si propugnavano estesi poteri per la regione autonoma siciliana. Da questi lavori la Commissione aveva elaborato un progetto che venne presentato alla Consulta Regionale per essere discusso, modificato e infine approvato nella seduta del 23 dicembre 1945. Il socialista Taormina, a nome del suo partito, tentò inutilmente di bloccare la sessione della Consulta e fare rimandare la discussione 231


a dopo l'insediamento della futura Assemblea Costituente, Ma gli altri consultori furono del parere che si arrivasse subito a una decisione. La discussione ebbe contenuti e toni elevati, e spesso di sincero patriottismo isolano. Notevoli furono gli interventi di Guarino Amella, La Loggia, Cartia, Li Causi e Maiorana. Anche se, stranamente, vi furono due interpretazioni comuniste: una compromissoria di Li Causi e l'altra, piu rigida, di Montalbano. . Nella seduta del 23 dicembre 1945 la Consulta approvò il testo del progetto definitivo di Statuto con 17 voti favorevoli e 12 contrari. Si trattava di una buona Carta Costituzionale. Anche se frutto di compromesso fra le varie parti politiche, per un caso felice, forse miracoloso, era un documento pregevole sotto ogni punto di vista e uno strumento che, se veramente attuato, avrebbe potuto dare alla Sicilia un avvenire sereno e proficuo. Lo statuto era congegnato in modo da assicurare alla Regione una precisa personalità giuridica legata alla storia e alla vita reale della popolazione siciliana nel contesto dello Stato italiano, ampi criteri d'autonomia e di democrazia, amplissimi potèri legislativi, crçazione di organi costituzionali legislativi e governativi, potestà legislativa che pur nel rispetto delle leggi costituzionali italiane avrebbe potuto soddisfare pienamente gli interessi regionali. E poi: abolizione delle province e degli altri enti provinc,iali e creazione di nuovi enti e circoscrizioni locali oltre che la formazione di liberi consorzi di comuni, attribuzione di funzioni e competenze già di pertinenza degli organi centrali dello Stato ... Nell'articolo 24 del progetto era prevista l'istituzione di una Alta Corte per la Sicilia che aveva il compito di discutere e decidere, con sentenza inappellabile, sui conflitti giurisdizionali fra lo Stato e la Regione. (Tutte queste prerogative vennero ribadite nel testo dello statuto definitivo, approvato dalla Consulta Nazionale, dal decreto luogotenenziale del 15 maggio 1946 e dall'Assemblea Costituente, solo che non sono mai state attuate integralmente. La stessa Alta Corte mal tollerata dallo Stato ebbe vita effimera per scomparire col silenzio complice di tutti gli schieramenti politici. Lo Statuto regionale siciliano è rimasto una buona Carta costituzionale mai praticamente attuata.) A questo punto la << bomba Sicilia » sembrava essere stata disinnescata. La vita politica isolana mostrò chiari sintomi di. distensione. A Palermo proprio in quei giorni si apriva un Casinò alla Kalsa, nel Palazzo De Seta al Foro italico (ai margini d'un quartiere popolare fatiscente e devastato dalle bombe, rimasto tale nd 1984!). Dal Casinò, con strana concezione di politica socio-economica, l'ammi23.2


nistrazione comunale ciellenista si riprometteva cli trarne la bellezza cli almeno 50 milioni l'anno.4 Inoltre le trattative in corso fra indipendentisti e autorità politiche e militari e l'approvazione del progetto di Statuto avviavano la « vertenza Sicilia » verso soluzioni chiaramente pacifiche. Fu allora che scattò una torbida operazione che con l'esperienza di oggi potremmo definire frutto della strategia della tensione. Eta chiaro che con una soluzione pacifica il Movimento indipendentista si sarebbe avvantaggiato piu di ogni altro schieramento politico. Inoltre, sulla base del progetto di Statuto appena approvato, sarebbe stato facile alla monarchia tentare di portare a termine, con un decreto luogotenenziale, l'operazione di unione personale dinastica. Bisognava bloccare l'iniziativa monarco-indipendentista e agire in modo da criminalizzare i separatisti costringendoli a mettersi fuori della legge. Alla vigilia cli Natale, dopo la serie di incontri avuti con gli esponenti separatisti, il generale Berardi aveva fatto ritorno a Roma per riferire a chi cli dovere sull'andamento delle trattative. Prima cli lasciare l'isola Berarcli raccomandò al suo vice, generale Fiumara (che era a conoscenza delle trattative in corso), cli non prendere alcuna iniziativa, né, tantomeno, d'intraprendere azioni militari. A questo punto gli avvenimenti precipitarono. L'Alto Commissario Aldisio approfittò dell'assenza cli Berardi, usò i pieni poteri di cui disponeva e diede ordine a1 generale Fiumara d'attaccare il « campo» dell'EVIS di San Mauro. Subito dopo aver dato l'ordine, Aldisio raggiunse Roma. La notizia della prossima azione militare giunse immediatamente a conoscenza dei separatisti e gli ambienti estremisti dell'EVIS decisero cli prendere l'iniziativa cadendo nella trappola che era stata preparata. Allo scopo di stornare la minaccia contro San Mauro, i «falchi» dell'EVIS decisero di passare subito all'azione e organizzarono in tutta fretta attacchi diversivi contro le caserme dei carabinieri dei paesi attorno a Palermo. Per forza di cose l'azione diversiva fu affidata a Salvatore Giuliano e agli uomini della sua « banda » i quali, oltre a possedere una grande efficienza organizzativa, avevano mostrato la massima lealtà verso la causa separatista. Il primo attacco venne portato contro la caserma dei CC.RR. di Bellolampo. Una costruzione isolata ai mar4 L'iniziativa municipale suscitava un duro attacco moralista di « Sicilia Repubblicana •. organo del PRI al quale collaborava il giovane Pasquale: Bandiera. Nell'edizione del 16 dicembre 1945 il giornale del PRI tuonava: « Basta con i CLN! 1>. Definiva i « Comitati di Liberazione », « tempietti e tabernacoli di dei falsi e bugiardi • e affermava che in Sicilia essi « erano falsi anpie nel nome 1>. Ma a quel tempo c'era ancora la monarchia e il PRI non aveva accesso alle possibilità dell'« arco costituzionale ».

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gini. di una strada sulle alture che dominano Palermo. Turiddu con. vocò i suoi uomini e quelli di Palermo per la sera del 26 dicembre alle porte di Montelepre. Gli uomini di Montelepre presero posto su un autocarro guidato da Gaspare Pisciotta. Le armi furono di· stribuite durante il tragitto: moschetti e qualche mitra. Giuliano stesso avrebbe dato l'ordine di iniziare o cessare il fuoco. L'auto· carro prese la strada per Palermo. Poco prima della casermetta si arrestò. Tutti gli uomini scesero a terra e presero posizione attorno alla costruzione. Quando giunsero anche quelli della città cominciò l'attacco. Giuliano fece sparare in aria una raffica di mitra e intimò la resa ai carabinieri. Da dèntro la caserma qualcuno dei militari rispose respingendo l'intimazione. Parti allora una seconda raffi.ca. Un proiettile forò la porta e colpi un carabiniere. Gli altri militari, un brigadiere e due militi, s'arresero immediatamente. Gli attaccanti misero ogni cosa sottosopra; s'impadronirono delle armi, delle mu· nizioni e di altro materiale e alla fine diedero tutto alle fiamme. Uno degli assalitori, Frank Mannino detto «Lampo», entrò in azione con i suoi ferri' del mestiere (era stagnino) lasciando dappertutto un mar· chio fatto con uno stampone di latta. Nel marchio era raffigurato un guerrigliero che spezzava una catena che legava la Sicilia all'Italia. Quando Giuliano ordinò ai carabinieri catturati. di gridare « Viva l'EVIS » e « Viva la Sicilia Indipendente», qualcuno degli uomini prese a ingiuriare i militari sconfitti.. Ma Turiddu zitti gli insolenti con parole di rimprovero; poi volle curare personalmente il carabi· niere ferito. Alla fine disse al brigadiere d'andare via con i suoi uomini e di portare il ferito all'ospedale. L'uomo venne steso su una brandina e i militi s'immersero nel buio della strada che scendeva verso la lontana città splendente di luci. Turiddu e i suoi uomini lasciarono Bellolampo due ore prima dell'alba del 27 dicembre. Cari· carono il bottino catturato su un autocarro e sparirono.5 Giuliano rinnovò l'attacco ai carabinieri la notte fra il 28 e il 29 dicembre occupando la caserma di Grisi, un paesino a 15 km da Partinico. Anche stavolta v'erano giovani di Palermo giunti col solito autocarro. Le armi furono ancora distribuite poco prima del. 5 Dalla confessione resa dallo ,studente Ferdinando Mattaliano (Or. Rapporto Ispettore Generale di PS del 7 mano 1946), risulta che gli uomini dell'EVIS furono fatti affiuire la sera del 26 dicembre sullo stradale Carini· Montelepre. Quivi era un autocarro Fiat 626 verniciato in giallo-rosso. La parola d'ordine era «Concetto>. A mano 'a mano che la gente arrivava riceveva armi individuali. Gli uomini « avevano aspetto d'operai, meno alcuni che sembravano studenti >. Comandante della spedizione « era 'un giovane sui 2.5 anni circa, piuttosto alto, esile, biondo, distinto, con gli occhi azzurri, dal1'acccnto catanese e di carattere piuttosto irascibile... ». Erano una quarantina. In prossimità della casctma di Bellolampo trovarono gli uomini di Giuliano: altre quaranta persone circa. Alla fine della brevissima sparatoria gli evisti riconsegnarono le atmi e fecero ritorno nei luoghi di provenienza.

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l'azione e nnrate subito dopo. A guidare l'attacco con Turiddu v'erano Rosario Candela e Antonio Cucinella. L'assalto riusci alla perfezione. La ·caserma venne presa e data alle fiamme e i carabinieri sopraffatti e catturati. Un mitragliatore, due mitra, tre moschetti, casse di bombe e materiale vario furono il bottino dell'azione. Anche stavolta i carabinieri catturati furono subito lasciati liberi. Gli attaccanti si ritirarono non senza aver lasciato le solite scritte inneggianti all'EVIS e alla Sicilia indipendente. · Ma proprio il 29 dicembre, fin dalla mattinata, era in corso nella Sicilia orientale, in agro di Caltagirone, quella che è poi passata alla storia come 1a « battaglia di San Mauro ». Concetto Gallo era stato tenuto al corrente delle trattative in corso fra i capi del M.I.S. e il generale Berardi e invitato a tenere un comportamento prudente. Gli erano stati ribaditi gli ordini di non muoversi. Ancora pochi giorni prima del 29 dicembre aveva ricevuto ordini cifrati dal comando dell'EVIS e due lettere, anch'esse in parte cifrate, di Guglielmo di Carcaci. Lettere che, chissà perché, magistratura e polizia s'intestardirono a ritenere che fossero state scritte da Giuliano.6 6

La prima lettera, rscritta alla vigilia di Natale, diceva:

« Carissimo, la tua lettera mi ha commosso, e tu sai che non è facile. Sono

certo che 1a Madonna veglierà su di Te e sui Tuoi; con tale spirito non si può che vincere. Le sorti della Sicilia stanno nelle tue mani e nel tuo coraggio. Dato il ·favore svolto qui [gli incontri con il generale Berardi] credo che non sarete attaccati, ma occorre esser pronti e in seguito sfruttare il successo. Ho diramato ordini affinché una tua azione sia subito fiancheggiata sia dall'altro gruppo sia dai sabotatori in ogni zona. Penso che in caso di successo la tua intenzione sia sempre di ENSNHPSEL (dirigerti) EN (su) QINPULL (Nicosia) e S'PT (poi) X (su) QDMPSPP (Palermo). Noi ci comporteremo in conseguenza. Ti raccomando però di non iniziare azioni se non rese necessarie da evidenti azioni di attacco. Ti mando gli oggetti richiesti e cercherò di procurare gli altri. Non parlare troppo e scrivi al Comando in busta chiusa. Non è il caso di far complimenti. Ti abbraccio con tutti; spero potermi unire a voi. Viva la Sicilia. » La seconda lettera. stranamente ottimista, scritta il 26 dicembre, sotto la spinta degli avvenimenti e subito dopo la decisione d'ordinare a Giuliano l'attacco delle caserme dei carabinieri; diceva: « Carissimo, confermo il telegramma fatto oggi al solito recapito col qua.le volevo avvertirti della pubblicazione ricevuta da CT. Pare che 500 uomini di truppa siano stati inviati contro di te. Non ho notizia se altri spostamenti sono in atto da altri punti della Sicilia, ma lo ritengo possibile. Prendi quindi tutte le disposizioni per resistere ed eventuahnente per contrattaccare (?!). Avverti tutti gli altri gruppi affinché fiancheggino il tuo lavoro, avvertimi con qualche mezzo in caso di attacco affinché questo colll8Ildo possa provvedere a far attaccare le forze governative da altri gruppi dell'EVIS. In caso di successo, prima di proseguire, avverti e attendi ordini. Ti abbraccio con tutti. Viva la Sicilia indipendente!

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chiacchierone

quindi

prudenza. 2 35


Le lettere erano chiaramente d'effetto, e congegnate in modo da suscitare l'impressione di un'importante ed efficiente organizzazione armata. La verità era che il Comando dell'EVIS, consapevole della grande importanza politica di una battaglia in campo aperto, aveva deciso di resistere alle soverchianti forze governative. Una battaglia che avrebbe visto sul campo due forze contrapposte: l' « esercito siciliano >> contro l'esercito italiano, e avrebbe sbloccato tutte le remore politiche che s'opponevano alla risoluzione del problema siciliano. Da qui la scelta del combattimento. Le notizie che filtravano da parte governativa si facevano sempre piu preoccupanti. Confermavano l'affluenza di reparti dell'esercito e dei carabinieri. Piu di un reggimento con armi pesanti: artiglierie, mortai, carri e autoblindate. A Gallo, comandante di San Mauro, giunsero altri ordini verbali, essi chiarivano ancora una volta l'importanza politica dello scontro, ma lo lasciavano libero di decidere. Il 28 dicembre, Gallo prese la decisione d'accettare il combattimento. Quella sera stessa il comandante dell'EVIS scopri che uno dei suoi uomini piu fidati era in contatto con le forze governative e aveva in tasca un lasciapassare rilasciato dai carabinieri. Si limitò a registrare il fatto in attesa di prendere una decisione e defìn{ il suo piano di battaglia. Le forze dell'EVIS presenti a San Mauro erano inquadrate nella brigata « Rosano ». Anche se godevano del1'aiuto di un vasto numero di favoreggiatori e della simpatia della popolazione, potevano contare su poche decine di uomini armati, cinquantotto in tutto, compresi i fuorilegge della banda Avila (a uno di questi, Rizzo, era stato dato il grado di capitano). Non avevano armi pesanti, tranne una mitragliatrice bicanne Maxim, ma moschetti, fucili, mitra, fucili mitragliatori e bombe a mano. Soldati e carabinieri furono avvistati poco prima dell'alba lungo la strada Caltagirone-Gela. A quell'ora altri reparti s'inoltravano nella « trazzera » di montagna che da Caltagirone mena a San Mauro. Subito avvertito Gallo raggiunse il posto di comando. Una fitta nebbia avvolgeva tutta la zona. Lo sferragliare di lontani automezzi giungeva ovattato dallo spessore nebbioso. Alle 9,30 scoppiò una breve sparatoria. Una pattuglia di carabinieri fu costretta a ritirarsi. Gallo reiterò ai suoi uomini l'ordine di sparare solo se attaccati. Poi ordinò a Nino Velis di ripiegare con gli uomini e di sorvegliare la vallata verso Gela. Nel campo separatista, assieme a Gallo, erano rimasti una decina di giovani. Era quello che voleva Gallo: massimo risultato col minimo di perdite. Verso le 10 la nebbia si diradò e fu possibile vedere alcuni carri armati sulla «trazzera». Un pezzo da 75 era già in posizione. Con i serventi pronti. Molti altri automezzi militari erano lungo la « trazzera», ma piu distanti. Quasi subito i militari aprirono un intenso fuoco con mitragliatrici pesanti.


Gallo mandò a Velis l'ordine di assumere il comando della brigata. Poi con sei volontari attaccò la punta avanzata dei militari. Sul campo sventolavano due bandiere giallo-rosse e la bandiera di com. battimento dell'EVIS. Gallo e il suo gruppetto di ragazzi respinsero gli attaccanti e occuparono una buona posizione. Il fuoco si fece intensissimo. I militari sparavano con le artiglierie e mortai da 81 e da 45. Un aereo da ricognizione volteggiava sul campo di battaglia. La sparatoria continuò intensa fino al pomeriggio. Alle 16, a reggere il fuoco dei militari, erano rimasti solo in tre: Concetto Gallo, che s'era messo al collo una bandiera giallo-rossa, lo studente palermitano Amedeo Boni e un giovane contadino di Adrano: Giuseppe La Mela. Tutti gli altri evisti, assieme ai fuorilegge della banda Avila, avevano potuto ritirarsi sull'altopiano. Alle 16.30 i tre tenaci evisti avevano esaurito le muntz1oru (Gallo aveva sparato piu di 400 colpi). Un colpo di mortaio prese in pieno la ]oro postazione: Gallo cadde stordito. Quando rinvenne aveva già addosso i militari. Frugò dentro ll giubbotto dove teneva una pistola e si tirò un colpo al petto. Ma l'arma s'inceppò e il colpo non parti. I soldati presero a colpire selvaggiamente i tre. Uri militare spezzò il calcio del suo moschetto sulla testa di Boni che si rivelò durissima. Un gruppo di militari voleva passare per le armi i prigionieri, ma un brigadiere dei carabinieri, tale Manzella, allontanò gli arrabbiati. Si prese cura dei tre prigionieri e li scortò fino in fondo alla « trazzera » . Dove sostavano il generale Fiumara e alti ufficiali dell'esercito e dei CC.RR.7 La sentenza della Corte d'Assise di Catania contro Concetto Gallo (28 ottobre 1950) defìnf « onesto» lo stato d'animo di Gallo durante lo scontro e stabili che l'omicidio dell'appuntato Cappello era stato preterintenzionaJe; il reato fu estinto per amnistia. In un secondo processo svoltosi a Lecce per legittima suspicione, Gallo fu dichiarato colpevole d'omicidio volontario nei confronti dell'appuntato e condannato a 14 anni di reclusione, interdizione perpetua dei pubblici uffici e 3 anni di libertà vigilata, pena interamente con· donata. Dalle vicende politico-guerrigliere e giudiziarie Gallo usci completamente rovinato. La sparatoria continuò lontana, nel bosco, sull'altopiano. Durò fino a notte alta. Gli evisti, guidati da Rizzo, si trascinarono dietro i feriti, raggiunsero il bosco di San Pietro e si misero in salvo. Nel fatto d'armi di San Mauro i militari ebbero un morto 7 A San Mauro le forze di polizia erano agli ordini dell'ispettorato generale di PS, mentre i reparti dell'esercito, circa 2.000 uomini, con sezioni di carri e artiglierie, erano comandati da tre generali che organizzarono e diressero l'operazione.

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(l'appuntato dei carabinieri Giovanni Cappello) e sette feriti: due sottufficiali, un carabiniere, i fanti Corallo e Privitera, il sottotenente Carcione e un funzionario civile, tale Giuseppe Gondarella. Cinque furono i feriti fra gli evisti. Tre di essi furono portati a Catania nella villa dei Carcaci. Due avevano ferite poco gravi. Il terzo, lo studente palermitano Raffaele Di Liberto, aveva una brutta ferita al basso ventre. I capi separatisti furono presi dal panico e persero la testa. Dopo una sommaria medicazione praticata dal professore Rindone, il povero Di Liberto, invece di essere portato all'ospedale dove forse avrebbe potuto essere, salvato, venne trasferito in auto e nottetempo, dal barone La Motta, in una sperduta fattoria sulle montagne di Nicosia. Di Liberto mori senza alcuna assistenza medica. Per giunta il suo corpo venne portato sui monti e 11 abbandonato sul greto di un torrente. Il 30 dicembre Concetto Gallo era ormai al sicuro nella camera di sicurezza della caserma dei carabinieri di piazza Giovanni Verga a Catania . Il battaglione misto «Aosta » e reparti del 45° fanteria «Sabaudia» continuarono i rastrellamenti in una zona che, partendo da Caltagirone e Niscemi, comprendeva comuni di quattro province. A Niscemi, Caltagirone, Vittoria... la gente era tutta per Gallo e i suoi ragazzi. « La popolazione è in uno stato fra l'aperta rivolta contro tutti e il piu profondo avvilimento. Vittoria è in uno stato di vero orgasmo. La gente osserva e freme . Considera i militari occupanti ... i contadini simpatizzano con i fuorilegge. » 8 La clamorosa notizia della « battaglia » di San Mauro si diffuse per tutta la Sicilia e nel resto d'Italia. L'esistenza del « problema siciliano » era chiara. Scottante. Tutto ciò anche se San Mauro aveva dimostrato alcune cose importanti: l'inconsistenza militare dell'EVIS, l'estrema debolezza del governo che per affrontare pochi «banditi » impiegava l'esercito con armi pesanti, carri e aerei, e l'avversione dei militari per questo tipo di intervento. (I soldati si impegnarono debolmente permettendo la ritirata degli evisti da San Mauro anche se il generale Fiumara e gli altri alti ufficiali menarono gran vanto per la « brillante » azione ed ebbero riconoscimenti dalla debole autorità politica.)9 a Ctr. i giornali dell'epoca, e F. GAYA, L'esercito della Lupara, Milano, 1962. ' 9 In una lettera pubblicata dai giornali il 28 novembre 1952, il generale Paolo Berardi ormai in pensione forniva alcune precisazioni sui confusi giorni del dicembre 1945-gennaio 1946. Berarcli s'esprimeva pesantemente nei confronti dell'alto commissario Aldisio. Precisava che mentre Aldisio e l'ispettore generale di PS s'erano allonumati dalla Sicilia e il prefetto di Palermo si dava ammalato, egli, nella sua qualità cli comandante militare della regione, s'era assunta « la responsabilità, non richiestagli, di non abbandonare a se stessi i battaglioni e le batterie


Com'era prevedibile, la situazione s'aggravò. L'attività di Salvatore Giuliano e dei suoi uomini divenne frenetica. Il 3 gennaio Turiddu attaccò la stazione dei CC.RR. di Pioppo con un ordigno fatto scoppiare dietro la porta della caserma. Ma l'attacco venne respinto dai tre carabinieri di guardia. Due giorni dopo altro fallito attacco contro la caserma di Borgetto. Il 7 gennaio Turiddu giocò in casa. Diede l'assalto alla caserma di Montelepre, allora sita al centro del paese, difesa da 25 uomini . In tale occasione Giuliano si servi'. di un « bellissimo inganno», per dirla con le parole di Machiavelli. Mentre Turiddu e due « picciotti » si davano da fare attorno alla caserma con fracasso di spari e di grida, ma senza tagliare i fili del telefono, il grosso della banda era appostato alla curva del Belvedere, cento metri dalle prime case del paese. In attesa dei sicuri rinforzi che sarebbero giunti da Palermo. Infatti cosf avvenne. Dopo circa tre ore apparve la colonna dei rinforzi: « un'autoblindo, un camion, qualche motocicletta e qualche altra macchina». L'autocarro era pieno di carabinieri e venne presto inquadrato da un fuoco infernale. Il telone s'incendiò. Le fiamme provocarono l'esplosione d'alcune cassette di munizioni e lo scoppio del serbatoio della benzina. Due ufficiali e venti carabinieri rimasero a terra feriti mentre gli assalitori si ritiravano velocemente. La stessa notte, verso le 3, giunsero altri rinforzi che comprendevano anche due carri armati. Per maggior sicurezza l'autocolonna si arrestò a tre chilometri dall'abitato per fare scendere gli uomini. Montelepre assunse l'aspetto d'un paese sulla linea del fuoco. La stazione dei carabinieri era piena di feriti che aspettavano d'essere trasportati a Palermo. Un'autoblindo cercò d'avanzare verso la collina di Monte d'Oro dov'erano annidati i ribelli, ma venne « fatta fuori» con bombe e bottiglie incendiarie. Per miracolo l'equipaggio non venne catturato. All'alba arrivò una terza colonna di rinforzi con piu di trecento militari. Due plotoni di carabinieri, una compagnia di fanti, un plotone di mortaisti da 81 e una sezione di artiglieria. Alta, sulla cima della collina sventolava la bandiera giallorossa dell'indipendenza siciliana (quella di combattimento dell'EVIS). Alle 9 del mattino, con gesto spettacolare di altri tempi, Giuliano diede il segnale d'inizio della battaglia. In piedi, sulla cima della collina, si mise a sventolare lentamente la bandiera della Sicilia. Cominciò una sparatoria fragorosa che durò tutta la giornata. I militari spinsero alcune punte avanzate che vennero bloccate da un fuoco intenso. Divenuti cauti, soldati e carabinieri non fecero piu un passo avanti, limitandosi ad un rumoroso e inutile fuoco di cannoni che i poteri civili [Aldisio] avevano creduto conveniente impegnare in operazioni contro il banditismo per appoggiare le quali il ministero della Guerra aveva inviato d'urgenza, a scopo esplorante, ben due aerei da trasporto».

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e di mortai che colpf una cappelletta sulla cima del monte. A sera Giuliano e i suoi, tutti incolumi, si ritirarono e sparirono nel groviglio roccioso delle montagne. Per tutto il mese di gennaio l'attività di Giuliano non ebbe tregua mettendo in scacco le forze di polizia. La sera dell'8 gennaio, nell'abitato di Partinico, l'aggressione a una camionetta ebbe un bilancio sanguinoso: un carabiniere morto e due feriti. La camionetta fu incendiata. Una settimana dopo, il 15 gennaio, altri militari feriti, fra i quali il capitano dell'esercito Rosario Zanca che subf in seguito l'amputazione d'un braccio e un fante. Il 18 gennaio giornata di fuoco in località San Cataldo. Durante un conB.itto a fuoco rimasero uccisi tre fanti, mentre altri tre soldati e un carabiniere venivano feriti. Alcune ore piu tardi, nella stessa località, il cappellano della legione dei carabinieri di Palermo passò un brutto quarto d'ora. La camionetta sulla quale viaggiava venne attaccata con lancio di bombe e incendiata. Il cappellano rimase incolume per miracolo. Il giorno 19 venne attaccata la polveriera di Scolilli e il 23 gennaio veniva bloccata la «Littorina» (cosi allora si chiamava l'automotrice) Trapani-Palermo. L'aggressione avvenne all'imbocco della galleria Trappeto-Partinico, La Littorina fu costretta ad arrestarsi davanti a un muretto di pietre posto sulle rotaie. I passeggeri, tranne le donne e i bambini (che non furono molestati e rimasero ai loro posti), furono fatti scendere e depredati. L'automotrice venne messa fuori uso e l'ingente bottino caricato· su alcuni muli e portato via. Si disse che mentre si svolgeva l'aggressione, Giuliano si intratteneva amabilmente con un ufficiale inglese e un giornalista che viaggiavano sul treno rapinato. (Questo assalto, addebitato a Giuliano, venne in realtà effettuato da una banda trapanese.) E poi: 25 gennaio. Tentato assalto contro il carcere di Monreale respinto dalla

reazione delle guardie.

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26 gennaio. Assalto, respinto dai soldati, contro il deposito militare

di benzina di Passo Rigano nel rione Uditore di Palermo. Lo stesso giorno altro assalto contro la Stazione Radio dell'Uditore. E ancora: nuovo assalto, stavolta andato a vuoto per la reazione della scorta, contro la « Littorina » Trapani,Palermo, a un chilometro da Carini. 27 gennaio. Attacco, respinto, contro i militari di guardia all'aeroporto di Milo (Trapani). Aggressione contro un autocarro della Regia Aeronautica lungo la strada Alcamo-Partinico. Sparatoria contro l'accampamento di Montelepre dov'era attendato un battaglione dell'« Aosta».


29 gennaio. Soldati del 6° fanteria respingono con difficoltà gli assalitori della polveriera di Villagrazia di Carini. 4 febbraio. Clamorosa irruzione, con ingente bottino, nell'abitato di Camporeale (con rilascio di biglietti di requisizione). 8 febbraio. Stradale Montdepre-Palermo: agguato a due camionette di carabinieri e agenti di PS. Un brigadiere di PS ferito e i due automezzi distrutti. La sparatoria durò a lungo fino all'arrivo dei rinforzi, poi gli assalitori si volatilizzarono. L'11 febbraio assalto e spoliazione della corriera Gibellina-Alcamo. (Non fu Giuliano,, ma gente di San Giuseppe Jato poi condannata.) Qualche giorno dopo anche l'autobus Licata-Agrigento sub{ la stessa sorte, anche questa opera di malviventi locali è attribuita a Giuliano. Il 17 attacco contro la polveriera di Lercara con feriti fra i militari di guardia. Lo stesso giorno: irruzione nell'abitato di Custonaci (Trapani) e prolungata sparatoria contro la caserma dei carabinieri.

In quei giorni giunsero in Sicilia numerosi reparti militari della « Folgore » e della « Garibaldi » con artiglierie anche semoventi. Giunsero anche nuovi reparti alpini che abbiamo visto irreperibili nel 1943. (I reati comuni commessi durante questo periodo: rapine, estorsioni, furti, abigeati e rapimenti furono quasi tutti addebitati a Giuliano e ai suoi uomini. Sicuramente Turiddu non ebbe niente a che fare con questi delitti. Era troppo impegnato a fare il guerrigliero. V'è inoltre da considerare che molte «estorsioni» furono concordate previamente per mettere le « vittime » al riparo di accuse di complicità.) Subito dopo San Mauro e mentre si scatenava l'azione di Giuliano, il generale Berardi era rientrato precipitosamente in Sicilia. Aldisio, dopo aver appiccato il fuoco, era rimasto a Roma. Gli elementi moderati del M.I.S. ripresero il sopravvento, mentre i « falchi » dell'EVIS erano ricercati dalle forze di polizia. Fra separatisti e autorità militari ripresero le trattative; ad esse partecipava anche il « vincitore » di San Mauro, generale Fiumara. Era ormai chiaro che il generale Berardi era stato messo fuori gioco. Giuliano continuava la sua o:ffensiva.10 tro

10 Nel citato rapporto del generale Branca vi sono precise accuse conil generale Berardi. Cosa abituale fra i generali italiani particolarmente

bravi nd farsi la guerra fra di loro. La cosa sorprendente era che il generale Branca della « fedelissima » Arma dei Reali Carabinieri, legato da giuramento al re denunziava, come reato, la fede monarchica del collega. Esplosero i contrasti soliti del nostro paese « fra potere giudiziario, potere civile e polizia, ognuno dei quali agiva per conto proprio, all'insaputa dell'altro, nella preoccupazione di difendersi dai possibili colpi mancini». Cfr. DuCA DI Cil· CACI, op. cit., p. 256.


V'erano posti di blocco in tutta l'isola. Le forze di polizia davano una caccia spietata a indipendentisti ed evisti. Spesso i poliziotti andavano a colpo sicuro, come se fossero già a conoscenza dei rifugi ritenuti inviolabili.11 Furono arrestati i fratelli Filippone, Stefano La Motta, Gianni Li Mandri, Nino Titti, Pietro Franzone, Giuseppe Camm.arata ... Pasquale Sciortino fu « fermato » dai soldati al bivio di Giardinello. Un paio d'ore dopo giunse da Palermo un nugolo di ufficiali dei carabinieri e il fermo di Sciortino fu tramutato in arresto. Nella denunzia che segui, come per effetto di magia Sciortino fu trovato in possesso non solo di « una pistola » di cui aveva regolare porto d'arme ma anche di « tubi di gelatina» spuntati fuori non si sa come e da dove. il 7 marzo 1946 l'ispettorato generale di PS trasmetteva al procuratore generale militare un elenco di 148 individui denunziati, parte in stato di arresto altri latitanti o irreperibili, altri ancora da «identificare ». L'elenco si apriva con i nomi di cinque « promotori ed organizzatori» cioè Guglielmo Patemò di Carcaci, Giuseppe Tasca, Rosario Cacopardo, Stefano La Motta e Concetto Gallo. Dodici «capi». Fra questi v'erano: Pasquale Sciortino, i due fratelli, patrizi palermitani, Bordonaro, il barone Cammarata, Nino Velis aiutante di Gallo, ecc. Dieci componenti la banda Avila, ventiquattro componenti la banda Giuliano e novantasette altri individui definiti « affiliati alla banda Giuliano e appartenenti all'EVIS ». Le accuse erano pesanti: « insurrezione armata contro i poteri dello stato, cospirazione politica mediante associazione, banda armata, istigazione, omicidi e tentati omicidi, associazione per delinquere, rapina, sequestro di persona, estorsione, occultazione di cadavere ... ». Il tutto con numerose aggravanti. Il documento che annunziava nuove imminenti denunzie affermava che « nessuna concreta responsabilità è stata accertata a carico del cavaliere Calogero Vizzini, il quale, pur separatista, nulla avrebbe avuto a che fare col Gris »! (Gioventu rivoluzionaria indipendenza siciliana ed EVIS erano le due organizzazioni armate del M.I.S.) In genere l'azione delle forze di polizia era contraddistinta da cieca e inutile violenza. Si ricorse spesso al selvaggio espediente della cattura di ostaggi con l'arresto dei familiari dei ricercati. In 11 Castrogiovanni cosi descrisse il suo arresto avvenuto il 13 settembre 1945: « Ad un certo punto il segreto trapelò e sta di fatto che alle 10 del mattino Varvaro apprese dove io era rifugiato e che alle ore 13 la mia abitazione era circondata da centinaia di poliziotti che non mi diedero scampo. E meno male che la segnalazione non venne fatta ai carabinieri che avevano l'ordine di assassinare, perché non sarei qui a scrivere questi appunti. Ma Varvaro, fortunatamente, non lo sapeva... ». Or. DucA DI CilCACI, op. dt., p. 226.


quei giorni anche la madre di Giuliano e la sorella Mariannina furono arrestate e rinchiuse nel carcere di Agrigento. I contadini venivano fermati ai posti di blocco all'uscita dei paesi e arrestati. Se andava bene dovevano sempre rinunziare alla frugale colazione che i carabinieri sequestravano per timore che servisse per rifornire di cibo i « banditi ». Il lavorò nei campi intristi. « Cos! la terra rimase abbandonata. In quei giorni, dicono i monteleprini, i carabinieri avevano saccheggiato i raccolti ed erano stati commessi, all'ombra della legge, delitti rimasti senza nome. »12 Pattuglioni di forze di polizia e reparti dell'esercito con carri e artiglierie effettuavano continui, massicci rastrellamenti. Le case di campagna erano controllate con sistemi di guerra; ... prima venivano sottoposte a tiri di mortai e di mitragliatrici. (Cominciati nel dicembre 1943 i rastrellamenti a Montelepre ebbero fine solo nel 1950 con la morte di Turiddu.) A Montelepre e nei paesi vicini: Borgetto, Partinico, Giardinello, San Cipirello, San Giuseppe Jato ... venne ordinato il coprifuoco. Iniziato il 13 gennaio esso ebbe termine ufficialmente dopo 127 giorni, il 19 maggio, ma in pratica durò piu di quattro anni. · In quella fine inverno 1945-1946 e per un periodo di dieci giorni i monteleprini poterono uscire di casa solo dalle due alle tre del pomeriggio. (Nel 1947 ci fu addirittura un periodo di coprifuoco «totale». « Chiunque avesse messo il naso fuori di casa durante le ventiquattr'ore, poteva essere tratto in arresto. » )13 Gli abitanti dei paesi della « zona Giuliano» s'abituarono al rullo del tamburo del banditore municipale che annunziava la volontà delle autorità: « Sintiti! Sintiti! Sintiti! li ordini di lu Cumannu Militarii! ~> Spesso annunziava il coprifuoco totale: << Fimmini! aviti dù uri di tempu pi' fari la spisa! ». Le case degli arrestati furono trasformate in caserme o alloggi per i militari. Ciò avvenne per la casa dei Giuliano, per quella della famiglia di Pasquale Sciortino ... nella cantina degli agiati Sciortino v'erano circa 300 botti piene di vino che durante l'« occupazione» furono prosciugate. Interi paesi furono setacciati casa per casa e gli uomini, compresi gli invalidi, i vecchi, gli ammalati, furono strappati dalle abitazioni, legati in lunghe funate e trascinati nei luoghi di raccolta per gli interrogatori. Migliaia di disgraziati subirono interrogatori con pesanti maltrattamenti. Giacevano a terra, buttati come bestie senza cibo né acqua. ' 12 Cfr. GAVIN MAXWELL, Dagli amici mi guardi Iddio. Vita e morte di Salvatore Giuliano, Milano, 1957, p. 128. Il Cft. G. MAX\VELL, ibid.

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Durante questi rastrellamenti, che oscuravano quelli nazisti di guerra, a Montelepre centinaia di sventurati furono strappati dalle loro case nel cuore della notte. A furia di legnate furono radunati in piazza e li tenuti per tutta la giornata sotto la minaccia delle armi. Guai a chi protestava; veniva subito messo a tacere a colpi di calcio di moschetto (il sacerdote Di Bella che protestava per il selvaggio procedere venne messo al muro e minacciato di fucilazione). Tutto questo mentre cannoni, carri e mitragliatrici pesanti erano puntati minacciosi contro il paese, pronti ad aprire il fuoco. A sera si diffuse la voce che i militari si apprestavano a passare per le armi i prigionieri. Le donne uscirono dalle case, piangendo e urlando si precipitarono verso piazza Flora. Per cercare di impedire il massacro o morire con i loro uomini. Anche le donne ebbero la loro parte di bastonate. Poi i prigionieri furono caricati sugli autocarri e portati a Palermo. Quasi sempre gli arrestati venivano sottoposti a barbare torture. Oltre alle consuete bastonate venivano abitualmente usati « trattamenti speciali » e sevizie piu raffinate. Come la ·famigerata « cassetta» (si lega l'individuo a una cassetta militare e con un imbuto lo si gonfia di acqua, poi uno degli « inquirenti » gli salta a piè pari sulla pancia), colpi «scientifici» applicati alle reni o alle piante dei piedi, diete d'acqua e sale, scariche dettriche, torsione dei testicoli, letto di contenzione. Fra gli « inquirenti » v'erano dei sadici che si spinsero fino alla degradazione totale. Un tizio si sfogava mordendo lo scroto degli arrestati, un altro dirigeva gli interrogatori ordinando ai subalterni: « Stringigli i coglioni! Ficcagli una bottiglia nel culo! Pisciagli in faccia». Se nel corso delle torture sopraggiungeva la morte, un plausibile certificato medico spiegava che essa era sopravvenuta per « insufficienza cardiaca ».14 Alla fine dei selvaggi interrogatori gli attestati non dimenticavano di « ringraziare » il maresciallo Giuseppe Calandra che comandava la stazione dei carabinieri di Montelepre che, per la verità, non apparteneva alla categoria degli aguzzini. « Maresciallo » dicevano con acre sarcasmo, « appena esco dall'Ucciardone mi farò il dovere di portarle un crastagneddu. » La frase, apparentemente compita, esprimeva i peggiori insulti in uso in Sicilia: cornuto ed eunuco (il « crastagneddu » è l'ariete castrato). 14 Nel 1949 nelle carceri di Palermo v'erano 400 montelcprini e 2.000 abitanti dei paesi vicini « trattenuti per interrogatorio •· Senza contare le persone detenute nelle altre carceri e quelle portate nci luoghi di confino. Fra la popolazione si facevano i nomi dei peggiori • inquirenti >, del maresciallo Leone, di un tale « Don Pasquale •, un brigadiere sardo di nome Sganga.

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Sottoposta a violenze e vessazioni d'ogni tipo, fu naturale che la gente si schierasse con Giuliano: « 11 comportamento dei carabinieri che invadevano Montelepre appariva agli occhi della gente arbitrario, irrazionale e brutale. Nella piazzetta cl.avanti alla chiesa, dove i paesani si radunavano, quegli odiati figuri arrestavano all'improvviso una dozzina di persone scelte a caso e le portavano in prigione, dove spesso erano lasciate per molte ore senza ·mangiare, né bere, prima d'essere trasferite alla prigione di Palermo per il processo sotto l'accusa di collaborazione e di rifiuto di fornire informazioni sui banditi. A Montelepre tutti i seimila abitanti potevano essere accusati di questi reati... » 15

E dire che e'era un numero non trascurabile di carabinieri e di guardie di PS isolani che non nascondeva le sue simpatie per la causa separatista. Alla furia poliziesca, l'inafferrabile Giuliano, inferocito per l'arresto della madre, rispondeva con nuove e improvvise sparatorie. E con manifesti che furono affissi anche sui muri delle case di Palermo. Turiddu invitava la popolazione a non viaggiare sui mezzi pubblici (autobus, treni e tram) dove si trovassero carabinieri. Ciò per evitare di essere coinvolti in sicure sparatorie. Nella Sicilia orientale « niscemesi » e guerriglieri evisti continuavano a sfuggire ai rastrellamenti effettuando rapidi attacchi. Avvenne una sparatoria a San Pietro contro un autocarro militare con due soldati feriti. Una pattuglia di fanti venne attaccata in contrada Sirca; nello scontro rimase ucciso il sottotenente Enrico Piotti di Treviso. Il 10 gennaio 1946 banditi ed evisti, comandati dal capobanda Rizzo, catturarono gli otto carabinieri della casermetta di Feudo Nobile sita in territorio di Gela nella provincia di Caltanissetta. Non si è mai potuto avere una versione sicura della dinamica dei fatti. Pare che alcuni carabinieri siano stati catturati dopo aver esaurito le munizioni durante un conflitto a fuoco con i banditi (o perché attirati da una falsa denuncia per abigeato o per un incontro fortuito con i fuorilegge). Subito dopo venne attaccata la piccola caserma di Feudo Nobile che cadde dopo una violenta sparatoria e si arresero gli altri militi. I carabinieri erano tutti ragazzi sui vent'anni; il piu anziano era il comandante brigadiere Vincenzo Amenduni, un pugliese di trentanove anni. Banditi ed evisti spogliarono la caserma e si trascinarono appresso i militi prigionieri. Non si è mai potuto sapere il perché di questa decisione, pare presa da Rizzo. Si disse in seguito che i carabinieri fossero stati trattenuti 15

Cfr. MAxwELL, ibid. 2 45


per poterli scambiare con Concetto Gallo e gli altri due catturati a San Mauro. Non esistono documenti o testimonianze che provano tale versione. Fatto sta che, per una ventina di giorni, il gruppo formato da banditi, evisti e carabinieri prigionieri, ventidue persone in tutto, non fece altro che peregrinare per una vasta zona della Sicilia centro-orientale. In un ampio territorio che abbracciava comuni di almeno tre province: Catania, Ragusa e Caltanissetta. Commesso l'errore di portarsi appresso i prigionieri, banditi ed evisti s'accorsero presto d'essere a loro volta prigionieri dei carabinieri catturati. I disgraziati militari furono sottoposti a maltrattamenti d'ogni genere: poco cibo, lunghe penose marce, continue bastonature. Faceva freddo e i militi, depredati dei loro indumenti pesanti, pativano pene indicibili. Nei continui trasferimenti i prigionieri avevano potuto conoscere i vari ricoveri usati dai banditi, i loro complici, manutengoli e fiancheggiatori. Questa conoscenza fu la causa della loro morte. La sera del 28 gennaio banditi ed evisti posero il campo in contrada Rafforosso a pochi chilometri da Caltagirone. Verso la mezzanotte Rizzo diede l'ordine di portar fuori i prigionieri e d'ammanettarli a coppie con le loro manette d'ordinanza. Gli evisti dormivano e non s'accorsero di niente. Il gruppo marciò nella notte per un paio d'ore finché giunse in contrada Bubonia, nei pressi di Mazzarino, dov'erano numerose miniere di zolfo. Il luogo di sosta era coperto da numerose buche scavate per saggiare il filone minerario. Davanti a una di queste buche, profonda una quindicina di metri, avvenne il massacro. · Uno dei banditi, tale Saporito, disse con atroce ironia ai militi prigionieri che potevano ormai considerarsi liberi. Tolte le manette, i carabinieri furono costretti a denudarsi perché, fu detto loro, gli indumenti servivano ai banditi. Il brigadiere conservò la panciera di lana e due militi i calzini bianchi di ordinanza. I carabinieri furono assassinati uno dietro l'altro in atroce successione. A colpi di moschetto e di mitra. Il brigadiere mori stringendo al petto la foto dei figli. Il piu giovane dei militi si calò la bustina sugli occhi e attese la morte. I corpi furono buttati nella buca e coperti con uno spesso strato di terra e pietre. La macabra fossa fu scoperta solo alla fine di maggio dopo l'arresto, avvenuto a Catania il 23 maggio, di un tale Milazzo. meglio conosciuto col singolare soprannome di « Lavanna di pudditru » (clistere di puledro). Milazzo confessò d'avere partecipato alla strage e rivelò agli inquirenti il luogo della tragica fossa. I cadaveri, sfregiati dalle ferite inferte a distanza ravvicinata, giacevano mummificati sotto una coltre di terra. Dalla conclusione ufficiale dell'inchiesta risultò che


gli autori della strage erano stati 1 « niscemesi » all'insaputa dei guerriglieri separatisti che vennero a conoscenza dell'avvenuto massacro solo il giorno dopo. Ciò però non impedi loro di continuare a stare con la banda dei feroci assassini. Mentre il gruppo armato peregrinava per le campagne erano continuati i conflitti con la forza pubblica. Il 17 gennaio era avvenuto un conflitto senza vittime fra un pattuglione militare e « 12 ribelli a cavallo», in contrada Irene di Caltanissetta. A sera, altro conflitto con un reparto di fanteria sulla strada Gela-Vittoria. Il giorno dopo l'avvistamento di gruppi «ribelli» provocò l'intervento di due aerei da ricognizione. Nei giorni successivi, dopo uno scontro notturno nei pressi di San Cono, i fuorilegge ferirono e catturarono il carabiniere Salvatore Gallieri che poi affidarono alle cure dei contadini d'una fattoria ... La sparatoria continuò intensa fino a notte fonda, quando i ribelli riuscirono a eclissarsi. Il 30 gennaio vi fu un conflitto sulla strada Caltagirone-Mazzarino. Il giorno dopo la banda entrò in San Pietro e gli uomini bivaccarono spavaldamente nella piazza del paese. Dopo il massacro dei carabinieri di Feudo Nobile erano cominciati fieri screzi fra banditi e guerriglieri e il 16 febbraio gli evisti, che avevano ricevuto sei uomini di rinforzo, tornarono a San Mauro, ma s'imbatterono nei carabinieri. Dopo una sparatoria si ritirarono e si riunirono ai banditi. Infine, il 1° marzo, evisti e banditi effettuarono una scorreria a Borgo Lupo, un centro agricolo dell'Ente per la bonifica del latifondo siciliano. Il borgo venne saccheggiato e la gente indegnamente strapazzata (ci fu anche un tentativo di violenza carnale). Con quest'ultima, cattiva azione, terminò la collaborazione fra evisti e banditi. Gli ultimi sei guerriglieri separatisti : Giuseppe Venuti, comandante della « Brigata Rosano », e cinque altri giovani: i fratelli Giuseppe e Giovanni Barbera, Alessandro Staiti, Domenico Antonuccio e Giovanni Mundo, giunti nei pressi di Troina, si staccarono definitivamente dai banditi. Ad aprile tutti i ragazzi dell'EVIS scesero dalle montagne e tornarono a casa. (Negli accordi presi dagli esponenti del M.I.S. con le autorità era stato concordato che, in attesa dell'amnistia, la polizia non avrebbe piu effettuato arresti di separatisti.) I « niscemesi » finirono tutti male. Abbiamo visto che Avila padre, detto « Canaluni », fu trovato morto ai bordi della strada Niscemi-Gela. Al corpo mancava l'orecchio sinistro. Accanto al cadavere v'erano un fucile mitragliatore tedesco e uno zaino con 308 cartucce. Poco distante qualcuno aveva sistemato alcune pietre a forma di croce. « Canaluni » aveva addosso poca roba: 300 lire, tabacco e cartine per sigarette, una scatoletta di latta, filo da cucire e spago, un accendino, un fazzoletto. E una copia del giornale separatista 247


« La Libertà » stampato a Catania. A terra nessuna macchia di sangue, malgrado le due ferite fortemente emorragiche. Evidentemente Avila era stato « fatto fuori» altrove e portato post mortem nel luogo dove venne rinvenuto. « Canaluni » aveva sulla testa una taglia di Lire 500 .000. Ecco spiegata la mancanza dell'orecchio sinistro che doveva permettere all'uccisore di riscuotere la taglia.16 Il figlio di « Canaluni », Rosario ;unior, mori nel carcere dell'Ucciardone per una ferita che si era procurata cadendo da cavallo. Mal curato in carcere, Rosario junior mori di cancrena. Il vero capo dei « niscemesi », Salvatore Rizzo, sanguinario responsabile delle stragi di carabinieri alla Fattoria Apa e di Feudo Nobile, mori nel febbraio 1947. Chiuse la sua carriera di assassino con una fine coraggiosa, battendosi fino all'ultimo. Assieme a lui perirono due pericolosi malviventi: Salvatore Spinelli, detto « Musolino », e Francesco Saporito, un sanguinario ergastolano fuggito dal carcere di Volterra nel 1943. I tre banditi, sorpresi nel granaio di una fattoria da una pattuglia di carabinieri, non ebbero scampo. Aflrontarono i militi con rabbiosa decisione. Avevano un piccolo arsenale di armi: mitra, mitragliatrici leggere e bombe. Rizzo tentò di saltare da una finestra, ma fu colpito e ricadde indietro. I banditi spararono per circa un'ora. Poi sul luogo del conflitto calò un grande silenzio. Quando i carabinieri penetrarono nel granaio trovarono i tre fuorilegge dilaniati da numerose ferite e stesi sopra sacchi di grano e di legumi, fra festoni di cipolle, agli, peperoncini e fichi secchi. V'era sangue dappertutto.

16 L'9.vviso di ta.glia era stato diffuso dalla prefettura di Palermo in data 28 febbraio e diceva:

Si rende noto che il ministero dell'Interno ha stabilito di corrispondere un premio: l. Di lire ottocentomila a chiunque fornisca esatte notizie che portino alla cattura del bandito Giuliano Salvatore, di Salvatore e di Lombardo Maria, nato a Montelepre il 22 novembre 1922. 2. Di lire cinquecentomila per la cattura del b1111dito Avila Rosario di Rosario e di Amato Salvatrice, nato a Niscemi il 12 febbraio 1899 capo della banda dei « niscemesi ». Somme proporzionalmente minori saranno co"isposte per la cattura degli altri componenti di quest'ultima banda. I nomi degli informatori saranno mantenuti nel pi" assoluto segreto.


XIII. L'APPROVAZIONE DELLO STATUTO DELLA REGIONE SICILIANA. IL REFERENDUM UMBERTO

II

R.E D'ITALIA

Abbiamo sanzionato e promulghiamo quanto segue: Att. unico. È approvato, nel testo allegato, firmato, d'ordine nostro, dal Presidente del Consiglio dei Ministri, lo Statuto della Regione siciliana. Ordiniamo che il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sia inserito nella Raccolta delle leggi e dei Decreti del Regno d'Italia, mandando a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare come legge del-

lo Stato. Dato a Roma, addf 15 maggio 1946. UMBERTO

Dal 10 marzo al 7 aprile 1946, nel corso di cinque domeniche elettorali si svolsero in Sicilia le elezioni amministrative in 201 comuni. Le prime dopo la parentesi fascista. La ricostituzione su base elettiva delle amministrazioni comunali era stata stabilita con un decreto luogotenenziale del 7 gennaio. All'ultimo momento furono esclusi dalla consultazione elettorale i comuni della cosiddetta « zona Giuliano», cioè Montelepre, Borgetto, Partinico, ecc., e ciò, si disse, a causa della grave situazione dell'ordine pubblico di quei paesi. Durante le consultazioni elettorali non vi furono disordini di rilievo, ma l'affluenza alle urne risultò modesta. Non superò il 60% degli iscritti alle liste. In alcuni centri votò meno del 30% del corpo elettorale. La votazione alla quale non poté partecipare il movimento indipendentista, mise definitivamente in crisi i C.L.N. che fino ad allora s'erano arrogati il diritto dell'amministrazione della cosa pubblica. Si ebbe la prova che almeno tre partiti dell'esarchia governativa: il partito d'azione, il liberale e il demolaburista avevano nel paese un seguito irrilevante. Invece l'appena costituito Fronte dell'Uomo Qualunque, definito ricovero di ex fascisti, ottenne una buona affermazione. La DC, da sola, ebbe la maggioranza in 59 comuni. In altri 29 comuni tale maggioranza venne raggiunta assieme a partiti o movimenti di centro-destra. Le sinistre unite, socialisti e comunisti, predominarono in 37 comuni, e con altri partiti in altri 26 paesi .

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Il resto delle amministrazioni municipali venne assegnato a liste di centro e di destra formate da partiti o schieramenti minori, liste civiche, di combattenti e reduci, ecc. Dall'inizio dell'anno i centri dell'isola erano stati teatro di continue manifestazioni di reduci e di lavoratori disoccupati che protestavano per la mancanza di lavoro, per il carovita e per la perenne crisi economica. Anche le categorie economiche mostravano segni di insofferenza e tumultuavano. Il 20 febbraio a San Cataldo avvenne una paurosa manifestazione di contadini, con migliaia d'esasperati partecipanti, che per miracolo non degenerò in fatti di sangue. Vi furono gravi tumulti con l'intervento della forza pubblica e dell'esercito. A Palermo, ai primi di marzo, la situazione s'andò aggravando rapidamente. La sede dell'alto commissario Aldisio sembrava una piazzaforte presidiata da truppa in assetto di guerra. Il palazzo era irto di minacciose mitragliatrici puntate contro piazza Indipendenza. L'll marzo una tumultuosa manifestazione percorse le strade della capitale dell'isola. La folla chiedeva lavoro per i reduci disoccupati, lotta al caro vita, distribuzione straordinaria di generi alimentari. Aldisio promise ai dimostranti la soddisfazione di queste richieste. Il giorno dopo le manifestazioni ripresero imponenti. Verso le 10 una folla di almeno diecimila dimostranti si mosse dalla Stazione Centrale e imboccò decisamente la via Roma. La folla eta eccitata, si vedevano molte persone che agitavano randelli. V'erano anche autocarri stipati di gente vociante. I primi tumulti si verificarono in via Roma davanti agli uffici comunali. Presto tutto il centro della città si trasformò in una bolgia. La Camera del Lavoro di via Maqueda, minacciata da una massa minacciosa, venne abbandonata dagli impiegati e fatta chiiidere. La folla irruppe nell'ufficio distribuzione del Palazzo delle Poste e mise tutto a soqquadro. Un tentativo di invasione del Palazzo delle Finanze fu fortunosamente sventato da un forte presidio di guardie di Finanza. Un formidabile schieramento di forza pubblica servi a tenere lontani i dimostranti dalla prefettura e dal municipio di piazza Pretoria. La gente allora si riversò all'ufficio tasse comunali di via Maqueda, nei locali della scuola Gaetano Daita, e li mise sottosopra. Dai balconi piovvero mobili e documenti che furono bruciati per strada. Lo stesso avveniva alla pretura in piazza Ignazio Florio. Poi la folla, piu furiosa che mai, prese d'assalto l'esattoria comunale di Palazzo Venezia. Porte e serrande furono sfondate con grossi travi usati come catapulte e la gente dilagò negli uffici. Attrezzature, mobili e incartamenti finirono in un grande rogo 250


stradale. Anche pacchi di banconote furono bruciati al grido: « Non siamo ladri! ». Soldati e forze di polizia s'erano prudentemente ritirati e assistevano a distanza alla scena. All'ufficio Carte Annonarie di via Libertà, invece, avvenne la tragedia. La forza pubblica aprf il fuoco sulla folla che si· disperse in preda al terrore. Sul terreno rimase una dozzina di feriti. Vi furono anche due morti: il giovane disoccupato Salvatore Maltese di 19 anni e il commissario di PS Antonino Calderone che si trovava tra la folla e cercava di calmare gli animi. Nel pomeriggio una colonna di dimostranti marciò di nuovo verso la prefettura, ma venne bloccata da un imponente schieramento di forza pubblica. Un reparto di carabinieri a cavallo si esibi alla cosacca e caricò ripetutamente la folla, disperdendola a sciabolate e travolgendola con i cavalli. Allora un tale sali su un autocarro, lo mise in moto, e puntò sui carabinieri. Travolse uomini e cavalli, sfondò Io schieramento di truppa e apri un varco verso l'ingresso dell'edificio. La folla si fece sotto saettando sassi e pezzi di legno, ma dovette ripiegare sotto una fitta sparatoria aperta dai militari. La giornata si chiuse con un pesante bilancio di sangue. Oltre ai due morti vi furono moltissimi feriti. Quelli «ufficiali» furono: nove militari, fra questi un tenente del 39° fanteria, tale Lucio Siluri. Fra la popolazione civile si ebbero una trentina di feriti, di cui due donne. Tutti colpiti da colpi d'arma da fuoco o da sciabolate. Ma bisogna tener conto che molti cittadini, per paura di altri guai, non si fecero curare presso gli ospedali e i Pronto Soccorso. Le tracce dei disordini furono fatte scomparire in gran fretta . Autoblindo, carri armati e camionette pattugliarono tutta la notte le strade della città; di tanto in tanto i militari sparavano raffiche intimidatorie. La città rimase per parecchi giorni sotto la morsa dei reparti militari. Scriveva in quei giorni il « Giornale di Sicilia »: « ... a tutti è parso e anche a noi 1 che chi era in alto, prefetto o questore, aveva la sola preoccupazione di lasciare ai malcapitati che stavano con i reparti sulle strade, la responsabilità di cavare il classico ragno dal buco.»

E il comunista « La Voce della Sicilia» del 13 marzo rincarava la dose affermando che la massa dei dimostranti divisa in gruppi « spesso composti da migliaia di persone» era stata manovrata « visibilmente da loschi elementi ». Nessuno spendeva una sola parola per la derelitta popolazione di Palermo che pagava da anni col suo sangue l'inettitudine e la brutalità dei governanti. Il 22 altra rivolta popolare a Messina. I disoccupati, dopo 1a 251


quotidiana, umiliante e inutile firma presso la Previdenza Sociale, diedero vita a una tumultuosa dimostrazione davanti al municipio. Presto studenti e dipendenti comunali si unirono ai diseredati senza lavoro. La massa si divise in vari cortei che secondo l'addomesticata relazione ufficiale dell'epoca erano composti da « grandi quantità di giovinastri, pregiudicati e ragazzi che, armati di pezzi di legno, procedevano in maniera disordinata »! La folla spazzò via le bancarelle di piazza Due Vie, devastò le sedi del Consorzio Agrario di piazza Palazzo di Giustizia, di via Garibaldi e di via Industriale. In quest'ultima strada il deposito dell'UNRRA fece la stessa fine. Anche i depositi del pastificio Curcuruto furono invasi e accuratamente ripuliti. Al viale San Martino una folla scatenata che avanzava scagliando sassi contro tutto e contro tutti penetrò negli inutili uffici dell'Assistenza post-bellica e li incendiò. Alcuni esagitati dilagarono nel cinema teatro Cairoli, ne fecero uscire gli spettatori e ordinarono la chiusura del locale. « Non è tempo di divertimenti! » gridò con accento severo uno dei dimostranti. Una colonna diretta alla prefettura fu respinta da un grosso reparto militare e riflui verso l'Intendenza di Finanza dov'era un presidio del 46° fanteria. Ne venne fuori una paurosa confusione. I militari, presi dal panico, aprirono uno scomposto fuoco di fucileria che provocò un morto e 34 feriti. I feriti erano tutti civili mentre a lasciarci la vita fu uno degli stessi militari, il soldato Salvatore Caramanna di Palermo, classe 1925, raggiunto dai colpi dei suoi compagni. (Le autorità tentarono di accreditare la versione che il povero fante fosse stato ucciso da uno dei dimostranti armato di fucile da guerra. ca.libro 91!) Nel rione Gazzi una fitta sassaiola costrinse alla ritirata la forza pubblica che presidiava l'esattoria comunale che venne data alle fiamme. I vigili del fuoco, accorsi per spegnere le fiamme, rischiarono di finire lapidati dalla folla inferocita. Lo stesso avvenne all'Intendenza di Finanza che bruciò per tutta la notte. Mentre accadevano i sanguinosi fatti di Palermo del 12 marw, Aldisio era a Roma. Forse si trattava di un singolare gioco del destino, ma ogni volta che l'isola era scossa da tragici avvenimenti l'alto cotnmissario si trovava assente e distante dalla sua sede. Questa volta sotto la gravissima pressione popolare Aldisio poté illustrare al Consiglio dei ministri quel progetto di Statuto che la Consulta Regionale aveva licenziato tre mesi prima ed era rimasto a dormite fra le scartoffie. Sotto l'incalzare delle notizie che giungevano da Palermo, il Consiglio dei ministri decise di trasmettere il progetto alla Consulta nazionale. Con questo gesto il governo mostrava finalmente d'avere capito 252


che la situazione dell'isola si poteva risolvere solo con seri provvedimenti politici e non con le abituali repressioni poliziesche. Questa precisa svolta politica venne sostenuta dall'accorta azione del presidente del Consiglio De Gasperi. Egli era un uomo di «Marca», di frontiera, cresciuto politicamente nel parlamento austriaco, dove i complicati problemi etnici ed amministrativi dei numerosi popoli che componevano l'impero asburgico venivano trattati e risolti con serietà, intelligenza ed efficienza. Pochi giorni dopo la conclusione di una seduta del Consiglio dei ministri che aveva ripreso in esame il progetto di- statuto di autonomia, venne deciso « di partecipare con adeguate misure di clemenza alla pacificazione e alla concordia degli animi » e cosi potere chiudere « il periodo di agitazione seguito in Sicilia in questi ultimi tre anni». Veniva disposta« la cessazione dell'internamento di Ponza dei signori Andrea Finocchiaro Aprile. Antonio Varvaro e Francesco Restuccia. Inoltre è stata disposta la liberazione di quei giovani arrestati in Sicilia in relazione al movimento separatista». Ma i tre internati di Ponza erano a Roma già la settimana prima del comunicato del Consiglio dei ministri, che venne reso noto il 22 marzo. Il comunicato faceva seguito alle trattative fra le autorità e gli esponenti del Comitato Nazionale Indipendentista che dall'isola aveva raggiunto aerei messi a disposizione dal governo. Il Comitato si riunf Roma lo stesso 22 marzo in un'aula del Collegio Visconti. Oltre ai tre liberati di Ponza v'erano: Lucio Tasca, Bruno di Belmonte, il barone Cosentino, gli avvocati Gallo Poggi, Nicolosi Tedeschi e Castorina, Rosario Cacopatdo, Milio Gangemi, Cianci e Raffaele Di Martino. In quei giorni a Roma venne sancito l'armistizio, non la pace, fra il governo e il M.I.S. Gli indipendentisti ottenevano la cessazione delle persecuzioni contro il Movimento, le libertà politiche che si erano viste negate e si dissociavano da ogni forma di lotta armata. Salvatore Giuliano e i suoi ragazzi venivano ricacciati nella loro disperazione di «banditi», senza scampo possibile al di fuori della morte o dell'ergastolo. Finocchiaro Aprile e Varvaro giunsero a Palermo il 27 marzo. Una folla immensa era venuta a salutarli all'aeroporto di Boccadifalco. Lucio Tasca rivolse ai due reduci commosse parole di saluto. A un certo punto affermò:

con

« I nostri piu accaniti nemici sono stati Aldisio, figlio degenere di questa terra, e quei farabutti dei comunisti. » Ma la combattiva moglie di Varvaro, Jolanda, lo interruppe gridando: « Non siamo d'accordo, cava-

liere! ».

Poi si formò un lunghissimo corteo fino al Politeama dove Fi2 53


nocchiaro Aprile prese la parola davanti a una folla veramente oceanica. Rallentatasi la tensione politica, nell'isola si faceva sempre piu pesante la situazione economica e alimentare. Il continuo rincaro dei prezzi esasperava la popolazione e provocava disordini che sfociavano in gravi tumulti. A Lentini furono saccheggiati e devastati fattorie, forni e negozi di alimentari. A Catania il 22 aprile i disordini e i saccheggi culminarono con un tentativo d'invasione della Prefettura. Intervenne duramente la forza pubblica col risultato di una ventina di feriti. E cosi ad Agrigento, a Siracusa e altrove. In quei giorni i padroni dell'Italia, gli anglo-americani, per bocca del loro proconsole nella penisola ammiraglio Ellery Stone dichiararono finita la « tregua istituzionale » da loro imposta agli italiani negli anni precedenti. Autorizzarono gli italiani a scegliere, a mezzo votazione, la forma istituzionale che preferivano. Ormai si era in piena campagna elettorale. Non è compito di questo libro rievocare la confusione delle settimane che precedettero il Referendum del 2 giugno. Se negli anni precedenti gli italiani avevano vissuto nella tragedia, in quelle settimane vissero nella tragicommedia. L'intrigo, il velleitarismo, le parolone raggiunsero dimensioni incredibili. L'Italia, avvolta da una rete di nascenti complotti, visse mesi d'esaltazione. Pietro Nenni tuonava minaccioso: « La repubblica o il caos! ». Si diceva che le brigate partigiane s'erano ricostituite e mobilitate, pronte a imporre al paese la scelta repubblicana. Dall'altra parte esercito e carabinieri, consegnati nelle loro caserme, erano pronti a intervenire « per difendere il re fino al supremo sacrificio ». Fece la sua tempestiva riapparizione il fantasma « fascista ». Con una misteriosa regfa e una puntualità che nei decenni a venire avrebbe fatto comodo a tutti i governi della repubblica. Il 9 maggio il vecchio Vittorio Emanuele III, che era stato re d'Italia nel bene e nel male per 45 anni, abdicò in favore del figlio che prese il nome d'Umberto II. Il vecchio re andò in esilio inseguito da una valanga d'accuse forse non tutte immeritate, ma sicura: mente eccessive. Intanto l'iter della carta costituzionale siciliana alla Consulta Nazionale era travagliato dall'opposizione di numerosi componenti le varie commissioni. Guarino Amella aveva sottolineato la necessità di arrivare a una pronta approvazione perché era « necessario svalutare completamente quel movimento separatista che tanto dolore dà a coloro che hanno la coscienza dell'Italia come madre loro». (Uno dei piu tenaci oppositori era il liberale Einaudi che doveva poi diventare presidente della Repubblica.) I separatisti avevano buon gioco affermando che la promessa d'autonomia era una 254


grossa presa in giro. Che il governo, i partiti e la Consulta Nazionale cercavano di guadagnare tempo per nulla concedere. La minaccia politica separatista alla vigilia del Referendum appariva tanto grave che quando finalmente, il 7 maggio, la Consulta approvò lo schema di provvedimento legislativo d'approvazione della Carta, il provvedimento appariva inutile. Sarebbe stato anzi controproducente se non fosse stato messo subito in attuazione con un decreto legge. I separatisti rischiavano d'afferrare un grosso premio elettorale. In tal senso Vittorio Emanuele Orlando sollecitava De Gasperi, facendo presente che la promulgazione del decreto avrebbe svuotato di significato elettorale l'attività del M.1.S. in Sicilia. Non solo, tna il PLI e la DC ne sarebbero stati vistosamente premiati con i voti che altrimenti sarebbero andati a finire nelle liste del M.I.S. Il 15 maggio il Consiglio dei ministri presieduto da De Gasperi deliberò l'approvazione dello statuto siciliano con un decreto legislativo che venne fumato dal nuovo re d'Italia Umberto II. Appariva chiaro che lo statuto non veniva concesso ai siciliani uti singuli, ma al popolo siciliano, considerato dallo Stato italiano come collettività distinta dalla comunità nazionale. I maggiori oppositori all'approvazione dello Statuto furono i ministri: Nenni, socialista, Cattani, liberale, e Gasparotto, demolaburista. Essi giustificarono la loro strenua opposizione con l'affermazione che bisognava aspettare l'approvazione della futura Assemblea Costituente. Correvano anche discorsi bizantini che definivano « autonomia dei baroni» quella concessa dal governo, mentre quella concessa dalla futura Costituente sarebbe stata l' « autonomia del popolo ». Le solite, inutili chiacchiere, Discutere se l'autonomia fosse frutto di conquista da parte del popolo siciliano (o meglio dell'appassionata lotta degli indipendentisti) o una concessione del governo, non sarebbe servito a niente. Il fatto reale, che andava di là da ogni possibilità di ripensamento o di modifica, era che la Sicilia aveva ottenuto il riconoscimento ufficiale e definitivo di Regione autonoma. E ciò per l'accanita lotta, anche armata, perseguita per tre anni dal movimento separatista. Ma questo innegabile successo svuotava di contenuti ed esauriva la funzione e l'attività del M.I.S. Pochi giorni dopo il decreto del 15 maggio il questore di Palermo informava il ministero che il declino del M.I.S. era confermato dal fatto positivo che « la mafia aveva abbandonato il movimento separatista». Il solerte funzionario però si guardava bene dall'indicare verso quali partiti si fosse diretta l'emigrazione mafiosa. La votazione del 2 giugno 1946 aveva una doppia finalità; la scelta istituzionale (Monarchia o Repubblica), ed elezioni politiche per l'Assemblea Costituente. 2 55


La scelta della data del Referendum non fu felice, ma forse non v'era altra possibilità data l'incerta situazione politica che gravava sul paese. Gli italiani avevano, o stavano per riavere, alcune libertà politiche; queste erano state concesse loro dallo straniero. In cambio essi avevano perduto la piu grande delle libertà: l'indipendenza nazionale; e chissà quanti decenni sarebbero passati prima di poterla riottenere. La Repubblica, bene comune dei cittadini che esige da loro una dura, fiera e lunga scuola, non nasceva da una lotta eroica, vissuta e sentita dal popolo. Ma, ottenuta dalla benevolenza dello straniero, fu il risultato dialettico di manifesti, comizi e altoparlanti (e anche di brogli elettorali). Infine vi fu l'esclusione di milioni di cittadini ai quali venne negata la possibilità d'esprimere il proprio volere. Gli abitanti della Venezia Giulia e del Trentino-Alto Adige, direttamente governati dalle autorità militari alleate, furono esclusi dal voto. I prigionieri di guerra, ancora lontani dalla Patria, non votarono. Senza contare coloro i quali furono esclusi dal voto « per indegnità » e fra questi, numerosi, gli ex fascisti. Certamente non fu un voto convinto e meditato, liberamente espresso. L'Italia era ancora occupata da eserciti stranieri e il governo ubbidiva alle disposizioni dei vincitori. I cittadini erano ancora frastornati dalla tragedia vissuta, dalla guerra perduta (e in quale modo), dalla guerra civile alimentata dallo straniero che s'era innestata nella tragedia della sconfitta. V'erano ancora troppo odio, troppa paura, troppe vendette, troppe recriminazioni. Infine il voto del Referendum doveva amaramente confermare che l'Italia era piu che mai divisa in due parti. Il Centro Nord della penisola scelse in maggioranza la Repubblica, mentre il Mezzogiorno e le isole si dichiararono per la Monarchia. Fu la volontà del Centro Nord piu popolato, piu ricco, piu organizzato, piu efficiente, a imporsi con la violenza del numero sul resto del paese. Cosa d'altronde abituale nella vita italiana dall'Unità ad oggi. Nessuno però allora poteva immaginare che l'Italia uscendo dalla tragedia della storia sarebbe entrata nella cronaca nera parlamentare. Nell'immensa rete di intrighi che copri'. l'Italia durante il mese di maggio del 1946 è da collocare l'ultimo tentativo di alcuni indipendentisti che cercarono cli sfruttare al massimo la congiuntura politica che attraversava il paese per volgerla a favore della Sicilia. Anche se buona parte dei separatisti sembrava schierata a favore del mantenimento della Monarchia, e ciò rispecchiava la manifesta tendenza dei siciliani, il M.I.S. si dichiarò agnostico in materia isti· tuzionale. Cosi come fecero la DC e lo schieramento dell'Uomo Qualunque. Tale posizione d'agnosticismo doveva poi provocare, e non


si capisce bene il perché, accuse e recriminazioni da parte di elementi repubblicani e progressisti del movimento, ma solo dopo che si apprese il risultato del Referendum. Il gruppo Tasca-Carcaci s'era ritenuto libero di continuare le trattative con esponenti monarchici. Cosa che avvenne in una atmosfera d'infondata e incontrollata euforia. A nessuno passò per la testa che qualsiasi decisione d'un re costituzionale sarebbe dovuta passare al vaglio del parlamento. E nessun parlamento, in nessuna parte del mondo (forse nemmeno in Italia) potrà votare volontariamente per lo smembramento del paese. · (Gli unici a poter « ordinare » l'indipendenza della Sicilia erano i governi alleati, i quali avevano chiaramente mostrato di non aver alcun interesse per una soluzione di tal genere. In mancanza di simile probabilità, rimaneva un'unica soluzione: quella di prender le armi e combattere sino alla fine per conquistare l'indipendenza. Ma i siciliani purtroppo, o grazie a Dio, non lo fecero.) I due fratelli Carcaci e Lucio Tasca ebbero incontri continui con numerose personalità politiche e religiose e con lo stesso Umberto di Savoia. Da questi incontri tornavano con vuote espressioni di simpa~a o di comprensione. Venne tentato un accordo politico con Vittorio Emanuele Orlando in vista delle prossime elezioni. Ma Orlando era legato da precedenti impegni con altri vecchioni, Bonomi e Nitti, e non se ne fece niente. Intanto la pressione politica nell'isola si allentava; il 25 maggio le intenzioni di clemenza del governo furono confermate dalla liberazione d'un buon numero di separatisti detenuti. Rimasero in galera Concetto Gallo e Attilio Castrogiovanni che il Comitato Nazionale del M.I.S. decise di candidare per le elezioni alla Costituente. Abbiamo detto dei mille intrighi e delle mille dicerie che avvolsero l'Italia nelle settimane precedenti il Referendum. Nell'isola le cose apparvero piu complicate per i precedenti contatti avvenuti fra indipendentisti e autorità militari. Alla fine d'aprile era giunto a Palermo il colonnello Achille Schiavo Campo, un siciliano che pareva godere della fiducia d'Umberto di Savoia e da lui incaricato d'una missione esplorativa nell'isola. L'attività del colonnello, che fra l'altro era parente dell'ispettore generale di PS Messana, era rivolta a canalizzare il maggior numero di consensi verso la causa monarchica. Il colonnello allacciò contatti con tutti gli schieramenti politici, ma con gli esponenti separatisti creò un fitto dialogo dal quale ognuna delle parti cercava di trarre il massimo giovamento per la propria causa. Gli indipendentisti, almeno i piu accesi, non avevano perduto 257


tutte le speranze di ottenere il riconoscimento di una totale forma di indipendenza per la Sicilia. Venne cosi ripreso il discorso dell'Unione dinastica. La campagna elettorale in corso sembrava offrire grandi speranze al M.I.S. i cui comizi erano sempre affollatissimi e culminavano con trionfali cortei. Il gruppo, capeggiato dai Tasca e dai Carcaci, si schierò apertamente per la causa monarchica e lavorò instancabilmente in suo favore. Sono di quei giorni intensi contatti con autorità ed esponenti politici. Vi partecipava anche Varvaro. Il colonnello Schiavo Campo prendeva parte alle riunioni, parlava poco o niente, ascoltava attentamente e faceva grandi sorrisi. Non vi sono prove d'un vero complotto monarca-separatista. Né che Umberto di Savoia abbia mai dato il suo benestare al cosiddetto golpe, perché, appunto, in seguito si parlò di golpe. Negli incontri avuti con i Tasca e coi Carcaci, Umberto si limitava ad ascoltare i suoi visitatori. Poi lasciava cadere qualche regale espressione di simpatia o di comprensione e si lasciava baciare la mano. Anche perché egli « non ha mai gradito né capito il separatismo siciliano ».1 Di questo discusso golpe, come di altri successivi, altrettanto fantomatici, abbiamo alcune affermazioni personali abbastanza ingenue, ma soprattutto discutibili. Concetto Gallo affermò d'aver ricevuto, a metà maggio, una misteriosa visita all'Ucciardone dov'era rinchiuso. Tre esponenti separatisti (Lucio Tasca, Guglielmo di Ca.rcaci e Varvaro) e un alto esponente dell'esercito (il colonnello Schiavo Campo) gli proposero l'evasione dal carcere per mettersi « al comando delle formazioni armate sepa.ratiste-monarchiche che preparavano un colpo di stato (!?) per c.reare una monarchia in Sicilia con il Savoia ».2 Gallo, anti Savoia e anticarabinieri, disse d'aver rifiutato sdegnosamente. Da parte sua Varvaro raccontò d'aver partecipato a un pranzo in casa Tasca, dov'era presente « un colonnello dell'esercito che si chiamava Scavo». In quell'occasione alcuni dei presenti dissero a Varvaro: « Noi abbiamo intenzione di far dimettere Umbe.rto Il, di nominare il figlio successore, reggente Vittorio Emanuele Orlando. »3 1 Vedi la dichiarazione del marchese Falcone Lucifero, ministro della Real Casa a Marcello Cimino, in « L'Ora», 9 marzo 1966. 2 Cfr. M. CIMINO, ibid. 3 Cfr. dichiarazione dell'on.le Varvaro alla Commissione Antimafia, seduta de11'8 gennaio 1971. Sempre Varvaro ebbe a dichiarare che nei giorni che precedettero il referendum il prefetto di Palermo gli confidò: « Ecco il mio cappello a portata di mano; io sono pronto a dare a Lei le consegne appena arriverà il momento». (Si fece anche il nome dell'ispettore Messana come futuro ministro dell'Interno del « Regno di Sicilia»). Al buon avvocato Var-


Aggiunsero che il « piccolo monarca » e il lacrimoso Orlando, avrebbero dovuto « far prevalere l'idea monarchica » in Sicilia e poi marciare « al Nord per conquistare al re tutta l'Italia »! 4 Si cianciò infine che nei giorni del Referendum Umberto di Savoia fosse a bordo d'una nave da guerra, al largo di Palermo. Pronto a sbarcare per mettersi alla testa del golpe e di battaglioni di picciotti armati di tuonanti lupare pronte a marciare verso il Nord. Non si capisce perché Umberto dovesse fare tutte queste cose a Palermo e non a Roma dove aveva i corazzieri, i carabinieri e tutte le forze armate che fra l'altro gli erano legate da un giuramento (per non parlare di tutti gli altri organi dello stato). In verità tutta la storia del golpe monarco-separatista in Sicilia fu la solita farsa all'italiana. Fatta di parole, di illusioni, di reciproci inganni, di impossibili entusiasmi, di improbabili sogni. E parole, parole. Una farsa di cui non si potrà mai misurare o appurate la verità. Di realmente vero ci fu l'arrivo in Sicilia, il 28 maggio, di Umberto II per un brevissimo giro elettorale. Il sovrano giunse in aereo a Palermo e in un paio d'ore visitò ospedali e caserme. Poi andò a trovare un suo fedele, l'onorevole Misuri, ricoverato alla Clinica Candela. La strada dov'è la Clinica era nera di gente che premeva dalla piazzetta Bagnasco e da Sant'Oliva. Oltre a essere « 'u RJuzzu » delle fiabe, Umberto era un bell'uomo e sfoggiava un bel sorriso. E la folla, specialmente quella . meridionale, è sempre sensibile a queste cose. Accanto a Umberto, l'onorevole Misuri non seppe trattenere il suo entusiasmo e gridò alla folla: « Saluto Umberto, primo re di Sicilia e quarto re d'Italia ». L'insolito saluto ripreso poi da un altro ardente monarchico, Emilio Patrissi, diede agli oppositori della monarchia la conferma del golpe in preparazione. Nel pomeriggio, dopo un ricevimento offerto a Palazzo Reale, Umberto di Savoia apparve al balcone per salutare l'immensa folla, almeno centomila persone, che si era radunata per acclamarlo. Il sovrano aveva accanto il cardinale Ruffini, da soli due mesi primate dell'isola, ma che già mostrava eccezionale sicurezza nel trattare i complicati intrighi della politica siciliana. varo che viveva un'intensa vigilia dettorale, arso, com'era, dal desiderio della medaglietta di deputato, non passò mai per il capo che le parole del prefetto di Palermo potessero avere un significato ironico. 4 Nel 1919 a Versailles il «Tigre » Oemenceau, che soffriva di fiero . male alla prostata, indicò al collega inglese Vittorio Emanuele Orlando che stava facendo uno dei suoi piagnucolosi interventi, e disse: e Se potessi orinare con la facilità con la quale quello piange avrei risolto tutti i miei problemi ». 2 59


Il giorno dopo il re volò a Catania dove venne accolto da altre deliranti manifestazioni popolari. Nel pomeriggio raggiunse Messina e in serata, da Reggio, Roma. Poco meno di due giorni passati in Sicilia procurarono al « re di maggio » 1.303.560 voti, cioè il 64% dei voti espressi dai siciliani. (I voti dati alla repubblica furono 709.735, il 36%. In tutta l'Italia il risultato della votazione per il Referendum fu: Repubblica, voti 12.718.641 (54,3%), Monarchia 10.718.502 (46.7 % ). In uno col Referendum le elezioni politiche diedero in Sicilia i seguenti risultati: votanti 1.913.485 (76.3% ), DC 643.355, Unione Democratica Nazionale (Orlando) 259.251, PSI 234.318, Uomo Qualunque 185.609, M.I.S. 166.609, PCI 151.374, -P RI 80.689, Blocco della Libertà (monarchici) 79.873, il resto a partiti o movimenti minori. Malgrado le aspettative il movimento indipendentista riusci a racimolare appena 1'8.71 % dei voti, 166.609. Quattro indipendentisti: Finocchiaro Aprile, Varvaro, Gallo e Castrogiovanni furono eletti deputati all'Assemblea Costituente. Gallo e Castrogiovanni erano ancora in carcere, sottoposti a un regime di sorveglianza speciale. Ma potevano comunicare facilmente con l'esterno. (L'agente di custodia Selvaggio, presente alla misteriosa morte di Gaspare Pisciotta, era una delle «fibbie» separatiste dentro l'Ucciardone.) Finocchiaro Aprile fu eletto nelle due circoscrizioni elettorali dell'isola, ma optò per la circoscrizione di Palermo e a Catania gli subentrò Attilio Castrogiovanni. (Quando giunse in carcere la notizia che Castrogiovanni era stato eletto deputato, il direttore dell'Ucciardone, un nugolo di agenti e una folla di detenuti vennero a complimentarsi con il neo parlamentare. Castrogiovanni ringraziò commosso, poi disse al direttore: « Ne parliamo domani, chiedo scusa a tutti, ma stavo leggendo un libro interessante e vorrei completarne la lettura».) L'Italia tutta attese con il fiato sospeso il risultato del Referendum, si temeva il bagno di sangue, il riaccendersi della guerra civile. Ma Umberto di Savoia prese un aereo e lasciò il paese. Gli avvocati fecero dell'Italia una repubblica. Gli intrighi, i complotti, i colpi di Stato, le marce vere o presunte verso il Nord o contro il Sud svanirono sotto i cocenti raggi del mese di giugno. I fieri propositi, le virili decisioni, i giuramenti, le minacce furono subito dimenticati. Gli italiani che non hanno la virtu della. tenacia né il difetto della testardaggine dimenticarono tutto e presto. Il paese stava vivendo drammatici momenti per la penuria di frumento; si viveva alla giornata aspettando le navi americane che portavano il grano. Ma le vetrine erano colme di merci, anche se a prezzi impossibili. La «cicala» italiana si preparava a una lunga, calda, gioiosa estate; la prima vera estate di pace. Il giro ciclistico


d 'Italia si annunciava con una rentrée favolosa. Le piu belle ragazze del paese sculettavano sulle passerelle per disputarsi l'ambito titolo di Miss Italia. Il dilemma monarchia o repubblica si dileguò per sempre quando venne detto presidente provvisorio della repubblica il monarchico De Nicola. Inoltre se il re era andato via, di là dal Tevere v'era sempre il papa, vero Re d'Italia. Lo Stellone era tornato a splendere sulla penisola. A non capire niente di quanto passava nd paese fu la povera gente di Napoli, gli scugnizzi, che sbucarono in massa dai fatiscenti bassi della disastrata città per urlare la loro patetica fedeltà al sovrano. Morirono sulle strade in uno sventolio di tricolori con la croce sabauda e al grido di « Viva lu Re ». Si fecero « sparare » dai carabinieri già semper fideles del Re, ma prontamente divenuti « fedelissimi » della Repubblica.


XIV. LA QUESTIONE CONTADINA « GIUSEPPE CESARE ABBA: Dunque che ci

vorrebbe per voi? Una guerra ... degli oppressi contro gli oppressori grandi e piccoli... in ogni città in ogni villa.»

PADRE CARMELO:

Parco, 22 maggio 1860 (G. C. ABBA, Da Quarto al Volturno.)

Uno dei miti che servi a fare l'Italia unita fu la convmz1one, diffusa fra la classe politica risorgimentale, che il Mezzogiorno d'Italia fosse il paese del « latte e del miele». Malgovernato, ma ricco di ogni bene. Illusi dalle reminiscenze classiche e ingannati dalle parole con cui gli esuli meridionali usavano descrivere il loro paese, i « piemontesi » si convinsero che sarebbero bastati pochi mesi di « buon governo liberale » perché il Mezzogiorno avesse un degno posto fra le regioni piu progredite. Lo stesso Vittorio Emanuele II, nel proclama rivolto ai siciliani il 1° dicembre 1860, si dichiarava sicuro che la fondazione di « una amministrazione la quale ristauri i principi morali di una società ben ordinata » avrebbe prodotto « un incessante progresso economico, facendo rifiorire la fertilità del suolo, i suoi commerci e l'attività della sua Marina», spargendo « a tutti i proficui doni che la Provvidenza ha largamente profuso sopra questa terra privilegiata ... ». Il messaggio del Sovrano peccava, chiaramente, d'ottimismo. L'isola non possedeva industrie, i trasporti erano inesistenti, i commerci limitatissimi. L'agricoltura era povera per molti motivi: terreni poveri e aridi, mancanza di strade, di credito, d'assistenza tecnica ... Ancora oggi la colpa della misera agricoltura del Sud viene addossata all'ignavia dei proprietari e all'ignoranza dei contadini. Nel Centro Nord della penisola le terre povere o non redditizie sono correttamente chiamate brughiere, lande, pascoli ·collinari o montani e lasciate a ceduo o incolte. Nel Mezzogiorno le stesse terre incoltivabili sono bollate col nome di « latifondo ». Nessuno ha mai voluto capire che « non è possibile considerare latifondo un esteso predio. solo perché governato da una coltura estensiva, ma si deve intendere per latifondo una proprietà che si potrebbe adibire a coltura intensiva ». Come nessuno ha mai voluto capire che è inutile aggredire con l'aratro i pascoli, o sottoporre a coltura intensiva, « senza una preventiva, costosa e attenta opera di bonifica, terreni impermeabili


o poco permeabili a tipo argilloso, con troppa acqua d'inverno, nel periodo delle piogge, per mancanza di sgrondo, e aridi, con profonde fessure, d'estate ». Ciò anche se piu di cento anni fa Giustino Fortunato, che era un esperto agricoltore, non si stancava di affermare: « Cosi il latifondo sarà una necessità economica e tecnica... finché non siano modificate le cause di ordine naturale ... Tutto il resto è fandonia ... ». Dunque, per quanto riguarda la Sicilia, il problema dell'agricoltura era ed è ancora oggi dato dalla gran quantità di terre povere e non redditizie. E, almeno fino alla metà del nostro secolo, dall'eccessiva popolazione degli addetti all'agricoltura. Per equilibrare la situazione agricola siciliana sarebbe stato necessario un formidabile impegno finanziario per opere di bonifica e di trasformazione, atte a modificare « le cause di ordine naturale», e la creazione di altre attività lavorative per sfoltire la numerosa popolazione contadina indirizzandola verso nuovi tipi di produzione. I numeri parlano chiaro. Ecco quanto riporta l'Annuario di statistica italiano del 1954 sulla Sicilia fra gli anni 1940 e 1950: La Sicilia era la regione piu grande d'Italia, la piu popolosa dopo la Lombardia; aveva la maggior densità di popolazione: 178 persone per kmq (Italia 160). Il 64% dei comuni isolani avevano il territorio ad oltre 300 metri di altitudine (Italia 47% ). La Sicilia aveva la minore estensione di pianure (13,42%; Italia 21,48%), con la minore piovosità. Aveva poi la maggior quota di superfici coltivate: 94,5% (Italia 92% ), con i minori terreni irrigui (3,3%) e la minor resa agricola per ettaro: Grano: 10,9 quintali (Italia 17), orzo 10,7 (Italia 11,4) pomodoro 133,3 (149) uva 47,2 (49,.3) ... Con il maggior numero di piccoli proprietari terrieri: per proprietà fino a 5 ettari. Infine la Sicilia aveva la piu alta natalità: 22,3 per mille (Italia 17,6 per mille), la piu bassa mortalità: 8,6 per mille (9 per mille), il maggior numero di unità demografiche in condizioni non professionali: 66,1 % (56,8% ). E, dulcis in fundo, la piu elevata percentuale di analfabeti: 26% di abitanti (Italia 11 % ), la maggior densità media di alunni per insegnante: 26,52 (Italia 25,83), la maggior parcentuale di iscritti alle università: 81 per ogni 10.000 abitanti (Italia 48). Nel 1936 le statistiche davano alla Sicilia 452.419 aziende agricole. Con tale cifra l'isola era la regione italiana dove la proprietà era maggiormente frazionata; anzi sarebbe bene dire «polverizzata ». Per le aziende di oltre 500 ettari la Sicilia occupava il terz'ultimo posto della graduatoria italiana (L'Annuario di statistica del 194.3 ripeteva lo stesso numero di aziende agricole, precisando che nell'isola le aziende agricole con estensioni di terreno superiori ai 100 ettari


erano 2.034). Nel 1980, secondo i dati ISTAT, i suoli agrari e forestali in Sicilia sono cosi ripartiti: seminativi Ha 1.231.247, colture legnose Ha 536.799, pascoli e incolti produttivi Ha 429.910, boschi Ha 185.167. Secondo gli stessi dati la montagna occupa Ha 544.000 (24,5%) la collina Ha 1.428.000 (61,3%) e la pianura Ha 364.000 (14,2%). Circa il 6% dei terreni sono irrigui « con acque superficiali, profonde o di serbatoi... ».1 . Si torna sempre alle « condizioni di ordine naturale » di Giustino Fortunato di cento anni fa. Negli anni '40 la stragrande maggioranza della popolazione attiva isolana era addetta all'agricoltura. In quel momento la Sicilia aveva 3.929.444 abitanti; di questi 1.332.747 (33,9%) rappresentavano la popolazione attiva. Gli addetti all'agricoltura erano 685.786 (il 51,5% degli «attivi»). Tale percentuale rimase inalterata fino al 1951, poi cominciò a decrescere rapidamente per arrivare alla sempre alta percentuale di oggi: 25%. Tale riduzione non è dovuta a un migliore equilibrio occupazionale delle forze del lavoro, ma al saldo migratorio negativo. Nel ventennio 1951-1971 tale saldo negativo è stato per la Sicilia d'oltre un milione di persone! Quattrocentomila persone lasciarono l'isola nel decennio 1951-1961 e altre seicentomila dal 1961 al 1971. Se ne andò « il 22% della popolazione presente e oltre il 60% degli emigrati sono provenienti dalle zone interne dell'isola, che sono poi quelle maggiormente interessate al processo di riforma agraria». Questo è quanto scrive candidamente la rivista « Sviluppo Agricolo », periodico dell'ESA (Ente di Sviluppo Agricolo in Sicilia).2 Con queste notizie l'Ente si dovrebbe chiamare « Fuga dalle campagne» ... Ma torniamo alla nostra storia. È chiaro che nell'isola venivano, e vengono, messi a coltura terreni buoni, ma anche quelli che avrebbero dovuto essere abbandonati a pascolo, a ceduo, oppure lasciati incolti. li sole e l'acqua, i due massimi fattori della vegetazione, non si accompagnano mai al contrario. In Sicilia, e cosi anche nel Mezzogiorno, « quando i'acqua cade distrugge e quando il sole incombe brucia ogni cosa » . Alle difficoltà d'ordine naturale si erano sommati nel passato il quasi totale disboscamento dell'isola, la trasformazione dei pascoli 1

Cft. CflTta dei temmi irrigui della Sicilia, a cura dell'Istituto di agro-

nomia dell'Università di Palermo e dell'Ente di Sviluppo Agricolo in Sicilia, Firenze, 1975. 2 Cft. numero di luglio-agosto 1981, p. 48.


e dei cedui in colture cerealicole, la mancanza di capitali da investire in miglioramenti fondiari . Inoltre l'economia agricola siciliana si reggeva su una complicata stratificazione sociale. V'erano proprietari piu o meno assenti, curatoli (o fattori), gabellotti (o affittuari) , metatieri (o mezzadri), terratichieri (contadini che pagavano la colonia con quantità fisse di cereali), jurnatari (braccianti giornalieri)... E poi usi e consuetudini complicati, radicati e fuori d'ogni logica produttiva, che ancora oggi non accennano a scomparire (anche nel campo dei volumi, dei pesi e delle misure) . Infine in ogni siciliano vi è un attaccamento quasi morboso per la terra, tanto che ancora oggi i terreni, anche quelli che non danno redditi di sorta, ma soltanto spese, sono supervalutati. Mastro don Gesualdo, e don Ma22:arò, i personaggi del Verga, non sono soltanto creature letterarie, ma persone vive e sempre numerose nell'isola. In realtà il problema della terra era quello generale italiano, in Sicilia maggiormente esasperato: un fortissimo squilibrio fra popolazione da nutrire e l'esiguo spazio delle terre veramente redditizie. Nel 1940 l'Ente per la Colonizzazione del Latifondo Siciliano (creato dal fascismo per intervenire drasticamente nella situazione agricola isolana con opere di bonifica, trasformazione e colonizzazione) indicava in circa 1.300.000 ettari i terreni dov'era necessario intervenire. Tale cifra la vediamo sorprendentemente riapparire e confermare nel 1981.3 Nel 1946, come oggi, l'agricoltura siciliana si sviluppava con ricche coltivazioni lungo le coste, nelle pianure e nei luoghi dove vi era possibilità d'irrigazione. Mentre era arretrata, quasi irrilevante, nei terreni collinari e aridi dell'interno. I grandi proprietari, tranne qualche lodevole eccezione, non avevano convenienza, o possibilità, d'investire capitali per migliorare i fondi e le colture. Paghi com'erano del sicuro, anche se limitato reddito, che ne traevano. I piccoli proprietari, coltivatori diretti, ottenevano dai loro poderi l'indispensabile per vivere. I gabellotti puntavano, com'era logico, al totale sfruttamento delle terre prese in affitto. Rimaneva la grande massa dei braccianti, spesse volte « proprietari » di un inutile fazzoletto di terra di pochi metri quadrati che tiravano avanti stentatamente con lavori stagionali. Per la grande massa contadina non vi era spazio, né speranza; nemmeno con una totale collettivizzazione delle terre. La soluzione stava nello sfoltimento del numero degli addetti all'agricoltura con la creazione di attività industriali o con l'emigrazione, com'era avvenuto all'inizio 3 a r. a Giornale di Sicilia i. del 7 febbraio 1981: Troppe aree per la Con/agricoltori. Nelle campagne 1i è 1bagliato tutto.


del secolo. (Fu, infatti, una nuova impressionante emigrazione la soluzione che venne poi scelta.) La popolazione contadina isolana era stata tagliata fuori d'ogni possibilità di accesso alla proprietà nel secolo scorso e in due occasioni. Nel 1812 quando i nobili usurparono le terre collettive e negli anni fra il 1862 e il 1870 con l'esproprio dei beni ecclesiastici e la loro vendita all'incanto. Piu di cinquecentomila ettari di terreno furono sottratti alla nascita d'una piu diffusa proprietà contadina e finirono nelle mani di una nascente, proterva borghesia paesana. (I beni ecclesiastici messi all'incanto rappresentavano un dodicesimo del territorio dell'isola. I boschi pervenuti allo Stato dalle Congregazioni ecclesiastiche furono alienati e distrutti, molti boschi furono addirittura dati alle fiamme dalla forza pubblica che dava la caccia ai «briganti». Il risultato fu che « le sorgenti s'inaridirono, i terreni divennero franosi, i torrenti devastatori, le piogge irregolari e scarse ».) Ma nel secolo scorso nessun governo, dispotico o liberale, si sognava di fare suo il programma « la terra a chi la lavora ». V'era stata, è vero, la lodevole iniziativa di Ferdinando II di Borbone che con decreto del 19 dicembre 1838 aveva ordinato la censuazione di alcuni beni della Chiesa e degli ordini monastici, al fine di dare « a censo i beni fondi appartenenti a prelati titolari del Regio Patronato » perché i contadini potessero « utilmente impiegare le loro industrie e però migliorare la propria e l'esistenza della famiglia, la morale, la floridezza, progredire a pubblica civiltà». Ma il decreto innovatore del Borbone aveva incontrato insormontabili ostacoli, remore e impedimenti di ogni genere, e la retriva classe dominante siciliana aveva maggiormente avversato il Borbone. Alla fine del secolo il generoso tentativo dei Fasci Siciliani dei Lavoratori fu schiacciato da una formidabile coalizione di forze: proprietari-gabellotti-governo e dalla repressione militare. Nel 1901, a Caltagirone, vi furono sommosse contadine, alle quali partecipò don Sturzo, che culminarono con l'occupazione del centro del paese e l'intervento dei soldati che spararono sulla folla facendo tre morti. La tensione si era calmata con l'assegnazione di 1.200 poderi tratti da terre comunali. Dopo i Fasci Siciliani la pressione contadina s'era alleggerita con l'emigrazione in massa avvenuta nei primi tre lustri del secolo; ma nelle campagne gabellotti e campieri mafiosi erano rimasti sul chi vive e all'occorrenza ammazzavano. Nel 1911 venne ucciso Sebastiano Bonfiglio, sindaco socialista di Monte Erice; poi cadde assassinato a Corleone Bernardino Verro, esponente dei Fasci, condannato nel 1894, per due volte esule: per le persecuzioni dello Stato e per le minacce della mafia; e Nicolò Alongi che per le minacce


ricevute dalla mafia si autodefiniva « morto in vacanza»; e infine Lorenzo Panepinto, maestro elementare e organizzatore di cooperative... Quando, nel 1919, don Luigi Sturzo era stato eletto sindaco di Caltagirone aveva tentato una distribuzione di terre comunali. Ma aveva dovuto piegarsi a un compromesso con « baroni e agrari )> del « Circolo della Compagnia » che temevano la formazione di una classe di piccoli proprietari che avrebbe tolto dal mercato braccia contadine a poco prezzo. I poderi assegnati non superarono l'estensione di un ettaro in modo da lasciare intatto il mercato bracciantile. Mentre avvenivano tutte queste cose, lo Stato italiano si rendeva latitante. Pago dei ricavi ottenuti dalle vendite ecclesiastiche, lo Stato ignorò il problema sociale ed economico dell'agricoltura siciliana: dal 1860 al 1884 lo Stato spese in Sicilia « per opere di bonifica dei terreni e per la sistemazione di fiumi e terreni », soltanto 27 .000 lire! Altri cinque milioni furono spesi fra il 1886 e il 1910. Ciò mentre l'agricoltura siciliana subiva un colpo mortale per le leggi protezionistiche che favorivano le industrie del Nord. Durante il ventennio fascista alcuni provvedimenti avevano cercato d'allentare la situazione nelle campagne. Oltre all'azione dell'Opera Nazionale Combattenti, una serie di lavori pubblici e l'avventura africana (pienamente condivisa dalle popolazioni meridionali) v'erano state alcune iniziative che avevano suscitato grandi speranze. Nel 1925 era stato creato l'Istituto Vittorio Emanuele III che anticipava i tempi della Legge sulla bonifica integrale (che venne nel 19.3.3). L'Istituto era un buon strumento operativo, tanto che fino al 1940 esegui ricerche idrogeologiche con sondaggi e perforazioni la cui media è uguale a quella del dopoguerra fino al 1980 (24.3 contro 608 e in condizioni tecniche e scienti.fiche ben cillierenti). L'Istituto svolse una notevole attività di studio e di preparazione che trasmise all'Ente di Colonizzazione per il latifondo siciliano creato con la legge del 2 gennaio 1940, con una Legge di Bonifica e di Riforma agraria che aveva come bandiera il motto « Assalto al Latifondo». La Legge di riforma agraria era ampia e largamente dotata di mezzi finanziari. Con tale legge veniva autorizzata una spesa iniziale di un miliardo di lire per la bonifica integrale e per la colonizzazione, con previsti aumenti, negli anni successivi, per molte altre centinaia di milioni. Queste somme dovevano servire « per la bonifica integrale e la colonizzazione della Sicilia ». Le opere dovevano essere condotte da enti e da privati, i quali avevano l'obbligo dei miglioramenti fondiari. Erano previsti sussidi, contributi e mutui, lo Stato garantiva l'ammortamento di mutui per capitali e interessi. La legge coinvolgeva vari enti come l'INPS, l'Opera Combattenti, ecc., e


impegnava anche le banche. Per la costruzione dei centri rurali la spesa prevista era a totale carico dello Stato. L'Ente di Colonizzazione era autorizzato all'esproprio degli immobili dei proprietari inadempienti e all'acquisizione di terreni pubblici e privati. Tutti i terreni pervenuti all'ente, previa bonifica, erano destinati alla « piccola proprietà contadina » (art. 18). La legge era buona, anche se tardiva; avrebbe potuto sicuramente risolvere il problema del settore agricolo isolano. (Ma i guai dell'isola erano e sono il mancato armonico sviluppo di tutti i settori economici e l'irrilevante produzione industriale.) In ogni modo aveva dato grandi speranze ai contadini, ma dopo un vigoroso inizio operativo venne bloccata dalle vicende belliche.' Nel secondo dopoguerra la questione con~dina non solo si ripropose con la stessa asprezza del secolo scorso, ma si presentò aggravata dal fatto che nel frattempo la popolazione dell'isola s'era quasi raddoppiata. Inoltre se durante gli anni di guerra proprietari, gabellotti, mezzadri e contadini avevano formato un unico fronte contro l'odiato Ammasso obbligatorio dei prodotti, con la fine della guerra questo fronte si frantumò e ogni categoria riprese il suo posto storico e sociale. In quel momento vi era un solo modo per impedire lo scontro sociale nelle campagne : attivare tempestivamente la legge fascista del 1940 e rifinanziarla, rendendo operativi i piani e i programmi già studiati e approntati. Ma il governo non aveva voglia né quattrini da dedicare alle opere di bonifica agricola (e sociale) in Sicilia e nel Sud in genere. Tutti gli sforzi e le disponibilità dello Stato erano rivolti alla ricostruzione delle distruzioni della guerra e alla rinascita delle industrie del Nord. (Le materie prime e le attrezzature che giungevano nel paese erano assegnate alle province industriali del Settentrione.) I contadini del Sud potevano aspettare. I partiti di sinistra, a parte il fatto che non avevano alcuna voglia di valorizzare una legge « fascista », hanno sempre avuta una vocazione operaia e poca comprensione per la sempre anarchica protesta contadina. Essi ritenevano che per prima cosa bisognava creare una coscienza contadina di classe, anche se il PCI mostrava un grosso 4 Ma un tizio di Palermo (un «fascistone • che occupava un'importante carica pubblica) fece in tempo a farsi assegnare un contributo per « migliorie fondiarie e bonifiche dei terreni • e con questi soldi si costrui una villa. Venne scoperto e denunciato. Fu costretto a lasciare la carica, a rimborsare i quattrini e venne condannato, oltre che espuoo dal Partito fascista. Logicamente il tizio diventò « antifascista» e dopo il 1945 occupò una « meritata • , altissima carica.


interesse politico nel montare la protesta contadina del Sud fino ai limiti della rottura. Fu cosf che in Sicilia avvenne lo scontro sociale nelle campagne. Ci fu la guerra fra proprietari, gabellotti e mezzadri e, nello stesso tempo, le tre categorie rioni.te combattevano contro il movimento dei braccianti. Fu soprattutto il partito comunista che riusci a far aderire all'organizzazione sindacale il contadino individualista. Con un lavoro duro e rischioso, condotto con fermezza e sacri.fi.ci da centinaia di oscuri e lmprovvisati sindacalisti. Questi uomini affrontarono con coraggio lo scontro aperto con gabellotti e proprietari che vedevano minacciato il loro predominio nelle campagne e la loro stessa esistenza economica. In questa dura lotta dieci.ne di sindacalisticontadini caddero assassinati dalla reazione o dalla vendetta dei loro avversari. Le ostilità nelle campagne si aprirono durante l'estate del 1945, con l'applicazione del Decreto Gullo sulla ripartizione mezzadrile. Decreto che in Sicilia era stato modincato con un accordo sostitutivo dell'Alto Commissario Aldisio. L'accordo assegnava un modesto premio mezzadrile su produzioni miserabili: 2/5 e 3/5 ai terreni con resa unitaria inferiore ai 7 quintali di cereali per ettaro, per poi variare per gradi, scendendo a 55/45 per quintali fra 7,1 e 10, e cosi via. . Con la scadenza dell'accordo sostitutivo, nell'estate del 1946, la lotta si rinnovò con maggiore asprezza . Non si riusciva a raggiungere un accordo; proprietari e gabellotti s'erano irrigiditi e i sindacati spinsero mezzadri e contadini alla lotta. Durante una manifestazione a Niscemi, migliaia di contadini infuriati devastarono e incendiarono i magazzini del Consorzio Agrario, della UPSEA e il Circolo dei Civili. A Caccamo, il 5 agosto, scoppiò una guerra. Piccoli proprietari, mezzadri e contadini attaccarono una squadra di funzionari dell'UPSEA (Ufficio provinciale statistico ed economico), che, scortati dai carabinieri, avevano il compito di reprimere le evasioni all'ammasso. Fu questa almeno la versione ufliciale. Per la verità pare che l'iradiddio sia scoppiata perché le forze di polizia, guidate dai funzionari, erano penetrate nelle case, sequestrando tutti i prodotti agricoli che vi si trovavano. L'azione provocò una sommossa nel paese e durante la notte furono richiesti rinforzi da Palermo. Poco prima dell'alba due autocolonne di carabinieri e di agenti di PS furono bloccate a 8 km dal paese, in località San Giovanni. Ne venne fuori una confusa sparatoria che provocò due morti e due feriti tra le forze dell'ordine e un numero imprecisato di perdite fra i rivoltosi. A mezzogiorno quando arrivarono altri rinforzi da Palermo scot>-


piò un grande fermento. Uomini a cavallo erano corsi per paesi e campagne incitando la popolazione alla rivolta. La gente di Alia, Roccapalumba, Sciara, Regalcioffoli e Caccamo prese le armi. I contadini rientrarono dai campi, si armarono e accorsero in aiuto dei caccamesi. Molti di loro avevano fatta la guerra e c'era gente esperta in azioni militari e di comando. Piu di mille militari con carri e armi pesanti riuscirono a penetrare nd paese. Caccamo era stata abbandonata dalla maggior parte della popolazione che si era rifugiata sulle montagne. La poca gente rimasta in paese, s'era barricata ndle case, sprangando porte e finestre. I colonnelli Tuccari e Paolantonio, che comandavano la spedizione, posero il loro comando nei locali del Municipio. Nd pomeriggio i rivoltosi contrattaccarono con vigore e misero in difficoltà i militari che ebbero altre perdite. Un reparto di carabinieri, 20 uomini e un ufficiale, venne accerchiato e costretto alla resa. Una autoambulanza cercò di lasciare il paese con una grande bandiera bianca. Ma i ribelli, temendo chissà quale inganno, la bloccarono a raffiche. A sera un gruppetto di tre donne con bandiera bianca scese dalla montagna e si presentò alla linea tenuta dai carabinieri. Volevano parlamentare. Dissero che il giorno dopo tutti i contadini della zona avrebbero attaccato i militari e che era meglio evitare il mas· sacro. Chiesero il ritiro ddla forza pubblica. I due ufficiali pretesero l'immediato rilascio dei militi catturati e minacciarono di incendiare il vicino paese di Sciara e di bombardare gli altri paesi in rivolta. Il giorno dopo i prigionieri furono rilasciati e le forze di polizia occuparono i paesi in rivolta che erano deserti. A dirigere le operazioni militari giunse il generale Calabrò. Il rastrellamento delle campagne continuò per giorni, accompagnato da una continua sparatoria. Furono catturate molte armi, anche se la maggior parte di esse fu tenuta accuratamente nascosta, perché servisse una volta successiva. Gli arresti continuarono per settimane, con le consuete feroci bastonature. Centinaia di uomini jn catene furono portati in città. La rivolta aveva provocato venti morti e un numero imprecisato di feriti, dei quali almeno sessanta gravi, fra la popolazione civile, e quattro morti e ventun feriti fra le forze di polizia. Per alleviare la grave tensione l'Alto Commissario Coffari (che aveva sostituito Aldisio, detto deputato) affidò ai prefetti il difficile compito di raggiungere accordi locali. Infine il 6 settembre veniva emanato il cosiddetto Decreto Segni per la concessione ai contadini dei « terreni incolti». Solo che in Sicilia non ve n'erano terreni veramente incolti, anzi v'erano troppi terreni incoltivabili messi a coltura. Il decreto era una decisione demagogica, irrilevante dal punto di vista pratico, ma eccezionalmente valida dal lato politico e organizzativo-sindacale. 270


Le occupazioni dei terreni, simboliche e qualche rarissima volta anche con autorizzazione prefettizia, avvennero in tutta l'isola. Ma a parte le manifestazioni esteriori quello che contava era che le masse contadine si erano organizzate e militavano con speranza e sicurezza nelle file delle organizzazioni sindacali. I contadini si mettevano in marcia accompagnati da donne e da bambini, al canto di « Bandiera Rossa ». Invadevano i poderi al grido di « Terra! Terra! » fra uno sventolio di tricolori e di bandiere rosse, in un'atmosfera di speranza e di gioia. Anche se tutto questo non aveva uno sbocco pratico e tutto restava come prima, assumeva un grande valore psicologico e politico: il contadino non aveva piu paura. Furono invase terre soggette da sempre al controllo delle cosche mafiose, anche se qualche volta capitava che la folla contadina, seguita dal solito gruppetto di carabinieri, si fermasse silenziosa e indecisa ai limiti del terreno da occupare. Bloccata dall'improvvisa apparizione a cavallo del campiere. L'uomo col fucile sulle ginocchla, immobile sulla cavalcatura, scrutava la folla. Come se si volesse imprimere nella mente i volti dei presenti. Fino a quando la folla si ritirava in silenzio. Ma non sempre la minacciosa presenza del campiere mafioso bastava a fermare i contadini. I feudi di Raffirossa a Mazzarino, Turcotto, Gurgazzi e Brigadeci a Riesi, Peri, Mustumuxaro e Montecanino a Corleone, e molti altri, tutti in terra mafiosa, furono vittoriosamente invasi. A settembre e ottobre la protesta contadina raggiunse le città. Agrigento, Caltanissetta e la stessa Palermo videro sfilare lunghi cortei di contadini a cavallo che gridavano: « Terra! Terra! ». Il 3 ottobre ebbe il suo culmine a Sciacca un'imponente cavalcata contadina che aveva percorso per tre giorni tutta la valle del Belice. A capo della grandiosa manifestazione era Accursio Miraglia, un sindacalista comunista proveniente dalle file anarchiche. Questo risveglio contadino, che tendeva essenzialmente al ricambio terriero, non diede risultati pratici, ma solo un vistoso risultato politico che vedremo consolidare nell'aprile del 1947 con un forte premio elettorale per i partiti di sinistra che avevano saputo organizzare la protesta dei proletari della terra. Trascurata dagli altri partiti politici e presentata come demento di sovversione e di disordini, la lotta contadina si manifestò con forme accesamente protestatarie senza degenerare in fatti cruenti con la forza pubblica, che da parte sua mantenne un contegno di generale prudenza. Anche se in seguito ne venne fuori un largo contenzioso presso le preture dell'isola. Ma il risveglio contadino e l'attivismo dei dirigenti sindacali scatenarono vendette e rappresaglie sanguinose. C'era da aspettarselo. In una società dominata da sempre dalla legge della violenza, dove lo sconfinamento d'una pecora al pascolo o una banale disputa


sui limiti di proprietà vengono risolti a colpi di lupara, una società che ha da sempre fatto suo il suggerimento « cu' ti leva 'u pani levacd la vita», non·poteva accadere altrimenti. A giugno fu assassinato il sindaco socialista di Naro, Pino Camilleri, e pochi giorni dopo anche Guarino, sindaco di Favara, fece la stessa fine. Il 21 settembre, ad Alia, una bomba scagliata contro la sede della Camera del Lavoro uccise tre contadini. Cinque giorni dopo ve~e assassinato a Santa Ninfa l'esponente sindacale Biundo. Il 21 dicembre cadde a Baucina Nicolò Azoti segretario della C.d.L., mentre il segretario della C.d.L. di Canicattf veniva fatto segno a colpi di pistola. La riscossa contadina avanzava lungo la strada segnata dal sangue dei suoi dirigenti. Con la nomina del nuovo alto commissario, avvocato Giovanni Selvaggi (14 ottobre 1946), la tensione nelle campagne cominciò ad allentarsi. Si poté giungere a un accordo di « pacificazione » fra agrari e contadini. Piu che pacificazione fu una tregua, in attesa che nuovi provvedimenti, e vedremo quali, portassero finalmente la pace ma non la giustizia nelle campagne. L'accordo siglato il 5 novembre riprendeva in parte la legge del 1940 e stabiliva l'assegnazione a cooperative di contadini di « terre incolte » appartenenti a proprietari di oltre cento ettari di terreno. Gli istituti bancari furono « impegnati » a concedere prestiti agli interessati e i proprietari dichiararono d'offrire la loro collaborazione ai contadini e alle autorità per il ristabilimento della serenità nelle campagne. Era una temporanea tregua, un inutile accordo, che non risolveva nessun problema, ma lasciava intatta anzi tutta la questione che veniva rimandata nel tempo a chissà quando. Ma il fatto stesso che lo spinoso problema fosse stato discusso, suscitò grandi attese nei contadini e fece conseguire alle sinistre un indubbio risultato politico. Accursio Miraglia pagò con la vita il coraggio con il quale s'era dedicato alla causa contadina. Egli aveva ricevuto numerose minacce, tanto che girava scortato da un amico fidato, tale Nicolò Venezia. Miraglia attraversava un periodo di delusione. Si sentiva solo e abbandonato. Malgrado l'instancabile attività a favore del partito comunista e del sindacato egli era stato isolato. Addirittura escluso dalla partecipazione alla conferenza organizzativa del PCI che si teneva a Firenze, « dove invece andarono altri che non avevano alcun peso politico, nessuna personalità politica ».5 La sera del 5 gennaio mentre a Sciacca era in corso un veglione che aveva richiamato un gran numero di persone, Miraglia venne assassinato a colpi di mitra sulla soglia di casa. s Cfr. Relazione Antimafia, op. cit., p . n3.


I funerali del sindacalista assassinato riuscirono imponenti per partecipazione popolare; erano presenti i maggiori esponenti del PCI e del PSI. L'indignazione popolare e il desiderio di vendicare Miraglia spinsero i comunisti di Santo Stefano di Quisquina a chiedere un aereo militare a Pietro Nenni (che ricopriva la carica di vice presidente del Consiglio dei ministri). Tali esagitati volevano uccidere per rappresaglia « almeno duecento proprietari terrieri della zona» e poi riparare in Russia con l'aereo! Il mistero della morte di Miraglia non è stato mai risolto, anzi dura ancora oggi. Col tempo le cose si sono maggiormente complicate. Mezz'ora dopo l'agguato, il maresciallo dei carabinieri Gagliano arrestò i presunti esecutori del delitto e alcuni giorni piu tardi i presunti mandanti. Alle indagini parteciparono il commissario di PS della cittadina, tale Zingone (iscritto al PCI) e il brigadiere dei carabinieri Citraro, pure iscritto al partito comunista e poi commesso dell'Assemblea regionale. Le indagini furono poi assunte dal commissario T andoy, della Mobile di Agrigento, che, assassinato anni dopo, risultò essere collegato con le cosche politico-mafiose che dominano l'agrigentino. Anche Zingone morf malamente, pare avvelenato. I presunti esecutori e mandanti furono prosciolti. in istruttoria, mentre il maresciallo, Tandoy e Zingone furono incriminati e poi assolti per violenze verso gli arrestati. Infine il professore Giuseppe Montalbano, ex deputato comunista, dichiarò alla Commissione Antimafia (seduta del 18 marzo 1970) · che il delitto Miraglia era maturato nell'ambiente locale del PCI e fece _alcuni nomi di parlamentari comunisti che avrebbero potuto dire qualcosa sulla vicenda: il deputato Michelangelo Russo, il senatore Renda. Dalla lettura del documento non appare chiara la posizione di un altro ex deputato comunista, tale D'Amico. Ma la Commissione Antimafia ritenne di non dover fare ulteriori accertamenti sulle dichiarazioni di Montalbano. Anzi ordinò che una parte di tali dichiarazioni venissero omesse dalla pubblicazione. Nell'isola passarono gli anni; i contadini continuarono a essere denunciati per le occupazioni delle terre e i loro dirigenti continua· rono a venire assassinati. Ma i contadini rimasero ai loro posti, nei campi. Anche quando videro i loro compagni di miseria, i minatori delle miniere di zolfo, lasciare l'isola per andare a buttare sangue e sudore nelle miniere della Francia e del Belgio. I contadini continuarono ad aspettare, e le classi dirigenti e dominanti continuarono a prender tempo. Fino a quando l'Assemblea regionale siciliana, il 27 dicembre 1950, votò una legge frutto di complicati compromessi che aveva nome di Riforma Agraria. Votarono a favore della legge la DC e la destra liberale e monarchica, votarono contro le sinistre e gli indipendentisti.

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Praticamente era la stessa legge, lasciata inattiva per dieci anni, del 2 gennaio 1940, e peggiorata (senza piu l'obbligo della bonifica dei terreni); in cambio conteneva una quantità d'obblighi, vincoli, prescrizioni e garanzie. Con numerose scadenze di date di presentazione dei documenti, di approvazioni, di decisioni ... Nel testo della legge v'erano poi una infinità di « può » al posto dei piu corretti «deve», ma queste sottili dis..tinzioni sono cose abituali nei bizantinismi legislativi della regione siciliana. La legge prevedeva il conferimento libero, o forzato, di terre. Dal conferimento erano escluse le terre irrigue, gli agrumeti, i vigneti, quelle a coltura arborea o arbustiva specializzata. Nelle zone latifondistiche, le proprietà eccedenti i 200 ettari, ma solamente quelle qualificate come « seminerio » venivano soggette a « conferimento straordinario» (scorporo dei terreni). Tali « semineri » (che erano poi quei terreni che davano la resa di meno di 7 quintali per ettaro) « potevano » esser lottizzati e assegnati ai contadini. Erano le terre povere che sarebbero andate ai poveri. Non si parlava d'opere di « bonifica obbligatoria » da parte dello Stato o della Regione, ma l'Ente Riforma agraria in Sicilia, che veniva a sostituire l'Ente di colonizzazione del Latifondo, s'assumeva il compito « di assistere gli assegnatari dei terreni nella progettazione ed esecuzione delle opere di miglioramento fondiario » (art. 45). Era la Legge del 1940, riveduta e peggiorata· dopo dieci anni perduti inutilmente. La voluta, lunga gestazione della legge aveva consentito ai proprietari d'aggiustare con calma le loro cose. I notai dell'isola ebbero un bel po' da fa re, con una quantità di Atti, che sistemarono le cose in modo che la Regione comprasse quelle terre che i proprietari volevano cedere e a prezzi supervalutati . Forse, non per caso, la legge di Riforma agraria fu varata dalla Giunta di governo presieduta da Restivo, uno dei maggiori latifondisti dell'isola. Non solo, ma dovevano passare altri due anni prima che venissero assegnate le terre. Solo il 19 ottobre 1952 cominciarono àd essere assegnati i poderi: a Francavilla, Contessa Entellina, Montemaggiore e Castronovo. Quel giorno venne definito un « avvenimento storico celebrato con solennità ». Il risultato della cosiddetta Legge di Riforma Agraria e di altre tre leggi agrarie regionali, è nelle seguenti cifre: creazione di n . 24.956 poderi, per un totale di ettari 99.241 (con una media di ettari 4 a podere) su complessivi 112.822 ettari conferiti. Si potrebbe affermare che, quanto meno, furono accontentate 25.000 famiglie contadine. Ma non fu cosL Nella maggior parte dei casi, un podere di 4 ettari di « seminerio », terra sempre ingrata, arida e collinare, significavano un produzione di una trentina di 2

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quintali di frumento, quando si e quando no, per anno. Un ergastolo di miseria. A parte il fatto che, spesso, l'assegnazione dei poderi venne fatta col solito sistema delle raccomandazioni politiche e delle pressioni mafiose. Buona parte dei poderi furono dati a prestanome, tirapiedi, galoppini, battitacchi e ruffiani piu o meno politici. I poderi furono dati a tutti, tranne che a veri contadini, che ne avevano pieno diritto. Valga un esempio: nell'assegnazione di quote del feudo Polizzello di Mussomeli, in provincia di Caltanissetta, il patriarca mafioso Giuseppe Genco Russo si fece assegnare, tramite prestanome, un buon numero di lotti. Buona parte degli altri assegnatari non furono i contadini, ma possìdenti, ragionieri, pensionati, commercianti, fornai, usurai, impiegati pubblici, autisti, mugnai, fabbri, barbieri, calzolai, muratori, macellai, sarti. E ancora: un brigadiere di PS in pensione, un carabiniere e una guardia di finanza « in servizio», e un sacerdote: Don Calogero Cimò, « parroco della chiesa di San Enrico, proprietario di altre terre »! 6 L'ERAS, che aveva il compito di procedere agli acquisti dei terreni e all'assegnazione dei lotti, diede subito « un quadro generale d'improvvisazione, di incapacità, d'impotenza e di corruzione », con la presenza « di funzionari e di impiegati amici degli amici immessi nell'apparato dell'ERAS, naturalmente senza concorso ».7 Come dire che la mafia lasciava il feudo per entrare nella camera dei bottoni, negli uffici responsabili dell'applicazione della legge agraria e della gestione dei suoi benefici. L'ERAS pagava a prezzi supervalutati i terreni, avvantaggiando anche la mediazione mafiosa dei capi cosca. Ma proprietari e gabellotti vennero a disporre lo stesso d'ingenti somme che furono in parte utilizzate per l'acquisto di aziende agricole nell'America meridionale, per il resto furono investite nella speculazione edilizia delle grandi città, frutto del felice connubio mafia-politica. Inoltre contributi e finanziamenti sono rimasti sempre appannaggio dei ricchi, dei proprietari con entrature, di « sagaci» imprenditori, di pseudo cooperative legate ai carrozzoni politici. Poco o niente toccò al piccolo agricoltore. A contadini , anche a coloro che avevano ottenuto dalla Riforma un gramo podere, non restò altra via che quella dell'emigrazione. 6 Cfr. Relazione conclusiva Commissione Antimafia, Memoriale presentato dalla Federazione del PCI di Caltanissetta, doc. XXIII, n . 2, Roma, 1976,

p . 615 sgg.

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7

Cfr. Relavone conclusiva Commissione Antimafia, cit. Memoriale trasmesso il 18 gennaio 1964 dalla Federazione del PCI di Agrigento e di Sciacca, 736.

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Uno spreco suicida, anche se praticato da un popolo molto prolifico. Avvenne lo stesso fenomeno che si era verificato all'inizio de] secolo. Piu di un milione di siciliani fecero fagotto e lasciarono l'isola. Presero il « cammino della speranza », per finire nelle baraccopoli per lavoratori stranieri o nelle periferie degradate delle città nordiche.


XV. L'ASSEMBLEA REGIONALE SICILIANA. PORTELLA DELLE GINESTRE « Il "Caso Giuliano" quando lo Stato incominciò a mentire... una linea di condotta che i politici. italiani, soprattutto quelli al potere, hanno continuato a seguire provocando... un vero e proprio imbarbarunento. » (LEoNARDO ScIASCIA, « Domenica del Corriere », 3 aprile 1982)

Alla fine del 1946 la situazione italiana permaneva grave. Il paese era nella morsa dei soliti guai : disoccupazione, inflazione, disordine, crisi economica, confusione politica. Il governo viveva alla giornata, vittima della tattica compromissoria, frutto di larghe e ibride alleanze politiche. La democrazia italiana, appena rinata, veniva meno al dovere d'una chiara attribuzione di posizione agli schieramenti politici, della giusta distribuzione dei compiti tra maggioranza che governa e opposizione che controlla e, ove necessario, contrasta l'opera della maggioranza governativa. Tutti i partiti politici, dal liberale al comunista, facevano parte del governo. In un caos di ideologie e di programmi avversi e contrastanti. I giornali ripetevano l'inutile affermazione di sempre: « Il governo difenderà la Jira a ogni costo ». Nell'isola, oltre alla grave tensione contadina, alla generale crisi economica, v'era la preoccupante situazione dell'ordine pubblico. Che a detta del generale dei carabinieri Branca (rapporto citato del 9 ottobre 1946) assumeva un « aspetto pauroso». Il generale, come se non bastassero i numerosi Tribunali militari imperversanti, riteneva necessari nuovi « provvedimenti eccezionali». Inoltre, Branca scopriva che la mafia, « come prima del fascismo», era riuscita ad imporsi « nelle attività economiche, nella vita dei privati e in quella pubblica. Appoggiandosi a vari partiti politici e traendone protezione ».1 V'era poi preoccupazione politica per la soluzione dei problemi 1

L'escalation criminale in Sicilia porta i seguenti numeri di reati accer-

tati:

1943 1944 1945 1946

n. n. n. n.

79.620 135.866 138.081 150.010

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connessi alla futura autonomia. L'Assemblea Costituente prendeva tempo e cercava di rimandare l'applicazione del decreto del 15 maggio, demandando a un'apposita Commissione il compito di elaborare un testo di Statuto autonomistico valido nel futuro per tutte le regioni italiane. Infine, dal 6 ottobre al 24 novembre, si svolse il secondo ciclo di elezioni amministrative. Ancora una volta l'affluenza alle urne fu scarsissima; non superò il 40% degli aventi diritto al voto. I risultati confermarono la DC partito leader dell'isola, con 43 comuni conquistati da sola o con alleanze. I socialcomunisti ebbero un'importante affermazione, con 33 comuni da amministrare. I partiti minori vinsero in altri 33 comuni, mentre 36 municipi andarono a liste civiche locali. Palermo ebbe un sindaco di destra, il qualunquista Gennaro Patricolo che fu alla testa di una coalizione di liberali, monarchici e qualunquisti. La maggioranza di destra prevalse anche a Catania e a Messina. Mentre a Ragusa socialisti e comunisti ebbero una vistosa affermazione. Le elezioni confermarono il declino del movimento indipendentista. Dopo la consultazione elettorale, l'attività dei partiti continuò ad assestarsi e ad accrescersi. Con l'avvicinarsi della fine dell'anno il M.I.S . si preparò al suo terzo Congresso nazionale. Il M.I.S. oltre a soffrire la delusione elettorale, fin dall'estate era travagliato da una profonda crisi di vertice. Il segretario del movimento, Varvaro, s'era dimesso dalla carica in segno di protesta per le affermazioni fatte da Finocchiaro Aprile nel suo primo intervento alla Costituente. In tale occasione il leader separatista oltre ad accusare di intrallazzi d'ogni genere Aldisio e Mattarella e denunciare le torture inffitte ai giovani separatisti arrestati, aveva avuto parole d'elogio per il partito comunista. Aveva indicato in esso l'unica forza politica italiana «efficiente». Aveva anche aggiunto che nelle file del M.I.S. v'era una maggioranza che simpatizzava per il socialcomunismo. Era dunque inutile opporsi « all'avanzata trionfale del comunismo ». Finocchiaro Aprile aveva terminato il suo intervento invitando Togliatti a prendere sollecitamente il potere « perché le donnacole democristiane non avrebbero potutO-....Qpporsi alle forze comuniste ». A questa uscita di Finocchiaro Aprile la « destra » del M.I.S. tacque; fu il capo della corrente di sinistra, il «progressista» Varvaro, a reagire con inspiegabile furore e con le dimissioni dalla carica (anche se presto avrebbe militato nelle file del PCI). In realtà Varvaro, che da tempo puntava alla presidenza del M.I.S., s'accorse che stava per essere scavalcato a sinistra da Finocchiaro Aprile. Se avesse taciuto senza reagire non avrebbe piu potuto mantenere la posizione d'unico interlocutore con i partiti di


s1rustra e la sua azione di avvianamento e di collaborazione col PCI sarebbe stata annullata. Il giorno dopo il discorso, Varvaro scrisse a Finocchiaro Aprile una lettera di completo dissenso che terminava cosi: « ... il suo discorso di ieri sera mi dimostra che la frattura fra il nostro punto di vista è inevitabile e, ormai, insanabile». Dopo di che Varvaro, per sottolineare la sua posizione, abbandonò il gruppetto dei deputati separatisti alla Costituente e prese posto fra i deputati del gruppo misto. Il movimento indipendentista tenne il suo terzo Congresso a Taormina, dal 31 gennaio al 3 febbraio. Il Congresso si presentò agitato dalla notizia che Varvaro e altri dissidenti avevano deliberato che il M.I.S. prendesse il nome di Movimento Indipendentista Siciliano Democratico Repubblicano (M.I.S.D.R.) e che una missione di dissidenti si sarebbe presentata alla manifestazione di Taor-

mina. La Commissione, « pur non riconoscendo la legittimità del Congresso», avrebbe presentato « un ordine del giorno che vi riaffermi l'indirizzo intransigentemente repubblicano». Il Comitato Nazionale del M.I.S. chiese a Varvaro e ai suoi runici una dichiarazione di riconoscimento della « legalità del Congresso stesso e di presenziare ai lavori in qualità d'indipendentisti >>. Questa soluzione venne avversata dal nuovo segretario del movimento, il giovqne e battagliero Attilio Castrogiovanni che lanciò contro Varvaro una precisa accusa di «tradimento». In quanto alla pregiudiziale repubblicana, Castrogiovanni ricordò ai presenti che, nel passato, V arvaro non solo era stato contrario ad essa ma, al tempo del Referendum, era stato fra coloro che « avevano consigliato di votare per la monarchia ». L'assemblea incaricò il Comitato di procedere disciplinarmente contro Varvaro e gli altri dissidenti. Invitato a discolparsi, Varvaro ignorò l'invito e disertò la seduta. Il Congresso espulse Varvaro dalle file del Movimento, con il solito, inutile invito di restituire il mandato parlamentare. Con la scissione il M.I.S. accelerava la sua parabola discendente. Il Congresso di Taormina approvò poi una carta dell'Indipendenza della Sicilia, un documento basato su dodici punti. Esso ribadiva il diritto della Sicilia a diventate uno « Stato indipendente sovrano, democratico, antitotalitario » ed auspicava una confederazione « con lo Stato o con altri Stati italiani ed eventualmente con altri Stati mediterranei o europei». Allo Stato siciliano, e al suo popolo, erano riservati tutti i diritti inerenti alla difesa del paese, la scelta delle norme legislative ed esecutive, l'imposizione e la riscossione di tasse, imposte e tributi, l'emissione di prestiti, 279


la determinazione di Monopoli di Stato, della politica doganale e del sistema monetario. La Costituzione siciliana avrebbe garantito agli isolani libertà civili e politiche, una « stabile occupazione » con retribuzione « tale da garantire a tutti i lavoratori un dignitoso livello di vita». Sistemi di previdenza e assistenza « per garantire a tutti pensione per invalidità e vecchiaia, e l'assistenza gratuita in caso di malattia », nonché l'istruzione gratuita obbligatoria « fino al sedicesimo anno di età ». Infine era previsto il ricorso a « Referendum popolari per modifiche sia legislative che costituzionali ». Concetti e parole che troveremo poi ampliati e sviluppati nella Costituzione della Repubblica italiana. Mancava solamente il riferimento alla « Tutela del paesaggio» che, come noto, è uno dei pilastri della saggia costituzione della repubblica italiana. Mentre si avvicinava la data per le elezioni dell'Assemblea regionale siciliana, aumentavano i tentativi per fare rimandare la consultazione elettorale. Specialmente da parte dei due partiti venuti fuori dalla scissione socialista del 9 gennaio 1947 : il PSI di Nenni e il PSLI (Partito Socialista dei Lavoratori Italiani) di Saragat, quest'ultimo sorto dietro sostanziose pressioni occidentali e in avversione alla stretta politica di alleanza e collaborazione socialista col PCI. La campagna elettorale per la prima assemblea regionale ebbe un sanguinoso inizio con i violenti disordini di Messina del 7 marzo, causati da uno sciopero generale di protesta per l'aumento delle imposte di consumo. Una folla di almeno diecimila persone si radunò davanti alla Prefettura e iniziò una fitta sassaiola. Venne anche tentata l'invasione dell'edificio, ma la forza pubblica apri il fuoco e sul terreno rimasero due morti e un numero imprecisato di feriti. Poi i comizi elettorali si svolsero in un clima abbastanza sereno e disteso. Unica eccezione fu l'incivile gazzarra organizzata contro De Gasperi a Messina. Urli e fisciù impedirono al presidente del Consiglio di tenere il comizio di chiusura del 18 aprile. Era ormai chiaro che la lotta politica non sarebbe piu stata civile, cavalleresca e qualche volta spiritosa come ai vecclù tempi. Quando si verificavano episodi come quello occorso a Felice Cavallotti a Palermo. Chiamato a sostenere una lista elettorale locale vagamente progressista il « bardo della democrazia » tenne un comizio alla Fieravecchia. La manifestazione aveva riclùamato una gran folla di amici, oppositori e forza pubblica. Cavallotti cominciò il suo dire con le parole: « Popolo di Palermo forte e gentile ». Ma venne interrotto dagli oppositori con 280


un assordante tuonare di pernacchie. Tornato il silenzio e ripresa la parola Cavallotti ricominciò: « Popolo di Palermo piu forte che gentile! ». Fra la folla scoppiarono gli applausi e il comizio ebbe luogo tranquillamente. Il 20 aprile 1947 i siciliani andarono alle urne per eleggere la prima Legislatura dell'Assemblea Regionale. Su 2.571.022 elettori ne votarono 2 .052 .067 (79 ,81 % ); i voti ritenuti validi furono 1.948.025. Socialisti e comunisti, uniti nella lista del Blocco del Popolo, colsero uno strepitoso successo per aver sposato la causa contadina e conseguirono la maggioranza relativa con 29 deputati e 590.881 voti (quasi il 30% dei voti espressi). La DC subi un pesante calo sulle elezioni del 1946, prese 399.182 voti (contro i 643.649 del 1946) e ottenne 20 deputati (20,52% ); 14 furono i deputati del Blocco democratico-liberal-qualunquista; 9 quelli del Partito Nazionale Monarchico; 4 il PSLI; 3 il PLI; 2 l'UD.N. (Unione democratica nazionale) e uno il Fronte dell'Uomo Qualunque. Il Movimento per l'Indipendenza, alla cui iniziativa politica e alla minacciosa e violenta attività si doveva la raggiunta autonomia, ebbe 8 deputati. Era chiaro che i siciliani cominciavano a esser stanchi di tante lotte e di tanto sangue versato. Adesso, paghi dell'ottenuta autonomia, volevano vivere in pace e dimenticare tutto. Varvaro e il suo M.I.SD.R. ebbero un clamoroso insuccesso senza ottenere seggi. Avvenne però un fatto sintomatico; Varvaro prese voti soltanto nella bollente « zona Giuliano» mentre il M.I.S., nella stessa zona, prese un numero irrilevante di voti. Si legge nella Relazione della Commissione Antimafia: 2 « Montelepre votò compatta a favore del M.I.S.D.R. e non si può dubitare che Montelepre, comunque si voglia interpretare quest'espressione, vivesse sotto l'influenza di Giuliano... Anche Partinico e Giardinello risposero all'appello di Giuliano votando a favore del candidato del M.I.Sn.R. [Varvaro] ... Gli abitanti di San Giuseppe Jato, di San Cipirello e di Piana degli Albanesi votarono compatti a favore del Blocco del Popolo. »

Gli elettori di Piana degli Albanesi furono addirittura impietosi verso Varvaro e il M.I.S .D.R.: gli diedero 13 voti contro i 2 .739 rovesciati sul Blocco del Popolo. Dodici giorni dopo le elezioni che avevano sancito l'autonomia concessa alla Sicilia, il 10 maggio 1947, avvenne la strage dei contadini a Portella delle Ginestre. Una strage assurda, ancora oggi 2

Cfr. doc. XXIII, n. 2, sexies, p. 33. 281


impossibile da capire e da spiegare, che destò sdegno e commozione in tutto il paese. In Sicilia la gente ha festeggiato da sempre l'inizio del mese di maggio. È una tradizione che affonda le sue radici nelle antiche feste campestri di inizio della primavera. Alla fine dello scorso secolo, all'epoca dei Fasci siciliani, la festa aveva assunto un aspetto vagamente politico per i contadini di Piana degli Albanesi, San Cipirello e San Giuseppe Jato che presero a radunarsi a Portella delle Ginestre. Una sella pietrosa che serve da passo fra il Monte Pelavet {o Pizzuto) e il Monte Kumeta (o Cometa). Portella vuol dite, appunto, valico o passo. A Portella i contadini, oltre che godersi una serena «scampagnata» solevano ascoltare la parola d'uno dei maggiori esponenti del Fascio, il medico Nicola Barbato, che dedicò la sua esistenza alla causa dei diseredati contadini. Quel 1° maggio 1947 la gente cominciò ad arrivare di buon'ora a Portella, verso le 7 del mattino. Le famiglie contadine arrivavano con carretti, traini, biciclette. E sulle cavalcature. Con tante bandiere: tricolori, rosse, a strisce, delle antiche tdbu albanesi. Tutti cantavano vecchi e nuovi inni, vecchie e nuove canzoni. Piu che di una manifestazione politica, si trattava d'una giornata di pace ·e di onesto svago. Una lieta festa campestre, un sereno ritrovarsi fra amici e parenti. La gente si sparse per la distesa, cominciò a formare allegri gruppi mentre i bambini giocavano. In attesa di consumare la colazione portata da casa e qualche altro cibo distribuito dalle organizzazioni sindacali. Nel corso della giornata era previsto un comizio per festeggiare la vittoria elettorale delle sinistre. Con oratori che dovevano venire da Palermo. Nessuno dei presenti poteva immaginare che quel giorno di festa si sarebbe tramutato in un giorno di orrore, un giorno maledetto, segnato dal sangue e dal pianto. Che gli assassini, pronti a sparare, erano appostati sulla montagna fin dall'alba. Le ore passarono senza che si avesse notizia degli oratori che dovevano venire da Palermo. Venne allora deciso che, a comme· morare la giornata festiva, fosse il segretario socialista di San Giuseppe Jato, un calzolaio di nome Giacomo Schirò. Quando si fece l'ora del comizio, la gente cominciò ad adunarsi attorno a una roccia contornata da un muretto di pietre. La roccia è ancor oggi chiamata « il podio di Barbato » perché da questo sito, per molti anni, il buon medico di Piana aveva parlato ai contadini in festa. L'improvvisato oratore ebbe appena il tempo di pronunciare le prime parole: « Amici! Compagni! ... », quando si udi un primo sparo, seguito da altri, da prolungate raffiche di mitragliatrice.


Per un attimo si credette che fossero fuochi di festa, mortaretti. Ma la gente attorno al podio cominciò a cadere insanguinata. La folla in preda al terrore si disperse in cerca di scampo e di riparo. Si buttò a tetra, fra le rocce, gli animali si diedero alla fuga travolgendo ogni cosa. La sparatoria sembrava venire dal Pelavet; fu breve anche se ai testimoni sembrò un'eternità (dissero: 10 o 15 minuti). Quando gli spari finirono e si compi la tragedia, l'aria risuonò di pianti e di lamenti. Gli strazianti nitriti delle cavalcature ferite riempirono la valle di maggiore orrore. Un'indescrivibile scena di dolore era calata sulla distesa che fino a pochi minuti prima aveva risuonato di canti e di voci infantili. Sull'erba insanguinata giacevano i corpi di undici morti e di ventisette feriti gravi, straziati dai proiettili e dalle rocce scheggiate. Fra le vittime v'erano donne, vecchi, bambini ... Furono raccolti pietosamente, messi sui carretti, e un dolorante corteo si avviò verso Piana, verso San Giuseppe Jato.3 Il feroce massacro di Portella provocò l'immediato convergere nella zona d'imponenti forze di polizia. La stessa sera ebbe luogo un summit delle autorità presso la Prefettura di Palermo. L'ispettore di PS Messana affermò che la strage era stata sicuramente effettuata da Giuliano e dalla sua banda. Li Causi gli chiese come facesse a saperlo e Messana accennò a comunicazioni di confidenti (ma pare che i due fossero sul chi vive da qualche giorno. Messana era stato avvertito dal suo confidente Ferreri, mentre Li Causi era stato apertamente sfidato da Giuliano a venire a Portella delle Ginestre). In quei giorni avvennero arresti in massa in tutta la « zona Giuliano ». A Partinico centinaia di fermati furono rinchiusi in grandi magazzini e l.f rimasero in attesa degli interrogatori. Uno dei fermati mori in circostanze misteriose. Infine quattro persone, tutte di San Giuseppe Jato: Giuseppe Troia, Elia Marino, Salvatore Romano e Pietro Gricoli furono arrestati. Essi venivano indicati dalla voce pubblica come gli autori del massacro e furono riconosciuti come tali anche con precise testimonianze che poi risultarono false. Questa gente venne messa in galera solo per calmare l'opinione pubblica. 3 Parecchi feriti di Piana degli Albanesi furono assistiti e curati dal dottor Raccuglia, un bravo medico malvisto dalla classe dominante del paese, specialmente dal clero greco-cattolico, che gli rimproverava un'eccessiva simpatia per il gentil sesso. Raccuglia, inoltre, era un « fascista. » dichiarato. Nel suo ambulatorio campeggiava un grande ritratto di Mussolini. Man mano che i feriti venivano curati si sentivano dire: « Sei convinto che quando c'era Lui queste cose non succedevano? Adesso fagli il "saluto" e vai con Dio! ».


I carabinieri affermavano che « l'azione terroristica devesi attribuire a elementi reazionari in combutta con la mafia». Messana ribadiva che « confidenti sicuri avevano avvertito subito che l'autore era stato Giuliano, ma non si poteva escludere che l'idea dell'azione criminosa era stata ispirata da qualche elemento isolato, in stretta inconfessabile relazione col bandito». Il 2 maggio ebbe luogo alla Costituente una seduta tumultuosa. Il ministro dell'Interno Scelba negò che si potesse trattare d'un delitto politico; Mattarella parlò di « criminalità al servizio di interessi di casta». Li Causi raccontò che cos'era accaduto a Portella: « Ho visto coi miei occhi, quanto è avvenuto in quella zona, che conosco di persona, perché l'anno scorso, sono stato io a Portella a celebrare il 1° maggio. Ho visto una bambina di tre anni trucidata, cinque orfani, impietriti dall'orrore, attorno alla madre morta. Ho visto una vecchia di 73 anni ferita, ho visto giovani di 16 anni con le carni lacerate. E raccontava, quella vecchia, in siciliano: "Quando ho sentito sparare ho battuto le mani, perché credevo che fossero mortaretti di gioia"». Mentre carabinieri e polizia continuavano le loro indagini in tutte le direzioni, la notte &a il 22 e il 23 giugno, in quella che veniva definita la « zona Giuliano», avvenne una serie d'aggressioni e di spettacolari attentati contro sezioni del PCI che costarono la vita ad altra povera gente innocente. Pare che la decisione di Giuliano di procedere a una « notte dei fuochi » contro le sezioni del PCI sia stata comunicata agli uomini della banda in una riunione tenutasi a Belvedere (o a Testa di Corsa). Fu detto agli uomini che la lotta iniziata da Giuliano doveva fare scomparire i comunisti dalla Sicilia. Se il comunismo avesse avuto il sopravvento sarebbe stata la rovina per tutti, ma specialmente per quelli di Montelepre. Dopo di che si passò all'azione diretta. La sera del 22 giugno, alle ore 22, mentre il paese era in festa e la banda teneva un concerto nella piazza di Partinico, la sezione del PCI fu attaccata con raffiche di mitra e con lancio di bombe e bottiglie incendiarie. Nella furiosa sparatoria rimasero uccise due persone e quattro furono ferite. (Il feroce sparatore fu Giuseppe Passatempo, detto « il boia» della banda ma, chissà perché, il delitto venne addebitato al fratello Salvatore.) Accanto alla sede attaccata furonQ trovati volantini, a firma Giuliano, che dal suo quartier generale cli Sagana incitava la gente ad aderire alla sua « crociata antibolscevica ». Un'ora dopo la sparatoria di Partinico, anche la sede di Carini fu presa di mira con spari, bombe e ordigni incendiari; gli assalitori, una diecina, sparirono lasciando volantini uguali a quelli di Partinico.


Alle 2.3,30 due individui, in divisa di carabinieri, spararono raffiche contro la porta della sezione comunista di Borgetto. Nello stesso momento, a San Giuseppe Jato, entravano in azione quattro sconosciuti. Fecero allontanare dalla strada i passanti e spararono contro la porta della sezione « picd ». Una pallottola vagante andò a ferire una donna. Gli attentati continuarono durante la notte. Alle 2,15 dd 23 giugno qualcuno cosparse di petrolio la porta della sezione della Camera dd Lavoro di Monreale e vi appiccò fuoco; e alle .3,45 un ordigno esplose davanti la sede del PCI di Cinisi. Ormai le forze di polizia erano convinte che a sparare a Portella era stato Giuliano. Si venne a sapere che il giorno del massacro era scomparso un campiere della zona, tale Emanuele Busellino (il campiere, fermato dai fuorilegge era stato « giustiziato » come spia perché trovato in possesso d'un biglietto di convocazione dei carabinieri. Ad assassinare il Busellino era stato il « confidente di polizia » Ferreri!). Sempre lo stesso giorno, quattro cacciatori, in giro per la montagna, erano stati fermati e disarmati da sconosciuti che li avevano trattenuti per tutta la mattinata. I cacciatori riconobbero in una foto di Giuliano uno degli armati che indossava un impermeabile bianco. Aggiunsero che dopo la sparatoria uno dei fuorilegge aveva detto a un altro: « Disgrazziatu! chi facisti!? » . Con il fermo e il successivo arresto di un mezzo parente di Giuliano, tale Francesco Gaglio detto «Reversino» (era fidanzato di una cugina del bandito ed era stato testimone delle « segrete » nozze fra Mariannina Giuliano e Pasquale Sciortino} si cominciò a capire qualche cosa. Vennero fuori i primi nomi. Il processo che fece seguito alla strage si tenne alla Corte d' Assise di Viterbo e durò anni, dal giugno 1950 al maggio 1952. Si è potuta avere la conferma che fu Giuliano a preparare, organizzare, ordinare e a far eseguire l'agguato. All'inizio del processo il fuorilegge era ancora vivo e latitante. Scrisse una lettera assumendosi la responsabilità dell'accaduto. Turiddu cercava però di giustificarsi. Scriveva di non aver mai agito contro uomini inermi, che non avrebbe potuto sparare contro gente della sua « stessa classe», di non fare il gioco dello ~< schiavismo della bassa plebe ». Aggiungeva: « ... non sono un vile... ho affrontato intere colonne di carri blindati», precisava che l'azione era rivolta contro « i comunisti che istigano i contadini a fare la spia ». La lettera precisava che la sparatoria avrebbe dovuto essere incruenta, di intimorimento. Che i proiettili avevano colpito la folla per un deprecabile errore: « a qualcuno dovette tremare la mano o non seppe regolarsi bene». L'azione avrebbe dovuto culminare con


la cattura di Li Causi e di qualche altro esponente comunista, da sottoporre a giudizio sommario e poi, davanti alla folla contadina, giustiziare! A parte il fatto che ancora deve nascere chi può convincere un contadino siciliano a farsi spia (« Fra i siciliani non vi sono spie » aveva autorevolmente detto Garibaldi nel 1860), Giuliano non spiegava come avrebbe potuto catturare Li Causi e gli altri, in mezzo a una folla di migliaia di persone, almeno due o tremila, dei quali una buona parte, secondo la buona e antica tradizione isolana, aveva il fedele « dubotti » a tracolla. (Senza contare una dozzina di carabinieri in servizio di « ordine pubblico » che, presenti alla sparatoria, non reagirono.) Ma c'era del vero nelle affermazioni di « Turiddu ». I morti e i feriti furono tutti colpiti dai proiettili d'una sola arma, un'arma da guerra, difficile da usare e da maneggiare. Un fucile mitragliatore Breda. Arma che, secondo il parere espresso dalla sentenza di Viterbo, era stata azionata dallo stesso Giuliano. Ma non era stato Turiddu a sparare, hensi il solito « boia » Giuseppe Passatempo. Giuliano aveva appreso da qualcuno, salito dalla strada, che Li Causi non era venuto alla Portella, e aveva dato ai suoi uomini l'ordine di ritirata. A questo punto Passatempo, che stava alla mitragliatrice, s'era messo a gridare: « E che? ce ne dobbiamo andare cosf, senza fargli prendere un po' di cacazzu (spavento) a questi cornuti? ». E s'era messo a sparare, imitato dagli altri che avevano scaricato le loro armi in aria. Giuliano, col binocolo, aveva visto cadere le persone giu nella Portella. Era corso allora dallo scatenato mitragliere e gli aveva sferrato un calcio nella schiena facendolo smettere di sparare. La perizia balistica aggiunse che chi usò il fucile mitragliatore « o non seppe adoperarlo o non volle usarlo bene », altrimenti il numero delle vittime sarebbe stato di gran lunga maggiore. Gli altri partecipanti alla sparatoria usarono mitra la cui gittata era insufficiente per raggiungere la folla, giu nella valle (circa 500 metri) e moschetti. Ma nessuna delle vittime fu raggiunta da proiettili usciti da tali armi. Buona parte della sanguinosa vicenda è rimasta sempre avvolta nd piu completo mistero. Né il dibattimento e la successiva sentenza sono serviti a diradare la caligine. Le indagini, gli interrogatori, le confessioni, le ritrattazioni, l'istruttoria, tutto il processo insomma, furono palesemente e totalmente inquinati. La corte di Viterbo si vide costretta ad ammettere che, da parte degli ufficiali di polizia giudiziaria, vi fu « una manomissione della norma giuridica con cui è disciplinata la loro attività durante la fase preparatoria delle indagini ».

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Nessuno dei testimoni, degli inquirenti e degli imputati, disse « tutta » la verità, ma una parte di essa, quella piu conveniente. E vi mescolarono una quantità di evidenti menzogne. Si dilungarono a raccontare quantità imponenti di particolari, di inutili dettagli, ma rimasero ostinatamente silenziosi sui fatti piu importanti. Gli indiziati e gli imputati cercarono d'addebitare le colpe ai morti, si accusarono e si scagionarono a vicenda. Negarono fatti evidenti e confessarono altri gravi fatti, fino ad allora ignorati, che sarebbero potuti restare tali. Un groviglio inestricabile di mezze verità e di mezze bugie. Gli imputati tennero un comportamento spesse volte insensato, dettato dalle suggestioni, dalla paura, dalla giovane età, dall'inesperienza, dall'ignoranza, dalla furbizia contadina, dal senso di omertà, dai suggerimenti degli avvocati. Tutti dissero d'avere confessato per le torture subite. Indicarono i luoghi di tortura: Caserma di San Vito, Cardillo, Comando Legione ... Venne fuori un impressionante elenco di sevizie: percosse, suggestioni, legnate, bruciature con sigarette, stringimento dei testicoli, scariche elettriche, cassetta, acqua e sale, letto di contenzione e altri atti degradanti... . Santo Mazzola disse ai giudici che gli ripugnava riferire le torture che gli erano state inflitte (gli avevano strappato le unghie dei piedi con una tenaglia), Gaglio «Reversino» aveva. subito l'atrofizzazione di un testicolo in seguito a stringimento. Mannino aggiunse: « Maltrattamenti? Sono rimasto soltanto 120 giorni legato mani e piedi alla sbarra di un letto. Centoventi giorni. Sempre legato, notte e giorno! ». I giudici di Viterbo riconobbero con tristezza: « Usare la violenza contro chi si trovi a disposizione ddla pubblica sicurezza, intendendo questa espressione in modo generico, si da comprendere tutte le forze di polizia, quando un rapporto di soggezione viene a costituirsi tra agente e fermato o arrestato, è cosa che ripugna ad ogni coscienza... l'uso della violenza dovrebbe scomparire dai metodi di polizia giudiziaria... »

Parole buttate al vento, che svolazzano inutilmente ancora oggi. Durante il processo si poté appurare che alcuni giorni prima del massacro di Portella il cognato di Giuliano, Sciortino, aveva consegnato a Turiddu una lettera che gli era stata data dalla madre del bandito. Non si è mai potuto conoscere il contenuto di questa lettera. (Pare che essa non sia mai esistita; fu Genovese a parlarne; i familiari del bandito avevano in un primo tempo negato, poi dissero che forse si trattava d'una banale lettera giunta dal1'America. Giovanni Genovese aggiunse che Giuliano, dopo aver


letta la lettera la bruciò e disse ai « picciotti »: « È giunta l'ora della nostra liberazione ».) La sera del 30 aprile v'era stato alla « Finocchfara » (Cippi) il raduno degli uomini della banda, e dei « complementi » reclutati per l'occasione. Ma poi non si è potuto sapere se tutti i radunati andarono quella notte sul monte Pelavet. Né quando, come e a chi furono distribuite le armi, anche perché pare che le armi furono portate al Pelavet a dorso di mulo. Turiddu, nella lettera scritta alla Corte di Viterbo, precisò che a sparare era stato lui stesso e altri dodici uomini. Ma non fece i nomi di questi uomini (Le « lettere » e i « memoriali» di Giuliano sono sempre da prendere con cautela o diffidenza.) Undici furono le postazioni di sparo, con mucchietti di bossoli vuoti, piu di 800, individuati sul Pelavet. Ma anche sul Kumeta furono trovate uguali postazioni e si ebbe la impressione, ma non la conferma, che un altro gruppo avesse sparato da questa montagna e che i contadini fossero stati presi sotto un tiro incrociato. Oltre alla « banda Giuliano effettiva», alla spedizione avevano preso parte almeno quindici ragazzi, « quindici picciotti » reclutati all'ultimo momento. Essi furono assolti, dopo cinque anni di carcere, « per avere agito in stato di costrizione, per salvarsi da un pericolo attuale di un danno grave alla persona ». Questi ragazzi erano stati armati con moschetti; dissero di non avere sparato o di avere sparato in aria. In ogni modo, i loro colpi non raggiunsero la gente della vallata, la perizia necroscopica e quella balistica la confermarono. Gli elementi effettivi della banda, i « big », negarono sempre «ostinatamente» d'avere preso parte alla strage. Essi mostrarono orrore ed ebbero parole di condanna per il terribile massacro. Tutti presentarono alibi che la Corte respinse. Pisciotta disse che quel giorno, come spesso gli capitava, era a letto ammalato. Aggiunse che le sue condizioni di salute (era tisico) non gli avrebbero permesso d'affrontare la lunga e faticosa scarpinata per raggiungere il posto dell'agguato. Pasquale Sciortino, che dal 24 aprile era in luna di miele (Giuliano Io aveva fatto sposare alla sorella Mariannina), al processo era latitante. I suoi avvocati fecero sapere che nei giorni del massacro, Sciortino era a letto sofferente per un attacco di appendicite acuta. Anche Gaglio disse che a quei tempi era ammalato di pleurite. Terranova, Mannino e Francesco Pisciotta negarono recisamente e con parole di sdegno. Dissero di non aver voluto partecipare alla spedizione; per tale motivo si erano allontanati da Montelepre per andare in una località distante, nel comune di Camporeale. Terranova precisò alla Commissione antimafia: 288


« Giuliano mi chiama e mi dice che dobbiamo sparare a Portella delle Ginestre... Io ero un operaio della zappa... la gente che va a Portella sono operai... gli dico che sarebbe stato un tradimento, una cosa sbagl,iata, una cosa inumana, insana... c'è fra noi un certo attrito ... allora cosa decisi di fare? avvisai i miei compagni e dissi di andar via dal paese.... ~

Badalamenti presentò un altro alibi. Giuseppe Cucinella, silenzioso per natura, continuò a ripetere la sua frase abituale e preferita: « Mi rimetto alla giustizia della Corte». E il fratello Antonino, molte volte rinchiuso in manicomio, precisò che all'epoca dei fatti di Portella si trovava in Tunisia. I fratelli Genovese reagirono con fermezza all'accusa. Il piu anziano, Giovanni, aggiunse sdegnato che non avevano ragione di prender parte al delitto, perché nessuno poteva affermare la loro appartenenza alla banda. « Noi siamo banditi indipendenti » concluse,« e non prendiamo ordini da nessuno, tantomeno da Giuliano» . (Ma forse Genovese gli ordini li prendeva dalla polizia.) A confondere le acque del processo ci si misero anche gli avvocati. Con scenate, continue dispute fra di loro, tortuosi consigli e intricati suggerimenti agli imputati. L'avvocato Anselmo Crisafulli difese gratuitamente 17 imputati. (Alla Commissione Antimafia: Terranova: « Onorevole, l'abbiamo avuto un difensore noialtri? Ne ha difesi diciassette, senza denari! ». Li Causi: « Crisafulli? ».) Da parte sua la Corte annaspava in mezzo a quintali di incarta· menti, a deposizioni sempre piu confuse, contraddittorie, insensate. Quando poi nella gabbia grande, quella dei big (nella piccola v'erano gli imputati minori), giunsero gli ultimi arrestati: Pisciotta, Mannino, Madonia, Badalamenti... il processo divenne incandescente. Raggiunse il parossismo della confusione quando Pisciotta s'autoaccusò della morte di Giuliano e fece il nome dei presunti mandanti del massacro, tutti noti uomini politici e di governo. La confusione della Corte era aggravata dalla complicata rete di parentela fra gli imputati, dalle omonimie, dai pittoreschi soprannomi o « ingiurie ». I giudici stentavano a raccapezzarsi in mezzo ai tanti soprannomi che distinguevano imputati e testimoni: « Scarpesciolte », « Nené l'amiricano », « Pino », « Cacaova », « 'U figghiu di Filippeddu », «Costanzo», « Palummu », « Bastarduni », « Canali», « Bammineddu >>, « Pira », Fifiddu », « Cacagrossu » , « Fra Diavolo», « Chiaravalle », « 'Mpompo », « Totò 'u palermitanu », « Ancilinazzu Vuturi », « Culobianco », «Lampo», « Reversino », « Pinuzzu », « Zu Mommu », « Vitu Pagliusu », « Manfré », « Purrazzuolu », «Mara», « Piddu 'i Flavia» ... Per mesi la Corte ritenne che ~spare, Gaspanu, Aspanu Pisciotta e Chiaravalle fossero quattro diHerenti persone. E dire che


nell'aula, &a imputati, testimoni, carabinieri, magistrati e pubblico v'erano centinaia di siciliani. Ma nessuno intervenne per dissipare l'equivoco. Fu il « continentale » capitano Perenze a spiegare ai confusi giudici che Gaspanu e Aspanu sono l'equivalente siciliano di Gaspare, e « Chiaravalle » era l'« ingiuria» di Gaspare Pisciotta. Non si è mai potuto sapere il motivo per il quale Giuliano organizzò l'agguato di Portella. Contro povera gente, contadini che, per aiutarlo, s'erano sempre trincerati dietro un impenetrabile muro di silenzio, incorrendo per anni nei maltrattamenti e nelle persecuzioni della polizia. Giuliano aveva spiegato per lettera che l'agguato si prefiggeva la cattura e l'uccisione di Li Causi. Ma poi si disse che Li Causi « era stato avvertito da Giuliano, tramite lettera, che senz'altro avrebbe fatto i conti ... che lo stesso Li Causi avrebbe potuto avvisare senz'altro» quelli di Portella delle Ginestre, quelli dei paesi e i comunisti, « per evitare quello che poi si è verificato » (Pasquale Sciortino alla Commissione Antimafia). Il posto di Li Causi, come oratore a Portella, doveva essere preso da un altro comiziante ufficiale, dal sindacalista Renda (poi parlamentare comunista per molte legislature). Ma nemmeno Renda fu presente a Portella, perché quella mattina, prima d 'arrivare a Portella, ebbe un «fortunato » incidente « con la motocicletta ad Altofonte ». Toccò allora al povero calzolaio Schirò prender posto sul podio di Barbato e assistere · al martirio di tanti innocenti. I mandanti della strage di Portella furono di volta in volta indicati in agrari, campieri o gabellotti mafiosi, uomini politici o di governo. Pisciotta e gli altri fecero i nomi d'esponenti politici, di deputati : dd DC Mattarella, dei monarchici Cusumano Geloso, Marchesano, Alliata; circolarono nomi di esponenti liberali, di repubblicani della provincia di Trapani. Nomi che l'avvocato Crisafulli suggeri agli imputati di « prendere di &onte, mentre Scelba doveva essere preso di striscio ». Infine si disse che Giuliano « aveva sparato sui comunisti perché Varvaro, dopo le dezioni dd 1947, si lamentò che non ebbe voti dei comunisti a San Cipirello, a San Giuseppe Jato ... » (E in questa affermazione c'è un barlume di verità.) Avvenne un nutrito scambio di denunce, di controdenunce e di querele. Il professor Montalbano, capogruppo dd PCI all'Assemblea regionale siciliana, denunciò l'ispettore di PS Messana e i deputati monarchici Alliata, Leone Marchesano e Cusumano Gdoso. (Montalbano, in un secondo momento, si prefiggeva di coinvolgere anche Mattarella e forse qualche suo compagno di partito.) Fu ricambiato con querele e denunce da parte degli interessati. Il giornalista Vincenzo Caputo sporse denunzia contro Antonino Varvaro, divenuto nel frattempo deputato comunista, .« per fatti relativi alle


azioni delittuose della banda Giuliano », contro il senatore Li Causi « per i rapporti avuti con la banda Giuliano » e contro il ministro Scelba « per aver protetto la banda ». Ma querele e denunce non ebbero seguito: furono tutte archiviate in istruttoria. Le denunce avanzate contro i parlamentari non furono nemmeno presentate alla Commissione parlamentare di autorizzazione a procedere. Montalbano fu prosciolto « per insussistenza di reato». In uno scambio di lettere pubblicato dai giornali, il 1° maggio 1949, Li Causi chiese a Giuliano di «parlare», di fare i nomi « degli uomini della democrazia cristiana, del partito monarchico, del partito repubblicano » che lo avevano spinto al delitto e lo ricattavano « con illusorie promesse di liberare i familiari ». Giuliano rispose che le « rivelazioni potevano farle solo gli uomini che tengono la faccia di bronzo, ma non un uomo come me, che prima della vita mira a tenere alta la riputazione sociale e che tende a far giustizia con le proprie mani ». Fu una risposta coerente, dati i rapporti intercorsi fra Turiddu e Li Causi. Tutte queste affermazioni sui « mandanti » furono menzogne, calunnie, invenzioni o fantasie? Chi lo può sapere? Non bisogna climenticare che la Sicilia è il paese dove è nato Pirandello, con le sue verità paradossali. Un paese dove, per antica consuetudine, la verità ba mille aspetti, tutti difformi e contrastanti. Alla vigilia delle elezioni del 1948, Pacciardi, che era allora vicepresidente del Consiglio, dichiarò che: « ... i mandanti dei delitti politici in Sicilia » erano stati tutti individuati. La dichiarazione, probabilmente elettoraJe, non ebbe alcun seguito. Il 3 maggio 1952 il processo di Viterbo sulla strage di Portella delle Ginestre e le aggressioni alle sedi comuniste si chiuse con una sfilza di condanne: Gaspare Pisciotta inteso « Chiaravalle », Antonio Terranova inteso « Cacaova », Francesco Pisciotta « Mpompo », Antonio Cucinella « Purrazzuolu », Giuseppe Cucinella « Purrazzuolu )>, Nunzio Badalamenti « Culobianco )>, Francesco Gaglio «Reversino», Giovanni Genovese « Manfré », Giuseppe Genovese « Manfré )> e i latitanti Pasquale Sciortino <<Pino)>, e Salvatore Passatempo, furono condannati all'ergastolo. I « picciotti )> della « gabbia piccola » fu. rono tutti assolti. Altri imputati furono condannati a pene minori. A Viterbo apparve chiaro che non tutti i condannati avevano partecipato alla strage, né tutti i partecipanti erano stati individuati e processati. Il processo aveva mostrato solo una parte della verità. Nella gabbia « piccola » i « picciotti )> facevano salti di gioia. Nella gabbia «grande » scoppiò il finimondo. Pisciotta s'aggrappò alle sbarre della gabbia e urlò al presidente del Tribunale che la


verità, « quella vera », si sarebbe saputa lo stesso e presto. L'avrebbe detta lui, Gaspare Pisciotta, al processo per la morte di Giuliano. Il 25 maggio 1947, in un'atmosfera politica surriscaldata per la tragedia della Portella delle Ginestre, avvenne la convocazione della prima Assemblea regionale siciliana. (S'erano dovuti fare salti mortali per consentire la proclamazione d'un buon numero di deputati i cui noti trascorsi fascisti avrebbero dovuto impedire loro l'ingresso all'Assemblea.) La convocazione ebbe luogo nella Sala d 'Ercole, sopra le antiche stalle del Palazzo Reale, dove da tempo erano state tolte le greppie, ma che presto vi sarebbero state, metaforicamente, rimesse. Erano presenti il cardinale Ruffini, il ministro Aldisio, l'alto commissario Selvaggi e numerose autorità minori. I neodeputati, in maggioranza maturi notabili di paese, non godevano dell'immunità parlamentare riservata ai loro colleghi del parlamento nazionale. Ma presto essi si sarebbero tutelati lo stesso, con un invalicabile schermo di impunità. Il discorso d'apertura della legislatura fu tenuto dal deputato decano, il liberale Francesco Paolo Lo Presti. Fu un discorso equilibrato e carico di speranze quello che l'anziano uomo politico rivolse all'Assemblea. Egli ricordò la « moderazione, l'equilibrio e la fermezza che sono tradizionali del carattere siciliano». (Può anche darsi che tali virtu siano piu o meno difiuse tra il popolo siciliano, ma sicuramente non fra la sua classe dirigente.) L'anziano oratore non volle ricordare l'antica e infinita pazienza con la quale da millenni il siciliano sopporta gli inetti o tristi governanti stranieri e indigeni. Né volle ammonire i siciliani che da quel momento in poi essi non avrebbero piu potuto scaricare la colpa dei loro guai a governi lontani e stranieri, né a governatori o viceré forestieri.4

4 Il presidente della prima Assemblea regionale siciliana fu l'ex fascista e neo liberale Ettore Cipolla, mentre presidente della Giunta di governo fu l'avvocato DC Giuseppe Alessi.


EPILOGO G10RNAL1STA: « Che ne pensa di Giuliano? » ACQUAIOLO: « Toglieva ai ricchi e dava ai

poveri. Ma Lei, di Roma, cosa può capire della Sicilia? » (dal film « Salvatore Giuliano » di France-

sco Rosi)

Salvatore Giuliano è considerato il personaggio piu noto, anzi il protagonista degli anni della rabbia in Sicilia. Egli fece una fine che si può considerare naturale per un bandito. Mori assassinato a 28 anni dopo aver trascorso un quarto della propria vita alla macchia. Per sei anni, dieci mesi e due giorni, Giuliano visse braccato e commise innumerevoli delitti. Crimini che ebbero numerose e diverse cause e origini: la malasorte, l'insofferenza per l'ingiustizia, l'attaccamento alla sua terra e alla sua famiglia, la difesa personale, la legge per la sopravvivenza, la paura, l'odio e l'istigazione di elementi politici noti e ignoti. Nei suoi quasi sette anni di latitanza Giuliano sprofondò sempre di piu nelle sabbie mobili del delitto, commettendo nuovi crimini. Per trovare un soluzione a una via che non aveva alcuna uscita. Una soluzione impossibile che il rapporto giudiziario della questura di Palermo del 9 giùgno 1946 tentava di spiegare cosi: « Giuliano s'è dato alla violenza politica nell'intento di farsi luce e di redimersi dai tristi suoi trascorsi. »

La spiegazione della questura non era completamente corretta: la verità è che Giuliano fu realmente « guerrigliero», un ribelle per convinzione, sia durante la sua appartenenza all'EVIS, fino ali 'estate 1946, sia in seguito, fino alla sua morte. Turiddu Giuliano incontrò la malasorte il 2 settembre 1943 in località Quarto Mulino. Senza il tragico finale della sparatoria, l'episodio di Quarto Mulino non avrebbe avuto niente di eccezionale. Sarebbe stato un fatto normale nella triste e confusa realtà di quei tempi. Quando 45 milioni di italiani praticavano il mercato nero per sopravvivere, e le forze di polizia cercavano di stroncare il triste, ma necessario, fenomeno. Fermato a un posto di blocco di carabinieri e di guardie campestri mentre tornava a casa con un sacco di frumento, Giuliano consegnò la carta di identità e si lasciò sequestrare cavallo e frumento (trenta chili di grano!). Ma non poté soppo~tare l'idea di 293


finire in galera. (Aveva una pistola perché già due volte malviventi di campagna lo avevano depredato.) Con un salto si buttò dentro un canneto e si diede alla fuga. Una guardia campestre gli sparò dietro e lo prese al fianco. Turiddu rispose al fuoco con un colpo di pistola che il destino volle dirigere al cuore del carabiniere Mancino. Ecco la genesi di un « bandito ». C'è da chiedersi che valore avesse la vita di un uomo nella Sicilia del 1943. Dove le forze di polizia sparavano alla schiena di un misero « intrallazzista » e un ragazzo girava con una pistola in tasca. Né si deve dimenticare che quel 2 settembre 1943 la Legge, gli ordinamenti sociali, il convivere civile erano praticamente scomparsi dalla Sicilia. Per dirla con parole siciliane: « non c'era né re e né regno ». Il comando alleato aveva sospeso la sovranità italiana. Allo Stato italiano s'era sostituita l'amministrazione militare alleata. L'Italia era ancora in guerra con gli Alleati, i èarabinieri in servizio a Quarto Mulino, e in tutta l'isola, « collaboravano » col nemico invasore e continuavano a svolgere attività considerate odiose dalla popolazione: sequestravano generi alimentari e arrestavano miserabili « intrallazzisti )>. Tutto questo provocava l'odio e lo sdegno della popolazione. Inoltre, alla luce di quanto avvenne pochi giorni dopo nel resto d'Italia, c'è da pensare che se Giuliano avesse ucciso il carabiniere Mancino una settimana dopo, in territorio occupato dai tedeschi, non solo non sarebbe stato perseguitato, ma forse il delitto gli avrebbe fatto conseguire un riconoscimento o una decorazione. Ma andiamo avanti con la nostra storia. Dopo il tragico fatto di Quarto Mulino Giuliano raggiunse il suo paese, Montelepre, dove poté farsi curare la ferita. Visse nascosto e indisturbato nelle grotte di Calcerama per tre mesi. Sembrava che l'episodio di Quarto Mulino fosse stato dimenticato. Anche se la carta d'identità era rimasta nelle mani dei carabinieri T uriddu venne lasciato in pace semplicemente perché le forze di polizia avevano altro da fare. Quelli erano tempi in cui i carabinieri del nucleo di Montelepre « .•. erano in dodici con sei paia di scarpe. Rientravano sei e si mettevano le scarpe gli altri ». Alla fine dell'anno la legge si ricordò di Salvatore Giuliano, e il 23 dicembre Montelepre subf il suo primo rastrellamento. Turiddu fece in tempo a raggiungere la montagna, ma i carabinieri gli arrestarono il padre e altri parenti e amici per «complicità». Giuliano, quando seppe della retata, scese in paese e tentò la disperata impresa di liberare i prigionieri. Non riusd nell'intento, uccise un carabiniere e ne ferf un altro. Ripeté il tentativo, stavolta con successo, un mese dopo. Turiddu segò dall'esterno le grate di una finestra 2 94


del carcere di Monreale e fece fuggire i prigionieri . ( 11 pud 1( 111111 era fra costoro perché trasferito a Partinico.) Gli cvnNi f11111u11 111111 il primo nucleo della banda. Giuliano, che riteneva di avere 1r 11Hlln a delle palesi ingiustizie, continuava a vivere alla macchio. C11111r tanti extra legem, ma senza commettere nuovi reati. Fu l'incon, 10 con i capi separatisti e la sua adesione alla causa indipendcn1is111 che lo spinsero sul sentiero di guerra. Giuliano ebbe il grado di colonnello della « Brigata Palermo » e gli venne consegnata la bandiera di combattimento dell'EVIS. Cominciò a reclutare uomini fra parenti, conoscenti e paesani. Pisciotta, Antonino Terranova, Frank Mannino, Barone, Monticcioli e quasi tutti gli altri « picciotti » entrarono nelle file della « banda » per solidarietà di clan, per spirito di avventura, ma soprattutto perché si sentivano « soldati dell'EVIS » e credevano nell'indipendentismo. Ritenevano che esso potesse risolvere il problema siciliano. I capi separatisti avevano dato assicurazione sulla « legalità » dell'esercito indipendentista e fatto promesse di libertà una volta resa l'isola sovrana. Anni dopo, quando il sogno indipendentista era già sfumato, Giuliano confessava al giornalista Jacopo Rizza: « Ci credevamo i protagonisti del risorgimento siciliano, ma presto i giovani della mia banda si sentirono traditi: non potevo mantenere le promesse che avevo fatto loro, perché a mia volta ero stato ingannato dai capi del movimento. Mi avevano promesso libertà e io avevo fatto di quaranta uomini liberi quaranta banditi ».

Dopo l'amnistia per reati politici del 22 giugno 1946, Giuliano radunò gli uomini e disse loro che erano liberi di tornare a casa. « Per me » aggiunse, « la guerra continua. Chi vuole rimanere rimanga. » Ma l'amnistia, almeno per i ragazzi di Montelepre, risultò essere un sogno irraggiungibile, ed essi rimasero sulle montagne. Giuliano e i suoi « banditi » ventenni continuarono a essere strumentalizzati da gente usa a comportarsi con ripugnante cinismo, caratteristico di parte della classe dirigente e dominante dell'isola. (Non bisogna dimenticare che proprio negli anni della guerra ebbe inizio la « questione morale» nella quale oggi ci dibattiamo.) Quando la fortuna del M.I.S. cominciò a declinare apparve evidente che le promesse di libertà fatte dai separatisti non avevano alcuna probabilità di conferma. Giuliano continuò la « sua guerra». Ebbe contatti con esponenti di quasi tutti gli schieramenti politici: democristiani, monarchici, liberali, repubblicani e anche comunisti. Per Varvaro, che appoggiò nelle elezioni regionali del 1947, Giuliano ebbe sentimenti di amicizia (i familiari di Turiddu chiamavano « Zia Jole » la moglie di Varvaro), coi monarchici ebbe un intenso, breve rapporto. Ebbe incontri a Testa di Corsa e altrove con grossi esponenti

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monarchici. In uno di questi incontri, a Passo di Rigano, in casa di Giuseppe Giuliano, fratello di Turiddu, in cambio dell'appoggio elettorale, un candidato monarchico promise addirittura la presenta· zione in Parlamento di una particolare legge d'amnistia per Turiddu (una legge Valpreda ante litteram). Liberali e repubblicani fecero le solite promesse d'amnistia, di grazia, di scarcerazione dei parenti, in cambio dell'appoggio elet· tarale. Turìddu ebbe a che fare anche con i comunisti. Prima delle elezioni regionali del 1947 Giuliano era entrato in contatto con Girolamo Li Causi per concordare una comune azione elettorale in favore di Varvaro e della sua lista M.I.SD.R. Queste singolari iniziative elettorali erano arrivate al Comitato regionale del PCI. Si disse che a far cadere ogni cosa fosse stata la decisa opposizione del professore Montalbano che aveva minacciato di denunciare la spregiudicata iniziativa di Li Causi alla procura di Palermo. (Nelle successive elezioni regionali il PCI ha quasi sempre messo in pratica la tecnica delle liste paracomuniste parallele.) Tanto che a Viterbo Pisciotta affermò d'avere concordato con Salvatore Ferreri, Fra Diavolo, l'uccisione di Giuliano qualora Turiddu fosse passato al partito comunista. Aggiunse anche d'avere reso nota tale decisione all'ispettore di PS Ciro Verdiani. La cosa strana è che, malgrado tutte le promesse mai mantenute, Giuliano ebbe un particolare, inestinguibile odio soltanto contro Li Causi. Nessuno si è mai chiesto il perché di questo odio. (Piti volte tentò di uccidere « Mommo >> Li Causi.) Di Giuliano si è detto molto da parte di tutti. Nessuno però ha sottolineato il fatto che egli iniziò a poco piti di vent'anni il viaggio senza ritorno del crimine. Usci dall'adolescenza e crebbe alla macchia, braccato come una belva. In tempi in cui la parola « pentimento » avrebbe fatto scoppiare dalle risate legislatori, magistrati, poliziotti e opinione pubblica. Contadino ignorante ma intelligente, violento ma anche gentile, sanguinario ma generoso, diffidente ma ingenuo, spavaldo ma timido, cavalleresco ma spaccone, Giuliano mostrò sempre un personale spiccato senso della giustizia. Giustificava le sue azioni con le ingiustizie che riteneva d'avere subito e le persecuzioni che ebbe a subire la sua famiglia, con i ripetuti arresti dei genitori e dei fratelli. Scriveva ai giornali: <~ Le sofferenze di mia madre ve le farò pagare col sangue ... ve la siete presa con le mie donne; anch'io ho la possibilità di agire contro le vostre donne ... » E in una lettera diretta ai deputati aggiungeva: « Le nostre donne, i nostri parenti, queste donne che si trovano maltrattate in carcere, sappiate che hanno votato le vostre liste, perché speravano


nel vostro senso di giustizia e soprattutto nelle vostre promesse » (lettera del 24 novembre 1948). La legge per la sopravvivenza, le istigazioni e le suggestioni politiche note e ignote completarono la sua trasformazione in un terribile fuorilegge . Si vantò di aver punito, anche con la morte, « spioni e traditori» e sfruttatori della povera gente: prepotenti di paese, usurai, manigoldi campestri. Ma poi, anche se per «errore», massacrò la povera gente a Portella delle Ginestre. Per buona parte dei siciliani, in particolar modo per i contadini, egli fu e rimase un eroe, un condottiero. Il vendicatore di tutte le ingiustizie. Egli rappresentò il diritto dello schiavo a ribellarsi contro il padrone. Turiddu fu uno di quegli uomini che si manifestano in maniera clamorosa e violenta nei momenti di rivolgimenti sociali o nelle azioni collettive e si vengono a trovare nella pienezza della loro attività. Tali uomini sono spesso i piu validi esecutori di un'impresa, sono i primi a cominciare, con semplicità e irruenza; tutti gli altri li seguono cecamente. Fino alla fine, sino a lasciarci la vita. Dopo Portella delle Ginestre, Giuliano fece mettere al sicuro in America il cognato Pasquale Sciortino che non aveva nulla a che vedere con le attività criminose della banda e iniziò una attività di sopravvivenza. · Alternava periodi di scatenata guerriglia con estorsioni e sequestri che gli consentivano di alimentare la sua « guerra». Ma si ha motivo di credere che buona parte di questi reati siano stati concordati con le stesse «vittime ». Che si assentavano volontariamente per qualche giorno fino a quando non veniva raggiunto un accordo sul quantum. (Spesso interveniva la mediazione delle cosche mafiose.) Non si potrebbero capire le azioni di guerriglia del 1948 e del 1949 se esse non fossero collegate con le promesse mai mantenute degli esponenti politici. E con la necessità che questi .esponenti avevano d'alimentare la strategia della tensione alla porte di Palermo. Risultò che Turiddu aveva stabilito con le forze di polizia una specie di armistizio con accordi che delimitavano le « zone di competenza». Che la guerriglia che si riaccese nel 1948 fu dovuta a un mancato rispetto di tali accordi . Il 6 aprile 1949 mentre importanti forze di polizia rastrellavano le campagne di Alcamo, Giuliano rispose con un agguato a una camionetta carica di agenti. L'attacco provocò un motto e sette feriti. Il 2 maggio ci fu una sparatoria nell'abitato di Montelepre con un altro morto e due feriti fra le forze dell'ordine. Quattro giorni dopo venne attaccata un'autocolonna sulla strada Carini-Montelepre. Un carabiniere rimase ucciso, Le forze di polizia reagirono con uno 297


spettacolare rastrellamento dell'abitato di Montelepre. Centinaia di persone furono trattenute in piazza per dodici ore, fino a quando, avvenuta la selezione dei fermati, gli arrestati vennero caricati sugli autocarri e lasciarono il paese. Giuliano era sul chi vive quando uno di questi autocarri giunse nei pressi della stazione di Capaci e venne attaccato. Quattro carabinieri e tre civili « fermati » rimasero feriti, oltre a un civile morto. Il 12 maggio vi furono ben tre sparatorie. La prima sulla strada Pioppo-Monreale. Una jeep del servizio sanitario fu scambiata per un mezzo della polizia. La seconda fu vicino a Monreale e un agente su una camionetta fu raggiunto dai proiettili. L'ultima sparatoria ebbe luogo a tarda sera a San Ciro alle porte di Palermo. Un'autocolonna militare che usciva da Palermo venne bersagl,iata da tutte le parti. Vi furono due feriti d'arma da fuoco e altri, in numero imprecisato, che si infortunarono buttandosi a precipizio dagli autocarri in corsa. Infine, il pomeriggio del 19 agosto, Turiddu ripeté uno dei suoi cruenti stratagemmi. Attaccò la caserma di Bellolampo per provocare l'arrivo dei rinforzi da Palermo. I militari giunsero, fecero una lunga, inutile battuta sulle montagne e si accinsero a far ritorno in città. Sulla strada del ritorno un autocarro mise una ruota su una mina e saltò in aria. Lo scoppio provocò una strage spaventosa. Sette carabinieri furono dilaniati dalla esplosione e altri undici rimasero feriti. Fu a seguito di questo massacro che la lotta al «banditismo» venne affidata a un nuovo organismo, il C.F.R.B. (Corpo Forze Repressione Banditismo), agli ordini del colonnello dei carabinieri Luca. A conferma della assurda eterna rivalità fra polizia e carabinieri l'ispettore di PS Verdiani lasciò il posto a Luca senza consegnare una sola carta dell'attività dell'ispettorato, « né lo mise a conoscenza di quella che era la organizzazione confidenziale di cui si era fino a quel momento servito». Il colonnello Luca aveva alle spalle una lunga esperienza di servizio segreto e si mise subito in contatto con la seria ed efficiente rete organizzativa delle cosche mafiose. La cosa non gli venne difficile. Cominciò l'ultimo atto di quella tragedia umana che si chiamò Salvatore Giuliano. Per quasi sette anni il re di Montelepre fece guerra spietata ai carabinieri che riteneva causa di tutti i suoi guai, ma in varie occasioni risparmiò la vita a parecchi di loro. Egli ebbe rapporti e contatti non solo con la « sua» gente: pastori e contadini, ma anche con prelati, mafiosi in « guanti gialli », aristocratici, uomini politici, funzionari, deputati, giornalisti, militari... Non aveva alcuna esperienza militare, ma sul campo s'impadroni d'una perfetta tecnica di guerriglia; seppe creare un'efficiente orga-


nizzazione militare-partigiana senza aver mai sentito nominare Clausewitz, Mao Tze-tung o Che Guevara. Con ammirevoli servizi logistici, di comunicazione e d'informazione, e campi di addestramento in Tunisia. Braccato senza tregua dalle forze di polizia perché « ribelle ed assassino » Giuliano concedeva interviste a giornalisti italiani e stranieri, faceva accendere i sensi di una rossa giornalista svedese e si faceva liberamente fotografare dai reporters. Carabinieri e polizia gli davano la caccia sulle montagne, ma Turiddu era altr~)Ve. Nei salotti aristocratici, dove veniva accolto con tutti gli onori, nell'ospitale villa Carolina del vescovo di Monreale, o brindava da buon compagnone con l'ispettore di PS Verdiani. Nei momenti di crisi traeva « grande conforto » da amichevoli incontri col procuratore generale di Palermo Emanuele Pili. I giornali raccontavano le sue strabilianti avventure, la massa della popolazione lo ammirava. Un bambino delle borgate di Roma lo raccomandava a Gesu nelle sue preghiere serali. A Montelepre arrivavano ex partigiani del Nord in cerca di avventure ... Salvatore Giuliano scriveva lettere ufficiali, da pari a pari, a Scelba, a De Gasperi, al presidente Truman ... Turiddu arrivò a sfidare a singolar tenzone l'intero governo italiano. Un duellum a raffiche di mitra : « Io, da solo, contro dieci di voi, se perdo mi consegno, se vinco mi date il comando del governo ». Un'occasione unica per cambiare le sorti d'Italia. Peccato che i ministri sfidati non avessero la stoffa degli Orazi e non se la sentissero d'affrontare il mitra di Turiddu. Tra gli uomini della sua banda circolavano tessere di riconoscimento ed attestati di benemerenza rilasciati dai carabinieri, dalla questura, dai ministri. All'epoca dell'EVIS « v'erano anche dei marescialli dei carabinieri e ufficiali... della polizia. .. che avvisavano Carcaci di spostarsi, e questi avvertiva Giuliano: in questa zona ci sarà un rastrellamento, una battuta ... » . Ma i buoni rapporti con le forze di polizia continuarono :fino al giorno della morte di Turiddu. Pisciotta sotto il falso nome di Giuseppe Paraci aveva due tessere. Una della polizia e l'altra dei carabinieri. E un attestato di benemerenza firmato da Scelba. Era autorizzato a portare « armi ·automatiche»! Cos{ gli altri uomini della «banda». Ferreri, alias Fra Diavolo, confidente dell'ispettore Messana e àel colonnello dei carabinieri Paolantonio, aveva come « sottoconfidenti » il padre; in possesso di porto d'armi «speciale», e i due fratelH Pianelli. Quando Fra Diavolo si ammalò, fu la questura che pensò a orga· nizzare una sala operatoria in un casolare e fece venire da Palermo un noto chirurgo che operò di appendicite il bandito. Alla fine della riuscita operazione il chirurgo commentò: _« La mala erba non muore mai. ».

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Ecco come nell'aula di Viterbo Pisciotta ricordò la fine di Fer· reri: « Tutti sanno la verità! Il capitano Giallombardo uccise Fra Diavolo in questo modo: prima sparò una raffica alla macchina su cui stavano Fra Diavolo, suo padre e i due fratelli Pianelli che tornavano da un incontro segreto con la polizia di Alcamo. Solo Fra Diavolo rimase vivo, e il capitano lo portò in caserma. Da li telefonò a Palermo e, quando ebbe finito la telefonata, completò il suo lavoro ». Dopo l'« ammazzatina » di Fra Diavolo il capitano Giallombardo venne trasferito in tutta fretta in Calabria. L'ispettore Verdiani, sebbene fosse stato sostituito da Luca e trasferito, continuò a comunicare con Giuliano. Gli scriveva di stare in guardia, che Pisciotta aveva preso contatto col colonnello Luca, di fare attenzione al pericoloso « don Pasquale » . (Nella parlata po. polare siciliana «Pasquale» sta anche per «cornuto».) Nessuno ha mai potuto o voluto chiarire i rapporti che esiste· vano fra «banditi», mafiosi e forze di polizia. Franlc Mannino disse ai giudici di non ritenersi «bandito» e aggiunse: « ... eravamo agli ordini della polizia ». Pisciotta dopo di essersi dichiarato « col· laboratore dei carabinieri» rincarò la dose e nell'aula di Viterbo urlò : « Siamo un corpo solo : banditi, polizia e mafia! Come il Pa· dre, il Figlio e lo Spirito Santo! ». . Nessuno ha mai smentito o contraddetto queste parole. Non solo, ma vent'anni dopo i fatti che narriamo il presidente della Commissione Antimafia richiese al presidente della Repubblica, al presidente del Consiglio dei ministri, al ministro dell'Interno e a quello della Difesa tutta una serie di documenti« ufficiali» che dovevano servire a far luce su una quantità di delitti rimasti impuniti. Soltanto il ministro dell'Interno dell'epoca se ne usd con poche parole: « Non è stato rinvenuto alcun carteggio riguardante i fatti da Lei indicati»! E dire che tutti questi silenziosi signori, maestri del nulla, dal!'alto delle loro cariche non sanno far altro che prendersela con la popolazione siciliana, accusata in blocco d'« omertà». Con la povera gente indifesa ed esposta a ogni sorpruso, a ogni violenza. (« Maresciallo, se io parlo, se vengo a testimoniare, ci pensa Vossia a mia moglie? ai "picciriddi"? Chi ci va a lavorare al posto mio? » Basta questa risposta per trasformare un impaurito cittadino in un complice o nella migliore delle ipotesi in un testimonio reticente da mettere in carcere.) Negli ultimi tempi ci si è messo anche il cardinale di Palermo, monsignor Pappalardo, a invitare la gente « a parlare», a rifug. gire dall'« omertà ». Ma quali provvedimenti ha mai preso la Chiesa contro preti mafiosi, omertosi o manutengoli? Contro monsignor Filippi, vescovo di Monreale, i &atelli e gli zii preti e vescovi di don 300


Calogero Vizzini, i monaci di Mazzarino, il cappellano dell'Anonima Sequestri don Agostino Coppola, padre Giacinto, il monaco mafioso di Santa Maria di Gesu? ... Nel dopoguerra mafia e forze di polizia ripulirono a fondo l'isola, sgominando dozzine di agguerrite bande di fuorilegge e « facendo fuori» migliaia di banditi. Ma di tutte queste bande, faceva giustamente notare Terranova « Cacaova » alla Antimafia « ... ne restò una sola, quella di Giuliano ... com'è possibile? Perché quell'esercito indipendentista volontario siciliano era talmente diverso dalle altre [bande] che poteva restare. Doveva restare; perché serviva, perché doveva ancora operare ... ». Giuliano e i suoi « picciotti » accampati alle porte di Palermo rappresentarono la strategia della tensione di quei tempi. A chi faceva comodo questa strategia della tensione? Il 7 settembre 1949 il prefetto di Palermo, Vicari, inviò un rapporto al ministro dell'Interno. Nel documento denunciava una nutrita schiera di parlamentari accusati di collusione con banditi e mafiosi. V'era gente appartenente a quasi tutti i partiti politici. Ma il rapporto è sempre rimasto segreto. Il governo si è rifiutato di farlo conoscere al parlamento (è uno dei documenti richiesti inutilmente dalla Commissione Antimafia). Si sa soltanto che esso provocò una tempestosa riunione del gruppo DG di Palazzo Madama. Nel corso della accesa discussione il senatore Federico Lazzaro gridò: « Mi rimproverano i voti avuti, che dire allora di Mattarella che nella sola zona di Montelepre ha ottenuto circa 1.800 voti? ». Per dar la caccia a Giuliano e alla sua « banda », un paio di dozzine di ragazzi ventenni, pastori e contadini, lo Stato italiano mobilitò le sue forze armate e quelle di polizia. Diecine di migliaia di uomini. Che tennero sotto assedio paesi interi, imposero il coprifuoco, arrestarono e confinarono migliaia di uomini e di donne. Lo Stato, il governo italiano spesero un mucchio di miliardi di allora e mandarono in Sicilia i migliori militari, i piu bravi funzionari, le piu abili « barbe 6nte ». I vecchi ispettori generali di PS: Modica che doveva il suo grado al « proconsole » americano Charles Poletti, Messana che nel 1919 aveva comandato il servizio d'ordine a Riesi facendo sparare sui contadini radunati in piazza Garibaldi (20 morti e 50 feriti!), Coglitore e Spanò, ambedue « braccio destro » del prefetto « di ferro » fascista Mori, Verdiani che aveva «indagato», con i noti risultati, sull'oro di Dongo e infine venne il questore Marzano che aveva fatto carriera napoleonica dopo i torbidi allori guadagnati a Fregene la notte che venne assassinato l'ex segretario del partito fascista Ettore Muti. Poi vennero in Sicilia « la mente e il braccio ». Il colonnello Luca e il suo aiutante, capitano Perenze. I due ufficiali venivano 301


dalla gavetta, dai ranghi dei sottufficiali, avevano poca dimestichezza con la polizia giudiziaria. Luca era stato sempre nei servizi segreti. (Nella guerra di Spagna aveva comandato il SIM della divisione Littorio ed era rimasto ferito nella battaglia di Aragona assieme al generale Bergonzoli, il popolare « Barba elettrica».) Perenze, da parte sua, aveva esperienza gendarmesca di guerriglia coloniale, e forse per questo venne mandato in Sicilia. Infine venne nominato prefetto di Palermo Angelo Vicari che presto sarebbe diventato il « Number One » dei poliziotti d'Italia, il Fouché della giovane Repubblica italiana. Ma tutto questo non servf a niente. Per eliminare Giuliano e i suoi ragazzi lo Stato italiano si degradò al punto di fare un patto scellerato con elementi mafiosi che si impegnarono a consegnare, vivi o morti, Giuliano e i suoi «picciotti». Che cosa promise lo Stato ai mafiosi, attraverso i suoi rappresentanti, non è dato saperlo. Possiamo però immaginarcelo, vista la impunità goduta da molti « uomini di rispetto » fino alla strage di Ciaculli e anche dopo la creazione dell'inutile Commissione Antimafia, I mafiosi cominciarono a rispettare i loro impegni e iniziarono la consegna a domicilio dei «picciotti». Salvatore Pecoraro, consegnato ai carabinieri, venne ucciso con le manette ai polsi e il suo corpo sistemato in campagna per simulare la morte in conflitto. Rosario Candela « Cacagrosso » fu trovato morto in una « trazzera » ma anche per la morte di « Cacagrosso » venne inventata la storia del conflitto a fuoco. Frank Mannino venne attirato a Villa Carolina e consegnato ai carabinieri. Nunzio Badalamenti e Madonia furono addirittura portati in caserma dentro ceste! Per non mettere in allarme Turiddu questi uomini furono tenuti « sequestrati » per mesi, in speciali « segrete » senza che il potere giudiziario venisse informato. Della morte di Giuliano sappiamo ben poco, l'essenziale. Due ore prima dell'alba del 5 luglio 1950 il cadavere di Turiddu giaceva al centro del cortile di una casa di via Mannone di Castelvetrano. Il morto vestiva una canottiera bianca, pantaloni di tela color kaki con cintura dalla fibbia d'oro, calze a strisce e sandali color marrone. Al dito aveva un anello d'oro con solitario, al fianco la fondina vuota della pistola. In tasca un biglietto di dieci lire e un portafoglio con delle carte che venne ritirato dal colonnello Luca e di cui non si seppe piu nulla. A terra, a poca distanza dal cadavere, v'erano un tascapane militare, una pistola automatica scarica e un mitra inceppato nonché una giacca ben piegata. L'autopsia praticata dal professor Del Carpio stabili che il morto era stato colpito in due riprese e a distanza di tempo. Le ferite al fianco, grandi, con contorni irregolari, erano già tumefatte. Si trat30.2


tava di colpi sparati a bruciapelo. Le altre ferite, piccole, dai contorni nitidi, erano piu fresche. Non si è mai potuto sapere perché, come, dove e quando venne ucciso Giuliano. E chi lo uccise. Coloro che avevano l'obbligo di legge, il dovere istituzionale, il dovere morale di dir la verità: forze di polizia, militari, magistrati, autorità e uomini di governo, non lo fecero. Anzi diedero una versione dei fatti spudoratamente falsa. Tutta questa gente non solo si mise sotto i piedi i codici: quello penale, quello di procedura penale e soprattutto quello morale, ma protesse e familiarizzò con fuorilegge che avevano causato la morte di centinaia di agenti dell'ordine: uomini che avevano onorato fino al supremo sacrificio della vita la divisa che indossavano. Che avevano obbedito al dovere e al giuramento prestato. La sentenza di Viterbo definf questi fatti « eccezionali e abnormi», soffermandosi, voce isolata nell'italico vuoto morale, sulla fiducia « nelle istituzioni dello Stato, che non dovrebbero mai formare oggetto di discussione, tanto esse devono essere in alto nella estimazione dei cittadini». D'altronde era chiaro che i vari Pili, Messana, Luca, Verdiani, Perenze, Marzano, Vicari, e compagnia bella, non avevano agito soltanto di propria iniziativa e le responsabilità stavano molto in alto, nel governo. Della morte di Giuliano abbiamo parecchie versioni. La prima strettamente ufficiale venne formulata e avallata dai massimi organi dello Stato: forze di polizia, prefettura, magistratura, governo e parlo.mento. Tale versione risultò falsa, completamente inventata. Si tratta della famosa relazione del capitano Perenze. Eccola in sintesi: a seguito di estenuanti indagini i carabinieri erano riusciti ad agganciare un confidente. A quest'uomo era stato dato l'incarico di stanare Giulianq dal suo rifugio per farlo catturare da una pattuglia di carabinieri (quattro in tutto). A mezzanotte del 4 luglio 1950 il confidente, seguito a distanza dai militi, entrò in una casa di Castelvetrano. Vi rimase per piu di tre ore. Alle 3,15 l'uomo « usci sulla strada a piedi nudi e con le scarpe in mano, seguito a cinquanta metri da due individui che camminavano discutendo, entrambi in canottiera ». I due uomini avevano « scarpe che non face- · vano rumore e giacche a penzoloni nella mano destra ». Quasi subito scoppiò la sparatoria. Il confidente, e uno dei due sconosciuti, riuscirono a dileguarsi... Il terzo uomo << a capo scoperto, alla luce delle lampade stradali fu facilmente riconosciuto per il bandito Salvatore Giuliano ».1 1 Cfr. Comando Forze Repressione Banditismo n. 213/24 · di prot. Gruppo Squadriglie Centro-Palermo 9 luglio 1950. Relazione sul confiltto a fuoco del 5 luglio 1950 in Castelvetrano nel quale venne ucciso il bandito Salvatore Giuliano. (Relazione, come si vede, meditata per ben quattro giorni.)


La relazione di Perenze descrive poi un complicato e impossibile itinerario che il bandito in fuga avrebbe seguito attraverso mezzo paese. Il tutto contraddistinto dalla continua sparatoria, durata 45 minuti, di almeno 5 armi: 60 colpi furono sparati dal fuorilegge e circa 200 dai carabinieri. (Ma i numerosi testimoni asserirono di aver udito soltanto quattro o cinque colpi di pistola e poi due raffiche di mitra, distanziate da un breve intervallo.) Alla fine il bandito, che sembrava ferito, venne bloccato in un cortile. Raggiunto da una raffica di mitra « si piegò in avanti, abbattendosi bocconi ... rantolava». Perenze andò in cerca di acqua « per il morente ... ma era già spirato». Il corpo senza vita del re di Montelepre rimase nel cortile fino a quando giunsero i medici legali e le autorità. (Purtroppo Giuliano non poté trarre alcun nuovo « conforto » dal postumo incontro col procuratore generale Emanuele Pili accorso a Castelvetrano per dovere di ufficio.) La seconda versione, divenuta anch'essa ufficiale, è quella che venne data da Gaspare Pisciotta a Viterbo. Anche questa versione fu riconosciuta vera e confermata dagli stessi organi dello Stato che avevano accettata e avallata la prima. Aggrappato alle sbarre della grande gabbia ornata di poderosi fasci littori della Corte di Assise di Viterbo, « Aspanu » Pisciotta rivelò d'avere ucciso Giuliano e raccontò una storia densa di numerosi particolari. Storia altrettanto falsa di quella raccontata dal capitano Perenze e dal colonnello Luca. (La sera che nella piazza di Montelepre Franco Rosi fece proiettare in anteprima il suo bel :film Salvatore Giuliano la popolazione rimase immota e silenziosa. Solo, quando apparve la scena di Pisciotta che uccide Giuliano risuonò un grido: « Non è vero! ». Era la voce di Pietro Pisciotta fratello di Aspanu.) Oltre alle due contrastanti versioni ufficiali ce ne sono altre, ancora piu differenti, paraufficiali. La piu diffusa afferma che Giuliano venne assassinato durante una riunione con elementi mafiosi tenutasi, come tante altre, nella villa Carolina del vescovo di Monreale. I mafiosi avevano deciso di disf~si di Giuliano, ma non volevano o potevano consegnarlo vivo cosi come avevano fatto con i « picciotti ». Pare che Giuliano sia stato drogato durante il pranzo, poi qualcuno gli sparò. Si è detto che questo qualcuno fosse Luciano Leggio, allora promettente « picciotto >> della cosca corleonese del dottor Nararra.2 2 Il dottor Navarra aveva una multiforme e vivace attivitt Era medico, politicante DC, amministratore pubblico e capo mafia di Corleone. Anni dopo i fatti raccontati, il dottor Navarra, entrato in contrasto con Leggio, venne fatto fuori in uno spettacolare agguato. Il suo corpo, raggi.unto da diecine di pallottole, aveva piu fori d'un colabrodo.


« Perché è Leggio che uccise Giuliano quando la mafia, che non ne poteva piu di avere i battaglioni dei carabinieri che rastrellavano le campagne siciliane, solitamente di dominio mafioso, s'accordò col governo di Roma che inviò in Sicilia il prefetto Vicari che si era guada· gnato dei grossissimi meriti con il Referendum istituzionale del 2 giugno 1946, dotato di pieni poteri, e questi pieni poteri si conclusero con l'uccisione del bandito Giuliano. Questo è il primo episodio, e li è il seme di tutto quello che viene dopo... i.3

Da fonte autorevole mai smentita è stato detto che per questa azione Leggio sebbene ricercato per una quantità di delitti ha go· duto di una tranquilla ventennale latitanza: « Con assurde, allucinanti, spudorate protezioni, che gli vennero garantite attraverso gli interventi diretti del questore Mangano per conto di Vicari. Leggio è stato protetto da un questore della Repubblica per conto e per ordine del capo della polizia della Repubblica italiana! »" Dopo l'assassinio di Monreale il corpo senza vita di Giuliano chissà perché era stato portato a Castelvetrano e fatto trovare nel cortile. Luca e Perenze, per garantire i loro collaboratori mafiosi, avevano inventato la storia del conflitto a fuoco. Un'altra versione, ricostruita da chi scrive, sulla scorta di attente ricerche e di ritrose testimonianze che preferiscono rimanere anonime e ancora tacciono sul nome dell'assassino, recita: « Fin dal mese di dicembre 1949 Giuliano, da solo, aveva trovato discreto e sicuro rifugio nella casa del dottore in legge Gregorio De Maria che nelle successive vicende giudiziarie si vide riconoscere come il misterioso "avvocaticchio" ricordato spesso a Viterbo da testimoni e imputati. (Questo "avvocaticchio" aveva avuto a che fare, in qualche modo, con la vicenda di Giuliano ed era in possesso di un memoriale di Turiddu. Il misterioso ,individuo è rimasto sempre senza nome. Nel corso del dibattimento la Corte ritenne di potere individuare nel dottor De Maria l'"avvocaticchio". E prese un'altra solenne cantonata. Il vero "avvocaticchio" era un abile professionista di Palermo, cosi chiamato per la giovane età, 1a piccola statura e l'esile corporatura. Il De Maria, laureato in legge, non praticava la professione. Era un uomo timido e ritroso, sicuramente legato alla mafia. De Maria non rivelò mai il nome di chi gli aveva imposto di dare ospitalità a Giuliano, preferf farsi un buon numero di anni di carcere. Egli però, conscio del pericolo che correva, s'era affrettato a far testamento che aveva depositato al sicuro, all'estero.) « Giuliano usò il rifugio di Castelvetrano per circa otto mesi. Durante questo tempo s'allontanava per sostare in altri rifugi o per incontrare i 3

Cfr. Senato della Repubblica, seduta del 9 mat20 1982, intervento del

senatore Giorgio Pisanò. 4 Cfr. Senatore Giorgio Pisanò, ibid.

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suoi uomini. Egli aveva sempre gestito personalmente i contatti con uomini politici ed elementi delle forze di polizia. « Da mesi Giuliano si era deciso a espatriare; per far ciò poteva contare sull'aiuto di amici potenti. Aveva sospeso le operazioni di espatrio perché, improvvisamente, gli ultimi uomini della banda, Mannino, Badalamenti, Madonia, erano spariti. L'inspiegabile scomparsa dei "picciotti" aveva provocato una sua lettera a De Gasperi che ,i giornali pubblicarono. Turiddu accusava le forze di polizia d'essere responsabili delle misteriose sparizioni. Con Giuliano rimanevano ancora liberi soltanto altri due uomini: Gaspare Pisciotta e Salvatore Passatempo. Sembra però che Pisciotta non conoscesse il rifugio di casa De Maria (gli incontri fra i due avvenivano altrove). A frequentare la casa dell'" avvocato", era il "presunto mafioso", come delicatamente affermò la sentenza di Viterbo, Giuseppe Marotta, che faceva da tramite con l'ispettore Ciro Verdiani. « Ma la scomparsa dei picciotti non aveva soltanto provocato la lettera-denunzia a De Gasperi. Giuliano s'era messo alla ricerca dei suoi uomini e aveva appurato che alcuni elementi mafiosi di Monreale erano responsabili delle sparizioni... Con la cattura d'uno di questi, Nitto Minasola, Tur,iddu ebbe la conferma dei suoi sospetti. Affidò il mafioso Minasola a Pisciotta con l'ordine d'uccidere il traditore e decise di eliminare gli altri traditori di Monreale, i Miceli zio e nipote. « Pisciotta non solo non uccise Minasola, ma si fece convincere da quest'ultimo a entrare in contatto con i carabinieri, con Perenze prima e con Luca in seguito. Con Pisciotta divenuto "collaboratore dei carabinieri" il cerchio si strinse definitivamente attorno a Turiddu. « La fine di Giuliano venne decretata in un "pranzo di lavoro" presso il ristorante della Fiera del Mediterraneo di Palermo. Erano presenti il procuratore generale Pili, il prefetto Vicari, il questore Marzano, il colonnello Luca, il colonnello Fabbo, comandante la Legione CC di P'alermo e altre personalità. Il summit arrivò a una sconvolgente conclusione; Giuliano "sarebbe stato consegnato morto" e il suo corpo, "sistemato" in campagna, sarebbe stato rinvenuto dopo un ben architettato conflitto notturno al quale avrebbero partecipato polizia e carabinieri che si sarebbero equamente attribuiti il merito dell'"ammazzatina"! « La buona occasione per "far fuori" Giuliano si presentò presto. Il 3 luglio Turiddu apprese da una lettera scrittagli da Verdiani che Pisciotta lo tradiva e si premurò di convocare a Castelvetrano il "cugino". L'incontro avvenne stavolta in casa De Maria; i sospetti di Giuliano vennero acquietati, almeno per quella notte, e i due rimandarono al giorno dopo la conclusione della discussione. Ma Pisciotta non era venuto solo a Castelvetrano; oltre ai carabinieri c'era "qualcuno" che era stato fatto uscire dalle camere di sicurezza speciali per dare una "mano" a Gaspare. Fu questo "qualcuno" che sparò addosso a Giuliano che era già a letto. Turiddu s'era appena addormentato; passò dal sonno alla morte. « A questo punto il capitano Perenze volle strafare. Invece di portare altrove il cadavere e simulare, cosi' come era stato concordato, il conflitto a fuocot decise di riservare a se stesso e alla Benemerita tutta la "gloria" dell'operazione.»


Il capitano e tre carabinieri andarono nella casa di via Mannone. Per strada non v'era anima viva. L'illuminazione stradale consisteva in alcune fioche lampade che proiettavano un debole cono di luce. Davanti alla bottega del forno Di Bella due garzoni seduti al buio, sul marciapiedi, aspettavano che il pane lievitasse e si godevano il fresco della notte. Fumavano tranquilli quando due carabinieri s'avvicinarono e ordinarono loro di rientrare nella bottega e di chiudere la porta. Nel frattempo Perenze e gli altri preparavano la messa in scena. Fecero scomparire lenzuola e materasso bagnati di sangue e misero a pasto ogni cosa. Rivestirono il corpo senza vita e lo portarono giu nel cortile. Lo stesero bocconi senza far caso che non v'erano ferite sotto la grossa macchia di sangue che spiccava sulla canottiera dalla parte della schiena e che il sangue uscito dalle ferite sotto l'ascella poteva soltanto « scendere» verso terra e non « risalire » sulla schiena. Nella fretta dimenticarono il cronometro d'oro che Giuliano amava portare al polso. Poi cominciarono la inutile sparatoria. Alla fine misero accanto al cadavere un mitra che non era quello di Turiddu. Non si spiega la maramaldesca raffica tirata sul corpo senza vita. Un uomo « forse giovane, tarchiato », che per correre meglio andava a piedi nudi, passò di corsa davanti alla porta del forno .. Era l'assassino di Giuliano. Fu visto dai due garzoni che scrutavano dalla fessura della porta che avevano tenuta socchiusa. Perenze fece allontanare l'avvocato De Maria e le altre persone. Tutta la storia venne chiusa cosf. La giustizia non si interessò mai della morte di Giuliano. Il presidente della Corte di Assise cli Viterbo, D'Agostino, con strenua decisione, limitò il processo ai soli fatti cli Portella delle Gmestre, senza soffermarsi sullo scandaloso procedere degli uomini investiti di pubblici poteri. Passatempo venne condannato all'ergastolo in contumacia, ma poté godersi poca latitanza. Ci pensò la mana cli Camporeale, dietro preciso incarico cli qualcuno, a farlo fuori. Il suo corpo, azzannato dai cani randagi, venne ritrovato tempo dopo in aperta campagna. Giuseppe Maretta per i giudici rimase sempre un « presunto mafioso ». Poi ci fu lo show del « riconoscimento » del cadavere di Giuliano. Nessuno era in grado di poterlo effettuare se non i familiari. Arrivarono a Castelvetrano, prelevati in gran fretta da Montelepre, la madre, la sorella Giuseppina col marito e il figlioletto Pietro (oggi sacerdot~) . La famigliola rimase per ore sotto il sole, molestata da fotografi e curiosi, mentre le « autorità » erano a pranzo. Quando venne il momento, l'uomo e il bambino rimasero fuori, la madre fu colta da collasso prima ancora di vedere il cadavere, e la


sorella ebbe il suo da fare per dare aiuto alla madre, assediata da insolenti « paparazzi ». Poi la vecchia donna si riprese, guardò il corpo martoriato del figlio e annw stancamente. Tutti si affrettarono a gridare: « Riconoscimento avvenuto! Riconoscimento avvenuto! ». (Durante il banchetto di festeggiamento, lo « schiticchio » organizzato dall'infaticabile Perenze all'albergo Selinus, autorità e giornalisti furono invitati a brindare « alla fine del banditismo in Sicilia ».) Con la morte di Turiddu, Pisciotta, per non fare la stessa fine, prefecl affidarsi ai carabinieri. Il CFRB venne immediatamente sciolto e le cosche mafiose che avevano collaborato con le forze di polizia furono premiate anche con il disinteresse della Legge nei loro confronti. Esse approfittarono del lungo periodo di impunità per rafforzarsi e prosperare fino al punto di dilagare in tutta la penisola. Pisciotta visse sei mesi ospite del capitano Perenze godendo di protezione e di amorevoli cure. Il buon capitano spinse la sua benevolenza al punto di accompagnare il suo ospite in giro per la città, per fare acquisti e per sottoporsi alle cure mediche di cui necessitava. Poi Gaspare ricominciò a temere di fare una mala fine; stavolta preferl farsi catturare dalla polizia. Fece sapere « fiduciariamente »alla questura che potevano venire a prenderlo a casa, a Montelepre. Aspettò tranquillamente il commissario di Partinico, dottor Michelino Gambino. Si fece trovare pronto, con la valigia già fatta. Indossava un corretto abito scuro e consegnò compitamente la sua arma: una pistola automatica americana con 15 colpi, di cui uno in canna, e un caricatore di riserva. · Piu tardi, nel corso del processo di Viterbo, Aspanu poté dire: « Sono venuto qua di mia spontanea volontà ... ho collaborato con Luca e prima ancora con la polizia ». E il colonnello Luca confermò di avere offerto a Pisciotta l'espatrio e la riscossione della taglia posta su Giuliano. Subito dopo l'arresto di Pisciotta il questore Marzano ebbe la soddisfazione di poter insolentire liberamente i «cugini» carabinieri, « Io » insinuò, « i banditi li prendo vivi. » E fece mettere in galera tutti i mafiosi confidenti dei carabinieri che avevano collaborato all'eliminazione della «banda»: i Miceli, zio e nipote, Nitto Minasola, Michele D'Alfano, l'avvocato De Maria, Giuseppe Marotta... A Viterbo, Pisciotta, in omaggio all'antico detto siciliano: « 'U mortu è mortu, aiutamu 'u vivu », cercò di guadagnarsi nuove benemerenze e usci con una sorprendente rivelazione: « Io, Gaspare Pisciotta, ho assassinato Salvatore Giuliano durante il sonno. Que308


sto avvenne dietro accordo personale con il signor Scelba ministro dell'Interno ... ». I giornalisti impazzirono di gioia nel raccontare che Giuliano era stata ucciso dal « cugino » traditore, dal « luogotenente » della banda. Pisciotta non fu mai il luogotenente della banda. A parte tutto le sue condizioni di salute non gli avrebbero consentito di svolgere questo ruolo. Giuliano non ebbe luogotenenti, ma alcuni capi squadra come Terranova, Cucinella e Giuseppe Passatempo; e fiancheggiatori occasionali come Labruzzo e lo stesso Ferreri, « delegato » per la zona Alcamo-Castellammare. Pisciotta fu semplicemente il « portarma » di Turiddu. Infine i due non erano parenti, tna qualche cosa di piu: erano buoni amici. (Giuliano fece cose da pazzi per procurare in America l'introvabile streptomicina per il tisico Pisciotta.) In Sicilia, fra amici, è abituale l'uso di darsi del « cugino ». In attesa del processo d'appello, Pisciotta venne trasferito all'Ucciardone di Palermo dove, appena giunto, ebbe l'onore di ricevere una visita del primate dell'isola, il potente cardinale Ruffini. In tale occasione Pisciotta, da buon cristiano, si confessò e fece la comunione. Altra importante « confessione » di Pisciotta ebbe luogo ai primi di febbraio del 1954, « Aspanu » chiese « d'essere sentito dal procuratore generale di Palermo (che, se non ricordo male, era il dottor Vitanza ... ) da lui si recò il sostituto procuratore generale, dottor Scaglione. In quell'occasione il dottor Scaglione non avrebbe verbalizzato quello che rifer.( Pisciotta in quanto era andato senza segretario ripromettendosi di ritornare alcuni giorni dopo con il segretario ... ma il Pisciotta ... il 9 febbraio mod avvelenato ».5 A Viterbo Aspanu Pisciotta aveva gridato che nel processo per la morte di Giuliano avrebbe detto la verità. Ma mentre era detenuto all'Ucciardone, una tazza di caffè alla stricnina gli chiuse per sempre la bocca. Il giorno della morte di Gaspare nella cella erano in tre: Gaspare, il padre e la guardia carceraria Giordano Selvaggio in visita mattutina. La giustizia non riusci a chiarire il delitto né a dare un nome all'assassino (anche se vennero fatti i nomi del presunto avvelenatore, tale Filippo Riolo, in carcere perché sospettato di omicidio e di un altro, presunto implicato nel delitto, il dottor Maggiore, sindaco di Ustica. Anni dopo il Riolo venne abbattuto sulla soglia di casa dai soliti ignoti e il dottor Maggiore pen nd disastro aereo di Punta Raisi). Tutta la storia di Giuliano è veramente sporca. Fatta di inganni, tradimenti, intrighi, provocazioni, istigazioni, menzogne, calunnie. 5 Cfr. Relazione sui rapporti, ecc. C.Ommissione Antimafia citata. Dichiarazione dcll'on. Giuseppe Montalbano, 22 luglio 1971, p. 768.


E sangue, tanto sangue. Quando crediamo di imbatterci in qualche barlume di verità ci si accorge che è una « verità » falsa, cinicamente e fraudolentemente manipolata. Alla fine si arriva a un risultato sconvolgente e sconfortante. L'unico personaggio che appare chiaro e comprensibile è lui, Giuliano, il bandito ribelle e assassino. Di contro a Giuliano sta la folla degli sfruttatori, degli ingannatori, dei traditori, degli istigatori. Dei falsi amici e dei falsi nemici. I protagonisti della « Giuliano's Story » ebbero differenti fortune. Turiddu Giuliano e Aspanu Pisciotta morirono assassinati da « ignoti ». I superstiti picciotti della banda invecchiarono nei penitenziari. Si comportarono da « uomini d 'onore», non rivelarono i · nomi dei numerosissimi complici e fiancheggiatori che avevano avuto a che fare con le vicende della banda fin dai tempi dell'EVIS. Il deputato Cusumano Geloso e l'ispettore generale di PS, Verdiani, fecero morti misteriose. Cusutnano mori avvelenato e Verdiani suicida. Il procuratore Scaglione mori «sparato» dai soliti ignoti, altri ignoti « fecero fuori» Nitto Minasola. Per dieci anni Minasola era rimasto tappato in casa. Poi, un giorno di settembre decise d'andare alla fiera del bestiame di San Giuseppe Jato. La lupara lo fulminò sotto un sole cocente, alle due del pomeriggio, davanti al municipio del paese. Di un altro patlamentare, coinvolto nella vicenda Giuliano, si disse che l'improvvisa morte era stata causata da una « stretta di mano al curaro», con un pungente anello. Il prefetto Vicari fu promosso, poi divenne il potente capo della polizia italiana. Il procuratore generale Pili andò in pensione, trovò pronta la carica di consulente giuridico della Regione siciliana approntatagli dalla benevolenza del presidente Restivo. Fece « la morte del Signore » cioè mori nel suo letto e di morte naturale. Il questore Marzano continuò la sua rapida carriera che venne troncata da un banale quanto emblematico episodio di persecuzione contro un oscuro vigile urbano di Roma, tale Mellone. Scelba divenne presidente del Consiglio, poi fu improvvisamente messo da parte, e da anni non se ne parla piu. Anche Totò Aldisio ebbe un veloce tramonto politico prima di fare la « morte del Signore». Il colonnello Luca e il capitano Perenze, malgrado tutto, uscirono abbastanza bene dallo scandalo suscitato dalle falsità da loro raccontate sulla morte di Giuliano. Luca fu addirittura promosso generale alla vigilia del congedo e rimase ancora in servizio per qualche anno. Una comprensiva commissione di generali lo giustificò e, per giunta, lo elogiò. Il capitano Perenze fini davanti ai giudici e si trascinò appresso tre modesti subalterni. Le accuse contro Perenze e i tre uomini 310


erano pesanti: omessa denunzia di reati, orotss10ne di rcfcr10, ri fiuto di ufficio legalmente dovuto, autocalunnia, falsa teslimoninnzn, frode processuale, favoreggiamento personale ... Dal processo cl 'op pello Perenze usd indenne, ma non pulito: per sopravvenuta arn11istia, per non avere commesso il fatto, per avere agito in stato di necessità, per avvenuta ritrattazione ... Gli uomini politici coinvolti nella vicenda, sia gli indipendentisti (che mai negarono, anche se cercarono di minimizzare, i rapporti avuti con Giuliano), sia gli altri che, ripetutamente accusati, negarono sempre, non ebbero a soffrire conseguenze. Continuarono la loro attività politica e professionale. La rivista DC « Cronache Sociali» (1° settembre 1949) ispirata da Dossetti, alla fine d'un lungo articolo dedicato alla Sicilia doveva ammettere che v'era stata « ... una notevole simpatia fra il bandito e taluni candidati ospitati dalle liste della DC, del PNM e del Blocco Nazionale ... ». Il tribunale non volle indagare meglio sulle parole pronunciate da Pisciotta: « ... noi servimmo con lealtà e disinteresse i separatisti, i monarchici, i democristiani e tutti gli appartenenti a tali partiti che sono a Roma con cariche, mentre noi siamo stati scaricati in carcere... "

Di Giuliano e della sua storia rimane oggi un buon numero di tombe nel cimitero di Montelepre dove una scritta che sovrasta il cancello avverte: « Fummo come voi, sarete come noi». Il 26 febbraio 1948 l'Assemblea Costituente dichiarò lo statuto regionale della Sicilia legge costituzional~ dello Stato. I siciliani, paghi di questo successo e delle grandi speranze da esso suscitate, voltarono definitivamente le spalle al movimento indipendentista. Il M.I.S. spari ancor prima delle elezioni del 18 aprile 1948. Lu,_cio Tasca aveva percepito il declino del Movimento e riteneva fosse meglio non partecipare alle elezioni per evitare l'insuccesso, per « non farsi contare ». Finocchiaro Aprile rinunziò alla nomina a senatore di diritto che spettava a tutti i parlamentari con tre o piu legislature e si presentò candidato alla Camera dei Deputati. Non venne eletto, e cosi nessun altro candidato indipendentista. Si dimise dalla carica di presidente del M.I.S. La rabbia della Sicilia si dissolse, se ne andò coi treni che lasciavano l'isola e si portarono via un milione di emigranti. Buona parte degli esponenti del M.I.S. andò a finire nelle file degli altri partiti. V arvaro fu deputato del PCI, altri diventarono democristiani, socialisti, liberali, repubblicani e perfino missini. Finocchiaro Aprile si avvicinò al PCI. 3II


I Carcaci, Tasca, Castrogiovanni, Gallo,. La Rosa, Rindone, Bruno di Bel.monte e gli altri, si ritirarono dalla vita pubblica in silenzio. Dignitosamente. Senza abbandonare il loro ideale, senza rinunziare alla speranza di vedere un giorno risorgere la « Nazione Siciliana ». Molti avevano patito il carcere, le torture e le persecuzioni. Altri si erano rovinati economicamente. Erano stati considerati pazzi, traditori, illusi. Questi «pazzi» non solo erano riusciti a far cambiare le cose in Sicilia, ma avevano provocato l'inizio di quella profonda trasformazione politica e amministrativa che avrebbe investito tutta l'Italia. Questi « pazzi » avevano frantumato il vecchio Stato unitario italiano che presto sarebbe scomparso per dare vita a un nuovo Stato basato su ordinamento regionale. Non aveva torto il cognato di Salvatore Giuliano, Pasquale « Pino » Sciortino quando ricordava ai commissari dell'Antimafia: « Tuttavia abbiamo avuto un merito, tutto ciò è servito a spingere il governo a concedere l'autonomia regionale ... che ha un poco rimarginato le piaghe subite ... ».

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INDICE DEI NOMI

Abba Giuseppe Cesare, 262. Acquarone Pietro, 12, 13, 200. Acton John Francis Edward, 135. Adonis Joe, 159. Agnello Giuseppe, 107. Agnesina, ispettore PS, 223. Agrifoglio, col., 22, 207. Aiello P., 57. Aiello Tommaso, 57. Aimone d'Aosta, 14, 15, 18, 20. Albanese, questore, 150. Albano Domenico, 197. Albeggiani, prof., 69, 72. Albergo Domenico, 100, 107, 114. Aldisio Salvatore, 22, 23, 41, 74, 76, 82, 88, 94, 102, 104, 105, 107, 108, 114, 119, 120, 127, 129, 133, 134, 140, 188, 197, 198, 199, 200, 201, 202, 216, 223, 233, 238, 239, 241, 250, 252, 25.3, 269, 270, 278, 292, 310. Alcssi Giuseppe, 74, 76, 104, 166, 231, 292. Alexander Harold Rupert, 10, 26, .36, 43, 45, 52, 81, 82, 108, 167. Alfano Luciano, 142. Alfonso V d'Aragona, 73. Alighieri Dante, 10.3. Alliata di Piettatagliata Fabrizio, 101, 290.

Alongi Nicolò, 266. Altomare Salvatore, 94, 114. Amari Emerico, 90. Amari Michele, 90. Amato Giuseppe, 97, 203, 208, 210, 212. Amato Salvatrice, 248. Ambrosio Vittorio, 9, 10, 11, 12, 112, 167, 199. Amedeo, primo duca d'Aosta, 90. Amedeo d'Aosta, 15, 16. Amenduni Vincenzo, 245. Anastasia Albert, 161. Antoni Carlo, 14.

Antonini Luigi, 106. Antonio Giovanni, 131. Antonuccio Domenico, 247. Arcerito Vincenzo, 142. Ardizwne Carlo, 95, 100, 117, 174, 177, 215. Astol.6. Silvio, 22. Attinelli Luigi, 96. Avarino Alberto, 185, 195. Avama di Gualtieri, duca, 95, 231. Avclne Enrico, 100. Aversa Raffaele, 49. Avila Rosario, padre del seguente, 248. Avila Rosario, 139, 140, 142, 204, 205, 220, 226, 227, 236, 237, 242, 247, 248. Avila Rosario junior, 142, 205, 226, 227, 248. &<>ti Nicolò, 272. Azzaro, prefetto, 99. Badalamenti, gruppo mafioso, 161. Badalamenti Nunzio, 140, 289, 291, .302, .306. Badoglio Pietro, 14, 15, 16, 34, 43, 56, 58, 60, 81, 84, 102, 103, 104, 105, 108, 109, 11.3, 114, 118, 130, 163, 167, 168, 170, 173, 192, 200, 230. Ballo, vescovo, 73. Bandiera Pasquale, 75, 23.3. Bandini Franco, 10, 15. Barbagallo Salvo, 96, 211. Barbara Joseph, 161. Barbato Nicola, 282. Barbera Giovanni, 247. Barbera Giuseppe, 247. Barberi S., 57. Barone Francesco, 140, 295. Basile, comtnissario PS, 223. Bastianini Giuseppe, 13. Battaglia, 69. Battaglia Achille, 192. Battaglia Alfredo, 186, 187.

31 3


Baviera Giovanni, 71, 73, 94, 102, 113. Behr, ten., 52, 165. Belgiorno F. L., 75. Bella Rosalba, 131. Ben Bella Ahmed, 86. Benson C. E., 36. Berardi P aolo, 110, 111, 170, 229, 233, 235, 238, 241. Bergomoli Luigi, 302. Betto Francesco, 178. Bianca G ., 75. Biscari Roberto, 100. Biundo, sindacalista, 272. Bizzozero, magg. medico, 62, 73. Bombace Francesco, 187. Bonfiglio Agatino, 100, 176. Bonfiglio Sebastiano, 266. Bonf Amedeo, 237. Bonomi lvanoe, 14, 118, 121, 188, 214, 230, 257. Bontade, gruppo mafioso, 161. Borghese Camillo, 100. Borghese Flavio, 111. Borghese Junio Valerio, 111. Boscaglia Azzero, 184. Bottai Giuseppe, 55. Bradley Omar, 21, 65. Branca Amedeo, 137, 227, 241, Brisotto, gen., 185, 186, 188. Brooke Alan, 17, 18. Brosio Manlio, 14. Bruno, avv., 95. Bruno di Belmonte, 94, 95, 100, 253, 312. Bryant A., 17. Bucchieri, 227. Bucolo Carmelo, 94. Buffa Luigi, 101. Burgaletta Giuseppe, 183. Burzio Filippo, 14. Buscemi, 227. Busellino Emanuele, 285.

2n.

Caccamo Giacomino, 48. Cacopardo Rosario, 95, 242, 253. Cadorna Raffaele, 91. . Cagnes Giacomo, 181, 187. Calà Rosario, 144. Calabrese Carmelo, 208, 209, 211. Calabrò, geo., 270. Calandra Giuseppe, 244. Calderone Antonino, 101. Calderone Antonino, commissario PS, 251. Calisse Enzo, 131. Camilleri Pino, 272.

Cammarata Arcangelo, 41, 99, 104, 114, 115, 123. Cammarata Giuseppe, 220, 242. Campbell Ronald, 14. Campisi Salvatore, 177. Candela Rosario, 140, 235, 302. Canepa Antonio, 88, 96, 97, 133, 134, 198, 202, 203, 204, 205, 206, 207, 208, 209, 210, 211, 212, 213, 219, 222, 223. Canepa Luigi, %. Canepa Pietro, 204. Canepa Teresa, 204. Cannatnela Pietro, 131. Caooiani Gaetano, '57. Capizzi, 179. Cappello Giovanni, 237, 238. Caputo Vincenro, 290. Caracciolo Domenico, 135. Caramanna Salvatore, 252. Carandini Nicolò, 14. Carbonaro G., 57. Carcione, s.ten., 238. Carciotto, monsignore, 100. Caristia Carmelo, l04. Carlo III, re di Napoli e Sicilia, 230. Carlo V, imperatore del sacro romano impero, 133. Carlo Alberto, re di Sardegna, 5. Carlo d'Angiò, 148. Carr, geo., 133. Carrara, ing. (Renro Renzi), 186. Catter James Earl, 213. Cattia Giovanni, 99, 104, 182, 232. Casalaina, avv., 94. Casaretti, gen., 176. Cascio Ferro Vito, 153, 154, 160. Cascione Giorgio, 193. Cassarà, avv., 173. Castellano Giuseppe, 81, 130. Castiglia Enrico, 57. Castiglione Domenico, 143. Castiglione Giuseppe, 143. Castiglione Luigi, 94, 100. Castorina, avv., 253. Castro Fide!, 86 . Castrogiovanni Attilio, 5, 95, 96, 98, 137, 174, 197, 201, 202, 205, 207, 208, 220, 221, 242, 257, 260, 279, 312. Catalano Vincenzo, 144. Catania Onofrio, 97. Catinella Salvatore, 57. Cattani Leone, 255. Ca.vallotti Felice, 280, 281. Caviglia Enrico, 14.


Cavour Camillo Benso, conte di, 90. Cerrito Gino, 95. Cesarò, duchessa di, 95. Chiazzese Lauro, 94, 117. Churchill Winston, 9, 10, 16, 39, 84, 103, 205. Cianca Alberto, 15, 107. Cianci Paolo, 88, 253. Cicciò Rosario, 208, 211. Cicconardi Vincenzo, 15. Cicerin Gcorgij Vasilevic, 121. Cigna Domenico, 87, 94, 105. Cilia Salvatore, 185, 193, 194. Cimino Marcello, 223, 258. Cimò Calogero, 275. Cipolla Ettore, 292. Cipolla Francesco, 57. Cipolla Michelangelo, 88. Citraro, brigadiere CC, 273. Clark Mark, 27. Oausewitz Karl von, 299. Oemenceau Georges, 259. Clemente IV, papa, 148. Coffari Igino, 270. Coglitore, ispettore gen, PS, 301. Colajanni E. N ., 75. Colajanni Napoleone, 90, 152. Colajanni Pompeo, 215. Colombo Joseph, 159. Collura, 227. Comandini Federico, 13. Coinisi Domenico, 185. Condorelli Orazio, 67, 69. Consiglio Giovanni, 70. Coppola Agostino, 301. Corallo, 238. Corcorellaro Antonio, 144. Correnti Liborio, 132. Cortese Luigi, 15. Cortese Pasquale, 104, 231. Corvo Max, 48, 64, 65, 106, 207. Corvo Vincenzo, 143, 144, 207, 208. Cosentino, barone, 95, 253. Costa Mariano, 105. Costello Frank, 159, 161, 162. Criley Richard L., 165. Crisafulli Anselmo, 289, 300. Crisòone, 182. Crispi Francesco, 90, 92. Croce Benedetto, 13, 69, 108. Croci, 139. Cucchiara Giuseppe, 57. Cuccia Francesco, 156. Cucco Alfredo, 156.

Cucinella Anto nino, 140, 235, 289, 291, 309. Cucinella Giuseppe, 140, 289. Cultrera Romano, 57. Cunningham Andrew, 19. Cupani, barone, 204. Curciullo, padre e figlio, 69. Cusumano Geloso Giacomo, 290, 310. D'Agostino, giudice, 307. Dainotti Antonio, 185. D'Alfano Michde, 308. Dalla Croce Aniello, 161. D 'Amico, uomo politico, 273. D'Antoni Paolo, 99. Darlan François, 27. De Biase Carlo, 168. De Gasperi Alcide, 214, 216, 230, 231 , 253, 255, 280, 299, 306. Degli Espinosa Agostino, 170. Del Carpio Ideale, 302. Dell'Agii, 180, 181. De Lorenzis Ugo, 178, 192. De Luca Alfredo, 57. De Marco Antonio, 97. De Maria Emanuele, 143. De Maria Gregorio, 305, 306, 307,

308. De Michele, uomo politico, 153.

De NicoLi Enrico, 261. Denti Antonio, 208. Dcprctis Agostino, 113. Dessena Antonio, 99. Destf A., 76. Deutsch, magg., 75. Di Bella, sacerdote, 244. Di Bella A., 1.00. Di Blasi, 48. Di Fiore Baldassare, 190. Di Giorgio, gen., 156. Di Giovanni Edoardo, 105. Di Liberto Raffaele, 238. Di Maggio, 139. Di Maggio, gruppo mafioso, 161. Di Marco Antonio, 88. Di Martino Raffaele, 253. Di Matteo Salvo, 60, 80, 116, 190, 191. Di Maura Egidio, 176. Dina Giovanni, 144, 145. Di Pietra Paolo, 125. Di Stefano Salvatore, 183. Dolci Danilo, 139. d'Ondes Reggio Vito, 90. Dèinitz Karl, 19. Dos.setri Giuseppe, 311.


Dottore Giuseppe, 140, 143, 204, 220. Drago Gaetano, 69. Dulutto F., 57. Eden Anthony, 15, 17, 34. Edoardo VII, re d'Inghilterra, 100. Einaudi Luigi, 14, 254. Eisenhower Dwight David, 10, 17, 21, 28, 31, 33, 36, 44, 45, 81, 167. Ellwood David, 37, 39. Elwers Guys, 100. Emanuele Peppino, 201. Enea Pasquale, 160. Fabbo Ferdinando, 306. Faldella Emilio, 22. Falliero, federale, 99. Falzca A., 57. Falwne Gaetano, 131. Faraci Giuseppe (falso nome di Ga· spare Pisciotta), 299. Faranda Giuseppe, 105. Farina Beniamino, 122, 123. Farinella Mario, 76. Farrel Victor, 15. Fasino Stefano, 143. · Fatta ciel Bosco, barone, 101. Fazio Antonio, 99, 100. Feno Gianni, 132. Ferdinando li, re delle Due Sicilie, 91, 266. Ferrara, barone, 66. Ferrara Francesco, 90. Ferreri Salvatore, 140, 141, 283, 285, 296, 299, 300, 309. Ficldman, magg., 165. · Filippi Ernesto, 74, 165, 202, 300. P-ilippone, fratelli, 242. Finocchiaro Aprile Andrea, 82, 83, 85, 86, 87, 88, 89, 95, 102, 105, 107, 109, 111, 121, 125, 133, 134, 137, 198, 200, 203, 214, 220, 223, 224, 225, 253, 254, 260, 278, 279, 311. Fiorentino Gabriella, 75. Firrincieli Salvatore, 184. Fiumara, gen., 208, 233, 237,238, 241. Fortunato, prof., 69. Fortunato Giustino, 263, 264. Francesco I, re di Francia, 133. Francesco II, re delle Due Sicilie, 91. Franchetri Leopoldo, 196. Franchina, sacerdote, 189. Franco, 145. Fransoni Francesco, 14. Franzone Pietro, 220, 242. Fumari Francesco, 179.

Gagliano, marcsc., 273. Gaglio, aw., 95. Gaglio Francesco, 285, 287, 288, 291. Gaglio Pietro, 307. Galante Carmine, 159. Galante Ulisse, 95. Gallieri Salvatore, 247. Gallo Concetto, 145, 174, 207, 219, 220, 221, 227, 235, 236, 237, 238, 242, 246, 257, 258, 260, 312. Gallo Joseph, 158. Gallo Poggi Salvatore, 95, 253. Gambino Carlo, 161. Gambino Michele, 308. Ganci Massimo, 85. Ganci Puccio, 185. Gangemi Milio, 253. Garibaldi Giuseppe, 7, 103, 1%, 204, 220,286. Garufi, carabiniere, 227. Gasparotto, uomo politico, 255. Gaudioso Carmelo, 94. Gaya F., 238. Gayre George R., 37, 38, 53, 55, 56, 57, 64, 66, 68, 71, 72, 73, 74, 7'5, 79, 103, 104. Genco Russo Giuseppe, 98, 160, 275. Genovese Giovanni, 287, 289, 291. Genovese Giuseppe, 184, 289, 291. Genovese Vito, 52, 64, 159, 161, 161 Gentile, procuratore generale, 198.. Gerace, 123. Gheddafi Muammar, 213. Giacalone Antonino, 57. Giacinto, religioso, 301. Giallombardo, cap., 300. Giambra Giuseppe, 145. Giambra Ignazio, 145. Giammichele Florindo, 175. Giannitrapani, gen., 68. Giattizw Giuseppe, 99, 103. Giarrusso, 1n. Gioia Giovanni, 144. Giolitti Giovanni, 86. Giordano Gioacchino, 117. Giordano Michele, 76. Giorgio VI, re d'Inghilterra, 133. Giuffrè Francesco, 174. Giuffrida Roberto, 100. Giuliano, ing., 95. Giuliano Giuseppe, 296. Giuliano Giuseppina, 307. Giuliano Mariannina, 243, 285, 288. Giuliano Salvatore, padre del seguente, 248.


Giuliano Salvatore, 5, 6, 74, 79, 81, 137, 139, 140, 142, 144, 145, 146, 165, 204, 205, 220, 221, 222, 227, 228, 233, 234, 235, 239, 240, 241, 242, 243, 245, 248, 253, 277, 281, 283, 284, 285, 286, 287, 288, 289, 290, 291, 292, 293, 294, 295, 296, 297, 298, 299, 300, 301, 302, 303, 304, 305, 306, 307, 308, 309, 310, 311, 312. Gondarclla Giuseppe, 238. Gorgone Giovanni, 94. Gozzi, famiglia, 96. Grammatico Dino, 47. Grassi, 95. Grasso Franco, 87, 94, 95, 117. Gravina Giovanbattista, 184. Grazioli, prefetto, 99. Greco, gruppo mafioso, 161. Greco Luigi, 131. Gtteo Nicola, 131. Gricoli Pietro, 283. Gronchi Giovanni, 124. Guarino, commissario PS, 223. Guarino, prof., 94. Guarino Gaetano, 272. Guarino Amelia Giovanni, 41, 82, 94, 102, 105,117,231,232, 254. Guarnieri Andrea, 114. Guastclla Antonio, 188. Guercio, magg., 205. Guevara Ernesto (Che), 299. Gulisano, 68. Gullo Ambrogio, 229. Gullo Fausto, 217, 269. Gullo Rocco, 101.. Gullotta Nino, 203. Gulotta Beniamino, 57. Guttilla Angelo, 131. Guzzoni Alfredo, 191. Hancock, col., 162. Harris C. R.S., 31, 38. Heidemann, gen., 110. Hersey John, 38. Hidaka Shinrokuro, 13. Hitler Adolf, 11, 12, 19, 27, 106. Hoare Samuel, 13. Hobsbawm Erich J., 138. Ho Chi Minh, ·86. Hoess Henner, 149. Holmes C., 41. Hull Cordell, 15. Ilardi Francesco, 145. Immordino Pietro, 122.

Immordino Vincenzo, 122. lmpeduglia, 180. Indovina Roberto, 101. lngrao Calogero, 143. Iagrascl Carlo, 76, 79. Iaskip Thomas, 104. lntorrella Biagio, 187, 189. Ippolito Calogero, 144. Jacono, vescovo, 41. Jaanuzro, 139. Jodl Alfrcd, 11. Karmack Aadrew, 29, 32. Kipling Rudyard, 204. Kostilev, 121. La Barbera, gruppo mafioso, 161. Labruz7.0 Giuseppe, 139, 142, 309. La Ferlita Luigi, 104. La Guardia Fiorello, 36. La Loggia Enrico, 82, 94, 102, 103, 107, 114, 119, 217, 218, 231, 232. La Loggia Giuseppe, 69, 94. La Malia Ugo, 13, 215, 217. La Mela Giuseppe, 237. La Motta Stefano, 95, 200, 202, 220, 221, 238, 242. La Rocca, barone, 186. La Rosa Luigi, 82, 94, 95, 105, 312. La Spina Giuseppe, 176. La Terra Giovanni, 172, 181, 186. Lauricella Placido, 94. Lavitrano, cardinale, 74, 202. Lazzaro Federico, 301. Lcanza Ninetto, 203. Lechis, ten., 184. Leggio Luciano, 304, 305. Leone, maresc., 244. Leotta, rettore, 71. Leto Andrea, 110. Libertini, 105. Li Calzi, 139. Li Causi Girolamo, 120, 121, 122, 123, 124, 181, 218, 232, 283, 284, 286, 289, 290, 291, 296. Licitra Carmelo, 183. Li Maadri Gianni, 242. Linguaglossa, principe di, 95. Lo Giudice Giuseppe, 203, 208, 210, 211. Lombardo Maria, 248. Longchaney, cap., .35. Longhitano G ., 107. Lo Presti Francesco Paolo, 102, 292. Lo Sardo, s.ten., 126, 128.


Lo Schiavo Giuseppe Guido, 156. Lo Verde, commendatore, 82. Luca Ugo, 146, 150, 298, 300, 301, 302, 303, 304, 305, 306, 308, 310. Luciano Lucky (Salvatore Lucania), 159, 162. Lucifero Falcone, 258. Lumia Damamiano, 163. Lunetta Fortunato, 185. Lupis Giovanni, 183. Lupis Giuseppe, 183.

McCaffery, ten. col., 52. McCaffery John, 15. Macchi Luigi, 94. McCloy John, 28. Maclc Srnith Dcnnis, 80. MacMillan Harold, 26, 36, 167. McSheny F.J., 36, 73. Madonia Castrense, 140, 289, 302, 306. Magaddino Joe, 161. Maggio Nicoll>, 101. Maggiore, 309. Magrf E., 145. Maiorana Dante, 218, 232. Majorca, contessa, 213. Malan Edmondo, 62. Malta Salvatore, 98. Maltese Salvatore, 251. Mancini Giacomo, 119. Mancino, carabiniere, 81, 294. Mancuso Nino, 144. Mangano, questore, 305. Mangano Giuseppe, 69, 180. Mangano Valerio, 180. Mangili, 177. Mannino Frank, 140, 171, 234, 287, 288, 289, 295, 300, 302, 306. Manzella, brigadiere CC, 237. Mao Tze-tung, 299. Marchesano Leone, 290. Marcoccio Ignazio, 68. Maria José di Savoia, 13, 14. Marino, dott., 218. Marino Carmelo, 187. Marino Elia, 283. Mariotti Adamo, 112. Marotta Giuseppe, 306, 307, 308. Marsala Rosario, 122. Martino Augusto, 87, 88, 94. Martino Gaetano, 71, 75. Marullo, 105. Marzano, questore, 301, 303, 306, 308, 310. Marziano Francesco, 186, 187. Masseria Giuseppe, 159.

Mattaliano Ferdinando, 234. Mattarella Bernardo, 74, 76, 94, 101, 102, 104, 105, 114, 117,123,278, 284, 290, 301. Matteotti Giacomo, 96. Mattioli Raffaele, 14, 215. Maugeri Francesco, 22. Maxwell Gavin, 34, 243, 245. Mazzarese Nino, 144. Mazzini Giuseppe, 7, 103. Mazzola Santo, 287. Melisenna Santi, 111. Mellone, vigile urbano, 310. Merlo Enrico, 120, 125. Messana Ettore, 141, 146, 150, 257, 258, 283, 284, 290, 299, 301, 303. Messe Giovanni, 167. Micale Silvio, 201. Miceli, appuntato CC, 227. Miceli lgnàzio, 306, 308. Miceli Nino, 306, 308. Migliore, maresc., 185. Milazzo, col, 176. Mil=o, fuorilegge, 227, 246. Milazzo Silvio, 104, 105. Militello Giuseppe, 227. Milito Anru'bale, 95. Millimaggi Libero, 94, 95. Millimaggi Spartaco, 94, 95. Minasola Nitto, 306, 308, .310. Mineo Ignazio, 102, 103. Mineo Mario, 231. Mirabile Alfredo, 231. Miraglia Accursio, 271, 272, 27.3. Misuri Alfredo, 259. Modica, ispettore gen. PS, 301. Molano Antonino, 143, 204, 220. Molotov Vjaceslav Michajlovic, 121. Monastero Salvatore, 57. Moncada Enzo, 228. Monfotte F., 57. Montalbano Giuseppe, 57, 87, 94, 95, 102, 103, 105, 114, 120, 231, 232, 273, 290, 291, 296, 309. Monteforte Salvatore, 114. Montgomery Bernard Law, 10, 63. Monticcioli, 295. Montini Giovanni Battista (poi Pio VI), 13, 14. Moorehead Alan, 21. Morello Franca, 132. Mori Cesare, 23, 154, 156, 157, 161, 162, 301. Morse Dave, 53. Mortillaro Vincenzo, 151. Morvillo Teresa, 132.


Moscatelli Ciro, 143. Motta, avv., 70. Mucia Giuseppe, 112. Mugnani Max, 64. Mulé Rosario, 139, 142. Mundo Giovanni, 247. Mura Giovanni, 189. Muranà Giorgio, 179. Murphy Robert, 26, 36. Musotto Francesco, 94, 99, 113, 114, 118. Musotto Giovanni, 74. Mussolini Benito, 9, 10, 11, 12, 13, 15, 20, 23, 44, 58, 70, 73, 84, 86, 96, 99, 107, 156, 157, 162, 192, 199, 200, 230. Muti Ettore, 301. Naitana Salvatore, 182, 183. Napoli, serg., 179. Napoli Francesco, 90. Napoli Guido, 101. Nasi Nunzio, 90, 93. Natale Calogero, 76. Navarra Michele, 304. Nelson famiglia, 97. Nenni Pletro, 214, 215, 2.54, 255, 273, 280. Nicastro, commissario prefettizio, 187, 189. Niccolai, uomo politico, 136. Nicoletti Ferdinando, 210, 212. Nicolosi Salvatore, 145. Nicolosi Tedeschi, avv., 95, 253. Nicosia Angelo, 25, 135. Nitti Francesco Saverio, 86, 257. Nobile G., 192. Notarbartolo di San Giovanni Ema· nuele, 136, 154. Novara Antonino, 185. Occhipinti Maria, 69, 81, 182, 193, 194, 195. O' Donnell, cap., 165. Olivetti Adriano, 14. Onofrio, 88. Orano Paolo, 65. Orlando Carlo, 231. Orlando Taddeo, 130. Orlando Vittorio Emanuele, 58, 93, 113, 118, 214, 229, 255, 257, 258,

259. Orlando Cascio Salvatore, 57. Osborne d'Atty Goclolphin Francls, 14, 86.

Pacciardi Randolfo, 291. Pace, fratelli, 203. Padova Salvatore, 176. Pagano, col., 64. Palacino Giovanni, 185. Paladini, 49. Paladino Giuseppe, 101. Pala=, 143. Palazzolo, 88. Palermo, uomo politico, 24. Palizzolo Raffaele, 136. Palmegiano, 131. Palmieri Nicolò, 82. Palmisciano Attilio, 94, 107. Pampillonia, vice prefetto, 126. Pancamo Edoardo, 52, 99. Panepinto Lorenzo, 267. Pantaleone Michele, 78, 122, 123, 142, 145, 164. Paolantonio Giacinto, 80, 270, 299. Papa Michele, 213. Papalia Jerace Silvio, 101. Pappalardo, cardinale, 300. Paradiso Felice, 57. Paresce Enrico, 215. Parlapiano Velia A., 105. Parri Ferruccio, 214, 215, 217, 218, 223, 230, 231. Passantlno G., 57. Passatempo Giovanni, 143. Passatempo Giuseppe, 284, 286, 309. Passatempo Salvatore, 144, 284, 291, 306, 307. Patané Carmelo, 100. Patané Carmelo, arcivescovo, 97, 99. Paterniti, avv., 95. Patemò Ruggero, 228. Paternò Castello Antonino di Sangiuliano, 100. Paternò Castello Francesco di Carcaci, 87, 95, 100, 107, 108, 111, 175, 176, 200, 204, 220, 228, 229, 241, 242, 257, 258, 312. Paternò Castello Gaetano di Carcaci, 228, 229, 258. Paternò Castello Guglielmo di Catcaci, 95, 174, 203, 204, 207, 212, 220, 229, 235, 242, 257, 258, 299. Patricolo Gennaro, 278. Patrissi Emilio, 259. Patton Gcorge Srnith, 38, 51, 62, 65, 73, 74. P ecoraro, famiglia, 96. Pecoraro, uomo politico, 104. Pecoraro Salvatore, "302. Pellegri.n o Giovanni, 122.


Pellegriti Alfio, 144. Pellitteri, 123. Perenze Antonio, 142, 290, 301, 302, 303, 304, 305, 306, 307, 308, 310, 311. Perez Paolo, 90. Pemiciaro Giuseppe, 190. Pesenti Gustavo, 16. Petacci Claretta, 58. Pétain Henri-Pbilippe, 11. Petrigni Vincenzo, 88. Pcttoncelli Mario, 69, 71, 73, 97. Petrosino Joe, 154. Petrotta Gaetano, 57. Petrotta Giacomino, 190, 191. Pianelli, fratelli, 299, 300. Piazza Salvatore, 88, 94, 95, 96. Piccillo, sacerdote, 166. Pietratagliata, duca di, 95. Pignatelli Aragona·Cortez Ferdinando, 22, 23. Pili Emanuele, 299, 303, 304, 306, 310. Pino, cap., 75. Pio XII, papa, 44, 118, 229 Piotti Enrico, 245. Pirandello Luigi, 291. Pisanò Giorgio, 136, 305. Pisciotta Francesco, 288, 291. Pisciotta Gaspare, 140, 234, 260, 288, 289, 290, 291, 292, 295, 296, 299, 304, 306, 308, 309, 310, 311. Pisciotta Pietro, 304. Pittui Salvatore, 131. Platania F,dvige, 71. Poletti Charles, 36, 52, 54, 55, 62, 64, 69, 73, 82, 104, 108, 154, 162, 301. Pottino Carlo, 207. Presti Armando, vedi Canepa Antonio. Privitera, 238. Profaci Joe, 155. Profeta Italia, 71. Puleo Salvatore, 57. Purpi, maresc., 52, 123. PutPura Vincenzo, 88, 96, 117. Puzo Mario, 155.

Rennell of Rodd Francis, 36, 38, 40, 41, 50, 53, 54, 73, 86, 87, 98, 104. Rennell of Rodd James, 86, 87. Restivo Franco, 57, 69, 102, 208, 231, 274, 310. Restuccia Francesco, 223, 224, 253. Rcynolds, cap., 35. Ricca Salerno, uomo politico, 231. Riccardi Arturo, 19. Richardson, uff. americano, 167. Rimmaudo Lino, 187. Rinaldi, 107. Rindone Santi, 94, 95, 100, 105, 133, 238, 312. Riolo Filippo, 309. Rizza Jacopo, 295. Rizzo Salvatore, 142, 220, 226, 227, 236, 237, 245, 246, 248 .. Rizzotto, maresc., 208, 211. Rizzono Giuseppe, 151. Roatta Mario, 11, 22, 130, 200. Robertson, gcn., 167. Rodinò Giulio, 108. Romano Armando, 202, 208, 210. Romano Liborio, 152. Romano Salvatore (di San Giuseppe Jato), 283. Romano Salvatore, scrittore, 145. Romeo, avv., 95. Ronco, gen., 184. Rondelli Giulio, 94. Roosevelt Franklin Dclano, 13, 16, 18, 27, 36, 44, 205, 206. Rosa Memmo, 94. Rosano Carmelo, 203, 204, 205, 207, 208, 210, 211, 212. Rosi Francesco, 293, 304. Rosselli Carlo, 88. Rossi Sirio, 220, 223. Ruffini Ernesto, 259, 292, 309. Russo, commissario prefettizio, 186. Russo Francesco, 100. Russo Giuseppe, 155. Russo Michelangelo, 273. Russo Stefano, 100. Russo della Pagliara, 179.

Raccuglia, medico, 283. Raffa Aldo, 37, 38, 73. Raia, 88. Ramirez Antonio, 94, 101, 102, 163. Rapisardi, prof., 95. Re A., 100. Reale Vito, 113. Renda Francesco, 273, 290.

Sabatini, cap., 187. Saitta Vincenzo, 114 Salanitro, prof., 94. Salanitro Gaetano, 117. Salemi Giovanni, 231. Salva=a Umberto, 197. Samonà Alberto, 101. Sampson Anthony, 26. Sanfilippo Filippo, 101.

320


Sanfilippo Sebastiano, 143. Sangiorgi, 97. Sansone V., 79. Santangelo Erasmo, 195. Saporito Francesco, 246, 248. Saragat Giuseppe, 119, 133, 280. Scaglione Nitto, 59. Scaglione Pietro, 309, 310. Scandurra, 69. Scarlata Luigi, 123. Scelba Mario, 215, 217, 284, 290, 291, 299, 309, 310. Schembari Francesco, 187. Schiavo Campo Achille, 257, 258. Schifano, farmacista, 203. Schilirò Vincenzo, 176. Schirò Giacomo, 282, 290. Scialahba, uomo politico, 94. Sciascia Leonardo, 277. Sciortino Pasquale, 5, 140, 203, 204, 205, 220, 221, 228, 242, 243, 285, 287, 288, 290, 291, 297, 312. Scullica F ., 57. Segni Antonio, 217, 270. Selleria, famiglia, 94. Selvaggi Giovanni, 272, 292. Selvaggio Giordano, 260, 309. Senise Carmine, 86. Serio Francesco, 57. Settembrini Luigi, 91. Sforza Carlo, 15, 16, 108, 133. Sganga, brigadiere, 244. Sherwood, magg., 75. Shrewsbury, 100. Signorini Dante, 182. Siluri Lucio, 251. Simili Silvestro, 176. Smith, uff. britannico, 167. Smith T.V., 73. Sonnino Giorgio Sidney, 7, 196. Sorge Antonino, 94. Spadafina, 69. Spampinato Antonino, 173, 176. Spanò Francesco, 301. Spinelli Salvatore, 248. Sprigge Cecil, 170. Staiti Alessandro, 247. Stalin (Josif Vissarionovic Giugasvili), 11, 205, 206. Stancanelli G., 95, 99, 105. Stella Luigi {Messina), 99. Stella Luigi {Vittoria), 184. Stimoli, 139. Stimson Henry Lewis, 36. Stone Ellery, 133, 254. Story, col., 75.

Sturao Luigi, 84, 88, 90, 215, 266, 267. Tandoy Cataldo, 273. Taormina Francesco, 114, 231. Tarallo Liuzzo Sebastiano, 142, 143. Tarchià.ni Alberto, 15, 108. T a.t07.Zi. G., 64. Tasca Bordonaro Giuseppe, 220, 242, 258. Tasca Bordonato Lucio, 87, 95, %, 98, 101, 117, 120, 204, 205, 207, 220, 229, 242, 253, 257, 258, 311, 312. Taverna Orazio, 144. Taylor Myron, 13. Tedeschi G., 100. Tennent, ten. col., 110. Termini Francesco, 82, 105. Terranova Antonino, 140, 288, 289, 291, 295, 301, 309. Tessitore Salvatore, 119. Tignino Michelangelo, 94, 176. Titone Virgilio, 57. Titti Nino, 242. Togliatti Palmiro, 120, 121, 214, 278. Tornasi, sacerdote, 189. Tomasi della Torretta Pietro, 118. Tomlin Jack L., 51. Toni Giovanni, 143. Trabona Salvatore, 139, 142. Traina, 88. Traina Salvatore, 57. Trapani, col., 184. Travaglianti, medico, 203. Trigona, 180. Triscano, 143. Troia Giuseppe, 283. Truman Harry Shippe, 299. Tuccari, col., 270. Tudisco Giuseppe, 104. Tulumello Francesco Paolo, 101. Turri Mario {pseudonimo assunto da Antonio Canepa), 134, 203, 219. Turri Secondo {pseudonimo assunto da C.Oncetto Gallo), 219. Umberto di Savoia, 22, 118, 229, 249, 254, 255, 257, 258, 259, 260. Vaccarella Calogero, 122. Vacirca Vincenro, 82, 106, 107. Vaiana Giuseppe, 132. Valpreda Pietro, 296. 321


Varvaro Antonio, 94, 101, 137, 220, 223, 224, 242, 253, 258, 260, 278, 279, 281, 290, 295, 296, 311. Varvaro Jolanda, 201, 253, 295. Vasta Giuseppe, 122. Vecchio, dott., 95. Velis Nino, 203, 208, 210, 211, 236, 237, 242. Vcnd:ia Nicolò, 272. Venuti Giuseppe, 247. Verderame Arturo, 95, 162. Verdiani Ciro, 150, 296, 298, 299, 300, 301, 303, 306, 310. Verga Giovanni, 265. Verro Bernardino, 266. Vicari Angelo, 23, 301, 302, 303, 305, 306, 310. Villarà Carmelo, 100. Vinci Juvara, avv., 100. Vim, 139. Vitanza, procuratore gen., 309.

322

Vitelli Giuseppe, 208. Vittorio, Emanuele 11, re d'Italia, 91, 230, 262. Vittorio Emanuele III, re d'Italia, 12, 13, 14, 15, 16, 22, 83, 84, 103, 108, 118, 133, 156, 167, 199, 254. Vizzini Calogero, 52, 64, 80, 89, 98, 105, 121, 122, 123, 124, 144, 145, 154, 160, 162, 163, 165, 166, 204, 220, 242, 301. Volpe Calogero, 166.

Washburne, magg., 75. Wellesley Gerald, 40, 67, 100. Wilson, gcn., 133. Wischinsky Andrea, 105.

Zanca Rosario, 240.

Zaniboni Tito, 107. Zingali Gaetano, 67, 68, 69, 71. Zingone, commissario PS, 273.


INDICE GENERALE

Avvertenza . I.

Il. III. IV. V. VI.

VII. VIII. IX.

Come si giunse all'armistizio del 1943 Origini e compiti dell'AMGOT . Il Governo militare alleato in Sicilia La Sicilia alla fine delle operazioni militari Il Movimento Indipendentista Siciliano (M.I.S.) . Il risveglio dell'attività politica in Sicilia La Sicilia ritorna sotto l'amministrazione del governo italiano. Strage degli innocenti in via Maqueda a Palermo . Brigantaggio, ma6a Non si parte! . L'EVIS (Esercito Volontario Indipendenza Siciliana) La fine della guerra. L'arresto di Andrea Finocchiaro Aprile La guerriglia L'approvazione dello Statuto della Regione siciliana. Il Referendum . La questione contadina . L'Assemblea regionale siciliana. Portella delle Ginestre

pag.

5

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9 26 43

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58 82 98

113 135

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167

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196

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214 226

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249 262

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277

Epilogo

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293

Indice dei nomi .

»

313

X. XI.

XII. XIII. XIV.

xv.



TESTIMONIANZE FRA CRONACA E STORIA

1939-1945: Seconda guerra mondiale

Adamovic A.-Granin D. , Le voci dell'assedio Addis Saba M ., Partigiane. Le donne della Resistenza Aichner M. , Il gruppo Buscaglia. Aerosiluranti nella Seconda guerra mondiale Alexandroff Bassi M ., Danza sull'abisso Amicarella D. , Quelli della San Marco Amicarella D., Sulla Linea del fuoco Angelozzi G aribaldi G., 1l Vaticano nella Seconda guerra mondiale Angelozzi Garibaldi G., Pio X TT, Hitler e Mussolini Arena N ., Assalto dal cielo Ascani G .-Fatutta F., Muli in guerra. Storia di Palù e del suo alpino Attanasio S., Gli anni della rabbia. Sicilia 1943-1947 Avagliano M. -Le M oli G ., Muoio innocente. L ettere di cadu!i della Resùtenza a R oma Azzi V. , Il prezzo del!' onore Azzi V., Un volontario con Le truppe d'occupazione. Balcania 1942-1943 Bacque J., Gli altri lager Bagnasco E., Corsari in Adriatico. 8-12 settembre 1943 Bambara G ., La guerra di liberazione nazionale in Jugoslavia Baratter L., L e Dolomiti del Terzo Reich Barletta M., Sopravvissuto a Ce/afonia Bartolini A., Per la Patria e la libertà_! I soldati italiani nella R esistenza all'estero dopo !'8 settembre Bellini F.-Bellini G ., Storia segreta del 25 luglio 1943 Benanti F., La guerra più lunga. Albania 1943-1948 Bentivegna R. , Achtunf!. Banditen_l Beretta D ., Batterie semoventi Bernardi M ., Il dovere dei semplici Bcrnotti R., Cinquant'anni nella Marina militare


Bersani F., I dimenticati Bertucci A., Guerra segreta oltre le linee Bianchi G., Come e perché cadde il fascismo Bianchi Rizzi A. , Albanaia Bianco F., Tl caso Bellomo Bogomolov V., Nell'agosto del '44. Morte ai collaborazionisti/ilotedeschi Bollati B., Un ra?,azzo di Salò Bolzoni A., 1 da,;,nati di Vlassov Bonacina G., Obiettivo Ttalia. Tbombardamenti aerei delle città italiane. 1940-1945 Bonacina G.-Bonetti R., I giorni dell'Apocalisse. 6-9 agosto 1945 Bond H.L., Tnferno a Cassino Bongiovanni A., Battaglie nel deserto Bongiovanni A., La guerra in casa Bordogna M., Junio Valerio Bor[!,hese e la X' flottiglia MAS Borsani C. jr., Carlo Borsani Bottaro A., Tl vento del deserto Boyne W.J., Scontro di ali Brucc G., /;insurrezione di Varsavia Brunasso R., Chi ha ucciso quei fascisti! Urgnano, 29 aprile 1945 Brunetta E., La società italiana dal 1939 al 1949 Burgett D.R., Currahee! T,o sbarco in Normandia Buttazzoni G., Solo per la bandiera Caldara A., Quelli di Sottocastello. Cronaca di guerra (19401943) Capogreco C.S., Renicci Carafoli D.-Padiglionc Bocchini G., Aldo Pinzi. Il fascista ucciso alle Fosse Ardeatine Carafoli D.-Padiglione Bocchini G., Ettore Muti Carafoli D .-Bocchini Padiglione G. , Tl viceduce Carloni F., Tl corpo di spedizione francese in Italia (1943-1944) Carloni F., La battaglia di San Pietro l n/ine Carnicr P.A., L'armata cosacca in Ttalia Carnier P.A., Lo sterminio mancato. La dominazione nazista nel Veneto orientale (1943-1945) Catalano Gonzaga A., Tl commodoro Catalano Gonzaga A., Per l'onore dei Savoia. 1943-1944, da un superstite della corazzata Roma


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