STATO MAGGIORE DELL'ESERCITO UFFICIO STORICO FERRUCCIO BOTTI
IL PENSIERO MILITARE E NAVALE ITALIANO DALLA RIVOLUZIONE FRANCESE ALLA PRl1\1A GUERRA MONDIALE (1789-1915)
VOLUME I DALLA RIVOLUZIONE FRANCESE ALLA PRIMA GUERRA D'INDIPENDENZA (1789-1848)
ROMA 1995
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Nuovo STUDIO TECNA
PRESENTAZIONE Sui vari aspetti del periodo che va dalla Rivoluzione francese alla prima guerra mondiale si conoscono numerose e pregevoli opere. Nonostante gli apporti del Bastico, del Maravigna, del Pieri, mancano però tuttora studi organici sul pensiero strategico e la letteratura militare in genere; né si conosce bene come e in che scrittura gli scrittori militari italiani sono stati influenzati da quelli stranieri, e quali sono, comunque, i cardini del pensiero europeo ai quali riferirsi. Questa nuova opera del Colonnello Botti intende quindi colmare delle riconosciute e annose lacune della nostra storiografia militare, e completa - estendendola a tutto il secolo XIX - l'indagine sul pensiero militare tra le due guerre mondiali (1919-1949) già compiuta dallo stesso Ferruccio Botti e da Virgilio Ilari con il loro apprezzato volume edito dall'Ufficio Storico nel 1985. Gli argomenti affrontati sono di largo respiro e non hanno perduto di attualità, perché il loro approfondimento coincide in gran parte con la ricerca delle basi teoriche autentiche delle strategie e dottrine attuali. Tra gli argomenti trattati ricordiamo le origini della strategia, l'individuazione delle due grandi e contrapposte correnti di pensiero strategico europeo, gli studi nel linguaggio militare, la messa a fuoco di idee e autori che portano a riconsiderare anche in un quadro nazionale e mediterraneo le origini della geopolitica e geostrategia. Sono certo, perciò, che la ricerca compiuta incontrerà il favore, oltre che del mondo militare, degli studiosi di storia contemporanea e di storia del pensiero politico. IL CAPO UFFICIO STORICO in S.V. Ten. Col. f. (alp.) par. s.SM Maurizio RUFFO
DETTI MEMORABILI «Solo i morti vedono la fine delle guerre» PLATONE «All'inizio delle guerre della Rivoluzione Francese, afferma il generale Bardin, non c'erano certamente dieci ufficiali che conoscevano o impiegavano il termine strategia». GENERALE MORDACQ (1912) «Ciò che di peggio può capitare a un maestro, è di avere cattivi allievi» GENERALE SEVERINO ZANELLI «La guerra per gli uomini goffi è un mestiere; per gli uomini di vaglia una scienza» GENERALE SEVERINO ZANELLI
«Achille era figlio di una dea e di un mortale: questa è l'immagine del genio della guerra. La parte divina è tutto ciò che deriva da considerazioni morali, dal carattere, dal talento, dall'interesse del nemico, dai sentimenti e dallo spirito del soldato che è forte e vincitore, oppure debole e battuto a seconda di quello che crec.Ie; la parte terrena, sono le armi, i trinceramenti, le posizioni, gli ordini di battaglia, tutto ciò che riguarda i fattori materiali» NAPOLEONE «Tra una battaglia perduta e una vinta la distanza è immensa: vi sono Imperi di mezzo» NAPOLEONE «Per la verità nessuna cosa al mondo riesce più forte, nessuna cosl formidabile che un braccio di ferro e un animo di fuoco governati dalla scienza» TERENZIO MAMIANI (1839) «Le braccia dei lavoratori e le braccia dei combattenti: ecco il primo e più materiale elemento della potenza» CARLO CATIANEO
«Non v'è legge o regolamento, non v'è atto di guerra o trattato di pace che non influisca ad accrescere o diminuire le forze produttive» CARLO CATTANEO «La massima dei cosmopoliti e degli avventurieri è la stessa dei briganti: ubi bene, ibi patria (dove si sta bene, li è la patria)» COL. CARRION-NlSAS (1824)
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«La via migliore di conoscere una contrada è il legger le guerre che vi sono avvenute» GUGLIELMO PEPE «Un esercito che non tenga in conto lo studio storico (in senso lato) non può progredire» «RIVISTA DI FANTERIA» 1910 «Chi può essere persuaso che l'arte della guerra non abbisogni di studio? si ravvicinano alla storia gli avvenimenti passati con i presenti, si confrontano i fatti, e se ne fa quella giusta applicazione che conviene; colla storia si acquistano indispensabili cognizioni dei costumi, degli usi, dé diversi culti religiosi d'ogni popolo, d'ogni nazione, e si impara a rispettare tutti; nella storia finalmente, per mezzo di questo amo d'oro con cui si pesca ogni umana conoscenza[... ] si vedono le cagioni delle disfatte degli eserciti, della decadenza e rovina degli Imperi, e delle politiche rivoluzioni» COL. FERRERO DI PONSIGLIONE (1839) «Rimpiango più che mai di non aver seguito i primi impulsi della mia giovinezza e di non essere entrato nelJ'esercito. Gli ufficiali sono oggi altrettanto umiliati che noi, ma hanno davanti a sè mille occasioni di cancellare la loro umiliazione, mentre noi non ne abbiamo nessuna. L'idea di dare qualche colpo di sciabola per la Francia, se lo straniero volesse invadere il suo territorio per la terza volta, è la sola che mi tiene desto, nel disgusto che mi circonda>> ALEXIS DE TOCQUEVILLE ( 1830) «E quando ottime, eterne fossero le leggi, nulle per noi tornerebbero senza la milizia, principio, sicurezza ed ingrandimento degli Stati; però niun'arte permetteva à Lacedemoni il divo Licurgo, che appartenente alla guerra non fosse. Ben tu sul Tuo dipartire alla nostra salute provvedendo, principale consiglio a noi davi, le armi .... » UGO FOSCOLO, ORAZIONE A BONAPARTE, (1802) «Che vale il vivere, se non si fa che vegetare; che vale il vedere se non si fa che ammassar dei fatti nella memoria; a che giova l'esperienza se non è diretta dalla riflessione? La guerra, dice Vegezio, dev'essere uno studio e la pace un esercizio. Il solo pensiero, o meglio, la facoltà di combinar le idee distingue l'uomo dalle bestie da soma. Un mulo che avesse fatto dieci campagne sotto il Principe Eugenio non sarebbe divenuto miglior tattico. Ed è forza il confessare a vergogna dell'umanità che per codesta pigra stupidezza molti vecchi ufficiali non sono nulla più dei muli. Seguir la pratica usuale, occuparsi del proprio alimento e del proprio alloggio, mangiar quando si mangia, battersi quando tutti si battono; è qui che la più parte fa consistere l'aver fatto campagne e l'essere incanutito sotto l'arnese». FEDERICO II DI PRUSSIA (SEC. XVlll)
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Il LVI Congresso Nazionale dell'Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano (Piacenza, 15-18 ottobre 1992) pur dando ampio spazio all'esame del pensiero politico, dei movimenti letterari e artistici e delle contingenze che hanno preceduto e accompagnato i movimenti per l'unità italiana, non ha dedicato alcuna attenzione agli aspetti militari della prima metà del secolo XIX. Da quest'ultimo punto di vista il Risorgimento - e più in generale il secolo XIX - hanno ancora qualcosa da dire? La risposta che abbiamo sentito dare a questo interrogativo da un autorevole studioso nel corso di un ciclo di conferenze (primavera 1992) sul processo di unità dell'Italia è stata negativa. Probabilmente il Nostro rimaneva ancorato a un concetto di storia militare angusto e specialistico, ormai superato perché ascrivibile all'histoire-bataille nel senso più ristretto del termine, e su questo aveva ragione. Chi oserebbe più, oggi , rivangare la condotta delle operazioni nelle guerre di Carlo Alberto o nella liberazione di Roma del t 870, per trovarvi quel poco che può essere sfuggito a generazioni di valorosi cultori di Storia Patria e di storia militare? Anche per questa ragione gli studi del dopoguerra hanno rivolto il loro prevalente interesse a tutto ciò che è «non strettamente militare», fino a correre il rischio di dimenticare le evidenti connessioni tra «il militare», il «politico» e il «sociale». Eppure un nuovo approccio logistico-amministrativo da noi introdotto a partire dalla Restaurazione, 1 al di là di acquisizioni puramente tecnico-militari ha dimostrato di quali e quanti fattori più o meno nascosti bisogna tenere conto, prima di giudicare ciò che ad esempio hanno fatto - o non hanno fatto - le formazioni di volontari o regolari allora in campo. Per quanto quell'indagine non fosse «mirata», sono spontaneamente venuti alla luce gli inconvenienti della mobilitazione, e la dipendenza di qualsivoglia tipo di truppe - volontarie o regolari che siano dalla qualità dell'organizzazione di comando e controllo e dell'organizzazione logistico-amministrativa, che non si improvvisano e non giustificano affatto acritiche suggestioni di tipo ideologico per le Legioni im-
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Cfr. F. Botti, La logistica del'Esercito Italiano - Voi. l ( 1831-1861), Roma, SME,
Uf. Storico 1991.
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provvisamente sorgenti dalla terra, per i vari tipi di «nazione armata», per la pretesa di trasformare ipso facto in soldato un cittadino per il quale bene o male si riesce a trovare un fucile e in ufficiale un borghese che cinge una spada, dando per scontato che questa gente non solo per ciò stesso sia piena d'entusiasmo e di voglia di battersi, ma che basti questo per supplire all'impreparazione.2 Le affermazioni di Napoleone o di Federico II sull'importanza del ventre, dei rifornimenti per i soldati hanno, al di là delle apparenze puramente tecniche, un profondo significato: sottintendono che alla base di fatti d'arme tante volte descritti e studiati, tante volte ammanniti nudi e crudi sui banchi delle scuole ad allievi non sempre interessati, c'è l'uomo in tutte le sue dimensioni materiali e spirituali, perché spirito e materia, pensiero e azione sono indissolubiH. Dietro a ogni strategia ci sono problemi legati a scontri di idee e di mentalità, a diversi concetti motori, c'è, insomma, una cultura: tutti i grandi condottieri sono stati anzitutto profondi studiosi e cultori dell'uomo, pena il fallimento. Ma se per cultura si intende «un insieme di conoscenze che assimilate dallo spirito contribuiscono al suo arricchimento» (Rizzoli - Larousse, Voi. IV), le conoscenze storiche non possono - come spesso è avvenuto e spesso avviene più o meno inconsciamente - arrestarsi davanti alla loro componente militare e/o ritenerla ininfluente. Prima di indicare le specifiche finalità della nostra indagine e come intendiamo condurla, ci sembra perciò necessario chiarire bene - sul piano generale - in quali termini, limiti e occasioni si può parlare di cultura militare, di letteratura e pensiero militare ecc.; al tempo stesso, occorre precisare anche il loro rapporto con tutto ciò che è civile, o meglio «nonmilitare». Con queste espressioni noi intendiamo semplicemente quella parte della cultura o del pensiero che attiene alle cose militari e/o che ha ben individuabili e immediati riflessi in campo militare, senza per questoriconoscere al «campo militare» confini precisi e immutabili, con caratteri altamente specifici che ne consiglierebbero la trattazione separata e solo da parte di specialisti. Cultura e pensiero militare non possono essere - e non sono mai stati - dei militari o - peggio ancora - degli ufficiali, anche se quest'ultimi, per ragioni professionali del tutto ovvie e naturali, sono a buon diritto i primi utenti, i custodi istituzionali e soprattutto i realizzatori di quanto viene teorizzato in materia militare. L'istituzione
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Id., La mobilitazione in Italia - precedenti storici (allegato alla »Rivista Militare
Tt:1li:1n:1») n. 4/1()91).
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militare esprime una cultura propria e «interna», da studiare e da valutare: ma ciò non giustifica il monopolio di tale cultura da parte dei suoi membri, così come qualsiasi altra espressione culturale non può essere data in appalto ai membri di qualche corporazione, ma - per essere vitale - deve essere aperta a tutti i contributi, non esclusi quelli dei militari stessi. L'unico metro probante è 1a qualità, la natura intrinseca di ciascun contributo, misurata attraverso i suoi risultati. Sotto questo profilo non condividiamo le tesi (di matrice gramsciana) dei sostenitori di una contrapposizione tra «teorie moderate» e «teorie progressiste» anche in materia di strategie e ordinamenti militari, alle quali corrisponderebbe la suddivisione sic et simpliciter degli scrittori militari in moderati e progressisti, longa manus di una pretesa identificazione degli ufficiali di carriera con le correnti politiche più conservatrici e di quelli di complemento (o improvvisati) con le correnti democratico-progressiste. Vogliamo arrivare a distinguere le opere militari - a seconda del punto di vista ideologico dell'autore o del lettore, s'intende - in «buona» e «cattiva» stampa? Strategie e ordinamenti non sono asettici e hanno in ogni momento e in particolar modo nel secolo XIX - un più o meno profondo retroterra politico-sociale. Ma il prodotto militare di questo retroterra non è cosa fine a sé stessa, tale da trovare in sé le ragioni della sua validità: deve misurarsi con la realtà, con la tecnica e il materiale, deve dare concreta e giornaliera prova della sua efficienza, deve insomma accettare e reggere il confronto con altri, in quel campo di battaglia che è giudice inesorabile, anche se senza caratterizzazione ideologica. Napoleone soleva affermare che «non vi sono che due sorte di piani di campagna, i buoni e i cattivi. I buoni non riescono, quasi sempre, per circostanze impreviste che fanno, spesso, riuscire i cattivi» e richiamava l'attenzione sulle qualità del capo militare, perché «tutti i grandi capitani hanno operato grandi cose solo conformandosi alle regole e ai principi dell'arte, cioè con la giustezza dei calcoli e il rapporto logico dei mezzi con le conseguenze, degli sforzi con gli ostacoli» . Con tutta la buona volontà, non riusciamo a trovare nel nostro bagaglio alcun argomento per non essere d'accordo con Napoleone. Ma anche coloro che, più fortunati di noi, li trovassero, dovrebbero convenire che queste parole di un «addetto ai lavori» confermano una delle pochissime verità immutabili: le «buone strategie», i buoni strumenti militari, non sono - a seconda dei casi e delle nostre personali preferenze - quelle dei benpensanti, dei liberali moderati, dei liberali radicali o dei democratici; sono tali solamente quelle vincenti e congrue rispetto a concreti e ben definiti obiettivi politici da raggiungere.
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Di conseguenza, il buon capo militare non va giudicato - qualunque sia il suo grado - dalla sua provenienza, dai suoi precedenti e orientamenti politici, ma semplicemente dalle concrete e dimostrabili capacità di governare e istruire lo strumento ai suoi ordini, in un dato momento nel quale esso è messo alla prova. Certo, i personali orientamenti politici dei Capi e - più in generale - le condizioni politico-sociali del momento fanno sentire una loro forte influenza sullo strumento militare. Tale influenza - sempre viva e operante - non è univoca ma può avere valore positivo o negativo. Un fatto è certo: ha valore positivo, solo se essa concorre e conduce alla vittoria, al raggiungimento degli obiettivi assegnati alla componente militare. I buoni battaglioni sono sempre e solo queJli che vincono: le categorie di giudizio «buono» o «cattivo» non possono essere astrattamente applicate a elementi particolari o a tecniche riguardanti il reclutamento, l'armamento ecc .. In altre parole, anche se la guerra è figlia della politica le categorie politiche di giudizio non si prestano a trasposizioni meccaniche in campo militare. Sarà sempre difficile dire fino a che punto una strat~gia t: rivoluzionaria o dogmatica e conservatrice: la sua natura dipende unicamente dai risultati concreti che essa fornisce in un dato momento e non dalla sua data di nascita. È accaduto e accade che una leadership e uno strumento militare per così dire professionali e istituzionali siano sconfitti da una leadership e da uno strumento più o meno improvvisati. Ciò significa la definitiva superiorità di questi ultimi, o semplicemente l'inadeguatezza e la cattiva organizzazione dei primi? La risposta ci pare ovvia, ed è anche reversibile: nel senso che la vittoria di uno strumento professionale non tradizionale - e non ne mancano certo esempi nella storia - significa che, in quel momento, la leadership e lo strumento militare contrapposti non sono stati all'altezza delle esigenze strategiche. Non c'è altro da dire; caricare di significati immutabili e definiti vi un solo evento, è una responsabilità che uno storico dotato di elementare buon senso non si dovrebbe mai assumere. Il «nuovo» non sempre e non necessariamente coincide con «il meglio» e «il duraturo», anche nel pensiero militare. Nell'Elogio funebre del generale August-Wilhelm von Ligniz,3 J. J. Langendorf mette gustosamente alla berlina il vacuo schematismo e il meccanicismo della tradizionale educazione militare prussiana di stampo federiciano all'inizio del secolo XIX, facendo risaltare per contrasto i pregi della nuova strategia
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Palermo, Adelphi, 1980.
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e dei nuovi ordinamenti che sotto l'impulso delle idee democratiche preparano la vittoria del1a Prussia nazionale contro le armate napoleoniche. Però nuove formule come questa: «l'esercito di un popolo galvanizzato e rigenerato dall'entusiasmo patriottico, il quale, a sua volta avrebbe alimentato l'esercito guerriero», contengono solo una parte della verità. Esse affossano, è vero, il piccolo esercito prussiano volontario e in parte mercenario del secolo XVIII, basato su una rigida disciplina che lo rende poco manovriero: ma scartano anche il molto di ancor buono e valido deJla strategia e tattica di Federico Il, del quale i generali prussiani ancien régime - sconfitti facilmente da Napoleone - sono solo cattivi allievi (mentre il grande Corso, al contrario, sa utilizzarne il meglio). Tutto questo porta a una sola conclusione: il pensiero militare, le teorie militari vanno confrontati con carattere di continuità con i tempi, le concrete situazioni e gli eventi, che determinano anche la valenza delle deduzioni che se ne possono trarre. Vale però, anche il contrario, nel senso che non basta inserire ex abrupto l'evento militare nel contesto politico-sociale: esso deve essere prima di tutto inserito nel contesto delle teorie e del pensiero militare. Se non esistono e non sono mai esistite teorie militari assolute e fine a sé stesse, prive di concreti ancoraggi e risvolti con la realtà, quest'ultima va confrontata con le acquisizioni teoriche fino a quel momento conosciute e operanti. In altre parole, quello militare è uno strumento finalizzato all'azione. In ogni sua manifestazione si devono fondere - senza precostituiti rapporti di dipendenza - realtà e teoria, pensiero e azione. Questo fatto non è peraltro peculiare, ma è tipico di ogni vero e sano concetto di cultura. Nella voce cultura per l'Enciclopedia Italiana, Bernardino Varisco scrive che la cultura integrale, cioè la coscienza che l'uomo ha di sé medesimo, esige insieme l'intellettualità e la praticità. Molti credono che la prima debba servire di strumento alla seconda. Ma non è vero; come non è vero [...] che la seconda valga soltanto come strumento della prima. Sono, l'una e l'altra, forme inseparabili, coessenziali, dell'attività consapevole umana[... ]. Tra le letture, quelle che hanno più attinenza con la storia e la politica sono forse le più importanti; non vanno lasciate in disparte, quantunque non ci si debba limitare a queste sole; ci mettono a contatto con la realtà viva, e l'interesse che destano è sano, perché non soggetto a divenire ozioso. Si è detto: letture attinenti alla storia e alla politica; non soltanto libri di storia e di politica generale.4
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Enciclopedia Italiana, Voi. XII, pp. 103- 104.
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A questo punto come si può negare che le opere di carattere militare rientrino in questo tipo di letture e che, tra di esse, quelle non strettamente attinenti alla «praticità», cioè alle operazioni, siano anche le uniche ad abbracciare insieme intellettualità e praticità? Se applichiamo queste premesse a sfondo teorico e epistemologico al caso concreto del Risorgimento, possiamo fin d'ora smentire coloro che ritengono ormai acquisiti e oggi marginali i suoi aspetti militari. Al contrario, oggi si deve ancora andare al di là delle battaglie, per «vedere quello che c'è dietro» in termini di pensiero, di elaborazione teorica, di cultura militare insomma. Nelle tormentate vicende che precedono e seguono la nascita nel 1861 del primo Regno d'Italia, si tratta ora di andare molto più lontano dello studio - non privo di risultati ma insufficiente - degli importanti interfaccia logistico-amministrativi. Rimane da valutare in tutta la sua ampiezza e portata il retroterra teorico, e per così dire umano, di certe decisioni, di certi avvenimenti, di certi stati di fatto_ Rimangono da analizzare e confrontare le valutazioni coeve degli eventi militari non solo di guerra ma anche di pace, e il peso che a detti eventi può essere attribuito o viene attribuito - ieri come oggi - nella definizione di una strategia per il futuro e nella risoluzione della problematica militare. Rimane, infine, da indagare il nesso - sempre esistito - tra politica estera, politica militare, strategie e ordinamenti. Questa operazione finora non è stata mai tentata con studi organici. Essa richiede evidentemente l'analisi di fattori non solo politico-sociali, ma anche spirituali e ideali. Analisi oltre tutto legata a fatti per così dire «di costume», a leggi non scritte ma non per questo meno operanti, che coinvolgono l'homo militaris del tempo, la sua cultura, il suo modo di sentire. Naturalmente, in essa non può mancare la ricerca del ruolo che la classe dirigente ha inteso - con concreti comportamenti e provvedimenti - riservare alla Istituzione militare, con ciò stesso definendola e inquadrandola, con ciò stesso compiendo un'operazione culturale oltre che politico-sociale. La complessità del quadro che deriva da queste esigenze è tale da spaventare. Ma basta la difficoltà di un'impresa per indurre a rinunciarvi? Se mai, si potrà essere più indulgenti di fronte alle mancate o incomplete acquisizioni. Intanto conviene cogliere in positivo il significato di questa complessità, che è semplice: la cu1tura militare di ieri, come quella di oggi, non può restringersi al mutilante esame di una fenomenologia prettamente scientifico-tecnica. Così facendo, arbitrariamente si riconoscerebbe l'esistenza di spesse intercapedini tra guerra, politica e società, avallando la tendenza della vita intellettuale di oggi a dividersi in due mondi scarsamente intercomunicanti, quello scientifico-tecnico e quello
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letterario-umanistico, con una frequente prevalenza del primo sul secondo. Ciò comporterebbe il rifiuto di riconoscere un ruolo a] passato e alla riflessione critica sul1a storia, in una parola: la perdita del1a memoria storica in nome del «progresso», condannata da Croce come la forma più insidiosa di antistoricismo. Gli obiettivi generali di ricerca prima indicati rendono necessario un più approfondito chiarimento deUe origini e della natura delle lacune individuate. In secondo luogo occorre soffermarsi su come va inteso il termine letteratura militare e su come la problematica connessa con la letteratura militare è stata vista fino ai nostri giorni. Per ultimo, va precisato ì1 ruolo che vi hanno avuto sia i «militari storici» (cioè quegli ufficiali che si sono occupati di storia militare) sia gli «storici militari» (cioè quegli storici civili che nei ]oro scritti hanno comunque dato spazio a que:stioni militari), sia gli storici in genere. Abbiamo parlato di lacune riferibi 1.i a tutto ciò che non è mera histoire bataille. Ora ci chiediamo: esse sono dovute principalmente alla mancanza (o indisponibilità, o scarsità) di materiale, oppure - il caso è ben diverso - al mancato studio (per ragioni tutte da individuare) del materiale in qualche modo disponibile? Il legame tra pensiero e azione, teoria e pratica, politica e guerra, guerra e società non è acquisizione dei nostri giorni ma è sempre esistito, anche se ha ricevuto più o meno attenzione: dunque una letteratura e un pensiero militare de] secolo XIX non potevano mancare e non sono mai mancati, pur assumendo forme e ruoJi diversi, pur avendo caratteristiche mutevoli a seconda dei tempi e degli uomini, pur subendo infiu1isi diversi, involuzioni ed evoluzioni. Ciò che è invece mancata, e fino ai nostri giorni, è una loro puntuale e organica analisi in sede storica, che equivale a riconoscerne la funzione e l'importanza. Spesso l'histoire bataille non è stata veramente tale perché - travolta o abbagliata dalla ricerca dei meccanismi operativi decisionali - ha trascurato fattori importanti che hanno influito in misura spesso determinante su1le operazioni, anche se «fuori quadro», almeno per gli sprovveduti. L'aggettivo bataille, che indica il prevalente orientamento del1a storia e storiografia del passato, ha perciò un significato per così dire privativo. Non significa di per sé spregio per l'analisi - sempre fondamentale - degli eventi bellici, delle loro cause vicine e lontane e delle loro ripercussioni, ma una storia polarizzata unicamente su di essi, senza un'analisi contestuale dei movimenti cultti.rali e di pensiero delle teorie e dottrine (o non-teorie e dottrine) che li precedono, li accompagnano e seguono e in certo modo ne influenzano l'esito e la portata. Insomma: una prospettiva storica sempre necessaria e fondamentale, ma monca e una opera-
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zione culturale monca, perché si Jascia abbagliare solo dall'azione senza preoccuparsi del pensiero che sempre ne è a monte e la segue, e di tutto ciò che su detto pensiero ha a sua volta influenza. E, ancora una volta, se e quando manca il pensiero, oppure esso è impari rispetto agli eventi, c'è una ragione! Sotto questo aspetto è ancora pienamente valido quanto scriveva nel 1883 Giuseppe Ferrarelli (scrittore militare napoletano ingiustamente caduto nell'obllo), rievocando l'opera di un grande esponente del pensiero militare italiano come il Marchese Palmieri: orbene: poiché la civiltà è armonica, poiché l'azione non si può disgiungere dal pensiero, poiché la strategia che si rivela nel teatro delle operazioni, deve avere qualche radice, qualche attinenza, colla sapienza militare che si rivela negli scritti, si può fare questa domanda: esiste o non esiste una letteratura militare italiana? Sissignore, questa letteratura esiste ed è di due specie. Una è inedita e trovasi nei manoscritti che sono negli archivi, nelle biblioteche e persino nelle famiglie italiane. L'altra specie di letteratura militare, quantunque edita, non è più nota, non è più fortunata di quella inedita, perché gl'Ttaliani, adesso, sono troppo intenti a studiare le letterature straniere per avere il tempo, il gusto, J'agio, la volontà, per studiare la letteratura nazionale.5 Nelle parole del Ferrarelli si trova una prima spiegazione sia della prevalenza dell'histoire bataille (specchio della sempiterna difficoltà di rapporti tra istituzioni militari e civili) sia dei ricorrenti richiami - persistenti fino ai nostri giorni - alla necessità di affrontare 1'esame della letteratura militare del secolo XIX e dei precedenti; richiami rimasti sempre fine a sé stessi, senza un seguito di concrete iniziative. Ne citiamo alcuni in diverse epoche e in diversi contesti, che contribuiscono a chiarire e delimitare il problema. Vanno anzitutto respinte talune affrettate e superficiali critiche di oggi contro «i militari storici», che descrivono solo battaglie e non si occupano di problemi. Generalizzare non è lecito, né corretto: ad esempio un «militare storico» tra i maggiori del secolo XIX, Carlo Corsi, in un fondamentale saggio del 1870 sullo studio della storia militare già si fa propugnatore di un concetto non scolastico, non «separato», non specialistico e non solo tecnico di storia, degno di figurare anche oggi al1a base dell'insegnamento di questa disciplina:
5 G. Ferrarelli, Il Marchese Palmieri e le sue riflessioni critiche sull'ane della guerra, «Rivista Militare Italiana» 1883, Vol. II. Disp. II. pp. 244-266.
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scelto il campo, fa d'uopo procurarsene la perfetta conoscenza. Prima di tutto studiare le condizioni particolari dei tempi, degli uomini, dei popoli, e i loro rapporti tra loro e col mondo circostante, per poterle vedere a luce vera. Quindi tra gli storici che di quella tale epoca scrissero, sceglier dapprima quello o quelli che più distesamente trattarono dei caratteri e dello stato sociale, economico e politico di quei dati popoli, delle loro istituzioni militari, delle qualità degli uomini che ebbero maggior parte nelle cose di quei tempi, delle cagioni di quella tale guerra, dei giudizi che ne furono dati dai contemporanei, che molte volte differiscono molto da quelli che poi ne dà la storia. Questi dati primi non sempre si trovano nelle storie militari così largamente svolti com'è necessario a dipingere un'epoca, e conviene andarli a cercare in altri volumi che furono scritti per altro scopo che per guerresco ammaestramento. Ciò è più particolarmente vero e importante per le guerre di questi nostri tempi che non furono semplici atti di sovrani e di eserciti come quelli di prima, ma ebbero consenso, spinta o contrasto dai popoli, e aiuto o impedimento di ragioni economiche, cosicché si può quasi dire che Pluto vi avesse le mani dentro non meno che morte.6 Il Ferrarelli accenna all'esistenza - o meno - di una letteratura militare, tennine a sua volta da definire con più precisione e da inquadrare. Lo ha fatto fin dal 1859 Mariano d'Ayala: la letteratura, secondo alcuni, è l'espressione dell'umano pensiero per via della parola scritta e parlata. Ma più largamente e con più giustezza la letteratura dicesi la espressione della civiltà e delle aspirazioni nazionali. Informata a principii, a costumi e a desideri quasi sempre eguali ed empirici, anziché nazionali, la letteratura militare generalmente offre una variazione anche perché partecipa della letteratura propriamente detta, più opera del sentimento che di ragione, e di filosofia, e della scienza in generale. 7 I
Non ci sentiamo di condividere per intero queste affermazioni del d'Ayala. Esse denotano - pur tenendo conto del tempo in cui furono scritte - un concetto riduttivo della «letteratura propriamente detta», nella quale oggi la parte scientifica e tecnica ha gran peso. Non è affatto ve-
6 C. Corsi (gen.), Dello studio della storia militare, «Rivista Militare Italiana» 1870, Tomo I, Disp. I, p. 13. 7 M. d'Ayala, Della letteratura militare in Piemonte, «Rivista Militare Italiana» 1859. Vol. I. Disp. I. pp. 56-63.
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ILPENSIEROMTLITARE ITALJAN0(1789-1915) - VOL. I
ro che la letteratura militare ha carattere empirico e si informa, in genere, a motivi extranazionali. È vero il contrario: proprio perché risente del quadro politico, essa esprime sentimenti, interessi, passioni e non solo pensiero puro. È solo grazie a questi caratteri che essa si inquadra nella letteratura generale ed è a sua volta espressione della civiltà e delle aspirazioni nazionali; più queste ultime sono sentite, più essa è originale e viva. Del resto lo stesso d'Ayala, trattando nel 1851 dell'arte militare in Italia dopo il Rinascimento e rievocando le gesta della miriade di condottieri e architetti militari ita1iani dei seco1i scorsi, ammetteva tutto questo: di che adunque si è mancato in Italia? D'istituzioni e di studii militari. Né gli studii e le istituzioni militari possono cittadinescamente essere in fiore senza che si veggan prosperare gli ordini e le istituzioni civili. Tutto si corrompe allorquando il governo è corruttore e sono soltanto invincibili in guerra i popoli i quali sono liberamente e ben composti nella pace; frà quali gli offizi civili non sono tenuti separati dà militari, e gli uni e gli altri sì lontani dà letterarii, né tutto si stringe in un arido campo di uomini solitarii e divisi ponendoli con diabolica arte in file avverse e guerreggianti. Senza ciò non si avranno che soldatesche feroci in parole, molli nel vivere, codarde in opere, nulle né cimenti.8
Una volta stabilito - con il d'Ayala - che la letteratura militare è espressione del pensiero militare, che cosa si intende per pensiero strategico, termine spesso da noi usato in questo volume? e in quali limiti e forme deve essere condotta l'analisi storica del pensiero militare? Ci fornisce parecchi spunti, in merito, un articolo del 1895 sulla Rivista Militare, il cui titolo è di per sé assai indicativo: A proposito di storia della letteratura militare. 9 Dopo la ormai consueta constatazione che manca una storia organica della letteratura militare e la citazione di taluni accenni sporadici di autori italiani e stranieri a11a letteratura militare, l'autore (C.F.) indica anzitutto i limiti entro i quali deve muovere una tale storia. Egli definisce letteratura scientifica militare o materiale letterario militare quella produzione letteraria specifica che raccoglie tutte le cognizioni che possono riuscire utili allo scopo su-
8 Id., Dell'arte militare in Italia dopo il Rinascimento, Firenze, Le Monnier 1851, p. 69-70.
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«Rivista Militare Italiana» 1895, Voi. ID, Disp. VID, p. 1531-1548.
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premo della guerra, togliendole ovunque le trova nel sacro deposito de[;o scibile umano [nostra sottolineatura - N.d.a.], registra ordinatamente tutte le esperienze del passato, interrogando quel gran repertorio di fatti umani che è la storia, e sotto forma di trattati militari esamina, discute, classifica questi elementi per concludere con alcuni principii reputati inconcussi e consacrati nei regolamenti. È una grande catena di pensieri e di fatti che si traducono sotto diversa forma in materiale scritto, e staccandosi dal complesso degli elementi che servono di fondamento a quanto, con una frase più capita che precisa chiamiamo coltura generale, mette capo ai codici da cui sono regol!1te le istituzioni militari e la vita dell'esercito.
Tuttavia, l'autore mette in guardia dai pericoli che presenta - specie per i giovani - una concezione puramente scientifica, positivista dello scibile militare, nena quale non avrebbe posto il sentimento, l'ideale e la passione. Canti, inni, invettive contro l'avversario sono state le prime manifestazioni letterarie militari e hanno avuto un posto ragguardevole nella Rivoluzione Francese (si pensi alla Marsigliese) e nel Risorgimento (si pensi all'Inno di Mameli). Essi, dunque, continuano ad avere diritto di cittadinanza nena storia della letteratura militare. Quest'ultima deve esserci e ha un suo interesse, perché abbraccia un campo ben distinto, vive di affetti e sentimenti militari se narra, e si dirige a scopi essenzialmente militari se discute od istruisce, e poiché sgorga spontanea in un dei casi e nell'altro segue il pensiero umano che via via si tra,;forma.
Essa non può essere ridotta «ad una filza di nomi, di date e di biografie seguite da elenchi d'opere corredate da un breve giudizio su ciascuno di esse, come fossero componenti scolastici da classificare». Il modello deve essere - per l'autore - quello delle più recenti storie letterarie italiane (Emiliani - Giudici, Settembrini, De Santis, Fomaciari), e - fuori d'Italia - la Storia della letteratura inglese del Taine. Di conseguenza i punti cui, a quanto sembra, ci lega una simile storia concepita secondo i desideri e le idee moderne, sono questi: esporre sommariamente l'opera dei principali scrittori in ciascun periodo storico, rimettendoli nell'epoca in cui vissero nella loro nicchia naturale, e raggruppando intorno a loro i seguaci e gl'imitatori il cui ricordo valga la spesa; misurare l'influenza esercitata da tutti costoro sui contemporanei e sui posteri, quella esercitata dai tempi su di loro, e finalmente ricavare il pensiero predominante di ciascuna epoca, considerandolo come una fase di un unico processo evolutivo, di
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cui è utile ricercare l'andamento. Senza di ciò le indagini perdono ogni interesse, lo studio rimane un puro sforzo d'erudizione, e l'esposizione divaga senza misura precisa, mancandole lo scopo pratico che ne proporzioni le parti e dia coerenza al tutto.
Ci preme fare subito due osservazioni. La prima è che questo tipo d'approccio presuppone un confronto continuo e organico di idee e ispirazioni. La seconda è che per evitare quelle «divagazioni» che si traducono in riassunti o elenchi senza sapore e senza ancoraggi, occorre stabilire un punto focale. Ebbene, tale punto focalè - che poi suggerisce o almeno aiuta a decidere le sempre inevitabili anche se dolorose esclusioni - non può che essere tutto ciò che ha attinenza con la strategia. Se l'Istituzione militare - quindi anche la problematica ad essa connessa - sono finalizzate all'azione, le grandi linee di questa azione non possono essere date che dalla strategia, sia in guerra che in pace perché la strategia nasce, vive e si trasforma anche - se non soprattutto - in pace. E al di là delle infinite dispute sulla sua natura e essenza, non v'è dubbio che - nel concetto odierno - la strategia e il bagaglio teorico che le ruota intorno, sono finalizzate all'azione e perseguono un fine ben concreto. L'articolo di C.F. prima citato indica esplicitamente o implicitamente la necessità di una triplice e progressiva scelta: dalla letteratura militare, espressione concreta dello scibile militare, al pensiero militare, che per ciò stesso è anzitutto selezione, verifica, distinzione, vaglio critico, indicazione di diversi valori e influssi e quindi di diversi legami. Dal pensiero militare al pensiero strategico, con tale termine intendendo un pensiero che ha come fine e referente ultimo la strategia. Carattere fondamentale di quest'ultima è l'indicazione della prospettiva, del tipo di azione che si intende assegnare - in un dato momento - all'Istituzione militare. Il reclutamento, la mobilitazione, il vettovagliamento, la geografia, l'armamento, il morale, l'addestramento e la disciplina sono tutti problemi seri e in certa misura distinti (anche se mai separati), che però perdono qualsiasi significato, qualsiasi possibilità di sana interpretazione se non riferiti all'azione, al perseguimento di un obiettivo, in una parola: alla strategia. In tal modo questa parola rende omaggio al suo etimo, che è «arte o disciplina (spesso politico-militare, più che militare) propria del generale o del Capo» e indica una linea d'azione. Essa configura lo scopo e il fine ultimo di tutto ciò che è militare, e insieme la sua misura. Al tempo stesso, costringe a tenere conto di fattori non propriamente o puramente militari che su di essa influiscono, e anzi ne definiscono la cornice generale. La natura della strategia, perciò, consente di penetrare meglio il ru:olo e la funzione del pensiero militare e/o strategico. Si può stabilire un paragone, ad esempio, tra storia della musica e storia del pensiero militare. Ambedue riguarda-
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no branche storiche molto specializzate. Ambedue, per essere fruttifere, richiedono un preliminare, approfondito studio filologico e analitico delle fonti e degli archivi. Ambedue presuppongono una continua scelta, selezione e interpretazione delle fonti: quanti sono gli spartiti musicali inediti, o raramente editi, o poco conosciuti perché caduti nel dimenticatoio e programmati a intervalli di decine, se non di centinaia, di anni? Tutti convengono che non si può più apprezzare bene un'opera o uno spartito musicale, senza conoscere le circostanze nelle quali il loro autore le ha create, i suoi motivi ispiratori, le sue esperienze, le sue passioni, le sue personali vicissitudini, il clima politico-sociale dell'epoca, i miti e gli influssi e i movimenti di pensiero. Giuseppe Verdi e il Risorgimento, per rimanere in tema, sono un'associazione automatica nel cuore di ciascun italiano. Lo stesso avviene per il pensiero militare, per il quale l'autore equivale al compositore di musica, il generale in capo al maestro d'orchestra, i generali comprimari all'orchestra, e attori e ballerini e cori e operai di scena alle varie branche delJo strumento militare, e persino il teatro alla caserma .... Di questi concetti, caratteri e requisiti solo apparentemente elementari non tiene certamente conto - vent'anni circa dopo il citato articolo del 1895 - il tenente degli alpini Giuseppe Sticca, autore nel 1912 di un libro sugli Scrittori militari italiani che nella sostanza è, appunto, un elenco di nomi, date e biografie a volte corredato da non sempre centrati giudizi sulle opere ritenute più significative. Nonostante i limiti, le imprecisioni e le omissioni, l'opera dello Sticca rimane tuttavia a tutt'oggi (1995) un prezioso contributo, se non altro perché l'unico e/o il più completo nel suo genere comparso nel XX secolo. Naturalmente, anche egli come tanti altri prima e dopo deve constatare che la storia della letteratura militare italiana è completamente da fare: ne esistono capitoli, pagine staccate, appunti e saggi; mattoni pel grande edificio, ma non un'opera organica e soda. Questo stesso volume non rappresenta che un canovaccio, un tentativo di dar ordine e sesto alla disgregata materia. Eppure è indubitato che a chicchessia studi una qualsivoglia disciplina necessita conoscere gli autori che di essa trattarono, sondare il corso evolutivo del pensiero in quella materia. Che si direbbe di uno che impari filosofia senza sapere chi siano e che cosa abbiano scritto e pensato, puta caso, Platone, Spinosa, Kant? [nostra sottolineatura - N.d.a.]. 10
• 0 G. Sticca (ten.), Gli scrittori militari italiani (Prefazione del gen. E. Rocchi Ispettore del Genio}, Torino, Cassone 1912, pp. 277-278.
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In questa occasione lo Sticca fornisce la prima definizione di problema militare, termine assai esteso con il quale va inteso tutto ciò che ha tratto all'assetto militare d'Italia, dal reclutamento alle ferme, ai bilanci militari, all'apprestamento difensivo alpino e costiero, ecc.; problema vasto e vitale, alla cui soluzione concorrono, in dosi diverse, le scienze belliche, le politiche economiche e sociali. Vale a dire che, per affrontarlo, fa mestieri d'un corredo sceltissimo di cognizioni disparate. 11
Per inciso, Sticca aggiunge che il problema in questione è stato «impostato da alcuni anni e dibattuto fra intenditori che a ciò possedevano la preparazione e l'autorità» e che al momento è tornato sul tappeto. Egli dunque lascia intendere che la trattazione del problema militare ha inizio nei primi anni del secolo, affermazione che è in contrasto con quanto prima abbiamo sostenuto sull'immanenza di un pensiero militare nella storia, e che ci riserviamo di verificare, non senza rilevare subito che bisogna spingere l'indagine sulla problematica militare nazionale molto più indietro di quanto lascia intendere lo Sticca. Un'operazione non ancora compiuta nel secondo dopoguerra, anche se nel 1913 il capitano De Biase scriveva che la storia del nostro Risorgimento - intendo la storia genuina e completa in tutti i suoi particolari - non è, oggi, ancora interamente conosciuta e non lo è perché non è ancora possibile conoscerla. I nostri nipoti, forse, la conosceranno, ma fra molte dieci ne di anni !1 2
Anche nel periodo tra le due guerre mondiali - dove secondo moduli e schemi risaputi, più che di storia militare si dovrebbe parlare, in Italia, di «storia militarista» o quanto meno di «storia oratoria» (Croce) e di vuota retorica - si trovano- sporadici ma eloquenti e precisi riferimenti alla necessità di togliere l'arte militare e la sua storia da angusti steccati tecnico-militari, di immetterla nelle grandi correnti della cultura nazionale, di ripensarla criticamente facendo attenzione soprattutto alla fenomenologia sociopolitica. Fatto, questo, più frequente e inevitabile di quanto si possa credere a prima vista, perché connaturato al concetto di guerra totale e anzi integrale, sul quale tra le due guerre mondiali si innesta tra molto ciarpame retorico di regime il mito della «nazione guer-
/vi, p. 297, L. De Biase (cap.), La Società Naziollille per la Storia del Risorgimento Italiano, «Rivista Militare Italiana» 1913, Voi. rv, Dip. X, p. 2090. II
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riera». Mito criticabile e vacuo fin che si vuole, ma non per questo con radici legittime in una nuova fisionomia della guerra, dove la novità autentica è paradossalmente il ritorno - fin da allora - all'antico, alla riscoperta di antiche radici. TI generale Alberto Baldini, direttore di «Esercito e Nazione» (poi «Nazione Militare»), negli Atti della Società Italiana per il Progresso delle Scienze (1934) scrive che il problema della guerra da un punto di vista nazionale non riguarda solo la forza armata ma «convoglia tutti gli altri fattori di vita e di lotta che lo stato riesce a rinvigorire a esaltare, a spingere alla azione». Di conseguenza «l'impulso delle masse belligeranti, o strategia, è risultante di linee di forza che hanno spesso il punto base fuori dal campo prettamente militare». Per il Baldini, nessuna delle quattro grandi branche nelle quali si vuol ripartire il sapere militare (organica, strategia, logistica, tattica) «può pretendere ad autonomia di scienza». A dimostrazione di questo asserto il Baldini non cita fonti contemporanee ma si richiama al Machiavelli, cioè a una delle più pure fonti del pensiero militare italiano, di grande influenza sugli scrittori del Risorgimento e anche sullo stesso Clausewitz: per considerare i complessi problemi della lotta armata - in gestazione e in atto - nel quadro della vita nazionale con procedimento logico, può valere la formula del Segretario fiorentino, che nei «Sette libri dell'Arte della Guerra» volle propagandare fra i non professionisti delle armi (egli stesso non professionista delle armi) il fatto della connessione tra istituti sociali e politici da un lato e organismi guerrieri e pratica bellica dall'altro lato. Filosofo della storia e uomo di Stato, tutto inteso al rinnovamento del costume politico su le tracce dell'antichità classica, il Machiavelli ha definito il fine della speculazione e dell'azione, in materia di lotta armata, in una sintesi magistrale, affermando che occorre: «trovare gli uomini, armarli, ordinarli, né piccoli e né grossi ordini esercitarli, alloggiarli e al nemico di poi, o stando o camminando, rappresentarli» [...] Ora, non è difficile discernere che le accennate attività si incastrano nel telaio della vita nazionale, così da non poterne essere districate. 13
Da questo approccio generale al problema della guerra, senz'altro corretto, discendevano fin da allora precisi orientamenti storiografici per
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A. Baldini (gen.), La cultura militare nel quadro della Nazione (in Alti della Società italiana per il progresso delle Scienze, Roma, Società Italiana per il Progresso delle Scienze 1935. Voi. I. pp. 152-154).
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il Risorgimento, dai quali emergeva la centralità di una storia del pensiero militare, ribadita nel 1935 sul periodico Nazione Militare da Carlo Argan (oggi non abbiamo niente da aggiungere alle sue parole): ciò che non ci pare, invece, generalmente noto, o meglio, sentito e adeguatamente apprezzato, è il fatto complessivo che, cioè durante il Risorgimento si è svolto un serio movimento intellettuale nelle discipline militari, come in tutti i rami del pensiero, in Italia [ ... ]. E siccome quell'epopea eserciterà sempre, com'è giusto, una formidabile attrazione sull'anima italiana, così ci auguriamo che al più presto si faccia una esposizione critica completa del pensiero militare del Risorgimento, tenendo naturalmente conto anche dei fatti bellici (compresi quelli insurrezionali) e delle riforme organiche. 14
«Al più presto»? Un auspicio rimasto solo tale, che però - se ben collegato con quanto abbiamo prima affermato - non giustifica talune recenti polemiche contro gli «storici delle forze armate», i quali «usualmente non amano confrontarsi con temi che travalichino in qualche modo il loro specifico» e quindi «finiscono per optare [... ] per la ricostruzione delle vicende di armi, corpi, brigate e reggimenti». 15 Anche le storie di Armi, corpi, ecc. hanno una loro importanza e una loro funzione: saranno delle microstorie come quelle degli Anna/es (chissà perché, a quest'ultime nessuno nega un ruolo, anzi) ma certamente non meritano affrettate liquidazioni solo per il tema che trattano, senza altre valutazioni di merito e sostanza. Ma ciò che appare ancor meno condivisibile è la pretesa di etichettare in maniera definitiva e irrevocabile tutto il lavoro dei militari storici - -0 certe discutibili idee di qualcuno di loro sul modo di fare storia - come angusta storia tecnica e di parrocchia ricavata in una nicchia nella quale essi si sentono sicuri e protetti, perché non devono affrontare sgradevoli e incerti confronti con i «terni che travalicano in qualche modo il loro specifico». Generalizzazione indebita e - per quanto abbiamo detto prima - in ogni tempo ingiustificata. Potremmo citare - e citeremo - un'interminabile teoria di nomi che smentiscono tale asserto, tra i quali spiccano uomini come Carlo Corsi, Nicola Marselli, Domenico Bonamico, Enrico Barone, Carlo Pisacane, cioè i migliori (e ne tralasciamo tanti altri ... ). Se mai, queste critiche vanno indirizzate non ai militari storici in quanto ta-
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C. Argan, Un precursore: Carlo Cattaneo, «Nazione Militare» gennaio 1935, p. 14.
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P. Del Negro, Esercito. Stato. Società, Bologna, Cappelli 1979. p. 169.
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li, ma ai cattivi storici militari, civili o militari che siano. Lo ripetiamo: dire che in passato si è troppo insistito sulla histoire-bataille non significa ammettere che la histoire-bataille corrisponde a un tipo di approccio superato, marginale o povero di acquisizioni - anche puramente teoriche - di rilievo, ma significa solo prospettare la necessità di migliorare, superare e ampliare la mera histoire-bataille (per capirla, per valorizzarla meglio attraverso una rimeditazione degli eventi e dei rapporti di causa/effetto che ne sono alla base). C'è histoire-bataille e histoire-bataille: e anziché sventolarla come prova del fallimento dei militari storici, della loro ristrettezza di vedute, bisognerebbe chiedersi perché la storia militare è stata - per troppo tempo - praticamente abbandonata nella mani dei militari, dei «tecnici» ed è stata così incoraggiata in tutti i modi, da1l'estemo, ad assumere un'angusta dimensione tecnica e professionale, al di là delle aspirazioni e delle indicazioni degli stessi militari storici. Questi ultimi - riteniamo di averlo dimostrato ad abundantiam - in passato hanno avuto in parecchi casi un'attenzione non strumentale e non episodica per la dimensione non strettamente militare e «operationelle» della storia stessa. Tale attenzione, peraltro, non ha mai trovato - fino ad anni recenti - alcuna corrispondenza nel mondò accademico, per essere chiari: nei professori di storia, e se vogliamo anche in quelli di filosofia e negli intellettuali in genere (uomini come il Pieri, il Croce e il Gentile, e come lo stesso Gramsci, con tutta la loro statura, non fanno certo primavera). Questo atteggiamento del tutto antistorico, riduttivo e automutilante - in palese contrasto con lo stesso concetto di «cultura» e di «politica» non è tipico delle particolari condizioni del secondo dopoguerra. Esso non deriva, cioè dalla sostituzione dopo il 1945 della retorica guerriera nella quale erano degenerati gli ideali di libertà e riscatto nazionale del Risorgimento, con una non meno deleteria retorica nella quale si è preteso espungere l'Istituzione militare, la sua cultura e le sue tradizioni dalla realtà nazionale, facendola arbitrariamente coincidere con la guerra e l'aggressione. Fenomeni, questi, che si riteneva sufficiente esorcizzare senza studiarli, senza considerarli appartenenti alla vita dei popoli prima ancor che alla loro cultura e alla loro storia. È stato proprio nel periodo tra le due guerre e in un clima di ufficiale esaltazione dei valori militari e del legame clausewitziano tra politica e guerra che hanno ricevuto il più largo credito approcci storiografici tendenti a lasciare ai militari - e solo ai militari - la storia militare, con un apparente atto di umiltà e di omaggio formale degli storici non militari, che in realtà sottintendeva delle precise valutazioni sul ruolo della storia militare e in definitiva dello strumento militare. La causa di questa
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vera e propria degenerazione del modo di fare storia è tutt'altro che facile da identificare, ma una cosa è certa: che esiste un indubbio legame tra questa degenerazione e il mancato decollo di storie del pensiero militare. E vi è, in proposito, una altra constatazione lapalissiana da fare: se i professori di storia e gli intellettuali hanno ritenuto di lasciare la storia militare ai militari, è perché non l'hanno ritenuta importante. Insieme con la sua storia, anche nei periodi di apparente maggior fulgore dei valori nazionali molti professori e intellettuali non hanno ritenuto importante per i loro obiettivi, per la loro attività intellettuale e culturale, per la loro stessa vita di cittadini, studiare l'Istituzione militare, in tal modo ritenuta inconsciamente marginale ed estranea ai valori e agli interessi comuni della Nazione. L'Istituzione militare, insomma, è stata di fatto concepita come cosa a sé stante, senza radici nell'anima nazionale. In tal modo dal 1922 al 1943 essa è immeritatamente diventata senza alcuna difficoltàper molti-fenomeno di parte e guiderdone di regime, in ciò favorita da certi atteggiamenti del regime stesso. E dopo il 1945, è diventato automatico tenere nel retrobottega - 4uasi vergognandosene - tutti ciò che ha attinenza con l'Istituzione militare e con la realtà, la tradizione nazionale che essa rappresenta e riassume. Operazione compiuta con grande facilità e naturalezza, che dimostra una cosa sola: la scarsissima importanza tradizionalmente attribuita alla problematica militare dall'establishment politico, intellelluale e militare, fino a far pensare che in questo disinteresse c'entrino assai poco le controproducenti manifestazioni della retorica anteguerra, se mai favorita dalla necessità di enfatizzare cose non sentite, riuscendo solo a verniciare malamente quanto prima si era costruito e pensato, che poi senza alcuna difficoltà si è liberato della vernice mostrando le sue miserie. Non si è trattato tanto di antimilitarismo, ma piuttosto di amilitarismo alimentato da11a tradizionale mancanza di un sentimento unitario e nazionale, quindi anche di senso dello Stato e di attaccamento alle Istituzioni. Ben diverso è stato l'atteggiamento dei migliori profeti dell'antimilitarismo dichiarato e aperto (da non confondere con il pacifismo), che sono stati tali in quanto hanno studiato il «nemico» e la sua storia, per poterne meglio attaccare i punti deboli. Anche il socialismo rivoluzionario - e ancor più il movimento comunista - hanno, naturalmente a modo loro, fatto in qualche misura i conti con la guerra, la sua essenza e la sua storia (basti pensare a fenomeni molto diversi ma tutti indicativi di un interesse realistico e attivo, come l'interventismo dei Mussolini, Corridoni, De Ambris, il forte interesse militare di Lenin e Engels, la grande attenzione che ha lo stesso Lenin per Clausewitz, la grande personalità di Capo militare e il realismo di Trotsky). Questi conti la cultura italiana - fatte le dehite e rare eccezioni,
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che ovviamente confermano la regola - non li ha mai fatti. In tal modo, il pensiero politico è rimasto a mezz'aria e il pensiero militare che per ragioni evidenti ha bisogno, per essere veramente tale, di un clima di permeabilità tra «interno» e «esterno» - ha avuto le ali tarpate. È stato - prima di tutto - iJ costante, aperto e nemmeno tanto nascosto disinteresse degli esponenti della cultura italiana per la «roba dei militari» a determinare certe lacune, inadempienz~ e - diciamolo pure - reciproche incomprensioni. C'entrano assai di meno le chiusure e le pretese di monopolio dei militari scrittori e degli organi di studio e ricerca militari. Quando e se ci sono state (ma non da una parte sola!), queste chiusure corporative hanno pur sempre avuto una causa, da ricercare in una separazione e incomunicabilità dei due mondi. Ne è derivata una problematica che non si pone nemmeno in un Paese autenticamente moderno e democratico, dove vi è una comune, consapevole e serena accettazione dei valori culturali nazionali e dove le chiusure corporative - in quanto espressione di un disagio di rapporti - non hanno perciò ragion d'essere. Si è così creato e alimentato - con reciproco danno delle due parti coinvolte - un processo di «separatismo culturale» nel quale va ricercata la matrice di molti mali della nostra storia militare. E come esempio delle nocive ricadute di questo separatismo il Baldini - siamo sempre nel 1934 - cita l'infelice battaglia di Goito del 1848, nella quale le decisioni strategiche (o meglio, le non-decisioni strategiche) di Carlo Alberto sono state inevitabilmente influenzate da un disfattismo politico «delitto di lesa guerra» generato dallo scontro tra le fazioni lombarde, che si era manifestato con un progetto di referendum popolare per decidere le sorti della Lombardia e con la convocazione di comizi per quattro giorni dopo, nelle stesse località dove stava combattendo l'Armata Sarda: ebbene, lo storico politico, quando accenna al fatto (e non sempre ha la sensibilità antidemagogica per accennarlo e condannarlo) si guarda bene dal trarne le logiche conseguenze su l'andamento della lotta armata, perché questa è ... roba dei militari. E, dal suo canto, lo Storico militare - mentre cerca in ogni altro angolo le ragioni della perplessità piemontese dopo Goito - rimane guardingo e reticente per questa causa di ordine extrarnilitare, perché ... è roba di politica. Ma in tal modo - è indubbio - la valutazione dei fatti ne risulta annebbiata; e perdono di sincerità gl'insegnamenti storici. Perché la reticenza è una delle espressioni della falsità. 16 16
A. Baldini, Art. cit. , pp. 157-158.
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Non chiusura unilaterale: ma, se mai, chiusura reciproca. A proposito di «chiusure»: la fin troppo lamentata chiusura degli archivi rrùlitari, se e quando e nella rrùsura in cui c'è stata, e a prescindere dalle ragioni frequentemente legittime che l'hanno ispirata, ha danneggiato o ostacolato prima di tutto la storia delle operazioni e delle guerre, la storia «interna» e tecnica. Essa non può spiegare o giustificare il disinteresse per le cose rrùlitari e la mancata valutazione della letteratura rrùlitare, da sempre non custodita negli archivi stessi. E nemmeno può spiegare e giustificare una degenerazione di segno opposto a quella della storia eminentemente tecnica, della «storia dei militari»: la storia «a tesi», deterministica e di ispirazione ideologica, dove operando in maniera anticlausewitziana e contro la logica elementare, si finisce spesso con il disconoscere «la autonomia del tecnico» rispetto alla «prerrùnenza del politico», di fatto rinunciando a ogni valutazione obiettiva e annegando gli aspetti rrùlitari e tecnici in un mare magnum, dal quale sono estratti solo temporaneamente e sporadicamente, per dimostrare ciò che al momento da un punto <li vista meramente politico e ideologico fa più comodo.
Va dunque ribadito che anche la storia meramente «interna», «tecnica» ha una sua dignità, un suo valore intrinseco, un suo peso «esterno» e in campo politico-sociale; ciò non significa che vi siano o vi siano state preclusioni contro gli storici e scrittori rrùlitari, non appartenenti alla stessa Istituzione rrùlitare. In ogni epoca, tra i «laici» si annoverano norrù di militari illustri. Ad esempio, nel 1859 il d'Ayala - ufficiale napoletano - si lirrùta ad auspicare che i «soldati storici» attingano ammaestramenti militari dalle opere di autori italiani anziché stranieri, e anzi trova naturale che la letteratura militare - a differenza delle altre - abbia «dei cultori e delle eminenze» anche tra i non militari, in quanto la vita agitata, errante quasi, e attiva soverchiamente del soldato, salvo i casi di lunga pace o di governi che vogliono dottrina [ ... ) non gli permette sl di leggieri di maneggiar la spada e la penna, e tanto meno usar bene la penna quanto la spada, siccome in pochissimi uomini pregiati vedemmo seguire, Giulio Cesare, Leone Imperatore, Montecuccoli, Bonaparte ... 17
Parole che potrebbero essere scritte anche oggi; ma il loro pregio è quello di indicare l'apertura di un militare studioso ai «laici». Nei decenni successivi e precedenti vi sono anche pareri diversi e opposti, come ad esempio quello del capitano De Biase che nel 1913 - per ragioni eti-
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M. d'Ayala, Art. dt., p. ~7.
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co-militari e pratiche, tra le quali la possibilità di accesso di archivi e «il molto tempo libero» - rivendica per gli ufficiali un ruolo preponderante nella storia del Risorgimento: ma ciò avviene senza disconoscere il contributo dei professori di storia e solo per dare forza alla tesi che sottolinea l'evidente interesse professionale dei militari di tutti i tempi alla storia della loro Istituzione. 18
La doverosa analisi preliminare delle circostanze che ostacolano un'opera di pensiero militare o strategico non può certo indurre a giudizi ottimistici sulle fonti disponibili nella storia della letteratura militare, che di tale pensiero è espressione. Il giudizio del Pieri sulla letteratura militare dal 1831 al 1848, che cioè «non esiste, si può dire, alcuna trattazione sistematica», 19 può essere legittimamente esteso, anche oggi, a tutta la letteratura militare del secolo XIX fino alla prima guerra mondiale. Ma ciò non toglie che le fonti e i tentativi ci siano, anche se pochi e soprattutto non orgaoici. Oltre ai non trascurabili scritti di logistica e amministrazione - finora ignorati - che abbiamo messo in giusta luce nella nostra recente indagine sulla logistica dell'esercito pubblicata dall'Ufficio Storico SME, lo dimostrano le non trascurabili opere finora edite nelle quali si trovano tentativi di analisi più o meno organiche del pensiero militare. Opere certamente rare, lacunose, parziali, troppo sintetiche, non esaustive, ma già tali da rivelare l'esistenza di tutta una serie di teorici e cultori di strategia, da Marselli a Ricci, che non hanno certo consumato la loro esistenza in minute descrizioni di insignificanti scontri o in ricerche su settori tecnici marginali. E tali da consentire l'accostamento al fondamentale ma troppo sommario Guerra e politica negli scrittori italiani dello stesso Pieri (1955-1975)20 di lavori precedenti dovuti a militari, come il libro del colonnello (poi Maresciallo d'Italia) Ettore Bastico L'evoluzione dell'arte della guerra 21 e quello - monumentale - del generale Pietro Maravigna, estremamente ricco di suggestioni politico-sociali.22 Né manca un'opera dei primi anni Venti (Marte - Antologia Militare) dove un intelligente militare di carriera, Emilio Canevari, lavora in perfetta armonia con un «laico» per eccellenza come Giuseppe Prezzoli-
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M . De Biase, Art. cit.. P. Pieri, Storia militare del Risorgimento, Torino, Einaudi 1962, p. 830. 20 Milano, Mondadori 1975. 2 1 Firenze, Carpignani e Zipoli 1924 (3 Voi.). 22 P. Maravigna. Storia dell'arte militare moderna (5 Voi.), Torino, Schioppo 1923. 19
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ni. 23 Merita di essere rammentato anche un libro relativamente recente (Garibaldi condottiero), dove sul problema militare del Risorgimento si incontrano e si scontrano studiosi civili e militari di vario orientamento.24 Le opere e gli autori prima citati - pochi o molti che siano - riguardano esclusivamente la guerra terrestre: e la guerra sul mare? Secondo Rochat e Massobrio i problemi navali nel corso dell'ottocento hanno avuto un rilievo secondario, per tre ragioni essenziali: a) schiacciante superiorità delle marina militare e mercantile britannica, che lascia ben poco spazio a competizioni; b) carattere «fondamentalmente continentale» delle contese europee del secolo ·XIX, che fa apparire la battaglia navale di Lissa come il maggiore scontro navale. in Europa fino alla prima guerra mondiale; c) conseguente scarsa importanza attribuita alle forze nava1i dagli Stati pre-unitari (con la rilevante eccezione del Regno di Napoli); d) crisi di trasformazione delle flotte, che a metà secolo dalla navigazione a vela con scafi in legno passano aUa navigazione a vapore con scafi in ferro, concentrando le loro energie sulla problematica strettamente tecnica. 25 Ragioni senza dubbio di un certo peso, ma non sufficienti per ignorare il pensiero navale ritenendolo ininfluente. Il dominio del mare da parte britannica non può impedire al Regno di Napoli, al Piemonte (si pensi all'opera di Cavour) e più tardi al Regno d'Italia, di dedicare una certa attenzione alla marina. Attenzione imperfetta, tutt'altro che continua ma già ben avvertibile nella guerra del 1866 e comunque crescente man mano che ci si avvicina al XX secolo. La crisi di trasformazione delle flotte, l'avvento del vapore e le incertezze che ne derivano creano anzi - diversamente da quanto sostengono i due autori prima citati - un clima estremamente favorevole al dibattito non solo tecnico-marinaresco, provocando la nascita della strategia marittima. Infine, il concetto di cultura militare che prima abbiamo proposto e al quale intendiamo rimanere fedeli non suggerisce certo di arrestare il cammino del pensiero militare... al bagnasciuga, ma impone di estenderlo al mare, quali che ne siano le acquisizioni e i risultati. Di conseguenza concordiamo pienamente con il Coutau-Bégarie, il
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E. Canevari - G. Prezzolini, Marte - Antologia militare (2 Voi.), Firenze, Bemporad 1925. 24 AA.VV., Garibaldi condottiero - storia, teoria e prassi (a cura di F. Mazzonis), Milano, Franco Angeli 1984. 25 G. Rochat - G. Massobrio, Breve storia dell'Esercito Italiano 1861-1943, Torino, Einaudi 1978, p. 17.
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quale di recente ha affermato che «è bene inteso, una volta per tutte, che la strategia navale si inscrive in una strategia generale; quest'ultima a sua volta si inscrive in un insieme più vasto, che può essere denominato strategia totale (Beaufre), o integrale (Poirier) o condotta diplomaticostrategica (Aron). Ma tutto questo non rimette affatto in causa la specificità della guerra sul mare, derivante dalle caratteristiche particolari dell'elemento marittimo, che autorizza e anzi obbliga a concepire diversamente la condotta operativa, a seconda che ci si trovi in terra o per mare». 26 Da questo discende l'inopportunità di considerare un «pensiero militare» inteso esclusivamente come pensiero militare terrestre, al quale andrebbe affiancato un «pensiero navale». Riteniamo invece che il «pensiero navale» vada incluso - come il «pensiero terrestre» nel pensiero militare, che integra e riassume fin dal secolo scorso le due componenti . . Procedere altrimenti significherebbe ammettere che - come oggi sostengono erroneamente taluni storici di forza annata - il potere marittimo è un'entità con valenza propria e assoluta da distinguere dal potere rnilitare.27 E significherebbe anche adottare un approccio antistorico: in una nazione fin dalle sue origini «talassocratica» per eccellenza, gli Stati Uniti, già nel 1877 il comandante Luce, mentore di mahan, si preoccupava di individuare le analogie tra strategia terrestre e navale, mentre lo stesso A.T. Mahan, profeta delle forme più autonome, assolute ed esclusive di potere marittimo e a ragione ritenuto tuttora il più grande scrittore di strategia navale (anche se non il padre della strategia navale stessa, o meglio della teoria strategica navale, come ritengono alcuni) deriva vedi caso - il nocciolo duro delle sue teorie da Jomini e risente soprattutto del suo determinismo.28 Si tratta dunque di condurre un lavoro comparativo e di raffronto tra pensiero strategico e tra pensiero navale e terrestre, finora mai tentato in Italia. Lavoro reso più urgente e necessario - ma anche meno facile dalla completa assenza di studi organici sul pensiero navale italiano - o meglio, sugli aspetti navali del pensiero militare - nel periodo 1815-
26 H. Coutau-Bégarie, Pour une histoire de la pensée navale (in AA.VV., L'évolution de la pensée navale, Paris, Fondation pour les Études de Defense Nationale 1990, p. 6). 27 Cfr. G. Giorgerini, «Rivista Marittima», n. 10/1992. 28 Si vedano i fondamentali saggi di P.A. Crowl, A. T. Mahan: lo storico navale (in AA.VV., Guerra e strategia nell'età contemporanea - a cura di P. Paret, Genova, Marietti 1992, p. 155-186) e di B. Colson, ]omini, Mahan et les origines de la stratégie maritime americaine (in AA.VV .. L'Evolution ... -Cit.• pp. 135-151).
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1861, e dall'insufficienza di taluni studi settoriali comparsi nel periodo successivo. Limiti peraltro comuni al pensiero navale europeo, dove «le lacune sono immense, e bisognerà ancora accumulare un grandissimo numero di monografie e studi settoriali prima di giungere a una sintesi un pò più solida».29 Non nascondiamo la nostra ambizione di giungere, appunto, a una «sintesi un pò più solida»: se non raggiungeremo - o non raggiungeremo del tutto - gli obiettivi, ci sia almeno dato atto dell'impegno e della volontà di riuscirci. Si tratta - va chiarito - di un tentativo doveroso, perché al di là di acquisizioni teoriche tende a rimuovere le cause storiche delJa più volte lamentata marginalità del pensiero strategico navale, marginalità anche oggi con negative ricadute che impediscono spesso un dialogo aperto e costruttivo - con riferimenti e basi comuni - tra studiosi «militari» e studiosi «navali», artificiosamente distinti come se arte e scienza della guerra fossero ancora e sempre solo terrestri, e come se le interazioni fossero trascurabili e non organiche.
La cornice prima tracciata - inevitabilmente complessa - fornisce, oltre che le finalità principali, anche le prime e più importanti coordinate del lavoro che ci accingiamo a compiere. La lacuna da colmare ha un retroterra assai profondo, nel quale una parte considerevole è presumibilmente occupata dalla ritardata formazione di una coscienza nazionale, quindi da un frequente vassallaggio culturale. Questa è però una deduzione ancora da verificare, che rende fin d'ora necessario estendere nei limiti del possibile l'indagine al campo europeo, per stabilire se e in che misura la letteratura militare d'oltr'alpe risente degli stessi limiti e delle stesse cesure, che hanno finora impedito al pensiero militare italiano di prendere completa e organica coscienza di sè stesso. Ad esempio la situazione della storia del pensiero militare e navale francese - abbiamo già accennato, in merito, al giudizio critico di Coutau-Bégarie sul pensiero navale - non sembra migliore di quella italiana, anche se colà lo spirito nazionale è da sempre forte e le istituzioni militari godono da sempre di ben altro prestigio. In questo ci sono forse le tracce dell'illuminismo, che ha avuto in Voltaire un dissacratore anche dei valori militari e non ha prodotto alcuna reale svolta nella cultura militare e nell'arte o scienza della guerra, nella quale il genio strategico napoleonico si è innestato direttamente sul vecchio tronco dell'esercito re-
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H. Coutau-Bégarie, Op. cit. , p. 9.
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gio e sulle più pure, secolari tradizioni militari europee e francesi (lo dimostreremo). Non conosciamo bene se - e come - è stata curata la storia del pensiero militare in Germania e Inghilterra. Osserviamo solo che la storia della Germania non avrebbe alcun senso senza i Bliicher e i Von Moltke, quella d'Inghilterra non potrà mai prescindere dai Marlborough, dai Drake, dai Nelson e dai Wellington, la stessa storia di Francia, che sarebbe senza Napoleone e la sua Grande Armée, e anche senza Lyautey, Pétain e Foch? Per l'Italia, invece, constatiamo senza gioia che è tutto molto diverso. Nel suo recente libro sugli uomini che hanno fatto l'Italia, l'illustre politico e insigne storico Giovanni Spadolini - non si può certo fargliene una colpa - non cita alcun autentico generale o ammiraglio, perché Garibaldi è un condottiero sui generis ... All'obiettivo prima indicato - già estremamente arduo - si aggiungono altri motivi e altre esigenze che accrescono l'utilità dell'opera, ma anche la sua difficoltà. Quando nei primi anni '80 siamo andati alla ricerca dei legami che univano il problema militare del dopoguerra a quello dell'anteguerra - in tal modo caratterizzando meglio e mettendone meglio in evidenza gli aspetti nuovi e le peculiarità dì quanto viene pubblicato dopo il 1945 - abbiamo avuto per la prima volta coscienza precisa dei «tempi lunghi» ai quali obbedisce la storia della strategia, e ancor più quella della logistica e del pensiero militare. 30 Basti pensare che, nonostante il progresso incommensurabile delle tecnologie e dei materiali, tutte le teorie dibattute in campo militare tra le due guerre mondiali del XX secolo - non escluse quelle anti storicistiche e del materiale di Giulio Douhet - affondano le loro radici negli autori del secolo XIX e/o nell'arte militare napoleonica, a cominciare dai due autori che a tutt'oggi vanno considerati - e lo dimostreremo - i pilastri della strategia teorica, Jomini e Clausewitz, e dal profeta della guerra sul mare, A.T. Mahan, che proprio nel 1994 - meglio tardi che mai viene tradotto e riproposto ai cultori del pensiero navale italiano. Si pone, dunque, un problema di studio organico, ricerca e individuazione di queste radici. Ciò equivale a far emergere l'immancabile contraltare militare delle rivoluzioni - non solo politico-sociali, ma industriali, tecnologiche ed economiche - che mutano l'assetto europeo nel secolo XIX e cominciano a farsi sentire già qualche anno dopo Waterloo, come per smentire subito i contenuti e le finalità palesamente flem-
30 Cfr. F. Botti - V. Ilari, Il pensiero militare italiano tra il primo e il secondo dopoguerra (1919-1949), Roma, SME-Uf. Storico 1985.
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matizzanti della Santa Alleanza, espressione delle speranze delle Monarchie e di parte cospicua delle classi dirigenti. Fonti e radici europee, non angustamente italiane: se è così, anche per questa via si pone come prioritario il problema di un raffronto non e. pisodico tra il pensiero strategico italiano e quello d'oltralpe, per individuarne i punti di convergenza e divergenza caratterizzando così meglio il pensiero militare nazionale e acquisendo elementi precisi per giudicarne il livello e l'originalità, e per confermare o smentire - con dati di fatto ricavati unicamente dal materiale esaminato - i giudizi riduttivi o sfavorevoli di taluni studiosi su uomini e opere della cultura militare italiana del secolo XIX. Questo obiettivo non certo modesto rende ancor più diffici1e un'operazione preliminare ineludibile, che si riassume nella risposta a un semplice interrogativo: dove e quando cominciare? Avevamo in merito due certezze, materializzate con due nomi: Waterloo - cioè il tramonto dell'astro napoleonico - come punto di svolta, e la Restaurazione come spazio temporale per meltere a frntto l'eredità strategica delle guerre 17891815. Ci siamo ricreduti, e ben presto si ricrederà anche il lettore: Napoleone non può essere capito senza Federico II di Prussia, e Nelson è in certo senso ottimo scolaro di Rodney, Jervis e Suffren ... Un solo vocabolo, un solo movimento può indicare l'inizio del pensiero militare contemporaneo, e se vogliamo anche gran parte dei suoi limiti: l'illuminismo, padre delJa Rivoluzione Francese. Una siffatta delimitazione è resa ancor più attendibile dal fatto che le teorie strategiche acquistano un significato ben concreto, solido e preciso, solo se al loro interno si colloca ciò che non è propriamente strategia, ma ha legami più o meni diretti e forti con la strategia stessa, fino a fare della chiave strategica l'unica che può rivelarne il peso e il carattere. Al tempo stesso - pare superfluo ricordarlo - queste teorie vanno confrontate con il passato, se non altro per la dose di novità autentiche che contengono, generalmente assai meno cospicua di quanto si possa credere. Dunque ciò che ci preme di più non è la storia della letteratura militare, e nemmeno la semplice storia del pensiero militare: ma la storia del pensiero strategico e - per quanto possibile - ]'inserimento nel pensiero strategico stesso delle parti più significative e caratterizzanti del pensiero militare, facendo del pensiero strategico il «faro che illumina» il pensiero militare in generale. Va anche precisato che non vi è un preciso e costante rapporto gerarchico tra pensiero strategico e pensiero militare in genere, ma che gli influssi sono reciproci e non unidirezionali. Non solo: se la cultura militare non è che una componente della cultura senza ag-
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gettivi di un popolo (e ne rispecchia le peculiarità l'indile e gli indirizzi), allora non è nemmeno il caso di rammentare che abbiamo ritenuto doveroso e naturale riferirci alle pagine più significative di Croce, Gentile, Salvatorelli e altri per cercarvi assonanze e reciproci influssi - o anche citazioni e interpretazioni - tali da consentire un appropriato inserimento della storia del pensiero strategico e militare nella storia del pensiero politico e nella storia della filosofia in genere. Per questa operazione, ci sono stati di grande aiuto gli strumenti d'indagine e di critica fornitici da Croce e Gentile: ci rammarichiamo solo di essere stati costretti a «saccheggiare» questi due sommi pensatori prettamente italiani per trarne solo ciò che ci serviva al momento, trascurando studi più organici della loro opera che pure ci sarebbero stati di grande giovamento, e anche di grande soddisfazione. Un tuffo sia pur momentaneo nel pensiero italiano senza aggettivi e nel concetto di storia che ne deriva - ci è stato sommamente utile anche per individuare meglio le ragioni di attualità dell'indagine che ci accingiamo a compiere, la quale - inutile nasconderlo - potrebbe suscitare specie oggi delle perplessità. Ad esempio: che significato e interesse può avere, a fine secolo XX, l'analisi della letteratura militare di un periodo nel quale la guerra e le Istituzioni militari erano infinitamente meno complesse e tecnologicamente più che obsolete rispetto a oggi? E ancora: viviamo in un tempo caratterizzato dal tramonto delle ideologie, che secondo Jaspers sono «il complesso di pensieri e rappresentazioni che appare come una verità assoluta al soggetto pensante[ ...] producendo un autoinganno, un occultamento, una fuga». Perché, allora, rispolverare gli antichi idola della strategia e dell'arte militare, cioè le «ideologie militari»? Non si rischia di riesumare dogmi, miti e leggende di un pass.ato ormai solo tale, senza ottenere alcun risultato utile per interpretare l'odierna realtà, anzi contribuendo alle distorsioni di forza·armata, o a confondere ulteriormente le idee in un periodo dove già domina l'incertezza e la carenza di riferimenti precisi? Si potrebbe rispond-ere a questa obiezione semplicemente affermando che i riferimenti ora mancanti non possono, appunto, che essere ricercati nel passato. Lo testimoniano le parole di Tocquevme - l'autore c1assico de1la democrazia moderna - sull'immanenza insospettata dei princìpi religiosi, filosofici e politici e, contemporaneamente, su queJla che egJi chiama anarchia intellettuale: non credo che sia facile, come talvolta si crede, sradicare i pregiudizi d'un popolo democratico, mutare le sue credenze, sostituire nuovi princìpi religiosi, filosofici, politici e morali a quelli esistenti, provocare insomma grandi e frequenti rivoluzioni nel clima intellettuale. Certamente lo spirito umano non è ozioso, ed anzi si a-
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gita senza posa; ma si esercita a variare all'infinito le conseguenze dei princìpi conosciuti, piuttosto che a cercare nuovi princìpi. (...). Più rifletto sugli effetti dell'uguaglianza sulla mente umana, più mi persuado che l'anarchia intellettuale di cui siamo testimoni non è, come molti credono, lo stato proprio dei popoli democratici. Essa è solo un fatto accidentale, ascrivibile solo alla loro giovinezza, e che appare solo in quel momento di transizione, quando gli uomini hanno già spezzato gli antichi legami che li univano tra loro, ma differiscono ancora prodigiosamente per origine, educazione e costumi ... 31 Tocqueville chiama in causa il peso e l'eredità del passato - tanto più forti in istituzioni come quelle militari - e quasi prelude a quel concetto crociano di storia, eh~ giustifica pienamente indagini come quella che ci accingiamo a condurre e anzi ne indica le potenzialità e le ricadute sul presente. Ci riferiamo al «terzo modo di trattazione storiografica» del Croce, alla «storia propriamente detta» che non rifiuta ma riassume in sé gli apporti della storia «filologica» e «oratoria» e nella quale il presente rischiara il passato e il passato il presente, reciproca-
mente convertendosi e identificandosi, e i contrasti e i bisogni della vita attuale s'innalzano a pensiero. Conoscenza, dunque, non di un passato morto (che in quanto tale sarebbe irriconoscibile), ma di un passato vivo, di un passato - presente, donde la definizione che la vera storia è sempre «storia contemporanea», e anzi è la sola a cui si addica questo nome [... J. Il che mostra quanto siano superficiali le accuse, mosse alla storia, di «inutilità», laddove la riflessione storica, nel suo piccolo o nel suo grande, interviene sempre in ogni nostra deliberazione e forma il transito a ogni nostro operare; e le altre accuse che essa culli lo spirito nell'inerzia della contemplazione, laddove proprio lo spirito inerte, ma inquieto e bramoso di azione, è quello che la muove e che se ne giova. 32 A parte le dissertazioni sull'utilità o meno della storia e della cultura in genere, l'approccio crociano ha un fondamentale sottofondo che riguarda il pensiero militare. Esso spinge ad evitare la separazione della strategia dalla sua storia: strategia e storia sono un unicum. AI di là di ormai rituali e immancabili richiami al Clausewitz, tutt'altro che infre-
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Antologia degli scritti politici di A. De Tocqueville (a cura di V. Caprariis), Bo-
logna, li Mulino 1961, p. 130. 32 R. C.mce, Tlltimi saggi, Rari, Laterza 1935, pp. 318-319.
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quenti anche nel pensiero militare più recente legato all'impotenza della «mutua distruzione assicurata», si deve constatare che finora - in nome de11e suggestioni del materiale e della sua sempre maggiore capacità distruttiva - si è operato come se i concetti strategici non avessero un loro retroterra storico e spirituale e non facessero parte, in senso lato, della memoria storica dei popoli. Sia pure senza scintille di guerra, il nazionalismo francese, il «sacro egoismo» e l'isolazionismo inglese, la forza e la prepotenza tedesca, non sono ancora, forse, una tematica dei nostri giorni? Si deve perciò rispondere anche a queste domande: che cosa c'è oltre a Clausewitz nel secolo XIX? come si inserisce il suo pensiero in quello militare coevo, e in che cosa egli si differenzia dagli altri? infine, in che misura e quando le sue teorie influenzano quelle degli scrittori europei e italiani? In tal modo, si può raggiungere anche un altro non secondario obiettivo: riscoprire e ridefinire, là ove affiora, una fisionomia nazionale del nostro pensiero strategico e militare. Operazione tanto più necessaria. in un periodo in cui si constatano i danni della «fuga nel particulare» favorita dall'assenza, dimenticanza o scarsa incidenza di U!)a memoria storica specie in Italia da sempre operante e viva anche serifiutata, e nei nostri giorni tornata ad essere ritenuta indispensabile per la vita e il progresso di una comunità, proprio man mano che si intensificano i contatti con l'Europa. Si è oggi diffusa (anche tra intellettuali e schieramenti politici tradizionalmente portati a ritenere strumentale, superata e ritardante una forte coscienza nazionale) la consapevolezza che «l'Europa nasce dalla cooperazione di nazioni adulte, non da nazioni in liquidazione», e che un forte collante nazionale è indispensabile per il buon funzionamento delle istituzioni democratiche, per costruire uno Stato finalmente legittimato e innalzato dal consenso dei cittadini, insomma: uno Stato efficiente e rispettato all'interno e all'esterno. Questo «collante nazionale» non è forse comparso, fin dall'inizio, neJle più antiche democrazie? In proposito, ci sembra di particolare attualità, e di singolare preveggenza, quanto Luigi Salvatorelli ha scritto nel 1943 a proposito del rapporto tra individuo, coscienza nazionale e coscienza europea dopo il 1815: Napoleone, detronizzato ed esiliato dalla Santa Alleanza, si trasfigurò in simbolo di libertà in Francia e in Italia e nel resto d'Europa; trasfigurazione che non fu senza nesso con l'altro fatto, che gli eserciti furono focolari di movimenti liberali [ennesima ragione per non far trascurare tutto ciò che avviene al loro interno anche dalle «storie» non militari - N.d.a.]. Così i moti rivoluzionari non si pro-
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dussero in un solo Paese, ma assunsero l'aspetto di crisi europee. Idea fondamentale di questa opinione pubblica liberale. europea fu quella della rispondenza, dell'accoppiamento fra libertà individuale e libertà o indipendenza nazionale. Si considerava che la libertà dello sviluppo dell'individuo era diritto incontestabile di ogni uomo, cosl come il libero sviluppo della propria nazionalità era diritto incancellabile di ogni popolo. TI diritto dei singoli era considerato della stessa natura di quello delle nazioni, il secondo appariva settecentescamente - come la somma dei primi. I popoli avevano il loro diritto in quanto constavano di persone umane: il diritto nazionale non era qualcosa di trascendente a quelli individuali, ma la somma o il risultato di questi».33
Tutto ciò ha delle ricadute sul pensiero militare e la sua storia e ci riporta al «modello» della seconda metà del secolo XIX, quando anche in Italia lo strumento militare ha incontrato - pur tra travagli, sconfitte, cadute di consenso e di prestigio, periodi oscuri, formule inadeguate o di parte - il massimo di legittimazione, ha riscosso il massimo di (sia pur contrapposto e dialettico) interesse, ha rappresentato un coagulo di sentimenti, aspirazioni e speranze e l'indiscussa prima scuola della Nazione. Nel ripensamento e nella ricostruzione di una forte identità per gli Italiani, non può dunque mancare una riflessione sui contenuti militari del processo di unità nazionale e una riscoperta dei concetti e valori che ne erano alla base. Lungi dal favorire l'isolazionismo provinciale, questa necessità nuova richiede ancora una volta il superamento delle barriere culturali nazionali, perché una qualsivoglia acquisizione teorica non si può identificare e valutare che per differenza o per analogia con gli assi portanti del pensiero europeo. In proposito, fin da ora si può affermare che l'eventuale constatazione di una dipendenza dei nostri scrittori militari da correnti di pensiero d'oltralpe di per sé non comporterebbe affatto un giudizio di scarsa originalità, scarso peso e scarsa aderenza alle specificità nazionali. In fondo gli autori di qualsivoglia Paese - ivi compresi gli stessi Stati Uniti - fino ai nostri giorni non possono che richiamarsi, in misura diversa, ai capistipite prima indicati, e la circolazione delle idee in Europa è sempre stata sorprendentemente intensa, rapida e favorita dalle stesse guerre. In linea generale influssi e assonanze vanno giudicati positivamente e non negativamente, perché sono segno di salutare rifiuto di una malin-
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L. Salvatorelli, Pensiero e azione del Risor,:imento, Torino, Einaudi 1943, p. 93.
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tesa e asfittica prospettiva nazionale e di inserimento fecondo nelle grandi correnti europee del nostro pensiero. E qui ricordiamo il forte invito . di Henry Pirenne (siamo nell'ultimo dopoguerra) a «disimparare dalla Germania» una concezione naturalistica della nazione «che portava necessariamente con sé una marcata tendenza all'esclusivismo, l'incapacità di apprezzare, in nome del «genio» nazionale, la pluralità degli apporti storici e culturali, ed errori di prospettiva storica dovuti al privilegiamento e alla generalizzazione arbitraria di elementi locali».34 Il metro di giudizio decisivo, perciò, diventa non il carattere nazionale o meno degli apporti storici, ma il modo con cui si utilizza materiale non sempre e non tutto italiano e il modo con cui lo s i sa adattare alle contingenze e specificità nazionali, da assumere come dato oggettivo nell'insieme dei rimanenti e non come rigida pregiudiziale.
Diamo ora qualche cenno dei limiti prescelti e della metodica che si intende seguire. li limite inferiore 11011 può che essere quello delle guerre della Rivoluzione e napoleoniche, le prime condotte da eserciti di massa figli della democrazia e della nazione, anche se - come osserva Tocqueville a confenna della sua tesi sulla persistenza dei motivi religiosi, sociali, filosofici nei popoli - la levée en masse ha, in Francia, tutto un relrolerra slorico che, in senso lalo, altiene alle secolari - e peculiari - lradizioni militari di quel popolo, sfruttate a fondo dalla Rivoluzione e Napoleone: ci si meraviglia, talvolta, che i francési abbiano tollerato così pazientemente iJ giogo della coscrizione obbligatoria durante e dopo la Rivoluzione: ma non si deve dimenticare che essi vi erano stati sottoposti da sempre. La coscrizione era stata preceduta dalla «milizia», giogo ben più grave, pur se i contingenti richiesti erano meno numerosi: di tanto in tanto si costringeva la gioventù delle campagne a partecipare ad un'estrazione a sorte e si reclutavano un certo numero di soldati, con cui si formavano i reggimenti della milizia, nei quali si serviva per ben sei anni. 35
Sta di fatto che, nei venticinque anni quasi ininterrotti di guerre che insanguinano l'Europa dalla Rivoluzione Francese a Waterloo, la leva
34 Cit. in AA.VV., La storia comparata - approcci e prospettive (a cura di P . Rossi), Milano, Il Saggiatore 1990, p. 92. 35 A. De Tocqueville, Op. cit., p. 170.
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raggiunge non solo in Francia proporzioni 4tusitate e la strategia esce dall'infanzia facendo il suo ingresso nell'età contemporanea. La Rivoluzione Francese - o, se si preferisce, la battaglia di Valmy (1792) che ne è il primo rilevante successo - significa dunque la fine del secolo XVID, e l'inizio di una nuova era. Trattando della logistica e degli ordinamenti nel secolo XIX, abbiamo già rilevato che fino alla guerra franco-prussiana del 1870-1871 non si fa che riscoprire - ne11a strategia, nella logistica, negli ordinamenti - le soluzioni e gli indirizzi napoleonici. 36 Il limite superiore della nostra opera è altrettanto ben definito. Nel 1914-1915 si entra in guerra con eserciti leggeri, imperniati sul cavallo e sul1a ferrovia, tutti più o meno costruiti per il modello ancora ottocentesco della guerra di movimento franco-prussiana del 1870-1871. Nel 1918 se ne esce con l'aviazione, i gas, migliaia di automezzi e macchine, armi automatiche di reparto e mezzi di fuoco sovrabbondanti. La prima guerra mondiale segna dunque il passaggio alla guerra logistica industriale, di materiali e di macchine del secolo XX, secolo nel quale Ja teoria strategica prende quelle controverse forme che abbiamo già descritto nel precedente lavoro sul pensiero militare italiano dal 1919 al I 949. Confini certi e sicuri , che però non possono far dimenticare la persistenza di significative omissioni relative al pensiero militare italiano dei secoli che precedono il XIX. In merito, ci limitiamo a ricordare le proposte - tuttora (1995) senza seguito - del prof. Francesco Fabris nel 1899: Gli illustri capitani italiani che fiorirono dal secolo XV al secolo XVIII e furono spesso costretti a prestare il loro braccio e il loro ingegno a principi stranieri rimasero in gran parte obliati: i dizionari biografici più minuziosi trascurano di registrare il nome di molti nostri valentuomini e sarebbe opera lodevole raccogliere le biografie non solo dei più noti, ma anche dei dimenticati e dimostrare come la nostra terra, anche nei tristi tempi della dominazione straniera, sia stata feconda di uomini insigni non solo nelle arti, nelle lettere e nelle scienze, ma anche nelle armi. I Tedeschi nell'Al/gemeine deut,çche Biographie, giunta al 44° volume, hanno pubblicato in ordine alfabetico accurate biografie di tutti gli uomini di qualche valore. Noi dovremmo fare altrettanto per gli italiani.37
Un altro limite - inevitabile data la ristrettezza deJlo spazio in rap36
F. Botti, La logistica ... (cit.), Voi. I, Parte I e Il. F. Fabris (prof.), Nota bibliografica - uno scrittore militare del secolo XV, «Rivista Militare» 1899, Voi. Il, p . 716. 37
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porto al periodo esaminato, e in certo senso necessario e salutare per non disperdere il filone fondamentale in un mare magnum indistinto - deriva dalla scelta (senz'altro soggettiva) del materiale, che può portare a perdere alcuni nessi e alcuni interfaccia che invece sarebbero da non perdere. Che fare? Il pensiero di un singolo autore - o di un gruppo di autori - non può essere mai compresso: se lo si riduce in pillole, a poche forme esteriori, a detti edificanti, esso scompare o viene mutilato. Per questo, anche a prezzo di togliere incisività al testo e stretta concatenazione logica allo sviluppo degli argomenti, abbiamo abbondato in citazioni letterali ed evitato il più possibile interpretazioni apparentemente semplificatrici, sintetiche e mediate che si prestano a nascondere - più che a illuminare - le reali coordinate del pensiero di un autore. Al pericolo di ridurre - se non altro per ragioni di spazio - il pensiero in ingannevoli pillole semplificatrici se ne deve aggiungere un altro, che rende ancor più arduo il compito dello storico delle idee: scrivere che Clausewitz ha detto questo o quest'altro di attuale equivale a dire poco o niente. A parte il ben noto pericolo di arbitrarietà che si corre espungendo brutalmente le citazioni dal testo senza tener conto di tutto il contorno che dà loro il significato autentico, ciò che importa è stabilire, anzitutto, l'eventuale evoluzione o involuzione del pensiero di un autore, il suo rapporto con il pensiero (non solo militare) coevo e con gli autori precedenti , le interpretazioni che ne sono state date nel prosieguo del secolo XIX e del secolo XX. Ottimo metodo: ma così facendo inevitabilmente gli spazi si restringono, e non c'è posto per tutti. Parlare - poco - di tutti, o parlare in modo un pò più esauriente solo di coloro che per qualche ragione sembrano meritevoli? La risposta non pare dubbia, anche se scegliendo la secondo soluzione si forniscono ottime armi agli immancabili critici preconcetti. Lo aveva già previsto Polibio scrivendo: non mi farà memvigli a se chi nacque in essa repubblica troverà incompiuto il mio lavoro, perché tacqui alcune particolarità. Perfettamente istruiti negli affari del loro paese, s'occuperanno più a notare quanto omisi che ad approvare quello ch'io abbia detto; e non penseranno c he lo scrittore trasvolasse perché le cose gli parvero di lieve momento, ma diran che le neglesse per ignoranza. Facendo dunque supporre che ciò che fu esposto sia mediocre o superfluo, e al contrario presentando come circo stanze indispensabili le omesse, si proclameranno assai meglio istrutti che lo storico. Eppure l'equità vorrebbe che si valuta~se ro gli storici non dagli omessi, ma dai fatti ri feriti. Se vi si trova allegazione falsa, è certo che peccarono per ignoran:r.a; se qnanto dicono è riconosciuto vero, perché
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non ammettere che di voglia negligono altri fatti? Ciò sia detto per coloro che giudicano un libro con più critica che giustizia.38
Sarebbe impossibile evitare quanto teme Polibio: confermiamo perciò il nostro impegno a citare e studiare tutto ciò che ci sembra abbia maggior rilievo, anche se non ci fa comodo: per il resto, dovrebbe entrare nella communis opinio che lavori di «storia delle idee» non sono mai da considerare come acquisizioni definitive e assolute e sono sempre suscettibili di approfondimenti, verifiche e aggiunte. Le «storie delle idee» hanno anche un altro punto debole: si prestano a facili e spesso non fondate accuse di esaurirsi in «riassunti» o anche in «sintesi» - incolori, asettiche, non sempre centrate e fedeli - di dottrine, documenti e istruzioni degli Stati Maggiori, di 1ibri e articoli di vari autori,(nelle sedi più diverse e non solo sulle più note riviste militari). Se così fosse, una «storia delle idee» sarebbe solo una bibliografia più o meno ricca, un inventario alla portata di chiunque abbia vog1ia e tempo di raccogliere, leggere e scrivere. La qualità di un siffatto tipo di storia va invece ricercata: a) nena già indicata capacità di scelta - con criteri il meno possibile soggettivi, peraltro difficili da definire e da mantenere - del materiale da costruzione (sempre troppo e mai troppo poco); b) nena capacità di classificazione. analisi e confronto delle fonti prescelte, da condurre su vari piani: rispetto alle fonti precedenti, rispetto alle fonti coeve, rispetto alle fonti «nemiche» contrapposte, rispetto alle fonti europee o extra-europee ... e, infine, rispetto agli idola, ai problemi traenti politico-militari del tempo, e rispetto agli avvenimenti. Questi ultimi sono una griglia di riferimento preliminare per «capire» e per individuare dene chiavi di lettura, dunque non qualcosa di nettamente distinto dalla «storia delle idee». Con tutti questi passaggi, la storia delle idee come nessun altro tipo di storia è costretta a procedere lungo un percorso di ricerca estremamente complesso, accidentato, gravido di insidie e dai risultati incerti . Se ricostruire in modo attendibile e solo con ]e carte, azioni, reazioni, sentimenti e timori è sempre impresa ardua, ancor più arduo è individuare ciò che di tali azioni sta a monte e ricercare una sintesi unitaria tra pensiero e avvenimenti. Se ricostruire dei rapporti tra organismi e delle forme istituzionali richiede molte conoscenze, ancor di più ne richiede individuarne con attendibilità la filosofia, i motivi traenti. A questo punto, è necessaria un'altra precisazione. Non intendiamo
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Cit. in C. Cantù, Sulla guerra, Torino, Pomba 1846, P- 35.
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limitarci a quella che Benedetto Croce chiama «storia delle istituzioni», riconoscendole un certo grado di autonomia e libertà rispetto a pregiudizi e passioni di carattere politico e religioso. Libertà che egli ritiene più che altro apparente, perché «è anch'essa piuttosto astensione dai problemi coi quali bisognerebbe a gran fatica conseguire per quella parte la vera libertà».39 Croce mette in rilievo la necessità, ma anche la difficoltà, di ricercare una sintesi storica unitaria tra storia delle istituzioni e storia degli avvenimenti. Questo perché l'azione storica in tanto è azione in quanto produce qualcosa di va.lore universale, prendente il suo posto nell'universo, costituente un anello dello svolgimento, e l'istituzione, riportata dall'astratto al concreto, non è altro che quest'azione individuale stessa col suo intrinseco valore universale. Una mera storia delle istituzioni è, dunque, il correlativo di una mera cronaca degli avvenimenti: la prima raggruppando in classi gli avvenimenti, che l'altra dispone per serie estrinseca o cronologica; e non si otterrà mai l'unità accodando l'una storia all'altra come prima e seconda parte, o alternando l'una con l'altra come capitolo con capitolo, e magari come paragrafo con paragrafo in uno stesso capitolo.40
Se prese alla lettera, queste parole di Croce delineano per lo storico militare un obiettivo ideale quasi impossibile da raggiungere in pratica. La storia del pensiero strategico è qualcosa che va al di là della storia del1e istituzioni oltre che - naturalmente - della storia degli avvenimenti. È appena il caso di ricordare ancora che la strategia - cosl come la logistica - deve da sempre tenere conto di fattori e impulsi non strettamente militari, quindi per così dire extra-istituzionali. La sua storia si muove anche al di fuori dell'istituzione militare, che a sua volta non è che una componente, una costellazione importante dell'universo militare. Vasto, multiforme e di difficile individuazione è il campo di interesse del pensiero militare, e si potrebbe dire che le vie della strategia sono infinite. Per sfuggire ai tanti trabocchetti - o almeno ridurne l'incidenza sul cammino dello studioso - non vi è che un rimedio: ricorrere a tutti gli strumenti, a tutte le risorse della storia comparata. Non vogliamo qui indulgere a trattazioni teoriche sulla sua applicabilità e sulla relativa metodica,41 ma tra le tante suggestioni utili alla nostra ricerca che questo tipo
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B. Croce, Storia della storiografia italiana nel secolo XIX, Bari, Laterza 1921, p. 26. lvi, p. 43. Cfr. AA.VV., La storia comparata ... (cit.).
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di storia fornisce, ci sembra che alle Istituzioni militari, in quanto organismi destinati a reggere il confronto prima di tutto con il nemico, possano essere applicate le stesse leggi di comparazione che Oswald Spengler indica per il concetto - base di civiltà nella sua «mo1fologia storica comparata». Così come il pensiero militare o strategico non è interessato agli eventi in sé, ma al loro significato, a ciò che sta loro dietro, Spengler non è interessato ai «fatti tangibili della Storia». Il suo problema non è - rankianamente - quello di sapere «come sono andate veramente le cose». Ad assolvere questo compito è deputata una sorta di disciplina storica ausiliaria o - per essere ancora più precisi - la Scienza storica vera e propria. Per suo conto Spengler, morfologo, va in cerca del significato sotteso agli eventi. Il suo compito non è quello di ordinarli in una serie causale, il che equivarrebbe a un «capitolo di larvata scienza naturale», bensì, quello di decifrarli. Infatti «la storia visibile è espressione, è segno».42
Segno di che cosa? Sempre di mutamenti delJ'assetto preesistente, che preludono ad altri. Ma i mutamenti possono consistere in evoluzioni, rivoluzioni, involuzioni: che significato, allora, va attribuito a «rivoluzione»? Domanda preliminare non oziosa, visto che il pensiero militare e strategico è pieno di vere o supposte «rivoluzioni». Rivoluzione è rottura netta, e senza ritorno, rispetto al passato. Già questa definizione fa pensare che, in fondo, le rivoluzioni nel campo puramente strategico sono poche. Fino al 1914 il modello prevalente nell'esercito tedesco è la battaglia di sterminio di Canne e ovunque ci si ispira alla «guerra di movimento» di stampo napoleonico, anzi federiciano; quest'ultima viene ripresa con maggior vigore dal 1919 in poi dopo la parentesi della trincea e attuata nel 1939-1941 dai corazzati tedeschi. Ma la battaglia di El Alamein subito dopo (I 942), o l'intera seconda guerra mondiale, non sono che un ritorno inaspettato a battaglie o guerre di logoramento, nonostante l'aereo e il carro armato ... E oggi, dopo la scomparsa dei due blocchi e il diminuito ruolo delle armi di distruzione di ma'>sa, non si parla forse di «ritorno all'antico» della politica e quindi della strategia? Non è forse diventato attuale Sun Zu? Le rivoluzioni in campo strategico diventano ancor meno numerose, se ad esse proviamo ad applicare i criteri introdotti da Bernard Cohen per identificare le rivoluzioni in campo scientifico.43 Secondo Cohen, una rivoluzione è tale quando ha attraversato tre fasi: della mente (quando 42 43
1986.
D. Conte, La morfologia storica comparata di Oswald Spengler (ivi, p. 7). Cfr. M. Pera, Gira la ruota delle Rivoluzioni, «Corriere della Sera» del 12 aprile
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una nuova idea è concepita), della carta (quando è scritta e divulgata) e pubblica (quando è accettata dalla comunità dei competenti). In particolare c'è rivoluzione solo quando i protagonisti lo testimoniano, le loro idee sono diventate influenti, i giudizi degli storici passati concordano, e l'opinione degli scienziati attuali è convergente (evidentemente, le opinioni si formano e rafforzano - notiamo noi - non in vacuo ma in base a ben precisi dati di fatto e rapporti causa-effetto). Così stando le cose, francamente non sappiamo dire quale teoria strategica e/o quale parte del pensiero militare garantisca il possesso di tutti i requisiti richiesti da Cohen per poter essere definita una rivoluzione. La cautela è d'obbligo, e impone di evitare il più possibile etichettature definitive come giudizi manichei, non sfumati, sul tipo di quelli che taluni adoratori di Mahan, Douhet o Clausewitz tributano ai lori idoli, invocando scomuniche e anatemi contro chi non è d'accordo o chi non è sempre d'accordo: «Non creder che una cosa sia soltanto buona - Diritto non è diritto e storto non è storto - Se per qualcuno un valore è assoluto - Chiedigli sottovoce: perché? - La verità d'oggi può già mentir domani (... )Ricercale cause, collega e risolvi, osa guardare dietro le parole - se uno dice: «Ciò è buono (o cattivo)» - Chiedigli sottovoce: per chi?» (Motto che precede le memorie del generale tedesco Von Paulus). Che dire, poi, dell'uso indebito di categorie (come buono/cattivo) applicate a fatti che, di per sé, non sono né l'uno, né l'altro? Per evitare pericoli di questo genere bisogna uscire dal vago, e ancorare le teorie a precise realtà: «Senza dubbio, il discorso strategico tollera tutte le affermazioni ... e i loro contrari, se li si proietta in un avvenire indeterminato, molto estensibile affinché la loro probabilità di realizzazione pratica non sia nulla. Ma una delle condizioni di validità di una teoria è che essa fissi esplicitamente il luogo e il momento nei quali deve essere applicata, il suo campo spazio-temporale di validità e di utilità; quest'ultimo determina, a sua volta, le condizioni di validità de1la critica».44 Orientamenti semplici che rasentano l'ovvietà: ma solo in apparenza. Come tutte le cose semplici, sono difficili da realizzare. Mantenersi ad essi fedeli non è condizione sufficiente, ma almeno necessaria per dare a ognuno il suo: è questo il nostro massimo obiettivo, al quale si accompagna il proposito di evitare il più possibile condanne e assoluzioni (e in pàrticolar modo le condanne). Non solo per un omaggio d'obbligo alla risaputa - ma non per questo meno aurea - regola di Benedetto Spi-
44 L. Poirier, Essais de stratégie théorique, Paris, Les Cahiers de la Fondation pour le Études de Défense Nationale - n. 3/1982, p. 20.
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noza sulla necessità di sforzarsi di comprendere le azioni umane, anziché deriderle o compiangerle; ma perché solo così facendo si può dare un contributo di qualche valore, di qualche novità per l'auspicabile formazione di una memoria storica militare italiana fatta di idee e non di semplici eventi, di sentimenti, entusiasmi passioni e speranze e non di semplici decisioni, di analisi e non di condanne. In questi termini, la riscoperta di una memoria storica ben riconosciuta e ricostruita ha un ruolo estremamente importante per ridare morale, prestigio, consenso e efficienza a11a compagine militare italiana. Senza una chiara coscienza del proprio passato del quale essere fieri, senza una tradizione e dei valori, delle vittorie, nessuna Nazione e nessun esercito possono essere tali. Nella complessa realtà militare di oggi, conoscere i problemi significa prima di tutto prendere coscienza delle profonde radici storiche che in passato hanno impedito o consigliato determinate soluzioni, e quindi acquisire una reale capacità di valutare il nuovo e Je sue ricadute, senza preconcetti ma anche senza facili ottimismi. A chi giudichi troppo ambiziosa questa motivazione morale e nazionale o comunque la ritenga estranea a un sano e asettico operare scientifico (con tutta l'ambiguità e ambivalenza di quest'ultimo termine), basti ricordare che, in ogni tempo, le categorie morali e quelli che potremmo chiamare imperativi de11'epoca, sono stati alla base di qualsiasi creazione letteraria e artistica. Non si capisce perché non lo debbano essere oggi, che dalle più diverse parti si invoca un recupero dei valori di unità nazionale, di disinteressato servizio della collettività, di vera libertà insomma per tutti. Se questo non bastasse, solo una storia del pensiero militare può elevare la guerra al di sopra dell'inumano massacro, renderla manifestazione dello spirito umano e dare o ridare agli strumenti, agli uomini che hanno il dovere di combatterla se 1a Patria 1o chiede, i1 senso della loro nobile missione, ben presente subito dopo il 1815, quando i1 luogotenente generale francese conte Du Pont scriveva (nell'Introduzione al suo poema in dieci canti sull'arte della guerra tradotto in Italia nel 1846): «Al di sopra della parte artificiale delJa guerra s'alza Ja parte morale e filosofica. Gli eserciti sono potentissimi, e la forma che forma le leggi è in loro mani. Richiedesi dunque che saggi principii li rischiarino, temprandone la energia, e ilJustrandone i loro trionfi. Lo sviluppo di questi principii sarà una sorgente di bellezza, allorché siano tracciati convenevolmente, imperciocché nulla attalenta di più che l'impero dell'anima, quando governa l'irresistibile possa del coraggio». Ferruccio Botti Roma, marzo 1995
PARTE PRIMA
DA JOMINI E L'ARCIDUCA CARLO A CLAUSEWITZ: LE FONDAMENTA EUROPEE DEL PENSIERO STRATEGICO ITALIANO
CAPITOLO r
ARTE DELLA GUERRA E STRATEGIA DA FEDERICO II A NAPOLEONE: È STATA UNA RIVOLUZIONE?
Premessa
Una sia pur breve indagine lessicale e filologica è presupposto indispensabile per mettere finalmente qualche punto fermo sul significato di parole tuttora di incerto significato ma continuamente ricorrenti - da sempre - nel linguaggio militare, come arte militare, arte della guerra, scienza/e militare/i, strategia, politica militare, tattica ecc.. Per altra via, questa è un'altra dimostrazione della necessità di affrontare il problema linguistico contestualmente a una trattazione teorica, o meglio prima. Come giustamente aveva fatto notare lo Sponzilli, «per tanti particolari impressi da una mano eterna, ed imparziale nella natura delle cose filologiche, meglio le storiche verità si manifestano all'uomo che per la penna degli storici non sempre scrupolosa ministra del vero>>. 1 Una prima analisi sui significati dei termini-chiave rende possibile stabilire analogie, convergenze e divergenze su argomenti fondamentali da parte dei principali autori italiani e stranieri, ed è un primario strumento di quella metodica di storia comparata, che abbiamo indicato come indispensabile per lavori di «storie delle idee». Nella fattispecie, si potranno avere le prime indicazioni sui differenti motivi ispiratori dei principali autori stranieri, oltre che sul grado effettivo di dipendenza - o sulla non-dipendenza - di ciascun autore italiano da quest'ultimi. In proposito, va tenuto sempre presente un detto del Cesarotti: «La giurisdizione sopra la lingua scritta appartiene indivisa a tre facoltà riunite, la filosofia, l'erudizione e il gusto». Ammessa la legittimità e l'opportunità dell'analisi che proponiamo, perché- nell'era nucleare -incominciare così da lontano? Si potrebbe ri-
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Sponzilli, Della lingua militare d'Italia, Napoli, Reale Tip. Militare 1846, Parte IV, p. XVII.
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spondere con le parole di Musil: «il cammino della storia non è quello di una palla di biliardo, che, una volta partita, segue una certa traiettoria_ Esso somiglia al cammino di una nuvola, a quello che va bighellonando per le strade, e qui è sviato da un'ombra, là da uq gruppo di persone o dallo spettacolo di una piazza barocca, e infine giunge in un luogo che non conosceva e dove non desiderava andare»_ Se è cosi i fatti storici non si evolvono: semplicemente accadono, dunque hanno anche licenza di ripetersi, di tornare all'antico, specie se si tratta di cose degli uomini e degli Stati. L'unica cosa sicura è che nessuno li può prevedere: non è forse questo che sta avvenendo oggi? e come può una branca come quella militare, che in senso lato attiene agli uomini, alle istituzioni, agli Stati, alle loro relazioni e ai loro conflitti, ignorare tutto ciò? Una siffatta risposta potrebbe essere ritenuta troppo generica, e volendo dire tutto, finirebbe con il non dire nulla. Ebbene: rispondiamo brevemente che Benedetto Croce ha definito il secolo XIX «il secolo della storia». Dati i legami tra strategia e storia, esso non può essere che il secolo della strategia_ È indubbio che, almeno fino al 1945 e all'era nucleare, la strategia ha camminato sul1e orme di Napoleone e della sua guerra. Ci muoviamo ancora sulle tracce dei primi interpreti di Napoleone, e una volta attenuata la prospettiva della «mutua distruzione assicurata», la guerra e l'impiego de1la forza militare che le è connesso riprendono i moduli di sempre, che - va detto subito - non sempre e non necessariamente hanno sullo sfondo la guerra tendenzialmente assoluta di Napoleone, la quale è solo uno dei modelli - e il modello più affascinante - non solo per i militari ma anche per il politici.
SEZIONE I-Arte e scienza della guerra (o militare) a fine secolo XVIII Epistemologia del fenomeno guerra_· guerra, strategia ed esperienza storica
Qual è il concetto di guerra negli ultimi anni del secolo XVIII, sui quali si proietta l'ombra di Napoleone? fino a che punto è accettata, per il futuro, la guerra di masse e risolutiva di tipo napoleonico? È a questa domanda che bisogna rispondere, sia in generale, sia prendendo in esame le varie definizioni di arte del1a guerra e della sua ripartizione. Pare evidente che strategia, tattica ecc. variano a seconda del tipo di guerra che si intende condurre. Occorre individuarne e definirne gli esatti significati, perché, come osserva Clausewitz,
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una condizione essenzialissima per dare carattere realistico a una teoria sta nel distinguerne le branche; giacché è chiaro che, se ogni arte della guerra dovesse cominciare ad occuparsi dell'organizzazione delle forze e determinare queste per la condotta della guerra, la sua teoria non sarebbe applicata con negli scarsi casi in cui le forze sono costituite secondo tali prescrizioni.2
Raimondo Montecuccoli - che con il Machiavelli è l'unico condottiero e studioso della guerra italiana ad avere vasta influenza sul pensiero militare europeo del Sec. XIX - scrive nel sec. XVIl che «la guerra è un'azione di eserciti offendentisi in ogni guisa, il cui fine è la vittoria. La guerra è interna o esterna; offensiva e difensiva; marittima o terrestre; rispetto alle persone, al modo e al luogo diverso».3 Un concetto di guerra tendenzialmente assoluta insomma, che non soffre di remore umanitarie, e in questo - purtroppo - è estremamente moderno, anche quando intende coinvolgere le popolazioni civili. Trattando della guerra offensiva, il Montecuccoli non fa che parafrasare le guerre totali del XX secolo: per aver ragione del nemico occorre «tagliargli i viveri; levargli i magazzini o di sorpresa o di forza; fronteggiarlo di presso, e stringerlo, porsi fra lui e i luoghi della sua comunicazione; occupare con presidi i luoghi del contorno; circondarlo con fortificazioni; distruggerlo parte a parte col battergli le partite, i foraggieri, i convogli; abbruciargli il campo e le munizioni; gettargli fiumi pestiferi; distruggergli le campagne all'intorno, le ville, i mulini; corromperle di morbi contagiosi; seminar dissensioni tra la sua gente». 4 Guerra tra eserciti sì, ma ricorrendo senza pietà a tutto ciò che può fiaccare la resistenza deI1'esercito nemico, ivi compresa la distruzione, l'azione contro obiettivi non strettamente militari: e non manca la guerra chimica e batteriologica .... 5 Né è estraneo al Montecuccoli - come annota il generale Luigi Cadoma. che ne ha curato nel 1922 un'edizione di pagine scelte - il concetto della guerra rapida e risolutiva e della conseguente ricerca della battaglia decisiva.6 Guerra con precisi vincoli o limiti di carattere umanitario, morale, politico e di convenienza, oppure guerra offensiva, totale, risolutiva, tendenzialmente insofferente di qualsivoglia condizionamento, il cui unico 2
K. Von Clausewitz, Della guerra, Milano, Mondadori 1970, Voi. I, p. 96. Aforismi dell'arte bellica, Milano, Fabbri Ed. 1973, p. 7. 4 ivi, p. 47. 5 U. Foscolo, Pagine militari (a cura di A. Tosti), Roma, Ed. Roma 1935, pp. 56-61. 6 L. Cadoma, Le più belle pagine militari di Raimondo Montecuccoli, Milano, Treves.1922, p. IV. 3
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fine è la vittoria? Questa è la prima alternativa da affrontare, rispetto alla quale automaticamente le varie teorie strategiche possono ricevere una prima - e diversa - caratterizzazione. La seconda alternativa è legata alla prima, e riguarda il modo di condurre la guerra: in base a principi o regole7 più o meno sistematiche, oppure senza seguire altro metodo, che non sia quello di far fronte alle contingenze nel modo migliore? Verrebbe spontaneo affermare che quest'ultimo è il caso tipico delle guerre tendenzialmente senza limiti, ma non è così (o meglio, non è sempre così). Nel senso che finirla bene, e definitivamente (quindi senza molte perdite) con il nemico, è sempre in ogni caso tendenza naturale di ogni Capo militare, in quanto tale; al contrario, non necessariamente l'intento di condurre una guerra breve e risolutiva corrisponde a inosservanza di principi e regole, o almeno di princìpi. Ci troviamo ora di fronte a un altro interrogativo, interrogativo secolare che bisogna pur sciogliere, se non altro perché gli autori stranieri e italiani che ora esaminiamo, fanno a gara nell'uso improprio (o alternativo, congiunto e occasionale) di termini, che hanno significati ben diversi anche all'inizio del secolo XIX: si può parlare di arte, o di scienza militare o della guerra? Una volta chiarito il significato dei due termini, si entra in possesso di un'altra chiave per identificare e classificare il pensiero di un autore. Ebbene, se ci si rifà a] significato di arte, non vi sono dubbi che quella militare è un'arte. Citiamo la fonte coeva più autorevole, l'Enciclopedia Francese (1754). Alla voce Arte, vi si legge:
7 Nel campo della leoria stralegica, la differenza tra principio e regola è fondamentale, perché è il primo strumento per caratterizzare meglio ciascuna teoria. Principio è anzitutto (Dizionario Garzanti) «ciò che rnppresenta il fondamenlo di un ragionamenlo, di una dottrina, di una scienza», oppure «precetto, insegnamento» e ancora «norma generale che sta alla base di una convinzione, di un comportamento». Regola è «l'ordine costante che si riscontra nello svolgimento di una certa serie di fatti » oppure «qualsiasi forma che prescriva ciò che si deve fare in un caso determinato o in una particolare attività; norma». Di conseguenza, una teoria strategica può assumere ambedue i significati di teoria. Se ammette dei principi o addirittura delle regole, essa è «una formulazione sistemaLica di principi filosofici o scientifici o artistici o culturali». Se invece non li ammelte, essa è solo «un insieme di norme e precetti che servono di guida alla pratica». Quando non li ammette nemmeno come guida o riferimento per l'azione , essa non va al di là di «modo di pensare, idea, concezione». Va infine ricordato che una do/Irina strategica tende ad assumere un significato più estensivo da quello generale che le attribuisce lo stesso Dizionario Garzanti. Oltre ad essere «insieme dei precetti e delle teorie in cui consiste un movimento scientifico, filosofico, politico, religioso etc.» [quindi, anche militare N.d.a.] essa ne è anche l'applicazione a una determinata situazione politico-militare in un determinato periodo, in modo da ricavarne concreti criteri e orientamenti - ben codificati - per la preparazione e l'impiego delle forze, vincolanti fino a diver.;o avviso e fino a quando non sono superati dalla s ituazione.
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«se l'oggetto [dell'arte - N.d.a.] s'execute (cioè: assume forma concreta, si realizza, esprime e configura un'azione e non solo un pensiero), l'insieme e la disposizione tecnica delle regole secondo le quali assume forma concreta si chiama arte. Se l'oggetto è contemplato solamente sotto differenti aspetti, la raccolta e la disposizione tecnica relativa a questo oggetto si chiama scienza; perciò la metafisica è una scienza e la morale un'arte». Quindi: secondo la concezione illuministica l'arte ha forme concrete, esprime azione, deriva da un'azione condotta secondo determinate regole; la scienza esprime invece solo pensiero. Su questa scia si muove ancora l'attuale vocabolario Zingarelli, che definisce l'arte «attività umana regolata da accorgimenti tecnici e regolata sullo studio e sull'esperienza» mentre la scienza può assumere due significati ben distinti: uno più generale e più raro (conoscenza, cognizione) e l'altro che identifica un sistema, una determinata sfera del sapere con proprie leggi: «complesso dei risultati dell'attività speculativa volta alla conoscenza di cause, leggi, effetti intorno a un determinato ordine di fenomeni, e basata sul metodo, lo studio e l'esperienza». Il duplice modo di intendere il vocabolo scienza è della massima importanza ai fini della nostra indagine, perché risulta spesso soggetto anche nello stesso autore - a osciJlazioni sul suo significato. Oscillazioni che mettono subito di fronte a un fenomeno ben chiaro già nel secolo XIX, e tuttora frequente: l'evoluzione del linguaggio militare e strategico non solo con il ricorso a termini nuovi, ma svuotando termini antichi (esempio classico quello di strategia, e ancor più di logistica) del loro ben diverso significato primigenio. Non c'è dubbio che, da sempre, tutto ciò che attiene alla guerra e al modo di fare la guerra è finalizzato aJl'azione, e ha sempre l'azione come oggetto. Ciò vale anche quando si tratta di esercitare una minaccia, una pressione potenziale, per indurre l'avversàrio alla non-azione: senza un'effettiva capacità d'azione, la dissuasione non ha senso. Per questo noi assumiamo ora come metro di riferimento ·p er giudicare le singole teorie, quanto scriveva nel I 950 il comandante Alberini: che il fare la guerra costituisca opera d'arte è cosa generalmente ammessa [...] Scienza è il fatto divenuto pensiero, ossia il sapere. Scopo della scienza è solo il conoscere e non l'insegnare a fare. La scienza descrive i fenomeni rilevati dall'osservazione e dall'esperienza, ricerca i rapporti di causa e di effetto attraverso l'uniformità dei fatti, formula delle leggi. Nella guerra tutto è incerto e a1eatorio. In essa agiscono largamente forze ed effetti morali, cioè imponderabili [... ]. Essa opera su un elemento vivente e reagente, la
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reazione dell'avversario è indeterminata e imprevedibile[... ]. Un evento di guerra non si ripete mai nelle identiche condizioni. Come si fa a parlare di una scienza della guerra? Come si dovrebbe insegnare a vincere? L'arte invece non ba lo scopo di proporre ipotesi, di costruire teorie, di dettare leggi entro cui i fatti debbono muoversi docili e obbedienti; il suo scopo è non sapere, mafare, il suo regno è l'immediatezza e in essa opera e crea. L'arte è intuizione (B. Croce) e l'arte della guerra è appunto intuizione. Arte dunque e non scienza. Aggiungiamo anche: arte e non tecnica. La tecnica è costituita da un complesso di cognizioni disposte ed indirizzate ad uso dell'azione pratica e cioè del fare; ma non è l'arte e con questa non va confusa. Anzi per comprendere esattamente il concetto di arte, bisogna depurarlo completamente del pensiero di una qualsiasi tecnica particolare. È bene che il poeta conosca la metrica e il contrappunto, che però non creano in alcun modo la poesia e la musica. 8 Dalla constatazione che la guerra, in quanto oggetto artistico, è un fatto personale, l'AJberini arriva a sostenere che «i mezzi della guerra si perfezionano (perfettibilità tecnica); l'arte della guerra varia, ma non si può dire che progredisce. Parlare di evoluzione dell'arte della guerra, come si fa spesso, è un errore, come sarebbe errore parlare della evoluzione della poesia da Dante a Ungaretti». Il concetto di evoluzione, per sua natura, è ammissibile solo in un sistema, nel quale dal punto A si possa arrivare, con cammino certo, fino a B, e da B a C: ma il determinismo storico - e quello ideologico che ne consegue - non è forse stato sconfitto negli ultimi anni? Preferiamo lasciare senza risposta questo interrogativo, che ci riporta a un'altra discriminante da tenere ben presente: lo «storicismo» e/o l'«antistoricismo» che affiorano nelle singole teorie, in misura diversa e talvolta contraddittoria. Occorre collocare ciascuna teoria tra due estremi. Uno è l'approccio scientifico storicistico, basato cioè sul rigoroso accertamento e sulla catalogazione dei fatti, dai quali attraverso una sorta di studio statistico si pretende poi di ricavare delle leggi, ritenute sempre valide anche al mutare degli altri parametri, così come in campo scientifico si ricavano oggi leggi dallo studio sperimentale dei fenomeni. All'altro estremo, invece, il rifiuto dell'esperienza storica o quanto meno la riduzione della sua concreta utilità e del suo peso ai minimi termini. A sua volta, quest'ottica 8
R. Alberini, Riflessioni sulla guerra come arte, «Rivista Marittima» marzo 1950,
pp. 535-550.
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riduttiva può dipendere da due cause: la sopravvalutazione degli effetti dell'introduzione di un nuovo materiale o di un nuovo procedimento strategico (con un atteggiamento che è ottimistico almeno quanto quello che pretende di ricavare solo dalla storia, cioè dal passato, norme e regole) o, al contrario, un atteggiamento pessimistico che deriva dal riconoscimento dell'impossibilità di stabilire - in sede di analisi storica - rapporti uniformi tra elementi comparabili. Comunque sia - e questo è un altro punto fermo - l'arte della guerra deve sempre fare i conti con la storia: per respingerla o recepirla non importa, ma sempre ponendosi rispetto ad essa, senza mai poterla ignorare. AJ:te della guerra o arte militare? Il secondo termine ci sembra più pregnante, ma nel periodo considerato la vediamo usata in ambedue le forme, sia pure con una certa preferenza per arte della gue rra: il che è logico, perché il militare non avrebbe senso senza la sua calamita e ragion d'essere, la guerra ... Può un medico avere ragion d'essere senza malattie da combattere? un pompiere, senza incendi da spegnere? «Riciclare» la professione militare non può avere, non ha mai avuto e non ha senso ... Piuttosto, è bene richiamare subito l'attenzione su due importanti limiti che l'arte della guerra - e la strategia - hanno nel periodo. Il primo è che arte della guerra o arte militare si riferisce comunemente solo alla guerra terrestre: l'arte militare marittima, in quanto termine attinente alla teoria generale della guerra sul mare, tarda a prendere forma molto più di quella terrestre. Esiste solo il termine tattica navale, e H Vocabolario Universale della lingua italiana del Tramater di Napoli (1845)9 è- a quanto ci risulta - la unica opera italiana della prima metà del secolo XIX a parlare di arte della guerra navale, identificandola con la stessa tattica navale (così come - fino a qualche decennio prima - era avvenuto per l'arte militare terrestre). Secondo: nel periodo in esame - e non è poco - nascono, o meglio acquistano nuovi significati e spiccato rilievo nella teoria della guerra terrestre, i termini strategia e logistica, 10 anch'essi esclusivamente riferiti alla guerra terreste. Ultima particolarità: la strategia - per tutti - ha un significato esclusivamente militare, e anzi operativo. È sconosciuto l'attuale concetto di strategia globale o grand strategy, cioè del coagulo, dell'impiego coordinato di vari di fattori di potenza - a cominciare da quello economico e ideologico - dei quali fa parte anche quello militare. 9 Cfr. le voci tattica e tattica navale in Vocabolario universale della lingua italiana - Edizione eseguita su quella del Tramater di Napoli, Mantova, F.11 i Negretti 1845. 10 Sulla nascita e l'evoluzione del concetto di logistica Cfr. F. Botti, La logistica dell'Esercito Italiano. Roma. SME - Uf. Storico, 1991, Introduzione aJ Voi. I.
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Va detto subito, però, che un concetto di strategia dai confini così ristretti non solo non ignora mai, ma sempre presuppone - a monte - l'opera della politica. Non è stato solo Clausewitz a scoprire il rapporto tra politica e strategia e la dipendenza di quest'ultima dalla politica. Non è del tutto vero - e lo dimostreremo - che «il fut le premier à exprimer la subordination totale (sic) de l'action militaire à la politique» (Kroener). 11 È questa, una delle tante acquisizioni dell'analisi storica comparata. Abbiamo detto che la strategia dell'epoca concerne l'impiego delle forze militari: dunque essa riguarda esclusivamente lo scontro tra eserciti contrapposti e le considerazioni che su di essa vengono fatte valgono in genere - per questo solo caso, anche se non necessariamente - e non per tutti - il suo fine è la vittoria e/o la debellatio del nemico. Eppure ed è un'evidente contraddizione - la guerra «nazionale» («di popolo» o di «partigiani» o «popolare» o «per bande», da non confondere con la levée en masse e le guerre condotte dai grandi eserciti nazionali che la leva stessa rende possibili e alimenta) - riceve un ragguardevole spazio nell'epoca, e non solo da parte degli autori «non militari» o non legittimisti e conservatori. Esistono certamente, nel periodo esaminato, due ben distinti tipi di guerra: quella tra Stati e tra eserciti regolari, e quella tra un esercito invasore e un popolo intero, che ricorrendo - sia pure con consistenti aiuti esterni - a tutti i mezzi e senza vincoli o freni di alcun genere, intende respingerlo. L'esperienza della guerrilla spagnola (1808-1813) domina il campo: ma essa non è solo una tattica o un espediente, è una strategia alternativa. Come tale discende da un certo tipo di guerra, dove si fa di necessità virtù: non potendo sconfiggere il nemico con battaglie campali, lo si sconfigge riccorrendo a una strategia che è l'esatto contrario di quella normalmente applicata dal nemico, alla quale corrispondono naturalmente anche i suoi ordinamenti e la sua logistica. A coloro che, anche oggi, non sembrano riconoscere alla guerra partigiana (guerre de partisans) la veste di opzione strategica, chiediamo: come mai la Grande Acmée è stata sconfitta in Spagna? solamente grazie all'intervento inglese? quale altra via «regolare» aveva la Spagna, per sconfiggere Napoleone? Schematizzando al massimo, sullo sfondo della speculazione teorica degli scrittori militari europei della prima metà del sec. XIX vi sono due tipi di guerra e di strategia. TI primo è quello napoleonico e in sostanza quello classico, che potremmo anche chiamare guerra o strategia degli e-
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A. Corvisier, Dictionnaire tlart et d'histoire militaires. Paris. PUF 1988, p. 186.
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serciti, dove valgono le concentrazioni di forze, quindi il prodotto della massa per la velocità, e acquista grande rilievo la battaglia. Nel secondo tipo, invece, guerra e strategia possono essere definite antinapoleoniche, indirette 12 o di popolo, e sono caratterizzate - al contrario del caso precedente - da dispersione e capi11arità degli sforzi, dall'impossibilità o scarsa frequenza di battaglie campali, da esigenze di stretto e integrale controllo del territorio e dall'incrudelimento della guerra. Quest'ultima è fra uomini più che fra soldati, e in essa il soldato stesso non può più essere soggetto allo stesso tipo di disciplina delle guerre «regolari», sostituita nei guerriglieri da fattori morali e dal prestigio del Capo. La guerra di popolo, con queste forme, non diventa anti-strategia (oppure non-strategia o nuova strategia): ma, semplicemente, un modo di fare la guerra diverso e poco consueto, legato a circostanze speciali che lo giustificano. Così l'arte della guerra, espressione letteraria antica e latina (Vegezio, Quintiliano), proprio nella Restaurazione, (periodo apparentemente di regresso), si scontra con nuove forme di guerra, con nuove realtà derivanti dalla più recente esperienza storica. Per questo mostra la corda, mette in evidenza le sue ancor vistose inadempienze e soprattutto gli spazi non ancora coperti, le ragioni insomma che sono alla base del suo rinnovamento e che tutte vanno ricondotte alla «digestione» dell'esperienza napoleonica, in un'epoca dove peraltro l'esprit des temps non le è molto favorevole. Per cogliere bene tutti gli aspetti del periodo, non è dunque sufficiente parlare di arte della guerra e della sua ripartizione: bisogna pren-dere in esame, oltre che il concetto di guerra, anche quello di battaglia. È partendo dal ruolo della battaglia nell'economia generale deJla guerra che si può identificare e cla'>sificare ogni teoria. La guerra di nazioni e non più di eserciti e Gabinetti, la ricerca della debellatio dell'avversario con rapidi colpi decisivi sono l'eredità tipica di Napoleone. Dopo Napoleone, le strade da seguire sono due: o si ritiene inevitabile che le guerre future abbiano più o meno questo carattere (e tendano all'assoluto), oppure si ricercano modalità e procedimenti per evitare il ripetersi di conflitti così sanguinosi e tali da segnare la vita dei popoli, in sostanza ritornando al concetto di guerra pre-napoleonico. 12 La strategia indiretta ricorre anche a mezzi non strettamente militari e/o che prc· scindono dall'uso della forza per abbattere l'avversario, e tende a disarmarlo moralmente anziché ad abbatterlo definitivamente in sanguinosi scontri campali (che peraltro non esclude del tutto). In tale tipo di strategia, acquistano valore preminente fattori psicologici e morali.
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Riassumendo, esamineremo e classificheremo i vari autori avvalendoci dei seguenti parametri di riferimento alternativi, tutti derivanti dalla natura e dalle finalità attribuite al fenomeno guerra: a) guerra tendenzialmente assoluta avente come fine la debellatio del nemico / guerra tendenzialmente limitata negli obiettivi e nelle modalità di condotta; b) guerra soggetta a principì e quindi anche a regole / guerra che «è come un camaleonte», quindi senza principì e regole fisse; c) arte o scienza militare, e di conseguenza, preponderanza dell'arte o della scienza rispettivamente nella strategia e nella tattica; d) ruolo e spazio attribuiti alla strategia alternativa (al tempo definita guerra di popolo, popolare, per bande o nazionale); e) storicismo/antistoricismo. Su quest'ultimo punto, ci sembra singolarmente attuale quanto scriveva Benedetto Croce nel saggio Antistoricismo del 1930: «più o meno presso ogni popolo d'Europa, ne1le varie sfere della vita intellettuale e artistica, morale e politica, si nota oggi una sorta di decadenza del sentimento storico, quanto addirittura uno spiccato atteggiamento antistorico».13 L'arma atomica ha singolarmente favorito questo atteggiamento, peraltro incoraggiato anche dalla «dottrina del materiale» di derivazione USA. Ma ora che essa ha perduto almeno parte del suo peso schiacciante, la politica e la strategia si sentono in crisi: perché sono orfane della storia ... La storia non ha mai un principio e un fine: dunque nell'avvalerci di questi parametri, ci guarderemo bene dal giudicare un autore solo dalle acquisizioni chiare e definitive alle quali perviene. Come ricorda lo stesso Croce, «nella storia del pensiero non bisogna guardare soltanto ai concetti formati, ma anche alla inquietudine, alla brama, all'impulso verso un certo ordine di concetti, sia pure soltanto intravisti o imperfettamente o contraddittoriamente espressi». 14 Poiché a nessun uomo (checché ne dicano certi malaccorti e superficiali esegeti di Douhet o Mahan) è dato di essere Profeta, è proprio questa inquietudine, questa brama, questo tormento a dare la misura della capacità di ciascun autore di guardare nel futuro. Federico Il di Prussia e le guerre dinastiche del secolo XV/11: solo guerre di Gabinetto e di magazzini?
La communis imago del secolo XVIII - autorevolmente accreditata anche oggi - è quella del secolo delle guerre di Gabinetto con obiettivo 13
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B. Croce, Ultimi saggi (cit.), p. 246. ivi, p. 134.
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limitato e con perdite altrettanto limitate, perché i Sovrani badavano a non scornarsi troppo. Più che a uccidere il nemico si tendeva ad affamarlo, e più che attaccare direttamente le sue forze, si tendeva ad attaccare i suoi magazzini e le sue vie di comunicazione. Magazzini e vie di comunicazione, quindi, condizionavano i movimenti degli eserciti e in definitiva li limitavano. Di qui l'azione di rottura dei vecchi schemi esercitata da Napoleone, che con una guerra manovrata e offensiva tende a vibrare rapidi e decisivi colpi a11'avversario, senza curarsi dei magazzini e vivendo sul Paese. Visione non priva di elementi di verità: ma troppo semplificata fino ad apparire semplicistica, se non impropria, superficiale e fuorviante. Per due ragioni: primo, proprio per il loro carattere limitato e soggetto a calcoli di pura convenienza, proprio perché sono scontri tra uguali, tra monarchi che hanno molto in comune, queste guerre rimangono la massima espressione del dominio de11a politica sulla guerra; secondo, l'intero secolo XVIII è dominato - con vasti influssi anche sulla letteratura militare francese - da quella grande figura di condottiero, uomo di Stato, uomo di cultura e scrittore militare che è stato Federico II di Prussia, a sua volta altra dimostrazione dell'antica dipendenza della guerra della politica, e per questo molto citato da Clausewitz. Non possiamo evitare di ricordarlo, per la semplice ragione che funge da costante riferimento per Jomini e Clausewitz, e questo non è poco. Altro che guerra dei magazzini e dei Gabinetti! Federico II è rimasto, fino ai nostri gi1Jrni, l'esempio dell'indomabile SP.irito guerriero prussiano. Ha affrontato i suoi potenti vicini con forze infe'riori, in guerre per la vita e per la morte della sua Dinastia e del suo Stato, uscendone vincitore grazie alle doti sue e de11e truppe ai suoi ordini, che aveva saputo galvanizzare. A distanza di due secoli, il ricordo delle sue vittorie in extremis ha esercitato un forte influsso persino su Hitler. Secondo lo scrittore tedesco Eric Kuby, nel discorso (quasi premonitore e stranamente alieno da toni ottimistici) con il quale annuncia il 1° settembre 1939 l'entrata in guerra, Hitler afferma: «c'è una parola che non ho mai conosciuto: capitolazione! Ma se qualcuno obiettasse che forse stiamo andando incontro a tempi difficili, vorrei ricordargli che in passato il Re di Prussia, Sovrano di uno stato ridicolmente piccolo, affrontò una delle coalizioni militari più potenti del tempo e alla fine, dopo tre guerre, ne uscì vincitore perché possedeva il cuore ardimentoso e pieno che anche noi dobbiamo possedere in questo momento».
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La figura di Federico II rimane sullo sfondo delle ultime resistenze tedesche nella primavera 1945, alimentando le speranze residue di Hitler. Secondo Kuby, in quei giorni modello esemplare è per lui Federico II Re dei Prussiani, che soltanto la morte di Caterina la Grande salvò, nel 1762, da una disfatta irrimediabile, perché il successore della Zarina si ritirò dalla potentissima coalizione (nell'aprile 1945 i massimi dirigenti chiusi nel bunker di Berlino vedranno nella scomparsa di Roosewelt un parallelo storico del 1762). 15
L'influsso prima di tutto spirituale esercitato da Federico II sui posteri testimonia già che l'exemplum historicum si presta a dimostrare tutto, e il contrario di tutto: che la vittoria può arridere a chi ha i grossi battaglioni e i magazzini ben forniti, ma anche a chi ha nella volontà di resistere e combattere a ogni costo la principale arma. Di Federico 11 è importante sia ciò che ha fatto, sia ciò che ha scritto: evidentemente i contenuti delle sue opere militari sono il distillato delle sue esperienze. I suoi scritti più interessanti, perché finalizzati all'azione, sono le Istruzioni per i generali, delle quali esiste una traduzione dal francese in italiano, e una raccolta di opinioni e massime. 16 Ci duole non poter procedere, in questa sede, ad un esame dettagliato di Federico II teorico militare. Ba<;ti dire che, nei suoi scritti, si trovano tutte le fondamenta della guerra breve e decisiva - e quindi offensiva e tendente all'assoluto - che da allora in poi non cessa di affascinare prima di tutto la politica e che dunque - possiamo dirlo subito - non è riflesso militare della Rivoluzione Francese, o invenzione di Napoleone. Cosa non secondaria, Federico II dimostra anche una sicura, rara ed equilibrata coscienza del morale delle truppe e della logistica. Nei suoi scritti troviamo anzitutto l'importanza dell'exemplum historicum: «i principi della guerra sono sempre gli stessi, non bisogna aspettarsi cose nuove». Quindi le memorie dei grandi fatti di guerra devono servire da lezione a chi esercita la professione delle armi, perché «queste sono lezioni che un anatomista fa a degli scultori, che apprendono così con quali contrazioni i muscoli del corpo umano si muovono. Tutte le arti hanno degli esempi e dei precetti. Perché la guerra, che difende la Patria e salva i popoli da una vicina rovina, non dovrebbe averne?». È 15
E. Kuby, Il tradimento tedesco, BUR, Rizzoli 1987, pp. 131 -132. Cfr. Istruzioni del Re di Prussia per i suoi generali tradotte dal francese in italiano, Venezia, Bart. Locchi 1762, e E. De la Barre Duparq, Opinions et maximes de Fe deric:h le Grand, Parìs, Tanera 1857. 16
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importante la storia, ma anche la esperienza pratica: e nulla può sostituire il valore, il colpo d'occhio del capo nel giudicare gli uomini e il terreno, e nel decidere: «senza il coup d'oeil un ufficiale commette i più grandi errori [... ] la testa di un generale ha più influenza sul successo di una campagna, che le braccia dei suoi soldati». La ricerca della guerra breve e della battaglia decisiva: «le nostre guerre devono essere grandi, e vive, perché non ci va del nostro interesse di trar l'affare alla lunga; una guerra ostinata rallentisce insensibilmente la nostra ammirabile disciplina, e non lascia di spopolare il nostro paese e di vuotare le nostre risorse». Le battaglie decidono della sorte degli Stati: «bisogna assolutamente in tempo di guerra venire a delle azioni decisive, sia per trarsi daJl'imbarazzo della guerra, sia per mettervi il nemico, e sia ancora per terminar una querela, che può esser non finirebbe giammai». 11 principio della massa: «se volete attaccare battaglia, cercate di mantenere riunite le vostre truppe: non si saprà mai impiegarle più utilmente [... ]. I generali più sperimentati vogliono conservare tutto, coloro che sono saggi non tengono in considerazione che il punto-chiave». Sfruttamento del successo e inseguimento del nemico sconfitto «con tutto il calore possibile>>. Importanza dell'offensiva: il mezzo più sicuro per riportare la vittoria è di «marciare fieramente, ed in ordine contro l'inimico, e guadagnar sempre terreno[ ... ]. Tutta la forza delle nostre truppe consiste nell'attacco, e noi non saremmo saggi, se vi rinunceremo senza ragione». La logistica: «la mancanza di viveri è il più forte argomento nella guerra [... ]. Per costruire l'edificio. di un esercito, bisogna ricordarsi che il ventre è il fondamento [... ]. L'arte di vincere è perduta senza l'arte di sostentarsi [... ]. Un capo rischierà tutto pur di non abbandonare i suoi depositi abbondanti». Nelle parole di Federico sull'importanza della logistica vi è la chiave delle sue riforme ordinative e logistiche, riforme non meno innovatrici della sua strategia che hanno un solo scopo: rendere mobile e manovriero l'Esercito, quindi rendere mobile e manovriera prima di tutto l'artiglieria. E poiché il concetto di guerra del tempo esclude che g li eserciti vivano depredando le popolazioni, egli rende mobili e manovrieri anche i mezzi e materiali logistici (forni e magazzini mobili, ecc.). Ha molta cura anche per i feriti: dopo aver vinto - raccomanda - bisogna sapere approfittare del vantaggio, ma all'inseguimento dell'avversario si devono sottrarre i reggimenti che più hanno sofferto, facendo di essi un distaccamento «poiché si deve aver cura dei feriti, e farli trasportare agli ospitali, che s'avria già stabiliti. Si comincia per far guarire li suoi feriti, senza dimenticarsi di ciò, che si deve al'inimico. Frattanto l'armata inseguirà ... ». Sullo sfondo della logistica e delle operazioni, il morale: «in una
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battag1ia perduta il più gran male non è la perdita deg1i uomini, ma la perdita del coraggio delle truppe, che ne viene in seguito». I limiti dell'arte della guerra di Federico II sono quelli dello strumento: un esercito ancora relativamente piccolo composto di soldati a lunga ferma e di numerosi mercenari, dove le diserzioni sono frequenti e che richiede una dura, inflessibi1e disciplina. Egli non parla di tattica - e nemmeno di strategia - per due ragioni. La prima è che il meglio della sua opera ha fini pratici e anzi didattici: vuol istruire i suoi generali, è un Capo militare che scrive per precise necessità pratiche, non uno scrittore o un teorico che si improvvisa a] bisogno Capo militare. La seconda è che, ai suoi tempi, strategia è un termine ancora praticamente sconosciuto, che non esiste ancora quale parte di una teoria ma esiste solo nella pratica, nella rea1tà della guerra. Egli ne è anzi un maestro e un praticante, indicandone le fondamenta e rendendo1a automaticamente armonica con la politica, visto che è capo politico e mi1itare insieme. Ammette, come si è visto, il va1ore della storia e l'esistenza di regole e precetti tratti dall'esperienza storica. La sua visione del rapporto tra arte militare e storia è riassunta in queste parole: «La scienza così diffici1e del1'arte militare non può essere infusa dalla natura. Quali che siano le felici predisposizioni della nascita, occorre un profondo studio, e una lunga esperienza per perfezionarle; o è necessario aver fatto il proprio apprendistato alla scuo]a e sotto gli occhi di un gran capitano, oppure, dopo essersi spesso smarriti, imparare le rego1e a proprie spese». Scienza dell'arte della guerra non è una contraddizione: per Federico TI scienza significa conoscenza, studio. Studio necessario, perché come si è visto - egli afferma che i principi sono sempre gli stessi. Accanto ai principi, egli parla ripetutamente anche di regole e precetti. Rego1e, precetti, principi che non bastano, perché per uti1izzarli al meglio occorrono le doti naturali di un gran capitano. Traccia anche ]a figura ideale del Capo militare, precisando che è «una bella fenice che non comparirà mai», perché dovrebbe riunire «i1 coraggio, la costanza, l'attività di Carlo XIl, il colpo d'occhio e la politica di Marlborough, i progetti, le riserve, 1a capacità del Principe Eugenio, le astuzie e gli stratagemmi di Luxembourg, la saggezza, il metodo, la circospezione di Montecucco1i, l'opportunismo di Turenne». Infine, 1'importanza del terreno, quindi anche della geografia e topografia: le formazioni tattiche si devono adattare al terreno [allora, questo principio elementare era tutt'altro che scontato - N.d.a.] perché «lo studio dei luoghi decide delle imprese militari e delle fortune degli Stati [... ]. È il terreno che decide dell'abilità e ignoranza di coloro che lo hanno occupato [... l ciò che resterà eternamente stabile nell'arte militare è la
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castramentazione (cioè l'arte di disporre e impiantare nel luogo più adatto gli accampamenti - N.d.a.] o l'arte di trarre il maggior partito possibile da un terreno per il proprio vantaggio[... ]. Un generale non deve mai muovere la sua armata, senza essere bene istruito sui luoghi dove la conduce, e su come la farà arrivare in sicurezza sul terreno nel quale egli vuol eseguire i suoi progetti». Pensiero e azione in Federico II si fondono mirabilmente, alla maniera crociana. Le poche sciabolate con le quali abbiamo cercato di presentare il meglio della sua opera bastano a fare emergere una visione estremamente moderna, che non concede spazio alcuno ad assolutismi, schematismi, dogmatismi e pregiudizi tanto frequenti alla sua epoca. Una visione della guerra dominata da11a razionalità, che tuttavia sa collocare ciascun fattore al suo posto e non trascura i valori deUo spirito, ~ncorandoli però saldamente a presupposti pratici e concreti. Federico II coglie tutta l'importanza della manovra, e quindi del movimento. Fin da allora, ben avverte una realtà elementare che negli anni Trenta pochi in Italia mostrano di comprendere, che cioè il movimento non è solo generica attitudine spirituale e frutto dello spirito aggressivo, ma richiede specifici ordinamenti, grande e quotidiana cura per il morale del soldato e le sue armi e soprattutto una buona logistica capace di aderire alle esigenze materiali del combattente (cosa che, se non è mai stata facile, ancor di meno lo era allora). Con molta abilità ma non sempre in modo convincente, nell'immediato secondo dopoguerra il Ritter - per ragioni politiche persino ovvie si è sforL.ato di togliere dalla figura di Federico II l'imbarazzante immagine di fondatore e ispiratore del tanto odiato militarismo prussiano, avido di dominio e di conquiste (ma è stato il solo?): tutto ciò che era stato proclamato in proposito, sembrò ricevere una conferma assoluta quando Hitler salì al potere e in uno scenario ben noto, presentò al mondo il suo governo come l'erede autentico dello spirito di Potsdam e se stesso come autentico continuatore e realizzatore della politica di potenza di Federico. Nessuna delle sue leggende storiche ha incontrato tanto credito, all'esterno e aJl'interno, quanto questa, e ancora oggi non sembra essere stata sfatata. 17 Ritter mostra di non distinguere bene tra il tradizionale spirito mmtare e nazionale tedesco, e le sue degenerazioni. Egli avrebbe ragione, solo se si pretendesse di indicare nel militarismo prussiano l'unico re17 G. Ritter, / militari e la politica nella guerra moderna - da Federico il Grande alla prima guerra mondiale, Torino, Einaudi 1967, p. 24.
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sponsabile dene guerre europee, da allora fino ai nostri giorni. Ciò non risponde alla verità storica, dunque Ritter ha torto. È un fatto che lo spirito guerriero della nazione germanica e la grande cura sempre dimostrata dai tedeschi per l'efficienza, la qualità morale e materiale della loro compagine militare, la capacità della leadership, sono state nel sec. XIX e XX una costante giustamente impersonata da Federico II. Costante che noi teniamo bene separata da deprecabili degenerazioni ed esasperazioni politiche e che dunque non solo non ci sembra condannabile, ma ammirevole. Le pagine che il Ritter dedica a Federico II non entrano nel merito della sua visione dell'arte della guerra; esse sono tuttavia utili per inquadrare con una maggiore precisione il rapporto tra politica e guerra che è a monte della sua condotta di uomo di Stato e di generale, e anche e soprattutto il ruolo della guerra nella politica degli Stati del Secolo xvm. Ne riceviamo conferma della stretta razionalità - e diremmo quasi dell'equilibrio - che presiede al ruolo che Federico II assegna alla guerra: «L'arte <lena guerra, come ogni altra arte, è produttiva quando se ne fa uso giusto, è dannosa quando se ne abusa». Quindi, guerre offensive e condotte con decisione, ma solo quando lo richiede l'interesse dello Stato [come potrebbe essere altrimenti, a meno che un governante non sia un imbecille o un pazzo? - N.d.a]. Quindi, concetto - sempre soggettivo - della «guerra giusta», cura per la vita dei soldati e per il benessere dei sudditi (anche qui: siamo ali' ABC de]]'uomo di Stato e del generale). Molto discutibile, se non distorta, è anche la visione che il Ritter ha della strategia di Federico TI. 11 grande monarca Prussiano non sarebbe stato uno «stratega della distruzione», solo perché non avrebbe mai pensato di separare le considerazioni poHtiche dai piani militari [ma così facendo, che razza di uomo di Stato e di generale sarebbe stato?- N.d.a.]: al contrario, un esame un pò approfondito delle sue campagne militari dimostra nel modo più chiaro come la sua condotta della guerra non fosse affatto «assoluta», né «totale», bensì limitata sia dalla necessità di ricorrere costantemente ai mezzi diplomatici, sia dalla tendenza ad accontentarsi di risultati militari parziali, nella speranza di esaurire la volontà di lotta del nemico anche senza la distruzione formale delle sue forze e senza logorare totalmente le proprie.
Qui il Ritter confonde volere con potere, e mostra di ignorare che la strategia- come la politica - è prima di tutto l'arte del possibile, quindi è soggetta a quei calcoli di convenienza e di previsione, che contraddistinguono il buon uomo di Stato come il buon generale. Per qualunque ge-
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nerale, di qualunque epoca, la debellatio del nemico non sempre è possibile anche se vorrebbe ottenerla. Federico II è stato stratega deJla distruzione? Una risposta ultimativa non esiste. È stato - inevitabilmente uomo del suo tempo, che faceva la guerra e governava con gli strumenti militari e politici del suo tempo. È innegabile che, compatibilmente con tali strumenti, egli ha cercato di spingere le guerre a fondo, se non altro perché - e lo ha detto chiaramente - non poteva permettersi guerre lunghe, quindi gravose soprattutto per il suo piccolo Stato. Compatibilmente con il suo tempo, egli è stato anche - quando ha potuto - stratega della distruzione, spingendo a fondo la guerra fino a vincere memorabili battaglie campali e lasciar intravedere i nuovi orizzonti che la strategia avrebbe assunto nei secoli successivi. Come si spiegherebbe altrimenti, il fascino da lui esercitato persino sui tedeschi del secondo dopoguerra, che di recente ne hanno riportato con tutti gli onori civili e militari le spoglie a Berlino, nella sede anteguerra? Il Ritter, piuttosto, dipinge in modo molto efficace il rapporto tra politica, società e guerra nel secolo XVIII, 18 che poi sarà ripreso - nei limiti del possibile naturalmente - dalla Restaurazione e che si fa sentire anche nelle guerre federiciane: la monarchia militare di Federico il Grande, che ai contemporanei sembrò un perfetto Stato militare, rimase pur sempre molto al di qua rispetto alla militarizzazione «totale» dei moderni Stati democratici continentali. A paragone di quanto avvenne in seguito, esso non fu un «accampamento armato» neppure in tempo di guerra. Infatti Federico ignorò che cosa fosse una intera nazione in armi, come pure una «guerra totale» che impegna tutti i settori della vita del paese. Anzi, era addirittura orgoglioso di poter condurre le sue guerre in modo tale che «il pacifico cittadino potesse rimanere tranquillo e indisturbato nella sua abitazione e non accorgersi neppure che il suo paese era uno strumento della politica di potenza che un'arte dello Stato avveduta doveva maneggiare con estrema precauzione, pur con il massimo impegno di tutte le forze f ... )». Quanto più temperata è la passione della lotta, tanto più forte diviene l'influenza di considerazioni politiche ed economiche anche sul corso della guerra. L'età delle guerre di gabinetto è ancora ben lontana dal concedere alla volontà militarista di lotta e di distinzione, quell'autonomia, che consente ai suoi sostenitori di opporsi a siffatte considerazioni, giudicate «incompetenti » (evidente il riferimento alla scuola pseudoclausewitziana e moltkiana del 1870-1918. Tut-
18
ivi, pp. 19-56.
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tavia quest'ultima è solo una degenerazione e non attiene al nuovo e più esteso concetto di guerra del secolo XX, che non si sviluppa solo in Germania - N.d.a.].
Limite (o pregio) vero, ma non esclusivo e non eliminabile, perché deriva dai tempi. Una guerra ben condotta, anche nel secolo xvm, non poteva non assumere la fisionomia politica-sociale delle guerre federiciane e rispondere ai criteri da lui sostenuti. Criteri strettamente nazionali, quindi illuministi: per questo le robuste venature illuministiche dell'amico di Voltaire, e dell'autore (ma in gioventù) dell'Antimachiavello non sono in contraddizione con il suo concetto di guerra. In contraddizione con i principi dell'illuminismo sembrano invece certe venature pacifiste e antimilitariste dell'illuminismo francese, simboleggiate da Voltaire che all'inizio del Capitolo m del suo Candido descrive la guerra come inutile, orribile, stupido e inconcludente massacro, al quale segue il Te Deum fatto cantare da ambedue i Re ai rispettivi eserciti una volta ritornati nel loro accampamento. Nel concetto di Voltaire, non c'è alcun spazio per la guerra come fenomeno storico da studiare e indagare con gli strumenti de11a ragione, come tutto il resto della realtà. A questo concetto Federico si oppone affermando in polemica con gli enciclopedisti francesi che «non vi è arte più bella e più utile dell'arte militare quando venga esercitata da uomini di valore». Non sarà mai abbastanza ripetuto, perciò, che - con le guerre e gli scritti di Federico Il e con un rapporto tra politica e guerra dove la prima raggiunge il massimo dell'influsso che sempre ha esercitato sulla guerra - la seconda metà del secolo XVIII non può essere saltata a piè pari. Il pensiero e l'azione di Federico Il, in particolare, sono una tappa ineliminabile per capire la reale portata innovatrice delle guerre della Rivoluzione Francese e di Napoleone e, con esse, per ricondurre nella sua giusta collocazione storica il pensiero militare europeo e italiano del secolo XIX. Solo il generale Bastico negli anni Venti intravede tutta la portata innovatrice dell'opera di Federico, pur facendogli carico - a torto di non essere SEMPRE(?!) riuscito a dare veste concreta alla battaglia decisiva [ma chj ci è mai riuscito?- N.d.a.J e di averla comunque subordinata alla valutazione delle possibilità di successo [ma non è quello che un buon generale deve sempre fare? - N.d.a.]. 19 Il restante panorama - fino alle opere più recenti e celebrate - è piuttosto sconfortante. In campo nazionale, Canevari e Prezzolini nella loro Antologia militare del 1926 riportano brani di scrittori stranieri di
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E. Bastico, Op. cii., Voi. I, pp. 84-85.
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modesta fama e di nessuna influenza in Italia e all'estero, ma non concedono ai suoi scritti e alla sua figura alcun spazio.20 Anche il Pieri, nel suo pur ottimo Guerra e politica, non ne ritiene l'opera meritevole di specifica analisi e ne dà un'interpretazione troppo sommaria e sotto taluni aspetti non condivisibile, scambiando per scelte e precise opzioni delle linee di condotta strategiche che sono imposte invece dalle circostanze. Volere non è potere, la strategia è arte del possibile e perciò vi è sempre differenza tra strategia praticata e reale e strategia teorica, tra il piano o il concetto d'azione iniziali e le decisioni azione durante. Il Pieri, che pure è stato ufficiale in guerra, pensa invece che dopo la guerra dei sette anni l'arte militare, come abbiamo visto, è in crisi. Federico li ha tratto dalla prassi guerresca del suo tempo tutte le estreme possibilità, ma ha chiuso un'epoca assai più che aprirne una nuova [per noi, è avvenuto il contrario - N.d.a.]. La sua è stata pur sempre una strategia logoratrice, sebbene intesa nel miglior modo e col maggior vigore [non è vero; così facendo avrebbe logorato solo se stesso - N.d.a-]; ché il Re di Prussia è venuto a battaglia quando le circostanze imperiosamente lo esigevano [quando ha fatto ricorso alla strategia logoratrice, gli è stato imposto dalle circostanze, non è stata una libera scelta perché - come si è visto - non se la poteva permettere. Dare battaglia solo quando lo esigono le circostanze, quindi si è in posizione di vantaggio, non è arte elementare del buon generale? - N.d.a.]. 21
Come Canevari e Prezzolini, anche il recentissimo Guerra e strategia nell'età contemporanea22 ignora Federico TI, analizzando peraltro il pensiero di autori che - come Jomini e Clausewitz - continuamente e significativamente a lui si richiamano, anzi camminano nella sua scia. Andrè Corvoisier nel Dictionnaire d'Art et d'Histoire Militaire dedica a Federico II diciannove righe, nelle quali non dà alcun cenno delle sue innovazioni strategiche, organiche e logistiche, limitandosi ad accennare alla sua tattica, giudicata a ragione del Bastico poco positivamente, e all'ordine obliquo (procedimento di avvolgimento de11'ala del nemico aspramente criticato da Napoleone). 23 Gerard Chaliand nella Anthologie Mondiale de la stratégie riporta la sua Instruction militaire, ma accenna an-
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2 Cfr. E. Canevari - G. Prezzolini, Marte - Antologia Militare, Firenze, Bemporad 1926 (2 Voi.). 21 P. Pieri, Guerra e politica, Milano, Mondadori 1975, p. I 30. 22 Cfr. AA. VV ., Guerra e strategia n.ell' età contemporanea, Genova, Marietti 1992 (a cura di P. Paret). 23 A. Corvisier, Op. cit., p. 352.
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ch'egli solo all'ordine obliquo, aggiungendo che «l'enseignement frédericien devient un dogme que s'effondre à Jena (1806)».24 li che è vero, ma non per colpa sua: perché il maggior torto di Federico II - come di Clausewitz, Douhet e Mahan - è di aver avuto mediocri allievi e una moltitudine di (sedicenti e interessati) «interpreti autentici», che per motivi strumentali e contingenti spesso attinenti a contrasti tra forze armate o per ragioni d'immagine, ne hanno sovente interpretato il pensiero ad usum Delphini.
Guerra e arte militare secondo l'Enciclopedia Francese (1757) Verrebbe spontaneo passare subito da Federico II a Napoleone: sono, in effetti, le due figure dominanti del rispettivo secolo. Ma, per ben capire le ricadute della Rivoluzione Francese sul modo di concepire la guerra, è utile - prima di arrivare a Napoleone - esaminare più da vicino come concepisce la guerra l'illuminismo francese, movimento culturale del quale è superfluo ricordare le origini. i riflessi profondi ed estesi in Europa, l'«aria nuova» che introduce in tutte le branche del sapere, i grandi rivolgimenti che prepara. L'opera più importante per accertare questo, è l'Enciclopedia Francese del 1754-1757. L'illuminismo non ama molto la guerra: contraddistinto come è dalla fede assoluta nella ragione, non può che essere diffidente e perplesso di fronte a fenomeni che, come la guerra, spesso - anche se non sempre - rientrano nella sfera dell'imprevedibile e dell'irrazionale, e dimostrano dove portano passioni e sentimenti degli uomini e dei popoli. L'atteggiamento degli enciclopedisti - che si riscontra soprattutto nella compilazione della voce guerra - è duale. Da una parte vi è un approccio tipicamente scientifico al fenomeno, con il quale - basandosi sull'esperienza storica specie dell'età classica e ricorrendo largamente al sillogismo induttivo - si cerca di ricavare dai fatti particolari aspetti generali. Dall'altra nell'Enciclopedia - come aveva fatto Voltaire in Candido - si anticipano i topos tipici dell'antimilitarismo classico, accantonando e presentando il fenomeno guerra - quali che ne siano le cause - come degno solo di scontate invettive miranti a metterne in rilievo le conseguenze rovinose nella vita degli uomini e dei popoli. Guerra come fenomeno culturale e guerra come semplice perversione, insomma (forse questa ambiguità deriva dall'intervento di due diversi compilatori). Nel primo caso l'Enciclopedia Francese non è particolarmente innovatrice e anzi rispecchia e riassume gli idola dell'arte militare
24
Paris, Laffont 1990, pp. 691 -706.
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del tempo. Respinge, anzitutto, la definizione puramente militare di Montecuccoli (azione tra due eserciti offendentesi in ogni guisa, il cui fine è la vittoria) e vi sostituisce un concetto più moderato, più limitato e più «politico» (contesa tra due Principi o tra due Stati, - decisa - con la forza o con la via de]]e armi) che assomiglia molto a quello tautologico di Grozio (secondo quest'ultimo, la guerra è la condizione di coloro che scelgono di decidere i loro contrasti ricorrendo alla forza). Per l'Enciclopedia la definizione di Montecuccoli «non è assolutamente esatta, perché quando uno Stato più forte ne attacca uno più debole, lo scopo della guerra da parte di quest'ultimo non è tanto di conseguire la vittoria sull'aggressore, ma di opporsi ai suoi disegni». In tal modo, l'illuminismo rifiuta la guerra tendenzialmente assoluta e di distruzione, ammette che non necessariamente il fine de]]a guerra è la vittoria, e di conseguenza la vede sottoposta a limiti, condizionamenti e calcoli di convenienza che rientrano nella sfera della politica o de1la morale. Remore tanto più forti e impellenti, visto che della guerra si tende a mettere in evidenza - più che i contenuti anche morali positivi - gli oneri e i danni. La guerra - afferma l'Enciclopedia - è soggetta a ripetuti calcoli e controlli di convenienza politica: come dice Plutarco, presso i Romani (cioè il popolo più bellicoso, o meglio, più militare della terra) una volta che i Feciali avevano concluso che si poteva giustamente intraprendere una guerra, il Senato esaminava ancora se sarebbe stato veramente vantaggioso intraprenderla. E viene citato anche Polibio, secondo il quale è necessario studiare le arti e le scienze che hanno attinenza con la guerra, con ciò stesso tendendo a esaltarne i collegamenti e raccordi con altre sfere e altre discipline. Altro caposaldo è che «la guerra è un'arte che ha le sue regole e i suoi principi, e di conseguenza la sua teoria e la sua pratica». Secondo il classico approccio di tipo illuministico, queste regole e questi princìpi non sono altro che il frutto delle osservazioni fatte in differenti tempi per far combattere gli uomini il più vantaggiosamente possibile; tuttavia per diventare un buon generale non è sufficiente apprenderli, né basta la pratica. Conoscere tutto della guerra, le manovre ed evoluzioni, ecc., oltre che cosa assolutamente necessaria per il generale, è anche cosa molto semplice. Ma fare la guerra con successo, rompere i disegni del nemico, trovare il modo di eludere la sua superiorità, assumere continuamente l'iniziativa nei suoi riguardi senza che sia in grado di opporsi, è l'autentico frutto del genio, e del genio perfezionato da un lungo studio e da intenso lavoro. Ciò che decide del successo ne11a guerra - prosegue l'Enciclopedia - non è il numero, ma l'abilità dei Capi e la qualità delle truppe, che de-
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vono essere disciplinate e addestrate con molta cura. Molto insiste l'Enciclopedia su1l'importanza della preparazione e di un'accurata pianificazione. Prima di cominciare la guerra, bisogna avere degli obiettivi e dei disegni ben precisi, che ci si propone di perseguire fino a quando le circostanze lo permetteranno. Tutte queste acquisizioni non sono frutto della esperienza delle guerre più recenti: richiamandosi alle affermazioni del Folard, l'Enciclopedia indica nell'antichità greca e romana la miniera per determinare i precetti e le regole de1la guerra del tempo; i richiami all'antichità e a autori militari antichi (Polibio e Vegezio in particolar modo) sono numerosi e continui. Non vi mancano eloquenti e ben centrati accenni alle attente cure che richiedono, da parte del generale, la logistica e le minute attività quotidiane, cure che sono anche la misura delle difficoltà pratiche che comporta l'esercizio del comando: la scienza della guerra è così estesa, che non si deve essere sorpresi dal piccolo numero di coloro che vi eccellono. Non è affatto sufficiente che i generali sappiano schierare gli eserciti in battaglia, farli marciare, accampare e combattere; bisogna che essi sappiano ancora preservare le truppe dalle malattie che potrebbero demolirle o indebolirle. Bisogna altresì saper tenere alto il morale del soldato per farlo obbedire volontariamente, e sopportare pazientemente le straordinarie fatiche alle quali egli può essere esposto. Bisogna aver cura che i viveri non gli manchino mai, e che la cavalleria non soffra alcuna mancanza di foraggio. È a questo che bisogna ogni mattina pensare di buon'ora. È una contraddizione in termini, dice Vegezio, cominciare a pensare ai viveri solo quando mancano. Questo autore osserva che nelle spedizioni difficili, gli antichi distribuivano i viveri per uomo, senza riguardo al grado; ma si teneva conto in seguito di coloro ai quali i viveri erano stati diminuiti.
Nell'Enciclopedia si trova anche un approccio logistico alla guerra, che assumerà grande rilievo nel corso della Rivoluzione Francese: con fredda razionalità vi si afferma, infatti, che la guerra offensiva può essere conveniente, perché l'esercito vive sul Paese straniero; la guerra difensiva invece è molto più difficile e richiede conoscenze molto più estese della precedente. Ma tutto ciò non significa che l'Enciclopedia voglia privilegiare la guerra offensiva, né condannarla in quanto tale. Esaminando la guerra dal punto di vista politico e del diritto naturale, l'Enciclopedia elenca i mali della guerra: «la si è sempre vista desolare l'universo, svuotare le famiglie di eredi, riempire gli Stati di vedove e di orfani [... ]. In tutti i tempi gli uomini per ambizione, per avarizia, per gelosia, per perfidia, sono arrivati a derubarsi, abbruciarsi, soffocarsi gli uni con gli altri ... » . Le
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regole dell'arte militare, e i concetti di onore, nobiltà e gloria che sono ad esse collegati, non sono altro che dei sistemi per fare la guerra con maggiore efficienza. E qui l'Enciclopedia, come unico temperamento, non può che riconoscere la validità del vecchio topos di guerra giusta o ingiusta tipico della tradizione cristiana: «Tuttavia questo onore, questa nobiltà, questa gloria consistono solamente nella difesa della propria religione, della propria Patria, dei propri beni, della propria persona, contro i tiranni e gli ingiusti aggressori. Bisogna dunque riconoscere che la guerra sarà legittima o illegittima, secondo le cause che produrrà». Contemporaneamente l'Enciclopedia respinge con efficacia un altro vecchio topos - la cui fortuna è grande - che vorrebbe far coincidere la guerra offensiva con un tipo di guerra malvagia o ingiusta, ritenendo perciò «odiosa» la parola guerra offensiva: la guerra offensiva è ingiusta, allorché essa viene intrapresa senza una causa legittima, e allora la guerra difensiva, che in altri casi potrebbe essere ingiusta, diviene giustissima. Bisogna dunque accontentarsi di dire, che chi incomincia per primo la guerra incomincia una guerra offensiva e colui che vi si oppone incomincia una guerra difensiva. Questo concetto realistico e rigorosamente razionale rimane però un po' appannato alla fine della voce Guerra, quando si osserva che le leggi militari d'Europa non autorizzano affatto a uccidere i prigionieri, coloro che si arrendono e chiedono tregua, e meno ancora i vecchi, le donne, i fanciulli, e meno ancora - in generale - coloro che non hanno né un'età, né una professione atta a portare le armi. E dopo aver fatto un altro elenco degli orrori della guerra, non s'indicano possibili rimedi e non si indagano le origini di tanti mali che continuamente si ripetono nella stori a, ma ci si limita a constatare - amò di chiusura - che «i giornali attualmente (1757) non fanno che dare notizie dei mali che essa fcioè la guerra - N.d.a. J cagiona - sia per terra che per mare, nell'antico come nel nuovo mondo - a dei popoli che dovrebbero rinsaldare i legami di una concordia e di un reciproco benvolere, che è già troppo fragile, anziché reciderli». Questa visione non influenza più di tanto la definizione delle branche dell'arte militare, ben lontana da qualsivoglia innovazione. È assente dal1'Encic1opedia il concetto di strategia; ci si limita a ricordare che il termine stratègos designava, presso i Greci, sia un Capo civile e militare, sia il comandante dell'esercito presso gli Ateniesi. Lo stesso avviene per il termine logistica; per la definizione di tattica, ci si rifà agli autori della antichità classica. E si tende ad allargarne il campo, fino a comprendere in essa - non senza una certa confusione tra scienza e arte -
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quegli aspetti dell'arte militare, che poi saranno comunemente attribuiti alla strategia. 25 Per l'Enciclopedia (che così facendo avalla un vecchio errore) la tattica tende ad identificarsi con il movimento, con le evoluzioni che ne sono solo il mezzo: è propriamente la scienza dei movimenti militari, o, come dice Polibio, l'arte di mettere insieme un certo numero di uomini destinati a combattere, di distribuirli per linee e per file, e di istruirli su tutte le manovre di guerra. Altresì la tattica indica l'esercizio o il maneggio delle armi; le evoluzioni, l'arte di fare marciare le truppe, di farle accampare e la disposizione degli ordini di battaglia t... ]. La base della tattica moderna è composta da quelle dei Greci e Romani. Come i primi, noi formiamo dei corpi a rnnghi e file serrate, come i secondi, noi abbiamo i nostri battaglioni che corrispondono assai esattamente alle loro coorti e che possono muoversi e combattere agevolmente in ogni tipo di terreno t... ]. Occorre rendersi conto dell'importanza della tattica nella pratica della guerra: è essa che ne contiene le prime regole e i principali elementi, e senza di essa un esercito non sarebbe che una massa confusa di uomini, ugualmente incapace di muoversi regolarmente, e di attaccare o di difendersi contro il nemico. È grazie alle loro grandi conoscenze tattiche, che i capitani antichi fecero spesso quelle manovre inaspettate al momento del combattimento, che sconcertarono il nemico e assicurarono loro la vittoria.
Da ricordare anche i concetti (ben distinti) di battaglia e combattimento. La battaglia «è una azione generale tra due eserciti schierati, che vengono alle mani in una campagna assai vasta, per la quale la più gran parte delle truppe possa combattere. Le altre azioni delle truppe, anche se tali da causare perdite maggiori delle battaglie, secondo il Folard non sono che combattimenti». Molto sfumato il concetto dì battaglia decisiva; lo sfruttamento del successo non riceve particolare enfasi anche se si ammette che «è il seguito che decide dell'esito delle battaglie». Non è raro - dice l'Enciclopedia - che, dopo una battaglia, ambedue le parti se ne attribuiscano il vantaggio. Una battaglia perduta è quella nella quale si abbandona il campo al nemico, con i morti, i feriti, le artiglierie ecc .. Tutto dipende perciò da quel che avviene dopo; se un esercito si ritira in buon ordine con le artiglierie e i bagagli, il frutto della battaglia si riduce qualche volta ad avere saggiato le forze del nemico, e ad aver guadagnato il campo di battaglia. Se un esercito perde i cannoni, si 25 Tendenza tipica del tempo. Cfr. J. De Guibert, Essai général de tactique, Paris, Chez Magimel 1775 (Nouvelle edition publié par sa veuve), Tome I p. 60.
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ritira in disordine ecc., allora non è più in grado di ricomparire davanti al nemico senza aver ripianato le perdite e il nemico rimane padrone della campagna e in grado di intraprendere degli assedi. Questi contenuti dell'Enciclopedia non ci sembrano in contraddizione con quanto ha di recente ricordato il Jean a proposito del nesso tra eserciti di cittadini e guerra assoluta, decisiva: la proposta di formare un esercito di cittadini non era nuova. L'aveva già fatta Machiavelli e la sostenevano i circoli filosofici dell'illuminismo francese. Juvien, Ministro della guerra durante la rivoluzione e collaboratore del Diderot per la parte militare dell'Enciclopedia, scrisse nel 1780 un volume sul «soldato cittadino». ln essa erano contenute affermazioni profetiche: «Se i regimi sono tirannici, nessun cittadino combatterà per essi [... ]. Ma se sorge un regime nazionale, che possa trasfondere nell'esercito le energie del popolo, e trasformare i sudditi in cittadini, esso dominerà l'Europa. perché potrà adottare uno stile decisivo di guerra con cui gli eserciti dinastici non potranno competere».26
Da un punto di vista strettamente strategico, però, Juvien non ha inventato niente: come si è visto, Federico II - avrebbe voluto fare - vi era costretto - guerre brevi e decisive. E non si trova una neppur sfumata traccia di queste idee nell'Enciclopedia, dove - al contrario - si recepisce la invettiva pacifista contro la guerra. Ma l'Enciclopedia fotografa la situazione hic et nunc; e tra la metà del secolo e il 1780, c'è bella differenza. In mezzo c'è la guerra dei sette anni (1757-1763), che rivela il genio di Federico e i possibili nuovi scenari - anche spirituali - della guerra. In mezzo, c'è la guerra d'indipendenza americana 1775-1783 e la maturazione degli eventi in Francia. Soprattutto - e il fatto è meno paradossale di quanto possa sembrare - la guerra di nazioni e non più dinastica è unaricaduta del concetto di guerra giusta. Le guerre dei Re e dei loro Gabinetti sono potenzialmente ingiuste, perché riguardano solo loro e non la nazione, che sta a guardare. Ma chi meglio del popolo, attraverso i suoi rappresentanti , può decidere se una guerra è autenticamente giusta o ingiusta? può sentire se sono in pericolo - o meno - la vita, i beni, la sicurezza di ciascun cittadino? può riconoscere la necessità di difendere i valori, le conquiste sociali e politiche in cui crede? Proprio perché li coinvolge direttamente come attori, l'estensione del problema della guerra e della pace
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C. Jean, Ordinamenti, strategia e tattica degli Eserciti della Rivoluzione (in AA. VV. , Le scienze e gli ordinamenti militari della Rivoluzione Francese, Quad. Istrid. n. 14, Roma Ed. Difesa 1990. p. 8).
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a tutti i cittadini spinge automaticamente all'estremo il concetto di guerra. La rende anche ideologica, la fa dipendere dal consenso popolare che è cosa mutevole e non è mai legata solo (o principalmente) a interessi e convenienze. In poche parole, da un punto di vista meramente teorico e morale la «guerra giusta» dell'Enciclopedia Francese equivale al pacifismo possibile. ma, per essere veramente tale, essa non può limitarsi alla difesa degli interessi del monarca e deve rivolgersi a tutto il popolo, cioè a coloro che poi ne sopportano il peso. Così facendo, poiché il concetto di giustizia è sempre unilaterale e relativo non si può certo evitare il caso di due popoli che ambedue ritengano la «loro» guerra rispettivamente giusta. All'atto pratico, ciò significa che la guerra diventa ancor più causa di lutti e rovine, perché coinvolgendo la responsabilità di tutti non può non diventare ideologica più che politica, tendere all'assoluto, alimentare l'odio. Per caratterizzare meglio l'Enciclopedia va infine ricordato che, accanto alla guerra terrestre, essa considera la guerra marittima, che verrà da noi trattata a parte; caso molto raro non solo a quei tempi, ma anche nella prima metà del secolo. Questa constatazione conferma l'importanza dell'Enciclopedia dal punto di vista del pensiero militare; d'altro canto, si deve ammettere che ·i suoi contenuti militari molto raramente lasciano presagire il nuovo che si sta preparando, c dimostrano che - anche per questo settore specifico - risponde al vero quanto si legge sull'Enciclopedia italiana alla fine della voce illuminismo: «le idee, una volta messe in circolazione, sfuggono al controllo di chi le crea e accade così che all'illuminismo, alienissimo da violente e aperte rivoluzioni politiche e sociali, s'appellassero quelli che dovevano far sorgere il novus ordo grondante di sangue». È quanto avviene anche in campo militare, visto che proprio il Paese degli Enciclopedisti e del rinnovamento della cultura in senso razionale scatena una guerra di masse che insanguina l'Europa quasi per trent'anni.
SEZIONE II - Nascita, rinascita e sviluppo della nuova strategia parlata, scritta e codificata
Dalle direttive strategiche di Carnot a Napoleone: rivoluzione,27 evoluzione o mutamento? Per dare tutto ciò che può dare, l'approccio all'arte militare napoleonica - e a quanto egli ha lasciato scritto, sulla base della propria espe27 Di «rivoluzione» parlano ad esempio (e non sono i soli) sia il Paret che il Ritter, nelle opere citate. ·
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rienza in merito - non può che avvenire facendo costante riferimento sia a Federico il - del quale abbiamo già messo in evidenza la modernità sia all'Enciclopedia Francese. L'interrogativo al quale bisogna rispondere è quello del titolo: se cioè Napoleone ha provocato o meno una autentica rivoluzione nell'arte del1a guerra, e - comunque - se i mutamenti avvenuti in campo militare possono essere giudicati, o meno, di profondità e portata pari a quelle degli avvenimenti in campo politico-sociale. In certo senso l'interrogativo è fin troppo schematico: perché bisogna pur distinguere tra l'arte militare della Rivoluzione e quella di Napoleone o almeno esaminarne analogie e differenze. Napoleone compare sulla scena da protagonista solo nel 1796 sul fronte delle Alpi Occidentali, e dal 1789 al 1796 sono passati sette anni .... La sterrninata bibliografia esistente su Napoleone non ci aiuta un gran che a rispondere a questa e alle altre domande elementari ma fondamentali. Una cosa è certa: che ne] 1789, i Capi politici della Rivoluzione Francese non solo non sapevano che farsene di condottieri come Napoleone, ma li avrebbero guardati con sospetto e ostilità. Scrive il Ritter: giammai speranze furono più brutalmente deluse di quelle nutrite dal secolo illuminato circa l'inizio di un'era di «pace perpetua». Nell'assemblea nazionale francese del 1789 ci si era letteralmente cullati nell'orgogliosa certezza che, con 1a vittoria della libertà suJ dispotismo dei re, si sarebbe posto fine anche alla guerra, diabolico parto delle ambizioni dinastiche. La costituzione liberale del 3 settembre 1791, da essa solennemente votata, dichiarava nel titolo sesto: «la nazione francese rinuncia ad intraprendere qualsiasi guerra di conquista». Perfino un politico avveduto come Mirabeau, che pure conosceva assai bene i pericoli della passione sciovinista in una assemblea nazionale, annunziava pateticamente (25 agosto 1790): «Forse non è lontano il momento in cui la libertà emanciperà il genere umano dal crimine della guerra e annunzierà Ja pace universale ... Allora le passioni non lacereranno più con sanguinose contese i legami della fratellanza, allora potrà stringersi il patto d'alleanza del genere umano». E ancora nel gennaio 1791 parlava della confortante prospettiva «di cancellare i confini di tutti gli Stati per far sì che il genere umano formi un'unica famiglia ... ed erigere alla pace un altare formato da tutti gli strumenti di distruzione di cui è disseminata l'Europa».28
Più realistica l'Encic1opedia francese, che quando inveisce contro la guerra, almeno non dimentica che essa è tipica di ogni tempo, è frutto 28
G. Ritter, Op. cit.. p. 57.
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delle passioni umane e non delle ambizioni dinastiche (o - diremmo oggi - dell'egoismo capita1istico). Necessità fa legge, o - se si preferisce di buone intenzioni è lastricato il cammino dell'inferno; sta di fatto che la Repubblica deve subito difendersi dai suoi numerosi nemici che premono alle frontiere, e poiché la vecchia armée royale è dissolta oppure è inaffidabile, non c'è altra via che rivolgersi alla nazione intera, che con la levée en masse del 1793 diventa protagonista della guerra. Quest'ultima da guerra di eserciti mercenari e/o a lunga ferma relativamente poco numerosi diventa guerra di masse, e di eserciti. Scattano dunque i meccanismi legati al concetto di guerra giusta o ideologica, dei quali abbiamo prima parlato. È questa la trasformazione decisiva, simboleggiata dal fatto che, in francese, tuttora il termine armée significa esercito, e a1 tempo stesso armata (cioè G.U. complessa composta a sua volta da corpi d'annata e divisioni). Guerra di armate - o se poi preferisce di eserciti - che devono essere coordinate tra di ]oro su vasti spazi. Ne scaturiscono nuove esigenze politico-militari, che sono la ragione prima <lelJa nascita - o meglio della riscoperta - del termine strategia; quest'ultimo non risponde solo a scopi puramente militari, perché è evidente che una guerra che ha come protagonfate le masse è dominata più che mai da fattori e istanze politico-sociali. Questo stato di fatto che nessuno ha voluto e considerato in precedenza è anche la causa prima della nascita della logistica sia pure non nel senso attuale del termine, che per il momento risponde solo all'esigenza di organizzare e disciplinare il movimento, chiamando invece amministrazione, ciò che oggi chiamiamo logistica. Ciò non significa che non sia di primaria importanza - e al tempo stesso estremamente arduo da risolvere - il problema del rifornimento di annate così numerose e così distanti tra di loro in una guerra, appunto, di movimento e offensiva. Le finanze della Repubblica sono in dissesto, e un conto è provvedere al sostentamento di un piccolo esercito come quello di Federico II (o, nella fattispecie, come quello inglese in Spagna nel 1808-I 813) un conto è nutrire con rifornimenti da tergo le masse armate rivoluzionarie (cosa per la quale, tra l'altro, mancano prima di tutto i mezzi di trasporto e il personale specializzato necessario). 29 La necessità di «nutrire la guerra con la guerra» - sistema logistico molto discusso ma non nuovo, vedi caso usato da Giulio Cesare proprio in Gallia - non è dunque un'opzione teorica di carattere strategico o logi29 Sulla logistica - intesa nel senso attuale del termine - deUe armate della Rivoluzione e napoleoniche si veda F. Botti, ApprovviJ?ionamenti e organiu.azione logistica delle armate rivoluzionarie e napoleoniche (in AA.YV., Le scienze ... , cit., pp. 91-118).
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stico, o semplicemente il riflesso di una nuova strategia: è un sistema imposto dagli avvenimenti e dalla situazione, perché è l'unico possibile. Come già riconosce l'Enciclopedia, la guerra offensiva è conveniente, perché consente di vivere sul paese nemico: di conseguenza, dovendo per forza di cose far vivere le truppe sul Paese, è meglio combattere al di là dei confini. Dopo il 1789, guerra di masse, guerra di movimento, guerra offensiva e tendente alla debellatio dell'avversario, ricerca di battaglie decisive, ritorno al vecchio sistema di vivere sul Paese nonostante i suoi inconvenienti, non sono scelte rivoluzionarie tra varie alternative possibili o opzioni teoriche: sono semplicemente dei rimedi estremi imposti da uno stato di necessità, da una situazione eccezionale che vede la Repubblica Francese lottare per la vita o per la morte. Paradossalmente, sono anche una conseguenza dell'iniziale pacifismo che aggrava la situazione militare costringendo poi ad adottare rimedi estremi, e della cattiva organizza,zione e del cattivo inquadramento degli eserciti della Rivoluzione, dove - sempre in mancanza di altro, cioè degli strumenti professionali, dell'addestramento e della disciplina degli eserciti dinastici - si è costretti a far leva soprattutto sull'unica arma che rimane, cioè lo spirito e l'entusiasmo, j} che a sua volta non fa che rinfocolare il carattere ideologico e assoluto della guerra ... Lazzaro Camot, ufficiale del genio e membro militare del Comitato di salute pubblica, è la personificazione de11e nuove esigenze strategiche e ordinative create dalla Rivoluzione, ben prima di Napoleone. Di lui, basti ricordare quanto dice il Duca d'Aumale (che, per inciso, sostiene che la creazione de11a nuova armée non è dovuta a Napoleone): «Louvois aveva creato l'armata reale, Camot costituì l'armata nazionale. Noi non dobbiamo giudicare gli atti della sua vita politica, il nostro compito si limita a ricordarne i servigi. Dette la base più larga alle nostre istituzioni militari, mise in pratica dei principi ai quali bisogna sempre ritornare primo o poi, «organizzò la vittoria» senza sacrificarle la libertà ... ».30
Aumale parla - assai vagamente - di principi. Né lui, né altri autori, né opere come la nostra Enciclopedia Militare (1933) o il recentissimo Guerra e strategia nell'età contemporanea mettono in evidenza il principale merito storico della figura di Carnot, che non consiste nell'aver «organizzato la vittoria», né nell'aver perfezionato quell'arte della fortificazione ne11a quale come ufficiale del genio era esperto (si veda il De la défense des places fortes - 1811). Anche il Bastico indica quest'opera 30
E. Canevari - G. Prezzolini, Op. cit., Voi. II, p. 354.
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come la principale, e pur riconoscendo le nuove concezioni strategiche di Carnot non lo giudica esplicitamente per quello che è, cioè come precursore di Napoleone e primo interprete della strategia della Rivoluzione. Né egli cita, di Camot, il Sistema generale delle operazioni militari della prossima campagna (2 febbraio 1794), documento operativo che come tale riassume magistralmente non solo dei princìpi teorici, ma la nuova dottrina strategica della Rivoluzione. Non concordiamo, perciò, con lo stesso Bastico, quando afferma che «la Rivoluzione non ebbe una sua vera dottrina; più che per difetto di uomini, ciò dipese forse dall'incalzare e dal sovrapporsi di avvenimenti grandiosi, onde non vi fu il tempo di pensare ma solo quello di agire». 31 Sempre che per dottrina si voglia intendere l'adattamento di princìpi strategici teorici alla realtà e a un ben definito caso concreto che suggerisce le principali linee d'azione, semmai è il contrario: pressata da uno stato di necessità la Repubblica elabora più o meno consapevolmente una nuova dottrina strategica (e anche logistica) che non può che essere tendente alla debellazio, offensiva e di massa, e attua razionalmente le conseguenti soluzioni ordinative. Ma fino a Napoleone, soprattutto per difetto di uomini, di Capi politico-militari queste nuove acquisizioni dottrinali trovano incerta o discontinua applicazione. Se lo inseriamo in questa prospettiva storica, Carnot con il citato Sistema generale delle operazioni militari - nome che già indica precise e concrete scelte - è il vero padre della teoria e della dottrina strategica contemporanea. Padre inconsapevole, perché non usa mai il vocabolo strategia: ma sempre padre, perché per esserlo, non c'è bisogno di chiamare legalmente un figlio con tale nome. Infatti questo scritto indica con estrema chiarezza tutti i principi della nuova guerra e quindi della nuova strategia. A fronte di questo pregio unico, non ha molta importanza se non sempre le valutazioni di Camot risultano azzeccate, e se non si tratta di una speculazione teorica ma di un documento con finalità pratiche (questo anzi ne accresce il pregio, perché evidenzia il legame tra strategia o teoria e realtà). Va quindi riconosciuto al Chaliand il merito di aver riportato tale documento nella sua Antologia, 32 e a J. P. Charnay di averne messo bene in evidenza l'importanza nel dizionario del Corvisier. 33 Il principio della massa e dell'offensiva, e la ricerca di risultati risolutivi e della guerra breve, perché più economica: «Tutte le armate della Repubblica devono agire offensivamente, ma non devono affatto mettere 31
E. Bastico, Op. cit. , Voi. I, p. 111. G. Chaliand, Op. cit., p. 760-769. 33 A. Corvisier. Op. cit.. pp. 141. 32
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in campo ovunque la stessa quantità di mezzi. I colpi decisivi devono essere portati su due o tre punti solamente; altrimenti, bisognerebbe disseminare le forze più o meno uniformemente su tutte le frontiere e la campagna si concluderebbe dopo aver ottenuto solo qualche vantaggio, che peraltro non sarebbe sufficiente per mettere il nemico in condizioni di non poter più ricominciare le operazioni l'anno prossimo, mentre le risorse della Repubblica si troverebbe totalmente esaurite». Il principio dell'unità di comando e il coordinamento dell'azione delle armate, sulla base del grado di priorità della loro azione per il raggiungimento dell'obiettivo della campagna: «l'armata del Nord è dunque quella che deve maggiormente attrarre la nostra attenzione; quella delle Ardenne è considerata come se ne facesse parte, e i loro movimenti devono essere combinati, vale a dire che, in fase esecutiva, si deve - come già si è fatto - assegnare il comando a un solo generale. Ciò vale anche per l'armata della Mosella e quella del Reno, tra di loro ... ». (Seguono considerazioni di carattere geografico, dalle quali s i traggono molte e concrete indicazioni sulle linee d'azione e sulle direttrici più convenienti da seguire nei vari scacchieri di confine: Nord-Est, Pirenei, Alpi Occidentali). Sulla necessità, ma anche sui limiti, del piano di campagna. Al Comitato di Salute pubblica il 16 luglio 1794: «Non basta che le armate della Repubblica trionfino ovunque: bisogna che le loro vittorie abbiano un fine utile e concreto e che i loro risultati non siano abbandonati alla sorte o all'entusiasmo, che potrebbero far perdere in un solo istante il frutto di tante fatiche e di tanto eroismo. È dunque estremamente importante dirigerle in precedenza verso l'obiettivo che si vuole raggiungere». Par di leggere Clausewitz ... Al generale Michaud, comandante dell'armata del Reno: «Tu mi chiedi, cittadino generale, che sia definito per te un piano di operazioni per la campagna che sta per aprirsi: noi in questo momento non ti possiamo fornire che delle basi, perché le modalità di carattere particolare per la condotta delle operazioni dipendono dalle forze e dai disegni del nemico, e quindi sono affidate allo zelo e alla sagacia dei generali». Altro concetto clausewitziano ... Sulla necessità di avere sempre come obiettivo le forze contrapposte e non la semplice conquista del territorio, e di nutrire la guerra con la guerra tenendo il nemico lontano dalle frontiere: «Noi non ci proponiamo affatto delle conquiste sulle frontiere del Reno, ma di incalzare il nemico, di vivere a sue spese e di allontanare con continui attacchi la guerra dai nostri focolari». Vi può essere una direttiva strategica più chiara, anche se non si chiama ancora tale? La strategia della Rivoluzione non è dunque una novità assoluta: è il
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completamento e il rinvigorimento di quella di Federico II. Nemmeno la sua logistica è una novità. Sia perché in diversi casi - quando è possibile rimane quella di Federico, sia perché quando l'abbandona per «vivere nel Paese» non fa che tornare all'antico e a ciò che Federico stesso aveva fatto in mancanza di meglio. Al tempo stesso, va anche ben chiarito che il sistema - o, meglio, l'estremo rimedio - basato sulla coniugazione del triste verbo «s'arranger» (arrangiarsi), in Spagna e Russia mostra tutti i suoi limiti e si ripercuote negativamente sulla stessa strategia. Non si può alimentare un'armata con quello che non c'è (Russia). La guerriglia, in quanto tale, tende a colpire il punto più debole degli eserciti regolari, che da sempre sono i convogli e gli organi logistici. E tende naturalmente a rendere molto pericoloso e controproducente alle forze regolari il «disperdersi per vivere», anche perché poco si trova in un Paese come la Spagna, povero e deciso compattamente a resistere con ogni mezzo. Nemmeno i mezzi e materiali presentano delle novità sostanziali: l'artiglieria è sempre quella - molto mobile - del Gribeauval e dell'armée royale, mentre i suoi criteri d'impiego (imperniati sulla ricerca della mobilità e dell'aderenza all'azione della fanteria) sono più o meno quelli di Federico Il. La Rivoluzione Francese è stata dunque tale solo dal punto di vista
politico e sociale: non da quello puramente strategico, nonostante la ben nota (anche allora) dipendenza della guerra e della strategia dalla politica. Fatto, questo, meno anomalo e sorprendente di quanto possa sembrare: perché la guerra non attiene solo alla sfera del politico, attiene anche alla sfera tecnica e scientifica, o se si vuole artistica. Come tale, le va riconosciuto anche un certo grado di autonomia e di identità propria, come quello che non ci sognerebbe di negare a qualsiasi «arte». Se di Rivoluzione si può parlare, ciò avviene solo nel campo ordinativo, che è strettamente legato - ancora più delle altre branche - al campo politico-sociale: il vero fatto nuovo è l'incremento numerico dell'esercito e il suo frazionamento in armate autonome. Fatto, più che nuovo, relativamente nuovo, comunque non rivoluzionario. Già le guerre fra Roma e Cartagine, ad esempio, avevano visto eserciti e flotte contrapposte operare su vari scacchieri. In tempi più recenti le guerre del secolo Xvrn tra Inghilterra, Spagna, Francia e Stati Uniti avevano fatto nascere la necessità di coordinare eserciti e flotte sui vari scacchieri in un disegno globale, dove strategia e politica si fondevano. Appare perciò chiaro che la stessa strategia di Napoleone non è, a sua volta, che l'estensione e il perfezionamento - sia pur spinti al limite estremo fin quando ciò è possibile - delle acquisizioni di Federico II, e ancor più di quelle di Carnot. II suo genio impareggiabile attiene non alla teoria o alla dottrina strategica, ma alla prassi. Consiste, cioè, nell'aver
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applicato magistralmente - operazione dall'Enciclopedia Francese e da tutti riconosciuta la più difficile, quindi la vera misura del genio - principì sostanzialmente risalenti a Federico, quando non alla stessa Enciclopedia Francese. La sua unica e vera innovazione è di carattere organico: trova la divisione pluriarma già in uso da tempo, e con la riunione di due o più divisioni costituisce il corpo d'armata (o d'esercito) nel senso moderno del termine, facendone l'unità tattica fondamentale della battaglia. Facciamo grazia al lettore delle descrizione delle sue campagne, che si trova in un'infinità di opere e che dimostrano quanto abbiamo detto. Ci soffermiamo, invece, un pò di più sui suoi scritti, che per un generale sono sempre il risultato di un'esperienza pratica e dunque conciliano nel modo migliore teoria e pratica, pensiero e azione. Napoleone non «rompe» con il secolo XVIII, ma ammette l'esistenza di regole e principi dell'arte della guerra, e pienamente riconosce il valore dell'exemplum historicum, anche se - un pò contraddittoriamente - si rifiuta di inserire principi e regole in un sistema fisso: lutti i grandi capitani hanno operato grandi cose solo conformandosi alle regole e ai princip'ì dell'arte, cioè con la giustezza dei calcoli e il rapporto logico dei mezzi con le conseguenze, degli sforzi con gli ostacoli [...] Essi non hanno mai cessato di considerare la guerra come una vera scienza. Solo a questo titolo sono essi i nostri grandi modelli e solo imitandoli si può sperare di assomigliarli 1... J Sola guida ai comandanti supremi, la loro esperienza e il loro genio Lattico. Evoluzioni, scienza di armi dotte possono impararsi nei trattati; ma la conoscenza della grande strategia non si acquista che con la pratica e con lo studio de11a storia delle campagne dei grandi capitani. Gustavo Adolfo, Turenne, Federico, come Alessandro, Annibale e Cesare hanno tutti operato secondo gli stessi princìpi. Tenere raccolte le proprie forze, non essere vulnerabili su nessun punto, portarsi rapidamente sui punti importanti, tali i princìpi che assicurano la vittoria ....
Il suo antidogmatismo: «Nella guerra non vi sono idee precise, determinate: tutto dipende dal carattere del generale, dalle sue doti e dai suoi difetti, dalla natura delle truppe, dalla portata delle armi, dalla stagione e dalle mille altre circostanze l... ]. Dettare dei dogmi su ciò che si conosce e si pratica è appannaggio de1la mera ignoranza». li suo omaggio all'arte della guerra preesistente: «Un principio sacrosanto è questo: non abbandonare mai la propria linea di operazione [... ]. Il segreto più importante della guerra consiste nel sapersi rendere padrone delle vie di comunicazione». E, come Federico, egli è contrario ai consigli di guerra e pensa che «vincere è nulla, bisogna approfittare del successo».
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Altra eredità federiciana - e di Carnot - è l'importanza della massa, della battaglia decisiva e del colpo d'occhio del capo: «L'essenziale della guerra è vincere le battaglie. Il primo principio della guerra è che non si deve dar battaglia se non con tutte le truppe che possono venir riunite sul campo della battaglia stessa [... ]. La scienza militare è il calcolo delle masse sopra alcuni punti. [... ] All'inizio di una campagna bisogna ben meditare se è opportuno o no avanzare; ma quando si è effettuata l'offensiva, bisogna sostenerla fino all'ultimo estremo». Anch'egli esalta ripetutamente il coup d' oeil del Capo, e il suo ruolo: «Il comandante di un esercito ne è la testa, ne è il lutlo [... ]. Alla guerra non è la massa degli uomini che conta, bensì la mente di un uomo solo [...]. In un grande generale non vi è insieme di grandi azioni che non sia opera del caso o della fortuna: tutte derivano dal calcolo e dall'intuito generale». Ma nonostante siffatti orientamenti, anche per Napoleone - come già per Federico - la battaglia è pur sempre subordinata a calcoli di convenienza e fattibilità, perché egli ben ne conosce le difficoltà: «L'arte di essere ora audace, ora pmdente, è l'arte di riuscire L... ]. Si ha generalmenle un'idea poco adeguata dell'energia che è necessaria per impegnare, con matura meditazione delle sue conseguenze, una delle grandi battaglie da cui dovranno dipendere le sorti di un Esercito, di un Paese, il possesso di un Trono [già l'aveva detto Montecuccoli - N.d.a.]. È raro trovar generali che vadano volentieri incontro alla battaglia». Tanto più che «la sorte di una battaglia è il risultato di un istante, di un'idea[ ... ] il momento decisivo si presenta: una scintilla morale illumina e la più piccola riserva decide». Insomma: che cosa ha scritto e pensato Napoleone, che non avrebbe scritto e pensato Federico? «Un generale deve essere un ciarlatano»: accenno al nuovo e precario tipo di disciplina dell'armata francese, nel quale il generale - molto più di Federico che poteva applicare la disciplina prussiana - deve assolutamente avvincere, affascinare, e anzi saper imbonire le truppe. «Privazioni e miseria: ecco i migliori istitutori del soldato». Federico invece voleva i suoi soldati meglio nutriti di tutti gli eserciti d'Europa e non ha mai esclamato, come Napoleone, «non parlatemi dei viveri». «Il miglior soldato non è quello che si batte bene, ma quello che marcia bene»: massima esaltazione del ruolo del movimento che anche Federico teneva in grande considerazione, ma non fino al punto di preferire i buoni marciatori ai buoni combattenti. Critica ai procedimenti tattici di Federico (l'ordine obliquo), ai quali Napoleone sostituisce l'esaltazione dell'importanza delle riserve di fanteria, cavalleria e artiglieria, tenendo però presente che «i generali che conservano delle truppe fresche all'indomani di una battaglia sono quasi sempre battuti. Si
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deve, invece, far dare fino all'ultimo uomo che resti; perché l'indomani di un successo completo non vi sono più ostacoli dinanzi a noi». Infine la non convenienza di attendare le truppe, perché «le tende, in genere, non sono molto sane; è preferibile che il soldato dorma all'addiaccio». V'è da chiedersi: per ragioni igieniche, o per essere più pronto - sia pure a prezzo di disagi immaginabili nel freddo clima del Nord Europa - alla battaglia o al movimento dell'indomani? Federico, alla fin fine, ha chiesto molto di meno di Napoleone non solo a11e sue truppe, ma al suo Paese; e la sua strategia non è mai andata contro - almeno nena misura di quella di Napoleone - alla stessa disciplina dell'esercito, e al benessere dei sudditi. Sono queste preoccupazioni specifiche che spingono il Re di Prussia, come si è visto, a ricercare la guerra breve e solo ciò che può ottenerla, la battaglia decisiva. La più spiccata esaltazione della figura del Capo da parte di Napoleone presuppone una diversa valutazione e un diverso ruolo della qualità. Come ben mette in evidenza il Bastico, lo strumento del quale dispone Napoleone - a cominciare dai generali in sottordine - è sempre molto numeroso, ma di qualità non eccelsa, e anzi non di rado cattiva: è l'uomo, il genio, è quell'uomo insomma che rimedia a tutto. Nella strategia federiciana, invece, carattere e personalità del capo e qualità delle truppe - sempre ricercata - si fondono armonicamente e danno origine a un processo di scambio: è noto che Federico, ancor giovane e inesperto, eredita dal padre un perfetto strumento di guerra. Possiamo individuare in queste differenze tra i capi e gli strumenti e tra i loro rapporti, le radici di un'impostazione tradizionale che ancor oggi si fa sentire: quella prussiana, dove la qualità dello strumento è sempre tendenzialmente prevalente su11a quantità, e si affianca all'elevata qualità della leadership o meglio con essa armonicamente si fonde; quella francese - e se vogliamo, latina e italiana - dove prevale la quantità, dove vi sono sbalzi vistosi di rendimento legati agli sbalzi di entusiasmo e motivazione delle truppe più che alla loro disciplina, e dove è sempre e solo l'uomo che - quando c'è - rimedia alle frequenti carenze qualitative e organizzative. I rapporti tra Napoleone e Federico Il e tra Napoleone e la Rivoluzione non sono stati ben chiariti dalla pubblicistica disponibile, che troppo spesso tende ad accentuare acriticamente il carattere rivoluzionario e la novità apparente della strategia Napoleonica, o addirittura si attarda come fa anche il Bastico 34 - a descrivere gli schemi di manovra napoleonici (manovra sul tergo, da posizione centrale ecc. ecc.), spesso di-
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E. Baslico, Op. cit., Vol. I, pp. 136-153.
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menticando che si tratta di modalità irripetibili, perché legate a un basso rapporto spazio/forze e a situazioni contingenti, con successi resi possibili dall'altrettanto irripetibile coup d'oeil del Capo. Un Capo che ha visto così lontano rispetto ai generali suoi avversari, da far giudicare a quest'ultimi come violazioni delle regole e dei principi dell'arte della guerra le sue manovre. Quest'ultime, se mai, al di là delle apparenze ne erano un'istintiva, immediata e geniale applicazione a una realtà che Napoleone - e solo lui - aveva saputo intuire in precedenza. Coloro che meglio di tanti altri hanno «capito» Napoleone, ci sembrano due non recenti autori italiani. Uno è il Cantù, che sa ben vedere la differenza tra genio irripetibile (quindi, temporaneo e caduco) e rivoluzione, dagli effetti permanenti nell'arte della guerra (rivoluzione che alla fin fine non c'è): furono studiate a minuto le battaglie di Napoleone, quasi per istrappargli il segreto della vittoria: ma, come nei capolavori artistici, si conchiude che per prima cosa vuolsi il genio. Egli vedea tutto da sé, imparava ben bene il terreno e tutte le posizioni e le probabilità, dava gli ordini [...]. Gli ordini dava e i ragguagli riceveva con imperturbabile freddezza, sempre riservando a sé il pensiero, né agli altri lasciando che la materiale esecuzione[ ... ]. Il maresciallo di Sassonia riponea la vittoria nelle gambe, Pederico Il nei fuochi; Napoleone unì l'uno e l'altro; volendo che quelle preparassero, questi procurassero la vittoria. Che se è anche vero che Napoleone non inventò nulla, nessuno meglio di lui intese gli ordinamenti introdotti da Federico II, e se ne valse sopra scala di ben maggiore estensione. 35
Genio di esecuzione, quindi: la rivoluzione nell'arte de11a guerra è un'altra cosa, né si capisce perché, contraddittoriamente, Peter Paret parli di «Napoleone e la rivoluzione dell'arte della guerra», affermando che «egli riflette la rivoluzione della guerra con la sua miscela di innovazione e continuità» e pur ammettendo che «la sua strategia - in certo senso - doveva molto ad altri» 36 . Se è cosl, e se rivoluzione è rottura netta e irreversibile con il passato alle onerose condizioni che già abbiamo delineato nell'Introduzione, quale rivoluzione può segnare una strategia nella quale si trova «una miscela di innovazione e continuità», il cui artefice deve pur sempre molto ad altri nei principi ispiratori, facendo emergere il genio solo nella fase di applicazione? 35 36
C. Cantù, Antologia Militare, Savona, Tip. ree!. Mil. 1870, Parte Il, pp. 59-61 . AA.VV., Guerra e strategia nell'età ... (cit.), p. 43, 47 e 60.
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Il ruolo di Napoleone non come artefice di una rivoluzione militare, ma come uomo di Stato e di guerra che sa sfruttare e completare al meglio - nella prassi quotidiana - gli effetti di una rivoluzione politico-sociale, è invece correttamente inteso ai primi del 900 da Enrico Barone. Dopo aver delineato le ben note caratteristiche operative e logistiche delle «guerre di Gabinetto» della prima metà del secolo XVIII, il Barone ben coglie il significato dell'opera di Federico II: nella seconda metà del secolo XVIII compare Federico, il quale fa molto per spastogliarsi da quella condotta di guerra. Ma non può oltre un certo segno, perché non sono ancora sostanzialmente cambiate le condizioni politico-sociali in cui essa ha le sue radici [... ]. La verità è che Federico II fece molto nell'ambito delle condizioni politiche e sociali, che non era in poter suo di cambiare; e per quanto potere fosse nell'opera dell'uomo, furono codeste condizioni, come sempre avviene, che impressero i più salienti caratteri all'età che fu sua.37
Dal punto di vista militare, dunque, Federico dà il nome e l'impronta a un secolo, che nel suo complesso non va affatto letto in modo piatto: le «guerre di Gabinetto» caratterizzano semmai la prima metà del secolo XVIII, prima di Federico. Di più: gli affezionati al termine «rivoluzione» dovrebbero considerare che - da un punto di vista strategico - più che alla Rivoluzione Francese e a Napoleone, il termine «rivoluzione» si addice all'età federiciana. Rivoluzione limitata, circoscritta, tecnica, certo; forse non una rivoluzione, ma certamente qualcosa che si avvicina alla rivoluzione più di quella napoleonica. Una netta rottura con il passato vi avviene non solo dal punto di vista strategico, tattico e dei materiali, nei quali spicca il salto di qualità nel movimento dell'artiglieria e degli organi logistici: ma anche dal punto di vista organico. La divisione, potente strumento organico di base di Napoleone e innovazione tale da facilitare di per sé la manovra su ampi spazi, nasce nella prima metà del secolo XVIll. In origine, il termine «divisione» indica semplicemente una suddivisione interna (dell'esercito, e più di frequente dei reggimenti, dei battaglioni e persino delle compagnie). Come tale, anche nel secolo XIX e dopo le guerre napoleoniche la «divisione» indica unità dell'artiglieria, del treno e organi logistici (ad esempio: divisione del treno, che è un'unità a livello compagnia; divisione d'ambulanza). Federico non la conosce ancora, forse perché in un esercito ancor relativamente piccolo 37 E. Barone,/ grandi capitanifirw alla Rivoluzione Francese (in E. Canevari - G. Prezzolini. Op. cit.. Voi. I, pp. 287-288).
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è meno indispensabile. Come ricorda il Bastico, essa assume solo gradualmente una fisionomia organica fissa e permanente: la «divisione» trae la sua prima origine dall'impiego di speciali distaccamenti fissi (teste di armata) usati quali nuclei di copertura degli eserciti operanti: il maresciallo di Sassonia (1669-1750) fu il primo che diede ad essa una costituzione organica, ma più che altro ciò fece per rendere più spedita ed agevole la marcia delle grandi colonne e la divisione ebbe quindi carattere temporaneo_ Il principio divisionario fu definitivamente adottato nel 1759 dal maresciallo Vittorio Francesco Duca di Broglie (1718-1804) e la divisione da unità logistica divenne unità permanente tattica.38
A questa notevole innovazione organica, derivante da esigenze puramente tecniche e interne, dal 1789 in poi se ne aggiunge un'altra che, per la sua portata, è l'unica ad avvicinarsi a una rivoluzione (e che Napoleone non fa che magistralmente sfruttare). Anche qui il Barone riassume magistralmente ciò che avviene: perché fosse possibile la trasformazione dai metodi federiciani a quelli napoleonici, cosl nel tempo delle istituzioni militari, come nel campo <ldl'impiego <legli eserciti, era necessario che fossero profondamente trasformale quelle condizioni sociali e politiche, che degli istituti militari e della condotta della guerra sono le vere e più profonde ragioni. E questo fece la rivoluzione francese. Nel campo sociale, alle nuove concessioni fatte alla gran massa della popolazione - concessioni, di cui anima, come prima spinta almeno, era stata la borghesia, che le aveva strappate alla nobiltà ed al clero - andarono compagni nuovi obblighi, e nacque la coscrizione; e con questa il materiale uomini, mi sia concessa la frase, potè essere impiegato nella guerra con ben più grande prodigalità che non potesse fare Federico. Con l'irrompere delle masse popolari nel governo della cosa pubblica, la guerra potè fare assegnamento su più grandi risorse. Un notevole cangiamento avvenne non soltanto nelle istituzioni militari, ma anche nella condotta della guerra. Cambiamenti che mal si spiegano, quando non si risalga alle ragioni prime che li determinarono, mentre tutto diventa semplice e logico e chiaro quando da quelJe più recondite cause si prendano le mosse. Giunto al termine di questa mia prolusione, un'avvertenz.a credo necessario di darvi. Ciò che di peggio possa capitare al maestro, è 38
E. Bastico, Op. cit.. Voi. I, p. I 10. .
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di avere discepoli che ne esagerino il pensiero; e non vorrei che il mio pensiero fosse portato da voi all'esagerazione. Ed esagerazione; senza dubbio, affatto opposta agli intendimenti miei ed alle convinzioni, sarebbe se voi, malamente interpretando le dottrine in questa prolusione abbozzate più che svolte, vi faceste indurre a negare importanza alle personalità storiche ed all'opera loro. Ben so che anche nel campo delle indagini storiche, il determinismo è portato da alcune scuole alle più strane ed avventate conclusioni. La gran massa degli uomini subisce gli influssi dell'ambiente; ma per fortuna, ve ne sono stati e ve ne sono in tutti i tempi, i quali, con più o meno energia, contro l'ambiente reagiscono e lo sanno foggiare secondo i loro fini. Costoro - codesti privilegiati - la fanno la storia: e sarebbe un travisare del tutto la realtà, se dell'azione di codesti uomini e delle qu/tlità loro nelle vicende storiche non si tenesse il dovuto conto. Sarebbe, per esempio, travisato del tutto il mio pensiero, se da ciò che ho detto sulle cause politico-sociali determinanti la condotta di guerra ai tempi di Federico e di Napoleone, voi, facendo astrazione dal differente carattere dei due uomini e dell'azione loro, credereste che Napoleone, messo nelle condizioni di Federico, avrebbe fatto precisamente ciò che Federico fece, ovvero che a quest'ultimo sarebbe bastato di nascere mezzo secolo più tardi, perché l'arte sua di guerra assumesse senz'altro i caratteri di quella napoleonica. 39
Napoleone è stato fuor di ogni dubbio un «facitore di sloria»: ma ciò non significa che abbia rivoluzionato l'arte militare. La sua non è stata una rivoluzione. e forse nemmeno un'evoluzione: perché non sono rari i periodi della storia nei quali la guerra decisiva e tendente all'assoluto di Napoleone è resa dalla politica - a seconda delle circostanze - impossibj]e, indesiderata o al contrario, possibile. Quella di Napoleone non va quindi considerata arte della guerra giunta al suo culmine: ma, semplicemente, arte della guerra tipica di un'epoca e di un uomo di genio che apre la porta ai più estremi traguardi. Visti i suoi successi rapidi e definitivi, è spiegabile che la figura di Napoleone e le sue gesta abbiano influenzato, per secoli, generazioni di militari (e di politici, che spesso hanno chiesto impossibili guerre napoleoniche ai generali). Una sorta di calamita deformante che induce a copiare anziché riflettere, e che è l'ostacolo più severo per studiarne bene l'opera, perché - come osserva Peter Paret - «la grande maggioranza dei militari che studiarono le sue campagne, le guardarono come il culmine della guerra moderna, tentarono di scoprire i segreti del pensiero strategico e delle tecniche operative 39
E. Barone, Op. cit., pp. 288-289.
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dell'imperatore per prepararsi alle guerre future, piuttosto che comprendere cosa egli aveva fatto». Ma ciò che egli aveva fatto - e ancor più ciò che non aveva potuto fare - risalta esaminando la contrapposta strategia di logoramento, ritardatrice e contro-offensiva, del suo maggiore avversario, Wellington. Strategia alla fin fine vincente, per cui si può riferire ancor prima che alla Germania del XX secolo - a1la Francia del I 7891815, il vecchio detto che vinceva brillantemente (almeno in campo terrestre) tutte le battaglie, ma perdeva la guerra ... Ennesima trappola nella quale si può cadere sopravvalutando 1'exemplum historicum e, insieme, ennesima dimostrazione dell'improponibilità di culti dogmatici nell'arte militare; tutto questo invita a riconsiderare meglio i parametri di giudizio. Napoleone, come si è visto, ha scritto che «non vi sono che due sorta di piani di campagna: i buoni ed i cattivi. I buoni non riescono, quasi sempre, per circostanze impreviste che fanno, spesso, riuscire i cattivi» e che «è il risultato che conta: le migliori truppe sono quelle che vincono le battaglie». Utilizzando questi concetti - più profondi di quanto possa sembrare - nella definizione dei pardilletri di giudizio per la slralegia, si può dire che non esistono strategie sublimi, ottime, buone e cattive, vincenti o perdenti, audaci o prudenti, progressiste o conservatrici, offensive o meno: esistono solo strategie capaci di raggiungere economicamente l'obiettivo di volta in volta indicato, e altre che questo non lo consentono: magari solo per colpa dell'obiettivo mal scelto o mal indicato e non della strategia in sé, e nemmeno di chi la deve attuare.
La parola strategia a fine sec. XVIII: nuovi significati, origini lontane e vicine e significato originario
Abbiamo già visto perché e come, dopo il 1789, è prevalso naturalmente, nella realtà quotidiana, un nuovo concetto «istintivo», reale, pratico e non ancora teorico di strategia, non ancora intesa come tale. Per ben individuare l'origine dalla parola strategia, bisogna dunque saper distinguere, in via preliminare, tra strategia come pratica reale a prescindere dalla sua denominazione, e invece strategia come parte riconosciuta dell'arte militare e come termine scritto, dibattuto, studiato in quanto tale e con un ben preciso significato teorico. Vi è anche differenza tra strategia come azione (impiego effettivo di forze) e strategia come pura teoria, scienza o conoscenza (quindi non come azione o impiego operativo delle unità, ma come semplice pensiero, come preparazione all'azione, come sua pianificazione oppure come disciplina scientifica vera e propria, basata su regole e principi).
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Si è già visto che fin dall'antichità classica viene usato il termine arte militare o arte della guerra, forse con preferenza per quest'ultimo almeno presso i greci (nel dizionario Bonazzi si trova che Euripide usa il termine ték:ne doros, arte della guerra nel quale tékne, oltre che arte, può significare abilità, perizia, astuzia, artifizio, cognizione). Si è visto anche che il padre più attendibile della strategia militare contemporanea (da non confondere con il creatore del termine strategia) è a parer nostro, Lazzaro Carnot a fine secolo XVID. La teoria e la dottrina strategica intese essenzialmente come coordinamento verso un unico scopo di sforzi di diverse Grandi Unità complesse sono, cioè, figlie della Rivoluzione Francese. Nascono solo in quanto tali, come concetti scritti e riportati in documenti storici quali quello che noi abbiamo citato. Altra cosa è la prassi strategica: questa, in terra e in mare, esiste fin dai tempi antichi. Basti ricordare ancora che l'inglese B.H. Liddell Hart (nessun francese avrebbe potuto fare altrettanto) ha visto in Scipione l'Africano l'apostolo della «strategia indiretta» (cioè della strategia antinapolconica che sa prescindere dalla debellatio nemico e fa leva soprattutto su fattori morali e psicologici per fiaccarne la resistenza) e gli ha dedicato un libro nel quale lo definisce «un uomo più grande di Napoleone», tra l'altro con una visione meno «terrestre» di quella napoleonica.40 Per altra via, anche questo fatto dimostra che la qualità o meno di una strategia non è data dalle sue contiguità o meno con quella napoleonica. Ma anche se Napoleone non si è mai preoccupato di inquadrare teoricamente il concetto di strategia, gran parte della storia deJla strategia è contenuta nella storia e nell'etimo della parola che la esprime. Anche in questo campo non si contano le interpretazioni capziose, abboracciate, approssimate e inesatte. Oggi le versioni più accreditate concordano sull'origine greca della parola, secondo tre diverse opzioni indicate dal già citato capitano del genio napoletano Francesco Sponzilli nel 1837: 1° Strategia può derivare dalla voce greca strategos. generale di esercito (...) 2° Strategia spiegavasi dà greci per provincia ove uno stratego avea comando (... ) Di più, nel Dizionario di sette lingue trovasi Strategia, Locus uhi strategus jurisdizionem habet. E d'altronde strategia quando considerar si potesse composto dalle due voci greche stratos (esercito) e gia (terra), sempre meglio sarebbe definita per terreno dello stratègo, o Paese dove si/a la guerra. 3°
40 Cfr. B.H. Liddell Hart, Un uonw più grande di Napoleone - Scipione l'Africano, Roma, SME - Uf. Storico 1975.
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Finalmente, strategia considerata venir dalle due voci stratos e ago (conduco, dirigo) dovrassi spiegare la maniera di dirigere lo esercito laddove si crede di utilità. 41
Molto acutamente lo Sponzilli osserva che «lo aver tolto in mira isolatamente qualcuno dei tre indicati modi di spiegar la parola ha indotto la cosa in una stranissima confusione, per la quale si è troppo di leggieri creduto non essere possibile assegnare la vera definizione della strategia, e quindi prescrivere i limiti nei quali andar deve ristretta». 42 La confusione, con il connesso conio delle più disparate definizioni, continua tuttora: inconveniente in larga misura inevitabile, perché il modo di concepire la strategia dipende dal modo di concepire il binomio guerra/pace, che a sua volta dipende dagli idola del tempo, e persino da esigenze propagandistiche e d'immagine di autori, editori o Istituzioni. Se è certa l'origine greca della parola, è anche molto probabile che i tre possibili significati citati, siano stati attribuiti in varie epoche. Ci aiuta a pervenire a questa conclusione il Grassi, il quale alla voce strategia afferma, tra l'altro, che «nella antica milizia greca, ai tempi d'Eliano, chiamavasi pure col nome di Strategia una Divisione della falange di quattromila novantasei uomini, altrimenti detta Falangarchia».43 Nella celebre traduzione di Eliano fatta da Lelio Carani nel 155244 si trova che negli antichi ordinamenti greci il comandante di un'unità militare prendeva il nome da que11o de11'unità stessa (e non viceversa, come risulta dagli etimi citati). IJ nome di quest'ultima, poi, in senso traslato oltre al comandante indicava l'insegna dell'unità e finiva con l'indicare anche l'azione di combattimento svolta da questa ultima. Classico l'esempio di battaglia, che negli antichi ordinamenti greci era una formazione di 4096 uomini e 256 file altrimenti chiamata phalangarchia, e retta da un falangarca, a sua volta composta da due colonnelli doppi (o merarchie) di 2048 uomini al comando di un merarca (di qui anche l'origine della parola colonnello, in origine comandante del colonnello di 500 uomini). TI Grassi osserva, a proposito di battaglia, che «ogni corpo di soldati, ed ogni compagnia venne pur chiamato Battaglia, onde venne poi l'accrescitivo battaglione» e cita espressioni del 41
F. Sponzilli, Sunto di alquante lezioni o sia prospetto di un corso di strategia, Napoli, Real Tipografia della Guerra 1837, p. 2. 42
43
ivi.
G. Grassi, Op. cit., p. 439. Cfr. Eliano, Dè nomi e degli ordini militari (tradotto dal greco per M. Lelio Carani), Fiorenza, L. Torrentino 1552. (volume unico insieme con Polibio, Del modo d'accompare, tradotto dal greco per M. Philippo Strozzi). 44
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Davila, de] Guicciardinj ecc. dove con il termine battaglie si indicano appunto suddivisioni dell'esercito o di sue unità organiche. Ciò premesso, Eliano dopo aver indicato la composizione della phalangarchia scrive che «nondimeno vi sono alcuni che domandano quest'ordine Stratigia (cioè la condotta d'una battaglia) e perciò il suo principe stratego (condottiere d'una battaglia). In questo modo le due semplici battaglie fanno la diphalangarchia cioè (la battaglia doppia), che di necessità abbraccia 8192 uomini ... ». In sostanza, il termine strategia in origine indica una parte importante - equivalente a una divisione di oggi - dell'esercito greco. In senso traslato, indica anche l'azione di combattimento di tale unità; per ultimo, da strategia prende i1 nome - come allora d'uso - anche colui che la dirige, cioè lo stratego. L'evoluzione del termine e dei suoi derivati è, in fondo, più razionale e logica di quanto possa sembrare a prima vista: dalla denominazione di un reparto, di una suddivisione dell'esercito si passa a indicare anche l'azione tipica che un reparto svolge (può essere vero anche il contrario, che cioè dalla funzione si passa all'organo) e poi - per derivazione - anche chi (come lo stratego) dirige l'azione, quindi gestisce, comanda il reparto. Tutto il resto viene dopo: con l'estensione degli spazi e degli Stati, strategia indica non solo l'esercito o una sua parte importante, ma anche il territorio ove esso agisce. Quindi anche il territorio che controlla, perché l'autorità di capo politico - là ove egli la assume - deriva allo stratego dalla sua qualità di capo militare, non viceversa. Quanto abbiamo detto di Eliano - scrittore romano eclettico, ottimo conoscitore del greco, vissuto tra il 170 e il 235 d.C. - non deve farlo ritenere il padre della strategia teorica. Secondo il generale Mordacq (La stratégie, 1912, p. 23) la prima opera conosciuta dove si fa il nome di strategia è lo Strategicos 16gos di Onosandro, scritta a Roma nel 50 a.e. e dedicata dall'autore al console Veranio; in questo libro però, a dispetto del titolo, non si approfondiscono i contenuti e i significati del termine ma si parla soprattutto di tattica. In conclusione, presso i greci la strategia: a) era cosa che riguardava solo il generale in capo, e/o il capo politico e militare; b) era arte - più che mestiere - e come tale richiedeva particolari doti di abilità, perizia e astuzia, come del resto dimostrano le guerre condotte dagli stessi greci; c) il significato di terreno (o dominio) dello stratego, o Paese dove si fa la guerra è chiaramente traslato, ché non vi è dubbio che si trattava, prima di tutto, di conquistare queJ terreno, cioè del problema della condotta in guerra di un dato reparto, come attesta anche Eliano; d) di conseguenza, all'inizio la strategia era anzitutto azione, gestione, condotta (e non progetto o piano). Se ne deduce che gli etimi citati dallo Sponzilli non rispecchiano
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appieno il nesso originario chiaramente esistente tra unità organica/modo di combattere o sua azione/comandante, nesso ancor oggi rispecchiato da parole come colonnello, aggettivi come colonnella o capitana, sostantivi come Capitanata ecc. Una seconda deduzione è che, comunque sia, la parola strategia ha in origine dimensioni essenzialmente militari e operative. Essa denota azione e al tempo stesso, attività di direzione dell'azione stessa. Infine, essa presuppone l'impiego di aliquote importanti de11'esercito. Deduzione solo apparentemente elementare: perché, come meglio vedremo in seguito, concepire la strategia come azione, anziché come progetto o piano o speculazione teorica o pura scienza o conoscenza, non è cosa affatto scontata. Più accettata, invece, l'attività di coordinamento di parti importanti dell'esercito in vista di un obiettivo comune, ben presente ad esempio negli scritti di Carnot prima citati. Tutto questo ci dice anche che - come spesso accade - una parola (militare e non) muta di significato a seconda dei tempi, delle circostanze e delle esigenze. Anche la lingua militare, come tutte le lingue, si evolve sia incorporando nuove parole per far fronte a nuove esigenze, sia arricchendo di nuovi significati una vecchia parola o lasciandone cadere in disuso altre. In tal modo, il linguaggio può diventare facilmente impreciso e ambiguo o prestarsi a interpretazioni arbitrarie e strumentali, anche perché vi si sovrappongono spesso vecchi e nuovi significati delle parole, senza una netta delimitazione. La parola strategia, ignorata dall'Enciclopedia francese, viene riscoperta e introdotta nell'arte e nella teoria della guerra, sotto la spinta della necessità, a fine secolo XVTTJ. Ma l'introduzione o meglio reintroduzione è graduale, non improvvisa: troviamo per la prima volta tale termine nel Cours de tactique theorique, pratique, et historique ( 1766) del tenente colonne11o di fanteria francese Joly de Maizeroy, il quale ne sintetizza così contenuti, significato e collocazione nell'ambito dell'arte militare e in relazione al fenomeno guerra: lo scopo del ricorso alle armi è la vittoria; per giungervi si mettono insieme delle truppe, si fanno dei progetti, e si procurano dei mezzi per eseguirli. Questi mezzi si deducono dal confronto delle forze e da molteplici combinazioni di fattori fisici, politici e morali. Di modo che fare la guerra significa riflettere; mettere insieme delle idee, prevedere, ragionare profondamente, impiegare dei mezzi; di questi mezzi gli uni sono diretti, gli altri indiretti; questi ultimi sono in così gran numero, da riguardare pressoché tutte le conoscenze umane. Essi servono d'aiuto e da guida ai primi che sono le truppe, le armi e le macchine. 1 mezzi diretti devono essere stabiliti sulla base di rapporti di causa ed effetto, su calcoli di movimento, di
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forza e di resistenza, i cui risultati definiscono le più giuste proporzioni e la migliore forma possibile. La condotta della guerra è la scienza del generale, che i Greci nominano strategia, scienza profonda, vasta e sublime, che ne comprende diverse altre, ma la cui base fondamentale è la tattica [... ]. La tattica, in due parole, è per il generale ciò che è lo strumento per il musicista L...J La tattica si divide in elementare e in grande tattica. La tattica elementare ha per oggetto la composizione, la formazione di una truppa di fanteria o di cavalleria, sia pesante che leggera, il suo vestiario ed equipaggiamento, le sue armi, le sue divisioni, il suo addestramento e i suoi movimenti. La riunione di parecchie di queste truppe, forma un grande corpo denominato armata. L'arte di disporle per accamparsi, per marciare, per combattere, per muoversi e agire di concerto onde ottenere un qualsivoglia scopo, costituisce la grande tattica. 45
Per i1 Maizeroy, dunque, mentre la strategia serve a concepire e pianificare la condotta della guerra, la tattica (o grande tattica) serve a realizzare concretamente i disegni de11a strategia: la differenza non è riferita ai livelli di unità e di comando, ma semplicemente al momento del pen-
siero o concezione o progetto, e alle modalità per la sua realizzazione. In tal modo, si configura una strategia che ha il carattere prevalente di studio, conoscenza o scienza, e una tattica che è invece più arte che scien-
za. Infatti la scienza delle armi comprende un gran numero di parti i cui principi possono essere fissi e ben definiti; ma, nella pratica, la forma delle operazioni varia all'infinito, perché essa dipende dai luoghi e dalle circostanze, che non sono mai perfettamente simili; ciò avviene perché occorre un giusto discernimento per applicare a ragion veduta i principi, e ben adottare gli esempi.46
4 5 J. de Maizeroy (ten.col.), Cours de tactique theorique, pratique et historique qui applique les exemples aux precépts, développe les maximes de.s plus abiles Generaux, et rapporte les faits les plus interessants et les plus utiles, avec la descrition de plu.sieur.s batailles anciennes - Tome second, Paris, Chez C.A. Jombert, 1766 (mai tradotto in italiano). Dobbiamo, perciò, modificare quanto riportato in altra nostra opera (F. Botti - V. Ilari, Il pensiero militare italiano tra il primo e il secondo dopoguerra, Roma - SME Uf. Storico 1985, pp. 284-285) affermando che la voce stratégique compare nel 1771 anziché nel 1766, sempre ad opera del Maizeroy. Quest'ultimo, invece, usa già la voce stratégie, mentre l'inesatta indicazione della data va attribuita alle diverse edizioni dell'opera. 46 ivi, p. 113.
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Maizeroy stabilisce una gerarchia: prima il pensiero o progetto, cioè la strategia, e poi la sua esecuzione, cioè la tattica. Un'altra linea di tendenza, che poi ha vasto influsso anche nel secolo XIX, é quella di chiamare tattica (o grande tattica) anche ciò che dal Maizeroy, da tanti altri dopo di lui e infine da noi oggi, viene definito strategia. Ne è iniziatore e portatore il conte Jacques De Guibert con il suo Essai Général de Tactique (1 a Ed. 1770 - Chaliand o 1772 - Corvisier?), nel quale - dopo aver ampiamente esaminato, precorrendo Clausewitz, .il rapporto tra politica, guerra e istituzioni militari - definisce così la tattica: agli occhi della maggior parte dei militari, la tattica non è che una branca della guerra: nondimeno, essa è la base di questa scienza, essa è questa scienza stessa; poiché essa insegna a costituire le truppe, ordinarle, muoverle e farle combattere; essa è la risorsa dei piccoli eserciti, come di queJli numerosi; poiché essa sola può supplire al numero, e governare la moltitudine; essa abbraccia infine la conoscenza degli uomini, delle armi, del terreno, delle circostanze; poiché sono tutte queste conoscenze riunite che devono determinare i suoi movimenti. Bisogna dividere la tattica in due parti: l'una elementare e limitata, l'altra composita e sublime. La prima si occupa di tutti i dettagli della formazione, dell'istruzione e dell'addestramento di un battaglione, d'uno squadrone, d'un reggimento [...], la seconda parte è propriamente la scienza dei generali. Essa abbraccia tutte le grandi parti della guerra, come movimento degli eserciti, ordini di marcia, ordini di battaglia; essa si identifica e attiene alla scienza della scelta delle posizioni e della conoscenza del Paese, perché queste due branche non hanno come scopo che quello di definire con maggior sicurezza la disposizione delle truppe; essa attiene alla scienza delle fortificazioni l... ] essa attiene all'artiglieria [... ]. Essa è tutto, in una parola, perché è l'arte di far agire le truppe, e perciò tutte le altre parti non sono che delle cose secondarie, che, senza di essa, non avrebbero alcun obiettivo, e produrrebbero solo impaccio alla manovra.47
Da sempre il movimento è l'essenza della strategia: questo vale anche per la grande tattica del Guibert, nella quale le marce diventano una delle parti più grandi e importanti della scienza militare 1... 1. Man mano che la scienza della guerra si perfeziona e gli eserciti sono di conseguenza comandati da generali più abili, diventa più importante ben combinare e dirigere le marce, che sono
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J. Guibert, Op. cit., Tomo I, p. 60.
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sempre più frequenti e più decisive. Esse diventano più decisive, nella misura in cui hanno un obiettivo, vicino o lontano ...48
In Italia il primo scrittore a usare il termine strategica (stratégique) è il Marchese piemontese de Silva (non de Sylva) con il suo libro Pen-
sées sur la tactique, et la stratégique on vrais principes de la science militaire (Torino, Stamp. Reale 1778). La sua definizione di strategia ricalca quella del Maizeroy: «è propriamente la scienza del generale. Essa insegna a compilare i progetti delle operazioni, e a ben impiegare e combinare tutti i mezzi che le forniscono i differenti rami della tattica». Quest'ultima si suddivide in tattica elementare (il cui scopo è di «far manovrare un battaglione o un reggimento in tutte le circostanze della guerra con ordine, semplicità e solidità, e con il massimo dell'impulso e della celerità») e grande tattica (il cui scopo è di «far manovrare un'armata o un corpo d'armata - corps d'armée - in tutte le circostanze e combinazioni offensive e difensive, con tutti i vantaggi indicati dalla tattica»). Oltre al marchese de Silva anche l'abate Gaspare Morardo, Regio Professore di filosofia delle Scuole Pie, nel suo Trattato La filosofia militare del 1785 (per inciso, a quanto ci risulta il primo ad usare un siffatto termine), parla di strategica come branca dell'arte della guerra o «scienze di Marte»: io dirò ch'è già quel savio Uffiziale, a cui sempre vedo fra nuovi geometri, disegnatori, architetti, autori di tattica, di strategica, di balistica, di Storia, e tant'altri libri, che l'arte insegnano della guerra [ ... ]. Rispetto agli scrittori di Tattica, e Strategica, quale autore potran mai recare i Francesi, superiore e in tempo, e in dottrina ai nostri Italiani? ....[si riferisce al secolo XVII - N.d.a.]».49
Sia il de Silva che il Morardo usano la voce strategica anziché strategia; si tratta di un'espressione certamente non derivata dagli scritti del Maizeroy, ma da altri autori coevi oppure dall'antichità classica, dove già si conosceva l'aggettivo strategiké (con sottintesa tékne nel significato primario di arte, perché al generale poco si addiceva quello di mestiere). In conclusione, in Italia e Francia ancor prima della Rivoluzione Francese almeno tra i dotti si usa sia il termine strategia (stratégie) che strategica (stratégique). Stratégique - così come tactique, logistique, or-
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ivi, Tomo Il, p. 3. La filosofia militare di don Gaspare Morardo delle Scuole Pie-Regio professore di.filosofia, Torino, presso B. Tonso 1785, Tomo I, pp. 57-58. 49
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ganique - è con ogni probabilità un aggettivo derivato da strategie, che sottintende arte, branca o disciplina come parte di un tutto, della res militaris. Diciamo arte e non scienza: perché il significato primario di tékne non è scienza, conoscenza teorica, ma porta in sé la radice dell'azione, de11a creazione. Successivamente, l'aggettivo strategica è ritornato ad essere - com'era del resto in origine - anche un sostantivo che come la tattica - da taxis, tasso (ordine, disposizione e ordino, dispongo) - significa concreto esercizio dell'arte stessa, quindi «arte del Capo, del generale», così come sembra intenderla il Morardo. Né si può dire che strategica sia un termine antiquato, usato a fine secolo XVIII e poi caduto in disuso: nel Manualetto di organica militare per gli allievi ufficiali di complemento del tenente dott. Francesco Sonetti, edito a Verona nel 1928, l'arte militare è suddivisa in quattro branche (organica, tattica, logistica e strategica), con l'organica che prevede funzioni relative al materiale oggi considerate di interesse logistico.
Conclusione
L'ambiguità e ambivalenza non solo del termine strategia, ma anche dei significati di termini come guerra e arte militare esce senza dubbio confermata dall'analisi condotta. Per i vari autori italiani e stranieri che esamineremo, valgono perciò queste considerazioni di Liddell Hart: dalla tattica noi passiamo alla strategia, e qui una preliminare demarcazione e definizione può semplificare il compito di formulare un giudizio. La strategia, troppo di frequente viene considerata come comprendente unicamente fattori militari, senza alcuna considerazione dei fattori di carattere politico ed economico, coi quali essa è intimamente collegata. Questa concezione errata è stata indubbiamente di gravissimo danno agli interessi delle nazioni belligeranti. Quando tali critici parlano di strategia, essi pensano quasi unicamente alla strategia logistica; combinazione nel tempo, nello spazio e nella forza delle pedine militari sulla scacchiera della guerra. Fra la strategia logistica e il giuoco degli scacchi esiste una chiara analogia. Però, in un piano più alto e con uno scopo più ampio, vi è la grande strategia, che è stata definita come «la trasmissione della potenza in tutte le sue forme, per sostenere la politica». «Mentre la strategia è maggiormente interessata a quanto concerne il movimento delle masse armate, la grande strategia, pur comprendendo questi movimenti, abbraccia altresì quegli altri fattori di carattere materiale e psicologico che dietro questi movimenti si nascondono.... il grande stratega è quindi anche un politico ed un di-
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plomatico». Come stratega logistico Napoleone non ha rivali nella storia, ad eccezione forse del mongolo Subutai, per quanto noi possiamo giudicare degli scarsi elementi che si hanno a disposizione per lo studio delle sue campagne. Gli antichi, in comune con i moderni precursori di Napoleone, ebbero a soffrire dello ostacolo, per il quale l'organizzazione degli eserciti in quei tempi non permetteva le molteplici combinazioni che Napoleone effettuò; ostacolo che esiste fino al sorgere, sul finire del secolo XVID, del sistema divisionale, che ha avuto inizio con De Broglie. Prima, noi troviamo dei distaccamenti di truppe, oppure, occasionalmente, come nella classica manovra di Nero al Metauro contro Asdrubale, la combinazione di due eserciti; però l'importanza e la varietà di tali combinazioni furono inevitabilmente limitate, fino a che gli eserciti non furono organizzati in parti autonome e strategicamente indipendenti - la moderna divisione ed il corpo d'armata - esattamente in tempo perché il genio di Napoleone sfruttasse queste nuove possibili là. Ma nell'ambito delle limitazioni inerenti ai tempi pre-napoleonici, Scipione sviluppò una serie di manovre strategiche che, lo si può giustamente asserire, non ha l'eguale nclJa storia del mondo antico.50
Quando si parla di pensiero strategico contemporaneo, non si può dunque tenere conto di parametri di riferimento generali che si trovano nella seconda metà del secolo XVIII e nei primi anni del secolo XIX e hanno valenza europea. Questa constatazione consente di rispondere a un legittimo interrogativo: stiamo parlando, o no, del pensiero militare e strategico italiano? Ci potrebbe essere imputato di aver prima parlato soprattutto di quello straniero, e in particolare di quello francese: ma questa operazione preliminare è inevitabile, per ricavare le reali coordinate del pensiero di ciascuno dei nostri autori. Quanto abbiamo esaminato in questo capitolo è ulteriore dimostrazione di un fatto che non ci stancheremo mai di ripetere: il legame di continuità - e non la cesura - tra pensiero strategico del XIX e XX secolo (ivi compresa l'età nucleare) e la costante contiguità tra le teorie che sorgono nei vari Paesi (preferiamo questo termine a quello di dipendenza, che già sottintende un apprezzamento non positivo del pensiero militare italiano al confronto con correnti e autore d'Oltralpe, francesi in particolar modo). Il problema non è quindi di demonizzare o bollare come segno di
50 B.H. Liddell Hart, Op. cit., pp. 180-181. Definendo Napoleone «grande stratega logistico», L.H. intende mettere l'accento sull'importanza basilare del rapido movimento nella sua strategia.
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scarsa originalità le analogie e le eventuali dipendenze. Più che altro, si tratta di tutte le conseguenze teoriche da uno stato di fatto. E non nascondiamo che ci ha spinti - anzi costretti - a seguire questa via, la constatazione che sugli effettivi contenuti strategici delle gesta di Federico II, degli eserciti della Rivoluzione Francese e di Napoleone, e sull'effettiva valenza dei loro interpreti nella prima metà del secolo XIX, circolano tuttora - e in gran copia - valutazioni inesatte. Prima di fare chiarezza nel pensiero militare ita] iano, prima di tentarne una sommaria sistemazione organica, è quindi indispensabile fare chiarezza in ciò che, a livello europeo, lo influenza e lo ispira: non vediamo altra via. Percorrendo questa via, noi constatiamo, fin dall'inizio, un fatto fondamentale: che la teoria strategica nata (o rinata) a fine secolo XVID è, per il momento, cosa che riguarda esclusivamente la guerra terrestre. Questa è una delle due ragioni per cui, nel titolo del libro, ci siamo permessa la licenza di distinguere tra pensiero «militare» e «navale»; la seconda è che - almeno in questo caso - abbiamo voluto sacrificare l'ortodossia lessicale della terminologia all'immediatezza e efficacia dell'espressione, tendente a mettere in rilievo sia l'accentuata separatezza dei due settori tipici del secolo XIX, sia la necessità di considerarli ambedue.
CAPITOLO II
IL BARONE JOMINI E L'ARCIDUCA CARLO, FONDATORI TRASCURATI DELLA STRATEGIA «GEOMETRICA» CONTEMPORANEA
Premessa Molti sembrano ignorare un fatto elementare: che non al solo CJausewitz o a qualsivoglia pensatore del secolo XIX o XX, ma al trinomio Jomini - Arciduca Carlo - Clausewitz occorre riferirsi, anche oggi, per stabilire credibili coordinate del pensiero strategico italiano o di qualsivoglia nazione, non esclusi Stati Uniti e Russia. Non sfuggono a questo percorso obbligato - anzi, sono i meno qualificati a sfuggire - autori di piena attualità come Mahan e Douhet. Seguendo i criteri già enunciati metteremo pertanto in luce - attraverso un confronto sommario ma tuttavia sufficiente per i fini che ci proponiamo - il diverso approccio dei tre autori e le differenze sostanziali tra il loro pensiero, differenze che finora non sono state ben messe a fuoco. La nostra non è una scelta: è piuttosto una necessità oggetti va, sempre mirante a stabilire in via preliminare come, quando e perché nasce il termine strategia e qual'è - nel periodo - il suo reale rapporto con Je altre branche e con l'arte della guerra in genere.
SEZIONE I - Il Barone Jomini: «grammatico di Napoleone» o antinapoleone?
La ridefinizione teorica della strategia e i meriti di ]omini
Nel capitolo I abbiamo già brevemente delineato le origini lontane e vicine del termine strategia e le ragioni della sua riscoperta a fine secolo xvm. Rimane ora da definire più in profondità quali sono i nuovi e diversi significati teorici che le vengono attribuiti e qual'è il suo ruolo nell'ambito dell'arte della guerra, secondo i più celebrati scrittori militari
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europei coevi o successivi alla Rivoluzione Francese e a Napoleone, comunque segnati sempre da quella esperienza storica. La compiuta definizione di un più spiccato e preciso ruolo e di un nuovo significato della strategia in armonia con l'esperienza storica delle guerre più recenti va collocata all'inizio del secolo XIX. Se ne attribuisce il merito, senza alcuna modestia e incertezza, il Barone Jomini. Nelle Considerazioni sulla teoria attuale della guerra e sulla sua utilità che precedono la sua opera principale, il Précis de l'art de la guerre (1837), 1 J. ricorda che prima delle sue opere non erano ancora disponibili dei libri che proclamassero l'esistenza di principi generali e ne fissassero l'applicazione per mezzo della strategia a tutte le combinazioni d'un teatro di guerra: «io ho detto che sono stato il primo a tentare questa dimostrazione, e che altri l'hanno perfezionata dieci anni dopo di me, senza tuttavia renderla ancora completa». 2 Chi, secondo Jomini, ha perfezionato la sua dimostrazione è stato l'austriaco Arciduca Carlo di Lorena, sui cui meriti egli si diffonde fino a indicarlo come suo comprimario (citando anche molti altri autori europei, tra i quali il nostro Blanch). E Clausewitz? Prenderemo in esame più tardi le critiche di J. al generale prussiano, non meno aspre e categoriche di quelle che a sua volta gli indirizza quest'ultimo. Intanto notiamo subito che J. trascura completamente l'apporto che alla nascita della nuova teoria strategica dà Clausewitz, il quale nella sua prima opera di rilievo, Strategia (1804) già indica molte delle fondamenta del Vom Kriege, e anticipa le idee che manifesterà nel celebre articolo di contestazione delle teoria «geometriche» del Btilow sulla Neue Bellona del 1805.3 Meriti, dunque, più che cospicui, ben maggiori - e cronologicamente anteriori - rispetto a quelli dell'Arciduca Carlo. Perché J. ignora gli studi iniziali di Clausewitz? ciò avviene perché quest'ultimo dissente da un concetto di arte della guerra ridotto a sistema compiuto di principi e regole, oppure per altre ragioni?
1
Cfr. Précis de l'art de la ~uerre ou nouveau tableau analytique des principales combinaisons de la stmtégie, de la grande tactique et de la politique militaire (par le Baron Jomini (Antoine Henry), Général en Chef, Aide - de - Camp Général de S.M. l'Empereur de Toutes les Russies), Paris, Anselin 1838 (1" Ed. 1836), 2 Voi. (d'ora in poi Précis). Di questo libro esistono solo due antiche e incomplete traduzioni italiane: Ristretto dell'arte della guerra ecc. del generale barone de Jomini, Livorno, tip. De Fabreschi 1855, e Trattato dell'arte della guerra ecc; del generale barone de Jomini, Acireale, Tip. G. Donzaso 1864. 2 ivi, Voi I pp. 23-24. 3 Sui contenuti specifici dell'opera Strategia si veda R. Aron, Penser la guerre C/ausewit7, Paris, Gallimard 1976, Voi. I p. 405.
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Sia pure con questo vistoso limite, il panorama che all'inizio del suo Précis lo stesso J. fornisce sul pensiero strategico europeo è insostituibi-
le e prezioso: lo riassumiamo perciò brevemente. L'ar!_e della guerra - egli afferma - è sempre esistita. La strategia in particolare è stata la stessa con Cesare come con Napoleone: ma prima di «les modemes» [cioè degli scrittori militari francesi della seconda me_tà del secolo XVIII N.d.a.], che aprono la strada alla strategia -(Feuquiéres, Folard e Puységur, quest'ultimo indicato come l'autore del primo saggio di logistica), tutti i libri d'arte militare non fornivano--che dei frammenti di sistemi, scaturiti dall'immaginazione dei loro autori, che riportavano i dettagli più minuziosi (per non dire i più inutili) sugli aspetti più secondari della tattica, la sola parte della guerra, probabilmente, che è impossibile sottomettere a regole fisse.4
J. cita anche il Maresciallo di Francia Maurizio di Sassonia (16961750) il quale aveva affermato che la guerra è scienza coperta dalle tenebre, e che, mentre tutte le scienze hanno dei principi, la guerra sola non ne ha ancora, perché «i grandi capitani che hanno scritto non ce ne forniscono per niente; bisogna essere provetti nell'arte della guerra per comprenderli». A proposito di queste affermazioni, J. osserva che il Maresciallo di Sassonia aveva ragione a dire che nel 1750 non erano ancora stati stabiliti dei principi sull'arte della guerra, ma che molti suoi lettori avevano mal interpretato le sue parole traendone la conclusione che questi principi non esistevano e non potevano perciò essere stabiliti. Dopo la guerra dei sette anni (1756-1762) Guichard, Turpin, Maizeroy, Menil-Durand sostennero delle controversie sulla tattica degli antichi come su quella dei loro tempi. e ci diedero qualche lavoro interessante sull'argomento [... ] Ma tutto questo non è servito per nulla a dissipare le tenebre delle quali si lamentava il vincitore di Fontenoy [località della battaglia combattuta con successo dal Re di Prussia Federico II contro una coalizione delle principali potenze europee - N.d.a.]. Un poco più tardi vennero Grimoard, Guibert e Lloyd: i due primi autori hanno fatto fare dei progressi alla tattica delle battaglie e alla logistica. Quest'ultimo ha sollevato nelle sue interessanti memorie delle questioni importanti di strategia, che ha lasciato disgraziatamente disperse in un dedalo di dettagli minuziosi sulla tattica di formazione delle unità, e sulla filosofia della guerra. 5 4
5
Jomini, Précis, Voi. I, p. 24. ivi, Voi. I. pp. B-14.
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Sempre per limitarci alla strategia, J. loda un'«opera preziosa» di de Laroche - Aymon comparsa in Germania all'inizio del secolo XIX con il titolo di Introduzione all'arte militare, «vera e propria enciclopedia per tutte le branche dell'arte, tranne che per la strategia, che vi è a malapena indicata». Ma - conclude J. - nonostante tutti i tentativi, all'inizio del secolo non esistevano che dei sistemi più o meno completi sulla tattica delle battaglie, che potevano fornire solo un'idea molto approssimata e imperfetta della guerra perché si contraddicevano in modo deplorevole. È stato - prosegue egli - lo studio delle compagne di Federico II anche attraverso le relazioni da lui lasciate, a convincerlo che il segreto della vittoria consisleva nella manovra semplicissima (sic) di portare il grosso delle forze su di una sola ala dell'armata nemica, e Lloyd ha contribuito a rafforzare in me questa convinzione. In seguilo io ho ritrovato le medesime cause nei primi successi di Napoleone in Italia, il che mi ha convinto che applicando nel campo strategico a tutto lo scacchiere d'una guerra, il medesimo principio che Federico aveva applicato alle battaglie, si avreb-
be tra le mani la chiave dell'intera scienza della guerra. 6
È, questa, la chiave autentica e immutabile di tutto il pensiero di Jornini, l'ispirazione che guida fin dall'inizio la sua opera: «convinto di aver individuato il vero punto di vista sotto il quale andava studiata la teoria della guerra, per scoprirne le regole autentiche e abbandonare il campo sempre molto incerto dei sistemi personali, mi sono messo all'opera con l'ardore di un neofita».7 Frutto di queste convinzioni è stata la prima edizione (1803), o meglio il primo abbozzo, del Traité des grandes operations militaires (Trattato delle grandi operazioni militari) che ha finalità essenzialmente didattiche e scolastiche e riguarda «gli ordini di battaglia, le marce strategiche e le linee d'operazioni». In questa fase la fonte della sua ispirazione è ancora la guerra dei sette anni, con protagonista Federico II, ricca di grandi battaglie campali (rangées), perché «le guerre della rivoluzione fino al 1802, epoca alla quale io scrivevo, non offrivano delle battaglie campali paragonabili a quelle della guerra dei sette anni; le grandi battaglie dal l 805 al 1815 non essendo ancora state combattute». In tal modo J. trascura - e non è poco - la campagna d'Italia del 1796-1797, dove già rifulge il genio di Napoleone. Dopo questa prima elaborazione (dalla quale risalta la grande statura di stratega di Federico il) il Traité viene da lui ampliato includendovi il seguito
6
ivi. Voi. I, p. 16.
1
ivi.
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della guerra dei sette anni e nel 1805 ne compare una nuova edizione, a sua volta rielaborata. Dal 1805 al 1807 l'opera di Jomini acquista fisionomia più compiuta con l'apporto - e sotto lo stimolo - di altri autori europei, citati in abbondanza escludendo però Clausewitz: qualche anno dopo [il 1805 - N.d.a.], l'Arciduca [Carlo] anticipa la sua bella opera con un in-folio sulla grande guerra[/ principi della parte sublime dell'arte della guerra usciti nel 1806 - N.d.a.], dove già emergeva il genio del maestro. Nel medesimo tempo comparve un piccolo opuscolo sulla strategia, opera del Maggiore Wagner, allora al servizio del'Austria [ ... ] Infine, dieci anni dopo il mio primo Trattato delle grandi operazioni, comparve l'importante opera dell'Arciduca Carlo [/ Principi di strategia applicati alla storia della campagna del 1796 in Germania, pubblicati nel l 814 N.d.a.], che riuniva i due generi didattico e storico. Il principe aveva prima di tutto dato alle stampe un piccolo volume di massime strategiche, poi quattro volumi di storia critica stille campagne del 1796 e 1799 per svilupparne l'applica7.ione pratica. Quest'opera, che fa onore all'illustre principe quanto le battaglie che ha vinto, ha completato le basi della scienza strategica, della quale Lloyd e Biilow avevano sollevato il primo velo, e della quale io avevo indicato i primi principi nel 1805 in un capitolo sulle linee d'operazioni, e nel 1807 in un capitolo sui principi fondamentali della arte della guerra stampato separatamente a Glogau in Slesia.8
In conclusione, da quanto afferma Jomini si può dedurre che il nuovo significato del termine strategia matura dal 1803 al 1808 fuori dall'Italia ed è l'espressione - come sempre avviene in questi casi - non de11a geniale inventiva di questo o quell'autore ma di una ventata di pensiero che percorre in quel momento l'Europa. Nella misura in cui il suo primo scritto del 1803 fa i conti con il nuovo termine strategia, J. è il primo a indagarne contenuti e nuovi significati in modo organico. Ma il suo primato è solo di un'incollatura, ed è seguito nel 1804 da Clausewitz che anticipa l'Arciduca Carlo ed è di quest'ultimo incomparabilmente più profondo e attuale. J. dà perciò il tocco finale, non «inventa» ma raccoglie, armonizza e completa. Nondimeno, egli ha ragione quando rivendica il suo primato nel definire una vera e propria teoria della guerra basata su principi generali sempre validi al variare delle condizioni di applicazione. Ma i] punto è proprio questo: contemporaneamente vi è anche chi, come Clau-
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ivi, Voi. I, pp. 18- 19.
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TL PENSIERO MTLITARE ITALIANO ( 1789-1915) - YOL. I
sewitz, non crede a questi principi nello stesso modo, e addirittura non crede a una teoria della guerra. Dunque a tale «primato» corrisponde un ugual merito, solo quando e nella misura in cui si condivide l'impostazione jominiana, tenendo però sempre presente che vi è anche chi contemporaneamente imbocca una via specularmente opposta.
Il pensiero di }omini: tappe e opere principali Il pensiero di J. rivela molti dei suoi aspetti essenziali con l'edizione definitiva (1811-1816) de] voluminoso Trattato delle grandi operazioni militari contenente la storia critica delle campagne di Federico II paragonate a quelle dell'Imperatore Napoleone. Con una raccolta dai principi generali dell'arte della guerra. 9 Opera che è un tipico esempio dell'impiego di sillogismi induttivi, che cioè vogliono trarre leggi e principi di carattere generale dall'esame di eventi e aspetti particolari. Quest'opera contiene, qua e là, deduzioni importanti e Je prime definizioni generali di strategia e tattica tratte dagli avvenimenti. Essa è seguita nel 1830 dal Tableau analytique des principales combinations de la guen-e e des leurs rappor1s avec la politique des Etats, poùr servir d'introdution an traité des grandes operations militaires. 10 (Quadro analitico delle principali combinazioni della guerra e dei ]oro rapporti con la politica degli Stati, che funge da introduzione al Trattato delle grandi operazioni militari). A detta dello stesso J., 11 questo libro ha lo scopo di ovviare alla mancanza nei suoi scritti di una raccolta di massime sul tipo di quella che precede il libro dell'Arciduca Carlo, e vi sono state aggiunte delle parti interessanti sulla politica militare degli Stati. Di conseguenza vi si trova un'indicazione completa delle branche nelle quali è suddivisa l'arte della guerra (ivi compresa la logistica, che pertanto nasce nel 1830 e sempre per merito dello stesso J. ). Infine J. pubblica nel 1836 - 1837 il Précis de l'art de la guerre ou nouveau tableau analytique des principales combinaisons de la strategie de la grande tactique et de la politique militaire (Compendio dell'arte della guerra o quadro analitico delle principali combinazioni della strategia, della grande tattica e della politica militare) che è il completamento de] Tableau del 1830 fino a diventare un'opera a parte, e risponde sia a finalità didattiche (istruire il principe ereditario russo), sia alla necessità
9
Paris, Chez Mangime] 1811-1816 (d'ora in poi Traité). Paris, Anselin 1830 (d'ora in poi Tableau). 11 A.H. Jomini, Précis, Voi. I, p. 20.
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II - IL BARONE JOMINl E L'ARCIDUCA CARLO
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di rispondere aJle tesi di Clausewitz nel Vom Kriege pubblicato postumo daJla vedova del generaJe prussiano nel 1832. Manca, in J., una definizione completa del concetto di guerra. Si può dire solo che egli è ostile al tipo di guerra assoluta inaugurato dalla Rivoluzione Francese, guerra nella quale sono nazioni intere a essere chiamate alle armi, che non si battono per una questione di delimitazione di frontiere, ma in certo qual modo per la loro esistenza [ ... ] se una legislazione e un diritto pubblico nuovo, non metteranno dei limiti a queste leve in massa, è impossibile prevedere dove queste devastazioni si arresteranno f... I Sarebbe tempo, nondimeno, che i Governi adottino idee più generose, e che il sangue non scorra più ormai, che per i due grandi interessi del mondo. Se questa visione, autenticamente europea, dovesse essere relegata nel novero dei bei sogni sulla pace perpetua, noi deploriamo le piccole passioni e gli interessi che portano le nazioni più civili a sgozzarsi più impietosamente dei barbari ; noi deploriamo questi progressi delle arti e della civilizzazione che, facendo della scuola diplomatica un labirinto inestricabile, ne hanno altresì fatto la fonte di tutte le discordie del genere umano. 12
Alla luce della realtà del XX secolo, queste sue parole si colorano di profezia. Però egli non è un pacifista totale: è contrario non alla guerra in sé, ma alla guerra di popoli e perciò tendente all'estremo. Nelle «Avvertenze» che precedono il Vol. I dei Précis, scrive: bisogna essere temerari per pubblicare un'opera sulla guerra, in un momento nel quale gli apostoli della pace perpetua sono i soli ad essere ascoltati. Ma la febbre industriale e l'incremento delle ricchezze che si spera di trame, non saranno sempre le sole divinità alle quali le società sacrificheranno. La guerra sarà sempre un male necessario, non solo per innalzare o salvare gli Stati, ma anche per salvare il corpo sociale dalla dissoluzione ....
Per J. la guerra si fa solo se è conveniente, opportuna e indispensabile. Essa viene decisa per tutta una serie di motivi che influenzano la sua natura e rientrano nella sfera della politica: può pertanto essere offensiva, difensiva, di interesse, d'invasione, nazionale ecc .. I temperamenti auspicati per la sua natura e la tendenza a vederla come un male (anche se a volte necessario) non gli impediscono di schierarsi tra i fautori della battaglia decisiva: 12
A .H . Jomini, Trailé, pp. 705-706.
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Napoleone ci ha insegnato che non si deve attaccare battaglia semplicemente per vincerla, ma bensì per ottenere l'annientamento dei corpi organizzati del nemico C---1- La forza di un esercito è nella sua organizzazione, nell'insieme per mezzo del quale tutte le parti sono legate con il punto centrale che le fa muovere. Dopo una disfatta, questo insieme non esiste più C---l L'esercito intero diventa una parte debole; attaccarla è marciare verso un trionfo certo. 13
Il culto per la battaglia decisiva sul modello federiciano e napoleonico è peraltro temperato da J_ nel Précis, in polemica nemmeno tanto nascosta con Clausewitz: si è detto che le battaglie erano in definitiva l'azione principale e decisiva della guerra; questa asserzione non è sempre esatta, perché si sono visti degli eserciti distrutti con delle operazioni strategiche senza che abbiano avuto luogo battaglie, ma solamente una serie di piccoli combattimenti. È altresì vero che una vittoria completa e decisiva può dare i medesimi risultati senza che abbiano avuto luogo delle grandi combinazioni strategiche. I risultati di una battaglia dipendono normalmente da una serie di cause che non sono sempre il dominio dell'arte militare. 14
Se, "dunque, la battaglia decisiva può non essere necessaria, ciò che non viene mai meno è il concetto di utilità e convenienza della guerra e insieme la ricerca di una vittoria. In sostanza, rispetto a Montecuccoli anche J. tende a concepire la guerra come scontro tra eserciti e non tra popoli, e ad assegnarle come costante fine ultimo la vittoria; ciò che non sembra condividere è l'impiego di eserciti «offendentesi in ogni guisa» di Montecuccoli, che sottintende una guerra senza alcuna limitazione. Il concetto jominiano dell'arte della guerra o arte militare rifiuta, anzitutto, la concezione prettamente geometrica della quale è portatore il Btilow (1750-1807), che «pretende di dimostrare, con grandi termini scientifici, con degli angoli, dei segmenti di cerchio, che si può fare la guerra geometricamente». Più in generale, J. in apertura del Traité accusa gli autori più celebri di essersi soffermati piuttosto sui grandi dettagli, le evoluzioni, 1e manovre ecc., trascurando le combinazioni importanti dell'arte militare. J. nel Traité viene a precisare che «non vi è nessuno meno sostenitore di me delle operazioni troppo compassées (cioè: compassate, misurate, geometriche). Nega anche che possa esistere un siste-
13
14
ivi, p. 215 e 282. A.H. Jomini , Précis, Vol. TI, P- 6.
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ma di guerra sempre valido, perché «ogni sistema è il risultato di calcoli
ipotetici, è un atto dello spirito umano, che può faJlire, e spesso con l'aiuto di grandi frasi e di parole tecniche arrangiate con arte, si dà un'apparenza di verità alle idee le più false». Ma ciò non significa - a suo giudizio - che non possano esistere principi e regole. E dimenticando che principi e regole normalmente danno di per sé luogo a un sistema scientifico compiuto, J. afferma che sono esistiti, in ogni tempo, dei principi fondamentali, sui quali si basano le buone combinazioni della guerra, e ai quali si deve rapportare queste combinazioni per giudicare la loro effettiva valenza. Questi principi sono indipendenti dal tipo di armi, dei tempi e dei luoghi; sono immutabili; la loro applicazione esige solamente delle variazioni che il genio e l'esperienza indicano [...] Ricercando le cause delle vittorie, si sarà sorpresi di trovare alla base delle vittorie di Wagram, di Farsalo e di Canne, la stessa causa. 15
A conclusione del Voi. II dei Précis, probabilmente per neutralizzare le obiezioni di Clausewitz, Jomini indica anche il ruolo e i limiti delle regole: in una parola, tutto quello che si può denominare la poesia e la metafisica della guerra, influirà eternamente sui suoi risultati. Si deve dire, per questo, che non vi sono affatto delle regole di tattica, e che nessuna teoria di tattica sarebbe utile? Quale militare ragionevole oserebbe pronunciare una tale bestemmia? [... ] Qualsiasi teoria sarà vana, solo perché non procurerà che i tre quarti delle possibilità di successo?[ ... ] Quando l'applicazione di una massima, e la manovra che ne è stato il risultato, hanno procurato cento volte la vittoria a degli abili capitani, sarà sufficiente che esse abbiano fallito qualche volta per negare la loro efficacia, e contestare qualsiasi influenza dello studio dell'arte? 16
La teoria della guerra per J. si basa dunque sull'exemplum historicum. La scuola autentica dei generali è costituita dalle «buone teorie fondate sui principi, giustificate dagli avvenimenti, e aggiunte alla storia militare ragionata». Queste teorie non bastano a formare dei grandi uomini, ma nondimeno bastano per istruire dei generali sufficientemente abili «per mantenere il secondo posto nel novero dei grandi capitani». E
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A.H. Jomini, Traité, pp. 677-679. A.H. Jomini, Précis, Voi. II, pp. 289-290.
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se parecchie operazioni hanno avuto successo quantunque condotte contro i principi, ciò è avvenuta solo quando il nemico a sua volta se ne è allontanato ancora di più, e non è mai avvenuto quando quest'ultimo ha operato bene: «non è che contro delle bande indisciplinate che è possibile allontanarsene senza pericolo». 17 Come dimostra «il sistema» dell'Imperatore Napoleone, per J. l'arte della guerra è perciò l'arte di vincere, e di trarre i migliori risultati possibili dalle vittorie, attraverso l'applicazione dei principi. Egli usa spesso, indifferentemente, i termini arte e scienza della guerra. La scienza della guerra (evidente, in questo caso, l'uso del termine nel senso di conoscenza) è «una mescolanza di politica, di amministrazione [con questa parola, al suo tempo, si indicava più o meno l'attuale logistica - N.d.a.] e di guerra, della quale Montesquieu ha ben tracciato le basi nella sua opera sulla grandezza dei Romani». 18
Il principio fondamentale delle operazioni e la ripartizione dell'arte/scieriza della guerra nel «Traité» ( 1803-1816)
In altra parte della sua opera, J. afferma che nel concreto l'arte della guerra consiste «nell'organizzare lo sforzo superiore di una massa contro delle parti deboli». Infatti - come già si è accennato trattando della strategia - esiste a suo giudizio un solo principio fondamentale per tutte le operazioni di guerra: 1°) portare la maggior parte delle forze disponibili di un esercito sul punto decisivo sia del teatro di guerra sia di un campo di battaglia; 2°) fare in modo che questa massa di forze non sia solamente presente nel punto decisivo, ma sia anche abilmente messa in azione. J. annette una tale importanza a questo principio da farne il vero segreto delle vittorie di Napoleone e da indicare la sua dimostrazione come scopo essenziale del Traité e del Précis. Arte e scienza, insomma, più che arte o scienza. Questo approccio alla teoria della guerra rimane in J. almeno fino al 1837, quando - come meglio vedremo in seguito - a conclusione del Précis afferma che è un'arte. La suddivisione in parti o rami o combinazioni dell'arte o scienza della guerra deriva dai concetti prima enunciati ed è soggetta a una notevole evoluzione. Nel Traité egli afferma che la scienza della guerra con-
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A.H. Jomini, ivi, Voi. I Nota di p. 158. A.H. Jomini, Traité, p. 603.
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siste nell'applicazione del principio generale prima enunciato e si compone di tre combinazioni generali, «ciascuna delle quali offre un piccolo numero [nostra sottolineatura - N.d.a.] di suddivisioni e di possibilità di esecuzione». Giova soffermarsi sul termine combinazione (combinaison), che ricorre continuamente in J. Combinazione significa mettere insieme armonicamente più cose, trovare l'accordo tra diversi elementi. In chimica, significa «reazione tra elementi diversi atti a formare un composto» che assume proprietà diverse da quelle delle parti componenti. Quest'ultimo è il significato che più si attaglia al suo pensiero, pensiero tipicamente analitico nel quale il momento decisivo è proprio quello di tirare le somme, di concertare insieme i sempre numerosi elementi citati per giungere a un «composto» nuovo, a un risultato che li riassuma tutti ma che a] tempo stesso dica qualcosa di nuovo e di diverso. Ne11o specifico caso del Traité la prima combinazione è l'arte di embrasser (abbracciare, mettere insieme) le linee di comunicazione del proprio esercito nella maniera più vantaggiosa, cioè «quello che si chiama comunemente e impropriamente piano di campagna». Impropriamente, perché J. è al momento assai scettico sull'effettiva importanza di questo piano nel prosieguo de11a guerra: io non vedo, in effetti, che cosa si intende con questa denominazione, perché è impossibile compilare un piano generale per tutta una campagna, nella quale il primo movimento può capovolgere l'intelaiatura di sostegno, e nella quale sarebbe impossibile formulare previsioni al di là del primo movimento.
Un concetto, dunque, ancora da elaborare e da definire ne11a sua effettiva portata, che non è ancora strategia e al momento sembra riguardare - più che la preparazione - la condotta della guerra. Molto meglio definita - e anzi da allora sostanzialmente immutabile - la seconda combinazione (o il secondo ramo), che invece è affare prevalentemente di condotta: «l'arte di portare le proprie masse il più rapidamente possibile sul punto decisivo della linea d'operazione primitiva o della linea occasionale (accidente/le). È quello che si intende comunemente per strategia; la strategia non è che il mezzo d'esecuzione di questa seconda combinazione». Il terzo ramo - anch'esso tipicamçnte «di condotta» - non è che l'applicazione in un ambito più ristretto dello stesso principio, che è poi sempre una sorta di baricentro, di architrave teorico sul quale J. insiste continuamente: «l'arte di combinare (combiner) l'impiego simultaneo della propria massa di forze - la più grande possibile - nel punto più im-
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portante del campo di battaglia. È propriamente l'arte dei combattimenti, che parecchi autori hanno chiamato ordine di battaglia e che altri hanno presentato con il nome di tattica». Nel Traité J. pretende anche di ridurre i vari modi di organizzare e condurre una b~ttaglia a tre sistemi. Il primo - puramente difensivo - è quello di attendere il nemico in una forte posizione, senza altro scopo che quello di mantenervisi [cioè: difesa puramente passiva - N.d.a.]. Il secondo, al contrario, è interamente offensivo e consiste nell'attaccare il nemico ovunque lo si incontri. Il terzo, intermedio, è difensivo - controffensivo e consiste nella scelta di un campo di battaglia studiando bene le possibilità che esso offre, attendendovi il nemico e scegliendo nella stessa giornata il momento più favorevole per prendere l'iniziativa e investire l'avversario. Con questo schematismo eccessivo, J. non sembra neppure sfiorato dal sospetto, che possano esistere di frequente battaglie d'incontro o accettate - quali che ne siano le circostanze e i rapporti di forza - perché non vi sono altre alternative, né sembra considerare che gli atteggiamenti difensivo, offensivo oppure difensivo-controffensivo dipendono soprattutto dalle circostanze e possono variare, mentre una difesa puramente passiva e troppo legata alle posizioni raramente è una buona difesa. Peraltro, a queste considerazioni egli aggiunge che «è difficile [ma non impussibilt: - N.d.a] fornire delle regole fisse per definire 1'impiego di questi due ultimi sistemi, che sono i soli due convenienti. Tutto dipende dal morale delle truppe di ambedue le parti, dal carattere nazionale più o meno solido e impetuoso, dagli ostacoli del terreno». Dopo aver esposto queste tre combinazioni, J. esclama: «Ecco la scienza della guerra in pochi motti; è per aver dimenticato questo piccolo numero di princìpi che i generali austriaci sono stati battuti dopo il 1793 e fino al 1800 e 1805; è per la medesima causa che i generali francesi hanno perduto il Belgio nel 1793, la Germania nel 1796, l'Italia e la Slavia nel 1799». 19 Tutte queste combinazioni richiedono, evidentemente, quei rapidi movimenti nei quali Napoleone - e prima di lui, Federico II - sono stati maestri. Per questo J. sposa in pieno quanto avevano già affermato - e dimostrato sul campo - sia Napoleone che Federico: che cioè, quel che più conta non sono i movimenti in sé ma il modo e lo scopo, quindi «il segreto della guerra non sarà giammai nelle gambe, esso è tutto intero [nostra sottolineatura - N.d.a.] nella testa che le fa muovere».20
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ivi, pp. 284-285. ivi, p. 297.
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Con questi caratteri, l'analisi sperimentale che J. compie nel Traité è ancora limitata agli aspetti puramente militari. Egli stesso ha chiara coscienza di questo limite, quando afferma: «È superfluo far osservare ai miei lettori che io ho trattato solo i principi relativi a11'impiego delle truppe, o la parte puramente militare; altre combinazioni, non meno importanti, sono indispensabili per condurre una grande guerra, ma esse appartengono alla scienza del governo degli Imperi, più che a quella del generale».21 In questo momento politica e guerra sono dunque, per J., due campi ben distinti, ma non per questo poco comunicanti. La prima combinazione da lui esaminata, relativa alla compilazione del piano di campagna, presuppone evidentemente lo studio e la fusione di fattori politici e mmtari. E quando sente il bisogno di precisare che egli ha inteso per il momento limitarsi alla parte puramente militare, aggiunge anche che occorre saper calcolare il peso di fattori più politici che militari, tra i quali: stato non solo delle grandi unità a contatto ma anche delle forze combattenti di seconda linea; situazione delle nazioni amiche e alleate; caratteri e sentimenti dei popoli; solidità delle aJlcanzc; situazione delle province che si intende attaccare e loro distanza, perché per lui (come più tardi per Clausewitz) «gli svantaggi dell'aggressore si moltiplicano man mano che aumenta la profondità delJe sue linee d'operazione».22 Vi è, in tutto questo, una certa contraddizione: perché il giusto spazio dato alla politica e alla variabilità dei suoi condizionamenti non trova una rispondenza nel concetto generale di arte militare, strategia e tattica, che sempre e invariabilmente si riassume nella ricerca della vittoria con un procedimento meccanico e puramente militare. Un siffatto approccio, tra l'altro, rende di fatto la battaglia decisiva un'unica opzione, uno sbocco obbligato e non qualcosa che può anche non esserci, se non altro per mancanza di forze sufficienti: come muta allora la strategia del più debole? J. non lo dice. Un altro interrogativo che rimane senza risposta è quale parte hanno le forze morali in questa panoramica della guerra, che finora sembra dominata dalla potenza della ragione più che da quella dei sentimenti. J. osserva, in proposito, che Napoleone non è mai stato così abile come all'inizio delle sue imprese, e che «egli ha trionfato traendo profitto dal dominio delle passioni, fonte inesauribile di potenza». I suoi clamorosi successi sono dovuti «all'arte di condurre gli uomini, di accendere tutte
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ivi, p. 702. ivi, p. 703.
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le genti d'entusiasmo e di armare i popo1i in favore delle sue imprese». Ma egli è caduto dalla vetta dalla grandezza per aver calpestato gli stessi principi la cui applicazione lo aveva innalzato al sommo della gloria, e per aver dimenticato che «la forza e lo spirito umano hanno anch'essi i loro limiti, e che più le masse messe in movimento sono grandi, meno il genio ha parte degli avvenimenti».23 Affermazione, quest'ultima, contraddittoria: perché annacqua quanto si afferma in altra parte del Traité circa il ruolo determinante del Capo, e sembra presentare implicitamente la strategia - che è prima di tutto movimento di masse - come qualcosa di scientifico e verificabile, sulla quale poco pesano la personalità e il genio del comandante. Verificheremo se e quanto rimane valido questo orientamento in futuro, visto che nel Traité J. ripete spesso che attenersi ai principi e a11e regole non è cosa facile nella realtà della guerra. Intanto, egli ha l'indubbio merito di fare almeno qualche conto anche con un tipo di guerra, che tali principi rende - a suo giudizio - del tutto inoperanti: la guerriglia o «guerra nazionale». Dopo aver affermato che sono perfette solo le operazioni che riescono a applicare tutte e tre le combinazioni prima indicate, egli aggiunge in nota (riferendosi alla vittoriosa guerra d'indipendenza spagnola del 1808-1813 contro le truppe francesi) che le guerre nazionali nelle quali si deve combattere contro un intero popolo, sono le sole a fare eccezione a questa regola. Nelle guerre di questa specie, è difficile sottomettere le popolazioni senza dividersi; e quando ci si vuole raccogliere per combattere, ci si espone a perdere le province conquistate. Il mezzo per rimediare a questi inconvenienti è di avere un'armata che conduce la campagna, e delle divisioni indipendenti per organizzare le sue retrovie. Queste divisioni devono essere comandate da generali istruiti, buoni amministratori, fermi e giusti, perché i loro uomini possano contribuire con la forza delle armi, a sottomettere le province che sono loro affidate.24
li «Tableau Analytique»: (1830): maturazione del pensiero jominiano Incominciando dalla ripartizione dell'arte della guerra, il Tableau Analytique del 1830 rappresenta un autentico salto di qualità rispetto al
23 24
ivi, Avvertenza al Tomo VII, pp. VI-VII. ivi, p. 284.
Il - lL BARONE JOM!NI E L'ARCIDUCA CARLO
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Traité e, in generale, rimane l'opera più innovativa di J.. Vi si trova ben illuminato il significato di politica militare e il suo rapporto con l'arte della guerra; in secondo luogo vi compare per la prima volta il termine logistica, sia pure con un significato che - come quello di politica militare - è assai diverso dall'attua1e. Fin da adesso, comunque, si può ben dire che J. è, oltre che colui che per primo ha dato una nuova fisionomia e un nuovo ruolo teorico alla strategia, anche colui che per la prima volta ha indagato in forma compiuta il rapporto tra politica e arte della guerra, e ha reintrodotto con un nuovo significato - sia pure assai diverso dall'attuale - il termine logistica. J. distingue tra politica della guerra e politica militare. Questi concetti sono da lui ripresi dal Lloyd, pur tenendo a far sapere che ciò che quest'ultimo ha scritto in merito, è tutt'altro che completo e ha ricevuto smentite dagli avvenimenti della Rivoluzione.25 Per politica della guerra intende «le combinazioni attraverso le quali un uomo di Stato deve giudicare se una guerra è conveniente, opportuna o comunque indispensabile, e quali saranno le diverse operazioni necessarie per raggiungere lo scopo».26 Compete più o meno alla politica estera - egli osserva - definire la forma della guerra (offensiva, difensiva, ecc.). Ma da quando si è voluto separare la toga dalla spada, la politica della guerra compete più all'uomo di Stato che al guerriero. E se la sua conoscenza è inutile per un generale di secondo rango, è indispensabile al comandante in capo. Infatti «essa entra in tutte le combinazioni che possono determinare una guerra, e nella definizione delle operazioni che potranno essere intraprese» [quindi: nella definizione del piano di campagna - N.d.a.].27 La politica della guerra - che riguarda essenzialmente la diplomazia, o meglio ancora quella che noi oggi chiamiamo politica di sicurezza - è per J. cosa assai diversa dalla politica militare (o filosofia della guerra), che consiste «in combinazioni le quali non hanno rapporto che con le operazioni delle armate, una volta che la lotta è iniziata. Si dà loro il nome di politica militare, perché esse non appartengono del tutto né alla diplomazia, né alla strategia, e nondimeno sono della più alta importanza nei piani di un gabinetto, come in quelli di un generale d'armata [...]. La politica della guerra comprende tutti i rapporti della diplomazia con la guerra, mentre la politica militare non indica che le combinazioni militari d'uno Stato o di un generale».2R Perciò, per politica militare si in25
26
A.H. Jomini, Tableau, Nota a p. 2 e pp. 38-39.
ivi, p. 5. 27 ivi, p. 2. 28 ivi, p. 6 e 39.
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tende anche «tutte 1e combinazioni morali connesse con le operazioni degli eserciti. Se le combinazioni politiche [... ] sono altresì delle cause morali che influiscono sulla condotta della guerra, ve ne sono altre che, senza riguardare la diplomazia, non sono affatto combinazioni di strategia o di tattica».29 Pur indicando in alternativa al termine politica militare il termine.filosofia della guerra, J. dichiara di volersi fermare al primo, perché- anche se i contenuti autentici della parola filosofia si attagliano tanto alla guerra che a11a metafisica - il significato attribuito a questa parola è così vago, da fargli provare imbarazzo a mettere insieme le due parole guerra e filosofia. In definitiva, J. attribuisce all'espressione politica militare dei contenuti che non la fanno coincidere del tutto con l'attuale concetto di politica militare, e mirano a riunire insieme tutti i fattori politico-militari di vario ordine e per così dire «esterni», che indirizzano e condizionano l'attività operativa degli eserciti nel teatro di guerra e sul campo di battaglia. Un metodo come un altro e non necessariamente cattivo, visto che anche oggi i modi di concepire la strntegia e il contraltare militare della politica variano e sono legati a soggettive valutazioni. Nel caso specifico J. - com'è sua cattiva abitudine - fa un lungo elenco dei contenuti della politica militare, con l'unico risultato di impedirne una chiara e univoca delimitazione: la politica militare può comprendere tutte le combinazioni di un progetto di guerra, oltre che quelle della politica diplomatica e della strategia. Si può collocare in questa categoria il temperamento, il carattere dei popoli contro i quali si deve combattere, il loro sistema militare, le forze e i mezzi di prima linea e di riserva, le loro risorse finanziarie, l'attaccamento che essi hanno per i loro governi o le loro istituzioni. Oltre a questo, il carattere del Capo dello Stato nemico, quello dei capi dell'esercito e il loro talento militare, l'influenza che il gabinetto o i consigli di guerra esercitano sulle operazioni dalla capitale, il sistema di guerra [cioè la dottrina - N.d.a.] che domina nello Stato Maggiore nemico, la differenza nella forza costitutiva delle armate e nel loro armamento, la geografia e la statistica militare del Paese nel quale si deve penetrare; infine le risorse e gli ostacoli di qualsiasi natura che vi si possono incontrare, sono altrettanti punti importanti da considerare, e che non sono in senso stretto né della diplomazia, né della strategia (sic). Non vi sono regole fisse da considerare su una siffatta materia, se non che
29
ivi, p. 58.
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un governo non deve trascurare nulla, per arrivare alla conoscenza di questi dettagli, che è indispensabile prendere in considerazione nel piano d'operazioni che il predetto governo intende adottare.30
Parrebbe, da questa lunga elencazione, che il concetto che J. ha di politica militare sia nettamente sbilanciato verso l'avversario e riguardi ciò che può fare l'avversario, più che quello che possiamo fare noi. Ma, più avanti, egli con ottica prettamente attuale si affretta ad aggiungere che «uno dei punti più importanti della politica militare di uno Stato, è quello relativo alle istituzioni che reggono il suo esercito [... ]. Un governo che con qualsivoglia pretesto trascura il suo esercito è dunque un governo colpevole agli occhi della prosperità, perché prepara delle umiliazioni al suo trono e al suo Paese, invece di preparare loro dei successi seguendo una marcia contraria. Lontano da noi il pensiero che un governo deve tutto sacrificare all'esercito! Sarebbe un'assurdità. Ma ne deve fare l'obiettivo costante delle sue cure, e se il principe [i mass media di oggi! - N.d.a] non ha lui stesso un'educazione militare, è difficile che ottenga questo scopo». 31 Per ottenere un esercito perfetto, per J. deve essere soddisfatta tutta una serie di condizioni: buon sistema di reclutamento, buona formazione di base, Quadri e truppe ben istruiti sia nel servizio interno che di campagna, una disciplina salda senza essere umiliante, un sistema di ricompense ben congegnato e tale da stimolare l'emulazione, Armi speciali (artiglieria e genio) ben istruite, armamento difensivo e offensivo ben scelto e superiore in qualità - se possibile - a quello dell'avversario, e infine uno Stato Maggiore in grado di utilizzare al meglio i vari fattori di potenza. Se, dunque, per politica militare (di competenza politica. ma di interesse diretto dei capi militari) ogg.i si intende «la definizione degli obiettivi e dei concetti strategici, la ripartizione delle risorse per i vari programmi, ed i lineamenti generali della organizzazione e dell'impiego delle forze armate» 32 e per strategia globale (o grande strategia) l'impiego coordinato di tutti i fattori di potenza disponibili (militari e non, morali, ideologici e materiali), la politica militare di J. sembra comprendere ambedue questi aspetti. Ciò che è assente nella sua elaborazione - limite relativo, dati i tempi - è la preoccupazione per la politica di difesa, cioè per la preparazione dell'intera nazione alla guerra. Ma, a parte il fatto
30
ivi, pp. 39-40. ivi, pp. 48 e 50. 32 C. Jean, L'ordinamento della Difesa, Padova, Cedam 1989, p. 8. 31
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che la rivoluzione industriale stava solo allora incominciando, la guerra totale, la guerra di popoli di stampo napoleonico è per lui un pericolo da scongiurare più che una possibilità da studiare o una prospettiva con la quale bisogna fare i conti subito. Tra la politica della guerra che è cosa di preminente competenza politica e diplomatica e la politica militare, che «organizza» la guerra e ne indica gli obiettivi, parrebbe più logico che fosse quest'ultima - come qualcosa di affine alla strategia globale - la più idonea a far parte dell'arte della guerra. Invece J. - non è chiaro il perché - si regola in senso opposto, e nel Tableau indica la politica della guerra come parte dell'arte militare. Quest'ultima nel Tableau comprende cinque branche: - la prima è la politica de11a guerra; - la seconda è la strategia, o l'arte di muovere le masse sul teatro di guerra; - la terza, la grande tattica de11e manovre e dei combattimenti; - la quarta è l'arte dell'ingegnere, l'attacco e la difesa delle piazzeforti; - la quinta è la tattica di dettaglio. E la politica o filosofia militare? Jomini osserva che «si potrebbe aggiungere la filosofia o la parte morale della guerra, ma è parso più conveniente riunirla in una stessa sezione con la politica» [militare N.d.a.]. Inoltre egli enuncia di non voler trattare né la tattica di dettaglio né l'arte dell'ingegnere, «che costituisce una scienza a parte». Nel Tableau J. si diffonde maggiormente sui contenuti specifici della strategia e della tattica (o grande tattica), fermo restando il principio fondamentale (già enunciato nel Traite, che le loro combinazioni devono essere dirette a portare sul punto decisivo la maggior parte delle forze disponibili. Il suo concetto della strategia è dunque puramente militare: lo riconosce egli stesso, definendo strategia e tattica «la parte puramente militare dell'arte della guerra».33 La strategia comprende tutte le operazioni che interessano, in generale, il teatro di guerra. Con quest'ultimo termine J. intende la parte di superficie terrestre e/o i mari dove due potenze - o i loro alleati - possono scontrarsi; e come esempio di teatro di guerra terrestre e insieme ma·riuimo egli cita i due emisferi che hanno interessato la lotta tra Francia e Inghilterra da Luigi XIV in poi. Più restrittivo l'altro termine teatro d'operazioni, che indica il territorio che un'armata (nel senso attuale del termine) cerca di attaccare o difendere. Se un'armata ha un compito a parte e conduce delle operazioni indipendenti, ha un proprio teatro di opera-
33
A.H. Jomini, Tableau, p. 57.
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zioni; se invece deve combinare la sua azione con quella di altre, allora il teatro d'operazioni generale va considerato come un unico scacchiere, nel quale la strategia deve far muovere le armate per raggiungere il comune obiettivo. In sostanza J. usa l'espressione teatro di guerra, oggi poco o nulla usata, e distingue tra teatro di operazioni generali (o scacchiere) e teatro di operazioni di una singola armata, in certo senso capovolgendo la nomenclatura attuale, che fa dello scacchiere una parte di un teatro d'operazioni affidata a una G.U. complessa. Da notare anche che, affermando che la strategia riguarda tutte le operazioni da condurre su un teatro di guerra del quale possono far parte anche i mari, J. con visione assai moderna ammette almeno implicitamente che possa esistere una parte marittima della strategia, coordinata naturalmente con la parte terrestre. Questo, anche se egli usa l'espressione «allorché una guerra si complica con operazioni marittime ...» , ove le operazioni marittime sembrano, appunto, un'indesiderata anche se non evitabile complicazione della guerra terrestre. Si tratta, ancora una volta, di un'acquisizione mutuata dall'esperienza storica: ha davanti agli occhi non solo il grande scontro terrestre e marittimo tra l'Inghilterra e Napoleone, ma anche la lotta secolare tra Francia e Inghilterra che «si è estesa a due emisferi». Esaminere mo a parte gli aspetti marittimi della sua opera; per il momento, ci limitiamo a sottolineare che egli guarda alla guerra sul mare come a un semplice prolungamento de11a guerra terrestre, e pertanto si sofferma soprattutto sulle operazioni terrestri in vicinanza del mare e sugli sbarchi, tenendo presente che questi ultimi «sono una delle operazioni della guerra meno frequenti e più difficili». 34 Forse, con questa affermazione ha davanti agli occhi la Manica che ha fermato persino Napoleone ... Visione riduttiva fin che si vuole: ma rimane di notevole rilievo e senza precedenti il fatto che, come prima si è visto, dei fattori strategici fanno parte anche gli sbarchi. Nello scenario così individuato, la strategia comprende tutti i fattori da considerare nel piano di campagna, che sono ben 13: I definizione del teatro d'operazioni; 2°) scelta e organizzazione della base d'operazioni; 3°) definizione dell'obiettivo (difensivo o offensivo); 4°) definizione del fronte de11e operazioni; 5°) scelta de11e linee d'operazioni che conducono dalla base all'obiettivo o al fronte delle operazioni e delle diverse manovre per comprendere dette linee nelle varie combinazioni strategiche; 6°) determinazione del punto decisivo del teatro di guerra; 7°) mo0
)
34
ivi, p. 102.
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vimenti del1e armate considerati come manovre; 8°) divisioni e grandi distaccamenti; 9°) sbarchi; 10°) passaggio dei fiumi; 11 °) campi trincerati; 12°) fortezze concepite come mezzi strategici, come rifugi di un'armata, o ostacoli alla sua marcia; 13°) i magazzini considerati in rapporto con i movimenti delle armate. A questi 13 fattori J. ne aggiunge altri due: il 14° (ritirate) e il 15° (quartieri d'inverno); si tratta però di «combinazioni occasionali che non rientrano nel piano di campagna, ma che (tuttavia) appartengono alla strategia». 35 A sua volta ciascun teatro o scacchiere, sul quale si deve operare con una o più armate, comprende: I una base d'operazioni; 2°) un obiettivo; 3°) un fronte d'operazioni; 4°) delle linee d'operazioni; 5°) delle linee di comunicazione; 6°) degli ostacoli naturali o artificiali per battere il nemico o opporsi alla sua azione; 7°) dei punti di rifugio in caso di rovesci. Le operazioni hanno sempre uno scopo o un obiettivo, sia difensivo che offensivo. Soprattutto in strategia, l'offensiva è in generale la più vantaggiosa perché per concentrare la maggior parte delle forze sul punto decisivo non c'è niente di meglio che assumere l'iniziativa delle operazioni. In strategia, lo scopo di una campagna ne determina l'obiettivo strategico (point objectif). Se lo scopo è offensivo, tale obiettivo normalmente coincide con la capitale dello Stato nemico o con una provincia militare di importanza tale, che la sua perdita possa indurre il nemico alla pace. In mancanza di detta capitale l'obiettivo sarà un qualunque fronte d'operazioni, che serve da prima base d'operazioni al nemico, o nel quale si trova qualche fortezza importante, il cui possesso assicura all'esercito que11o del territorio occupato. Nella difensiva l'obiettivo anziché quello che si vuole conquistare, sarà quello che si vuole difendere. Vi sono due specie di obiettivi strategici. I primi sono degli elementi geografici (un fiume, una fortezza, la capitale ... ) e i secondi sono degli obiettivi di manovra, che dipendono cioè non da fattori geografici ma dalla posizione dell'esercito nemico. Tra quest'ultimi, i più redditizi sono quelli che hanno come scopo l'annientamento totale dell'esercito nemico piombando con la rapidità dell'aquila sulle sue linee di comunicazione, per tagliarlo dalla sua base e spingerlo verso un ostacolo insormontabile. In sostanza J. accetta in pieno il clou della strategia napoleonica, cioè la debellatio dell'avversario: 0
)
questo genere di guerra, nel quale Napoleone si è particolarmente distinto, sembra la perfezione dell'arte, perché non solo gli obiettivi
35
ivi, p. 60.
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geografici ma gli Stati medesimi cadono quando l'esercito che 1i doveva difendere cessa di esistere.36
Anche i punti decisivi di un teatro di guerra sono di due specie. I primi sono de11e zone geografiche, la cui importanza è permanente e deriva dalla stessa configurazione dello scacchiere. I secondi sono i punti decisivi di manovra, che derivano dalla posizione relativa delle truppe delle due parti. Principio generale da tenere presente è che i punti decisivi in strategia sono in corrispondenza delle ali estreme del nemico, dove lo si potrebbe separare più facilmente dalla sua base e dalle sue armate secondarie, senza esporre sé stessi a correre questo rischio. Si deve sempre preferire l'estremità dalla parte opposta del mare, perché è vantaggioso spingere il nemico verso il mare, mentre è altrettanto dannoso esporsi a un analogo pericolo.37
Infine J. si diffonde molto sulle linee d'operazioni, ahhandonando anche in questo caso in distinzioni, suddivisioni ed exempla. Basti citare quanto egli osserva in proposito: se l'arte della guerra consiste nel mettere in azione la maggior parte delle forze sul punto decisivo del teatro d'operazioni, dato che la scelta delle linee d'operazioni è il primo mezzo per ottenere questo risultato, tale scelta può essere considerata come componente fondamentale di un buon piano di campagna.38
Come già accennato, nel Tableau troviamo per la prima volta, con un nuovo significato, il termine logistica. Non si tratta ancora di una branca dell'arte della guerra con propria autonoma fisionomia, ma di una parte o ancella della strategia. 39 Essa infatti viene esaminata molto brevemente (nemmeno tre pagine) all'Articolo VII della Sezione I (operazioni strategiche) del Capitolo II. Lo stesso Articolo VII porta un titolo che di per sé indica lo scarso rmevo de11a branca e al tempo stesso i suoi contenuti essenziali: «De11e marce dell'esercito considerate come manovre». Si tratta, in sostanza, di una «branca secondaria dell'arte militare» che si occupa dell'organizzazione e della disciplina delle marce, tenendo 36
ivi, p. 75. ivi, p. 90. 38 ivi, p. 84. 39 Cfr. anche, in merito, F. Botti, La logistica dell'Esercito Italiano, Roma, SME, Uf. Storico, 1991 (Introduzione al Voi. I). 37
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presente che «fare una bella marcia non significa altro che portare la massa delle forze sul punto decisivo». Nella guerra moderna - aggiunge Jomini - il movimento delle armate deve essere accuratamente organizzato. Esso richiede specifici lavori da parte dei pionieri (pionniers) per facilitare il movimento, aprire nuove strade, mettere in comunicazione quelle esistenti ecc. e un complesso di altre predisposizioni. Questo perché nei sistemi attuali di marcia, il calcolo dei tempi e delle distanze è diventato più complicato. Dato che le colonne di un esercito hanno tutte differenti distanze da percorrere, bisogna saper indicare il momento della loro partenza e impartire loro istruzioni: I 0 ) sulle distanze che esse devono percorrere; 2°) sulla quantità più o meno considerevole di materiali che ciascuno porterà al seguito; 3°) sulle difficoltà o meno che presenta il territorio attraversato; 4 °) sulle informazioni delle quali si dispone circa gli ostacoli che il nemico può opporre loro; 5°) sulla necessità e importanza - o meno - che la loro marcia sia nascosta o scoperta.40
La logistica è, insomma, arte del movimento, e in particolare «è l'arte di ben ordinare le marce di un esercito, di definire e coordinare l'ordine di marcia delle truppe nell'ambito delle colonne, l'orario di partenza, il loro itinerario, e i mezzi di comunicazione necessari per assicurare il loro arrivo al punto indicato: è, questo, l'aspetto essenziale dei compiti di un ufficiale di Stato Maggiore». 41 Infatti - aggiunge J. - una volta gli ufficiali di Stato Maggiore venivano denominati «marescialli d'alloggio», «maggior generali d'alloggio», (o meglio «degli alloggi», visto che nel testo si usa al plurale la parola logis, casa, abitazione, alloggio). Da questa espressione a suo giudizio è venuto il termine logistica, «che si impiega per indicare tutto ciò che riguarda le marce di un esercito».42 Non è così semplice: gli etimi sono più complessi. Come quello di strategia, anche il termine logistica (logistique) non è nuovo e nel secolo XIX assume - questa volta, per merito esclusivo di J. - un significato tipicamente traslato. In altre parole, J. è il primo a indicare con questa antica parola una nuova disciplina - dai contorni per il momento ancora incerti - che si occupa dell'organizzazione e direzione del movimento delle truppe, allora come oggi considerato la quintessenza della strategia. Per sua stessa ammissione, però, di questo problema avevano già
40
A.H. Jomini, Tableau, p. 96. ivi, p. 95. 42 ivi, p. 93. 41
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parlato altri autori francesi, e in particolare Puységur, Grimoard e Guibert. Nelle considerazioni preliminari del Précis egli scrive che il primo ha dato alla luce «un'opera che è stata, io credo, il primo saggio di logistica, e una delle prime applicazioni [moderne] dell'ordine obliquo degli antichi». Degli altri due dice che «hanno fatto fare dei progressi alla tattica delle battaglie e alla logistica», giudicando «eccellente» il capitolo che Guibert dedica alle marce e affermando che Feuquiéres aveva l'istinto della strategia, così come Folard queno de))a tattica e Puységur quello della logistica. 43 Tutti questi autori - noi aggiungeremmo Maizeroy e de Si Iva - parlano anche diffusamente di ciò che J. intende per logistica, ma pur giudicando le marce un aspetto fondamentale dell'arte della guerra non usano mai il termine logistica, che anche in Francia fino alla prima gue rra mondiale è tutt'altro che riconosciuto (sia pur nel significato riduttivo che gli attribuisce per primo lo stesso J.). Nel 1912 il comandante Mordacq chiarisce, ad esempio, con queste parole l'apporto di Puységur: il Maresciallo Puységur (1656-1743) ha lasciato un'opera che ha come titolo L'arte della guerra attraverso i principi e le regole. Vi si trovano interessanti spunti sulla condotta di un grosso esercito. ma ciò che ne costituisce l'aspetto più originale, è che per primo il Maresciallo Puységur si è occupato di ricercare e ha definito Jcllc regole per far muovere un esercito di forza consistente ... Si tratta di una materia che Jomini chiamerà più tardi logistica e che attualmente viene denominata, d'altronde a torto, la strategia di marcia.44
Come la strategia e anzi ancor di più, la logistica in quanto teoria e componente scritta de))'arte militare nasce dunque alla insegna dell'ambiguità. Essa tarda ad assumere un suo autonomo ruolo, presentandosi come serva e parte più importante de)]a strategia. Quest'ultima già negli autori francesi della seconda metà del secolo XVIll, e nello stesso piemontese de Silva, si riassume in gran parte nena rapida e sapiente organizzazione e esecuzione delle marce dell'esercito. J. riscopre un termine, che in origine ha diversi significati civili o militari, tutti però molto lontani da quelli che egli vuole attribuirgli, attinenti ai movimenti e alle marce. Paradossalmente, negli antichi etimi del termine prevalgono proprio quei significati di «calcolo» e di «arnmini-
43
A.H. Jomini, Précis, p. 12 e 14. Commandant Mordacq (de l'Ecole Supérieure de Guerre), La stratégie - historique, Evolution, Paris, L. Foumier 1912, p. 27. 44
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strazione», che poi nel secolo XX saranno vincenti. Rivincite della storia, e al tempo stesso del buon senso: lo spedito movimento di un grosso esercito, che tanto sta a cuore a Puységur, Guibert, de Silva e Jomini è la risultante prima di tutto di un complesso di predisposizioni relative ai Servizi logistici, e in particolare (per gli eserciti di allora) al vettovagliamento, ai carriaggi e alle artiglierie. Lo stesso Guibert dedica pagine significative all'eccessivo peso delle impedimenta al seguito degli eserciti di fine secolo X:Vill, e alla funzione ritardante delle preoccupazioni per il vettovagliamento ... Sta di fatto che l'Enciclopedia Francese del 1754 parla di logistica come termine algebrico e cita il logistés, magistrato ateniese che ha il compito di ricevere e controllare i conti da coloro che lasciano pubbliche cariche. L'Enciclopedia Italiana 1933 afferma che logistés era, nella flotta dell'antica Grecia, l'incaricato delle paghe e de11'equipaggio della nave. Più o meno le stesse cose dice il Vocabolario Universale della lingua italiana del Tramater (1845), aggiungendo che «né tempi dell'Impero di Costantinopoli, lof?ista era il titolo dé notari che tenevano i pubblici registri, detti perciò ragionieri, computisti, scritturali, ca,;sieri». Nel Dictionnaire d'art et d'histoire militaires del Corvisier, B. Kroener riprende queste interpretazioni e trascura il ruolo fondamentale di J. nella riscoperta di questo termine, scrivendo che «La radice del termine logistica è greca. Il verbo logistéuo significava originariamente amministrare. Nelle legioni romane, il «logista» era l'Intendente [cioè il funzionario addetto alla gestione finanziaria e agli approvvigionamenti - N.d.a.]. Nella Media Età e all'inizio dei tempi moderni l'espressione logistica ha assunto un significato più generale, indicando la scienza del ragionamento e del calcolo. A partire dalla seconda metà del secolo XVIII la si ritrova - sia pure non frequentemente - ne11e opere sull'arte della guerra, particolarmente in Francia dove in quest'epoca viene pubblicata buona parte delle opere di questo genere».45 Oltre a non precisare bene con quale nuovo significato viene reintrodotta la logistica nel secolo XVill, il Kroener confonde anche le idee, affermando che «in campo nùlitare, la logistica ha inizialmente rappresentato la scienza che si occupa in via preventiva delle combinazioni dei due fattori essenziali che condizionano il movimento tattico de11e truppe - il tempo e lo spazio». A parte il fatto che la logistica entra prima di tutto - e anzi principalmente - nei movimenti strategici delle truppe, non è forse la strategia - comunque intesa - a combinare, prima di tutto, il tempo e lo spazio? La logistica entra in campo solo in seconda battuta, per rendere concretamente attuabili - con
45
A. Corvisier, Dictionnaire d'art et tfhistoire militaires, Paris, PUF 1988, p. 522.
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l'organizzazione dettagliata del movimento, delle marce e del1o stazionamento - le combinazioni della strategia. Di fronte a queste oscillazioni di significati e alJa scarsa chiarezza d'idee sul ruolo della logistica e sul suo retroterra teorico che si nota anche in autori del XX secolo, ]e ambiguità di J. e la sua visione ristretta vanno ampiamente giustificate. Tanto più che la limitazione del ruolo e del significato della logistica a tutto ciò che riguarda il movimento e lo stazionamento non significa che J. trascuri l'importanza dei rifornimenti, e quindi de11a logistica nel senso attuale del tennine. Semplicemente, per Jornini quello dei rifornimenti è uno dei tanti fattori da considerare in sede strategica. Quando egli indica la quantità di materiali da portare al seguito come una del1e predisposizioni da considerare in sede di calcoli logistici, implicitamente ammette già il nesso esistente tra trasporti e materiali; e il 13° fattore da considerare in sede di combinazioni strategiche è, appunto, il rapporto tra magazzini e movimento dell'esercito. Un intero articolo del Tableau, il Xlll (sempre facente parte deUa Sezione I del Capitolo II, dedicata a11a strategia e a11a tattica) tratta i magazzini. Si può solo dire, in proposito, che J. inaugura la lunga serie degli autori che, dopo aver riconosciuto in linea di principio l'importanza dei rifornimenti, del supporto logistico insomma, rimane abbagliato dal gran faro della strategia ed evita di approfondire l'argomento: l'arte [nostra sottolineatura - N.d.a.) di far vivere un esercito in un paese nemico e nel corso di operazioni attive è una delle più diffi cili. Quantunque la scienza di un Intendente generale46 sia estranea allo scopo che mi propongo, la questione del sistema di magazzini si ricollega alle combinazioni della strategia perché essa può influire sulle operazioni (l'opera del generale Cancrin, già Intende nte generale delle armate russe, non potrebbe essere troppo raccomandata; si trova poco di così soddisfacente sull'arte di amministrare le sussistenze).47
A questo punto J. ben riassume tutto quello che c'è da dire sui sistemi di approvvigionamento e sulle diverse soluzioni adottate, a cominciare dagli antichi fino a Napoleone. Ancora una volta, più che di evoluzio46 Già nella seconda metà del secolo XVUI l'Intendente generale era un funzionario civile con sede presso il quartier generale dell'esercito, al quale il Re affidava la gestione delle spese per la guerra e il controllo dell'osservanza delle disposizioni da lui emanate, e in particolare il pagamento del soldo alle truppe, la fornitura di viveri e foraggi, la sanità militare, l'esazione dei contributi per la guerra dalle popolazioni locali (Cfr. Enciclopedie
Française 1754, Voi. VIII, p. 812). 47 A.H. Jomini, Tableau. p. 134.
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ne si può parlare di mutamenti e di ritorno periodico a vecchie soluzioni, in base alle circostanze, alle mutevo1i esigenze dei tempi e alla forza numerica degli eserciti. Secondo J. il sistema di approvvigionamento degli antichi non è affatto ben conosciuto, perché tutto ciò che dice Vegezio dell'amministrazione dei Romani, non è sufficiente per svelare il meccanismo di «una branca assai complicata». Come hanno fatto - si chiede J. - Dario e Serse a far vivere i loro immensi eserciti nella Tracia, quando ai nostri giorni si riesce a malapena a nutrire 40 o 50.000 uomini? Anche nel Medio Evo gli Imperatori greci, i barbari e più tardi i Crociati furono in grado di nutrire masse considerevoli d'uomini. Nei primi tempi della storia moderna, si deve credere che le truppe di Francesco I, che hanno superato le Alpi per entrare nella fertile Italia, non portavano affatto dei grandi rifornimenti al loro seguito, perché esse non comprendevano che 40 o 50.000 uomini, e un esercito così ridotto non trovava difficoltà a vivere nelle ricche valli del Ticino e del Po. Sotto Luigi XIV e Federico II eserciti più numerosi, che combattevano in corrispondenza del1e frontiere dei rispettive Stati, sono stati regolarmente alimentati con i magazzini e i forni mobi1i per pane che avevano al seguito. Questa soluzione vincolava molto le operazioni , perché non forniva la possibilità di allontanarsi dai depositi al di là di uno spazio proporzionato ai mezzi di trasporto, alla quantità di razioni che potevano portare, e al tempo (misurabile in giorni) che era necessario al carreggio per andare e venire dai depositi alla zona de11e operazioni. Più che introdurlo, la Rivoluzione ha reintrodotto il sistema di vivere sul Paese. È stato Cesare - ricorda J. - a dire che la guerra doveva nutrire la guerra, e «se ne è generalmente concluso che egli viveva sempre a spese del Paese che percorreva». Dopo il 1789, è stata la necessità a far trascurare i magazzini [quindi, non si è trattato di una scelta strategica, o di una nuova acquisizione teorica - N.d.a]. Il nuovo - o se si preferisce, il vecchio - sistema ha fornito dei vantaggi, ma anche degli inconvenienti: delle armate numerose, che hanno invaso il Belgio e la Germania senza approvvigionamenti, hanno vissuto sia presso gli abitanti, sia con requisizioni forzate nel Paese invaso, sia, infine, di saccheggio e di ruberie. Marciare accantonandosi presso gli abitanti è possibile in Belgio, in Italia, in Souabe, sulle ricche sponde del Reno e del Danubio, soprattutto se l'esercito muovendo su diverse colonne, non passa i 100-120000 uomini; ma questo diviene difficilissimo in altre regioni, e impossibile in Russia, in Svezia, in Polonia, in Turchia. Se ne deduce che un esercito agisce con maggior impeto e
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velocità, allorché non ha altro calcolo da fare che quello del vigore deJJe gambe dei suoi soldati. Questo sistema ha fornito dei grandi vantaggi a Napoleone; ma egli ne ha abusato, applicandolo su una scala eccessiva, e in regioni dove esso era impraticabile Lcome la Spagna e la Russia - N.d.a.]. 48
A questo punto, sotto il probabile influsso del Guibert J. fornisce com'è suo costume - tutta una serie di indicazioni e di massime generali che il Capo di un esercito deve seguire, basate sul principio di vivere fin che possibile sul Paese, ma evitando eccessi, disciplinando fin che possibile lo sfruttamento delle risorse locali e riducendone al minimo la necessità: il capo di un esercito deve saper far concorrere alle sue attività operative tutte le riserve esistenti nel Paese che invade; egli deve far ricorso alle autorità locali, se sono rimaste, per imporre delle requisizioni uniformi e legali. Se le autorità non sono rimaste, deve nominarne delle provvisorie, fornite di poteri straordinari. Gli approvvigionamenti così requisiti dovranno essere riuniti nei punti più sicuri e più favorevoli al movimento dell'esercito, vicino alle estremità delle linee d'operazione. Allo scopo di diminuire la quantità di approvvigionamenti necessari, si potrà far accantonare la maggior quantità di truppe possibile nei paesi e nei villaggi, indennizzando gli abitanti per il gravame che ne risulterà. L'esercito, oltre che le proprie provviste di viveri e foraggi, avrà dei parchi di vetture ausiliarie fornite dal Paese stesso, affinché i rifornimenti possano arrivare anche alle truppe che rimangono ferme a lungo. 49
Sono, questi, i lineamenti essenziali del sistema di approvvigionamento teorizzato e seguito dai principali eserciti - ivi compreso naturalmente quello italiano - dal 1848 fino al 1914-1915 e alla guerra di trincea. J. vi aggiunge delle massime generali, pur ammettendo che «è assai difficile stabilire delle regole su ciò che sarebbe prudente intraprendere, senza organizzare in precedenza dei magazzini, oppure tracciare la demarcazione esatta tra il possibile e l'impossibile. Le regioni geografiche, le stagioni, la forza degli eserciti, l'atteggiamento delle popolazioni, tutto varia in queste combinazioni».50 In proposito le riflessioni più degne di menzione di J. sono due. La
48
ivi, pp. 135-136. ivi, pp. 136-137. 50 ivi, p. 137.
49
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prima riguarda le ricadute logistiche delle guerre nazionali o di popoli (esempio classico, la Spagna 1808-1813). In queste guerre o nei Paesi come la Turchia - dove la popolazione fugge e distrugge tutto, è impossibile muovere senza avere al seguito dei magazzini regolari, e senza avere una base sicura di approvvigionamento in prossimità della fronte d'operazioni, «ciò che rende la guerra d'invasione molto più difficile, per non dire impossibile» [Napoleone questo non lo aveva capito, o non lo voleva ammettere - N.d.a.]. II secondo aspetto riguarda le ricadute logistiche del potere marittimo [classico esempio, le campagne di Weilington in Spagna - N.d.a.] e, insieme, i controversi risvolti strategici delle operazioni in vicinanza del mare:
la vicinanza del mare offre grandissimi vantaggi per gli approvvigionamenti di un esercito: quello che può contare sul dominio del mare, sembra non dover mai mancare di nulla. Tuttavia, questo vantaggio ha anche i suoi inconvenienti per un grande esercito continentale, perché allo scopo di mantenere comunicazioni sicure con i suoi magazzini, sarà indotto a mantenere le sue operazioni neJla zona vicina al mare, ciò che potrebbe esporlo a dei crudeli disastri, se il neinico investisse con la ma<;se delle sue forze l'estremità opposta al mare. In questo caso, l'esercito si allontana troppo dalJa costa, le sue comunicazioni possono essere minacciate oppure intercettate, e i mezzi e materiali di qualsiasi specie devono essere aumentati man mano che si allontana. L'esercito continentale che ricorrerà al mare per facilitare il suo arrivo in zona di operazioni, non deve trascurare di costituire la sua base d'operazioni sulla superlicie terrestre, con una riserva di approvvigionamenti indipendente dai rifornimenti via rnare.51
Anche nelle guerre nazionali o di popolo - evidente, anche qui, il riferimento alla guerra di Spagna - il dominio del mare influenza grandemente i risultati dell'invasione di una nazione: se il popolo che si solleva può contare su una grande estensione delle coste, se esso è padrone del mare, o alleato di una potenza che lo domina [nella fattispecie, l'Inghilterra - N.d.al, allora la sua resistenza è centuplicata, non solamente per la facilità che si ha nell'alimentare i focolai d'insurrezione, di mettere in allarme il nemico su tutti i punti del Paese che occupa, ma altresì per la diffi51
ivi, pp. 139-140.
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coltà che esso opporrà agli approvvigionamenti dell'esercito occupante.52
Si può concludere che nel Tableau Jomini, pur comprendendola ancora nella strategia, non trascura affatto il ruolo della logistica nel senso attuale del termine, e valuta in maniera corretta il suo rapporto con la strategia. Le sue osservazioni sono solo apparentemente scontate, visto che fino all'ultima guerra sono state spesso dimenticate. Vi è peraltro da osservare che egli giudica in modo assai riduttivo e troppo sommario la logistica di Federico II; il Re di Prussia, infatti, quando non ha potuto evitarlo ha fatto ricorso anche alle risorse locali, né ha dimostrato, con la sua strategia eminentemente offensiva e di movimento, di rimanere troppo legato ai magazzini. Soluzioni pratiche come quelle dei forni mobili dimostrano che, con un certo successo, egli ha cercato di al leggeri re le truppe nel modo giusto, cioè non eliminando magazzini e supporto logistico al seguito ma rendendoli mobili fin che possibile. Il che significa: non eliminare o ridurre il peso della logistica magari ricercando strategie ad hoc, ma adeguarla alle specifiche esigenze strategiche, ricercando modi e mezzi per renderla aderente al movimento. Includendo nel campo strategico una così svariata serie di elementi da considerare, J. tende a fare della strategia più una scienza che un'arte, tanto più che il teatro delle operazioni che egli immagina è leueralmente costellato di linee, punti, basi che lo avvicinano assai - anche al di là delle sue intenzioni - a un sistema geometrico, a una sorta di intelaiatura da predisporre prima di passare all'azione. Strategia, dunque, non come linea d'azione ma come preparazione e riferimento per l'azione. Questa concezione traspare anche nei contenuti attribuiti da J. alla tattica o gran tattica, che nel Tableau diventa cosa assai più complessa di quanto scaturisce dalla sommaria definizione del Traité. Essa riguarda «le manovre di un esercito nel giorno della battaglia, i combattimenti, la sistemazione del campo, le diverse formazioni per condurre le truppe all'attacco».53 Più nel dettaglio, comprende: 1°) la sistemazione del campo; 2°) la scel. ta delle linee di battaglia difensive; 3°) la difensiva-offensiva; 4°) i differenti ordini di battaglia, o grandi manovre per attaccare una linea nemica; 5°) lo scontro di due armate in marcia e la battaglia d'incontro che ne deriva; 6°) le sorprese tra eserciti in movimento; 7°) le disposizioni per condurre le truppe al combattimento. J. giudica futili le controversie sulla determinazione di una netta li-
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ivi, p. 30. ivi, p. 60.
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nea di demarcazione tra la strategia e la tattica. Parecchie operazioni (passaggio di fiumi, ritirate, sbarchi) che sono incluse nella strategia per i loro rapporti con il piano generale di campagna e con l'insieme del teatro di guerra, appartengono invece alla tattica per quanto riguarda le modalità d'esecuzione. La definizione del punto o della direzione nella quale conviene all'esercito di agire è una combinazione essenzialmente strategica, ed è per mezzo di manovre strategiche che vi si previene il nemico. Perciò la strategia è l'arte di fare la guerra sulla carta, l'arte di abbracciare tutto il teatro di guerra; la tattica è l'arte di combattere sul terreno, di disporvi le forze a seconda delle sue caratteristiche, di metterle in azione su diversi punti del campo di battaglia, vale a dire in uno spazio di tre o quattro leghe, in modo che tutti i corpi che vi agiscono possano ricevere ordini - ed eseguirli - azione durante. Si è criticato la mia definizione senza fornirne una migliore; è certo che molte battaglie sono state decise tramite dei movimenti strategici, e non sono state che una serie di siffatti movimenti; ma questo è avvenuto solo contro degli eserciti non riuniti, cac:;o che fa eccezione; poiché la definizione generale si applica solo a delle battaglie campali, essa non è di meno esatta.54
Pur appartenendo più che altro alla «tattica secondaria» o «di dettaglio», il modo di disporre le truppe sul campo di battaglia e l'impiego delle varie Armi costituiscono al tempo stesso una del1e principali combinazioni di un condottiero quando si tratta di impegnare battaglia. Più in generale, per J. la grande tattica riguarda tutte le operazioni che devono essere eseguite sul terreno da parte di un esercito intero, mentre il nome di tattica secondaria si dà a tutto ciò che compete a una divisione isolata, una brigata, o un qualunque distaccamento. L'ottica con la quale J. guarda alla strategia, alla tattica e alla tattica secondaria o di dettaglio e ai rispettivi campi di sovrapposizione lo porta a conclusioni di grande portata, che ne contrassegnano l'intera opera e ne indicano i limiti. Per lui è la strategia - non la tattica - ad avvicinarsi di più a una scienza esatta, a comprendere elementi fissi e immutabili, a essere facilmente assoggettabile a principi e regole fisse. Grande tattica e tattica secondaria hanno un terreno comune: la formazione e l'impiego delle truppe, che pertanto segna anche la loro linea di demarcazione. La loro intima natura ne fa qualcosa di molto diverso, e di molto meno prevedibile, della strategia:
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ivi, pp. 60-6 I.
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qui le dottrine diventano meno fisse, e si ricade senza alternative nel campo dei vari sistemi: e non è altresì senza meraviglia che noi abbiamo visto molto di recente uno dei più celebri scrittori moderni [il riferimento è a Clausewitz? - N.d.a.] pretendere che la tattica ha leggi costanti ma che la strategia non ne ha, quando è tutto il contrario. La strategia è composta da fattori geografici invariabili, la cui importanza relativa si calcola tenendo presente la situazione delle forze nemiche, situazione che ammette solo un ridotto numero di variabili, perché le forze nemiche si troveranno divise o riunite sia al centro, sia su una delle due estremità. Niente di più facile che sottomettere degli elementi così semplici (sic) a regole derivanti dal principio fondamentale della guerra: giammai una scienza militare è stata meglio definita come la strategia ai nostri giorni [nostra sottolineatura - N.d.a.]. Lo stesso avviene per le combinazioni degli ordini di battaglia, che possono essere sottomesse a delle massime ugualmente riferibili al principio generale. Ma i mezzi di esecuzione, vale a dire 1a tattica propriamente detta, dipendono da tali e tante circostanze, che è impossibile fornire delle regole di condotta per gli innumerevoli casi che si possono presentare. Per accertarsene, è sufficiente leggere le opere che ogni giorno sono pubblicate su queste parti dell'arte militare, senza che i vari autori si trovino d'accordo; e se ci si trova di fronte a due distinti generali di fanteria e di cava1leria, è ben raro che essi arrivino a intendersi perfettamente sul metodo più conveniente per eseguire un attacco. [ciò vale anche per strategia da seguire! - N.d.a.]. Se si aggiunge a questo l'enorme differenza esistente nel talento dei capi, nella loro energia, nel morale delle truppe, ci si convince che la tattica d'esecuzione sarà eternamente ridotta a dei sistemi contraddittori, e che già sarebbe molto se si arrivasse a definire qualche massima regolatrice per impedire almeno che le false dottrine si introducano nei sistemi che adotteremo. 55
Logica paradossale e solo apparente. Essa mira a liberare la strategia dal peso di fattori imponderabili (se è così, a che cosa serve, allora, fare un piano di campagna? dove si manifesta il genio del Capo?) e vorrebbe restringere tale peso proprio al campo più ristretto, quando se mai è vero il contrario. Vi è anche, in questo approccio, un errato concetto del significato di teoria e dottrina. Posto che per ambedue queste categorie di pensiero l'unico metro di giudizio è la loro aderenza alla realtà, la dottrina è l'adattamento a un caso concreto di principi e concetti teorici, regole e tecniche, ma - se rettamente intesa - va vista solo come una
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ivi, pp. 18 1-182.
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guida, un riferimento comune tanto più necessario e facile ai minori livem: mai come qualcosa di rigido e sempre vincolante. Se due generali non si trovano d'accordo sul miglior modo di risolvere un problema tattico, ciò non significa che non debbano e non possano avere una guida, un riferimento comune che non fornisca ricette o soluzioni, ma il materiale per adottarle in maniera corretta interpretando lo spirito, i contenuti della strategia. Questo, anche se non potranno mai essere considerate a priori tutte le variabili, e non si potrà mai prescindere dalla personalità di ognuno ... L'elemento da sottolineare in J. è comunque lo stretto raccordo tra geografia e strategia, fino a fare di quest'ultima una sorta di riflesso obbligato di fattori geografici. Non senza ragione, quindi, si potrebbe definire la sua geostrategia, più che semplice strategia: perché il sedimento geografico prevale su qualunque altro aspetto da considerare nel problema strategico ... In sintesi il Tableau porta a maturazione le principali direttrici del pensiero che già troviamo nel Traité. Il nocciolo duro dell'opera è indubbiamente rappresentato dalle Sezioni I e II del capitolo Il, che trattano della strategia e della tattica; ma non si può non rilevare il notevole spazio dedicato alle spedizioni oltremare e soprattutto alla politica di guerra/politica militare. In questo caso almeno, la manìa de1l'autore di classificare, ordinare, fornire massime e indicazioni dà buoni frutti e mette in evidenza interfaccia ancora di interesse attuale. Ricordiamo quale esempio conclusivo quanto egli afferma nel dettaglio a proposito delle basi della politica militare. 56 1) Il principe deve sforzarsi di diventare lui stesso uomo di toga e di spada, perché gli uomini che troverà nei suoi consigli in genere non saranno tali ma piuttosto dei buoni amministratori. 2) L'esercito permanente non deve solamente essere mantenuto a livelli di forza e preparazione considerevoli; bisogna essere in misura di raddoppiarlo, al bisogno, con riserve ben preparate. La sua istruzione e la sua disciplina devono procedere di pari passo con la sua buona organizzazione; infine, i suoi sistemi d'arma devono essere perfezionati almeno quanto quelli dei suoi vicini, se non essere superiori. 3) Il materiale deve essere ugualmente approntato al meglio e rendere possibile la costituzione delle riserve necessarie. 4) Lo studio delle scienze militari deve essere protetto e ricompensato, almeno come il coraggio e lo zelo. I corpi ai quali queste scienze sono necessarie [l'artiglieria e il genio - N.d.a.] devono dunque essere 56
ivi, pp. 52-53.
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preparati e onorati. È il solo modo di richiamarvi da tutte le parti degli uomini di merito e di genio. 5) Lo Stato Maggiore Generale deve essere impiegato in tempo di pace in lavori preparatori per tutte le eventualità di guerra possibili. I suoi archivi devono essere forniti di numerosa documentazione storica per il passato, e di tutti i documenti statistici, geografici, topografici e strategici per il presente e l'avvenire. È di importanza essenziale che in tempo di pace il Capo di questo Corpo e una parte degli ufficiali siano di stanza permanente nella capitale, e che il deposito della guerra non sia altro che il deposito dello Stato Maggiore GeneraJe, salvo a costituirvi una sezione segreta per i documenti che gli ufficiali del Corpo non sono autorizzati a consultare. 6) Nulla deve essere trascurato per conoscere a fondo la geografia e la statistica [cioè: i dati essenziali sull'economia, la popolazione, le industrie, le forze militari, ecc. - N.d.a] degli Stati vicini. Bisogna conoscere i loro mezzi materiali e morali di attacco e di difesa, le possibilità strategiche delle due parti, ecc., impiegando per questi studi gli ufficiali più distinti e ricompensandoli se essi sanno impadronirsi in modo notevole di questi argomenti. 7) Una volta che la guerra è decisa, bisogna definire - se non un piano completo di operazioni, il che è sempre impossibile - almeno un sistema d'operazioni nel quale viene indicato un obiettivo, e ci si assicura una base. Il sistema di operazioni deve essere in armonia con lo scopo della guerra, con la situazione delle forze nemiche, la natura e le risorse del Paese, il carattere della nazione nemica e dei suoi capi, e deve prendere in considerazione anche le possibili alleanze delle due parti nel corso della guerra. A questo punto J. - in contrasto con altre parti della sua opera che mettono in risalto l'importanza della preparazione militare e della logistica/amministrazione e accennano alla rivoluzione industriale - sembra sottovalutare assai il ruolo delle risorse finanziarie nel potenziale bellico, facendolo coincidere non tanto con le possibilità di approvvigionamento e del rinnovo dei materiali, ma con la semplice paga della truppa (che diventa cosa trascurabile se l'esercito è di leva): lo stato delle finanze di una nazione non deve essere omesso nella valutazione del potenziale bellico. Nondimeno, sarebbe dannoso dargli tutta l'importanza che gli ha attribuito Federico il Grande. li gran Re poteva aver ragione in un'epoca [seconda metà del secolo XVIlI - N.d.a.] dove il reclutamento degli eserciti era per la maggior parte volontario; allora l'ultimo scudo forniva l'ultimo soldato; ma se la circoscrizione obbligatoria è ben organizzata, il denaro
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non avrà più la medesima influenza, almeno per una o due campagne. Se l'Inghilterra ha dimostrato che il denaro procurava dei soldati e delle truppe ausiliarie, la Francia ha dal canto suo provato che l'amore della Patria e l'onore fornivano ugualmente dei difensori, e che al bisogno la guerra poteva nutrire la guerra [...] Anche una potenza che rigurgita d'oro potrebbe difendersi assai malamente: la storia dimostra che i popoli più ricchi non sono i più forti, né i più fortunati. Il ferro pesa almeno quanto l'oro nella valutazione della forza militare. 57
L'indicazione di questi elementi di base della politica militare è ancor oggi condivisibile; essa ha il solo torto di ignorare che condizione necessaria - anche se non sufficiente - perché una nazione moderna sia una potenza militare, è che sia prima di tutto una potenza industriale ed economica, con finanze solide. Nel Tableau, insomma, J. ha ancora un concetto «agricolo» della guerra, anche se intravede tutta l'importanza di uno Stato Maggiore moderno e ne indica con sufficiente precisione i compiti, nun certo ristretti alle scienze geografiche. Il ferro - egli dice pesa almeno quanto l'oro: ma nelle moderne guerre industriali - questo è il punto - non si può avere il ferro, senza avere l'oro.
ll «Précis» del 1837: difesa da Clausewitz? In quest'opera - canto del cigno di J. stratega e teorico - una sola nuova acquisizione, anzi una novità assoluta nel pensiero militare: la logistica come autonoma branca dell'arte della guerra. Molte conferme: la strategia che può essere soggetta anche a dogmi, cioè a principi considerati come verità assolute, o ad assiomi, cioè a verità evidenti per sé stesse, universalmente accettate senza dimostrazione. L'importanza della politica militare, dei rifornimenti, della geografia e della statistica. Sono questi i caratteri salienti del Précis de l'art de la guerre del 1837, caratteri in armonia con questa parola che significa appunto compendio, riassunto, riepilogo. Ad essi aggiungeremmo le abili difese dalle più ricorrenti critiche, e anche qualche puntata offensiva contro l'opera del già defunto Clausewitz (esamineremo questi aspetti, trattando delle teorie del generale prussiano). In risposta a Clausewitz, ne11a conclusione del Précis J. cerca di bilanciare la tendenza a concepire la strategia come qualcosa di molto vi-
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ivi, pp. 55-56.
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cino a una scienza positiva richiamando l'importanza dei fattori morali, che gli fa pensare anche all'arte (e non scienza) della guerra: ci siamo sforzati di rintracciare i punti principali che ci sono parsi suscettibili di essere presentati come massime fondamentali della guerra. Tuttavia la guerra nel suo insieme non è affatto una scienza ma un'arte. Se la strategia soprattutto può essere sottomessa a delle massime dogmatiche che si avvicinano ad assiomi delle scienze positive, non è men vero che l'insieme delle operazioni di una guerra, e i combattimenti tra le altre, sfuggono a tutte le combinazioni scientifiche, per offrirci delle azioni essenzialmente drammatiche, nelle quali le qualità personali, le ispirazioni morali e mille altre cause, avranno talora (parfois) il primo ruolo. 58 Tentativo di conciliare ciò che non può essere conciliato: se si ammettono «delle massime dogmatiche che si avvicinano ad assiomi delle scienze positive>>, allora non rimane molto spazio - almeno nel campo della strategia - per l'influsso dei fattori morali e di «mille altre cause». Una cosa o l'altra: a meno che J. non voglia ]imitare tale influsso alla tattica, alla condotta de11e operazioni, ciò che sarebbe ancora meno logico. D'altro canto, non è eccessivo affermare che «l'insieme delle operazioni di una guerra, e i combattimenti tra le altre sfuggono a tutte le combinazioni scientifiche?» Tanto più che subito dopo J. aggiunge considerazioni sostanzialmente anche oggi condivisibili, miranti a dimostrare che l'importanza di fattori morali non esclude di per sé l'utilità di dottrine tattiche (così tradurremmo il termine régles): Le passioni che agiteranno le masse chiamate a scontrarsi, le loro qualità guerriere, il carattere, l'energia e il talento dei capi; lo spirito più o meno guerriero, non solamente delle nazioni, ma anche dell'epoca; in una parola lutto quello che può essere chiamato la poesia e la metafisica della guerra, influirà eternamente sui suoi risultati. Ma questo significa affermare che non vi sono regole di tattica, e che nessuna teoria di tattica sarebbe utile? Quale militare ragionevole oserebbe pronunciare una tale bestemmia?. 59
Su questo, si può essere d'accordo in linea di massima con J.: ma perché escludere la strategia - che è madre della tattica - dall'influsso degli stessi fattori morali e spirituali? Si trova in queste parole la confer-
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A.H. Jomini, Précis, Voi. 11, p. 288. ivi, pp. 288-289.
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ma delle precedenti affermazioni del Tableau da noi citate, che vorrebbero presentare la strategia come cosa semplice, il che equivarrebbe a dire: è cosa facile pensare, progettare, pianificare un'operazione, il difficile è eseguirla. Progettarla in un modo qualsiasi, è certamente facile: ma progettarla in modo aderente alla realtà? Posto che tra pensiero e azione vi deve pur essere un'unità e un raccordo, che validità avrebbe un pensiero che non considera tutti i fattori capaci di influenzare, condizionare l'azione? Se mai, tali fattori dovrebbero farsi sentire prima di tutto sul pensiero stesso, spingendolo - nel caso concreto - alla massima flessibilità, e sollolinean<lo l'importanza di considerare fin dall'inizio il vecchio detto di Francesco Guicciardini sui molti fattori imponderabili che rendono le guerre sempre più difficili di quello che sembrerebbe all'inizio. La pretesa facilità delle operazioni di ricerca delle combinazioni strategiche contrasta anche con la metodica da seguire per studiare il problema strategico. Per J., mentre in tattica si comincia dal basso, dalla scuola di plotone, poi a quella di battaglione, poi alle piccole operazioni del servizio di campagna ecc., fino alla formazione e all'impiego di un grande esercito, in strategia è tutto il contrario: si parte subito dalla sommità, cioè dal piano di campagna. È così facile? Né sono facili e semplici i compiti (strategici) del generale in capo quando entra in guerra, visto che, a quanto afferma lo stesso J, la prima cura del comandante dell'esercito sarà di concordare con l'autorità politica il tipo di guerra che dovrà condurre; in seguito egli dovrà ben studiare il teatro delle operazioni; dopo egli sceglierà, di concerto con il capo dello Stato, la base d'operazioni più conveniente, in base alle caratteristiche delle frontiere proprie e dell'avversario.60
D'altra parte, la fede nei principi dell'arte militare immanenti nella storia che già scaturisce dal Traité non viene menomamente scalfita: parecchi avvenimenti dimostrano meglio di tutti i ragionamenti del mondo, che nessun sistema d'operazioni è buono se non applica i principi. Non ho affatto la pretesa di aver creato questi principì, perché essi sono esistiti in tutti i tempi, e Cesare, Scipione e il console Nerone li hanno applicati bene come Marlbouroug e Eugenio, per non dire meglio. Ma io credo di averne fornito per primo la dimostrazione, prendendo in esame le principali possibilità di appli60
ivi, Voi. I, p. 149.
Il - IL BARONE JOMJNl E L'ARCIDUCA CARLO
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carli, in una opera nella quale i precetti discendono dai fatti stessi, e nella quale le modalità di applicazione sono costantemente alla portati di questi fatti. 61
Se per applicare bene questi principi è stato necessario ricorrere a condottieri come Cesare, Scipione, ecc., la strategia è dunque cosa così semplice? Anche a proposito della logistica e della necessità di inserirla a pieno titolo nell'arte della guerra, J. è tutt'altro che convincente e sicuro. Nel Précis egli dedica alla logistica (definita «arte pratica di muovere le armate») il capitolo VI del Vol. II, volume nel quale tratta argomenti particolari. La considera, dunque, staccata dalla strategia, ma incomincia il capitolo esprimendo dei dubbi: la logistica è unicamente una scienza del dettaglio? O al contrario, è una scienza generale, che forma una parte essenziale dell'arte del-
la guerra? o forse non è che un'espressione consacrata dall'uso, per indicare vagamente le diverse branche del servizio di Stato Maggiore, vale a dire le diverse modalità d'applicazione, delle combinazioni teoriche dell'arte della guerra alla condotta delle operazioru.?..62
J. si dichiara «imbarazzato» nel rispondere a questi interrogativi. Afferma di avere - nel Tableau - relegato la logistica nelle attività esecutive tipiche del servizio di Stato Maggiore, seguendo i pregiudizi del tempo. Ma con il nuovo modo di fare la guerra, il problema del movimento è diventato più complesso e gli Stati Maggiori hanno ricevuto attribuzioni sempre più estese, fino a comprendere tutte le branche del servizio di campagna e delle relative operazioni: da quanto precede risulta naturalmente, che l'antica logistica non sarebbe più sufficiente per indicare tutto il servizio di Stato Maggiore, e che le attuali funzioni di questo corpo, se si volesse dargli un'istruzione che risponda pienamente ai suoi compiti, sarebbero ancora da regolamentare, in parte in un corpo dottrinale, in parte in disposizioni regolamentari [... ] Se si riconosce che l'antica logistica non era che una scienza di dettaglio per disciplinare la materia riguardante le marce; se è vero che oggidì le competenze dello Stato Maggiore comprendono le combinazioni più elevate della strategia,
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ivi, p. 289. ivi, Voi. II, p. 146.
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bisogna anche ammettere che la logistica non è più che una parte del servizio di Stato Maggiore, oppure che bisogna darle un diverso sviluppo e farne una scienza nuova, che non sarà più di competenza del solo Stato Maggiore, ma anche del generale in capo. 63
A queste idee piuttosto nebulose, dalle quali tutto traspare meno che il moderno concetto di logistica, fa seguito la solita, minuta elencazione delle svariate materie che essa dovrebbe trattare per comprendere tutto ciò che riguarda il movimento degli eserciti e le attività di dettaglio connesse, di competenza precipua degli Stati Maggiori: 1) far preparare anzitutto i materiali necessari per radunare e mettere in movimento l'esercito; 2) redigere gli ordini del generale in capo per le diverse azioni e i piani d'attacco; 3) concertare con i comandanti dell'artiglieria e del genio le misure per stabilire i depositi coperti e i punti da fortificare; 4) ordinare e dirigere le ricognizioni e procurarsi con ogni mezzo le informazioni sul nemico; 5) stabilire le modalità di dettaglio per i movimenti; 6) formare e dirigere avanguardie, retroguardie e distaccamenti, fornendo loro istruzioni e munendoli dei materiali necessari; 7) fornire le istruzioni generali (disposizioni permanenti) ai comandanti di corpo e ai loro Stati Maggiori; 8) indicare alle avanguardie e agli altri corpi distaccati dei punti di riunione ben stabiliti, nel caso che siano attaccati; 9) ordinare e sorvegliare la marcia dei parchi d'equipaggio, delle munizioni, dei viveri e delle ambulanze tanto ne1l'ambito delle colonne che nelle retrovie, in modo che essi non ostacolino il movimento delle truppe restando tuttavia ad esse aderenti; prendere le misure per l'ordine e la sicurezza dei convogli sia in marcia che durante il pernottamento e per le barricate di carri (wagenburg); 1O) tenere sotto controllo i movimenti dei convogli destinati a reintegrare le munizioni e i viveri consumati. Assicurare la riunione di tutti i mezzi di trasporto (civili requisiti e militari), regolandone l'impiego; 11) dirigere l'organizzazione degli accampamenti e regolarne il ser-. vizio per la sicurezza e la polizia militare; 12) stabilire e organizzare le linee d'operazione e le linee di tappa dell'esercito. Designare degli ufficiali capaci per organizzare e controllare le retrovie; vegliare sulla sicurezza dei distaccamenti e convogli; mu-
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ivi. pp. 148-150.
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nirli di buone istruzioni; vegliare altresì sull'organizzazione di mezzi di comunicazione tra l'esercito e la sua base; 13) organizzare su queste linee i depositi di convalescenti, di traumatizzati alle gambe e di malati, gli ospedali mobili, gli stabilimenti per la confezione del vestiario; provvedere alla loro sicurezza; 14) tenere nota esatta di tutti i distaccamenti, seguirne l'azione, e se necessario costituire con essi delle riserve strategiche; 15) organizzare i battaglioni e le compagnie di marcia (cioè le unità di complementi); 16) negli assedi, organizzare il servizio delle truppe nelle trincee e concordare con i comandanti del genio i lavori da prescrivere alle predette truppe e le loro modalità d'azione nelle sortite e negli attacchi; 17) prendere le misure necessarie per assicurare l'ordine nelle ritirate, dislocare delle truppe di riserva destinate a sostenere o sostituire le retroguardie; inviare degli intelligenti ufficiali di Stato Maggiore a riconoscere i punti dove le retroguardie possono attestarsi per guadagnare tempo; predisporre con il dovuto anticipo la marcia delle impedimenta, per non abbandonare nulla del materiale; mantenervi severamente l'ordine e prendere i provvedimenti per la loro sicurezza; 18) ripartire gli accantonamenti tra i corpi, indicare a ciascun corpo d'armata il posto che deve occupare in caso d'allarme generale, prescrivere loro le misure di sorveglianza e controllare che ci si attenga puntualmente ai regolamenti. Questa lunga elencazione lascia perplessi e rischia di portare fuori strada: non c'è dubbio, infatti, che qualsivoglia attività di un esercito in guerra ha come referente ultimo il movimento, e che, al contrario, quest'ultimo deve fare i conti con vincoli, limiti ed altre esigenze prima di tutto logistiche che ne definiscono e condizionano il quadro generale. Ciò che, invece, risulta fin da allora abbastanza chiaro, è il legame tra problematica del movimento (o dei trasporti) e problematica dei materiali e rifornimenti. Ma Jomini non tira le fila e sfugge a ogni conclusione, evitando anche di indicare qualche ipotesi di più ristretta delimitazione delle materie di competenza della logistica. Era, questa, l'unica strada praticabile, visto che sarebbe stato senza senso indicare come disciplina specifica - e come branca dell'arte della guerra - il complesso delle attività di dettaglio degli Stati Maggiori, che è materia di istruzioni e regolamenti e non riguarda, in sé, l'arte della guerra e i suoi principì. L'unica cosa che J. consente di sottolineare, è il ruolo dello Stato Maggiore e il suo rapporto con il generale. Le attività minuziosamente elencate - egli precisa - sono di competenza sia del generale in capo che dello Stato Maggiore: ma è proprio per consentire al primo di concen-
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trarsi sulla direzione suprema della guerra che gli è stato dato uno Stato Maggiore in grado di alleggerirlo di tutte le modalità esecutive. In questo senso, le loro attribuzioni sono comuni: disgraziato quell'esercito dove questo non avviene. Ciò per J. capita anche troppo frequentemente, sia perché i generali sono uomini, sia perché non mancano nell'esercito degli interessi e delle pretese in contrasto con i Capi di Stato Maggiore. Infatti i Capi dell'artiglieria, del genio e dell'amministrazione [cioè: dell'attuale logistica esclusi artiglieria, genio e trasporti - N.d.a] pretendono di trattare tutto con il generale in capo e non con il Capo di Stato Maggiore. Nulla senza dubbio deve ostacolare i rapporti diretti di queste Autorità con il generale in Capo; ma egli deve lavorare con esse in presenza del Capo di Stato Maggiore e fargli prendere visione di tutta la corrispondenza; altrimenti nasce confusione. 64
Ufficiale di Stato Maggiore egli stesso, con queste considerazioni J. mostra di tenere in gran conto il ruolo degli Stati Maggiori, e continuamente insiste sulla necessità di avere ufficiali di Stato Maggiore preparati e capaci. La sua visione della personalità del Capo è dunque assai diversa da quella di Napoleone e dello stesso Federico II, che tendono a fare del genio individuale del condottiero, del suo coup d'oeil, un atout decisivo. Molto meno enfatica e se vogliamo, più moderna, la visione di J., che accanto alla capacità del Capo tende a mettere in rilievo la necessità che egli disponga anche di buoni collaboratori e di truppe valorose. Secondo J. un generale teoricamente ben preparato, ma al quale facessero difetto colpo d'occhio, sangue freddo e abilità, può fare un buon piano strategico ma mancare in campo tattico e in presenza del nemico. In tal caso, i suoi piani sono vanificati e la sua disfatta è probabile. Se egli ha del carattere potrà diminuire gli effetti del suo scacco; altrimenti se perde la testa - può anche perdere l'esercito. Lo stesso generale se è un buon stratega e insieme un buon tattico, se ha ben preparato la vittoria con tutti i mezzi in suo potere, e se viene ben assecondato dalle sue truppe e dai suoi luogotenenti potrà conseguire una vittoria notevole. Ma se al contrario egli non comanda che orde indisciplinate, se viene tradito da perfidi collaboratori, vedrà senza dubbio svanire tutte le sue speranze, e anche le sue più indovinate combinazioni strategiche potranno solo ridurre le conseguenze di una disfatta pressoché inevitabile. Siamo, dun-
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ivi, p. 155.
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que, ben lontani dall'esasperata esaltazione napoleonica del Capo, visto che J. aggiunge che la disfatta sarà più sicura, quando con siffatti strumenti egli dovrà combattere un avversario meno abile di lui, ma con truppe agguerrite o piene d'entusiasmo per la loro causa. Nessun sistema tattico può garantire la vittoria quando il morale di un esercito è cattivo, e anche nel caso che esso sia eccellente, la vittoria può dipendere da una causa accidentale come la rottura di un ponte sul Danubio a Essling. 65
Se la fortuna, le buone truppe e i buoni coJlaboratori contano tanto, con l'importanza del Capo viene a diminuire anche l'importanza dei principi che Jominj sostiene con tanta, costante foga Ma egH si affretta a precisare che queste verità non impediscono per nulla l'esistenza di buone massime di guerra che a parità condizioni, possono assicurare la vittoria; e se è vero che queste teorie non potranno insegnare con una precisione matematica ciò che converrebbe fare in tutti i casi possibili , è nondimeno certo che esse indicheranno pur sempre gli errori che si dovrà evitare. Questo sarà già un grande risultato, perché queste massime nelle mani di generali che comandano buone truppe diventeranno garanzia di successo più o meno certo[... ] non potendo essere contestata la veridicità di questo asserto, si tratta di saper distinguere le massime buone da quelle cattive [ ... ] Qualsiasi massima di guerra sarà buona, quando essa avrà come risultato di assicurare l'impiego della più forte massa di mezzi d'azione nel momento e nel luogo opportuno. 66
Abbiamo sottolineato questa ennesima esaltazione del principio della massa, perché essa dal 1803 in poi percorre instancabilmente, ossessivamente l'opera di J., sia che parli di Napoleone che di Federico come di qualsiasi altro generale: per lui, si tratta di una costante certamente non introdotta nel secolo XVID o XIX e dunque non dovuta a Napoleone. Principio semplice, anzi ovvio: per vincere bisogna essere più forti del nemico, e tanto meglio se si è più forti nel punto decisivo. Ma indicando la strategia come cosa a sua volta facile e vicina a una scienza positiva, J. non tanto implicitamente lascia capire che è semplice non solo il prin-
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ivi, p. 292. ivi. pp. 292-293.
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cipio ma il modo di applicarlo concretamente sul campo di battaglia, di farlo entrare in una pianificazione concreta basata sulla carta geografica e sulla statistica, pianificazione che vale in tanto in quanto si uniforma a questo principio. Non risulta, perciò per nulla convincente il commento che (forse per neutralizzare Clausewitz) egli riporta nel Précis: «si è trovato questo principio generale così semplice che le critiche non gli sono affatto mancate. Si è trovato che era molto facile raccomandare di portare le forze principali sul punto decisivo e di saperle impegnare, ma che l'arte consisteva precisamente nel ben riconoscere questi punti. Lungi dal contestare una verità così semplice, io riconosco che sarebbe quanto meno ridicolo enunciare un siffatto principio generale, senza accompagnarlo con tutti i ragionamenti necessari per afferrare, cogliere le differenti possibilità di applicazione; e inoltre io non ho trascurato nulla per mettere ciascun ufficiale studioso in grado di definire facilmente (sic) i punti decisivi di uno scacchiere strategico o tattico [ma la difficoltà sta proprio nel fatto che non basta lo studio, l'attività speculativa, per definire questi punti, e ancor di meno per portarvi le truppe - N.d.a.]. 67
Appunti per una critica a ]omini
Non è vero che J., come tanti altri autori coevi e non, non sa fornire una soddisfacente distinzione tra politica e strategia. Al contrario, facendo della stn_ 1tegia - come della tattica e della stessa logistica - qualcosa di prettamente militare, di esclusivamente finalizzato alla concentrazione delle forze su un punto ritenuto decisivo per la vittoria, la separa fin troppo nettamente dalla politica, escludendo l'influsso di quest'ultima sia nel modificare lo scopo della guerra (che per lui è sempre la vittoria militare) sia nel fare della strategia qualcosa che non riguarda solo il concentramento delle forze. Al tempo stesso, non si può dire che J. trascuri del tutto il rapporto tra politica e guerra: è la politica che definisce il tipo e l'obiettivo della guerra e che fornisce alJa strategia tutto quanto le è necessario per battere l'avversario. Il piano di campagna, nel quale si concreta la strategia, è il risultato dell'incontro tra le esigenze politiche e militari. In sostanza, esso limita l'autonomia del Capo militare alla condotta delle o-
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ivi, Voi. I, p. 159.
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perazioni, o se si preferisce alla gran tattica. Autonomia in fondo relativa: perché J. non nasconde che il piano di campagna iniziale è destinato a durare poco, e dunque il concerto tra capo politico e capo militare - se le due cariche non sono riunite nel1a stessa persona - deve continuare. L'aspetto più criticabile delle sue teorie è la pretesa di ridurre la strategia a scienza, a pensiero e progetto, avvicinandola a scienza positiva e troncandone il legame epistemologico con la tattica, che pur derivando dalla strategia, pur non essendo spesso chiaramente distinguibile da quest'ultima, diversamente dalla strategia sarebbe il regno delle forze morali e spirituali dove vengono meno le regole e dottrine. Ma se la strategia deriva da una cornice politica, e quindi ha un riferimento di base mutevole e incerto, come può avvicinarsi a scienza positiva e avere sempre un fine prettamente tecnico-militare, che più che un fine è una modalità d'azione? Se il raccordo tra natura della strategia e natura della politica non è convincente, lo è ancor di meno quello tra strategia e gran tattica, che corrisponde a un'artificiosa distinzione tra pensiero e azione. Facendo della tattica l'arte dell'operare riferita anche all'intero esercito, Jomini ne allarga il campo fino a farla coincidere con quella che oggi noi chiamiamo prassi strategica. Proprio sull'esempio di Federico Il e Napoleone, dove se non nelle decisioni strategiche fondamentali azione durante e nella capacità di far fronte agli imprevisti che si manifestano soprattutto nel teatro delle operazioni, si può apprezzare il valore, il colpo d'occhio irripetibile del Capo? Del tutto fuori luogo anche l'insistenza sulla facilità d'individuare i punti decisivi del teatro della guerra, fino ad affermare che quei militari i quali, dopo aver meditato sugli articoli dal 18 al 22 del Précis, ritengono ancora la determinazione dei predetti punti un problema insolubile, «devono disperare di riuscire presto o tardi a capire la strategia»68 (cioè: sono gente di modesto ingegno ...). Problema insolubile no: ma forse gli exempla historica così cari a J. dimostrano che esso ammette una facile e univoca soluzione? che richiede la valutazione (esatta) di pochi elementi, e ammette poche variabili? come mai, per ricavare e dimostrare principì così facili da apprendere e comunque alla portata degli ufficiali di media intelligenza, J. ha bisogno di scavare in settant'anni di campagne di guerra e di pensiero militare, di compilare opere voluminose come il Traité, di analizzare, scavare e confrontare ·i fatti storici così a lungo? Il generale Niccola Marselli - tuttora i1 suo più intelligente e attrez-
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ivi, pp. 159-160.
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zato biografo e interprete in Italia - definisce J. «il primo grammatico di quel grande scrittore che si chiamava Napoleone». 69 Affermazione almeno a prima vista da condividere, ma cum grano salis. Essa può anche risultare non vera, visto che il primo modello di J. è Federico Il. Soprattutto, come può essere scritta la grammatica di un genio militare? come possono essergli carpiti dei segreti che non sono tali, ma doti irripetibili? e, per giunta, come si può - oltre a scrivere la grammatica - affermare anche che essa è semplice? oppure ridurre la strategia a teoria e dottrina ma non a prassi, quando proprio nella prassi, nell'intuizione strategica e se si vuole anche tattica - fulminea, si è rivelato il genio di Napoleone? Non si può scrivere la grammatica del linguaggio del genio, linguaggio che non si comprenderà e spiegherà mai del tutto se il genio è tale; senza contare che, neil'exemplum historicum, non si potrà mai ricostruire appieno tutte le circostanze, gli stati d'animo, il loro peso ... Se una grammatica viene scritta, essa è dunque inevitabilmente imperfetta. A questo proposito, v'è da concordare con il Ritter, quando osserva che il contenuto veramente nuovo e diverso della strategia di Napoleone è «una nuova, titanica volontà di potenza e di lotta», la tendenza insomma a spingere la guerra all'assoluto, ad annientare il nemico, «la volontà e l'incredibile audacia delle sue operazioni, giammai condizionate dall'angosciosa preoccupazione di mantenere i collegamenti dietro di sé».70 La guerra totale insomma, resa possibile dalla mobilitazione di tutte le risorse militari e civili della nazione. Una guerra - al di là delle apparenze - eminentemente politica e ideologica, non casualmente vista di buon occhio da Carlo Marx, che vede nel bonapartismo non l'arresto della Rivoluzione ma la sua prosecuzione militare e scrive che Napoleone è stata l'ultima lotta del terrore rivoluzionario contro la società civile, proclamata anche questa dalla Rivoluzione, e contro la sua politica [... ] Egli ha perfezionato il terrorismo mettendo al posto della rivoluzione permanente la guerra permanente. 7 1
Come più volte abbiamo rilevato, J. giudica questi aspetti della guerra che potrebbero essere definiti politico-sociali - e che ne formano la vera essenza nuova - come un male e un pericolo da scongiurare, e69 N. Marselli, Il generale ]omini, «Rivista Militare Italiana» 1869, Voi. 2°, pp. 392-437. 70 G. Ritter, Op. cit., pp. 62-63. 71 Cit. in N. Zapponi, Le censure del terrorismo, «Il Mulino» n. 324 - luglio/agosto 1989, p. 615.
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straneo a11a sua speculazione angustamente tecnico-militare e rivolta prima di tutto al secolo XVIII. Non va dimenticato che - e qui è un altro errore del Marselli - egli prima di essere grammatico di Napoleone lo è stato di Federico II: non può quindi essere definito grammatico solo di Napoleone e non si può parlare di lui senza rifarsi al periodo precedente la Rivoluzione Francese. Sarebbe interessante, a questo punto, confrontare quanto afferma la Enciclopedia Francese (specie alla voce guerra) con i concetti - base espressi da J.: ci limitiamo a constatare che, a cominciare dall'ammissibilità di principi e regole sul modo di condurre la guerra e dall'opportunità di limitarne la portata e le conseguenze, sono molte le analogie tra J., Guibert, Maizeroy ecc .. Basti considerare quanto afferma lo stesso Maizeroy nel suo citato Cours de Tactique ( 1766): «La scienza delle armi comprende un gran numero di parti i cui princip'ì possono essere fissi e ben definiti: ma nella pratica, la forma delle operazioni varia all'infinito, perché essa dipende dai luoghi e dalle circostanze, che non sono mai perfettamente simili ... ». Se a queste parole si aggiunge l'altro topos - già ben presente negli scrittori francesi della seconda metà del secolo XVIII - del movimento come quintessenza della strategia e/o della tattica, si possono definire le teorie di J. come fondamentalmente pre-rivoluzionarie e pre-napoleoniche (e in certa misura anche anti-napoleoniche, nonostante la sua pretesa di aver carpito il segreto delle vittorie del grande C6rso). Siamo giunti vicino a quello che può essere ritenuto l'aspetto centrale delle teorie di J.. Questo svizzero di origine italiana è il più autenticamente francese degli autori militari. T suoi scritti possono essere definiti tipicamente cartesiani, o - se si preferisce - illuministi, dunque francesi per eccellenza. Troviamo in lui una fede assoluta, dogmatica nella ragione umana, che nella fattispecie pretende di spiegare anche ciò che è opera del genio, contrapponendosi ad esso e diventando una specie di oggetto di culto. E troviamo anche la tendenza - tipica di René Descartes - ad elaborare un metodo capace di offrire una conoscenza sistematica della realtà, capace di ingabbiarla con idee e leggi chiare e distinte e inquadrate in una concezione generale meccanica e geometrica. Di questa pretesa di ridurre tutto a sistema razionale si trova più di qualche occasionale traccia sia nella tendenza a ridurre la strategia a scienza positiva derivata dallo studio di fattori geografici e statistici, sia nella pretesa di identificarla col pensiero, distinguendola dalla tattica vista solo come azione. È proprio dell'illuminismo anche il frequente ricorso al sillogismo induttivo, a dedurre da cioè dati di esperienza (la storia delle guerre e delle battaglie) delle leggi regolatrici aventi validità generale. È questa fede financo eccessiva nei principi, nella ragione e nel me-
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todo, nelle idee chiare e distinte, nell'attività speculativa più che in quella pratica, a costituire il limite che a J. viene più comunemente rimproverato, cosl riassunto dal Marselli: ]omini è stato per le operazioni militari ciò che i grammatici, gli estetici e dirò anche i pedanti sono stati per la lingua e le arti: egli ha dovuto adottare questo termine, scartar quell'altro, definire, separare, distinguere, classificare, esemplificare, applicare, dichiarare; spiegare, polemizzare. Cosl nasce il fracasso dei grandi volumi [probabile riferimento al Traité - N.d.a.]. Ma, prendete una storta, brillatevi dentro tutta la parte astratta e teorica della strategia, depurate, distillate e da codesto lambicco non vedrete sgocciolar che quelle tre gocciole da me designate [cioè: opporre la massa del proprio esercito senza scoprire le proprie; operare per linee interne - N.d.a.]. Marselli approva il continuo ancoraggio delle teorie jominiane alla storia, cioè ai fatti, ma non condivide - proprio per questo - la sua tendenza a mantenersi nel campo dei principi generali e astratti: pertanto io vorrei che si stesse poco librato in aria sulle generalità e molto si volgesse la mente ad addentrarsi nelle applicazioni; ma ciò è proprio il contrario di quel metodo che prende molti principii secondarii e terziarii invece di afferrare i pochi dominanti, e quei molti principi tira, stira, allunga, e imbrodola in un mare di parole e di artificiali distinzioni. 72
E pur concedendogli di essere stato il primo grammatico di Napoleone, ritiene che anche i suoi lavori successivi al Traité risentano dei limiti di un primo tentativo: ho detto che è stato il primo grammatico di quel grande scrittore, Napoleone. Ebbene, egli porta la pena di essere stato primo: egli eccede nel distinguere ed eccelle nella analisi, egli ha aperto una bella via, ma che se non si sgombera potrebbe offrire lo sdrucciolo allo scolasticismo della guerra. Ah sì, la nostra arte è semplice nei principii, difficile, complessa nelle applicazioni concrete e pratiche; semplicità di teorie ci vuole e ricchezza di pratica. Per tanto a me pare che Jomini ci abbia lasciato l'addentellato per un lavoro di sintesi e semplificazione così nella storia come nell'arte militare....73
72
N. Marselli, Dialogo sulla strategia, «Rivista Militare Italiana» 1869, Serie lii,
Anno XIV Torno II, pp. 51-52. 73
N. Marselli, Il generale ]omini (Art. cit.)
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Ora ci possiamo chiedere: la colpa di J. è veramente e solo quella di essere stato il primo? Dopo quanto abbiamo detto, stentiamo alquanto a rilasciargli la patente di primo e sia pur imperfetto interprete di Napoleone. Non troviamo mai, nelle pagine di J., la Francia intera, le formidabili energie che libera la Rivoluzione: troviamo solo gli eserciti francesi (e prima, quelli prussiani) che si battono e si prestano a minute analisi tecniche, a exempla, a considerazioni geografiche. Il peso delle forze morali, lo spirito nazionale di J. sono un fattore coadiuvante delle buone truppe, e basta: un fattore che vale per tutti, per le truppe di Napoleone come per quelle di Giulio Cesare o di Wellington. Conclusione: se non l'antinapoleone, J. è l'artefice di un tentativo di superare e «normalizzare» Napoleone, inserendolo in linea di stretta continuità nella storia e nella storia del pensiero strategico e tendendo a ignorare o combattere gli aspetti veramente nuovi, diversi, irripetibili della sua vicenda e di quella della Rivoluzione Francese. Tutto questo non significa disconoscere i grandi meriti di uno scrittore tutt'oggi insuperato in diverse sue parti. Insuperato, perché J. è un classico: l'esistenza di principi, regole e dottrine, l'importanza de l lavoro di Stato Maggiore; la figura, la personalità dell1ufficiale di Stato Maggiore; il ruolo della politica d i sicurezza e della politica mililare; la reintroduzione con nuovi significati dei termini di strategia e logistica; l'importanza dei rifornimenti e della logistica nel senso attuale del termine; l'importanza della mobilitazione, delle comunicazioni e delle riserve; la necessità di un'accurata pianificazione; persino l'importanza degli aerostati per l'esplorazione, sono tutti aspetti ben compendiati nel Précis, i quali dimostrano che J. - anche se le chiede troppo e ha la presunzione di voler arrivare troppo lontano - sa magistralmente avvalersi di tutti gli strumenti della ragione. Con J. l'arte della guerra cessa di essere un'improbabile alternativa - o un cattivo compromesso - tra un piatto, ripetitivo, arido mestiere fatto di formalismi e minute regole, e il genio o le doti personali di quei pochi Capi militari che sullo sfondo delle battaglie fanno comparire istintivamente l'arte. La lezione di J. è quella - estremamente attuale - del metodo, della pianificazione e preparazione accurata, della razionalità, del rapporto cause/effetti. Una lezione che ben si attaglia, in fondo, all'incipiente rivoluzione industriale, anche se si innesta neJJa più pura tradizione classica. Una lezione adatta a una civiltà matura: non casualmente, se si va a leggere la raccolta di antichi trattati cinesi sulla guerra tradotta ed edita a Parigi nel 1772 a cura del missionario francese Padre Amiot, si rimane stupiti delle affinità esistenti tra il concetto di guerra e di scienza militare degli antichi cinesi - anch'essa fondata su principi e regole - e quello di J..
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Questo spiega la sua vasta influenza sul pensiero europeo e non - francese, americano e italiano in particolare - fino ai nostri giorni, sulla quale ritorneremo. Basti ricordare, fin d'ora, che principi e regole e un razionale sistema dottrinale, la cui necessità e importanza è stata per la prima volta propugnata da J. fino all'eccesso, fanno tuttora parte di un indiscusso bagaglio teorico di tutti gli eserciti. Né vale obiettare che principi e regole allontanano l'arte: perché ogni arte non può prescindere da regole, tecniche e calcoli di congruità, specie nella rivoluzione industriale. Che poi J. abbia esagerato e abbia avuto - non è il solo - cattivi discepoli, è un'altra cosa. Cattivi discepoli soprattutto in Francia, il che costituisce forse la sua principale colpa. È difficile non trovare qualcosa di J. (ma non del J. migliore) dietro queste parole di Charles De Gaulle, scritte nel 1934 a pochi anni dalla disfatta del 1840: sembra che allo spirito militare francese ripugni riconoscere all'azione di guerra il carattere essenzialmente empirico che essa deve rivestire. Egli si sforza, senza posa, di costruire una dottrina che gli permetta di orientare l'azione e di concepirne la forma a priori, senza tener conto delle circostanze che dovrebbero costituirne la base. In ciò, è vero, egli trova una sorta di soddisfazione ma pericolosa: tanto più pericolosa perché appartiene a un ordine superiore. Credere di possedere un mezzo per evitare i pericoli e le sorprese delle circostanze e di dominarle, vuol dire procurare alla mente il riposo verso il quale tende senza sosta, l'illusione di poter negligere il mistero dell'ignoto. Indubbiamente, lo spirito francese a ciò è particolarmente portato dal suo amore vivissimo per l'astrazione e il sistema, dal suo culto dell'assoluto e del categorico che gli assicurano chiari vantaggi nel campo speculativo, ma lo espongono all'errore nel campo dell'azione.74
A proposito dell'influenza di J. il Bastico cita l'affermazione del generale tedesco Von Colmmerer, secondo il quale per la Francia «fu funesto di aver fondato per diverse generazioni la conoscenza teorica della dottrina di guerra sugli scritti dello Jomini». 75 La stessa cosa - questo Bastico lo dimentica - si può a buon diritto dire se non per la dottrina di base, per le minute regolamentazioni e istruzioni italiane, spesso tali da non incoraggiare - nei fatti - l'iniziativa individuale dei Quadri, pretendendo invece l'osservanza di regole ben codificate. Et de hoc satis: ritorneremo su J. trattando, più tardi, del ruolo delle
74 75
C. De Gaulle, Il filo della spada, Milano, Il Borghese 1964, p. 90. E. Bastico, Op. cit., Voi. I, p. 169.
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ferrovie nel pensiero militare. Per il momento ci preme mettere in rilievo quanto poco egli è stato capito, nei suoi pregi e nei suoi difetti, nella stessa Francia. Il Dictionnaire del Corvisier dedica a questo monumento del pensiero militare francese solo qualche riga, limitandosi alla fuorviante e inesatta osservazione che «egli è attirato dall'analisi scientifica del combattimento». Più calzante - anche se troppo sommario - il giudizio del Chaliand nella sua Anthologie, il quale scrive che «gli si è rimproverato in particolar modo di voler definire le regole del successo di Napoleone». In Italia il Rocchi nel suo studio del 1900 sull'evoluzione del pensiero militare italiano ne trascura l'influsso e non considera il raffronto delle sue teorie con quelle del Blanch, ritenendo inoltre di lui miglior interprete di Napoleone il nostro De Cristoforis76 (su questi importanti aspetti ci ripromettiamo di ritornare nel prosieguo dell'opera). Il Tragni nel 1906 si permette di ignorarne totalmente l'esistenza e i meriti;77 ripara a queste lacune solo una recensione del Précis sulla Rivista Militare del 1895, ne lla quale questo libro viene definito «ancor vivo e fresco come sessant'anni fa» e «una delle più considerevoli tra le opere pubblicate in questo secolo». 7R Se poi si considerano studi più recenti, Canevari e Prezzolini nella loro Antologia Militare del 192679 gli fanno carico - a ragione - del1a pretesa di «ridurre il dramma grandioso della guerra a una ricetta alla portata di tutti», ma non considerano anche i suoi meriti e la sua influenza in Italia. E affermano cose inesatte accennando alla sua influenza solo in Francia e sui Capi militari fino al 1870, quando si protrae invece molto tempo dopo. Lo definiscono «un professore», quando è stato prima di tutto ufficiale di Stato Maggiore e ottimo consigliere militare di condottieri celebrati , quindi anche uomo d'azione. Scrivono che «egli vede il successo in guerra essenzialmente nelle forme operative prescelte» (il che può essere detto di qualsiasi autore e perciò dice tutto e non dice niente; comunque non è vero). Parlano solo della sua preferenza per la «manovra per linee interne», senza riferire tale manovra al principio generale e unico da lui sempre sostenuto fino alla noia, quello della massa. Senza contare, poi, che ripm1ano parti del suo pensiero tali, da risultare fuorvianti .... Contraddittorio e poco chiaro anche l'esame che delle sue teorie nel 1927 compie il colonnello Bobbio, che esordisce bene ma finisce male,
76 E. Rocchi, L'evoluzione del pensiero italiano nella scienza della guerra, «Nuova Antologia» 1° agosto 1900. 77 A. Tragni, L'arte militare da Alessandro a OHyama, «Rivista Marittima» aprile 1906, pp. 41 -65. 78 «Rivista Militare Italiana» 1895, Voi. li, Oisp. IV, pp. 606-607. 79 E. Canevari - G. Prezzolini, Op. cit. , Voi. II, pp. 260-261.
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mescolando come al solito verità e acute osservazioni a mezze verità, contraddizioni e errati giudizi. Secondo Bobbio, egli avrebbe il merito di aver presentato «in veste chiara e semplice» i principi della guerra napoleonica (cosa dubbia, visto che il genio non può essere ridotto a pillole e a principi immutabili). Ma l'opera sua [ ...] per l'infinito numero di dettagli, per le minuziose osservazioni non riesce sempre chiara e non assurge a una sintesi da cui risalti in modo evidente la concezione della guerra napoleonica. Tale merito spetterà mezzo secolo dopo a un italiano: a Carlo De Cristoforis. 80
J. tutto può essere definito, meno che «scrittore spiritualista»: non basta qualche frase inserita nel Précis dopo Je critiche di Clausewitz a cambiare l'impostazione della sua opera. Ebbene, secondo Bobbio egli è proprio questo, perché «pone il carattere tra gli elementi essenziali per le grandi risoluzioni ed afferma tutto il valore della forza morale». Affermazione senza fondamento: lo stesso Bobbio è costretto ad ammettere «che passando dai principi generali alla loro applicazione, egli si allontana molto da Napoleone» con le sue soverchie analisi, con la esagerata disamina di casi e soltocasi, «col voler soprattutto costringere la condotta della guerra in regole ben incasellate, di voler catalogare in numeri fissi e costanti le condizioni essenziali per una perfetta costituzione di un esercito». 81 Se un autore si ispira a valori spirituali, non può certo ricorrere a un siffatto, metodico approccio. Il Bobbio ha ragione, però, a dare risalto al merito principale di J., che sostiene «la necessità non di una sola intelligenza, ma di un fascio di inte11igenze sorretto dalla esistenza di una comune dottrina. È in sostanza il concetto moderno della cooperazione e de11a unità di dottrina» . Tutto vero, osserviamo noi: purché, in nome dell'unità di dottrina e della disciplina delle intelligenze, non si giunga all'esasperato metodismo degli Stati Maggiori francesi del 1940, dove tutto doveva essere preparato, tutto doveva essere previsto ed erano escluse iniziative individuali. La miglior interpretazione rimane tuttora quella del Bastico, 82 che peraltro pur mettendo in Juce i contenuti della sua opera non ne evidenzia bene i meriti, come se fosse cosa da poco aver fornito una prima formulazione dei concetti contemporanei di strategia e logistica e aver ben 80 E. Bobbio, La guerra e il suo sviluppo storico, Torino, Breviari Schioppo 1927, p. 183-185. 81 ivi. 82 E. Bastico, Op. cit., Voi. I, pp. 162-169.
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definito il ruolo degli Stati Maggiori in guerra e in pace. Non condividiamo, inoltre, l'affermazione del Bastico che «il carattere intellettualistico della dottrina napoleonica permane in quella di Jomini, ma si trasforma, si adombra, ed anzi sembra cedere il campo ad uno spiccato carattere spiritualista». A parte il fatto che Napoleone non ha mai espresso una dottrina nel senso attuale del termine, i fattori morali e spirituali in J. rimangono sostanzialmente in second'ordine, anche se specie nel Précis non manca di sottolinearne l'importanza. Nonostante le sue frequenti ambiguità (è facile dire che tutto è importante), ciò che prevale in lui sono gli elementi scientifici e tecnici derivanti dal lavoro degli Stati Maggiori e dall'accurata preparazione. Quindi la sua teoria non si inquadra del tutto in quelle speritualistiche o intellettualistiche, ma può essere compresa - vista anche l'importanza che egli dà alle nuove armi, alla logistica e all'amministrazione nelle teorie materialistiche, con alcune importanti sfumature intellettualistiche: mai in quelle spiritualistiche (lo dimostrano i suoi accenni all'imminente f,•rande rivoluzione e dell'armamento, ai razzi, ai palloni, agli sdrapnell eccetera, che a suo giudizio rivoluzioneranno la tattica ma non la strategia e aumenteranno enormemente le perdite).83 Lo stesso Bastico nota che «si può considerare il capo della cosiddetta scuola scientifica» (ma più di lui lo è l'Arciduca Carlo). Né ci sentiamo di concordare con il Bastico, quando afferma - senza commenti, quindi approvando - che J. si è attribuito il merito di essere il più fedele interprete del pensiero di Napoleone. E l'influsso prevalente delle imprese e del pensiero di Federico II? Le matrici prevalentemente pre-napoleoniche delle teorie di J. sono indubbie: che cosa ha a che fare Napoleone con una concezione tendenzialmente scientifica e geometrica della guerra e della strategia? Piero Pieri è l'unico autore italiano del secondo dopoguerra ad aver brevemente descritto il pènsiero di J.84, dandocene una versione nel complesso attendibile che però - more solito - si sofferma esclusivamente sul principio generale della massa, sul concetto geometrico e meccanico della sua strategia, sulla precettistica a lui cara. Ridurre solo a questo il suo pensiero ci pare riduttivo; né può essere presentato come ammiratore di Btilow, col quale apertamente polemizza nel Traité perché pretende di dimostrare che «si può fare la guerra geometricamente», dichiarando invece di rifarsi al Lloyd e al Tempelhof. Infine, non comprendiamo tutto quello che il Pieri vuol dire quando - chiudendo il suo esame - afferma che egli
83
A.H. Jomini, Précis, Voi. l, pp.113-115.
84
P. Pieri, Guerra e politica ... , (Cit.), pp. 143-145.
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pur avendo ben compreso e descritto il punto fondamentale della strategia napoleonica, il tendere alla decisione attraverso la battaglia, considerava questa pur sempre un mezzo di cui la strategia si serviva e non risaliva alla sua particolare essenza, così che l'analisi rimaneva pur sempre estrinseca e bisognosa d'ulteriore approfondimento.
Se è così, allora questo è anche il punto fondamentale della strategia di Federico: qual'è, allora, la differenza? E che cosa può essere la battagJia, se non un mezzo - e spesso, specie allora, l'unica via - per raggiungere un fine strategico più alto e ampio? Se mai, è vero il contrario: che, cioè, la strategia e la tattica di J. si esauriscono in una modalità, cioè nell'applicazione del principio della massa in un determinato punto, e quindi al fine tendono a sostituire il mezzo, privilegiando per di più una sorta di schema magico sempre fisso. Il più recente contributo su J. è quello di John Shy (1986). 85 Saggio ampio, interessante, pieno di note, osservazioni e indagini acute sull'uomo e sull'opera, ma anche pericoloso: perché mescolate a cose egregie vi si trovano anche errate o unilaterali interpretazioni. Nemmeno lo Shy mette bene in evidenza - inutile dirlo - i meriti di J., pur definendolo «fondatore della strategia moderna». Elenchiamo brevemente i principali punti che non ci trovano consenzienti. Non è vero che ha condotto la sua analisi strategica «rompendo gli ovvi legami tra Napoleone e la Rivoluzione Francese». Da Federico II a Napoleone non ci sono per J. soluzioni di continuità, se non i maggiori spazi che interessano la guerra. La strategia e la tattica sono sempre quelle, né fra gli intenti strategici di Carnot e di Napoleone vi è sostanziale differenza. Non è sempre vero che il suo approccio generale al problema della guerra è contraddistinto da «astrazione dal contesto politico-sociale». L'importante ruolo da lui assegnato alla politica della guerra e alla politica militare, l'inclusione della politica della guerra nelle branche dell'arte militare dimostrano a sufficienza l'importanza che egli attribuisce alla politica, fino ad assegnarle gli attributi dell'attuale strategia globale. Ciò che non valuta a sufficienza, invece, è l'importanza del contesto politicosociale nelle vittorie di Napoleone e nelle future guerre nazionali, e anche il possibile influsso di tale contesto sugli obiettivi e modalità strategiche guerra durante. In parole semplici, pensa che, una volta definiti di concerto con la politica la grande cornice strategica della guerra e i suoi caratteri e obiettivi politico-militari, i militari devono essere lasciati libe-
85
I. Sky, /omini (in AA.VV., Guerra e strategia nell'età contemporanea, a cura di P. Parel, Genova, Marietti 1992, pp. 61 -100).
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ri di condurla come meglio credono. Ciò è avvenuto ne11a prima guerra mondiale, non è avvenuto per l'Italia nella seconda, e anche oggi molti militari di diversi Paesi rivendicano una giusta autonomia ... Perché «sarebbe semplicistico dire che J. usò le categorie militari dell'Ancien Regime per interpretare Napoleone?» Il Traité pubblicato nel 18031805 dimostra il contrario. Dov'è la «rottura» tra Federico Il e Napoleone? Egli non è un uomo della Rivoluzione Francese che offre una nuova, radicale teoria della guerra e non proietta le campagne di Napoleone su quelle di Federico: se mai è vero il contrario, visto che parla di venti campagne che da Federico in poi offrono sempre lo stesso insegnamento. Non è vero che «egli vide e ammirò largamente il nuovo stile di guerra, incurante delle esigenze delle truppe e degli obblighi di rifornimento». Come mai teme, e non apprezza, le devastazioni causate dalle leve nazionali in massa? Come mai dà tanta importanza alla logistica, ai magazzini, alle basi e linee d'operazioni, all'armamento ecc.? Lo Shy invece ne mette bene in evidenza il vasto influsso sul pensiero militare successivo compreso quello navale, l'ambiguità di molte parti della sua opera e le frequenti contraddizioni, le ragioni psicologiche del suo approccio. Ma egli, svizzero, privo di una vera formazione militare, non fu uomo e teorico della Rivoluzione come vorrebbe lo Shy. La Rivoluzione e Napoleone sono solo una chance per dare prova di sé, per mettersi in luce. J. - la sua vita lo dimostra - abbandona entrambi quando gli si aprono altre prospettive, e non esista servire lo Zar, cioè l'anti-rivoluzione per eccellenza. Più che credere nella Rivoluzione o nelle armi napoleoniche, crede in sé stesso, nella forza del suo pensiero. La definizione che più gli si attaglia è quella del Marselli: «cittadino della scienza militare», che per lui non è un soggetto neutro ma una fonte di autoaffermazione e lo strumento di personali battaglie, dove Patria, nazione e nazione francese poco dicono a questo italo-svizzero cosmopolita.
SEZIONE II L'Arciduca Carlo: un Jomini peggiorato e in tono minore86 Questo generale e nobile d'alto lignaggio, tra i principali avversari di Napoleone sul campo di battaglia, rappresenta il distillato austriaco 86 Su vita e opera dell'Arciduca Carlo rimandiamo soprattutto ai seguenti contributi: A. Cavaciocchi, / due condottieri: l'Arciduca Carlo e Napoleone (in Marte - Antologia Militare - cit., Voi. I, pp. 325-339); E. Bastico, Op. cii., Voi. I, pp. 158-162; P. Pieri, Op. cii., p. 144.
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sorprendentemente diverso da quello prussiano - dell'esperienza delle guerre napoleoniche, viste «dall'altra parte». Dopo il 1815 l'Austria ha imposto all'Italia una pax austriaca e a tutto ha interesse, meno che a nuove guerre interstatuali che non possono che mutare a suo svantaggio i faticosi equilibri e patti raggiunti con il Congresso di Vienna. Non può perciò stupire più di tanto che i suoi Principf della parte sublime dell'arte della guerra ad uso dei generali dell'Esercito Austriaco ( 1806),87 si aprano con un'affermazione lapidaria: «la guerra è il più grande dei mali che affligger possono uno Stato o Nazione». Siamo molto lontani dal concetto di guerra ideologica, di guerra necessaria tipico della Rivoluzione Francese. Ma, per strada diversa e anche opposta, l'Arciduca Carlo sul modo di condurre la guerra e sul suo obiettivo politico-militare giunge sostanzialmente agli stessi risultati dì J., con ampie concessioni altopos della guerra breve e decisiva, quindi anche econonùca: la cura maggiore di un Regnante o di un generale in capo è mestieri che sia rivolta, fin dal primo lampo di un tale flagello, a far sì che con ogni sforzo se ne renda brevissima la durata, e sollecitamente se ne veda la sospirata fine. Il procacciarsi una pace vantaggiosa esser deve lo scopo di ogni guerra; perciocché le sole paci che arrecano un utile portano con loro la durevolezza e come solo per esse possono prosperare gl'lmperi, così le medesime esser debbono il fine unico di ogni Sovrano. Ad un tal fine però sollecitamente non si giunge se non in virtù di grandi colpi e decisivi. Quindi il capo d'opera del generale consiste nel saper esattamente giudicare del momento e del punto favorevole perché il colpo decisivo possa con la più grande probabilità menare a felici risultamenti. Solo col procacciarsi una superiorità sopra di un tale punto sarà possibile la riuscita del meditato colpo decisivo. 88
Il capitano napoletano Sponzi1li, traduttore e soprattutto sviscerato adulatore di quest'opera dell'Arciduca, si diffonde in lodi sulla magnanimità di quest'ultimo. Lodi ingiustificate, perché la «pace vantaggiosa» ove il vantaggio è solo quello del vincitore (e non la pace giusta) getta automaticamente il seme della prossima guerra. Quante Versailles del 1919 si trovano nella storia? L'Arciduca è pacifista sì, ma a senso unico: è naturalmente per la pace che va bene al suo Paese. E, nei suoi più ampi commenti, lo Sponzilli trascura anche di dire che nei Principf della par87
Napoli, Real Tip. Militare 1844 (traduzione a cura del capitano del genio Francesco Sponzilli). 88 ivi, pp. 1-7.
Il - IL BARONE JOMTNT E L'ARCIDUCA CARLO
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te sublime dell'arte della guerra l'autore non parla ancora di strategia e tattica, e sembra modellare alquanto le sue concezioni sulla seconda edizione del Traité del 1805, e fors'anche, solo sulla prima del 1803. I concetti di strategia e tattica compaiono invece nella seconda e più significativa opera dell'Arciduca, i Principi di strategia applicati alla storia della campagna del 1796 in Germania (1814).89 La collocazione temporale e l'importanza di questo libro sono così descritti da un Jomini fin troppo benevolo (riprendiamo, per comodità del lettore, un «pezzo» già citato): dieci anni dopo il mio primo Traité des grandes operations [pubblicato per la prima volta nel 1803 e in edizione più completa nel 1805 - Jomini si riferisce a quest'ultima - N.d.a.] comparve l'importante opera dell'Arciduca Carlo, che riuniva i due generi didattico e storico, questo principe avendo anzitutto pubblicato un piccolo volume di massime strategiche [i Principi della parte sublime del 1806 - N.d.a.J, poi quattro volumi di storia critica sulle campagne del 1796 e 1799 per svilupparne l'applicazione pratica. Questa opera, che fa altrettanto onore all'illustre principe che le battaglie che egli ha vinto [ma ne ha perdute anche molte - e quelle decisive - contro Napoleone - N.d.a.J ha completato le basi della scienza strategica, della quale Btilow e Lloyd avevano sollevato il primo velo, e della quale io avevo indicato i primi principi nel 1805 in un capitolo sulle linee d'operazione, e nel 1807 un capitolo sui principi fondamentali dell'arte della guerra stampato separatame nte a Gorgau in Slesia.9C'
Strategia e tattica secondo l'Arciduca Carlo sono, ancor più nettamente che per Jomini, separate dalla linea di demarcazione tra arte e scienza. Riportiamo integralmente le definizioni che egli ne dà nella prima parte [Elementi di scienza militare - capitolo I] della sua citata opera del 1814, definizioni che come e ancor di più di quelle di Jomini hanno ~vuto larga influenza sul pensiero militare italiano coevo e successivo: dicesi strategia la scienza della guerra: essa traccia il piano, abbraccia l'insieme, e determina l'andamento delle operazioni militari. È particolarmente la scienza (sic) dei Generali in capo. Chiamasi Tattica l'arte della guerra: quest'arte insegna il metodo di esegui-
89 Traduzione 90
italiana: Napoli, Dalla reale Tipografia della Guerra 1819.
A.H. Jomini, Précis, Voi. I., p. 19.
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re i progetti strategici, e quindi è inerente al comando [perché, la strategia no? - N.d.a.]. Ogni uffiziale che si trovi alla testa di una truppa deve saperne metterne in pratica i principj. La Strategia determina i punti essenziali, di cui convien essere padrone, per giungere allo scopo che si ha in mira, e disegna le linee per stabilire le comunicazioni [... ] Ogni progetto strategico deve essere di tal natura, che si possa eseguire con i mezzi della tattica. Questa insegna la distribuzione, ed il collocamento delle truppe nelle posizioni strategiche, e guida i loro movimenti per arrivare all'oggetto dell'operazione. Così la Tattica è subordinata alla Strategia, benché intimi siano i loro rapporti 1.•. J. La regola generale richiede che le considerazioni strategiche abbiano le preferenze: perché i punti e le linee additate da questa scienza sono invariabili, e dipendono dalle località che costituiscono il teatro della guerra, mentre che il tattico trova nella sua arte delle risorse, onde supplire ai difetti di una posizione svantaggiosa per mezzo di manovre, di posti rinforzati, di stratagemmi, ecc.9 1
Altro caposaldo delle teorie dell'Arciduca Carlo è la sacralità della base di operazione. Come nelle guerre del secolo XVIII non si doveva mai allontanarsi troppo dai magazzini, così - anche dopo le guerre napoleoniche - bisogna tener sempre presente «la necessità assoluta (sic) di non arrischiare mai le posizioni, o i movimenti, che potessero compromettere la sicurezza di questa base, e delle sue comunicazioni».92 Nell'Arciduca Carlo, dunque, si accentua - e anzi raggiunge la massima espressione - il concetto scientifico e geometrico dell'arte della guerra che già affiora in Jomini: di conseguenza, al di là delle apparenze e del culto della guerra breve e decisiva (appartenenti del resto a Federico II e alla tradizione classica) egli può essere definito l'«antinapoleone»: antinapoleone nel campo teorico e non solo sul campo di battaglia. E checché ne dicano lo Sponzilli e lo stesso Jomini, il campo di battaglia gli ha dato torto ... Tant'è vero che è diventato scrittore, solo dopo essersi ritirato perché sconfitto. Come per Jomini, secondo l'Arciduca Carlo l'arte della guerra consiste «nel raccogliere e far agire una prepotente massa di truppe sopra di un punto decisivo», perché gli eserciti contrapposti sono di solito di forza uguale e il punto decisivo è uno solo. «Le regole della scienza militare furono, sono e saranno sempre le medesime, perché riposano sopra verità incontrastabili. Esse sono quindi in piccol numero, come ugual-
91
92
Arciduca Carlo, Principi di strategia (Cit.), pp. 1-3. ivi, p. 18.
11 - IL BARONE JOMINI E L'ARCIDUCA CARLO
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mente in piccol numero sono tali verità». D'altra parte «i principi della scienza militare sono in picco! numero e immutabili, ma la loro applicazione non mai si assomiglia, e non mai può rassomigliarsi». Dunque, rimangono immutabili non solo i principi (]omini), ma anche le regole: solo la loro applicazione non è mai uguale, e non è facile. In questo almeno, l'Arciduca Carlo diverge da Jomini, che in alcuni passi delle sue opere lasciava capire che l'applicazione dei principi della strategia non era poi tanto difficile: «per quanto i principj della Strategia sieno semplici in apparenza, altrettanto la loro applicazione è uno studio nuovo e difficile; attesa l'impossibilità di stabilire delle regole generali per un'infinità di casi, che non si rassomigliano punto». 93 Il primo di questi principi è tale, da condurre le teorie dell'Arciduca Carlo - molto più decisamente di quelle di Jornini - nel campo materialista: «stimare con esattezza [nostra sottolineatura - N.d.a.] il valore dé mezzi che si possono mettere in opera per attingere a uno scopo». È, infatti, «verità irrefragabile» che non si fa nulla senza impiegare forze sufficienti per raggiungere lo scopo. Un corollario, non meno importante, di questo principio è che le forze in azione si consumano e devono essere continuamente rinnovate. Anche per questa ragione, l'Arciduca Carlo riscontra «la necessità intera di coprirsi sempre le linee di comunicazione e l'impos.çihilità di una operazione solida se ci si allontana da queste linee [nostra sottolineatura - N.d.a.]. Non dovrà mai essere occupata una buona posizione - aggiunge l'Arciduca - se la sua occupazione mette in pericolo le nostre linee di comunicazione. Nelle massime di Napoleone troviamo scritto che «un principio sacrosanto è questo: non abbandonare mai la propria linea di comunicazione» e che «il segreto più importante della guerra consiste nel sapersi render padrone delle vie di comunicazione». Ma Napoleonè mette più volte in rilievo, nei suoi scritti e ancor più nelle sue campagne, il valore dell'audacia, «forza veramente creatrice», e afferma anche che «a furia di dissertare si finisce per prendere il peggior partito che, alla guerra, è il più pusillanime o se volete, il più prudente». 11 che equivale a dire che non si possono ottener senza forti rischi quelle vittorie decisive, che per l'Arciduca andrebbero ugualmente raggiunte, ma senza rischi ... Né Federico Il, né tanto meno Napoleone, né Jornini, pur apprezzando pienamente l'importanza delle vie di comunicazione, hanno mai ritenuto - come l'Arciduca Carlo - «impossibili» le operazioni condotte prescindendo da tali linee. Anzi: la chiave di molte vittorie napoleoniche
93
ivi, p . 41.
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è la superiore mobilità delle sue truppe, ottenuta col vivere sul Paese e quindi col ridurre - se non con l'annullare - l'importanza del cordone ombelicale con magazzini e depositi e basi d'operazioni. Paradossalmente, è proprio l'Arciduca Carlo a mettere bene in rilievo le circostanze e i vantaggi della nuova logistica, quindi della nuova strategia delle armate della Rivoluzione e di Napoleone: la guerra della rivoluzione si accese in un subito, senza che i preparativi convenienti per far muovere e nutrire le armale avessero potuto esser fatti: di là è venuto il sistema di requisizione per le truppe sul loro proprio territorio straniero, e di conseguente la possibilità dei movimenti più rapidi, più subitanei, meno attesi, perché non si ha più bisogno di magazzini tanto considerabili, e che i tanto imbarazzanti cariaggi di approvisionamenti hanno potuto di conseguenza essere diminuiti né movimenti di un'armata.94
Cakoli logistici , calcoli di spazio e tempo con pretese geometriche e matematiche, calcoli Ji forL,e: poco e nessun peso hanno, nella visione dell'Arciduca, i fattori morali e spirituali e il loro nuovo peso. Egli rimane affezionato alla buona vecchia guerra e alle sue regole, afferra i vantaggi conseguiti dalle armate francesi ma non pensa di imitarli, almeno in una certa misura. li fatto che questa mobilità non sia stata una scelta ma derivi da uno stato di necessità e da inefficienza della logistica, basta forse a percorrere strade opposte? L'esercito per l'Arciduca Carlo si deve muovere e deve occupare posizioni solo in tanto in quanto ciò non mette in pericolo - a parte ogni altra considerazione - le sue vie di comunicazione. Non basta: il generale in capo pur essendo «pronto e deciso» in battaglia deve essere in pari misura «prudente e circospetto» nel decidere e nell'eseguire le marce. Ma senza movimenti pronti e decisi e soprattutto audaci, come possono essere ottenuti risultati decisivi? Da sempre fa parte del genio e del carattere del Capo la capacità di apprezzare nella giusta misura la differenza tra l'audacia e l'imprudenza rovinosa: si potrebbe dire che l'audacia è il sommo della prudenza. Ma l'Arciduca non parla mai delle doti morali del Capo, né dà importanza a quelle delle truppe (anche a quelle delle truppe francesi, mettendo in rilievo, per queste ultime, solo la mancanza di tempo per ottenere «quello che è più difficile per formare dei soldati, l'insieme»). Per questo concerne il generale, l'Arciduca dà importanza al fatto che egli deve non solo conoscere ma anche saper applicare i principi, sia con lo studio critico
94
Principi della parte sublime ... (Cit), pp. 144-145.
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della storia militare, sia acquistando esperienza e colpo d'occhio con frequenti esercizi sul terreno. Il concetto materialistico e geometrico della guerra traspare anche dal ruolo centrale che l'Arciduca attribuisce ai calcoli di spazio e tempo, fino a far diventare il successo frutto di una corretta operazione matematica: «ogni forza ha un tempo durante il quale la sua azione è efficace; passato questo tempo, questa forza s'indebolisce e consuma finalmente per il suo proprio attrito. Nelle e poche della sua più completa azione, se ne possono sperare i più grandi risultamenti. Deve un generale adunque saper determinare con precisione questo limite, risolvere questo calcolo di tempo ...». 95 Tutto giusto, tutto vero, almeno all'apparenza: ma che ruolo hanno, in questo, le forze morali e spirituali o ]'occasione fuggevole che anche a truppe stanche e esaurite può offrire il nemico? li momento più favorevole non va forse colto, prima di tutto, nella situazione nemica? come si può misurare il morale nostro e nemico? A ragione, dunque il generale Cavaciocchi scrive che l'Arciduca risente della rigida educazione ntililarislica e formalistica riservata agli uomini del suo casato. Perciò «egli era eccessivamente metodico, e la sua mente, pur essendo adatta a1le speculazioni scientifiche, non possedeva quella elasticità che si richiede per un artista». E rettamente il Cavaciocchi osserva anche che la sua tendenziale prudenza era dovuta «al pensiero che alla conservazione dell'esercito che egli comandava erano legati i destini della sua casa»:96 siamo agli antipodi della filosofia militare della Rivoluzione e di Napoleone. Prima di essere generale, egli era dunque austriaco e nobile legato alla Corona. Anche questo, oltre che gli evidenti limiti della sua opera, lo allontana non solo da Napoleone ma anche da Jomini, ambedue dei parvenus che possono fare affidamento solo su sé stessi. La «flemmatizzazione» o sterilizzazione delle guerre napoleoniche lo rende naturalmente bene accetto alle monarchie del1a Restaurazione e ai loro corifei come lo Sponzilli. Forse, l'insegnamento più duraturo che egli lascia è quello della prudenza come valore di base, della tendenza a fare de1la conservazione dello strumento non un mezzo, non un espediente in attesa di occasioni migliori, ma piuttosto un fine della guerra. Principio largamente applicato, fino al 1940-1943, in campo navale e anche in campo italiano, basato sul motto «primo: non perdere». Principio tradizionalmente in auge anche presso i generali anglo-americani, sem-
95
ivi, p. 152.
96
A. Cavaciocchi. Op. cit..
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pre molto attenti alle perdite; ma anche sforzandosi di non perdere, a volte si viene sconfitti. Il Bastico, pur indicando analogamente al Cavaciocchi i limiti del suo pensiero, afferma che non si può negare all'Arciduca Carlo il merito di «essere stato il primo a valersi della sua esperienza di comandante in capo per scrivere un'opera di schietta dottrina militare».97 È stato, sì, il primo: ma i suoi scritti dimostrano che da questa esperienza ha tratto dei frutti non sempre buoni e duraturi, i quali non rendono affatto «di schietta dottrina militare» la sua opera, ma, al contrario, la rendono tale da incoraggiare quella sorta di manierismo e schematismo accademico sempre latente nelle Istituzioni militari di ogni tempo, specie nei lunghi periodi di pace.
Conclusione
Jomini e l'Arciduca Carlo appartengono a una stessa corrente di pensiero, anche se l'uno è un borghese sviuero di lingua francese che ha combattuto con Napoleone e l'altro un nobile austriaco che ha combattuto contro. Non è del tutto chiaro chi dei due abbia influenzato l'altro: tuttavia, la differenza di statura intellettuale è tale da far ritenere di per sé che è stato Jomini a influenzare l'Arciduca. Ma forse quest'ultimo obbedisce prima di tutto al suo temperamento e al suo status di alto ufficiale austriaco membro della Casa Regnante, e in secondo luogo sembra sentire il fascino del concetto geometrico della guerra del generale prussiano Btilow, con il quale persino Jomini polemizza (in questo concordando con Clausewitz). Una cosa è chiara: che le assonanze tra i due autori si fermano al concetto di strategia e tattica e alla comune convinzione che esistono principi e regole dell'arte della guerra, dai quali non si può derogare senza rischiare la sconfitta. Per tutto il resto, il pensiero di Jomini domina per la sua maggiore flessibilità e per la completezza, ampiezza e profondità delle analisi, che fanno percorrere al barone svizzero strade molto diverse da quelle dell'Arciduca. Le sue lodi all'Arciduca dovrebbero perciò - in molti casi - essere critiche: se i suoi giudizi sono così benevoli, è solo perché l'Arciduca è un esponente di rilievo dell'establishment europeo post-napoleonico, con il quale Jomini, bisognoso di protettori tra i regnanti, non può permettersi di polemizzare direttamente. Lo scrittore, anche quando è geniale, è sempre uomo del suo tempo.
97
E. Bastico, Op. cit..
CAPITOLOill
CLAUSEWITZ, L'«ANTI JOMINI»: ANALISI COMPARATIVA E ERRATE INTERPRETAZIONI DI UN'OPERA INCOMPIUTA
SEZIONE I-Analisi sommaria e comparata del «Vom Kriege»
Caratteri e limiti dell'approccio TI pensiero di Clausewitz verrà da noi esaminato senza alcuna pretesa di analisi esaustive e soprattutto in rapporto ai contenuti essenziali delle teorie di Jomini, cioè del suo coevo contraltare francese. Ci limiteremo a citarne brevemente gli aspetti più utili alla nostra indagine, per poi soffermarci sugli elementi di novità e sui limiti. Ci riferiremo esclusivamente all'unica opera tuttora tradotta in Italia, l'incompiuto Vom Kriege: scelta praticamente obbligata, che indica fin d'ora la necessità di tradurre tutto Clausewitz, se si vuol conoscerlo bene. I numerosi studi che anche oggi continuano instancabilmente e immancabilmente - quanto genericamente - ad esaltarlo, ci dispensano da elogi che sarebbero scontati, e ci inducono a portare piuttosto l'attenzione sugli immancabili aspetti controversi o tali da rivelare dei limiti.
Definizioni principali: loro significato
GUERRA Per Cl. è un atto di forza che ha lo scopo di costringere l'avversario a sottomettersi alla nostra volontà. Non appartiene né al dominio deJl'arte né a quello della scienza, ma al dominio della vita sociale. Non è che un duello su vasta scala, dove entrano energie spirituali, fisiche e soprattutto morali (talento del Capo, virtù militare dell'Esercito, sentimento nazionale). La forza ne costituisce il mezzo; l'atto di imporre la nostra volontà, lo scopo. Per raggiungere tale scopo occorre che il nemico sia posto nella impossibilità di difendersi; la guerra deve dunque mirare
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IL PENSIERO M1LITARE 1TALIANO ( 1789- 1915) - VOL. I
sempre a disarmare, ad abbattere l'avversario. La guerra costa sempre sangue: è un errore quello degli spiriti umanitari, i quali «immaginano che esistano metodi tecnici per disarmare o abbattere 1'avversario senza infliggergli troppe ferite e che sia questa la finalità autentica dell'arte militare». Infatti, in prima approssimazione, «la guerra è un atto di forza, a1i'impiego de11a qua1e non esistono limiti: i bel1igeranti si impongono legge mutualmente; ne risulta un'azione reciproca che logicamente deve condurre all'estremo». Se in astratto 1a natura de11a guerra in sé è tale da non ammettere limiti di alcun genere e da lendere all'assoluto, nella realtà sia il suo obiettivo, sia le moda1ità per raggiunger1o, sono influenzati da vari fattori e principalmente dallo scopo politico, il quale fornisce la misura sia dell'obiettivo che l'azione bellica deve raggiungere, sia degli sforzi che a ciò sono necessari. Lo scopo politico può di per sé costituire obiettivo militare, oppure non essere sufficiente per determinare l'obiettivo: in tal caso, si deve assumerne uno che possa avere valore equivalente rispetto allo scopo politico e rappresentarlo nel concludere la pace. Lo scopo politico può avere influsso molto variabile - in un senso o nell'altro - sulla condotta della guerra: «chiaro risulta da ciò perché esistano, senza intima contraddizione, guerre di ogni grado di importanza ed energia, da quella di sterminio aJJa semplice osservazione armata». ARTE DELLA GUERRA È l'arte di impiegare nella lotta i mezzi dati, cioè la condotta della guerra; quest'ultima consiste nel predisporre e dirigere la lotta armata. L'arte della guerra si muove nel campo delle forze viventi e delle forze morali e non può quindi mai raggiungere l'assoluto e la certezza. Arte e scienza non si possono mai distinguere nettamente. L'arte regna dovunque lo scopo è creare e produrre, mentre la scienza domina quando lo scopo è scrutare e sapere. È quindi preferibile dire arte più che scienza della guerra: ma in senso stretto la guerra non è un'arte né una scienza, e appunto lasciandosi condurre da erronei criteri derivanti da queste parole, si è giunti a comparare la guerra con alcune arti o scienze e a far sorgere analogie che non ci sono. 1
La differenza tra la guerra e a1tre arti o scienze sta nel fatto che la guerra non è effetto di una volontà esercitata sulla materia inerte, come
1
K. Von Clausewitz, Della Ruerra, Milano, Mondadori 1970, Voi. I, p. 129.
III - CLAUSEWITZ, L'«ANfl JOMINI~
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avviene nelle arti meccaniche, o verso un oggetto vivente ma passivo, senza reazione, come lo sono lo spirito e i sentimenti umani nei riguardi delle arti immaginative (poesia, musica ecc.). La guerra agisce invece sopra un oggetto vivente e reagente, cioè l'uomo: è facile quindi vedere come lo schematismo di idee proprio delle arti e scienze si applichi poco ad attività del genere, e si comprende anche perché le ricerche e i tentativi continui per giungere a leggi analoghe a quelle che si riferiscono al mondo dei corpi inerti, abbiano dovuto necessariamente produrre errori durevoli. Tuttavia sono precisamente le arti meccaniche quelle che si sono volute, di solito, prendere a modello. 2
Con un significato più esteso l'arte della guerra dovrebbe comprendere anche tutto quanto serve a creare le forze, cioè il reclutamento, l'armamento, l'equipaggiamento, e l'addestramento. Ma poiché una condizione «essenzialissima» per dare carattere realistico a una teoria sta nel distinguerne le branche, «se ogni arle della guerra dovesse cominciare ad occuparsi dell'organizzazione delle forze e determinare queste per la condotta della guerra, la sua teoria non sarebbe applicata che ncgl i scarsi casi in cui le forze sono costituite secondo tali prescrizioni». STRATEGIA E TATTICA La lotta armata non comprende un solo atto ma un numero più o meno grande di atti ben distinti (i combattimenti). Ne derivano due attività completamente diverse: quella di predisporre e dirigere, in sé stessi, i combattimenti e quella di collegarli fra loro ai fini dello scopo della guerra. La prima è stata denominata tattica, la seconda strategia. La tattica insegna l'impiego delle forze nel combattimento; la strategia, l'impiego dei combattimenti per lo scopo (politico) de1la guerra. Questa classificazione si riferisce solo all'impiego delle forze e non al loro mantenimento in efficienza. Le attività connesse con quest'ultimo aspetto sono preparativi alla lotta, quindi - come le altre attività preparatorie - per Cl. vanno considerate come estranee all'arte della guerra concepita in senso ristretto, cioè alla condotta della guerra: è anche necessario il farlo, se si vuole soddisfare a una condizione
capitale imposta a ogni teoria, e cioè sceverare le cose eterogenee. Chi oserebbe comprendere nelJa condotta della guerra propriamen-
2
ivi, p. 130.
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IL PENSIERO MILITARE ITALIANO (1789-1915 ) - VOL. I
te detta la lunga litania dell'amministrazione e dell'alimentazione? Tali funzioni hanno bensì rapporti continui con l'impiego delle truppe, ma ne differiscono essenzialmente.3 La strategia non impiega che un mezzo: la vittoria e cioè il risultato tattico [ottenuto col combattimento - N.d.a.]. In ultima analisi, «suo scopo è tutto quanto deve condurre alla pace». I1 conseguimento di questo scopo è accompagnato da una serie di circostanze (paese, popolazione, terreno, ora de] giorno, stagione, tempo atmosferico). Combinando queste circostanze con i] risultato di un combattimento, la strategia dà a questo risultato, e quindi al combattimento che lo deve produrre, uno scopo particolare: in tal modo il combattimento diventa un mezzo strategico. La strategia trae solamente dall'esperienza i mezzi e g1ì scopi che devono essere studiati: «e perciò la strategia deve rivolgere la propria attenzione alle combinazioni che la storia della guerra le può offrire. In ta1 modo, peraltro la strategia assume l'aspetto di una teoria incompleta [nostra sottolineatura - N.d.a.J, quale deriva soltanto dai rapporti offertici dalla storia mi]itare». 4 MANCA LA LOGISTICA ? Per Cl. ]e funzioni esistenti al di fuori del combattimento [cioè le funzioni logistiche - N.d.a.] sono di natura molto varia: 1°) akune appartengono ancora, sotto certi aspetti, alla lotta e con essa si identificano (marce, campi, accantonamenti); 2°) altre appartengono ai Servizi logistici propriamente detti (di sanità, vettovagliamento, rifornimento di armi e di vestiario - equipaggiamento). La marcia nel campo tattico (evoluzione) è parte integrante del combattimento. Quelle che si svolgono al di fuori del combattimento sono uno strumento strategico, per mezzo del quale la strategia distribuisce i suoi principi attivi, cioè i combattimenti. I campi e accantonamenti fanno parte del1a strategia e della tattica, perché sono connessi alla prospettiva del combattimento e del1'entrata in azione; le attività per il buon funzionamento dei campi, l'igiene, i servizi previsti per il funzionamento degli stessi ecc. «non riguardano invece né la tattica né la strategia». Fra gli elementi che riguardano la conservazione deJle energie delle truppe, il vettovagliamento è quello che maggiormente è connesso con i combattimenti, perché la sua azione deve essere quasi giornaliera e riguarda ogni individuo. La funzione del vettovaglia-
3
ivi, p. 98.
4
ivi,p. 121.
Ill - CLAUSEWITZ , L'«ANTI JOMlNI »
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mento è intimamente connessa alla parte strategica della guerra (non ai combattimenti): «vi saranno dunque i più stretti rapporti tra la strategia e la cura per il mantenimento delle forze», e può benissimo avvenire che le considerazioni relative al vettovagliamento contribuiscano a determinare i lineamenti fondamentali per una campagna. Nonostante la sua continuità e importanza decisiva, la funzione vettovagliamento rimane tuttavia distinta dalle funzioni che riguardano l'impiego delle truppe, «e non può influire su questo che in rapporto ai propri risultati». Le altre branche dell'attività logistica si allontanano assai di più dall'impiego delle truppe: il servizio sanitario, per quanto abbia anch'esso grandissima importanza per il benessere dell'esercito, non ha tuttavia azione che sopra una piccola parte degli individui che lo compongono e quindi la sua influenza sull'impiego è debole e indiretta. Il rinnovamento delle armi e dell'equipaggiamento, per la parte che non risulta dalle funzioni inerenti all'organizzazione delle truppe. si limiterà a provvedimenti periodici; se ne tratterà dunque raramente nei progetti strategici . Dobbiamo però qui guardarci da un malinteso. In certi casi, questi accorgimenti possono assumere importanza decisiva. La lontananza di ospedali e depositi di munizioni può benissimo considerarsi come sola causa di certe decisioni strategiche importantissime: questo non intendiamo contestare né adombrare. Noi non ci occupiamo però dei rapporti di fatto di un caso particolare, ma della parte astratta della teoria: affermiamo perciò che una influenza di tal natura è troppo rara perché si debba attribuire alla teoria del servizio sanitario od a quella del rinnovamento delle armi e munizioni una importanza decisiva sulla teoria, più generale, della condotta della guerra: non vale quindi la pena d'introdurre, nei suoi fattori, i diversi sistemi, metodi e risultati di queste teo1ie, come d'altronde è il caso per ciò che concerne il vettovagliamento. 5
TEORIA DELLA GUERRA
Le attività attinenti alla guerra si dividono in «quelle che costituiscono semplicemente i preparativi p er la guerra, e quelle che riguardano la guerra stessa». La stessa distinzione vale per la teoria: le conoscenze e le attitudini che si riferiscono ai preparativi saranno applicati alla creazione, addestramento e mantenimento di tutte le forze militari. Non esamineremo quale sia il nome da dar loro,
5
ivi, p. l 02.
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ma è chiaro che l'artiglieria, l'arte fortificatoria, la cosiddetta tattica elementare, l'organica e l'amministrazione e simHi, appartengono a questo gruppo. La teoria della guerra propriamente detta non si occupa invece che di applicare i mezzi organizzati al1o scopo della guerra. Essa non reclama dal gruppo anzi accennato che i risultati acquisiti, e cioè la conoscenza dei mezzi organizzati e delle loro principali caratteristiche. Noi chiamiamo questa teoria arte della guerra in senso ristretto, o teoria della condotta della guerra, od anche teoria dell'impiego delle forze militari; espressioni che per noi sono sinonimi.6
L'arte (o scienza) della guerra era anticamente basata solo sugli aspetti materiali del conflitto (fabbricazione e impiego delle armi, fortificazioni, ecc.): «tutto ciò stava all'arte della guerra propriamente detta come l'arte del vasaio sta a quella del maestro d'anni». Nell'arte degli assedi sono affiorati i primi problemi di condotta. In seguito, poiché le considerazioni sulla condotta della guerra si venivano accumulando e diversificando, si è sentito il bisogno di una base di principi e di regole, che potesse por fine al contrasto di opinioni: ci si propose così uno scopo positivo, senza però aver abbracciato col pensiero le immense difficoltà che presenta Ja condotta della guerra, considerata da questo punto di vista. Questa, come abbiamo detto, si ramifica in quasi tutte le direzioni senza limiti determinati. Invece ogni sistema, ogni edificio dottrinario è una sintesi che implica dei limiti: ne consegue una contraddizione inconciliabile tra tale teoria e la pratica.
Gli scrittori teorici hanno cercato di evitarle «queste difficoltà ritornando a basare massime e sistemi sopra cose materiali e sopra un'attività unilaterale. Essi hanno voluto, come nel1e scienze che riguardano la preparazione alla guerra, ricondurre tutto a risultati positivi e certi». A questi scrittori teorici appartengono, per Cl. sia Jomini che il Btilow (quest'ultimo criticato da Jomini per i suoi stessi motivi). Cl. non fa esplicitamente dei nomi: ma parlando ironicamente di una «mente acuta» critica il concetto geometrico della guerra di Btilow, ottenuto raggruppando nella «base di operazioni» un complesso di elementi morali e materiali eterogenei, sostituendo dapprima alla «base» la sua estensione e a quest'ultima l'angolo formato dalle congiungenti partenti dai suoi estremi con la posizione occupata dall'esercito. Scoperta anche l'allusione a Jornini (e di riflesso al-
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ivi, pp. 102-103.
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l'Arciduca Carlo), quando ritiene errato indicare come fattore principale della vittoria una condizione materiale come la superiorità numerica, perché soggetta a leggi matematiche basate sulle combinazione di tempo e spazio, facendo astrazione da ogni altra circostanza. Infatti questo metodo sarebbe stato tollerabile, se lo scopo fosse quello di rendersi conto di tale fattore in relazione alle sue condizioni; ma ammettere il principio come permanente, considerare la superiorità del numero come legge esclusiva e scorgere l'intero segreto dell'arte della guerra nella formula: «procurarsi la superiorità del numero in un tempo e sopra un punto dato», è una limitazione assolutamente incompatibile colla forza della vita reale.7
Il principio «geometrico» delle linee interne caro a Jomini viene perciò condannato dal Cl. senza appello, anche se egli ammette che si tratta di una reazione al falso indirizzo di Biilow: «per quanto esso riposi sopra un fondamento sano, che cioè il combattimento è il solo mezzo efficace in guerra, esso non è tuttavia, a causa della sua natura geometrica, che un nuovo prodotto unilaterale, il quale non può mai giungere alla realtà delle cose». Infine, tra le degenerazioni teoriche da condannare Cl. indica le tesi di coloro che cercano di rendere sistematico un elemento materiale come il vettovagliamento delle truppe, considerato come «legge suprema della grande guerra». Anche per questa via si giunge a dati certi, «ma basati su una serie di ipotesi del tutto arbitrarie, che non potevano quindi reggere all'esperienza dei fatti concreti».8 Da queste considerazioni critiche - tali da condannare senza appello non solo Jomini e l'Arciduca Carlo, ma tutto il pensiero militare antecedente - CL deriva gli aspetti fondamentali del suo pensiero, che è eminentemente spiritualista con robuste tracce di intellettualismo, derivate dall'importanza insostituibile e sempre preminente del genio e del carattere del condottiero. Per CJ. tutti questi tentativi di teorie debbono essere respinti. Possono essere considerati come progressi nel domfoo de11a verità solo nella loro parte analitica: ma nella loro parte sintetica, quando vogliono estrarre e definire regole e prescrizioni, «non valgono assolutamente nulla». Infatti essi tendono verso grandezze determinate, mentre in guerra tutto è indeterminato, e il calcolo non può esercitarsi che su grandezze va-
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ivi, p. 108. ivi.
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riabili. Essi dirigono il loro esame solo verso le grandezze materiali, mentre tutto l'atto di guerra è solcato da forze e da effetti di origine morale. Essi non considerano che un'attività unilaterale, mentre la guerra consiste in azioni e reazioni continue.
Inoltre questi tentativi non tengono conto del genio, che è al di fuori d'ogni regola. Infatti tutto ciò che sfugge al dominio della scienza costituisce dominio esclusivo del genio, che si innalza al di sopra delle cosiddette regole: guai all'uomo di guerra che dovesse penosamente trascinarsi fra l'ingombro di simili regole, troppo cattive per il genio che sa mettersi al disopra di esse, e al caso anche beffarsene! Ciò che il genio fa deve, al contrario, costituire la più bella regola, e la teoria non ha nulla di meglio da fare che dimostrare il come e il perché di tale carattere del genio.9
Non esitiamo ad attribuire a quest'ultima acquisizione di Cl. una portata realmente rivoluzionaria: perché la massima parte degli scrittori pre-
cedenti indicavano dei principi magari immanenti nella storia e delle regole generalmente valide, che secondo loro solo il genio - uscendo dal seminato - poteva permettersi di ignorare. Qui, invece, il genio non ammette mai principi e regole, bensì - in quanto tale - riesce a penetrare quelle leggi supreme e autentiche della guerra, che per tutti gli altri rimangono oscure. Jomini presuntuosamente pensa di aver scoperto il segreto delle vittorie di Federico e Napoleone: per Cl. invece tale segreto, ammesso che esista, non può essere scoperto, perché il genio non è a11a portata di tutti e la guerra si muove nel campo di forze ed elementi non misurabili, quindi nemmeno prevedibrn e determinabili a priori. Per Cl. ogni teoria, dal momento in cui tocca i fattori morali, diviene infinitamente più difficile. L'architettura e la pittura si muovano su un terreno sicurissimo, ma quando incominciano gli effetti spiritual i delle loro creazioni, «tutto il sistema delle regole si dissolve nella incertezza delle ragioni ideali». Sulla natura dell'azione bellica influiscono tre caratteristiche: forze di natura morale e loro effetti; reazione viva dell'avversario e contro-reazione che ne risulta; incertezza di tutti i dati. Ne consegue che «sarebbe impossibile dotare l'arte della guerra di un corpo positivo di dottrina che possa servire sempre di guida o di regola di condotta al comandante». 10 In tal caso, il genio agirebbe fuori dalla legge e la dottrina sarebbe l'antitesi della realtà. 9
ivi, p. 110. ivi, p. l J5.
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Questo però non significa che non sia possibile la definizione di una teoria, né che non siano utili principi, regole, prescrizioni e metodi, i quali sono anzi indispensabili. Tutto dipende dal modo con cui si intendono e si applicano all'azione concreta tali termini; l'idea di legge angustamente intesa come comando o inibizione è invece non ammissibile. Sul piano generale, per Cl. una teoria della guerra è possibile solo se essa non pretende di diventare «una dottrina positiva, cioè una istruzione riguardante la condotta da tenere». Va inoltre tenuta presente un'altra divergenza fondamentale da Jomini: per Cl. è meno difficile formulare una dottrina per la tattica che per la strategia, perché la prima non si occupa che di un numero di oggetti ben determinati in un campo limitato. Con questi limiti, la teoria non suggerisce delle soluzioni ma diventa ponderazione razionale: essa consiste nell'esame analitico dell'oggetto, e se la teoria viene applicata all'esperienza, e cioè al nostro caso, alla storia della guerra, renderà familiare la materia. Quanto maggiormente essa si avvicina a quest'ultimo scopo, tanto più perde la forma obiettiva del sapere per prendere la forma subieltiva del potere, e tanto più anche si dimostra efficace nei casi in cui la natura delle cose non si ;immette altra decisione che quella del talento: è appunto sul talento che essa manifesterà i suoi effetti. Se essa esamina i diversi elementi di cui si compone la guerra; se distingue nettamente ciò che sembra confuso a primo colpo d'occhio; se analizza completamente le proprietà di ogni mezzo; se ne indica gli effetti probabili; se determina la natura degli scopi; se porta su tutto il campo della guerra la luce di un esame critico profondo, avrà compiuto la parte principale della sua missione. Essa diverrà così una guida per chi vorrà, sui libri, familiarizzarsi con la guerra, illuminerà il suo cammino, alleggerirà i suoi passi, formerà il suo criterio e lo preserverà da concezioni errate. La teoria deve dunque Jonnare lo lpirito del fu turo capo destinato a condurre la guerra, o, piuttosto, dirigerlo nel lavoro di formazione di sé stesso, ma senza aver la pretesa di accompagnarlo sul campo di battaglia. 11
Teoria, quindi, non come guida costante e riferimento certo (Jomjni), ma come semplice ausilio per la comprensione della situazione, sulla quale deve essere poi basata la decisione. In tal modo tra teoria e pratica scompare «la assurda dissonanza che le teorie irragionevoli hanno spesso provocato e che le hanno messe in opposizione col semplice buon
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ivi, p. I 18.
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senso». Altro aspetto importante, Cl. ammette l'esistenza e l'utilità anche di principi e regole: se essi nascono «spontaneamente» dalle considerazioni provocate dalla teoria, quest'ultima non contrasterà questa tendenza naturale dello spirito e anzi la metterà in evidenza ancora maggiore: ma facendolo, suo scopo non deve essere che soddisfare una tendenza logica del pensiero, rendere appariscenti i fuochi sui quali convergono tutti i raggi e non estrarne una formula algebrica destinata al campo di battaglia; giacché per lo spirito pensante, questi principi e queste regole debbono costituire le linee fondamentali delle abituali riflessioni, piuttosto che le pietre miliari indicanti positivamente il cammino da seguire nella ricerca [nostre sottolineature - N.d.a.]. 12
PRINCIPI, REGOLE E METODI In guerra sunu «indispensabili» i principì, le regole, le prescrizioni e i metodi ed è indispensabile la dottrina come metodo, che serve appunto a regolare l'azione mediante metodo (che significa maniera di agire, procedimento scelto tra molti altri possibili). Essa non si fonda su premesse singole e determinate ma sulla probabilità media dei casi. Perciò tende a stabilire una verità media la cui applicazione costante ed uniforme, sviluppa una certa abilità meccanica, con l'aiuto della quale si finisce per adempiere bene al proprio compito quasi senza averne coscienza [...]. Inoltre dobbiamo riconoscerle un vantaggio positivo: quello cioè di riuscire a produrre, mediante l'applicazione sempre rinnovata delle sue forme, abilità, precisione, sicurezza nella condotta delle truppe. Tullo ciò diminuisce gli attriti naturali e facilita il funzionamento del meccanismo. 13
Di conseguenza prescrizioni e metodi sono tanto più necessari e frequenti man mano che si discende nella linea di comando, e il loro impiego è più frequente in tattica o ne11e attività preparatorie, che in strategia (il contrario pensava Jomini). Va comunque tenuto presente che le attività che non sono state assoggettate a regolamentazione nell'impiego delle forze non possono essere regolate da prescrizioni, cioè da istruzioni vincolanti, perché queste escludono la libertà d'azione. Inoltre i meto-
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ivi.
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ivi, p. 136.
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Ili - CLAUSEWTIZ, L'«ANTI JOMJNI,.
di indicati nella regolamentazione non vanno considerati «come costruzioni assolute e necessarie all'azione, come sistemi fissi, bensì come le migliori forme generali atte a sostituirsi, in quanto costituiscono la strada più corta, alle singole decisioni, e che si possono prendere o lasciare secondo i bisogni del momento». 14 Anche se è assai meno importante negli alti gradi che nei gradi inferiori, fino a quando non esisterà una teoria accettabile della condotta della guerra la dottrina come metodismo continuerà a conservare, anche negli alti gradi un'influenza eccessiva. Infatti, gli uomini che occupano gli alti gradi non sanno trovar la propria via, fra i ragionamenti dei teorici e dei critici meno consci di pratica e contraddittori tra di loro; il loro naturale buon senso vi si rifiuta; l'esperienza posseduta è quindi la sola fonte delle loro nozioni, e perciò in quei casi che potrebbero e dovrebbero venir trattati in una maniera libera c individuale, essi sono tratti ad applicare i mezzi loro suggeriti dall'esperienza, e cioè a imitare procedimenti usati da grandi condottieri; donde il crearsi naturale di un metodismo. 15
In questo caso, dunque, l'esperienza conduce a un nocivo metodismo: ma l'esperienza storica rimane pur sempre alla base anche della teoria. Cl. non nega che le conoscenze sulle quali poggia l'arte della guerra appartengano a1le scienze sperimentali, anche perché per apprezzare gli effetti morali non c'è altro mezzo che l'esperienza. L'exemplum historicum ha perciò quattro funzioni: 1) spiegazione o chiarimento del pensiero; 2) applicazione del pensiero; 3) prova di quanto si è affermato; 4) definizione di ammaestramenti.
Caratteri della guerra moderna - la battaglia decisiva
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Diversamente da Jomini, Cl. guarda alla guerra offensiva di massa e tendente all'assoluto di Napoleone non come a una calamità da scongiurare (magari con un affinamento dell'arte) ma come una forma di guerra inevitabile nel futuro, ancorché non unica. La nuova fisionomia assunta dalle guerre dal 1789 al 1815 ha esaltato quei fattori spirituali e nazionali, che in futuro non potranno più essere trascurati. Essa 14
ivi, p. 135. ivi, p. 137. 16 ivi. pp. 239-240 e 282-302.
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ha mostrato, in sostanza, quale fattore enonne costituiscono, nel prodotto deUe forze di uno Stato, il cuore e il sentimento di una nazione; e, dopo che tutti i governi hanno appreso a conoscere queste risorse, non si può più ritenere che essi le negligeranno nelle guerre future, quando l'esistenza dei loro Stati sia minacciata o quando siano mossi da una potente ambizione.
Il concetto di grande battaglia decisiva è correlato a quello di superiorità numerica. Ormai la forza degli eserciti tende ad equivalersi: quindi riunire nel punto decisivo e impegnare nel combattimento il maggior numero possibile di forze è la condizione più importante di tutte, e si deve cercare di entrare in campagna con il maggior numero possibile di forze. Per concentrare tali forze nel punto decisivo occorrono calcoli di spazio e tempo, ma è errato considerare tutta la strategia come basata esclusivamente su tali calcoli [evidente l'allusione a Jomini e ancor più all'Arciduca Carlo - N.d_a.J. Il successo della manovra sta invece nel giusto apprezzamento della situazione dell'avversario, dei punti decisivi e della conseguente direzione più opportuna, oltre che nella sorpresa. In sostanza «la miglior strategia consiste nell'essere sempre assai forti, anzitutto in generale, e poi sul punto decisivo». Quindi bisogna tenere riunite le proprie forze, non distaccare nulla dalla massa principale se non in caso di scopi urgenti, e saper concentrare le forze nello spazio e nel tempo. Poiché l'essenza della guerra è la lotta e la grande battaglia è il combattimento della massa principale, quest'ultima deve sempre essere considerata come il centro di gravitazione delle guerre. 17 Essa è la via più sanguinosa verso la soluzione. Queste affermazioni valgono «qualunque sia la forma particolare assunta dalla condotta della guerra, e quali che siano le modificazioni che dovremo in seguito ammettere in essa, perché necessari». Basta infatti risalire al concetto fondamentale della guerra, per stabilire che: I. La distruzione delle forze armate nemiche è il principio essenziale e la via più diretta verso lo scopo, in quanto riguarda l'azione positiva. 2. Questa distruzione si opera, principalmente, solo per mezzo del combattimento. 3. Solo i combattimenti grandi e generali conducono a grandi risultati.
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ivi. p. 182.
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4. I risultati sono massimi quando i combattimenti costituiscono nel loro complesso una sola grande battaglia. 18
Da queste premesse deriva «una doppia legge»: la distruzione delle forze nemiche deve essere cercata principalmente nelle battaglie generali e nelle loro conseguenze; e lo scopo delle grandi battaglie dev'essere precipuamente la distruzione delle forze nemiche. 19
Anche se Governi e comandanti di eserciti hanno sempre cercato il modo di evitare battaglie decisive, sia il concetto fondamentale della guerra, sia l'esperienza storica insegnano a cercare le grandi soluzionJ solo nelle grandi battaglie, e i generali non devono temere di versare sangue. La grande battaglia, oltre che il mezzo più naturale, è il mezzo migliore, anche se la decisione di ingaggiarla non è la sola necessaria in una campagna o in una guerra. La storia contemporanea ha distrutto l'illusione della guerra umanitaria e limitata, nella quale «i favori non dovevano essere accordati che ai generali i quali sapevano condurre la guerra senza versare sangue, ed era questo che la teoria della guerra - vero servizio di bramini - doveva particolarmente insegnare». Ma nessuno potrebbe garantire che le illusioni riappanranno: forse verrà un giorno in cui si considereranno le campagne e le battaglie di Napoleone come brutalità e semisciocchezze, per volgere di nuovo uno sguardo compiacente e fiducioso verso lo spadino di gala, verso l'apparecchio manieroso di metodi decrepiti. Se la teoria può sconsigliare da ciò, essa avrà reso un grande servigio a coloro che ne avranno ascoltato i moniti.
In varia misura la grande battaglia è sempre il centro di gravitazione del sistema, quindi «la strategia tocca le sue maggiori altezze di concezione quando si estrinseca nel procurarsi i mezzi per la medesima, nel delerrniname opportunamente il luogo, il tempo e la direzione delle forze, e nel ricavarne poi il massimo profitto». 20 Il ruolo centrale della grande battaglia non ci pare in contraddizione con quanto Cl. afferma sul rapporto tra guerra e politica: anche quando
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ivi, p. 296. ivi. 20 ivi, p. 111 e 299. 19
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tende ali'assoluto, la guerra non cessa mai di essere uno strumento della politica. Tuttavia essa «sembra allontanarsi tanto più dalla politica, quanto maggiore è il suo carattere puramente bellico» (e viceversa). Peraltro, lo scopo politico non deve avere il carattere di «un legislatore dispotico» ma deve adattarsi alla natura del mezzo, «donde risulta che esso si modifichi molto profondamente [... ] una certa intelligenza de11a guerra è inseparabile da una buona condotta degli affari politici». 21 La tendenza naturale della guerra verso l'assoluto è tale solo da] punto di vista filosofico e logico, e non si riferisce affatto alla tendenza reale de11e forze in gioco, intese, ad esempio, come somma delle passioni ed emozioni dei combattenti: è vero che in certi casi queste potrebbero essere eccitate a tal punto da poterle a stento contenere nei limiti tracciati dal disegno politico: ma generalmente questo contrasto non si verifica, perché l'esistenza di tendenze così poderose implica anche quella di un piano grandioso, collimante con esse. 22
Le forze reali in gioco fanno sì che la guerra, oltre ad essere «un camaleonte» perché cambia di natura in ogni caso concreto, si presenti «come uno strano diedro» che è composto: 1. dalla violenza originale del suo elemento, l'odio e la inimicizia, da considerarsi come un cieco istinto; 2. dal gioco delle probabilità e del caso, che le imprimono il carattere di una libera attività dell'anima; 3. dalla sua natura subordinata di strumento politico, ciò che la riconduce alla pura e semplice ragione. La prima di queste tre facce corrisponde più specialmente al popolo, la seconda al condottiero e al suo esercito, la terza al governo. Le passioni che nella guerra saranno messe in gioco debbono già esistere nelle nazioni ... .23
La teoria dell'attrito: limiti del «buon teorico» e centralità dell'esperienza pratica
In guerra tutto è molto semplice, ma solo all'apparenza: «ciò che è semplicissimo, non è facile. Le difficoltà si accumulano e producono, 21
ivi, Voi. II pp. 816-817 e Voi. I pp. 37-38. ivi, Voi. I p. 38 e 39. 23 ivi, p. 40. 22
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nel loro complesso, un attrito, che non si può raffigurare esattamente senza aver veduto 1a guerra».24 L'idea dell'attrito è la misura della distinzione tra guerra reale e guerra a tavolino. L'azione in guerra è «un movimento in un mezzo resistente». Di qui il ruolo centrale dell'esperienza e i limiti della teoria: il buon teorico può perciò paragonarsi al maestro di nuoto che esercita i suoi allievi fuori dell'acqua ai movimenti che saranno necessari nell'acqua; questi movimenti sembrano grotteschi ed esagerati a chi non pensa all'acqua; e perciò, anche i teorici che non si sono mai tuffati o che non sanno estrarre nulla di generale dalla loro esperienza, sono fuori dalle necessità della pratica [ ... ]. La conoscenza di questi attriti è una parte essenziale di quella esperienza della guerra tanto spesso valutata, che si esige dal buon generale. Inutile dire che non è il miglior generale colui che se ne è fatta l'idea più grave [... ]. Il generale deve, al contrario, conoscere queste resistenze, per poterle vincere ove possibile, e per non contare sopra una precisione di effetti che l'esistenza degli attriti rende impossibile. Mai d'altra parte, si apprenderà colla sola scorta della teoria a conoscere del tutto gli attriti, e se lo si potesse, si mancherebbe pur sempre di quell'estrinsecazione del raziocinio che chiamasi tatto [ ...]. Come l'uomo di mondo parla, agisce e si muove convenientemente in grazia del tatto che in lui è abitudine, così l'ufficiale pratico de1la guerra saprà da sé, nelle piccole e nelle grandi circostanze, e per così dire, ad ogni pulsazione della guerra decidere ed agire convenientemente. 25
Il «modello» assoluto delle guerre della Rivoluzione e di Napoleone Le guerre napoleoniche (e qui CL cita le campagne del 1805, 1806, 1809 e quelle che le hanno seguite) «ci hanno molto agevolato il compito di trarre da esse i1 concetto de] tipo di guerra moderna assoluta, nella sua energia frantumatrice». 26 Le gesta di Napoleone sono dunque un modello politico e militare insieme; sono una svolta definitiva più che una fase passeggera: alla fine del secolo scorso, quando l'arte militare europea subì una trasformazione così notevole che i migliori eserciti videro brusca24
ivi, p. 86. ivi, pp. 88-89. 26 ivi. Voi. Il p. 781. 25
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mente annientare una parte della loro arte, e furono spettatori cli successi militari della cui grandiosità non si aveva fino allora alcuna idea, dovette sembrar naturale l'imputare all'arte di guerra il biasimo per tutti i calcoli falliti. Era evidente che quest'arte, rinserrata dall'abitudine in un cerchio di idee ristretto, era stata sorpresa dalla potenza dei nuovi fattori, i quali si trovavano bensì al di fuori di questo cerchio, ma non certamente fuori dell'ordine naturale dei fatti. Gli osservatori dalle vedute più ampie attribuirono il fenomeno all'influenza generale che la politica esercitava da secoli sull'arte della guerra, in senso dannoso per quest'arte: la quale, in conseguenza, era discesa fino ad un complesso cli mezzi misero e spesso era divenuta una specie cli giuoco scenico. Il fatto era vero: ma ci si sbagliava, giudicando che derivasse da condizioni accidentali che avrebbero potuto essere evitate. Altri credettero di poter spiegare tutto con l'influenza momentanea della politica particolare dell'Austria, della Prussia, dell'Inghilterra, ecc .. Ma la vera sorpresa da cui furono colpiti gli intelletti, si riferiva all'ambito della condotta di guerra o non piuttosto a quello della politica? In altri termini il disastro risultò dall'influenza della politica sulla guerra o dall'errata politica? Gli effetti immensi che produsse la Rivoluzione francese verso l'esterno sono dovuti evidentemente assai meno ai nuovi mezzi e alle nuove vedute della condotta di guerra francese, che non al mutamento completo avvenuto nell'arte politica cd amministrativa statale, al carattere del governo, alle condizioni della nazione ccc .. Gli altri governi non seppero valutare tutto ciò, e vollero con mezzi ordinari tener testa a forze nuove e travolgenti: e cioè, commisero errori politici. Sarebbe stato possibile evitarli se si fosse concepita la guerra dal punto cli vista puramente militare? Certamente no. Anche ammettendo che vi fosse qualche esploratore filosofico della strategia il quale avesse dedotto logicamente tutte le conseguenze necessarie dall'essenza del principio di ostilità ed avesse enunciato una profezia circa eventualità lontane, sarebbe stato impossibile dare il menomo seguito a queste visioni. Solo elevandosi ad una giusta valutazione delle nuove forze sorte in Francia e della trasformazione che esse producevano nella politica europea, la politica avrebbe potuto prevedere quale reazione ne sarebbe derivata per le grandi linee della guerra. Era questa la sola maniera per la quale essa poteva giungere alla concezione dell'entità dei mezzi necessari esceglier la giusta via. Si può dire, quindi, che i venti anni di vittorie francesi del periodo rivoluzionario sono principalmente una conseguenza degli errori politici dei governi avversari.27
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ivi. Voi. II pp. 817-818.
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Un'ottica che non potrebbe essere più diversa da quella di Jomini, che vede nelle guerre napoleoniche semplicemente la proiezione e la conferma su scala più vasta di principi già operanti nelle campagne di Federico II, senza dare il dovuto peso al mutato contesto politico-sociale. Lungi dal rappresentare - come per Jomini - una pagina sanguinosa da dimenticare, le guerre della Rivoluzione sono per Cl. il paradigma delle guerre moderne e il loro vero modello, ancor prima di quello di Napoleone. La sconfitta non è mai un fatto solo mi1itare: essa è prima di tutto un fatto politico e deriva da errori politici. Parole - noi osserviamo - ancora oggi non entrate nella mentalità corrente, là ove si tende a separare le responsabilità politiche da quelle militari, come se una cattiva politica militare, una cattiva strategia o una cattiva leaaership militare non fossero, di per sé, inevitabile conseguenza di una cattiva politica in generale e di una cattiva leadership politica. Anche Cl., ha il suo modello di riferimento, le sue preferenze. Si deve ammettere che ci troviamo di fronte a una contraddizione: rifiutare dei «modelli», e poi indicarne chiaramente uno come ultimo stadio de11e forme storiche assunte da11a guerra, significa far entrare dalla finestra ciò che si è voluto cacciare dalla porta. Conlraddizio ne più apparente che reale: perché il modello in questo caso non ha mai valore tassativo e ultimativo, né pretese di validità assoluta. È, più che altro, una fondata previsione: la formazione degli Stati nazionali che Cl. intravedeva, avrebbe scatenato nuove forze prima di tutto extra-militari e morali che - in linea generale - avrebbero sicuramente contribuito a spingere all'estremo la guerra. Ma dal momento che le guerre non sono mai state solo europee e tra grandi nazioni, la guerra per Cl. rimane un camaleonte e può assumere varie forme in relazione a11e esi genze della politica. Nessuna forma di determinismo storico può essere intravista nella visione clausewitziana della guerra futura. Ma se le guerre possono assumere forme variabili senza ubbidire a leggi fisse che ne determinino i caratteri o ne indichino i limiti, si deve constatare che, allora, per Cl. non si può parlare di evoluzione o rivoluzione dell'arte della guerra, e nemmeno di involuzione o decadenza. Visione estremamente moderna, dunque, la sua; perché gli avvenimenti di fine secolo XX possono essere variamente interpretati, ma senza alcun dubbio dimostrano l'improponibilità di un determinismo storico e quindi anche di un determinismo politico-militare e strategico. Come può evolversi l'arte della guerra, se risente in misura determinante delle passioni umane? e fino a che punto sui suoi mutamenti incide il materiale? si può parlare di «rivoluzione» pro-
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vocata unicamente da questo o quel materiale? La risposta di Cl. a questi interrogativi è decisamente negativa. Ci troviamo di fronte alla parte più viva, originale e attuale delle teorie di CL: tramontate le ideologie, oggi (1995) non possono non tramontare anche le certezze strategiche e i teoremi e le teorie messianiche mutuate dal ruolo di questo o quel materiale (la grande nave, l'aeroplano, il carro armato, l'arma nucleare, il gas ... ). Cl. dice tutto questo con un secolo e mezzo d'anticipo. Il suo culto del Capo è speculare alla complessità e imprevedibilità del fenomeno guerra, che può essere penetrato solo da spiriti superiori. Ma se il Capo è il miglior interprete delle regole e le viola solo in apparenza e per g1i intelletti limitati, se la sua logica non è tale solo alla superficie, ne risulta decisamente sconfitto e improponibile anche l'errato concetto di strategia di E. N. Luttwak (1992), che - caso raro - riesce ad essere contemporaneamente anticlausewitziano e antijominiano, quando definisce la strategia scienza della guerra, che differisce dalle altre scienze perché la logica della guerra è diversa dalla normale logica (sic). In contrasto con la logica lineare/formale di tutti i giorni, la logica della guerra, e in termini più estesi di un conflitto, è paradossale («se vuoi la pace, prepara la guerra») e dialettica ( «le azioni provocano non un solo risultato, ma anche una reazione che modifica, e può rovesciare completamente questo risultato»).28
A parte il fatto che la strategia non può essere solo scienza o conoscenza, ma è fondamentalmente azione e guida all'azione (perciò arte - e manifestazione di volontà - più che scienza), ammettere una logica dena guerra diversa dalla normale logica significherebbe estendere la pretesa patente di «diversità» anche alla politica madre della guerra, a11e relazioni tra organismi e cittadini e Stati e uomini che la politica determinano .... Sfugge a Luttwak ciò che Cl. sa dire molto bene, a proposito del talento del Capo militare che riesce a individuare le regole nascoste, a interpretare il reale al di là delle fallaci apparenze pervenendo così al successo. Il genio è sempre il miglior interprete delle regole, la cui unica misura è il successo: e questo vale anche per il Capo politico o d'industria. Nessuna logica «con le stellette» in contrapposizione alla logica «civile»: ma sempre e dovunque logica, che sta all'uomo saper applicare distinguendo la logica reale da quella apparente. Mostrarsi forti nella vita d'ogni giorno, non scoraggia forse le
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E.N. Luttwak-S.L. Koehl, La gue"a moderna, Milano, Rizzoli 1992, p. 882.
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azioni aggressive da parte degli a]tri? Su questo, Cl. e anche )omini hanno detto fin troppo. Anche Napoleone si è espresso chiaramente, mettendo in guardia dall'attribuire al caso, alla fortuna o sfortuna - a qualcosa insomma che è al di fuori della logica comune - le sue gesta, che invece sono proprio dovute al rispetto e all'applicazione (o meno) di quella che potremmo definire come una superiore razionalità che solo il genio sa cogliere: sono state attribuite alla fortuna le mie azioni più grandi, e non si mancherà certo d'imputare le mie sventure a mia colpa; ma se io narrerò le mie campagne, il mondo sarà ben stupito di vedere che in tutti e due i casi e sempre, la mia ragione e le mie facoltà non si esercitarono che in conformità dei principì [ ...]. L'essenziale della guerra è vincer le battaglie [... ). Le grandi azioni non sono opera del caso e della fortuna, esse derivano dall'impiego di molti fattori e dal genio. 29
Ritorneremo su questo argomento basilare, trattando dell'interpretazione e filosofica che delle teorie di Clausewitz dà il nostro Benedetto Croce.
SEZIONE II - Clausewitz nel contesto del pensiero militare coevo e successivo: raffronti, interpretazioni e limiti
Clausewitz, Napoleone e }omini
Le guerre della Rivo]uzione e di Napoleone e il modo di interpretarne gli ammaestramenti sono la principale discriminante tra Jomini e Clausewitz. Non ci risulta l'esistenza, in ltaJia, di studi specifici che tengano conto di questa premessa abbastanza elementare. Ricordiamo solo un articolo del 1943 dal titolo La storia militare e i principi strategici (a firma G.C.)30, nel quale non si colgono affatto le differenze tra Jornini e Cl. e ci si limita a un'acritica e generica celebrazione del valore dei principi e del metodo storico, valore ben diverso nei due autori (che invece sono messi salomonicamente quanto superficialmente sullo stesso piano).
29 30
Napoleone, Precetti e pagine ... (cit.), pp. 45, 139 e 145. «Le Forze Armate» 17 agosto 1943.
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IL PENSIERO MILITARE ITALIAN0(1789- 1915) -VOL. I
Jomini pretende di estrarre dalle guerre napoleoniche un principioguida costante, anzi un segreto non nuovo, perché si trova anche nelle guerre di Federico Il, e che è basato su fattori essenzialmente numerici e geografici: far trovare sul punto decisivo la maggior quantità possibile di forze in grado di agire. Egli non ha bisogno delle guerre napoleoniche per dimostrare questo asserto: al contrario, pur riconoscendo a Napoleone (ma come si potrebbe fare altrimenti?) un'incomparabile capacità di applicare il suo principio, egli le vede con preoccupazione come guerre devastatrici da evitare. Cl., al contrario, vede le guerre di Napoleone non come fatto tecnico-militare e archivio di segreti più o meno accessibili ma come fatto politico-sociale, che assicura di per sé agli eserciti francesi il predominio in Europa: come il prodotto, insomma, di forze morali dove compare in tutta la sua forza la triade che egli pone a base della reale capacità di combattere (talento del Capo, virtù militare dell'esercito, sentimento nazionale). In sostanza, sono le energie di carattere morale e politico-sociale che esse liberano a dare alle guerre e alle conseguenti strategie napoleoniche quello sfondo aggressivo, offensivo e queJla tendenza a trasformare le guerre di eserciti in guerre di annientamento tra nazioni, che assicurano loro la superiorità e esigono - e ottengono - la debellatio del nemico. Anche Jomini non trascura l'influsso determinante della poJitica sulla natura della guerra: ma, con la sia pur rilevante eccezione delle guerre nazionali, la sua strategia si risolve sempre nella ricerca della vittoria (che dunque in lui non è mezzo, ma fine della strategia) mediante un accorgimento, una modalità puramente tecnico-militare dove poco o nulla entrano i fattori spirituali e morali da CL ritenuti determinanti. Ne consegue la diversa natura dei principi e delle regole della guerra in Jomini e Cl.. Non è vero che quest'ultimo non li ammette: li ritiene anzi indispensabili, ma non come riferimento costante (Jomini), bensì come semplice guida, come ausilio per una corretta e rapida anaJisi della realtà e per la conseguente decisione. Per Cl. quindi, tali principi e regole diventano tanto più necessari e fanno tanto più sentire i loro effetti, man mano che si scende nella scala gerarchica e dal livello strategico a quello tattico. Di qui la diversa valutazione del talento del Capo in CL: come per Federico ll e Napoleone, per Cl. il Capo è tutto. Solo lui - in ultima analisi e al di là di tutte le teorie - deve essere in grado di abbracciare la complessità degli eventi e individuare le linee d'azione. Colpo d'occhio (coup d'oeil) e capacità di rapida decisione sono le sue qualità principali: perché come nessun ramo dell'attività umana la guerra è il regno del ca-
m-
CLAUSEWITZ, L'«ANTI JOMINI»
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so e dell'imprevisto, contro i quali il Capo deve lottare. Questo spiega anche perché per Cl. il comandante di un esercito non ha bisogno di essere un sapiente: «generalmente i comandanti di eserciti più illustri non sono mai usciti dalla classe degli ufficiali eruditi e anche colti, e anzi la loro posizione anteriore non poteva, nella maggioranza dei casi conferir loro una grande somma di sapere».31 Per Jomini, invece, il Capo è importante, ma rimane uno dei tanti elementi da considerare. La sua capacità non è tutto: egli può essere tradito da cattivi collaboratori, truppe indisciplinate, ecc. ecc .. Diversa anche la funzione e importanza della teoria e dello studio; per Jomini lo sludio attento delle sue teorie dovrebbe essere sufficiente per formare generali di media qualità, una scuola e un metodo insomma. E grande importanza Jomini dà alJo Stato Maggiore e al suo lavoro, tanto più che la strategia si avvicina molto a scienza esatta, è studio e conoscenza, non è azione ma prepara all'azione, lasciando quest'ultima al dominio della tattica e creando in tal modo una dicotomia tra pensiero (la strategia) e azione (la tattica). Cl. rifiuta tale dicotomia: la sua è una teoria dell'azione, non c'è alcuna dicotomia tra pensiero (e relativi scherni) e azione. Di qui il concetto profondamenle diverso di strategia e tattica, che nel Vom Kriege sono ambedue il regno dell'azione con finalità e limiti diversi. La strategia ha per fine non la vittoria ma una pace vantaggiosa, conseguibile con un obiettivo militare coincidente o in armonia con quello politico, a sua volta ottenuto raccordando insieme i risultati dei combattimenti. In tal modo, la strategia è cosa estremamente difficile e complessa nella sua esecuzione. L"obiettivo della tattica, invece, è sempre ed esclusivamente militare e consiste nel raggiungere lo scopo del combattimento. L'insistenza continua sulle forze morali e spirituali e sul talento del Capo sono, in Cl., speculari all'insistenza di Jornini sul concentramento delle forze nel punto decisivo, che nel primo diventa solo una modalità preferenziale ma non legata a vincoli e calcoli geometrici e meccanici o a questo o quel metodo. Tale insistenza, invero eccessiva, po1ta Cl. a trascurare assai più di Jomini il ruolo di quelli che chiameremmo i fattori materiali e attinenti alla preparazione e all'attività organizzativa, che non possono non aver un influsso determinante, continuo, capillare e ineludibile e non separabile sulla condotta. Relegando la logistica (nel senso attuale del termine) nell'attività
31
K. Von Clausewitz, Op. cit., Voi. I, p. 123.
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preparatoria e ritenendola sostanzialmente ininfluente sulla condotta del- . le operazioni, Cl. rivela il suo più serio limite e opera in contraddizione con la sua esatta comprensione della guerra di nazioni napoleonica come archetipo inevitabile delle guerre moderne contemporanee. Senza dubbio, egli scrive in un'epoca ancora pre-industriale; ma se si pensa alla fisionomia assunta dalla prima guerra mondiale e in parte anche dalla seconda, si deve riconoscere che di lui è stata più buon profeta Jomini, sostenitore di una minore importanza della leadership militare, di un ruolo più puramente militare della strategia e dell'importanza dei movimenti (leggi: trasporti) e dei rifornimenti. Che cosa hanno fatto i generali «apolitici» della prima guerra mondiale, se non cercare di sfondare con brutali offensive metodiche, quindi jominiane in qualche punto del fronte, concentrandovi il maggior numero possibile di fanterie e cannoni? Le teorie di Jomini, nella misura in cui lasciano apparire l'importanza del materiale e della logistica, si avvicinano più di quelle di Cl. alla «guerra industriale» e tecnologica contemporanea. E si fanno perdonare - almeno in parte - l'eccessivo metodismo, l'eccessivo amore per regole e vincoli, la tendenza a ridurre la strategia a preparazione e scienza positiva, proprio perché il materiale, le tecnologie e i rifornimenti - già lo avevano dimostrato le guerre di Gabinetto - vincolano la strategia e il peso del talento del Capo. Contraddittoriamente CL, che pur riconosce all'arte della guerra la sua complessità, è più ottimista di Jomini riducendola a due sole branche, strategia e tattica, dove il materiale non ha gran rilievo e dove dominano altri fattori. Le due guerre mondiali, nelle quali il generale deve presto o tardi fare i conti con Stati Maggiori civili e militari e con i rifornimenti, sono dimostrazione dei limiti di Cl. e della maggiore rispondenza degli schemi jominiani alla natura della guerra industriale, se non altro perché nella misura in cui prevalgono i materiali, le tecnologie e le connesse esigenze d'impiego, la guerra diventa un fatto metodico e di coordinamento dove tutto deve essere pianificato, senza troppi voli. Cl. e Jomini hanno ambedue torto in ugual misura con il loro culto della battaglia decisiva, vista dal primo come sia pur costoso mezzo per evitare inconcludenti guerre di logoramento e dal secondo - contraddittoriamente - come qualcosa di svincolato dalla politica. Ancora una volta, ciò che può relegare nel novero delle speranze la battaglia decisiva e rendere impossibile e poco redditizia la ricerca della distruzione dell'avversario non è solo e non è tanto - come pensava Cl. - l'influsso della politica, ma anche la natura della guerra stessa e in particolare le possibilità oggi offerte dalla propaganda e dal1a mobilitazione economica e industriale. In sintesi, su questi aspetti Cl. e Jomini cadono ambedue in profon-
III - CLAUSEWITZ, L'«ANTI JOMJNT»
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da contraddizione. Il primo a ragione intravede, per il futuro, guerre di nazioni che tendono all'assoluto, ma non ne coglie affatto la preminente dimensione logistica e industriale che accresce il ruolo del materiale a scapito dello spirito delle truppe (sempre più difficile da ottenere sulla misura desiderata), del talento del Capo e della possibilità effettiva di battaglie decisive. Il secondo ha maggiore considerazione per il materiale, la logistica e in genere per la preparazione, ma senza considerare i mutevoli e crescenti influssi della politica mantiene una modalità d'azione di Napoleone - la concentrazione delle forze nel punto decisivo - come schema e scopo unico della strategia, per altro verso respingendo la guerra di tipo napoleonico come archetipo futuro. Rimane, dunque sostanzialmente «datato» al secolo XIX il culto di Cl. per la grande battaglia, centro di gravitazione della guerra, massima espressione della strategia e mezzo migliore per risolvere la guerra stessa, qualunque sia la sua forma particolare e quali che siano le modifiche che subisce in relazione alla politica e alle forze reali in gioco. Questa tendenza, abbinata all'insistenza sul combattimento come sbocco naturale quanto inevitabile della guerra e sulle guerre napoleoniche come nuovo archetipo, va dunque considerata contestualmente al ruolo spesso anche se non sempre - moderatore e vincolante che Clausewitz assegna sia alla politica sia alle forze reali in gioco, non considerando la possibilità che - lungi dall'essere un elemento moderatore - questi fattori sano far passare alla guerra anche la soglia pur sempre tecnico-militare di «guerra tra eserciti» alla quale si ferma la tendenza all'assoluto della guerra. In altre parole il concetto di «guerra assoluta» di Cl. è pur sempre limitato. Egli trascura che lo scopo politico della guerra - tanto più con armi sempre più progredite - può proiettarla anche oltre la debellatio delle sole forze militari nemiche, alla quale si ferma la sua strategia, tipicamente «militare» nonostante il carattere di lotta non soggetta a vincoli morali e di convenienza che ha assunto la guerra (è la storia del secolo XX). Si tratta di un oggettivo limite delle teorie clausewitziane, limite che trova la sua origine nell'impronta spiritualista e intellettualista tipica dell'analisi di Cl. Dalla separazione innaturale tra preparazione e condotta della guerra deriva lo scarso peso della logistica (sia di produzione che di distribuzione), quindi dell'organizzazione della produzione bellica, quindi anche delle popolazioni come protagoniste della produzione. Una volta constatato il ruolo fondamentale di quest'ultime, diventa quasi automatico considerarle un fattore primario dell'efficienza bellica da colpire: è quanto ha sostenuto Giulio Douhet, che dunque anche per questa via - a parte l'impronta materialista e deterministica del suo pensiero - si
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discosta da Cl.. In definitiva, quest'ultimo è portatore di un concetto di guerra pre-industriale, dove la violenza bellica non si estende ancora ai popoli ma riguarda solo i militari: la guerriglia per Cl. è l'eccezione, l' extrema ratio, non la norma. Un'oggettiva contraddizione si può notare anche nel presentare la guerra come il regno dell'imprevisto e del caso e di forze morali non quantificabili e quindi non prevedibili, salvo poi a pretendere che la strategia sia in grado di collegare e incastonare i combattimenti - non le battaglie - al giusto posto che loro compete nell'economia generale della guerra. Ciò richiede non solo una sicura visione delle linee fondamentali della guerra da condurre, ma che esse rimangono costanti e che i combattimenti - pur derivando da elementi non prevedibili e quantificabili abbiano sempre un carattere in armonia con lo scopo della guerra. Per questo troviamo anche in CL l'importanza del piano di campagna, dal quale - come si è visto - egli pretende molto, fino a chiedergli il contenimento delle passioni ed emozioni che la guerra scatena e che potrebbero superare il limite imposto dalla politica. Queste contraddizioni sono lo specchio della realtà complessa, controversa e contraddittoria della guerra che Cl. dipinge e dei limiti della teoria? oppure derivano dal carattere incompiuto del Vom Kriege, che gli fa esplicitamente dichiarare che solo il Capitolo I del Voi. I - dove analizza il rapporto tra guerra e politica e le tendenze moderatrici in atto nella guerra reale - va considerato come l'unico compiuto? Non lo sapremo mai. Ciò che ci meraviglia è, invece, il successo senza precedenti che egli ha avuto nell'era nucleare, basata su quei mezzi materiali (missili, bombe, aerei ecc.), sulla mutua distruzione assicurata e su quell'equilibrio delle forze, che tolgono alla strategia l'aspetto dell'azione operativa ed esaltano la dissuasione, della quale nello spiritualista Cl. si trova solo una timida presenza. Rimane, comunque, il fatto che questo generale prussiano coglie assai bene e assai meglio di Jomini i riflessi militari totalizzanti delle grandi ideologie che, dalla seconda metà del secolo XIX in poi, hanno rovesciato come un guanto il sostanziale - anche se reazionario - pacifismo della Restaurazione e in nome della nazione nata dalla Rivoluzione Francese, in almeno due occasioni nel XX secolo hanno fatto dall'Europa un cumulo di rovine, mentre in altre innumerevoli circostanze - fuori dell'Europa - hanno tolto ogni limite umanitario alla guerra. Così come Jomini è il contraltare militare dell'illuminismo, del culto della ragione, Cl. è l'espressione militare del romanticismo tedesco. Si tratta di un fenomeno anzitutto nazionale perché reazione al classicismo francese, nato in Germania a fine secolo XVIII, nel quale il sentimento, la passione, tutto ciò che è istinto e natura diventano i supremi valori e il (metro in sé
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variabile e non univoco) per misurarsi con la realtà, rifiutando dogmi, regole e limiti. Movimento, dunque, dove la ragione è ammessa, ma in tanto in quanto si deve misurare con il sentimento e le passioni, fino a far parlare di «irrazionalismo romantico». Le due principali e diverse anime culturali, politiche ed economiche dell'Europa contemporanea, anime tradizionalmente antagoniste, hanno dunque un aspetto militare del pari antagonista: non c'è da sorprendersi troppo, vista la piena appartenenza della cultura militare alla cultura in senso lato. Se il limite di Cl. è di eccedere nello spiritualismo, il contrapposto limite di Jomini è di eccedere nella ricerca del particolare e delle distinzioni, e al tempo stesso - contraddittoriamente - della semplificazione, pretendendo di spiegare e di ridurre a minimo comun denominatore la complessità del reale. ln tal modo, l'uso della ragione spinto all'estremo dà un'immagine di maniera - quindi falsa - della realtà stessa. Non casualmente il limite di Jomini viene imputato anche a Cartesio; in una recente intervista Edgar Morin parla, a proposito di Cartesio, di «uso degradato della ragione», e aggiunge: è stato Cartesio a gettare le basi di quel «paradigma» di semplificazione, come lo chiamo io, di cui è vittima il pensiero occidentale.
Creando un dualismo tra pensiero e materia [ ... ] ha finito col far prevalere la disgiunzione sulla congiunzione e dunque per ridurre a semplice ciò che invece è complesso. Ma questa incapacità di concepire quanto è complessa la realtà antroposociale o se si vuole il nostro bisogno di semplificare tutto, è all'origine di un numero infinito di tragedie: le idee che sono degenerate in idealismo, le teorie in dogmatismo, e la ragione in razionalizzazione .... 32
A sua volta Cl. ha proceduto troppo in senso contrario, nella non-razionalizzazione ... Era un lusso che si poteva permettere solo uno scrittore militare nato in un popolo, e in un esercito, dove tutto era già - per inclinazione naturale, per principio - metodico e ordinato. Rimane, comunque, il fatto che il migliore interprete militare di Napoleone e della Rivoluzione è stato il prussiano Cl. e non Jornini: quest'ultimo entra in campo e acquista un grande ruolo, solo neJla misura in cui fallisce - per ragioni essenzialmente logistiche e industriali - l'eredità napoleonica. Il fatto che bisogna cercare in Prussia chi ha veramente capito Napoleone, e in Francia chi ha veramente capito Federico II, è solo l'ennesima dimostrazione che la storia non segue un percorso rettilineo, e che l'Europa da secoli ormai non è a compartimenti stagni. 32
«L'Espresso» 4 aprile 1993. pp. 118-119.
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Critiche e studi stranieri su Clausewitz_· da ]omini a Gerard Ritter, Raymond Aron e Peter Paret Non conosciamo veri e organici studiosi e critici di Jomini: ne conosciamo invece molti - in Italia e all'estero - di CL Troviamo tra i maggiori studiosi odierni di quest'ultimo il francese Raymond Aron: nessun francese però - a quanto ci consta - ha mai dedicato a Jomini, che pur lo meritava, un'opera di pari livello. Il primo critico di Cl. - critico postumo e pro domo sua - è Jomini, le cui teorie a sfondo geometrico, metodico, dogmatico e scientifico per Cl. «non valgono nulla» (per la verità, non si conosce alcun autore coevo che per CL valga qualche cosa, dunque Jomini non è il solo oggetto della sua disistima). Jomini fa espliciti riferimenti a Cl. nelle «considerazioni preliminari sulla teoria attuale della guerra e sulla sua utilità» che precedono il Précis del 1837, e delle quali abbiamo già parlato nel precedente capitolo II. Dopo aver affermato di non credere che CL abbia scritto il Vom Kriege prima di conoscere i contenuti del suo Précis, Jomini appare preoccupato di difendere la sua fede nei principi e nelle regole visti come guida costante e come immutabile prodotto dell'esperienza storica_ Egli accusa CL di divagare, di usare un linguaggio pretenzioso, poco chiaro e semplice, di minare le basi della scienza militare: l'autore [cioè Clausewitz - N_d.a.] si mostra fin troppo scettico in fatto di scienza militare: il suo primo volume non è che una declamazione contro ogni teoria della guerra, mentre i due volumi seguenti, pieni di massime teoriche, provano che l'autore se non crede alle dottrine degli altri, crede solo all'efficacia delle proprie. Quanto a me, lo confesso, io non ho trovato in questo sapiente labirinto che un piccolo numero di idee pretenziose e di articoli notevoli: e lungi dall'aver condiviso lo scetticismo dell'autore, nessuna opera più della sua mi ha fatto sentire la necessità e l'utilità di buone teorie, se io non ho mai avuto l'intenzione di metterle in dubbio: si tratta solamente di intendersi bene sui limiti che si deve assegnare loro per non cadere in un pedantismo peggiore dell'ignoranza (un uomo ignorante ma dotato di un genio naturale può fare grandi cose; ma il medesimo uomo, imbottito di false dottrine studiate nelle scuole militari e infarcito di sistemi pedanti, non farà niente di buono, a meno che non trascuri ciò che ha fatto). 33
Secondo Jomini bisogna cogliere bene la differenza che esiste tra u-
33
AH. Jomini, Précis, Vol. I, pp. 21-22.
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na teoria di principi e una teoria di sistemi: la sua è solo una teoria basata sui principi. Tutto il suo discorso è basato - egH dice - sull'esistenza e sull'utilità di detti principi: nel Précis ho riconosciuto io stesso che esistono poche regole assolute da fornire sulle diverse branche: ma questo non vuol dire che non vi siano teorie. Se su 45 articoli alcuni hanno 10 massime positive e altri una o due solamente, non bastano forse 150 o 200 regole per pervenire a un corpo assai rispettabile dottrine strategiche e tattiche? E se alle regole così definite si aggiungono dei precetti che ammettono più o meno delle eccezioni, non vi saranno forse più dogmi di quanto sia necessario per fissare le vostre idee su tutte le operazioni di guerra? Come se fosse la cosa più naturale del mondo, Jomini parla di dogmi, cioè di «principi assoluti affermati come verità indiscutibile» (Dizionario Garzanti). Gli sfugge la vera ragione del contendere, che non è quella dell'esistenza di principi o regole (anche da Cl. ritenuti indispensabili, specie ai minori livelli) e nemmeno del loro numero (anche in Cl. se ne trovano molti), ma della loro funzione. Per Jomini essi sono guide immutabili, veri e propri capisaldi ai quali sempre riferirsi nel corso dell'azione; per Cl. sono dei semplici ausili o strumenti di ricerca e comprensione della realtà, che facilitano decisioni individuali e conti ngenti: dunque quest'ultime possono anche distaccare da essi (ciò non è generalmente possibile in Jomini, pena la sconfitta). Si trovano nel Précis, anche alcune concessioni a Cl.. Per esempio sul ruolo del sapere, che - dice Jomini - è cosa ben diversa dal saper fare. Se si riesce spesso avvalendosi solo del saper fare, egli dice, non è men vero che solo la riunione de l sapere e del saper fare contraddistingue un uomo superiore e assicura un successo completo: «Tuttavia, per non essere accusato di pedantismo, io mi faccio premura di precisare che, per sapere, io non intendo affatto una vasta erudizione; non si tratta di sapere molto, ma di sapere bene». 34 Comunque sia, siamo ancora lontani dall'affermazione di Cl. che il sapere non è indispensabile al capo naturale. Evidente il riferimento alle critiche di Cl., quando Jomini ammette nel Précis - per la prima volta - che la guerra è un grande dramma nel quale le cause morali o fisiche agiscono più o meno fortemente, e che non è possibile ridurre a calcoli matematici. Ma questa precisazione rimane espunta dal contesto, non trova alcun riscontro nei concetti di
34
ivi. p. 28.
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strategia e tattica (che sono quelli di sempre) ed è accompagnata dalla solita tesi suna validità dei principi regolatori, fondati sullo studio dell'arte militare, «lasciando al genio naturale la più grande parte nella condotta generale della guerra, senza incatenarlo con regole esclusive». 35 Subito dopo, ancora due attacchi a Cl.: le opere metafisiche e scettiche di alcuni scrittori non riusciranno affatto a far credere che non esiste alcuna regola di guerra, perché i loro scritti non provano assolutamente nulla contro delle massime tratte dai più brillanti fatti d'arme moderni, massime giustificate dai ragionamenti stessi di coloro che credono di combatterli.36
Allusione indiretta ma chiara. Jomini però ha il torto di scendere al livello di rissa personale con un defunto che non può più difendersi, quando afferma in nota che, quale esempio di storia critica e didattica, le opere di Clausewitz sono state incontestabilmente utili, benché spesso ciò avvenga meno per le idee dell'autore che per le idee contrarie che fa nascere. Sarebbero state più utili ancora se uno stile pretenzioso non le rendesse frequentemente inintellegibili. Ma se come autore didallico egli ha più sollevato dubbi che rivelato verità [perché, un autore deve per forza rivelare delle verità? N.d.a.], come storico critico egli è stato un imitatore poco scrupoloso. Le persone che hanno letto la mia campagna del 1799, pubblicata dieci anni prima della sua, non negheranno affatto questo mio asserto, perché non v'è una sola delle mie riflessioni che egli non abbia ripetuto.37
Dialogo tra sordi: perché ragione, sentimento o passioni non possono non essere in conflitto continuo e lacerante e perché facendo delle guerre napoleoniche la ripetizione e la conferma di leggi costanti e immanenti, anzi di una sola legge, Jomini non ne coglie affatto quanto di nuovo e diverso vi è nel messaggio della Rivoluzione Francese. La polemica diretta tra Cl. e Jomini, che finora (1995) non risulta aver ricevuto la dovuta attenzione, consente di chiarire una buona volta la materia del contendere, la posta in gioco, e di far giustizia immediata di taluni diffusi luoghi comuni e di errate interpretazioni, come quella di
35
ivi, p. 27. ivi, p. 28. 37 ivi, Nota a p. 32. 36
III - CLAUSEWTTZ, 1..'«ANTI JOMINI»
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Gerard Chaliand, che vorrebbe fare di Cl. «un filosofo della guerra», in contrapposizione ai «filosofi della storia» (Jomini?).38 A parte la genericità del termine «filosofo» che va bene per tutti e per nessuno, Cl. - se proprio vogliamo chiamarlo filosofo - è evidentemente l'uno e l'altro, anche se in lui l'esperienza storica non fornisce, come per Jomini, dei principì guida. Errata anche l'interpretazione di B. Kroener (Dizionario Corvisier), secondo il quale Cl. «è stato il primo a esprimere la subordinazione totale dell'azione militare alla politica. Di questi principi i dirigenti tedeschi del 1870-1918 e del 1933-1945 non tennero affatto conto, così come essi non compresero affatto la sua definizione di guerra assoluta come espressione teorica della guerra nel suo ultimo stadio di realizzazione».39 Non v'è traccia, in queste poche frasi, dei contenuti caratterizzanti di Cl.: il primato delle forze morali e spirituali - e perciò l'opposizione al dogmatismo e alle semplificazioni razionaliste o razionalizzanti - e la sottovalutazione del ruolo operativo del materiale e della logistica. Si è anche vislo che per Cl. non si può parlare di subordinazione assoluta dell'azione militare alla politica ma se mai di subordinazione continua, tenendo presente che politica e guerra devono armonizzarsi e che la ragione politica deve tener conlo - per essere valida - della ragione lecnica. Se la guerra viene mal condotta, in ultima analisi ciò avviene per deficienze della politica e dunque non vi è dicotomia tra quest'ultima e la guerra: una buona politica è tale solo se è in grado di esprimere una buona guerra e una buona strategia. Né Cl. è stato il primo a esprimere la subordinazione totale della guerra alla politica: le guerre di gabinetto del secolo XVlli sono state lo Zenit delle guerre politiche. Nemmeno si può dire che Jomini e altri scrittori coevi sottovalutino il primato della politica sulla guerra e sulla strategia, pur non traendone corrette conf:eguenze. Un altro diffuso luogo comune è quello che Cl. avrebbe avuto dei cattivi allievi nei Capi politici e militari tedeschi. Se ciò è vero, è vero solo nel 1914-1918 e negli eventi che precedono questa guerra (piano Schlieffen): non nel 1870-1871 , quando il contrasto tra Mollke e Bismark dimostra che in Prussia il problema è aperto e controverso come in qualsiasi altra nazione, non esclusa l'Italia. Riguardo alla prima guerra mondiale, quando il generale tedesco Ludendorff e i suoi seguaci vorrebbero mettere la politica al servizio della guerra agiscono in maniera anticlausewitziana, almeno all'apparenza. Ma va qui ben chiarito che la
38 39
G. Chaliand, Op. cit., p. 816. A. Corvisier, Op. cit., p. 186.
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guerra assoluta e la prospettiva della battaglia decisiva non rappresentano solo, in Cl., il contenuto teorico e astratto della guerra intesa come fatto naturale, poi soggetto a forze reali - tra le quali la politica - che tendono a limitarla. Le pagine che abbiamo citato a proposito della Rivoluzione Francese e di Napoleone dimostrano a sufficienza che per Cl. la guerra assoluta e la battaglia decisiva rimangono - anche nella realtà e non solo in astratto - un'opzione preferenziale: è, questo, un altro riflesso dell'unità tra pensiero e azione, e teoria e pratìca da lui sostenuta. Pur attribuendole sul piano generale una funzione moderatrice, in fondo Cl. non esclude a priori che sia la politica stessa a richiedere la guerra spinta all'estremo: è quanto ben presto avviene - nella sostanza e per tutte le nazioni - nel 1911-1918, e allora si può ben dire che la natura stessa delle guerre totali del XX secolo - tale da mobilitare tutte le risorse materiali, economiche, industriali, morali e spirituali della nazione - di per sé spinge la politica a rinunciare alla sua funzione moderatrice e, in pratica, tende ad asservire la nazione all'esercito, visto che tutta la nazione lavora per l'esercito stesso. Come mai i Capi politici, almeno dopo il 1914, non hanno trovato di meglio - ovunque - che lasciar fare ai generali, se mai spingendoli - è il caso di Vittorio Veneto nel 1918 all'azione a fondo? E Hitler ha asservito la politica alla guerra, oppure clausewitzianamente anche se germanicamcnte e soggettivamente - ha visto nella guerra la continuazione della politica con altri mezzi, che pertanto erano espressione della politica? Non era forse, quest'ultima, tendente all'assoluto? Hitler e Mussolini hanno lasciato fare forse ai generali? Più che non capire Cl., i generali - e prima di loro, i politici - non hanno capito, nel 1914-1918, che Cl. non era più sufficiente, e che la vittoria dipendeva sempre più pesantemente da fattori materiali ed extramilitari. Sempre in materia di interpretazioni di CI. oltr'a1pe, ci sembrano molto importanti i contributi di Gerard Ritter, di Raymond Aron e di Peter Paret. 40 L'analisi di Ritter è condivisibile, sia nel cogliere con Cl. la reale novità della strategia napoleonica - di carattere politico-sociale prima ancor che tecnico-militare - sia nell'indicare la guerra assoluta come il suo modello preferenziale di guerra. Meno condivisibile - o almeno tali da lasciare adito a dubbi - i due limiti principali che Ritter addebita a Cl.. 11 primo: «ciò che Cl. non vede, o in ogni caso non vuol prendere in
40
G. Ritter, Op. cit., pp. 82-93; R. Aron, Op. cit.; P. Paret, Clausewitz (in AA.VV, Guerra e strategia ... - Cit., pp. 101 -126).
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considerazione, [per noi, è più vero questo secondo giudizio - N.d.a.] è la possibilità che la guerra, una volta scoppiata, sviluppi una logica propria perché gli eventi bellici influiscono a loro volta sulla volontà che la dirige, modificandola; che essa infuria, crescendo come una slavina, e travolge tutti gli obiettivi iniziali, tutti i desideri e gli scrupoli degli uomini politici, come è avvenuto in entrambe le guerre mondiali [e da ambedue le parti - N.d.a], distruggendo non soltanto vite umane, ma, per generazioni, qualsiasi durevole ordine di pace in Europa». La seconda è lo scarso peso del potenziale bellico - in una parola, della logistica e della industria - in Cl., «che ignora ancora che cosa sia la guerra integrale». Quest'ultimo giudizio è indubbiamente ben centrato: ma ignorare non significa negare o escludere. L'errore Cl. lo fa, più che altro, negando che le attività connesse con la preparazione - della quaJe la logistica è parte essenziale - possano avere qualche influenza sulla condotta delle operazioni, e ritenendo quindi che possano essere trascurate in un'opera sulla teoria della guerra. A proposito della guerra che può sviluppare una propria, travolgente logica, ancora una volta va ricordato che Cl. non ha mai escluso la preponderanza della ragione puramente militare su quella politica. La guerra è un camaleonte, e può anche avvenire - come è avvenuto nella prima guerra mondiale - che una politica priva di prospettive decida di conseguenza che, appunto, la migliore politica è lasciare fare ai generali, e mettere l'intero paese al loro servizio. Oppure - come nel caso di Hitler e dei suoi avversari - lo stesso aspetto ideologico assunto dalla guerra, può ridurla a una dimensione prettamente militare, reso fodispensabile dalla conclamata necessità di annientare l'avversario, di imporgli una resa senza condizioni e quindi di interrompere quel dialogo tra i due avversari, che Cl. non vorrebbe interrotto nemmeno guerra durante. Decisamente non condivisibile, fovece, l'accusa di aver ignorato l'esistenza di un conflitto tra politica e guerra e di non aver indicato la via per risolverlo. Pretesa invero eccessiva, perché non vi sono ricette per risolvere definitivamente i conflitti tra poteri . Ma una volta che Cl., ribadendo fino alla noia la preminenza dello scopo politico, afferma che quest'ultimo non deve avere il carattere di un legislatore dispotico e deve adattarsi alla natura del mezzo, che deve dire ancora? Tanto più che è pur sempre la politica ad aver l'ultima parola: il Capo militare - afferma Cl. - può «esigere una linea di massi ma» che i disegni della politica non siano in contrasto con i mezzi militari, «ma qualunque sia, anche in casi particolari, la sua reazione sui disegni politici, essa non può andare al di là di una semplice modificazio-
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ne dei medesimi, perché il disegno politico è lo scopo, la guerra è il mezzo ... ».41 Se il generale prussiano è l'interprete di Napoleone per antonomasia, il francese Raymond Aron è il più compiuto interprete e sostenitore di Cl., la cui figura brilla senza ombre nei due volurrù di acute considerazioni critiche che gli dedica, peraltro negando - in polemica con Ritter - che il concetto di guerra assoluta sia la prospettiva preferenziale nel suo pensiero, e che in lui si riscontri l'antinorrùa tra razionalismo occidentale e idealismo tedesco (in realtà Cl. tende a superarli ambedue, perché il suo non è idealismo puro, anche se è ancor meno razionalismo). Scrive Aron su quest'ultimo aspetto: «quello che mi infastidisce nell'interpretazione di Ritter è anzitutto l'utilizzazione di due concetti d'altronde classici, nella storiografia d'oltre Reno; quello del1'idealismo tedesco e quello dell'opposizione tra idealismo tedesco e razionalismo dell'Europa Occidentale. La distinzione tra idea e realtà sarebbe propria di questo idealismo. Su questa strada, si finisce con il suggerire che la guerra assoluta è un ideale. T1 che tenderebbe a un curioso idealismo, quello della morte».42 Proprio così: dove hanno portato le guerre assolute, a sfondo ideologico, del XX secolo? Cl. non si lirrùta a distinguere tra idea e realtà, ma al tempo stesso ne individua i raccordi. La guerra assoluta, oltre che idea astratta, è anche realtà. La battaglia decisiva è la migliore delle soluzioni concrete, è il culmine della strategia, cioè la migliore delle azioni militari possibili. Le parole di Aron vanno rettamente interpretate. Come dimostra lo stesso Aron, non vi sono in CL influssi specifici e diretti di Kant, Hegel, Fichte, corifei filosofici della rinascita nazionale tedesca; 43 tuttavia - egli scrive «io concedo volentieri che la tavola kantiana delle categorie e lo stile intellettuale di Fichte o Hegel ha favorito lo sbocciare del pensiero clausewitziano». Non v'è traccia, in Cl., di antinomia tra pensiero e realtà. Egli è anzi portato alla filosofia deIJ'azione politica e rrùlitare, e in questo è influenzato piuttosto da Machiavelli e Montesquieu: ma rimane inevitabilmente tedesco, e tedesco della sua epoca. Quando Ritter parla di «idealismo della riscossa italiana» e di «emancipazione dello spirito tedesco del razionalismo occidentale» lo fa in senso generale. Non c'è dubbio che CL, pur intento a superare con tutte le sue forze l'antinorrùa tra pensiero e azione, è espressione militare dell'anima tedesca e perciò si oppone al «razionalismo» di Jomini. Di che cosa, dunque, lo si può
41 42
43
K. Von Clausewitz, Op. cit., Voi. I p. 38. R. Aron, Op. cit., Voi. I p. 428. ivi, pp. 360-375.
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accusare, se non di essere tedesco? Con la stessa logica, si potrebbe accusare un francese o inglese di essere tale. La realtà è che le guerre di sterminio del XX secolo non hanno un solo padre malvagio (quello tedesco), ma ne hanno diversi. Tutti hanno contribuito a quella guerra assoluta che CL ha indicato come possibile sbocco futuro e che Jomini - più di lui - ha forse inconsciamente delineato nella sua fisionomia anche logistica e nel suo meccanismo con un «modello» che poco spazio lascia all'antidogmatismo e al talento taumaturgico del Capo tipici di CI.. L'«idealismo» del quale parla Aron è così diventato nazionalismo e propaganda, e ha riguardato le principali nazioni europee e non solo la Germania. E la ricerca della battaglia decisiva - presente anche in Jomini - non è stata prerogativa solo della leadership tedesca. Con qualche ragione, Aron accusa Ritter di non tenere in alcun conto l'influsso moderatore della «definizione trinitaria della guerra» (cioè il citato triedro, composto da «violenza originale - odio e inimicizia, gioco della probabilità e del caso, subordinazione della guerra alla politica»). Ma, anche così, le guerre del XX secolo non dimostrano forse che questi tre elementi, che CL aveva ragione al suo tempo di indicare in chiave normalmente moderatrice della guerra assoluta, si sono trasformati in altrettanti detonatori, che hanno spinto la guerra ben oltre i limiti pur sempre militari- debellatio delle sole forze militari - che Cl. considerava? Né - volgendosi al futuro - Cl. esita, come dice Aron, tra la prospettiva della guerra limitata e la guerra assoluta. Non esclude che possano tornare le guerre di gabinetto - cioè le guerre più politiche di tutte - ma prevede anche che le forze nazionali sprigionate dalle guerre napoleoniche segneranno inevitabilmente i conflitti del futuro. Forse un confronto più approfondito tra Jomini e Cl. avrebbe aiutato Aron a cogliere meglio determinate peculiarità del pensiero clausewitziano; invece non si constata senza sorpresa che il francese Aron dedica al confronto tra CL e Jomini solo tre pagine,44 dove si indicano i limiti di Jomini ma non que11i di Cl. (limiti che non vanno confusi con il «dogmatismo pseudoclausewitziano» dei suoi allievi) e non ci si chiede perché Jomini ha avuto - in Francia e altrove - cos) vasta e misconosciuta influenza. Talune affermazioni di Aron lasciano perplessi, come quella che «Jomini non ha nemmeno sfiorato il problema centrale di Clausewitz: il rapporto dei concetti con la storia». Tutto al contrario! Aron non ba letto Jomini. È l'analisi storica il continuo, anzi l'unico riferimento di Jomini, l'unica fonte di legittimazione del suo concetto fondamentale (concentramento della massa nei punti decisivi) e dei corollari: più che di ragiona-
44
ivi, pp. 28 1-284.
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IL PENSIERO MILITARE ITALIANO ( 1789-1915) - VOL. I
re, per Jomini si tratta di scoprire leggi e teorie immanenti nella storia. L'exemplum historicum ha invece in Cl. - per quanto detto prima - un ruolo molto più ristretto, serve a confermare o dimostrare questo o quell'asserto ma non è fonte unica e vincolante di ispirazione. Desta perplessità anche il fatto che Aron, pur ammiratore incondizionato di Cl., non presenta quest'ultimo come il miglior interprete di Napoleone e anzi nega che, quando parla di talento del Capo e di genio guerriero - cioè dell'unico elemento che può venire a capo della complessità della guerra - Cl. abbia davanti a sé la figura di Napoleone. Chi allora? Infine, per quanto detto prima Aron esagera quando sostiene che solo negli ultimi anni de1Ja sua vita Cl. ha pienamente afferrato «la distinzione tra concetto e realtà, o, per esprimersi ancor più con precisione, il carattere irreale della guerra assoluta, ciò che gli ha permesso di passare dalla definizione iniziale della guerra, sempre citata, aJla definizione trinitaria, stato finale del suo pensiero». La storia ha forse dimostrato che la guerra assoluta è irreale? Aron in tutta la sua opera si sforza di mettere in rilievo le differenze tra il libro I e il libro Vlll del Vom Kriege, tentando di fornire un'analisi dell'evoluzione del pensiero dell'autore. Non lo seguiamo su questa strada. Posto che, a detta dello stesso Cl., solo il capitolo l del libro I (su «che cosa è la guerra») può considerarsi compiuto, non ci sogniamo di negare le contraddizioni e le ridondanze del Vom Kriege, ma una cosa è certa: che, quale che sia la fase del pensiero di Cl. in cui sono stati pensati, i contenuti fondamentali del libro VIII non sono affatto in contraddizione con quelli del libro I e sono pienamente compatibili con la «concezione trinitaria» cara a Aron, che non esclude del tutto e non modera a priori il concetto di guerra assoluta, se non altro perché fa riferimento a valori spirituali e politici che possono esaltarlo, così come moderarlo. Oltre tutto, le guerre nazionali e di popolo dei secoli XIX (Spagna, Russia) e XX non dimostrano forse il tremendo effetto che può esercitare la politicizzazione e ideologizzazione totale della guerra? Tra i contributi stranieri un cenno merita, infine, quello di Peter Paret ( 1986). L'analisi di Paret è in genere condivisibile, specie quando individua i limiti di Cl.: ( «rimangono a margine della ricostruzione buona parte dei fattori tecnologici, amministrativi ed organizzativi; significativamente non è studiato nemmeno l'istituto della coscrizione, la grande leva del nuovo meccanismo generatore di energia militare, anche se spesso vi si fa riferimento e si pone l'accento sul suo ruolo di rendere la guerra più dinamica e distruttiva»). Qui però non concordiamo del tutto con Paret: la coscrizione - poi adottata anche da buona parte dei nemici di Napoleone - non è stata essa stessa «la grande leva del nuovo mecca-
III - CLAUSEWITZ, L'«ANTI JOMINI~
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nismo». La grande leva del nuovo meccanismo è stata politico-sociale, e la coscrizione ne è stata solo uno dei riflessi. Si decise, nel 1793, di mobilitare tutta la nazione - e non solo i giovani in età militare - contro i nemici della Francia; forme di coscrizione, poi, preesistevano alla Rivoluzione. CL non era dunque obbligato - se non altro per ragioni di spazio - ad approfondire la tematica della coscrizione o di qualsivoglia altro argomento: doveva solo valutarne i riflessi. Questo l'ha fatto nel caso della coscrizione; l'ha fatto molto di meno in altri casi. In questo senso ha ragione Paret a osservare che la teoria della guerra di CL «non affronta direttamente il ruolo degli elementi amministrativi e istituzionali, quello delle trasformazioni tecnologiche e quello fondamentale dell'economia». Non lo fa, perché - a torto - intende separare preparazione e alimentazione dell'azione, dalla sua condotta. Inoltre Paret - anche in questo caso a ragione - non condivide le critiche di coloro che fanno carico a Cl. di aver considerato solo la guerra terrestre, ignorando - diversamente da Jomini - la guerra navale. Infatti se si esclude un paio di riferimenti alle operazioni anfibie, il Vom Kriege ignora la guerra navale. Clausewitz è stato spesso criticato [in Italia, no: se mai è avvenuto il contrario - N.d.a.] per qucsla sua incapacità di andare al di là della propria esperienza di soldato di una monarchia continentale, e di riconoscere l'altra metà della guerra del suo tempo. Ma la critica confonde la sua teoria con le esperienze da cui essa originò. È possibile sviluppare ed analizzare un concetto senza illustrarlo esaurientemente. Attrito, escalation, interazione di attacco e difesa esistono nella guerra per terra e per mare, e nell'aria. È erroneo considerare incompleta la struttura teorica del Vom Kriege nella base del fatto che le sue esemplificazioni sono tratte solo dai tipi di conflitto che Clausewitz conosceva meglio e che lo interessavano di più.
Con queste affermazioni Paret tocca un campo di grande interesse, finora poco approfondito in Italia e fors'anche in Europa. Fino a che punto l'opera di Cl. fornisce spunti utili e attuali anche per la guerra negli altri due elementi, cioè sul mare e nell'aria? Non c'è dubbio che le sue riflessioni sul talento del Capo, sulla natura della guerra e sul suo rapporto con la politica possono essere estese anche alla guerra aerea e navale, nelle quali, peraltro, il materiale assume - fin dal secolo XIX una valenza più spiccata. Sta di fatto che, in Italia almeno, gli interpreti ed esegeti di Cl. - dal colonnello Blatta ai generali Canevari e Bollati , a Piero Pieri, al generale Jean - sono stati o ufficiali del1'esercito o storici militari, per così dire, «terrestri».
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Ci siamo già occupati del problema - sia pure in maniera non esaustiva - nel 1985, in due articoli sulla Rivista Marittima e in tre articoli sulla Rivista Aeronautica. 45 Ripromettendoci di tornare sull'argomento, ci preme mettere subito in rilievo due cose: a) la grande uti1ità dell'analisi di Cl. anche per la guerra navale e aerea, proprio in tanto in quanto essa sfugge a dogmatismi e tentazioni messianiche sostanzialmente legate a fattori materialistici; b) la netta divergenza da Cl. di Mahan e Douhet, le cui idee di fondo e pretese deterministiche Ii avvicinano piuttosto a Jomini, al suo accentuato storicismo e alJe dottrine materialiastiche: non per nulla sullo sfondo dei loro principi e dogmi si trovano la grande nave corazzata o il grande aereo da bombardamento, cioè la corazzata del cielo, insieme con altri elementi ben determinati come la geografia e i commerci, le vie di comunicazione, le industrie.
Clausewitz in Italia L'influsso (o meno) di Cl. sul pensiero militare italiano sarà da noi documentato in quest'opera trattandone le varie fasi fino al 1915, tenendo presente - come faro - quanto si trova scritto di Cl. sul Lessico Militare Italiano (Vallardi) del 1917, purtroppo rimasto fermo al primo volume: «fu il più geniale interprete della sovrana arte guerresca napoleonica, che divulgò colla stampa e colla cattedra. Nelle sue pubblicazioni relative alle campagne napoleoniche dal 1796 al 1815 è colta in atto tutta l'arte del sommo guerriero; e nella Teoria della grande guerra è esposta tutta la profonda sapienza teoretica militare di Napoleone. Eguale tentativo fecero in Francia il Marmont e Jomini; e in Italia il Blanch, il De Cristoforis ed il Marselli». 46 Non è esatto affermare che Cl. è stato conosciuto in Italia solo nel 1930 (Pagine scelte a cura di Oete Blatto, Torino, Schioppo 1930; volume di Emilio Canevari Clausewitz e la guerra odierna, Roma, Campitelli 1930). Fino al 1942 non è stato completamente tradotto, dal tedesco: ma è anche vero che - così come avviene per altre opere inglesi e tedesche - fin dalla prima metà del secolo scorso se ne conoscono in Italia le principali opere tradotte in lingua francese, che è pur sempre la lingua 45
F. Botti, Clausewitz e la strategia marittima, «Rivista Marittima», n. 2/1985; Id., Il Capo e la ballaglia navale alla luce della teoria clausewitziana, «Rivista Marittima» n. 11/1985; Id. , Da Clausewitz a Douhet alla ricerca dell'arma assoluta, «Rivista Aeronautica», n. I, 4 e 6/1985. 46 Milano, Vallardi I 917, p. 523.
Fig. 1 Statua dell'ingegnere militare francese Sebastiano Vauban (sec. XVII), creatore del sistema
fortificato francese di frontiera, al quale si devono anche i progetti di parecchie fortificazioni piemontes sul confine alpino (Parigi, Museo Versailles)
Fig. 2 Pianta della cittadella di Besançon (secolo XVI) progettata dall' ingegnere italiano Bellarmati (Briancon, Museo della Cittadella)
Fig. 3 Particolare della cittadella di Besançon
Fig. 4 Particolare della cittadella di Besançon
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Fig. 5 Copertina dell' «Orazione a Bonaparte pel Congresso di Lione» di Ugo Foscolo (Fidenza. Museo Musini)
Fig. 6 Copertina di uno dei tanti scritti adulatori per Napoleone comparsi in Italia (specie nel Nord) all'inizio del secolo XIX (Fidenza, Museo Musini)
Fig. 7 Ritratto di Andreas Hofer, Capo della guerriglia contro le truppe napoleoniche nel Tirolo (Trento, Museo del Risorgimento)
Fig. 8 Istruzione sugli esercizi militari dell'età napoleonica, tradotta dal francese (Cremona, Museo Civico)
Fig. 9 Particolare della predetta istruzione, riguardante la carica del fucile in dodici e quattro tempi
Fig. IO Evoluzione del fucile francese (da sinistra a destra: a pietra «silex» mod. 1763, a pietra «silex» mod. 1801, a percussione mod. 1822, a percussione mod. T (1840) (Metz, Museo Civico)
Fig. 11 Sciabole e daghe da fanteria mod. 18 16 e 1849 (Ferrara, Museo del Risorgimento)
Fig. 12 Colubrine fuse a Trento nel 1801 per le milizie cittadine, con l'iscrizione «o Patria o Speme» (Trento, Museo del Risorgimento)
Fig. 13 Cannocchiale da campo e punta di baionetta (età napoleonica) ( Fidenza, Museo Musini)
Fig. 14 Tamburi napoleonici (Trento, Museo del Risor,?imento)
Fig. 15 Sella militare francese della prima metà del secolo XIX (Metz, Museo Civico)
Fig. 16 Altro tipo di sella militare francese della prima metà del secolo XIX (Metz, Museo Civico)
Fig. 17 Botticella per vivandiera della Guardia Imperiale di Napoleone (Metz, Museo Civico)
Fig. 18 Elmo austriaco (prima metà sec. XIX) (Fidenza, Museo Musini)
Fig. J9 Fucili e sciabole della prima metà secolo XIX ( Cremona, Museo Civico)
Fig. 20 Pistola a percussione a canna liscia e targa che riproduce l'ini ziazione alla Giovane Italia (Fidenza. Museo Musini)
Fig. 21 Pugnale carbonaro (Fidenza, Museo Musini)
Fig. 22 Obice da campagna piemontese da 150 mm. mod. 1844, a canna liscia ad avancarica, fabbricato dalla R. Fonderia di Torino (Museo di Solferino)
Fig. 23 Palla piena e scatola a mitraglia per il predetto obice
Fig. 24 Cariche per il predetto obice
RISTRETTO DELL'
ARTE DELLA GUERRA
Fig. 25 Copertina della prima edizione italiana ( 1855) del «Précis dc l'art de la guerre» di Jomini (1837)
OSSIA.
NUOVO QUADRO ANAl,ITICO DELLE PRINCIPAU COftlDll\AZIONI PRLT,A STRATF.CIA, DELLA GRAN TA1'TICA , Jl l)El,J.,l POJ.JTICA AIILITAHK, Dt.L GDI.EIIA.LE 11.1.noNE
DE JOIIINI.
l'IIUJA TRADU!IONE DAL FR.o\NCESE
LIVORNO TIPOGRAFIA DI G. FABBRF.SCIII
E
C.
1855
'l'UATI'A'l'O Dl:LL'
ARTE DELLl GUERR! ossu.
NUOVO QUADno ANALITICO DELLE PltlNCJP.\LI COllBINAZJONI DELLA STRATEGIA,
DELLA GRAN TATTICA, E DELLA. POLITICA. lllLlTARB,
DE ..JO:UINI PRlltl Tll.l,DL'ZI0Nlil DAL FIUl!Ct;Sll, ~·. ~l)IIJO;"CE anEDUTJ. E CORl\iTJ .A.
Fig. 26 Copertina della seconda traduzione italiana (1864) dello stesso volume di Jomini
ACIUEALE 'IJrOGJIHU 1)1 t;IOSCl'PE l,O~Lfiè
-l~H.
Ill - CLAUSEWITZ. L'«ANTI JOMINJ,.
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dei dotti italiani dell'epoca, come tale abbastanza conosciuta anche e soprattutto nell'ambiente militare, dove le ascendenze savoiarde rendono familiare per molti ufficiali la lingua francese per tutto il secolo scorso. Ad esempio, abbiamo rintracciato di recente tra i libri della biblioteca dell'ex-Scuola di Applicazione di Fanteria di Parma in De la guerre par le Générale Charles de Clausewitz - Publication Posthume traduite de l'Allemand pare le Major d'Artillerie Neuens (Tomes trois), Paris, Libraire Militaire, Marithime et Polytecnique de J. Correard, 1849-1851. Va dunque corretto quanto afferma il Pieri, che nena sua Storia militare del Risorgimento indica erroneamente il 1852 come data della traduzione in francese del Vom Kriege.41 In merito, vogliamo qui ricordare che le prime opere di Cl. datano all'inizio del secolo (Stratégie del 1804 e articolo anti-Btilow su Neue Bellona del 1805) e che dopo la sua morte, dal 1832 al 1837 l'editore F. DUmmler di Berlino pubblica non solo il Vom Kriege (in tre volumi), ma tutte le sue opere sulla guerra e sulla condotta de11a guerra (per un totale di 1O volumi, dei quali i primi tre del Vom Kriege). Esse sono, oltre a quest'ultimi: - il Vol. IV La campagna del 1796 in Italia (traduz. frane. di J. Colin - 1899); - i Voi. V e VI La campagna del 1799 in Italia e Svizzera (traduz. frane. del cap. A. Niessel - 1906); - il Voi. VII La campagna del 1812 in Russia, La campagna difensiva del 1813 e La campagna del 1814 in Francia (traduzioni francesi di M. Begouen, comandante Thomann e C. Duval - 1900; traduz. inglese del 1843); - il Vol. VIlI La campagna del 1815 in Francia (traduz. frane. di M. Niessel - 1900); - i Voi. JX e X: studi strategici sulle campagne di vari condottieri e altri materiali sulla strategia. Questi dati dimostrano di per sé il ritardo degli studi clausewitziani in Italia, ritardo tuttora da colmare a cominciare dalle traduzioni e da un'analisi organica dell'evoluzione del suo pensiero. Limitandoci al periodo tra le due guerre, una cosa strana: Nello stesso anno 1922 compaiono due studi ambedue nati presso la Scuola di Guerra, l'uno - del Canevari - naturalmente basato sulle teorie di Cl., l'altro - del Guerrini - accesamente polemico con CJ.48 47
P. Pieri, Op. cit., pp. 160- 161. Cfr. E. Canevari, IL metodo scientifico nello studio della guerra, Roma. Stab. Tip. Amrrùnistrnzione della Guerra 1922 e D. Guerrini, Introduzione allo studio della storia militare, Torino, Accame 1922 (Ristampa - il frontespizio porta l'intestazione «Scuola di Guerra»). 48
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IL PENSIERO MILITARE ITALIANO (1789-1915)-VOL. I
Non ci è possibile entrare nei particolari: basti qui dire che il Guerrini - come Jomini e diversamente da Cl. - ritiene possibile la formulazione di una «solida teoria sperimentale della guerra» basata su una valutazione e una sintesi panoramica - non settoriale - degli exempla. Il Guerrini non senza avere (almeno in parte) ragione critica anche parecchie affermazioni dubbie e contraddittorie di Cl., come quella che inizialmente l'arte Inilitare era basata su fattori materiali. Insomma: Guerrini fa molte critiche, meno quella più pertinente: che cioè Cl. sottovaluta il peso dei fattori economici e logistici. Dal canto suo, Canevari fa carico al Guerrini di «naufragare, per deficienza di sicuro metodo d'indagine perdendosi nell'inutile particolare, nella contraddizione, e finalmente nell'utopia».49 Respinge poi i principi, le massime e ricette di marca jominiana, ma al tempo stesso fa di Cl. un improprio supporto alla sua tesi che la guerra può essere scientificamente studiata con procedimento logico-sperimentale, mirante ad identificare «uniforinità scientifiche» o «leggi» che non ammettono eccezioni, non hanno carattere di immanenLa o esislenLa propria e non hanno valore assoluto, ma sono soggette a perfezionamenti. In tal modo, Canevari non considera il concetto di legge come comando o inibizione (tipico di CL) e nemmeno l'affermazione di quest'ultimo che «l'idea di legge come conoscenza non è necessaria alla condotta della guerra, perché i fenomeni complessi di questa non sono sufficientemente regolari [...] il concetto di legge in rapporto all'azione è inutile alla teoria della condotta della guerra, perché i fatti sono così variabili e molteplici da rendere impossibile un imperativo così universale da meritare il nome di legge». 50 Diverso da Clausewitz, in Canevari, anche il ruolo dei principi, che per lui hanno valore applicativo e particolare, mentre per Clausewitz sono solo utili strumenti di comprensione del fenomeno. Nel suo sforzo di fare dello spiritualista Clausewitz un supporto al suo tentativo di approccio «scientifico» alla guerra, Canevari individua delle «leggi» che in parte troviamo in Clausewitz (degli scopi; dell'influenza dell'elemento umano; del numero; dinamica della guerra) e che sono più che altro constatazioni generiche e astratte, con il risultato quanto mai dubbio di attribuire all'opera del Clausewitz un «carattere essenzialmente scientifico», perché «quando si esaminano fenomeni guerreschi dal punto di vista sperimentale e se ne traggono uniforinità, si riscontra in genere una coincidenza tra di esse e gH enunciati del Clausewitz».51 Ma dov'è, in
49 E.
Canevari, Jl metodo ... , (cit.), p. 8. Op. cit., Voi. I pp. 133-134.
~ K. Von Clausewitz,
TIJ -CLAUSEWITZ, L'«ANTJ JOMlNl»
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questo modo, la prerrùnenza nelle sue teorie di fattori morali, spirituali, inte11ettuali non quantificabili, e il suo costante rifiuto di ricavare dagli exempla enunciati costanti e guide sicure, rifiuto a volte contraddetto ma sempre preminente? Sempre negli anni Venti, queste opinabili interpretazioni vengono ripetute da Canevari e Prezzolini nella biografia contenuta nel Voi. II di Marte - Antologia Militare (probabilmente scritta da Canevari).52 Vi si trovano verità, mezze verità e anche giudizi errati: il Vom Kriege viene definito <<quanto di più elevato si è fino a oggi scritto sull'argomento [... ] un faro inestinguibile i cui raggi illuminano il passato e si proiettano senza limiti nell'avvenire». Clausewitz è «il vero fondatore della scienza della guerra». Noi osserviamo che ve ne sono stati altri, anche prima; se mai, è il più importante. E perché «scienza» e non «arte», visto che Clausewitz ne fa una teoria deB'azione? Sono affermazioni parziali, dubbie o inesatte anche quelle qui di seguito riportate, che non rendono bene il carattere prevalente deB'opera di Cl.: quest'opera, in cui l'autore ha cercato di raccogliere una teoria completa dell'arte della guerra [è tutto meno che completa; perché Clausewitz non la ritiene possibile - N.d.a.], è cronologicamente la prima che tratti con metodo scientifico e con spirito artistico il problema della guerra [e Jornini dal 1803 in poi? - N.d.a.], nel suo cumpkssu di forze materiali [trattate poco e in sottordine - N.d.a.] e soprattutto di forze morali, respingendo risolutamente da una parte l'empirismo banale e dall'altra il dottrinarismo dogmatico [ma anche il tentativo di dare una base scientifica alla teoria della guerra - N.d.a.].53
È degli anni Venti anche l'interpretazione che ne dà il generale Bastico, dedicandogli significativamente lo stesso spazio di Jomini (circa 7 pagine)54 e ben rilevando che «le sue idee si attagliavano alla mentalità e allo spirito della razza tedesca». Secondo Bastico, la sua «dottrina» lma perché non «teoria», «opera»? - N.d.a.] «a differenza delle dottrine dell'Arciduca Carlo e dello Jomini è schiettamente spiritualistica». Ciò sarebbe vero anche perché nella sua ottica «buona parte degli stessi fattori intellettuali hanno un'essenza spirituale». Pienamente condivisibili anche il resto delle sue osservazioni, ne1le quali viene dato un certo spazio alle già citate critiche di Jomini.
51 E.
Canevari, Il metodo ... (cit.), p. 27. E. Canevari - G. Prezzolini, Op. cit., Voi. II, pp. l l-13. 53 ivi, pp. I 62-176. 54 E. Bastico, Op. cit., Voi. I, pp. 169-176.
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Non ci sentiamo tuttavia di condividere l'osservazione de] Bastico che le teorie del Cl. «per effetto dello stesso loro accentuato carattere spiritua1e, finiscono per assumere aspetti materialistici». Bastico cade in questo errore, forse perché non coglie e non sottolinea la sottovalutazione da parte di Cl. dei fattori economici e logistici e il diverso ri1ievo che in lui assume, rispetto a Jomini, la concentrazione delle forze sul punto decisivo. È senz'altro vero quanto Bastico afferma a giustificazione di questo suo asserto, che cioè - nella misura in cui vorrebbe la debellatio dell'avversario - c'è in lui i1 cu1to della forza, del numero, della concentrazione nel punto decisivo ecc.: ma tutte queste forze hanno i] primo motore nell'indispensabile e sempre primaria superiorità intellettuale, mora1e e spirituale. Cl. nega che in sé questa concentrazione valga qualcosa; esse sono il prodotto della volontà prima che del freddo calco1o, e sono subordinate a un'Entità variabile e non quantificabile come Jo scopo politico. Un conto è privilegiare la politica, ]e forze morali e spirituali ecc., un conto è pretendere - sarebbe troppo - che esse rendano superflua la superiorità di forze, l'azione a massa ecc.: accorgimenti, questi, che si co1orano dell'ovvio. Bastico, infine, nota che Cl. si distacca da Napoleone «per l'assenza della manovra intesa come elemento necessario se non indispensabile pel conseguimento della vittoria». A parte il fatto che per lui - e questo Bastico avrebbe dovuto dirlo - la vittoria appartiene al regno de11a tattica e non a quello della strategia, l'importanza anche da lui data - sia pure su scala minore di Jomini - al piano di guerra, alla concentrazione delle forze nel punto decisivo, alla necessità di operare a forze riunite, non equivale, forse, a dare importanza della manovra? È vero se mai il contrario: che, per Cl. come per Napoleone (e a dispetto di certi esegeti di quest'ultimo) tutte le attività - manovre o meno - che servono a conseguire lo scopo tattico o strategico sono buone, vale i] successo e non la manovra in sé. Tanto più che la teoria serve solo come ponderazione, guida a11'analisi del problema e quindi non esclude (e non raccomanda) a priori nessuna manovra. Nel 1927 il co1onne11o Bobbio nel suo citato libro La guerra e il suo sviluppo storico parla anche di Cl.,55 peraltro senza contrapporre la sua visione de11a teoria e dei principi deUa guerra a quella di Jomini. Ciononostante la sua analisi, pur essendo troppo sommaria, è chiara e in linea di massima condivisibile. Dalla preminenza de11e forze morali e spiritua1i nel Vom Kriege discende il culto deI1'iniziati-
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E. Bobbio, Op. cit., pp. 181-183.
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va tipico della tradizione prussiana, a torto ritenuto dal Bobbio «esagerato ed esclusivista», perché alla luce degli eventi del 1914 «sta mostrando il molto oro falso, creduto tutto oro vero» e può portare alla disobbedienza. Anche la preminenza in Cl. delle forze morali per il Bobbio è esagerata: pur essendo fuori di dubbio che l'elemento spirituale supera, in guerra tutti gli altri in importanza, sta anche però che non si può spiegare un fenomeno retto da cause così multiple e complesse come la guerra, con un solo ordine ùi fatti. la guerra è un lutto organico: ingrandendo alcuni lati di essa, e rimpicciolendone aJtri, non si può avere che una rappresentazione monca, incompleta di essa. I grandi fenomeni storici e sociali , come la guerra, dipendono da cause varie, generali e parziali, prossime e remote [...]. Fattori di forza di un esercito, oltre le forze morali, sono anche il valore delle truppe, il grado del suo addestramento tattico, la differenza dell'armamento, l'abilità nella condotta del capo e dei capi vari in sottor-
dine. Va solo osservato, a proposito di questi rilievi, che la capacità di sana e costruttiva iniziativa rimane prerogativa de1le leadership valide, e che, per la verità, a Cl. non sfugge la complessità della guerra e la mutevolezza dei suoi fattori, proprio per questo tali da poter esser colti solo da uomini di genio ... Sostanzialmente centrata e condivisibile l'analisi che il colonnello Oete Blatto compie nell'Introduzione alle poco note pagine scelte di Della guerra, tradotte e pubblicate da Schioppo (Torino, 1930). Blatto ritiene importante lo studio di Cl. per quattro ragioni, ancor oggi attuali: a) utilità dello studio della storia nell'educazione intellettuale dei giovani ufficiali, dal momento che «tutti sanno a qual posto modestissimo sia sta invece confinata la storia nei nostri istituti militari»; b) necessità di educare, formare e elevare la personalità degli ufficiali; c) utilità di riesaminare i rapporti tra politica e guerra alla luce dell'esperienza de lla prima guerra mondiale, la quale ha dimostrato che la guerra non può essere indipendente dalla politica; d) necessità di approfondire i rapporti di effi cacia tra offensiva e difensiva. Si può solo addebitare al Blatto di aver enfatizzato il ruolo indubbiamente ragguardevole dell'exemplum historicum in Cl., e dj aver erroneamente lasciato intendere che anch'egli, come Jomini, vuol trarre dalla storia dei principi immutabili, citando una frase forviante e infelice del generale francese Palat ( 19 13), secondo il quale le sue teorie «insegnano l'arte di trarre degli ammaestramenti dagli eventi della storia e mettono
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in evidenza un certo numero di principi destinati a rimanere validi fino a quando vi saranno guerre sanguinose». Con il già citato libro su Clausewitz e la guerra moderna56 e con un capitolo dedicato allo stesso autore nel suo libro Lo Stato Maggiore Germanico da Federico il Grande a Hitler57 negli anni Trenta Emilio Canevari riprende con ben altra profondità il discorso su Cl. iniziato nel 1922. Il suo interesse per il generale prussiano culmina con la traduzione completa del Vom Kriege del 1942 insieme con il generale Bollati, che ancora oggi fa testo ed è stata ripresa da Mondadori nel 1970 e nella riedizione del 1989 a cura della Rivista Militare (Presentazione del generale Domenico Corcione e introduzione del generale Carlo Jean). Merita di esere ricordata anche una serie di suoi articoli sulla Rassegna di Cultura Militare del 1939, nei quali il pensiero di Cl. viene esaminato sotto una giusta prospettiva. Canevari intuisce parecchio di Cl., a cominciare dal suo antidogmatismo e dal fatto che egli raccoglie gli insegnamenti più alti delle guerre napoleoniche, conciliandoli con le tradizioni della vecchia Prussia, con la filosofia della storia e - aggiungiamo noi - con la cultura tedesca, nella quale il francese, latino e italiano Napoleone viene, per così dire, racchiuso o meglio assorbito. Ma l'uso che fa delle sue teorie rimane non sere~o e strumentale, in misura tale da rendere la sua interpretazione meno attendibile di quella del Blatto; tant'è vero che accanto a quelle di CL egli esalta le teorie dogmatiche e materialiste di Giulio Douhet, del tutto dissonanti. In tal modo, i caratteri salienti del pensiero di Cl. diventano un semplice supporto di Canevari nella sua polemica contro Badoglio e la generazione di Capi militari italiani formatasi alla scuola di Cadorna, nemici dell'uso politico delJe forze armate che il regime stava praticando e legati alla mentalità metodica della guerra di trincea, che di fatto non lasciava alcun spazio all'iniziativa e non educava i Quadri alle manovre ardite richieste dalla nuova guerra. Di qui i due principali motivi ispiratori di Canevari: a) la subordinazione totale e incondizionata della guerra alla politica e quindi dell'autorità militare (cioè dello Stato Maggiore) all'autorità politica (cioè a Mussolini), dimenticando la peraltro ovvia precisazione di Clausewitz che il fine deve essere in armonia con il mezzo; b) Ja polemica contro la «guerra burocratica» metodica, in una parola «jominiana» degli Stati Maggiori, contro la mentalità da trincea insomma, che crea un immobilismo nemico delle nuove forme di guerra dinamica e risolutiva e viene da lui
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Roma, Campitelli 1936. Milano. Mondadori. 1942.
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combattuta negli anni Trenta in articoli sul «Popolo d'Italia», poi raccolti nei libri Lo spirito della guerra moderna e La lotta delle fanterie. I mal riusciti tentativi di Canevari di imporre nel costume e nella mentalità jominiane dell'esercito italiano l'amore per l'iniziativa e per la responsabilità e il rifiuto di dogmi e regole fisse tipici della tradizione clausewitziana, hanno parecchie analogie con le tesi coeve del tenente colonnello De Gaulle in Francia. Quest'ultimo nel suo libro Jl Filo della spada (1934) e più tardi nell'altra opera La France et son armée, in più o meno sotterranea polemica con Io Stato Maggiore Francese e senza mai nominare CL esalta l'azione, l'iniziativa, lo spirito offensivo, la personalità del Capo e condanna senza perifrasi la visione metodica e prudente in una parola: jominiana - che ispira la dottrina militare francese del tempo. 58 E a De Gaulle si ispira, a sua volta, il generale Sebastiano Visconti Prasca - già addetto militare in Francia - con il suo libro La guerra decisiva, 59 da lui stesso così mal applicato al comando delle truppe che a fine ottobre 1940 attaccano la Grecia.... Il revival di Cl. in Italia negli anni 30 non è stata solo un'operazione di regime, né fa parte di un più o meno asfittico dibattito tra conservatori e progressisti militari. È del 1933 una delle più fresche, autentiche e attuali interpretazioni di Cl.: quella di Benedetto Croce,60 rispetto alla quale ben povera cosa ci sembrano le poche righe che troviamo scritte sull'Enciclopedia Militare dello stesso anno, e che perciò liquidiamo subito: «autore classico, che dettò [non detta più? - N.d.a.] legge, non solo in Germania [ma in quali altri Paesi? Non certo Francia, Inghilterra, Stati Uniti - N.d.a.] per molti anni. Con Della guerra (Vom Kriege) r... ] si pose in vista[ ... ]; giganteggiò con la Teoria della grande guerra. Possiede vedute ampie, spazia padronalmente in tutti i rami della scienza bellica [in tutti, proprio no: ne scarta deliberatamente fin troppi - N.d.a.], afferrandone i nessi intimi colla politica. Assieme allo Jomini rese stabili i principi della guerra [non è vero: almeno nel senso di Jornini li ha combattuti e ne ha ridotto il peso - N.d.a.] ed educò varie generazioni di militari [dove? - N.d.a.]; egli vuole fsempre? - N.d.a.] che fin dall'inizio del conflitto siano impiegati tutti i mezzi e ogni energia; e che si cerchi la battaglia, vero scopo, vero obiettivo a cui deve tendere l'esercito» [e l'influsso della politica?- N.d.a.]. Il filosofo e filosofo della storia Croce non si interessa di aspetti pu58
Milano, Ed. Il Borghese 1964. Milano, Grossi 1934. 60 B. Croce, A zione, successo e giudizio: note in margine al «Vom Kriege» di Clausewitz. (in Ultimi sa,:gi, Bari, Laterza 1935, pp. 266-279). 59
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ramente militari, di strategie, tattiche e battaglie ecc., ma piuttosto di Cl. come «mente filosofica» e del rapporto della sua opera con la cultura in generale e il pensiero filosofico. Proprio per questo il contributo del Croce sull'opera del generale prussiano, è fondamentale per individuare le coordinate e le radici del suo pensiero, in una parola: per capirlo meglio. Secondo Croce lo spirito indagatore e critico, rifuggente sia dal vuoto raziocinio che dal molle e vuoto empirismo e il rigore filosofico della mente di Cl. «rispondono in parte al generale abito speculativo-storico formatosi in Germania fra il sette e l'ottocento, e più ancora alla rinata colà meditazione dell'opera del Machiavelli, dal Cl. assai studiata in gioventù e al quale sempre gli piacque riferirsi». E qui Croce si dichiara d'accordo col Roques, che nega l'influsso hegeliano su Cl. e indica piuttosto nel pensiero di Machiavelli la fonte comune ad entrambi (giudizio che, come si è visto, è anche quello di Raymond Aron). Per Croce Cl. «è vissuto nell'età romantica ed è spirito romantico egli stesso». Il suo merito principale è di aver superato la doppia vicenda alla quale andava soggelta l'art.e tldla guerra, «l:ume tulle le arti intese come «tecniche» ora di una pedantesca e superficiale sopraestimazione delle regole del fare, smarrito il senso del limite loro, e ora di una sottoestimazione, di una ribellione e dispregio di esse, come dannose e in ogni caso inutili, contrapponendosi alle regole il tatto pratico, il genio superiore alle regole, l'ispirazione e la creazione». Non si potrebbe dipingere meglio in che cosa consiste l'apporto originale di Cl. al pensiero militare); e coerentemente con questa constatazione, una volta tanto Croce non si diffonde sul rapporto tra guerra e politica (ormai una sorta di rito obbligato per gli estimatori antichi e moderni del generale prussiano) ma fissa la sua indagine sul ruolo del Capo e sui limiti e contenuti della critica storica in Cl.. Croce dimostra da par suo che, in Cl., la genialità del Capo non consiste affatto nella sua capacità di sollevarsi al di sopra delle regole: perché quelle regole che il genio calpesta e che talvolta deride, quelle che si ergono in opposizione al genio, debbono essere cosa ben miserabile se da esse nasce cosa così miserabile com'è la separazione della teoria dalla pratica. No, questa opposizione e questa separazione non sussistono: «ciò che il genio fa, deve essere appunto la più be1la regola, e la teoria non può far di meglio che mostrare come e perché è così». Anche quella che comunemente viene chiamata fortuna di un generale ha, al di là delle apparenze, cause precise: «tra il successo attribuito alla fortuna e il genio dell'agente c'è un sottile legarne, invisibile all'occhio dell'intelletto». Nessuno più di Cl. - scrive Croce - stimava centro della guerra il genio militare, l'intuito, la prontezza a risolversi, l'eroica fermezza. E il
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Capo è anche centro de11a sua indagine storica, nella quale «i granelli di buon metallo» (non è possibile pervenire a un sistema compiuto dell'arte della guerra) derivano da una valutazione dell'operato del Capo, secondo tre momenti: la esatta individuazione dei fatti, la deduzione dell'effetto da11e cause (cioè l'indagine storica propriamente detta) e infine «l'esame dei mezzi adoperati, che è la vera e propria critica, in cui si loda e si biasima, e che serve alla teoria o piuttosto all'ammaestramento che si deve trarre dalla storia». Ma - si chiede Croce -da questo procedimento, scaturisce veramente il giudizio dell'azione militare, così come essa è stata effettivamente deliberata e compiuta? Per quanto Cl. ammonisca di non applicare meccanicamente i principi', le regole e i metodi positivamente fissati dall'indagine teoretica (che, appunto perché positivi e ricavati dall'esperienza, mancano di universalità e di assoluta verità) e raccomandi l'autonomia del giudizio che riguarda il fatto particolare e l'individuo, per sua stessa ammissione non sarà mai possibile ricostruire esattamente in sede storica la situazione così L:ume stava agli occhi dell'agente. Peraltro, secondo Cl. «non è necessario, né desiderabile che la critica si identifichi interamente con l'agente[ ... ] col mostrare gli errori di un Federico o di un Napoleone, non si vuol già dire che lui, il critico, non li avrebbe commessi o anche che non ne avrebbe commessi di più grossi, ma soltanto che egli, «conoscendo questi errori dalla connessione delle cose, esige dalla sagacità dell'agente che questi avrebbe dovuto vederli». E poiché, come già si è visto, tra il successo semplicisticamente attribuito alla fortuna e il genio dell'agente c'è un sottile legame, ne viene anche giustificata «la critica dell'atto fatta dal successo», solo apparentemente paradossale e da rigettare. Perché uno stesso procedimento che in determinate circostanze aveva avuto successo, in altre può fa1lire: l'insuccesso (o il successo) non dipendono evidentemente dal caso o dalla fortuna, ma dalla capacità del Capo di giudicare di volta in volta le circostanze, e di prevedere [qui noi ricorderemmo anche Napoleone, secondo il quale le buone truppe sono solo quelle che vincono-N.d.a.). Per Croce, dunque, la critica in Clausewitz ha un carattere non storico, ma teoretico e casistico, e si giustifica - più che per ragioni storiografiche - per ragioni didascaliche e tecniche, le quali fanno sì che egli sostenga che quando non è ben visibile l'intima e segreta connessione delle cose, la critica deve «lasciar parlare il successo» e deve proteggere il giudizio che ne deriva «contro il tumulto del rozzo opinare», e insieme respingere «i goffi abusi» di coloro che «tendono a deificare, o piuttosto irrigidire e materializzare» un particolare successo, convertendolo in definitivo e totale e perciò aprendo la strada a interpretazioni dogmatiche e
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costanti [come quelle di Jomini e dei suoi emuli Mahan e Douhet N.d.a.]. I commenti prima esaminati risalgono tutti all'anteguerra o alla guerra 1940-1943. I numerosissimi studi e saggi comparsi in Italia dopo il 1945 non aggiungono nulla di sostanzialmente nuovo al quadro prima tracciato. Vi troviamo frequenti approcci «attualizzanti» e tentativi (spesso riusciti) di approfondire questo o queJl'aspetto della vita e dell'opera del generale prussiano. Non vi troviamo affatto, invece, indicazioni e critiche sui limiti delle sue teorie e gli indispensabili confronti con pensatori militari coevi, antecedenti o successivi. In particolare, l'interpretazione dell'opera di Cl. che ci dà Piero Pieri61 ha carattere spiccatamente militare, e non manca di mettere in rilievo le principali differenze di Cl. rispetto a Jomini. Non troviamo però, nelle sue pagine, alcun cenno di critica del concetto di guerra (ancora pre-industriale, benché assoluta) che compare nel Vom Kriege.
Conclusione: non Clausewitz o Jomini ma Clausewitz e Jomini Non può non colpire la grande attenzione che nel secolo XX, e segnatamente nel secondo dopoguerra, ha avuto Cl. e - per contro - la scarsa attenzione che ha ricevuto Jomini. Eppure la Germania prussiana è scomparsa tra le rovine nel 1945 e Cl. non è stato certo profeta della guerra industriale e di materiali: al contrario, molte delle sue idee sono state sconfitte da una condotta delle operazioni che assomiglia di più a quella del Précis che a quella del Vom Kriege, perché basata sulla brutale superiorità di forze e di tecnologie e sul risparmio del sangue irriso da Cl. (pensiamo alla recentissima - e molto metodica e pianificata - guerra del Golfo). Alla base del successo di Cl. vi è forse la tendenza a fare della guerra un fatto eminentemente politico-sociale e psicologico, con tutta l'irnportanza che hanno queste componenti nella moderna società. Ma come mai Jornini, nemico degli eserciti di leva e delle guerre assolute e sostenitore a oltranza della ragione applicata alla guerra, oggi è ignorato? Forse, un più accurato studio del1e sue teorie si sarebbe trasformato in poco gradito esame di coscienza per Stati Maggiori, Governi e Parlamenti, portati a concedere fin troppa fiducia a dogmi e metodiche apparentemente razionali o razionalizzanti, che però dietro di sé celavano
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P. Pieri, Op. cit., p. 146-152.
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quegli idola, quei miti, che Cl. ha il merito di aver sempre combattuto mettendo brutalmente il lettore davanti alla realtà. Al termine di questo capitolo, non ci sentiamo, perciò, di stabilire gerarchie e diversi titoli di merito. Ciascuno degli autori esaminati ha dietro di sé altrettante diverse forme e anime sia di quel fenomeno complesso che è la guerra, sia dei popoli che l'hanno combattuta o la potranno combattere. Tradurre e studiare Jomini almeno quanto Cl.; tradurre e studiare di quest'ultimo anche tutto ciò che precede il Vom Kriege. Questa è la missione che ancor oggi (1995) rimane da compiere per il pensiero militare italiano. Solo in questo modo si potrà ovviare alla vistosa deformazione di prospettiva della quale - senz'altro inconsciamente - è vittima gran parte del pensiero strategico contemporaneo, portato a fare di Cl. - citato a dritto e rovescio anche a proposito della problematica attuale - l'unico metro di riferimento, l'unica fonte d'ispirazione, a dispetto delle sue stesse affermazioni che rifiutano schemi, riferimenti obbligati, verità rivelate, «modelli» definitivi e immutabiJi. In una più equilibrata visione, si tratta di rendersi conto che dall'inizio del secolo XIX a oggi, le scuole di pensiero strategico sono sempre e unicamente due, e sono già state individuate fin dal 1912 dal comandante Mordacq: quella dei dottrinari - il cui capofila è Jomini con BUlow, l'Arciduca Carlo e Marrnont come comprimari - e quella degli ideologi, il cui capofila è Cl. e che ha come comprimari gli scrittori della scuola prussiana del secolo XIX e XX (Gneisenau, Scharnhorst, Von der Golz ...) la cui fama è stata oscurata dallo stesso CI.62 Con qualche approssimazione e semplificazione, le differenze tra dottrinari e ideologi sono in gran parte riassumibili e verificabili nei concetti che di strategia e tattica hanno queste due contrapposte scuole di pensiero. Strategia come scienza, conoscenza, studio e preparazione, come pianificazione più che azione, basata su principi-guida innati e verificabili attraverso l'esperienza storica, per i dottrinari; strategia come arte, azione, dominata dalle forze morali e spirituali nella quale principi e regole hanno solo funzione di utile strumento per la comprensione della realtà, per gli ideologi. Tattica vista come arte, azione e applicazione variabile sul campo di battaglia dei disegni e principi scientifici e immutabili della strategia, per i dottrinari; vista come arte del combattimento - e non della guerra - ai livelli inferiori, nella quale è più facile seguire dei riferimenti dottrinali e delle regole, per gli ideologi.
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Commandant Mordacq. Op. Cit.. pp. 37-38.
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In definitiva, per i dottrinari la scienza della guerra può essere ricondotta a un sistema compiuto con propri principi e regole codificabili, nel quale i fattori materiali hanno peso prevalente. Per gli ideologi, la guerra è soprattutto arte, applicazione pratica e contingente - dominata da forze morali e spirituali e dall'imprevisto - di principi e regole tecniche che valgono solo in quanto l'agente sa adattarli e se necessario superarli nella realtà. Se, dunque, i dottrinari sono tendenzialmente materialisti, gli ideologi sono spiritualisti e in parte intellettualisti. Poiché si tratta di affrontare l'imprevisto e l'imprevedibile, di dominare le umane passioni, di infondere spirito combattivo nell'esercito, gli ideologi danno maggior importanza al Capo, alle sue doti personali e alla sua capacità di iniziativa; al contrario, poiché per i dottrinari la guerra è una questione di calcolo, di ragionamento, di pianificazione e di preparazione, essi danno maggiore importanza agli Stati Maggiori e se vogliamo alla logistica. Infine, per i dottrinari sono possibili ragionate evoluzioni nell'arte della guerra, inserite in una sorta di determinismo storico e/o provocate dai progressi del materiale; per gli ideologi, che prendono come unità di misura l'uomo e non il materiale, ogni problema è al tempo stesso nuovo e antico, dunque sempre diverso e sempre di incerta soluzione. Tutto per gli ideologi ha valore relativo, anche l'exemplum historicum dal quale i dottrinari pretendono trarre dati certi e sempre validi. La guerra è come un camaleonte, perché un camaleonte è l'animo degli uomini, dei popoli e delle loro guide politiche e militari: nessun determinismo e nessun evoluzionismo è perciò possibile. Ecco perché - in senso lato - Jomini e la sua scuola rimangono espressione della eccessiva fede nella ragione tipica dell'illuminismo, della tendenza tutta francese a definire ben ordinati e organici schemi e sistemi, nella quale ogni rotismo ha un posto fisso e una funzione preordinata e obbligata. Al contrario, gli ideologi «interiorizzano» anche problemi tecnici o di materiali e riflettono - con il rifiuto di riconoscere alla ragione la capacità di inserire in un sistema compiuto i molteplici fattori che influiscono sull'arte della guerra - l'irrazionalismo romantico e l'idealismo tipico dell'anima germanica, nel quale fattori materiali e quantità definite passano fin troppo in sottordine. Troviamo perciò ben scelto l'aggettivo dottrinario, che indica «chi si attiene rigidamente ai principi teorici di una dottrina o di un'ideologia, senza tener conto della realtà pratica» (Dizionario Garzanti). Atteggiamento con larga influenza sulla dottrina francese fino al 1940, che il Mordacq così descrive, non senza calcare troppo la mano: nel loro entusiasmo volto a trarre degli ammaestramenti dalla grande epopea napoleonica, essi finirono per perdersi in una dottrina
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delle più strette. Essi giunsero a questa singolare conclusione: che l'arte della guerra non era più in nessun modo suscettibile di perfezionamenti e che se ne trovavano tutti gli elementi nelle campagne dell'inizio del XIX secolo. Essi miravano realmente a ridurre la guerra in equazioni, secondo loro la vittoria avrebbe finito con il dipendere dall'apertura più o meno grande di certi angoli formati dalle direzioni di marcia degli eserciti con le grandi linee della natura: catene di montagne, fiumi, ecc. È ancora ai dottrinari che si deve quella terminologia complicata, che corrisponde così poco al linguaggio abituale, impiegata negli Stati maggiori e nei reggimenti e che ha scoraggiato per tanto tempo gli ufficiali desiderosi d'istruirsi.
Il termine ideologi è usato in senso spregiativo: infatti - secondo il Mordacq - è stato attribuito a Cl. e alla sua scuola dagli stessi dottrinari.63 In effetti, tale termine significa anche «chi ideologizza in modo astratto, eccessivo o improprio» (dizionario Garzanti). Evidentemente i dottrinari pensano che dando rilievo alle idee, ai sentimenti e alle passioni più che alla fredda razionalità e ai fattori materiali e logistici, Cl. vola troppo alto, filosofeggia, divaga, cade nell'astrazione, perde di vista aspetti importanti e concreti della realtà della guerra, finisce insomma con l'assomigliare alla classiL:a figura del pedante tedesw. Critiçhe che hanno qualche fondamento, nella misura in cui non tutto è bianco, e non tutto è nero: ma Cl., almeno, non ha la pretesa di ridurre a un sistema compiuto e razionale - con proprie leggi - la complessità della guerra, come indubbiamente fanno o tendono a fare i dottrinari. Il fatto strano è che il francese Mordacq non aderisce affatto alle posizioni dei critici di Cl., ragione per cui non si capisce perché abbia scelto il «loro» aggettivo spregiativo. Quanto egli dice di Cl. è fin troppo elogiativo, pur trovando nei suoi scritti contraddizioni e passaggi oscuri e pur affermando (a torto) che la sua visione della difensiva strategica come forma di guerra più forte di tutte non si attaglia più alla guerra ciel XX secolo. Sintomatica la chiusa delle tre pagine che gli dedica: «Tale è stata l'opera di Cl.: essa è stata grande, i risultati sono lì a dimostrarlo, noi li conosciamo meglio di tutti, essi hanno portato al 1870: noi dobbiamo dunque non solamente inchinarci, alle sue idee ma ancora e soprattutto trame profitto anche per noi».64 Il Mordacq - insegnante alla Scuola Superiore di Guerra francese -
63 64
ivi, p. 47. ivi, p. 49.
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cita anche gli elogi a Cl. di un certo capitano Gilbert, secondo il quale «il suo libro è ancor più suggestivo che istruttivo, esso ancor più che insegnare, invita a pensare. Apostolo di tutte le energie guerriere, Cl. stimola naturalmente tutte le energie intellettuali e non l'accettazione passiva di una dottrina». Quelli del Mordacq erano i tempi nei quaJi ancor perdurava la influenza della Jeune École, dottrina tipicamente spiritualista. Sta di fatto che, dopo gli elogi a CL e le critiche a Jornini anche da parte francese, ci si aspetterebbe che quest'ultimo nel XX secolo abbia visto ridursi - se non cessare - la sua influenza sulla letteratura militare, anche a prescindere dalle dottrine e prassi strategiche adottate dall'armeé de terre francese dal 1837 al 1940. Nulla di più inesatto: continuiamo a trovare robuste tracce delle idee-guida di Jornini nei principali dizionari ed enciclopedie francesi del XIX secolo e anche del XX secolo (segno non indubbio, questo, di un predominio culturale che va oltre le stesse dottrine militari del momento). Ad esempio la Grande Enciclopedie 1886-190265 richiama i concetti di strategia e tattica dell'Arciduca Carlo, affermando che la «sua definizione di strategia è destinata a prevalere». In particolare, la strategia sarebbe «scienza dei movimenti che si fanno fuori dal raggio di visuale reciproco dei due eserciti combattenti e fuori dalla portata del cannone». Naturalmente, per la Grande Enciclopedie, la strategia è scienza e la tattica è arte e ne è l'esecuzione. Il principio fondamentale dell'arte della guerra di Jomini (concentrare tutte le forze nel punto decisivo) per la Grande Enciclopedie è sempre valido, così come il suo concetto di logistica limitato a disciplina che studia e organizza il movimento. Anche il Larousse du XX.e Siécle (1933)66 definisce la strategia come «insieme delle disposizioni e misure da prendere, delle precauzioni da osservare ecc. per condurre un esercito fino in presenza del nemico [...] costituisce, con la tattica, le due branche dell'arte della guerra» [e la logistica? - N.d.a]. Come per Jomini, per il Larousse le due operazioni fondamentali della strategia sono la concentrazione delle truppe e il loro movimento. Vi sono tracce di Jomini anche nel concetto di logistica: «Termine impiegato per designare la parte d'arte militare relativa alle marce, allo stazionamento e al rifornimento degli eserciti, branca che compete agli Stati Maggiori».
65 66
Paris, H. Lamirault 1886-1902, Voi. XXX pp. 535-537. Voi. VI, p. 488.
III - CLAUSEWITZ, L'«ANTI JOMINI»
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Il compilatore della voce Strategia nel Grand Larousse Encyclopedique (1964)67 cerca, con parecchie inesattezze, di conciliare le teorie di Jomini con quelle di Clausewitz, attribuendo un ruolo esagerato al maresciallo Foch e concludendo - come Jomini - che la strategia ha dei principi, dei capisaldi ben definiti: la strategia, ispirata essenzialmente alla realtà della guerra, è antica come la guerra stessa; ma questo vocabolo non fu impiegato in Francia prima del XVIll secolo. Invece di abbracciare come oggi tutta l'arte militare, la strategia riguardava allora solo la condotta delle operazioni militari [no: era la tattica a occuparsi di questo; la strategia era concepita soprattutto come scienza, studio, preparazione, pianificazione - N.d.a.) ... Guibert e Jomini furono i primi a considerare la strategia come l'arte di formare dei piani di guerra che siano compatibili con i mezzi dello Stato [no: Guibert non parla mai di strategia, e troviamo la strategia come scienza, pianificazione ecc. già in Biilow - N.d.a.]. Ma è stata la scuola tedesca, il cui maestro fu Clauscwitz, ad approfondire i contenuti della s trategia [apprezzamento ingiusto: c'è stata - contemporaneamente, se non prima - anche la scuola francese facente capo a Jomini N.d.a.). La strategia era per Clausewitz il mezzo per ottenere con la forza l'obiettivo politico dello Stato Ilo era anche Jomini - N.d.al. Questo scopo essendo per lui l'annientamento dell'avversario, la strategia ·deve mirare alla distruzione delle forze avversarie sotto l'aspetto morale e materiale [per Clausewitz l'annientamento dell'avversario - peraltro parte importante anche delle teorie jominiane - non era lo scopo della guerra, che era politico: poteva essere solo l'obiettivo militare o la via preferenziale per raggiungere tale scopo politico - N.d.a.] ... Non è che dopo il 1870 che questa dottrina fu ripresa in Francia e venne affrontata con le ricerche di coloro che rinnovarono il nostro insegnamento militare superiore, del quale Foch fu maestro, tanto per il suo insegnamento alla Scuola di Guerra quanto per il suo prestigioso comando nella I" guerra mondiale. Spogliando la strategia del carattere totalitario che le aveva conferito la scuola tedesca, egli la ricondusse ai suoi contenuti prettamente militari, senza tuttavia disconoscere la parte decisiva che è riservata alle forze morali; egli le ha assegnato uno scopo, che è la battaglia destinata alla distruzione delle forze nemiche [ma in questo modo egli si allontana da Clausewitz e si avvicina a Jomini - N.d.a.); egli ne ha proclamato i principi permanenti, la cui osservanza è sempre stata garanzia di successo e la cui violazione
67
Voi. IX, pp. 1020-1021.
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una causa di disfatta [riesumazione di Jomini - N.d.a]. A differenza della tattica [perché? se ne ha la strategia, ne ha anche la tattica - N.d.a] la strategia obbedisce, in effetti, ad alcuni principi semplici che attengono alla stessa natura della prova di forza che costituisce la guerra [così dice anche Jomini - N.d.a].
Si può dunque parlare di un influsso costantemente epidermico di CL sul pensiero militare francese, nel quale - per contro - continuamente riaffiorano fino ai nostri giorni motivi jominiani. Le due correnti di pensiero non si sono mai avvicinate, né sono mai state conciliate in una dottrina convincente (ché tale non è stata certamente quella di Foch). Ha perciò torto il Pieri, quando afferma che nel Précis di Jomini «si vede lo sforzo d'integrare la propria concezione con quella del pensatore prussiano» e che «non si può negare che l'influenza dello Jomini sia stata di gran lunga maggiore in tutta Europa, all'infuori della Germania, almeno fino al 1852, quando il Vom Kriege fu tradotto in francese».68 Jomini ne] Précis ha riprodotto pressoché alla lettera l'architettura del Tableau (antecedente al Vom Kriege), dove larga parte occupano la politica della guerra e l'esame dei vari tipi di guerra; non compie pertanto alcun tentativo di assimilare le idee di Cl., che anzi contesta senza equivoci difendendo le proprie. In quanto alla influenza di Jomini, il Pieri - come già abbiamo detto - sbaglia ritenendola prevalente (in Francia e altrove, Germania esclusa) «almeno fino al 1852». Quanto abbiano prima citato dimostra già a sufficienza il peso di Jomini sul pensiero militare europeo e americano ben oltre il 1852. Nel prosieguo dell'opera, verificheremo meglio questo asserto; intanto appare chiaro che senza un esame comparato della triade ]omini-Arciduca Carlo-Clausewitz, non si possono stabilire credibili coordinate di riferimento per il pensiero militare e navale italiano dei secoli XIX e XX.
68
P. Pieri, Storia militare del Risorgimento (cit.), p. 160.
PARTE SECONDA
PRIME TAPPE DEL PENSIERO MILITARE ITALIANO: DAI LESSICOGRAFI A LUIGI BLANCH Quando la nostra Italia entrò in quell'età che si chiama del suo Risorgimento, si udì dappertutto la richiesta che i suoi filosofi (come già il Vico voleva) non fossero «monastici» ma «politici», i suoi poeti e artisti, cittadini e non cortigiani né accademici; il suo stesso tipo dell'onest'uomo, non più quello di colui che cura onestamente le proprie faccende private appartandosi dalla politica, ma l'altro di chi ha chiara e vivace consapevolezza del legame della sua vita privata con la pubblica, della famiglia con lo Stato... BENEDEITO CROCE
CAPITOLO IV
LE ISTITUZIONI MILITARI ITALIANE TRA DECADENZA E RINASCITA: CONTESTO POLITICO-CULTURALE E DIBATIITO SUL NUOVO LINGUAGGIO MILITARE NAZIONALE
SEZIONE I - Matrici vicine e lontane della rinascita del pensiero militare italiano
Il contesto politico-culturale e istituzionale della Restaurazione: riflessi sul pensiero militare La Restaurazione: secondo la communis opinio periodo oscuro, di regresso delle Istituzioni civili e militari, dominato dalla rinata tirannide e dall'Internazionale dei Re, della quale è simbolo la Santa Alleanza. Una grigia parentesi insomma, chiusa dai primi moti risorgimentali del 1848. Una parentesi anche nel campo del pensiero militare, che ha bisogno di un humus favorevole per prosperare? Il capitano degli alpini Giuseppe Sticca non ha dubbi. Per lui non vi è in Italia alcuna luce in questo perio~o, ad eccezione del Blanch: colla volontà acre della liberazione pullularono, esplosero allora tutti i sentimenti meno nobili, dianzi soffocati e frenati dall'odio, dal livore e dalla paura[ ...]. Tale nacque per ogni dove uno spirito retrivo ed ostile al decaduto, che, con pervicacia e cecità pari al fanatismo di ieri, si negò, disconobbe qualsivoglia valore dell'opera sua: i suoi metodi di guerra, i suoi trionfi inauditi si tacciarono di imprese pazzesche, di sfacciate disfide alla fortuna[ ...] Adunque il periodo che corre dal 1815 al 1848 è rappresentato, nel campo degli studi militari tecnici, da esigua povera schiera di pennaioli discendenti in linea retta da quelli del secolo precedente, formanti di essi quasi una retroguardia. Quel soffio animatore, caldo di modernità e di progresso, che la rivoluzione impersonata nel Conquistatore, aveva gittato su la decrepita Europa, era passato su di essi
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senza toccarli, senza commuoverli. Perciò la loro è opera di rifacitori, stazionaria, insignificante. 1
È solo dopo 1e amarezze e le delusioni del 1848 - aggiunge lo Stieca - che si comprende l'errore di essere tornati agli antichi ordinamenti e si instaura il culto di Napoleone. A conforto di questo giudizio senza incertezze, egli cita Cecilio Fabris, che ne] suo libro sugli Avvenimenti Militari del 1848-1849 giudica «freddi, aridi e accademici» i libri d'arte militare usciti dal 1815 al 1848, libri che in pieno secolo XIX riportano le teorie classiche di Vegezio e Machiavelli senza applicarle ai nuovi mezzi di guerra, oppure si limitano a trattare episodi personali senza entrare nel vivo delle vicende storiche. In tal modo, secondo il Fabris «il concetto dell'azione prevale su quello dell'ordinamento. Fu possibile una sintesi ardita e profonda come quella del Blanch, ma un libro fecondo e sentito come quella del De Cristoforis su] modo come si svolge la guerra sotto ogni aspetto non poteva scriversi dagli italiani che dopo le riflessioni suscitate dalle delusioni del 1848».2 Ne] suo Guerra e politica, Piero Pieri cita lo Sticca solo per ricordare «gli elogi sperticati» tributati al Marselli da lui e dagli altri «scrittori militari». 3 E almeno indirettamente non ne condivide il giudizio, visto che - pur senza approfondire l'esame della letteratura militare italiana de11a Restaurazione - riconosce un certo fervore agli stucii dopo il 1815: «sparito dalla scena mjlitare il grande còrso, deposte ovunque le armi dopo ventiquattro anni di guerra quasi ininterrotta, gli studiosi si diedero appassionatamente a studiare la recente grande esperienza bellica, cercando di scoprirvi il segreto della vittoria».4 «Restaurazione» non necessariamente è degradazione, e anzi nel suo significato più autentico indica non tanto un ritorno all'antico, ma la rimessa a valore in un mutato contesto di motivi antichi, opportunamente restaurati. Fin d'ora ci sarebbe, perciò, molto da discutere sulla «storicità» dell'atteggiamento dello Sticca. A parte il fatto che il periodo dal 1815 al 1848 non è privo, in Italia ed Europa, di sussulti (1820-1821 ; 1825 in Russia, con il represso movimento dei decabristi; 1830-1831 ecc.) doppiamente indicativi perché sostanzialmente dovuti alla parte migliore dei Quadri, le moderne teorie della complessità inducono a 1
G. Sticca, Op. cit., pp. 183-185. ivi. 3 P. Pieri, Op.cit., p. 211 (Nota). 4 ivi, p. 143. 2
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chiedersi se un periodo di staticità è assoluto e totale oppure parziale, e se esso chiude un periodo di perturbazioni oppure è - semplicemente un periodo di incubazione che prepara dei mutamenti, quindi una fase positiva e in certo senso necessaria. Se invece di collocarsi ali' esterno del sistema, l'osservatore si colloca al suo interno, forse riesce a guardare difetti e limiti con occhio diverso, fino a ritenerli paradossalmente positivi, perché sono le uniche condizioni per «sbloccare», per far evolvere la realtà verso la ricerca di nuovi equilibri. Secondo lo Sticca la povertà e scarsa originalità della letteratura militare italiana della Restaurazione è inevitabile riflesso del «senso di sollievo e benessere», del torpore nel quale a suo giudizio sarebbe caduta l'Europa liberata dall'autocrazia napoleonica. Ma è veramente così ? Gli contrapponiamo la visione del Tocqueville. Per il padre della democrazia moderna la Restaurazione non è sostanzialmente tale, in quanto la nostra storia, dal 1789 al 1830, considerata dall' alto e nell'insieme, appare come il quadro di una lotta sfrenata tra l'antico regime, con le sue tradizioni, le sue speranze, le sue memorie, le sue speranze, i suoi uomini, rappresentati dall'artistocrazia, e la Francia nuova, guidàta dal ceto medio. Il 1830 ha chiuso questo primo periodo delle nostre rivoluzioni, o meglio: della nostra rivoluzione, perché ve n' è stata una sola, sempre uguale a sé stessa pur tra vicende diverse, quella medesima che i nostri padri han visto cominciare e di cui noi, verosimilmente, non vedremo la fine. 5
11 Tocqueville condanna coloro che vorrebbero chiedere agli uomini del tempo le virtù proprie dell' assetto sociale degli avi, perché «tale assetto sociale è finito e ha trascinato confusamente nella sua fine i beni ed i mali suoi propri». La sua condanna si estende a coloro che «vorrebbero fare una cernita di distinzioni, opinioni, idee proprie della vecchia società», perché il vero problema «non era di conservare certi benefici che la disuguaglianza assicura agli individui, ma di garantire quelli che offre l'uguaglianza». 6 La miglior conferma di questa visione del Tocqueville viene da un autore italiano del versante opposto: il reazionario piemontese Clemente Solaro della Margherita, che accusa Luigi XVIII, rimesso sul trono di Francia da armi straniere, di essersi circondato di ministri che già avevano servito Napoleone e la Rivoluzione, quindi non potevano essere strumenti affidabili della Restaurazione.
5
6
A. De Tocqueville, Op. cit. , p. 149. Ibidem.
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In tal modo - prosegue il Solaro citando de Maistre - Luigi XVIII nop è salito sul trono dei suoi avi ma su quello di Bonaparte, e la rivoluzione ha proseguito il suo corso più o meno sotterraneo. Il Solaro ammette che «se è difficile impresa restaurare le idee, non lo è meno restaurare le cose [ ...] il mal seme delle rivoluzioni una volta gettato non v'ha chi valga a schiantarne tutti i germogli, perché l'impresa è superiore al senno umano». E, sia pure per ragioni apposte a quelle del Tocqueville, in Italia il Solaro e gli altri autori politici reazionari giudicano la politica estera simboleggiata dalla Santa Alleanza e il tentativo di conciliare i vecchi ordinamenti con i tempi nuovi (che caratterizzano in misura diversa e variabile la politica interna degli Stati italiani pre-unitari) come un cattivo e illusorio compromesso destinato al fallimento, e qui sono buoni profeti. 7 Se guardato con questi occhi assai diversi da quelli dello Sticca e di altri, non c'è dubbio che il periodo della Restaurazione è meno piatto e univoco di quanto sembri, e del resto bastano a dimostrarlo sia la sua breve durata, sia gli «incidenti» che già cominciano - in Spagna e Italia - nel 1820, cioè a cinque soli anni da Waterloo, sia la rapidissima rinascita dell'esercito francese sconfitto a Waterloo e le numerose guerre che conduce (intervento in Spagna nel 1823, guerra d'Algeria dal 1830 al 1847). Come ha scritto Victor Hugo, «Waterloo, avendo intrapreso la distruzione dei troni con la spada, non ha fatto altro che continuare, per diversa via, la marcia rivoluzionaria. Agli sciabolatori succedono i pensatori. A Waterloo si cercò di arrestare il secolo, ma il secolo scavalcò l' ostacolo, e continuò la sua strada».8 «Agli sciabolatori succedono i pensatori» anche secondo Jomini, il quale scrive nell'Introduzione al suo citato Précis: «La caduta di Napoleone, restituendo un gran numero di ufficiali studiosi agli ozi della pace, diventa come il segnale della comparsa di una folla di scritti militari di tutti i generi».9 La guerra è figlia della politica, ma è anche madre delle trasformazioni della politica stessa. Non può essere negativo un periodo, dove maturano le condizioni per un pensiero come queJJo di Jomini e Clausewitz: l'Italia (lo dimostreremo meglio in seguito) non fa eccezione. Concordiamo con Giuseppe Ferrarelli, quando scrive: 7 N. Del Corno, Gli «scritti sani» - dottrina e propaganda della reazione italiana della Restaurazione all'Unità, Milano, Franco Angeli 1992, pp. 13-15 e 231-248. 8 V. Hugo, Sedane Waterloo (traduzione di G. Carducci), Napoli, Soc. Ed. Partenopea, pp. 162-163 (senza data). 9 A.H. Joaùni, Précis (cit.), Voi. I, p. 19.
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dicesi, presso che generalmente, che l'unità d'Italia sia stata preparata dai letterati italiani, da quella nostra letteratura battagliera, che nacque al principio del secolo XIX; e si soggiunge anche da taluni che ciò ha nuovamente dimostrato quanto sia vero quel motto di Tommaso Campanella: le lingue precedono le spade. Ora, sebbene sia verissimo che le lingue precedono le spade, mi sembra anche vero che l'unità d'Italia non è stata preparata solo dalle lingue; e che, proprio al principio di detto secolo, quando le lingue cominciarono a parlare, si rimettevano nel fodero molte valorose spade italiane, le quali precedettero le lingue nella preparazione del fatto memorando. 10
Il Ferrarelli si riferisce agli oltre duecentomila italiani che combatterono nelle file napoleoniche, uguagliando gli stessi francesi - come ammette Napoleone - per spirito combattivo e costanza. Fatto non solo militare, ma politico, sociaJe, intellettuale: [gli italiani] fuori d'Italia non erano più chiamati piemontesi, lombardi, toscani, napoletani ecc. ma italiani, e si diceva: il reggimento italiano, la brigata italiana, la divisione italiana. In quelle guerre gli italiani si sentirono italiani e valorosi soldati italiani; e, tornati in Italia, eccitarono il sentimento nazionale e lo spirito militare. Partimmo napolitani, mi diceva Luigi Blanch, e tornammo italiani. Ciò accadde a tutti gli italiani. «Les moeurs italiennes - dice Napoleone nelle sue memorie - changèrent: quelques années aprés, ce n'était plus la meme nation. La soutane, qui était l'habit à la mode pour Jes jeunes gens, fur remplacée par l'uniforme .... 11
In tempi molto più recenti (1943) questo giudizio del Ferrarelli è stato ripreso e ampliato dal Salvatorelli, le cui considerazioni fanno emergere molto bene non solamente il legame, ma l'unità tra pensiero politico, pensiero militare e spirito nazionale, che loro malgrado la Rivoluzione Francese e lo stesso bonapartismo - conquistatore più che promotore - diffondono in Italia: non poca importanza ebbe la creazione di un esercito del Regno d ' Italia. Anche questo era da secoli un fatto nuovo. Furono stranieri a crearlo e ad averne il comando supremo, e per interessi stranieri (chi non ricorda i versi del Leopardi sugli italiani caduti in Russia?) esso combattè quasi sempre. Ma i quadri, fino a quelli dei generali compresi, oltreché le truppe, erano italiani; ed esso fu un ad-
10 G. Ferrarelli, Il generale d'Ambrosio (in E. Canevari - G. Prezzolini, Op. cit. , Voi. I, p. 148). 11 ivi. pp. 148-I 49.
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destramento tecnico, una scuola d' energie, un focolaio (piacesse o no a Napoleone) di sentimento nazionale, un crogiuolo di unità. Non per nulla nei primi anni della Restaurazione gli ex-ufficiali di quell'esercito furono in prima linea fra gli agitatori e i cospiratori per l'indipendenza e la libertà d'Italia. 12
Fin da ora, dunque, si può stabilire la matrice, il riferimento costante del pensiero politico e militare italiano dopo il 1815, a prescindere dai suoi contenuti «pro» e «contro» la Rivoluzione Francese e Napoleone. Che hanno un effetto positivo e traente, ma al tempo stesso lasciano vedere aspetti e limiti, destinati a protrarsi fino ai nostri giorni. Esercito, quel1o del Regno Italico, valoroso, ma che - diversamente da quello delle altre nazioni europee, non esclusa la Germania allora non ancora unificata - combatte esclusivamente sotto capi stranieri, e per interessi stranieri. Libertà individuale e nazionale allora portata dalle baionette francesi vittoriose sull'Esercito Sardo alleato di quello austriaco, e non conquistata con le armi dagli stessi italiani, così come hanno fatto i francesi nel 1789, combattendo la nobiltà antinazionale. Il primo concetto di nazione italiana ispirato daJla Rivoluzione Francese è inevitabilmente gracile, «dipendente», non autonomo: la libertà, prima del 1815, è libertà di fare e dire tutto, meno ciò che non piace ai francesi ... Ahimè, quali radici storiche profonde ha l'abitudine degli italiani di guardare fuori d'Italia, per trovare delle risposte ai problemi, che solo loro possono dare! Queste strettoie, questi vizi d'origine non possono non influenzare in vario modo il nostro pensiero militare, le cui coordinate vanno - fin dall'inizio del secolo - verificate con quanto avviene in Francia. Si determina una costante, perché è ben noto che l'influsso fr~ncese, lungi dall'essere arginato e costretto a battere in ritirata dalla preponderanza politico-militare austriaca in Italia dopo il 1815, vi sopravvive fin troppo bene e prosegue anche molto dopo il 1848, fino a far dire nel 1929 a Mario Missiroli che «i nostri generali del Risorgimento avevano tutti preparazione e cultura di scuola francese; li riconosciamo perfino dalla sagoma di moda, dai mustacchi appuntiti e dal pizzo napoleonico» .13 Ma che cosa era avvenuto in Francia dopo il 1815? Il luogotenente generale francese conte Du Pont, certamente non sospetto di liberalismo o democraticismo radicale e di simpatie per la Rivoluzione, riconosce senza perifrasi le tracce incancellabili lasciate dall'astro napoleoni12
L. Salvatorelli, Op. cit., p. 79. Spectator (M. Missiroli), Luigi Cadoma, «Nuova Antologia», Vo1. CCLXIV Fase. 1367 - I marzo 1929, pp. 43-65. 13
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co, il suo influsso, la sferzata che egli imprime al pensiero militare (benché prevalgano ovunque, forme politiche che non hanno alcun oggettivo interesse a mantenere desta negli ufficiali e nel popolo la memoria delle sue gesta): la guerra europea che abbraccia un quarto di secolo, noi veggenti, non ha soltanto occupato milioni di braccia, ma scosse lo spirito dei popoli, e diè loro un'attuosità sino allora sconosciuta; ed eglino fecero meglio stima della strane o nemiche nazioni, e conobbero sé stessi. Attuata la guerra, lasciò dopo di sé uno scommovimento morale che si estese sopra tutti gli obbietti che la riguardavano, e sopra la pace. Da ciò il multiplico dei libri che si veggono uscire per le stampe in ogni Paese, e soprattutto nella Francia. Così, trattati militari, memorie sulle nostre campagne succedono gli uni alle altre, e confondonsi colle innumerevoli e svariate opere, che ogni giorno vannosi pubblicando.14 Fenomeno non solo francese, ma italiano ed europeo: lo abbiamo
già visto, e lo documenteremo meglio nel prosieguo dell'opera. l caratteri specifici della letteratura militare - non solo italiana - del periodo sono ben colti da Niccola Marselli, il cui giudizio, non meno positivo di quello del Ferrarelli, è assai più profondo e articolato, perché direttamente legato alle grandi trasformazioni sociali, economiche e industriali in atto, che la cappa dei Re serve solo a nascondere, senza neanche poterle ritardare: dal 1815 l' Arte militare si va trasformando a seconda delle trasformazioni scientifiche, sociali, industriali. Da quel tempo comincia il quinto atto dell'Arte militare moderna: la scienza, le masse lavorate da principii democratici, l'industria fanno piena irruzione sulla scena [... ] E però se l'arte militare,· dopo Napoleone, accenna per alcuni lati a decadere, per altri si solleva sulla via del progresso. Essa diventa più degna d'una società in cui il sapere, la giustizia, la libertà vogliono il posto che loro spetta; e produce una macchina in cui il senno dirigente, la diffusa istruzione tecnica, la cooperazione di tutti gli sforzi individuali e intelligenti conseguono quello scopo della guerra, che al tempo di Napoleone veniva conseguito mediante il genio del capitano, un mediocre sapere e una disciplina soprattutto coattiva. Ciò non è
14
Cfr. Du Pont (gen. conte), L 'arte della Guerra - Poema in dieci canti traslatalo in versi italiani e dedicato a S.M. Carlo Alberto da Bernardo Bellini, Mantova, Tip. Negretti I 846.
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stato abbastanza osservato da coloro che si abbandonano troppo leggermente a paragoni fra la società moderna e l'antica, fra i tempi di Napoleone e i seguenti. L'Arte militare contemporanea comprende due periodi: il primo dei quali corre dal 1815 al 1866, il secondo dal 1866 ai nostri giorni. In quello i nuovi elementi elaborano la nuova forma, che in questo erompe [... ]. Prima delle guerre napoleoniche erasi certamente scritto sull'Arte della guerra; ma da questo ultimo tempo incomincia il movimento accelerato della riflessione che intende trasformare pienamente l'Arte in scienza. 15
La contrapposizione tra vivacità del pensiero militare e la ben nota inefficienza delle Istituzioni militari vale soprattutto per i deboli Stati italiani, che si affidano alla protezione militare deII' Austria. L'esercito francese in Spagna e in Algeria si rivela- checché se ne dica- un valido strumento di guerra, l'esercito austriaco in Ita1ia e fuori è sempre con le armi al piede, le flotte francese, inglese e russa nel 1827 a Navarino sconfiggono la nuua lur<.:a ... Verrebbe ora spontaneo dar ragione al Ferrarelli e al Marselli e torto allo Sticca, che non è certo il solo a rimanere alla superficie, a non vedere ciò che dal 1815 al 1848 muove e commuove gli animi, ciò che genera scritti ta1i da postulare un profondo rinnovamento - anche morale e non solo tecnico - della guerra e delle istituzioni. Ma se dopo aver distribuito in questo modo ragioni e torti si passasse subito a un primo bilancio delle concrete manifestazioni e del divenire del pensiero militare, si imboccherebbe una strada ancora buia e incerta, e si darebbe vita ad analisi inutili, prive di prospettiva. Bisogna prima guardarsi intorno, e chiedersi il significato preciso, l'esatta portata e le ragioni profonde delle singolari discrasie tra Istituzioni militari italiane e cultura dopo il 1815. È un fatto che, in campo politico-socia1e, specie in Italia «tra le Restaurazioni fatte non si tralasciò se non la restaurazione deIIo spirito riformatore e progressivo del secolo XVIII (Balbo)».16 Ed è un fatto che, come osserva il Salvatorelli, «la differenza capitale fra il Settecento e il periodo della Restaurazione è che in quello vi fu accordo tra i Governi (o almeno taluni Governi e l'opinione pubblica progressista) mentre ora tra i due elementi dominò un disaccordo profondo, un dissidio pregno di capacità rivoluzionarie» .17 15
N. Marselli, La guerra e La sua storia, Voi. lii , Capitolo III, Roma, Voghera
16
L. Salvatorelli, Op. cit. , p. 88. ivi, p. 91.
1875. 17
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Nonostante le esperienze del periodo napoleonico (anzi: proprio per il loro inesorabile linguaggio e significato), peggio che anacronistica fu l'educazione politico-morale delle classi dirigenti, civili e militari, allontanate, segregate da tutte le idee di libertà e di autogoverno (inseparabili dalla causa nazionale, elementi essenziali di questa), aggrappate al binomio trono-altare, strettamente solidale con l'Europa del Congresso di Vienna, e orientate verso l'Austria, sostegno di questa Europa e di quel binomio. È stato opportunamente ricordato che gli ufficiali del!' accademia di artiglieria e genio di Torino si sentirono magnificare per anni da un loro professore la Santa Alleanza e i trattati di Vienna, e vilipendere non solo la rivoluzione francese, ma anche i moti di Torino del 1821. 18 Come mai, diversamente da quanto avviene subito dopo il 1815, il XVIII secolo, «il secolo dei lumi», a parte il Palmieri, produce in Italia così poche cose militari che valga la pena di ricordare? c come e in che misura il rifiorire della cultura e della letteratura militare al quale abbiano dianzi accennato, si accorda - o meglio, non si accorda - con un quadro istituzionale cosl ostile alle novità? Non possono certamente essere attribuite solo a cecità e chiusura deJle classi dirigenti conservatrici, le vistose divaricazioni che nella Restaurazione si verificano tra una cultura - e una cultura militare - il cui afflato nazionale, la cui aspirazione alla conquista della libertà, sono sempre più vivi e inferiori e inarrestabili, e l'impostazione pratica, il quotidiano agire di Istituzioni militari e civili ispirate a una mera filosofia difensiva e di conservazione. Le monarchie dopo il 1815 sono solo formalmente vincitrici ma in realtà ormai sconfitte dalla storia, perché non hanno la forza anche morale e spirituale del vincitore ma sentono i loro troni vacillare (moti del 1820-1821 e 1831) per opera di élites nazionali e liberali, dove i militari - tutt'altro che dimentichi dell'eredità napoleonica - sono in prima fila. Di qui il tentativo di «tenere fermo» a ogni costo, di fare muro: segno inequivocabile di debolezza, e non di forza. Una cristallizzazione solo superficiale, che è solo un tentativo di nascondere il movimento e il cambiamento. Secondo Croce il quindicennio, che dalla caduta di Napoleone mette capo alla ri-
voluzione del luglio 1830, forma, nel comune giudizio, un periodo storico, con un proprio tema dominante che svolge portandolo a re18
ivi, p. 108.
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lativa conclusione. Questo tema è fatto consistere nell'opera ricostruttrice delle restaurazioni e nella correlativa azione della Santa Alleanza, che contra<;tÒ e ricacciò indietro e si sforzò di disperdere il moto liberale; ma, guardando nel fondo del processo che allora ebbe corso, e al suo momento positivo e all'avvenimento nel quale si attuò, si dirà con esattezza che, in quel quindicennio, l'ideale liberale resistette contro l'assolutistico, lo combattè senza tregua e alfi ne ebbe sovv' esso una vittoria definitiva perché sostanziale . 19
Lo stesso avviene in campo militare. Scrive il generale Severino Zanelli a fine secolo XIX: nel lungo periodo di pace che sussegue ai trattati del 1815 si svolge un duplice fenomeno negli ordini della milizia: mentre le istituzioni militari, sorte a vita rigogliosa durante le guerre napoleoniche, s'insteriliscono e si cristallizzano ogni dì in un vuoto formalismo, la mente degli studiosi va traendo dai fatti delle età precedenti e dalle mutale condizioni dei tempi il concetto di nuovi ordini militari e di nuovi metodi di guerra. 20
Ancora una volta siamo di fronte a un fenomeno europeo, non solo italiano. Persino l'esercito prussiano - che nelle guerre di liberazione era stato un possente strumento pieno di ardore patriottico e vigore combattivo, fondendo la tradizione del vecchio esercito di Jena con le nuove tendenze democratiche e nazionali - tende a perdere, sia pure in misura minore di altri, il suo vigore combattivo, il suo spirito innovatore: «rievocavasi il passato, ma si trascurava di esso la parte vi va ed attuosa per riprodurne il lato meramente estrinseco e formale: nel 1827 riproducevasi nei dintorni di Berlino la battaglia di Waterloo: altra volta i reggimenti di fanteria eseguivano per tre giorni consecutivi le stesse manovre; i reggimenti di cavalleria consumavano intere giornate negli esercizi di sfilamento ... ». 21 Se così avveniva in quella Prussia dove la Rivoluzione Francese non aveva cancellato le glorie di Federico Il e dove proprio le guerre contro Napoleone avevano dimostrato il grande valore e peso militare della Nazione e della democrazia, figuriamoci in Italia! Eppure, l'involuzione subìta dopo il 1815 anche da quel magnifico strumento di guerra che fin da a1lora si era rivelato l'esercito prussiano, non impedisce la conservazione nel suo seno dei germi e delle strutture per le future 19 20 21
B. Croce, Storia d'Europa nel secolo XIX, Bari, Lalerza 1953, p. 59. S. Zanel1i, Moltke (in E. Canevari - G. Prezzolini, Op. cit., Voi. I, p. 195). S. Zanelli, Op. cit., p. 196.
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vittorie, con l'avanzata di una cultura militare, i cui esponenti - cosa rimarchevole - in Prussia e Germania sono anche civili. L'Accademia di guerra fondata da Federico II viene richiamata in vita nel 181 O, e da allora è «campo aperto agli ufficiali colti e volenterosi», tra i quali Clausewitz. Ma la cultura militare germanica non rimane nel chiuso delle caserme e scuole militari: lo spirito resisteva tenacemente. Nelle aspre lotte del principio del secolo il pensiero tedesco, non che affievolirsi, s'era affinato e ingagliardito, e in tutti i rami della cultura affermavasi ricco di energia, comprensivo, originale. La scienza militare non poteva rimanervi estranea al moto generale degli spiriti: non indarno poeti, filosofi, storici, pubblicisti s'erano fatti soldati per cacciar lo straniero: i soldati avevano sposato le idee e i metodi dei filosofi, dei poeti e degli storici. Il fenomeno della guerra così vasto, complesso, difficile e pauroso, divenne materia di studio non solo per gli ufficiali, ma anco per i dotti non appartenenti alla milizia: in quella febbre di ricerca ond'era assalita la pensatrice Germania, l'arte e specialmente la storia della guerra ebbero cultori valenti fra i non militari. Effetto e misura di quella operosità nel campo degli studii militari, fu una stampa periodica ricca, varia, profonda, che affrontava con uguale franchezza i più ardui problemi della scienza e della storia militare e le questioni più modeste intorno alle pratiche del mestiere[... ] Ma il giornale non includeva il libro: l'uno viveva vita rigogliosa accanto all' altro. 22
In Germania, come in Francia e in Italia, dopo il 1815 si manifesta dunque - al di là delle peculiarità nazionali - la vittoriosa lotta per la libertà e contro l'assolutismo della quale parla Benedetto Croce. Lo stesso Benedetto Croce e Luigi Salvatorelli ci hanno lasc iato un' illuminante analisi23 dei movimenti e momenti culturali che preparano e accompagnano questa vittoria, hanno carattere europeo e non italiano e hanno come referente ultimo la Nazione, vista come necessario sbocco e garanzia dell'aspirazione alle libertà individuali. 24 Una nazione non chiusa in sé stessa e non ostile e diffidente nei confronti delle altre, ma aperta «a sempre più larghe e comprensive formazioni nazionali, chè nazione è concetto spirituale e storico e perciò in divenire, e non naturalistico e immobile, come quello di razza».25 22
ivi, p. Cfr. B. Croce, Storia della storiografia ... (Cil.) e L. Salvatorelli, Op. cit.. 24 Tematica recentemente ripresa da G.E. Rusconi in Se cessiamo di essere una nazione, Bologna, Il Mulino 1993. 25 B. Croce, Storia d'Europa ... (Cit.), p. 13. 23
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Si sviluppa una cultura italiana pienamente inserita nel circuito europeo; ciononostante, essa è ansiosa della propria autonomia e tesa alla ricerca delle più autentiche radici nazionali fino a spingersi fin troppo sovente all'età classica, dove nazione e libertà sono il riferimento costante e comune di qualsivoglia operazione culturale, al di là dei vari accenti. L'aspirazione all'unità nazionale non deriva solo dall'ideale di libertà, ma nasce da una diffusa esigenza di rinnovamento morale della vita nazionale, di fronte al penoso fallimento e alla corruzione - ormai databili da secoli - delle formule politico-amministrative dei singoli Stati italiani, alla loro palese incapacità di tutelare di fronte ai protettori stranieri la dignità e i veri interessi dei sudditi. Scrive, in merito il Salvatorelli: la crisi dissociativa della vita morale italiana, maturata appieno nella Controrifonna e nel seicento, si era iniziata nel Rinascimento 1.•.J La crisi politica della nazione italiana risponde a quella morale individuale. Troppo si è insistito finora sulla divisione d' Italia in vari Stati e suJla politica estera discorde ed egoistica di questi per spiegare la fine dell'indipendenza italiana ai principi del Cinquecento. Occorre portare una maggiore attenzione sull'immaturità e inorganicità di ciascuno degli Stati stessi. Mancava una fusione vera delle varie città e delle diverse classi, una struttura amministrativa salda e profonda, una vita politica della collettività, una coscienza popolare-statale, e, in una parola, una sufficiente base morale [...] Anche per la «tragedia italiana» la chiave della politica estera si trova nella politica intema.26
È in questo quadro generale che vanno inserite - se si vuole coglierne tutto il significato - le manifestazioni della cultura militare italiana del tempo. Insistere sui legami che essa ha con la cultura e la vita del periodo, ci pare ormai pleonastico: preme invece sottolineare che essa, più che essere una «cultura» collegata ma pur sempre distinta, fa parte integrante della cultura in generale, e dall'universale aspirazione al recupero dei valori nazionali trae i suoi motivi più salienti. Non solo in Italia, il poeta-soldato (Foscolo, Mameli), l'uomo di pensiero e di azione, l'intellettuale e il Capo politico e militare, sono una cosa sola. Molti militariscrittori, è vero, passano con disinvoltura financo eccessiva da11e armate napoleoniche al servizio delle piccole e malferme monarchie locali, per poi abbandonarle prontamente in occasioni delle rivoluzioni e ritornare con disinvoltura al loro servizio quando queste fa1Hscono. Ma l'eredità 26
L. Salvatorelli, Op. cit. , pp. 23-24.
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militare - e, più o meno apertamente, anche politica - del periodo napoleonico rimane sempre ben ferma nelle loro pagine più significative, senza alcuna seria opposizione - checché se ne dica - da parte dell'establishment reazionario, del quale fanno almeno formalmente parte. Il messaggio napoleonico conserva una ta1e forza, da non poter essere accantonato nella letteratura militare, sì che molti autori si limitano a operazioni «di facciata» , a omaggi formali e dediche ai Sovrani, per poi diffondere - come in Francia avevano fatto gli enciclopedisti a fine secolo XVIII - un verbo che non è mai meramente tecnico e sovente è nazionale, il che non necessariamente dispiace a monarchie che, come quella piemontese, covano più o meno apertamente aspirazioni nazionali, specie dopo il 1830-1831, e sono rinate dopo il 1815 in funzione antifrancese. Tutto ciò è perfettamente naturale: come possono gli autori militari di qualsivoglia periodo - anche meno complesso - non risentire delle contingenze, delle esigenze pratiche, dei motivi spirituali salienti , e anche dei pregiudizi e miti del tempo? In varia misura, proprio in campo militare e nella stessa histoire-bataille rimane una semplice aspirazione - se non un ' illusione - il metodo d'indagine di illustri storici come il Taine, che subiscono la lusinga positivista della storia ridotta a «dettatura dei fatti» e considerano come fonte ideale il testimone oculare, soprattutto se è persona onesta, onorata, intelligente ecc.... Sul campo di battaglia c'è sempre molto fumo e molto pericolo e il testimone oculare vede poco e male, prendendo spesso fischi per fiaschi. Chi guarda verso il nemico, come può guardare ciò che succede dietro, e magari a11'intemo del Paese? Senza contare che, dopo il 1815, i testimoni italiani di battaglie non sono poi tanti .... Lo Sticca non è certo il solo - ieri e oggi - a ignorare queste complessità e a coinvolgere la cultura e cultura militare nella mediocrità e decadenza delle Istituzioni dopo il 1815. Ciò avviene, perché egli artificiosamente vorrebbe separare gli «studi militari tecnici» (senza chiarire che cosa intende per tali studi: sembra siano, quelli di arte militare, che a suo dire - e non è vero - ignorano Napoleone) dagli «studi storico-militari», dei quali riconosce il rigoglio. E gli inevitabili contenuti militari della letteratura a sfondo prevalentemente politico? Senza contare che queJli definiti da Sticca «studi storico-militari» sono pieni di riflessioni rivolte all'attualità, sono una vera miniera perché crocianamente dovuti ad autori che cercano nel passato materiali e spunti per impostare l'arte militare italiana del presente, per ricavarne moniti per i contemporanei. Forse lo Sticca per «studi militari tecnici» intende solo quelli dei pochi ufficiali o «militari scrittori» insegnanti alle Accademie e Scuole
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piemontesi. Forse fa riferimento solo agli interpreti e sostenitori di un pensiero militare \lfficiale che non poteva che essere anchilosato, attendista e scolastico, a non liberi e poco geniali esponenti di una istituzione militare che, al momento, era certamente 1' ombra di quella dei «bei tempi» di Napoleone. Ma, in tutti i casi, ovunque - contrariamente a quanto vorrebbe far credere lo Sticca - affiora la nostalgia di militari che pur si sono adattati a servire i Re locali (più che altro - riteniamo - per impellenti ragioni alimentari). Ancora una volta, lo Sticca non si immerge negli avvenimenti e giudica solo con l'occhio del suo tempo, trascurando il fatto elementare più volte da noi sottolineato - che nel «militare» è sempre contenuto «il politico» e viceversa, e che - quindi - le differenziazioni tra scrittori e scritti in divisa e in borghese portano fuori strada. Sembra sfuggire al1o Sticca che nella Restaurazione - e nel Risorgimento - si diventa scrittori militari anche obtorto collo, perché il problema politico fondamentale ha carattere necessariamente militare e si riassume nella cacciata dell'esercito austriaco dall ' Italia e/o nell'interruzione del suo legame con gli strumenti militari dinastici. Per questo Carlo Argan scrive che da noi, il problema strategico e tattico fu visto, com'era naturale, soprattutto in funzione della sospirata guerra di liberazione. Le questioni organiche, perché intimamente connesse colla formazione politica del nuovo Stato, furono più approfondite e vi è forse da dolersi che i nostri legislatori militari non abbiano più largamente attinto alle idee degli scrittori [del tempo], specialmente di quelli non militari che in alcuni argomenti spaziavano su più vasti orizzonti e tenevano in maggior conto i dati sociali e politici, sempre preminenti nelle questioni militari.27
Fin dai primi anni della Restaurazione, dunque, entra in crisi la vera o supposta tendenza dei militari di professione a monopolizzare la cultura militare e si pone un problema che neppure oggi può dirsi definitivamente risolto: la contrapposizione - soggetta a trasformarsi in dicotomia - tra scrittore militare e militare scrittore (cioè l'autore di scritti «tecnici», per lo Sticca). In questi ultimi prevarrebbe un uso professionale e quindi strumentale, ristretto e non puramente teorico e scientifico de11a storia, mentre negli scrittori militari - al contrario - tenderebbe a prevalere un approccio «esterno» eminentemente politico-sociale, non sempre rispettoso della autonomia che anche Clausewitz riconosce a11a guerra rispetto alla politica e della valenza tecnica dei problemi. 27
C. Argan, Art. cit., p. 14.
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Ogni schematismo in questo campo è pericoloso, non mancando in ogni tempo - eminenti militari scrittori nei quali il movente politicosociale è predominante, e scrittori militari che meglio dei «tecnici» sanno cogliere taluni aspetti della realtà militare, le cui peculiarità non sono mai esclusive e impermeabili. Non è comunque questa la sede per trattazioni teoriche sul significato e l'uso della storia: ancora rifacendosi al Croce, 28 si deve ammettere che il pericolo per i militari scrittori è di fermarsi al primo gruppo degli studi storici, cioè ai pur necessari studi filologici ed eruditi, e di privilegiare le trattazioni «storico-oratorie», cioè le storie tradizionali indirizzate al bene beatique vivendum, con l'ufficio di elogiare o censurare le umane azioni e di «fornire paradigmi di bene e di male alla morale, aJla politica e alla vita tutta» [quindi, anche alla guerra - N.d.a.]. Storie nelle quali l'animo umano rievoca, di volta in volta, personaggi, azioni, avvenimenti, che gli valgono di conforto, di elevazione, di meditazione, di ammonimento....29
Le trattazioni storico-oratorie si prestano assai bene per storie deterministiche e a tesi precostituite, per «storie nazionali o di partito o di chiesa». Quindi gli scrittori «laici» - in quanto naturalmente portati a non dare il giusto peso alle ragioni della tecnica - sono ancor più soggetti dei militari a percorrere itinerari di ricerca, che li avvicinano in varia misura a quei tipi di storia recisamente condannati, con forti parole, dal Croce: né è da negare che un disumano sentire, foggiando miti di classi sociali e di nazioni, e nel loro combattersi e distruggersi risolvendo tutta intera la storia umana, o vagheggiando fantasmi di sangue, cii violenza e di lussuria, abbia dato la storia a una sovrabbondanza di cattive storie commovitrici di affetti, razzistiche, classistiche, materialistico-economiche, e altre anche peggiori.. ..30
Per evitare la palude senza uscite nelle quali ci porta la pretesa dello Sticca di distinguere tra studi tecnici e studi storico-militari, per sfuggire ai pericoli indicati daJ Croce, non c'è altra via da percorrere che quella di non guardare all'abito dell'autore, bensì a ciò che dice e a come lo di-
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B. Croce, Gli sludi slorici nella varietà delle loro fonne e i loro doveri presenti
(in Ultimi saggi, Bari, Laterza 1935, pp. 312-322). 29 ivi, p. 313. 30 ivi, p. 321.
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ce, e al contesto nel quale si inserisce naturalmente. A proposito di contesto: non è sufficiente liquidare le Istituzioni_militari della Restaurazione come istituzioni in decadenza. Decadenza è appunto il termine avallato dallo Sticca (e almeno in parte anche dal Marselli). Su di esso, occorre soffermarsi e riflettere. «Decadenza» è il termine esatto? Oppure il nesso sempre esistito tra ruolo e struttura dell'istituzione militare e l'assetto politico-sociale e statuale del momento, fa ritenere più calzanti parole come «involuzione», «trasformazione», «riconversione», «ridimensionamento», che sarebbero lo specchio dei mutamenti resi necessari dalle mutate condizioni interne e internazionali? Per rispondere a questa domanda, occorre considerare realisticamente - anche al di là delle istituzioni - il clima de11 'epoca. Stanchezza per gli oltre 25 anni di guerra anzitutto, e desiderio di tutti i governanti - e spesso anche dei governati - di leccarsi le ferite e di ricostruire - dopo i gran salassi e il fiume di sangue versato - le rispettive economie. Non c'era molto posto per le spese militari: d'altro canto, ]a Santa Alleanza garantiva almeno la pace. Pace senz'altro imperfetta e con aggettivi, come sempre: nella fattispecie, pax britannica sui mari, dove il deterrente era rappresentato dalla Royal Navy, pax austriaca e russa in Europa, con le truppe austriache che vigilavano sull ' Italia. Un assetto che aveva i suoi vantaggi, e ac;sicurava comunque ai sovrani militarmente più deboli, il paterno sostegno dell'I.R. esercito austriaco. Di conseguenza, le accuse agli eserciti della Restaurazione di inefficienza e di oblìo degli ammaestramenti tecnico-militari delle guerre passate, e alle monarchie del periodo di pretendere dagli ufficiali - più che capacità professionali e competenze scientifiche e storiche - attaccamento alla Corona e difesa di tutto ciò che rappresenta, oltre che ridimensionate vanno diversamente considerate, tenendo conto delle effettive esigenze che si pongono per gli strumenti militari dell'epoca, esigenze tali da rendere le strategie e gli strumenti napoleonici non solo improponibili, ma pericolosi perché destabilizzanti, inutili e antieconomici. Non vi sono, subito dopo il 1815, guerre interstatuali da condurre in Europa, e questo dovrebbe indurre anche a vedere i lati positivi della situazione. li problema - sempre più arduo - che si pone per le monarchie del periodo, è quello di assorbire senza traumi l'eredità prima di tutto spirituale del periodo napoleonico. Si è già visto che si tratta di un'eredità così forte e grande da non poter essere contestata nel campo strettamente tecnico-militare, dove l'ammirazione per il condottiero è generale e per nulla nascosta. Proprio per questo, si fa dell'ordine interno e del ruolo di garanti per la Corona degli eserciti i capisaldi della politica e della politica militare. Se gli eserciti non sono costruiti per guerre di tipo
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napoleonico, ciò non dipende da oscurantismo o da incompetenza dei Re e dei loro generali, ma più che altro da ben precise ragioni politico- sociali che fanno ritenere al momento prioritario l'ordine interno, inutile la preparazione a guerre totali e di movimento contro nemici che non ci sono, e infine socialmente pericolosa - e quindi da evitare il più possibile - la leva. E si cura, appunto, ciò che si rivela più difficile da ottenere, specie da parte dei membri più eletti dell'ufficialità: la fedeltà. In sostanza, oltre che essere economicamente gravosa l'efficienza militare diventa - almeno fino alla metà del secolo circa - un lusso inutile, visto che c'è l'esercito austriaco: e la stessa cultura militare può diventare pericolosa per il trono .... In questa situazione, i contraltari militari della rivoluzione francese - la leva in massa e la guerra ideologica, offensiva e assoluta - diventano, come la Nazione, un concetto prettamente democratico e illuminista. Essi in vario modo ispirano il pensiero e l'azione dei Patrioti, costretti a tenere conto di un semplice dato di fatto: gli eserciti per così dire regolari e permanenti sono dalla parte del nemico che vogliono abbattere, quindi bisogna cercare nei limiti del possibile delle alternative e dei surrogati. Nell'ottica conservatrice, i Patrioti diventano così dei bellicisti, dei perturbatori della pace e dell 'ordine interno e internazionale, e in certo senso - a prescindere dai loro alti ideali - lo sono, in tanto in quanto intendono mutare l'assetto esistente con la forza delle armi e con sommovimenti popolari che intimoriscono e preoccupano I' establishment. Da questo stato di cose consegue che - a cominciare dai primi decenni del secolo - la corrente di idee più favorevole alle guerra anche fra Stati e alle soluzioni militari non è certo da ricercare tra i sostenitori del Trono e dell'Altare. L'interesse improvviso dei protagonisti della cultura e della politica per le cose militari non può essere spiegato solamente con i trascorsi militari e napoleonici di molti di loro, né è un mero prodotto culturale o una ricaduta del risvegliato interesse per la storia, della quale tanta parte è la storia delle guerre. Se il secolo XIX viene dal Croce definito «il secolo della storia», se si ha un rifiorire dell'interesse per le cose militari anche nei civili e nei «laici», non sarà mai abbastanza ripetuto che la ragione principale è pratica e contingente: al di là delle diverse posizioni, interpretazioni e soluzioni rimane il fatto che - parafrasando Blanqui - l'idea nazionale e la libertà per affermarsi hanno bisogno di baionette, e che queste baionette devono essere gli italiani stessi a impugnarle, rinfrescando e rinnovando le antiche glorie. Dalla necessità contingente e ineludibile di disegnare per il futuro uno strumento militare che corrisponde a un bisogno e quindi viene pienamente legittimato, discende una cultura militare pienamente legittimata presso le
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élites intellettuali: non è cosa da poco, e anzi è - forse - un fenomeno rimasto tuttora unico in Italia. Un'altra acquisizione importante ci sembra fin d'ora questa: che la guerra totale, ideologica, assoluta, offensiva, di marca napoleonica, la guerra che insomma coinvolge tutto il popolo, è figlia della Nazione, cioè di un concetto tipicamente liberale, democratico e progressivo. Dalle guerre della Rivoluzione francese in poi - e per tutto il secolo XIX - la Nazione non ne rifiuta certo la paternità e la mette in discussione solo con il pacifismo e l'internazionalismo di fine secolo XIX - inizio secolo XX, cioè quando la situazione in certo senso si capovolge, e per una parte consistente della società civile lo strumento militare diventa - a torto o a ragione - il primo ostacolo per la propria autoaffermazione e non il primo mezzo per la conquista e la difesa della libertà. Il rapporto organico tra problema militare e concetto di Nazione consente anche di stabilire quando comincia - per il pensiero militare italiano - il Risorgimento. Secondo il Salvatorelli e molti altri, gli inizi del Risorgimento vanno spostati al secolo XVIII (e precisamente, per taluni alla pace di Acquisgrana del 1748 e per altri al trattato di Utrecht del 1713). Lo stesso Salvatorelli vede - a ragione - nel Risorgimento un movimento di idee e un periodo di trasformazioni politico-sociali, prima ancora che di mutamenti politico-territoriali. Sotto questo profilo gli sembra più importante la data del 1748, perché l'Italia dopo secoli di dominio straniero ritorna sotto prìncipi suoi e si creano le condizioni favorevoli per le riforme tipiche della seconda metà del secolo, nelle quali essa «riceve il pensiero d ' oltralpe, lo assimila, lo rinforza con i succhi del proprio terreno, stimolati dall' innesto esterno. L'Italia del settecento ripiglia i fili interrotti dalla sua tradizione; il Risorgimento si riattacca al Rinascimento. Ma .il riattacco non è fatto direttamente, rimanendo sul suolo nazionale; esso si compie attraverso l'Europa». 31 li Salvatorelli ritiene, infine, che <~ad ambedue le date è comune l'intenzione di riportare il processo del Risorgimento a prima della Rivoluzione francese, presentandolo più o meno indipendente da essa».32 Siamo ora in possesso degli elementi necessari per rispondere all'interrogativo che prima ci siamo posti: perché in Italia - diversamente da quanto avviene in Francia e in Germania - al rifiorire del pensiero politico e alle riforme politico-sociali della seconda metà del secolo XVlll non corrisponde nello stesso periodo alcun valido e diffuso movimento di idee nel campo militare, visto che quella del marchese Palmeri è la classica, isolata eccezione che conferma la regola?
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L. Salvatorelli, Op. cit., p. 40. ivi, p. 80.
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La risposta è univoca: l'Italia in quel periodo non ha nessun Federico II e nessun Luigi XIV. Ai movimenti intellettuali della seconda metà del secolo XVIII rimane da noi estraneo quel concetto di Nazione e unità nazionale, che la Rivoluzione Francese diffonde successivamente in tutta Europa: tipico è il caso di Maria Teresa d'Austria e della Lombardia. Viene dunque meno, fino alla Rivoluzione Francese, la principale molla per il rinnovamento e l'estensione del pensiero militare al di là del chiuso delle Accademie e delle caserme. Particolarmente per il pensiero militare italiano, il rinvigorimento incomincia solo con la Rivoluzione Francese e prosegue - senza mai interrompersi - anche dopo il 1815. Se ne deduce che dal punto di vista militare il Risorgimento italiano affonda sicuramente le sue radici nella Rivoluzione Francese e non più lontano, né sono individuabili reali soluzioni di continuità tra il periodo dal 1789 al 1815 e quello successivo. Per il pensiero militare it aliano la Restaurazione è un periodo di preparazione attiva, dunque in senso stretto andrebbe considerata come facente parte integrante del Risorgimento stesso. Se, in questa sede, l'abbiamo considerata a parte facendo iniziare il Risorgimento con il 1848, è stato sia per comodità di trattazione, sia per stabilire il sempre indispensabile raccordo tra gli autori e pensatori e il loro tempo. Sotto questo aspetto, il periodo dal 1815 al I 848 ha caratteri suoi propri, perché precede la fase dell'azione, del collaudo, della verifica, che inizia solo con la guerra del 1848 e fornisce - da allora in poi - nuovi spunti e nuove idee scaturite dalla lezione degli avvenimenti militari nazionali e non più da esperienze o autori stranieri. Al tempo stesso, la reale discriminante per la nascita di un pensiero militare autenticamente italiano è l'inizio della Rivoluzione francese (1789) e non Waterloo (1815): di questo, dovremo tenere conto.
Riferimenti e caratteri ~pecifici del pensiero militare italiarw: l'influsso francese Dal quadro generale prima tracciato discendono i caratteri specifici del pensiero militare italiano. I suoi riferimenti principali - ancorché non esclusivi - sono oltr' Alpe e in particolare in Francia. In Francia, per diverse ragioni: al di là dell'ovvia affinità di lingua e di costumi, è l'esperienza della Rivoluzione Francese e di Napoleone a dominare in Italia ancor più che altrove, a suggerire - anche per contrapposizione - quel richiamo al classicismo, alle glorie antiche che (come le sculture del Canova) caratterizza non casualmente tanta parte della nostra letteratura
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storico-militare del tempo. Nella Restaurazione l'influsso non cessa: sia perché Napoleone e la Rivoluzione dominano prima di tutto la letteratura d'oltralpe, sia perché gli storici e autori militari francesi del periodo si impongono più che mai come espressione della leadership culturale francese, anche a prescindere dal loro atteggiamento verso l'esperienza napoleonica. L'eccessivo influsso francese viene da parecchi combattuto: ma rimane il costante riferimento, la pietra di paragone che si accetta o respinge ma che comunque si deve studJare, se non altro perché gli ufficiali della Restaurazione non sono, in massima parte, che ufficiali degli eserciti italici e del Regno Italico che hanno combattuto con Napoleone assorbendo il modello francese e i regolamenti, la mentalità militare francese. Il secondo aspetto è la polarizzazione a Torino e a Napoli - e, solo in terza istanza e assai più indietro, in Lombardia - di tale pensiero. La ragione è semplice: Torino e Napoli sono le capitali dei due eserciti italici dJ gran lunga più numerosi, più efficienti e con caratteristiche maggiormente nazionali. Al tempo stesso il Piemonte è da sempre particolarmente vicino alla Francia, se non altro per lingua e per costumi, mentre a Napoli è particolarmente viva e operante l'esperienza murattiana. Esperienza più recente e - per così dire - meno dinastica, che in questo caso spinge verso una maggiore freschezza, una maggiore vivacità e un maggiore dinamismo della cultura militare. Quest'ultima tende decisamente a rinnovarsi, forma una vera e propria «scuola» con eletti ingegni e si estende - caso unico in Italia - anche agli aspetti marittimi (Napoli ha anche la maggior marina militare e mercantile). Riguardo alla metodica e al tipo d'approccio, come del resto avviene anche oltr'alpe prevale (anzi: incontra la massima fortuna) l' exemplum historicum, che ha una duplice funzione: da una parte è un richiamo verso le glorie antiche, fino a suggerire frequenti traduzioni di autori greci e romani che di per sé non favoriscono la presa di coscienza dell'arte militare moderna; dall'altra è la chiave di volta per il rinnovamento dell'arte militare, cristallizzata in vecchie formule che rasentano l'ovvietà tipo libro dei proverbi, o in manuali o vademecum tipici della letteratura fatta per chi deve servirsene illic et immediate. Dall' exemplum historicum attraverso il sillogismo induttivo, si tende a giungere a delle teorie, a dei principi generali oppure anche delle regole. All'exemplum historicum non sfugge quasi nessuno. Non sfuggono i ricercatori di principi e di regole; non sfuggono i numerosi scrittori - una falange - che prediligono la storia oratoria (secondo la definizione del Croce) e non sfuggono nemmeno coloro che negano la possibilità di giungere a una teoria generale della guerra e ne analizzano i molteplici e
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sempre diversi aspetti. Quest'ultimi per il loro ragionare hanno bisogno di riferimenti certi - che non possono che essere quelli storici - e comunque devono paragonare la realtà del presente con quella del passato, per renderla più viva e coglierne meglio i caratteri_ Anche coloro che risentono delle correnti positiviste e scientiste e rifiutano ogni metafisica, hanno bisogno di ricostruire l'evoluzione del fenomeno guerra, e/o degli ordinamenti e degli armamenti, e rimangono ancor più degli altri ancorati ai fatti, se non altro perché le ragioni dell'adozione di determinati ordinamenti o criteri non si possono trovare che nel passato. Inevitabile che ciascuno scelga l'exemplum che gli fa più comodo, magari non per passare dal particolare al generale, ma per suffragare - con sillogismi deduttivi - tesi precostituite. Le possibilità di scelta degli exempla sono vastissime, anzi infinite. Ne consegue che la frequenza degli exempla prescelti, il loro carattere, la loro collocazione .temporale e gli stessi possibili exempla dei quali si ritiene di non avvalersi, già dicono molte cose su un autore e sulla sua metodologia, specie se abbinati alla natura dell'argomento trattato e a i suoi limiti anche temporali. Non ci soffermiamo sugli ovvi pericoli che presenta il ricorso agli exempla, operazione che richiede estrema cautela prima di trarne deduzioni di valore apodittico e non meramente probabilistico. Questo è un altro elemento non secondario per valutare i reali caratteri di ciascuna opera, e per individuare la reazione che essa ha con le altre. «Reazione»: è questo il termine più calzante per definire il carattere della letteratura militare del periodo. Reazione, cioè volontà di dire, di diffondere qualcosa di diverso rispetto al passato, o magari di richiamare in vita qualcosa. Ciò è abbastanza inevitabile: è a fine secolo XVlll che, come abbiamo visto, nasce in Europa la teoria strategica parlata, dibattuta e scritta (la strategia è sempre esistita nei fatti), la quale è figlia della guerra di masse tipica della Rivoluzione francese e - per il momento - è significativamente solo strategia terrestre. Dei contenuti delle opere di questo periodo, che cosa è peculiare e tipicamente nazionale? È la prima domanda alla quale cercheremo di rispondere.
SEZIONE Il - Il rinnovamento del linguaggio militare italiano
Il dibattito tra puristi e antipuristi militari: suoi esponenti Nel periodo della Restaurazione, fioriscono in Italia come non mai in passato - e come non avviene più nemmeno in futuro - studi dedicati
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al linguaggio militare sia terrestre che navale, con ambedue le branche sovente riunite nella stessa opera. A che cosa è dovuta questa fioritura inaspettata, proprio in un periodo nel quale il costume, la vita quotidiana e quel1o che si potrebbe chiamare il potere, certamente non privilegiano e incoraggiano questo tipo di operazione culturale? Ne indicheremo le cause: ma si può dire subito che il fatto stesso che si dedica attenzione al linguaggio, è premessa e segno di rinnovamento (pensiamo all'importanza degli enciclopedisti francesi, che puntualizzano anzitutto il significato e l'uso dei vocaboli, secondo le più recenti conoscenze). Non basta: è anche affermazione o riaffermazione di autonomia (rispetto a chi e a che cosa, lo vedremo) in una branca dove, da gran tempo, prevalgono modeIJi ordinativi e teorie d'oltralpe. Per questa sola ragione, vale la pena di dedicare - per la prima volta - la dovuta attenzione all'intenso travaglio del linguaggio militare italiano in un periodo comunemente ritenuto oscuro, piatto e breve. Tanto più che risulta quanto meno poco agevole esaminare il significato di arte militare e delle sue parti componenti (oppure studiare e confrontare gli scritti dei vari autori) senza un preliminare chiarimento dello stato della lingua, degli influssi che su di essa si esercitano, delle conseguenti variazioni in un senso o nell'altro della sua forma e sostanza. Ci conforta la constatazione che, anche se questo tipo di problemi è stato finora trascuntto dalla critica storica, Clausewitz e Jomini una volta tanto sono d'accordo nel riconoscere l'importanza del linguaggio. Specie in campo militare, il ruolo della terminologia non è mai puramente scientifico, lessicale o propedeutico aIJa ricerca, ma riassume la ricerca stessa e sottintende tutto un retroterra culturale, morale ed etico (si pensi alle definizioni di arte militare e strategia, che sovente indicano il «nocciolo duro» di una data teoria). Per Clausewitz, «solo quando si è d'accordo sui nomi e sulle definizioni si può sperare di procedere in modo lucido e facile all'esame deIJe cose; solamente allora si può sperare di trovarsi sempre allo stesso punto di vista del lettore». 33 Per Jomini non solo «le buone definizioni aiutano la chiarezza dei concetti», ma l'uso di parole appropriate è indispensabile per gettare le basi della scienza militare: «è possibile che mi si rimproveri di avere spinto un poco lontano la manìa delle definizioni. Dico subito, però, che me ne faccio un merito: perché per gettare le basi di una scienza finora poco conosciuta, bisogna prima di tutto intendersi sulle diverse denominazioni che bisogna dare alle combinazioni che ne fanno parte, altrimenti sarebbe impossibile indicarle e caratterizzarle. Non ne33
K. Von Clausewitz, Della guerra (Cit.), Vol. I, p. 103.
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go che qualcuna delle mie [definizioni - N.d.a.] potrebbero ancora essere migliorate, e poiché non ho alcuna pretesa di infallibilità, sono disposto ad accettare prontamente quelle che sarebbero più soddisfacenti». 34 Aristotele scrive nella sua Poetica (IX, I) che il compito del poeta «non è descrivere le cose realmente accadute, ma bensì quali possono accadere; cioè cose le quali siano possibili secondo le leggi della verosimiglianza o della necessità». Quindi: il poeta può mescolare a suo piacimento fantasia e realtà, l'importante è che dica cose verosimili anche se storicamente non provate o non avvenute. Nella vita quotidiana molti sia pure in misura diversa - quando pensano o parlano tendono ad essere poeti, cioè a mescolare fantasia e realtà fino a cancellarne i confini e a sopraffare con rappresentazioni irreali e di fantasia, la realtà stessa. Evidentemente lo storico - e lo storico del pensiero in particolare - non si può permettere questi lussi, non può indulgere a rappresentazioni poetiche, anche se la fantasia non gli è preclusa. Dunque la «pulizia», la delimitazione e il chiarimento del linguaggio (con un'analisi non puramente linguistica, ma anche lessicografica e filologica) servono anche a questo, cioè a impedire o almeno rendere difficili rappresentazioni artificiose, improprie del reale che come tali incominciano con un uso dislorto del linguaggio, chiamando con un nome ingannevole ciò che invece ha ben diversi contenuti e ben diverso significato. Un esempio classico è dato dall'espressione «difendere la pace», che può significare anche fare guerra alla guerra, cioè impiegare lo strumento militare per imporre una propria pace, oppure difendere - al di là della pace - ben precisi e ancorché legittimi interessi e un assetto strategico ritenuto più conveniente. Con la sua «manìa delle definizioni», Jomini è più attento di Clausewitz al ruolo del linguaggio: è solo l'inizio eloquente della lunga serie di differenze che già abbiamo avuto modo di approfondire. Intanto, in via preliminare, va qui richiamato brevemente il s ig nificato di dizionario, vocabolario e lessico. Il dizionario raccoglie in ordine alfabetico i vocaboli e le locuzioni (o dizioni, come appunto quella militare, la medicina, l'informatica ecc.), accompagnati da una spiegazione che ne chiarisce l'uso, le accezioni, spesso l'etimologia, e ne riferisce espressioni particolari. Benché dizione, rispetto a vocabolo, sia voce di accezione più ampia, il dizionario è spesso usato come sinonimo di vocabolario. Stando ali' etimo, mentre il vocabolario dovrebbe elencare solo le parole, il dizionario dovrebbe riportare anche dizioni o fraseologia. Il dizionario può essere enciclopedico, cioè assumere caratteristiche intermedie tra dizionario e enciclopedia, riportando accanto a1la parte ]in34
A.H. Jomini, Précis ... (Cit.), Voi. II, p. 147 e Voi. I, p. IO.
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guistica propria di un dizionario, voci e considerazioni di carattere storico, biografico, scientifico ecc. proprie di un'enciclopedia anche se in forma generalmente più sintetica. Infine, il lessico non differisce sostanzialmente dal dizionario e dal vocabolario, in quanto riporta in ordine alfabetico le parole di una lingua o di un sistema linguistico, dando di ciascuna la spiegazione. Le principali opere linguistiche nel periodo considerato (18131843) sono otto, delle quali sette dizionari o vocabolari e una che - più che un dizionario o vocabolario completo - è un polemico ragionamento sui problemi linguistici e su taluni termini e talune espressioni. 35 Due di esse riguardano esclusivamente la branca marittima; una è riferita ad ambedue le branche, e tutte le altre riguardano l'arte militare terrestre, con alcuni vocaboli marinareschi. Le elenchiamo in ordine cronologico (la collocazione nel tempo è il primo elemento da considerare): - Simone Stratico, Vocabolario di marina in tre linKue (italiano francese - inglese), Milano, Stamperia Reale 1813 (3 volumi con atlante); - Giuseppe Grassi, Dizionario militare italiano, Torino, Soc. Tip. Libraria 1817 (2" Ed. riveduta e postuma Torino 1833; Ed. napoletana Napoli, Dà Torchi del Tramater 1835). Prima edizione in 2 Vol., seconda edizione in 4 Vol.; - G. Bal1erini, Dizionario italiano scientifico-militare per uso di ogni arme, contenente le definizioni e gli usi delle diverse voci e comandi riguardanti il linguaggio tecnico delle militari scienze, e di tutte quelle che vi hanno rapporto. Con l'equivalente in francese accanto a ogni vocabolo e l'indicazione della scienza o arma, cui OKni voce appartiene. Arricchito di erudizioni analoghe (2 Voi.), Napoli, Dalla Tip. Simoniana 1824; - Dizionario d'artiglieria dé capitani Carbone e Amò, Torino, Dalla Stamperia Ceresole e Panizza 1835; - Medini G. - Co11ina F. - Minarelli M., Gran dizionario teorico-militare, Napoli, Tipografia Cataneo 1836; - Mariano d' Ayala, Dizionario militare francese - italiano, Napoli, Dalla Tipografia di Gaetano Nobile 1841; - Giuseppe Sponzilli, Della lingua militare d'Italia - origine e progresso non che dé miglioramenti e sussidii di cui pare suscettiva, Napoli, Dalla Reale Tipografia Militare 1846; - Antonio Parrilli, Vocabolario militare di marineria francese-italiano, Napoli, Stab. Tipografico di Seguin 1846 (2 volumi).
35 Cfr., in merito, il prezioso e tuttora insuperato volume di M. d' Ayala, Bibliografia Militare Italiana antica e moderna. Torino. Stamp. Reale 1854.
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Non casualmente prevale il termine dizionario anziché quello di vocabolario, mentre non viene per nulla impiegato quello di lessico. Tutte le opere prima indicate, al di là della loro attenzione per il linguaggio, assomigliano di più a enciclopedie che a dizionari e diventano preziose e primarie fonti per capire non solo lo stato dell'arte militare del periodo, ma il modo d'essere, la vita quotidiana, le regole e persino il costume delle Istituzioni militari, oltreché l'origine di voci fondamentali come strategia, tattica ecc .. Valga un esempio per tutti: il Grassi indica i diversi significati del termine Passavolante, e tra di essi quello logistico-amministrativo. Così veniva chiamato un soldato che, nel secolo XVll e anche XVIII, i capitani usavano far passare dietro compenso dall'una all'altra compagnia, per ingannare i commissari civili (ispettori periodicamente inviati dal Governo) sull'effettivo numero dei militari assoldati, per ciascuno dei quali essi percepivano una quota fissa annuale comprensiva di tutte le spese - mantenimento, vestiario, paga, ccc .. Solo malcostume amministrativo? Piuttosto una consuetudine europea - più che tollerata - radicata e avallata dall'alto, un sistema di ricompensa per i comandanti , fino a far ritenere la compagnia - o il reggimento - una fonte di reddito, una ditta che come tale si può anche vendere e comprare. Lo apprendiamo da questa frase del Montecuccoli riportata dal Grassi a completamento del significato del vocabolo: «soleva Gustavo Adolfo, Re di Svezia, concedere passavolanti, o piazze morte à capitani in tal guisa, che ad ogni dieci uomini, che passavano mostra, uno di sovrappiù, cioè undici, ne venivano pagati». La seconda caratteristica comune è il costante riferimento alla cultura (anche militare ma non solo militare) francese, alle istituzioni militari francesi, che diventano la pietra di paragone e la misura unica per giudicare la posizione di ciascun autore, e per individuare i due contrapposti schieramenti: puristi e antipuristi. Bisogna qui rifarsi ai motivi ispiratori dell'Accademia della Crusca (abolita dal Granduca Leopoldo di Toscana nel 1783 e ricostituita da Napoleone nel 1811), che in quegli anni mette mano a un vocabolario fondato sul recupero di un linguaggio nazionale italiano e di conseguenza sulla reazione all'influsso francese mediante il richiamo agli autori classici italiani, visti come unica fonte di ispirazione. Nella prefazione all'edizione 1863 del loro vocabolario gli Accademici, dopo aver rilevato che il linguaggio riflette sempre lo stato morale di un popolo, lamentano lo smodato influsso francese non solo per le voci nuove (cioè dovute ai riflessi dei più recenti progressi della scienza e della tecnica) ma anche «per certo non sempre discreto avvicinamento al fraseggiare di quella nazione, che tutto avea d'un tratto trascinalo seco,
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dettando, leggi e modi, e dominando sino al pensiero degl'italiani». Evidente il riferimento alla Rivoluzione Francese e alle guerre napoleoniche: ma anche prima «il nostro idioma aveva incominciato a prendere quel poco d'aria francese, per l'azione potente che in diversi modi esercitò da per tutto quella letteratura, che tanto esaltò il secolo di Luigi XIV». Per quanto può interessare la parte militare, il programma di lavoro della Crusca si riassume nella ricostruzione di un linguaggio nazionale basato su: - riferimento «al genio e all'anima del dialetto toscano» come «idioma della civiltà italiana»; - ricorso, per ogni parola o locuzione, a «un corredo dé più aggiustati esempi, tratti dà più puri e illustri scrittori», senza peraltro escludere un buon numero di autori minori toscani - specie poeti - non tanto antichi «e anzi alcuni recentissimi» che sono ritenuti i più fedeli interpreti dell'anima popolare toscana e dell'arguto linguaggio che la riflette; - separazione delle voci «morte o antiquate» da quelle «vive o usate», con esclusione di autori «non troppo chiari per merito di stile», in grado di fornire solo qualche esempio «o che troppo poco potessero porgere di nuova ricchezza al vocabolario». Gli autori militari - non esclusi i più recenti e famosi e per così dire «classici», come Raimondo Montecuccoli, il Marchese Palmieri ecc. sono in blocco considerati come appartenenti a quest'ultima categoria, e comunque non ai «più puri e illustri scrittori». In tal modo le voci militari del vocabolario della Crusca anche nell'edizione 1863 sono - per quantità e qualità - francamente deludenti e antiquate, con vistose omissioni, significati obsoleti o errati ecc., comunque non all'altezza di un monumento culturale del genere. Risulta così autorevolmente accreditata, dal vocabolario della Crusca, la tendenza a non considerare la cultura militare come parte inscindibile della cultura, e a non ritenerla nemmeno un'appendice, una manifestazione minore della cultura stessa: tendenza tuttora (1995) viva e operante. Con questi limiti, non vanno misconosciuti i grandi meriti del purismo nella costruzione - sempre faticosa - e nel mantenimento sempre precario - di un' identità e quindi di un'unità nazionale. Anche in questo caso, ci troviamo davanti a una problematica di viva attualità. Su un quotidiano di larga diffusione e non sospetto di vetero-nazionalismo come La Repubblica, il 6 ottobre 1992 è comparso un articolo a finna Alessandra Longo, dal titolo «Allarme dell'Accademia della Crusca: troppo anglisrni, e spesso inutili - L'italiano? una lingua forestiera». Se si sostituisce l'inglese al francese, le preoccupazioni dei puristi di oggi sono simili a quelle dei puristi post-napoleonici, e come sempre
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vanno al di là dell'ambito scientifico e specializzato per investire i grandi temi della vita naziona]e_ Si legge, nell'articolo citato, che in questi tempi di disgregazione, separatismi e razzismi, questa ultima sortita a difesa dell' «identità linguistica nazionale» ha un sapore diverso, quasi arrivasse da una possibile «trincea». Giovanni Nencioni, Presidente della Crusca, nonché professore emerito alla Normale di Pisa, ammonisce: «la lingua nazionale non si può buttare via come uno straccio vecchio, è la nostra carta d'identità [... ] può persino avere effetti riparatori, servire da contrappeso nei confronti del rischio di disgregazione politica che stiamo vivendo.
Amaramente constatiamo che all'inizio del secolo XIX il problema era simile e lo scopo era opposto: il recupero di un linguaggio nazionale come premessa di quell' unità e indipendenza della nazione, ora da taluni non sentite e discusse ... Le insufficienze, inesattezze, inadempienze e omissioni del vocabolario della Crusca corrispondono, del resto, a quelle della Enciclopedia Francese: ma questa porta la data de] 1754, è largamente preesistente alla Rivoluzione francese ed è, appunto, un'opera francese e non italiana. Ciononostante, al di là de1 suo diverso carattere (enciclopedia e non dizionario) in parecchie voci militari l'Enciclopedia Francese si dimostra all'altezza della sua fama. Per tutto il sec. XIX, è questo il contesto nel quale s i muovono gli studi sul linguaggio militare italiano, per il quale l'interesse va molto al di là della prob1ematica del riscatto nazionale che si pone subito dopo il 1815 e prosegue con le guerre d' indipendenza. I principali riferimenti per giudicare i dizionari e i vocabolari prima indicati - e per stabilirne le diverse matrici e i diversi approcci e obiettivi - si trovano, oltre che nel messaggio ai lettori, proemio o introduzione che precedono il testo di ciascuna opera, in due articoli sull a Rivista Militare Italiana dopo il 1861, che dunque dimostrano la permanenza e attualità della tematica ora esaminata anche dopo l'unità d'Italia (V.B., La lingua italiana e i cultori di cose militu.ri36 , e C Quare nghi, Un soldato filologo e il vocabolario della Crusca). 31 Accenni e citazioni interessanti si trovano anche nella tuttora fondamentale Bibliografia militare italiana antica e moderna (1854) di Mariano d' Ayala e nel citato libro dello Stieca sulla letteratura militare.
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«Rivista Militare Italiana» 1866, Serie Il, Anno XI, Voi. I, Disp. I. ivi. 1880, Voi. 11, Disp. I.
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Esamineremo più in profondità i contenuti dei saggi di V.B. e del Quarenghi, trattando del pensiero militare dopo il 1861. Ci limitiamo a constatare, per il momento, che talune affermazioni di V.B. nel 1866 sarebbero perfettamente calzanti nella Restaurazione, così come a fine secolo XX. Ennesima dimostrazione delle tesi di Tocqueville sui tempi lunghi nella storia dei popoli, e quindi anche della loro anima culturale e dello spirito delle loro istituzioni. V.B. delinea in modo magistrale il rapporto tra linguaggio, storia e civiltà di una nazione, e tra unità politica e linguistica, in una visione che non è mai solo specialistica e militare: ogni letterato, ancorché mosso dall' amore dei suoi studi prediletti e del patrio decoro, che va tutto dì ricordando che per ogni popolo l'unità politica non può star disgiunta dall'unità di favella, e che la perfetta conoscenza e l'uso continuo di essa, debbono essere proprie di ogni classe di cittadini, è ampiamente giustificato dagli insegnamenti della storia e dai suggerimenti del buon senso. Ché menlre il bene dell'indipendenza nazionale e la civile prosperità cui un popolo aspira, non furono giammai favorite dalla decadenza del patrio idioma, pare che niuno possa esservi il quale non senta come per naturale istinto, che il rinunziare alla propria lingua, alla propria letteratura, equivale a rinunziare a ciò che rappresenta l'immagine la più fedele e la più viva della nazione cui appartiene, ed al mezzo eziando il più operativo d' incivilimento [...] E nel vero, una delle tracce non meno deplorabili che reali lasciate nella nostra Italia dalle invasioni straniere, che senza tregua vi si succedettero, fu sempre la corruzione del nazionale idioma, e, o fosse arte dei nuovi padroni, o potenza dell'istinto di imitazione, una tal corruzione vi poneva tosto profonde radici.
Secondo V.B. l'imbastardimento deUa nostra lingua è cominciato nel secolo XVI con il predominio spagnolo, e dopo l'invasione francese di fine secolo XVlll «una setta di filosofi e letterati si propose di toglierci la lingua dei nostri padri, la quale per questa volta rimase ancor più guasta e alterata nelle sue radici, e dovette sin anche cedere il luogo a quella degli invasori». I riflessi sulla cultura, sul linguaggio militare di questa situazione rimangono gli stessi del 1815: «date una occhiata a una biblioteca militare moderna, esaminate il frontespizio dei libri che stanno nello studiolo di qualche cultore anco eccellente di cose militari, e se vi riesce vederne uno che non sia scritto in lingua straniera, gridar potete al miracolo» Di qui «una vera dittatura intellettuale» (francese, naturalmente). Sorge perciò la necessità generale di smettere di cercare «il soccor-
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so straniero» in tutto ciò che riguarda «l'avanzamento della nostra civiltà», con una buona letteratura italiana capace finalmente di dare alla scienza come alla scienza militare «espressione, forma, ordine e vita all'italiana». Anche tutta la regolamentazione nùlitare - prosegue il V.B. - dovrebbe essere scritta in buon italiano (evidentemente, al momento 1866 - non lo era ancora). Questo miglioramento non deve più tardare, perché gioverebbe «all'educazione letteraria militare [ ... ] d'altronde è richiesto anche per parte della sostanza, dopo che l'esercito per quale fu apprestata si cambiò in esercito italiano». Non si tratta di creare una lingua, ma solo di dar vita alla propria; «si tratta di cambiare in oro di casa nostra o l'orpello forestiero, o quei metalli arrugginiti, che non altro rappresentano che le antiche divisio ni del Paese». Nel descrivere gli inconvenienti che derivano alla buona lingua patria dall'uso quasi esclusivo di parole straniere, Y.B. mette in guardia dal pericolo di cadere nell'eccesso opposto, bandendo dalla lingua italiana tutte indistintamente le parole straniere: intendiamo benissimo che il benefico commercio Jellc iJcc debba farsi tra nazione e nazione, per mezzo delle lingua propria a ciascuna di esse; che il buono e utile che in ogni terra si produce dehha poter essere goduto senza distinzione dall' universalità degli uomini; che anche noi dobbiamo ricercare con desiderio, ricevere con riconoscenza e cambiare con emulazione i frutti dell' ingegno sotto a qualunque cielo si manifestino: ma ben altra cosa sono le nostre condizioni presenti, mentre noi possiamo quasi più leggere il lunario senza darci la briga di apprendere senza indugio una lingua straniera ...
Est modus in rebus, insomma: ma questa massima così semplice e antica, anche nel caso specifico si rivela estremamente difficile da applicare nella realtà quotidiana, a causa delle passioni umane e delle circostanze che agiscono sul puro prodotto intellettuale. Accade così che i puristi, cioè i seguaci in campo militare del verbo deJla Crusca (dei quali capostipite è il Grassi, con comprimari - invero più moderati - i capitani Carbone e Amò, il d' Ayala e il Parrilli) tendono ad eccedere nel bandire le voci straniere e in particolare quelle derivanti dal francese (troppo facilmente definite, sic et simpliciter, «francesismi»). Al contrario gli antipuristi (Sponzilli, ma anche i suoi predecessori Stratico e Ballerini) indulgono troppo all'uso di termini non italiani, che spesso con eccessiva facilità accettano, senza tenere nel dovuto conto il lavoro dei puristi . Chi aveva ragione? chi aveva torto? La risposta non è facile da dare. Non lo è né prima dell'esame dei singoli contributi, né dopo; né nella
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Restaurazione, né fino ai nostri giorni. Il fatto è che i secoli XIX e XX l'Italia non è certo alla testa del progresso tecnico e scientifico, della rivoluzione industriale e della cultura in genere: tutto ciò ha ovvi riflessi in campo militare e rende inevitabile - ancorché non desiderabile - il predominio di quanto si pensa, si scrive e si realizza oltr'alpe. I termini stranieri, insomma, più che essere scelti, si impongono nel costume prima ancor che nella lingua, come inevitabile riflesso di un predominio non solo politico e militare, ma scientifico. Volere non è potere: se le innovazioni tecnico-militari più importanti avvenivano all'estero ed erano oggetto d'importazione, come evitarne le ripercussioni anche pesanti sul linguaggio? Il problema si riduceva e si riduce quindi, a una buona difesa del linguaggio, della tradizione nazionale là ove è possibile, combattendo la tendenza ad adottare - per pigrizia o ignoranza - espressioni straniere, anche quando non sono necessarie. Ma pretendere di trovare nella tradizione classica, nell'ipse dixit la soluzione dei problemi del linguaggio, è stata ed è solo un'illusione che condanna a un ruolo marginale i prodotti di simili indagini_ Dopo questi chiarimenti preliminari, prenderemo qui di seguito in esame le caratteristiche generali di ciascun dizionario e - là ove sono disponibili - i giudizi che ne dà la letteratura militare. Ci riserviamo invece di entrare nel merito delle singole voci in tempi successivi e in sede di esame degli argomenti di più specifico interesse strategico.
Le due principali e contrapposte opere di riferimento comune (vocabo-
lario dello Stratico - 1813 e dizionario militare del Grassi - 1817/1833) Il primo della serie, il Vocabolario di marina del professore emerito Simone Stratico, sotto taluni aspetti è un caso a sé stante. Lo Stratico non appartiene a uno dei due poli della cultura militare del tempo (quello piemontese e quello napoletano) e - in senso stretto - nemmeno al ceppo lombardo, anche se il suo vocabolario è edito a Milano: è piuttosto esponente della cultura veneta, la quale non può non essere prima di tutto marittima e tendenzialmente cosmopolita. In secondo luogo il suo approccio non è esclusivamente - o prevalentemente - militare, ma riguarda l'arte del navigare in senso lato, nella quale al tempo è difficile distinguere bene il «militare» dal «civile», e marina militare e mercantile sono considerati una sola cosa: ragione non ultima, questa, della dicotomia a11ora esistente tra arte militare e arte del navigare. Quest'ultima non viene comunemente considerata come facente parte dell'arte de11a guerra, anche se in essa la parte militare ha il dovuto rilievo, che cresce nel tempo.
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Lo Stratico a ragione indica la necessità di riempire un vuoto, perché nel vocabolario della Crusca «sebbene alcune voci siano state desunte dall' uso, la maggior parte però si volle autorizzata da scrittori italiani riguardati per classici. Ma pochi sono i classici i quali abbiano scritto di qualche arte meccanica ...» .38 Il secondo dato di fatto del quale lo Slratico è costretto a tenere conto, è l'esistenza di un distinto linguaggio marino solo parlato, corrispondente alle quattro principali marine italiane (la veneta, la genovese, la napoletana e la toscana). Ciascuna di queste ha un proprio diverso linguaggio. Perciò molti vocaboli per indicare lo stesso oggetto sono diversi e molte frasi ancora; e alcuni se ne sono adottati dalle altre nazioni, secondo che portò l'occasione dé commerci più o meno frequenti con esse; alcuni si sono alterati per forza della pronuncia. A questa varietà provveder può un vocabolario in cui le voci siano definite e riferite alle voci d'altre lingue come la francese e l'inglese, le quali hanno libri di quest'arte, e costanza maggiore nella significazione dei vocaboli.39
Con queste parole lo Stratico riassume i criteri che guidano la sua opera: compilare il primo vocabolario italiano capace di unificare - ricorrendo all'occorrenza a voci straniere, perché in Francia e Inghilterra vi sono già opere del genere - il diverso linguaggio delle marine italiane. Egli - anche se non lo ammette esplicitamente - ha l' aria di privilegiare le voci della marina veneziana, se non altro perché «è certo che fu celebre per le navigazioni, per le azioni di mare, per la costruzione dé navigli, pel suo arsenale, per l'ingegno deì suoi artifici; ed è evidente eh' essa ebbe ed ha un linguaggio marino in tutta l'ampiezza dell'arte ... ». Sull'opera dello Stratico si riflettono le sue esperienze multidisciplinari e cosmopolite. Non è un marinaio ma un dotto dai vari interessi: laureato in medicina e chirurgia a Padova e insegnante della stessa materia in quella famosa Università, fa parte di un'Ambasceria de lla Repubblica Veneta in Inghilterra, dove si ferma a studiare gli usi e costumi locali; insegna poi matematica e navigazione a Padova e nautica a Pavia; si occupa di lavori idraulici per il ducato di Modena ed è Ispettore generale delle acque e strade del napoleonico Regno d ' Italia. Anche l'approccio a1 linguaggio dei naviganti di un medico che finisce con l'occuparsi di navigazione non può che essere cosmopolita: gli 38 S. Stratico, Vocabolario di marina in tre lingue, Milano, Stamp. Reale 1813, Voi. I, p. IV. 39 ivi, p. V.
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è estraneo qualunque afflato nazionale, dunque non concepisce alcuna forma di «chiusura» nazionale e classica. Oltre che il Dizionario enciclopedico dell' Alberti, indica tra le sue fonti principali di riferimento il Vocabolario di Marina del Lescallier (terza edizione 1798), il Dizionario francese di Romme, il Dizionario di Marina in lingua tedesca del Roding, il vocabolario inglese-francese e francese-inglese pubblicato in Londra nel 1799 da un capitano marittimo inglese, che anch'esso ha come riferimento il Lescallier. Prende atto dell'esistenza di alcune voci derivate da altre lingue - e particolarmente dalla francese - che sono comunemente preferite nell'uso alle originali italiane; non intende peraltro reagire più di tanto a questo fenomeno, perché «ognuno il quale consideri una lingua già formala facilmente si persuade che nell'assegnare i vocaboli agli oggetti, alle azioni, alle idee, agl'istromenti ebbero gli uomini sempre un motivo che li determinò». Di conseguenza, per lo Stratico la formazione del linguaggio di marina deriva da vari influssi, compresi quelli dei diversi dialetti: tanto più che «il linguaggio di marina di ciascuna nazione sente più degli altri l'influenza delle lingue slraniere, perché le navigazioni lo avvicinano alle più dislanti». Questa constatazione, e la scelta dei vari dialetti come fonte privilegiata anche se non scritta, sono tali da collocare lo Stratico in ... rotta di collisione con quella della Crusca. Ma - in contraddizione con tutto il resto - egli sente il bisogno di precisare che «io non ho registrato alcun vocabolo pel quale non abbia trovato qualche autorità o di uomini dell'arte o di vocabolarj italiani, o dei pochi libri che di questo argomento abbiansi in italiano».40 Precisazione della quale riesce difficile individuare la causa, visto che qualche riga più sotto - con lodevol~ modestia, ma pur sempre in contrasto con l'immutabile ipse dixit della Crusca, - lo Stratico presenta la sua opera come work in progress che potrà tener conto nelle edizioni successive di tutte le osservazioni, le aggiunte o spiegazioni che verranno fatte, in base a nuovi libri «di teoria e pratica navale» e a nuove descrizioni di viaggi. I contributi saranno, comunque, più utili, «se si avrà l'attenzione di apporvi gli equivalenti vocaboli francesi e inglesi, appresso le quali nazioni con vocabolari, ora ben fatti, le significazioni sono più assicurate». E siccome l'arte di navigare è nota a pochi, non vi sono che i marinai (cioè gli «addetti ai lavori»: non i dotti) che hanno il diritto di giudicare lavori del genere, accordando nella pratica quotidiana la preferenza a talune voci invece che ad altre.
40
ivi, p. IX.
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Non si potrebbe essere più lontani dallo spirito elitario e autoritario che anima gli Accademici della Crusca: lo Stratico sembra comunque sensibile a una rinascita nazionale, 1à ove auspica - in chiusura - che la scienza navale (da lui indicata solo come «grande, meravigliosa, fertile delle più belle ed elevate indagini geometriche, meccaniche, idrodinamiche, per la costruzione, per la manovra, per il pilotaggio e per l'idrografia») possa essere coltivata anche in Italia con particolare attenzione, e che «la nazione italiana feconda d'ingegni, la quale con i lunghi viaggi marittimi e con la scoperta di paesi da prima conosciuti si è cotanto dislinla, sia per conseguire anche nella sdenza della Marina quel1a celebrità che acquistò e conserva nelle altre scienze dà suoi sommi uomini coltivate e promosse» (da notare che qui mentre lo Stratico qui parla di scienza navale, in altra parte de] proemio dell'opera - p. IV - accenna ali' arte navale, attribuendole lo stesso significato). Sul vocabolario delJo Stratico possediamo due giudizi molto diversi: quello del d ' Ayala nella sua bibliografia del 1854, e quello dello Stieca nel suo libro del 1912. li d' Ayala lo stronca: «gran danno alla purezza <ldla lingua [venne] da codesto dizionario; poiché venuto quasi in mezzo a fare autorità, ha aperto la via ai vocabolaristi d'insozzare l'opera loro di vocaboli forestieri o corrotti». Citando il Dizionario istorico, teorico e pratico di marina del francese Savarien (tradotto a Venezia nel 1769 da Gio. Battista Albrizzi, e giudicato da Stratico - non si sa perché - «non corrispondente a1l'aspettazione»), il d' Ayala si meraviglia anche che lo Stratico «abbia rifiutato certe buone voci italiane, che l' ignoto [nel senso di poco conosciuto, poco famoso - N.d.a] traduttore aveva dato alla marineria italiana notando le parole ch'erano all'uso veneziano».4 1 Lo Sticca non prende chiaramente posizione, ma - pur senza smentire il d' Ayala - è di lui più ben~volo: «del suo Vocabolario di marina, italiano, inglese e francese, sentenziò severamente il ù ' Ayala essendo introduttore in Italia di corrotte esotiche voci; nondimeno è opera che richiese fatiche innumerevoli e non comune coltura». 42 Giudizio, quest'ultimo, che oggi ci sentiamo di sottoscrivere, aggiungendo che - specie se si considera l'anno di uscita del vocabolario (1813) - lo Stratico, oltre ad avere il merito di aprire un'età feconda quanto mai di dizionari e di stabilire un primo riferimento per i lavori successivi nella branca trattata e specie in quella militare, fa opera unificante dei diversi linguaggi marittimi italiani e quindi getta anche le basi dell'unità nazionale in campo marittimo, unità che al momento per ra-
41
42
M. d' Ayala, Bibliografia .. (Cit.), pp. 178-179 e 375. G. Sticca, Op. cit., p. 180.
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gioni politiche, tecnico-industriali e culturali non può evitare di guardare all'estero ed è - se mai - più lontana sul mare che in altri settori. Dall'uscita del vocabolario dello Stratico alla comparsa della prima edizione del dizionario del Grassi passano solo tre anni: eppure il salto è lungo e l'ottica totalmente diversa, così come diverse sono la sede e la matrice culturale. Pur essendo il primo ad occuparsi specificamente del linguaggio militare e solo del linguaggio militare, anche il Grassi come lo Stratico è un dotto e un civile, e come lo Stratico non ha alcuna pratica militare, né è uno studioso di arte della guerra: questo gli verrà fatto molto pesare. Per altro verso, iI Grassi per linguaggio militare - diversamente da quanto avviene oggi - intende solo il linguaggio della guerra terrestre: i vocaboli relativi alla guerra marittima sono quasi totalmente ignorati nella sua opera. Questa non è una scelta consapevole, ma istintiva e naturale, né va vista come riflesso della scarsa importanza attribuita dai Governi italiani del tempo alle cose di mare. Si tratta piuttosto dell'accettazione automatica e pacifica, anche se non troppo chiaroveggente, del principio allora comunemente accettato della non appartenenza della guerra sul mare a quelle che al tempo viene comunemente intesa come arte militare o arte della guerra. La sua opera ha una prima caratteristica che la distingue da tutte le altre coeve: viene pubblicata in due edizioni (1817 e 1833) della quale la seconda esce postuma, dopo il decesso dell'autore avvenuto nel 1831. Ci troviamo di fronte a un classico work in progress, il cui autore non cessa mai di perfezionare il lavoro iniziale e identifica la sua vita con la sua opera: vale dunque anche il contrario, e fin da adesso si tratta di stabilire in che misura la seconda edizione si differenzia dalla prima, visto che le differenze devono pur esistere. L'obiettivo che il Grassi indica nella prima edizione 1817 è chiaro e univoco, ma estremamente ambizioso e difficile da raggiungere nella realtà quotidiana degli eserciti italiani del tempo. Le parole traboccanti di fede e sdegno che si trovano nella «Ragione dell'opera» che precede l'edizione 18 I 7 costituiscono un messaggio unitario e nazionale ancor prima che scientifico, messaggio che poteva essere recepito nella pratica quotidiana solo se gli ufficiali dei vari eserciti italiani sentivano un comune imperativo morale, di forza sufficiente per realizzare nella vita quotidiana il distacco da quel «modello» francese, che con le guerre napoleoniche avevano fortemente assimilato, fino a farne l'unico elemento unificante. L'Italia - egli dice - è stata la prima a possedere e insegnare la scienza delle armi e della fortificazione, che non ha potuto perfezionare perché, negli ultinù secoli, è caduta sotto il dominio stramero:
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funesta vicenda per cui la nostra dottrina, ed i vocaboli nostri da noi dimenticati, passando per le mani altrui, e ritenendo dalla forma natìa quanto basta a farli ravvisare, tornarono a noi come nuova, e preziosa merce, e da noi vennero con amplissimo dono accolti, ed onorati! A ritirare pertanto da questa indecorosa necessità gli ufficiali italiani, che bramano di conoscere tutta quant'è la teorica dell'arte militare, ed a tornargli all'onorata carriera battuta dai loro maggiori, ho creduto di dover rivocare alla luce tutte le parole militari già usate nei passati secoli dai nostri antichi Scrittori, ed offrirle loro in cambio di quelle, che invalsero pur troppo a questi di fra noi, raccogliendole in un Dizionario universale di scienza, e di disciplina militare [ ... ] Se al solo bisogno si ponga mente di fornire per ora vocaboli italiani equivalenti per ogni rispetto alle parole militari francesi, che pure sembrano ai più non solo acconce, ma uniche, io porto ferma credenza d'averne trasandati assai pochi, e questi forse non affatto necessari.43
Accanto allo scòpo, nell'edizione 1817 il Grassi descrive anche le difficoltà che ha incontrato e la metodica seguita. Le «forti difficoltà» sono state due: primo, trovare nella nostra lingua dei vocaboli adatti per indicare tutti i particolari moderni della scienza della milizia, che è molto progredita e cambiata da quando la lingua italiana ha smesso di trattare cose militari; secondo, trovata la parola, modificarne l'anti.c o suo significato, che a volte non è più lo stesso in relazione ai progressi del!' arte della guerra. 11 conseguente procedimento seguito per individuare i vocaboli è basato sulle fonti della Crusca e sugli autori classici, peraltro opportunamente integrati con altri apporti. Sono ammesse nel vocabolario: 1) tutte le parole registrate nel Vocabolario della Crusca, nel loro significato militare originale «quando questo è giusto e preciso» [il che equivale a dire che, per il Grassi, non tutti i significati allribuili Jalla Crusca ai vocaboli militari vanno presi come oro colato - N.d.a] ; 2) le stesse parole della Crusca, nel loro significato più moderno; 3) i vocaboli e modi di dire militari usati «dagli Autori Classici di lingua», anche se non registrati nel vocabolario della Crusca [che, dunque, per la parte militare aveva delle lacune - N.d.a]; 4) le parole militari contenute nel Dizionario Enciclopedico dell' Alberti; 5) «le parole così dette lombarde, sempre che bo trovato mancare la voce propria toscana, e quando questa è affatto disusata»;
43 G. Grassi, Dizionario Militare Italiano, Torino, Dai Torchi Ved. Pomba e Figli 1817. pp. XIV-XV.
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6) le voci antiche, e considerate da molti in disuso. Questo sia per facilitare agli studiosi dell'arte militare la comprensione dei nostri scrittori antichi, sia per dimostrare quanto siano numerose le parole militari italiane, e come da queste derivino in gran parte quelle delle altre nazioni; 7) i vocaboli e modi di dire usati dagli «autori militari italiani di sonuna Autorità», anche se non citati dalla Crusca. Poiché i vocaboli di un'arte assumono il loro vero valore dal modo con cui sono impiegati dai maestri dell'arte stessa, nel vocabolario sono richiamati i vocaboli usati dal Davila e dal Montecuccoli, autori italiani «di fama immortale» [che la Crusca nella prima edizione del suo vocabolario non cita N.d.a]. Infine, «non trascurai di attingere agli storici nostri, che di cose di guerra con tanta facondia parlarono», e per dare alle parole il loro esatto significato «presi per guida [... ] i più accurati scrittori sì Italiani, che Francesi, e fra questi ho avuto principalmente di mira i più recenti, siccome que11i, che più chiaramente, E più appositamente degli altri la vera essenza dell'arte dimostrano; ammaestrati dalla terribile esperienza delle guerre [quelle della Rivoluzione e napoleoniche - N.d.a.] nelle quali si trovò per tanti anni involta la Francia ... ». Così gli autori rrùlitari francesi, cacciati dalla porta, rientrano in forze dalla finestra; e più in generale, questo programma iniziale del Grassi, basato sulla Crusca ma solo finché possibile e aperto a tutte le altre voci, sembra quanto di più ragionevole ed elastico possa esistere, almeno per un autore che vuol raggiungere un obiettivo fin troppo ambizioso mantenendosi fedele ai principì della Cmsca. In quale misura il Grassi nel 1817 raggiunge questi obiettivi, e quali sono le differenze d'impostazione e metodologiche tra l'edizione del 1817 e I 833? Prima di rispondere a questa domanda, ci preme mettere in evidenza una sua prima importante acquisizione: il progresso tecnico da una parte spinge a creare nuovi vocaboli (dove il conio più autorevole che finisce con l'imporsi - è sempre quello della nazione al momento militarmente predominante) e dall'altra provoca graduali trasformazioni del significato di vocaboli antichi che - per così dire - rimangono in servizio ma mutano in profondità i loro contenuti, con leggi e in base ad esigenze tutte da scoprire e verificare ma sempre con profondi sottofondi tecnici, funzionali e pratici. In questo caso, il dotto e il linguista più che suggerire o creare devono limitarsi a prendere atto; studiare i mutamenti di significato dei vocaboli è anche la via più sicura e meno controversa per stabilire la reale evoluzione dell'arte militare. La prima edizione del dizionario è una presa di coscienza di questo genere di problemi e un primo tentativo per risolverli. Caso abbastanza
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raro, è il Grassi stesso, nella prefazione alla seconda edizione 1833 e in due pregnanti saggi sull'Antologia di Firenze del 182844 a indicare i limiti della prima edizione de11'opera e le conseguenti finalità della seconda edizione 1833. In particolare, nel messaggio «Ai leggitori» che precede quest'ultima egli afferma:
f nel 18 I 7 - N.d.a.] giudicai dovere di buon cittadino di sottentrare animosamente, e come per mc si poteva, al difficil carico di mostrare quanto questa lingua tacciata a torto di scarsezza, potesse ampiamente supplire al hi sogno, e ridivenire la maestra dell ' armi, come già era stata, non che d'ogni altra umana istituzione; ma il tempo premeva e non mi lasciava campo a penetrare in tutli i più riposti tesori di essa, né forse il risuscitarla nelle antiche sue forme sarebbe stato in quei primi momenti o pera efficace né accetta: conveniva raccogliere voci che tanto pel suono quanto pel significato riuscissero di facile maneggio a chi doveva adoperarle. e venissero a sostituirsi senza troppo diversiti\ :1lle francesi. Quindi nel compilare frettolosamente un Dizionario Militare Italiano, io mirava anzi a tutto alla moderna milizia ed agli uffizi suoi, lasciate in disparte quelle ricerche filologiche, quelle indagini critiche, che troppo mi avrebbero distratto dal mio scopo, e mi avrehhcro certamente deluso del frutto che io augurava alle mie fatiche. Ben sent iva nel condurla quanto arrischiata fosse l'impresa, qmuuu di versa e lontana da quelle regole che ogni buona letteratura prescrive a siffalla maniera di lavori; ma mi era pur presente al pensiero che i doveri di cittadino sono ben altramente importati di quell i del letterato, e che alle misere gloriuzze che promettono le lettere sono sempre da preferire quegli obblighi che stringono ogni anima ben nata alla sua terra natìa. Con questo sentimento indirizzai l'opera del suo termine col sussidio di pochi appunti presi prima, e di molti ricordi , anziché di citazioni e di chiose ch'io non poteva n6 rnu;ugli1.:11.: né ordinare: desunsi per lo stesso motivo una gran parte delle definizioni dagli scrittori italiani e francesi che mi si appresentavano per via, e coll'indicare la ragione del mio procedere ne lla prefazione, mi credei sciolto per allora da ogni carico colla sicurezza di sdebitarne ampiamente col tempo, e con quel falcone della gioventù che mi volava dinanzi. Era il fine dell' anno 1816 quando l'opera già terminata molti mesi prima venne alla luce, e dal giorno stesso in cui comparve posi mano alla seconda. Intanto l'effetto consuonava col disegno, il problema della capacità delle lingua era risoluto, ed
44 G. Grassi, Del nuovo Dizionario Militare Italiano, «Antologia» (Firenze) n. LXXXXI - luglio 1828, pp. 88- l 04 e Id., Saggio di alcune voci estratte dal nuovo Dizionario Militare Italiano, «Antologia» n. CXCIII - settembre 1828.
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abbattuto l'errore dei tanti che la negavano; il suo rapido spaccio ne attestò il bisogno più che la bontà, e le lodi che ne vennero da ogni angolo d'Italia mi furono sproni acutissimi a meritarle, poiché io ne vedeva più d'ogni altro gli errori, e più me ne mordeva l'amor proprio quanto più ne scorgeva le imperfezioni. A fare ammenda di questi errori, cui la sola intenzione poteva scusare, mi deliberai con fermo proposito di ripigliare tutta quanta la materia appartenente all'arte militare antica e moderna, e a darle quella forma che meglio si convenisse coll'indole dell'età presente e collo stato di quest' arte istessa, quindi mi feci alla milizia greca, poscia alla romana, e scendendo con questa sino ai secoli di mezzo, ricercai gli usi nuovi che colle nuove parole s'introdussero a quel tempo in Italia, e seguendo a passo a passo i progressi dell'italiana civiltà, venni finalmente alla milizia moderna, la quale non avrei potuto credere intieramente dichiarala quando non l'avessi condotta fino ai tempi nostri. La base che io piantava al mio lavoro era tale da spaventare colla sua vastità ogni animo, che meno del mio fosse acceso dal desiderio di ben fare, e meno punto dalla coscienza di aver mal fatto. 45
li I 828 è un anno importante per il Grassi. Nei due saggi sull'Antologia che prima abbiamo citato, egli annuncia che il lavoro di revisione della prima edizione è onnai ultimato, e fornisce ai lettori amò di esempio un primo estratto del testo del dizionario; nello stesso anno 1828 viene nominato socio corrispondente dell'Accademia della Crusca. A questo punto, se si tiene conto che non ha il conforto di vedere pubblicata l'opera che riassume la sua vita ma muore nel 1831 due anni prima che essa veda la luce, sorgono parecchi interrogativi. Bisogna prima di tutto chiarire bene il suo rapporto con la Crusca, della quale - come si è visto - entra a far parte solo tardivamenle, quando ormai l'opera sua è compiuta ed è onnai malato e vicino alla morte. Secondo, occorre chiedersi perché il nuovo dizionario - da lui dato come ormai ultimato nel 1828 esce solo dopo cinque anni. Sarebbe errato e semplicistico considerare il Grassi come alter ego militare della Crusca: senza dubbio egli ne condivide costantemente i principì puristi e 1' orientamento antifrancese, che al momento è anche un'opzione politica della monarchia sabauda (non senza contraddizioni, perché il linguaggio dell'amministrazione piemontese della Restaurazione - e anche dopo - continua a lasciare larghi spazi al francese). Ma quando si tratta di passare dai principì alla loro pratica applicazione nel 45
G. Grassi, Dizionario Militare Italiano, Napoli, Tramater 183.'i, pp. 8-9.
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linguaggio militare, il Grassi è molto più elastico di quanto gli Accademici della Crusca possano ammettere, e né su1l'Antologia, né nella prima né nella seconda edizione egli trascura di mettere in evidenza le lacune del loro vocabolario e la impossibilità di far fronte - con il solo armamentario classico - alle nuove esigenze che il progresso tecnico ha crealo. Vanno quindi respinte le accuse - riportate anche dal Quarenghi46 che gli vengono dal suo più acerrimo avversario, l' uffici ale napoletano delle Armi tecniche Francesco Sponzilli, secondo il qua le il Grassi non sarebbe mai stato un convinto puri sta e tale sarebbe diventato - solo per opportunismo - dopo la sua ammi ssione della C rusca. Per quanto abbiamo detto prima, questa ammissione è solo un riconoscimento tardivo, che testimonia la sua indipendenza e avviene quando ormai egli ha compiuto la sua missione. Piuttosto bisogna c hiedersi: nei s uo i scritti del 1828 il Grassi è meno purista o più purista de l 18 17? i tre anni che passano dal 1828 al 1831, sono forse su1ti da lui impiegati per ulteriori modifiche e ampliamenti del lavoro, in scns() magari p11ri s1a? Una risposta certa e univoca non è possibile. Si no ta, comunque, che nel citato messaggio «Ai leggitori» c he precede la seconda edizione 1833 manca l'accenno alle «parole così dette lombarde" , in sostituzione delle parole della lingua toscana, mancanti o cadute in disuso. TI Grassi parla piuttosto, come completamento della C rusca, dei «dotti di Verona». E dopo aver manifestato - sempre ne ll 'edizione 1833 - l'intenzione di «abbandonare la via di salire dalle paro le al le cose, e scen. dere da1le cose alle parole» (naturalmente, solo quando no n c'è altra possibilità), si preoccupa di assicurare che estendendo l' indagine agli autori al momento non citati dalla Crusca (come il Davila, il Montecuccoli, il Bentivoglio, e anche Biringuccio da Siena, «creato re de lla metallurgia in Italia»), ha trovato tutto quanto gli serviva, tanto più che «innumerevoli sono gli scrittori italiani che trattarono partitamente l'arte militare principalmente nel secolo XVII, dei quali nessuna menzione viene fatta dalla Crusca, che pure di quest'arte dove va tenere gran conto» . Per contro, nella seconda edizione manca l'accenno ai «più accurati» e «più recenti» scrittori italiani e francesi consultati per dare alle parole italiane il significato più appropriato in relazio ne a i progressi dell' arte militare (con particolare riguardo alle guerre della Rivoluzione francese e di Napoleone, il che non è poco perché in tal modo si escludono i riflessi linguistici delle guerre di fine secolo XVlll - inizio secolo
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XX). Degli autori francesi più recenti non si parla proprio, e nel 1833 tra gli scrittori italiani coevi il Grassi cita il Botta (molto criticato da altri per il suo linguaggio involuto e antiquato) e il poeta Monti suo amico. Nel testo si trovano peraltro riferimenti anche al Colletta (citato nella prefazione degli Accademici all'edizione 1833 tra coloro che il Grassi avrebbe voluto ricordare) e al Pindemonte. Tutti scrittori militari marginali e occasionali, che ben poco - riteniamo - potevano offrire a] Grassi in materia di linguaggio militare tecnico e aggiornato. Dei pur numerosi dizionari o vocabolari italiani dei secoli precedenti, lra i nuovi autori che il Grassi cita nel 1833 figura solo il Dizionario militare storico-critico del Soliani - Raschini, edito a Venezia nel 1759, opera che peraltro ritiene troppo dipendente da autori francesi e che anche il d' Ayala non giudica positivamente.47 Diverso è il giudizio dello Sticca, per il quale il dizionario in questione è pur sempre «uno frà migliori, sebbene censurato come infranciosato e arbitrario, dal Grassi, che pure a suo dire vi attinse copiosamente».48 In chiusura del suo messaggio ai lcltori dell'edizione 1833, il Grassi sente anche il bisogno di ribadire di aver avuto come scopo principale di accertare la legittimità [quindi: non la praticità, la convenienza, la necessità - N.d.a.J dell'uso dei singoli vocaboli e il loro corretto impiego, «seguendo in questo la regola stessa dei vocabolaristi della Crusca, i qual i per le voci particolari di questa o di quell'arte non dubitarono di accostarsi alle autorità dé maestri che le avevano trattate, benché di rozza e informe dicitura». In realtà sono ben rari i casi in cui la Crusca indulge a voci di maestri «di rozza e d'informe dicitura»: anzi, per quanto riguarda l'arte militare, questi casi sono praticamente inesistenti. Questa protesta di fedeltà ai valori de1la Crusca sembra più che altro una captatio benevolentiae, un tentativo di attenuare con una adesione solo formale il chiaro riconoscimento - espresso nelle pagine precedenti - della necessità di uscire dal ristretto circolo dei «più puri e illustri scrittori» indicati dalla Crusca che - questo bisogna sottolinearlo - ammette anche autori per così dire popolari, ma solo se toscani: dunque non autori minori o autori e specialisti militari in genere e - spesso - nemmeno le voci militari di autori illustri. Per altro verso sull'Antologia nel 1828 egli esalta il primato della parlata toscana come cemento unificante del linguaggio italiano, fino a cercare «nelle botteghe e officine di Firenze» [quindi: non tra i migliori 47
48
M. d ' Ayala, Bibliograjìa ... (Cil.), p. 375. G. Sticca, Op. cit., p. 181.
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scrittori coevi di altre regioni italiane - N.d.a.] ciò che al momento manca al linguaggio italiano: risulta quindi la necessità di ricorrere ad una lingua generale, nella quale vengano a congiungersi tutti i dialetti particolari, trovandovi ognuno di essi l' interpretazione sincera di tutti i vocaboli rispettivi; e se questa lingua universale, che dovrebbe servire di turcimanno ai varii popoli d'Italia, non bastasse al bisogno per difetto di buone scritture che abbracciassero tutte le minutissime parti della milizia, ne mme no in questo caso non si potrebbe dare autorità alle voci particolari di questo o quello Stato; però che ridotta la questione ai dialetti d'Italia, non si può senza far torto alla ragione contendere il primato al toscano; in questo si avranno a cercare le voci mancanti della lingua, ed ove i libri di scrittori illustri vengono meno nelle cose tecniche, le officine e le botteghe di Firenze assumono I' incontrastabile diritto di fornire alla lingua universale d ' Italia quello che nelle arti e nei mestieri I~ mam:a.49
Nella prefazione alla prima edizione 1817, il Grassi prendendo come riferimento il vocabolario della C rusca riconosce implicitamente il primato della ristretta cerchia di autori toscani che costitui vano il serbatoio della Crusca e quindi anche della lingua, ma omette una marcata esaltazione in chiave unitaria ùi tale lingua; soprattutto parla sempre ecomunque di autori (toscani e non) e mai di botteghe e officine. Un'altra differenza è riscontrabile nel peso e nello spazio delle citazioni e degli esempi. Nella prima edjzione - che ha finalità eminentemente pratiche il Grassi afferma: «non ho creduto oppo1tuno, scrivendo principalmente per gli uomini rrulitari, di abbondare di citazioni , ai dotti, ed agli indotti superflue del pari. Fui parco d'esempi ... ». Opposto l'orientamento della seconda edizione 1833, dove una volta divi se alfabeticame nte le voci «ed accennata quella parte del discorso, alla quale si ri feri scono, le corredai delle loro sinonime latine e francesi, poi di una defi nizione o spiegazione secondo che il tema mi pareva richiedere, accertandole con uno, con due e fino a tre esempi d'aulori italiani, con questo riguardo che tutti i paesi citati fossero di cose militari. Ho cercalo aJtrcsì di spa1tire esattamente tutti i varii significati per forma che da l primiti vo e naturale si scenda naturalmente ai figurati e derivali, dall'antico a l moderno, dal disusato al corrente, dall' ambiguo ed oscuro al sic uro e franco»50 (è, questo, anche i I metodo seguito nel vocabolario del la Crusca).
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G. Gras~i, Del 1111Mo Dizionario ... (Cit.). 1828. Grass i. Dizionario .... 1833 (Cii.), p. 11 .
50 G.
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Raccordando insieme questi elementi sparsi si può concludere che, nonostante tutto, l'intelaiatura della seconda edizione 1833 pur superando come nel 1817 il ristretto e dotto cerchio di autori classici della Crusca (cosa inevitabile) finisce col rivelarsi più purista e più vicina alla Crusca de1la prima edizione, fino a far ritenere il nuovo dizionario non come un'opera in qualche modo da contrapporre alla Crusca, ma come il suo necessario e armonico completamento in una branca fin da allora ritenuta specialistica, tecnica e soggetta a norme ed esigenze particolari. Non si spiegherebbe altrimenti il mancato spaz10 dato dalla Crusca ai pur celeberrimi scrittori militari nei qua1i si riflette il primato dell'arte mi1itare e della fortificazione italiana specie nei secoJi XVI e XVII. È ora possibile fare alcune considerazioni su ciò che avviene nel periodo dal 1828 al 1833. Non è da escludere che, per quanto detto prima, il Grassi dopo la sua ammissione alla Crusca nel 1828 e fino alla sua morte nel 1831 abbia cercato di approfondire ancora il suo lavoro, rendendolo per così dire più toscaneggiante e ampliando esempi e citazioni. Dopo il 1831, come risulla <lal messaggio degli editori «a chi legge» che apre l'edizione 1833, le «schedule» del Grassi passano agli Accademici delle Scienze di Torino (Cav. Cesare Saluzzo - Cav. Carena - Abate Gazzera - Cav. Omodei), che s' incaricano di portare a compimento la sua opera e di darla alle stampe (cosa che, evidentemente, nonostante il suo annuncio del 1828 non aveva ancora fatto il Grassi). A loro dire, gli Accademici decidono di dare alle stampe il testo del nuovo dizionario così come è stato lasciato, apportando solo le seguenti variazioni: 1°) sostituzione di talune schedule mancanti alla seconda edizione, con parole tratte dalla prima edizione del dizionario; 2°) eliminazione di alcune voci francesi «visibilmente sbagliate», che non corrispondono alle voci italiani riportate nel dizionario; 3°) eliminazione dei manifesti errori degli amanuensi, ai quali il Grassi era stato costretto ad affidarsi dal 1823 in poi, avendo perduto in quell'anno la vista. Per ultimo, gli Accademici dichiarano di aver «adattato» a Prefazione o messaggio «Ai leggi tori» dell'Edizione 1833 il primo dei citati saggi' sull'Antolof(ia 1828, peraltro trascritto solo in parte e ridotto «a tal lezione che meglio si confà a1lo scopo della presente opera». Merita di soffermarsi sugli adattamenti così apportati al saggio del 1828, che sono di natura tale da risultare arbitrari e da togliere una parte importante dei contenuti di tale saggio. Anche se gli Accademici rifiutano esplicitamente l'aggettivo «arbitrario» per il loro intervento, rimane il fatto che nell'edizione 1833 mancano tre parti essenziali del saggio: a) il citato accenno a1 ruolo unificante e a1 primato della lingua toscana, di fronte alla quale devono cedere i dia1etti e gli autori per così dire regio-
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nali ; h) In conseguente preferenza per il linguaggio delle officine e botteghe toscane: c) come meglio vedremo in seguito, la replica del Grassi a talune critic he che vengono mosse alla prima edizione del dizionario, critiche sig nificativamente provenienti da ufficiali non piemontesi. Sullo sfondo di questa discutibile operazione probabilmente si trovano ragioni di contingente opportunità politica, che fanno preferire in Piemcmt ·. al momento, quell'impronta antifrancese che va bene anche all'Austria e fanno ritenere invece poco opportuno o pericoloso il richiamo all ' unità nazionale, che l' unificazione del linguaggio prepara e in certo senso anche presuppone. No n si può essere troppo severi con il Grassi: al di là di Limiti, errori , contraddizioni e compromessi con il potere e con la Crusca, non gli si può negare una visione unitaria e nazionale del problema del linguaggio, e anc he il richiamo all 'antichità classica funziona in questo senso, perché è lì e solo lì il cemento unificante morale. Tutto sommalo, gli errori e le omissioni delle quali fuor di dubbio è costellata la sua opera sono comuni a lavori <lei genere, spec ie in quel periodo e specie nella prima edizione, e gli vengono fatti pesare più del necessario. Il francese rimane il suo riferimento costante, quasi un'ossessione: e anche nella seconda edizione del dizionario a fianco di ogni voce italiana, viene riportata quella francese. In fondo a tale edizione, vi è anche un «Indice alfabetico delle parole francesi le quali hanno il vocabolo italiano equivalente nel dizionario»: con siffatte caratteristiche. In tal modo il lavoro del Grassi assomiglia molto a un diziona rio italiano-francese. Ci sentiremmo comunque di condividere - anche oggi e rispetto all'inglese - i criteri e il programma che egli enuncia nel 1828, basati sulla constatazione delle vaste lacune militari e degli errori della Crusca, fatto da tutti ammesso anche in seguito. Si può dire solo che egli predica bene, ma sovente razzola male; o meglio che chiude la stalla quando i buoi sono ormai scappati, quando cioè molte parole di origine straniera sono ormai entrate nell' uso comune e quindi non possono essere più sostituite da altre italiane, il cui etimo è peraltro non sempre chiaro e la cui aderenza a ciò che si vuol esprimere con un dato termine francese, è non sempre quella voluta o dovuta. Paradossalmente, più che la loro valenza scientifica e lessicale contribuisce a vanificare parecchi tentativi del Grassi proprio la parte di protagonista assunta dopo il 1848 dall'armata sarda, cioè da un esercito dove - nel corso delle guerre d'indipendenza - la lingua francese continuava a dominare anche nelle comunicazioni ufficiali, e rimaneva una sorta di linguaggio dei generali e della nobiltà, dell'élite insomma. In una parola, al pieno successo del tentativo del Grassi si oppongono
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le circostanze, che sono di natura tale da vanificare anche un giusto e nobile impegno. Non ci è possibile, né ci sembra in questa sede necessario, condurre un esame approfondito del testo. Ci basti constatare che (ad esempio) voci di origine francese come corvée, plotone, garitta, esercito permanente, leva in massa, ecc., che il Grassi avrebbe voluto sostituire con voci tratte da autori italiani, rimangono anche oggi nell'uso corrente; e il Grassi non accetta nemmeno la fondamentale voce logistica Intendente Generale dell'esercito/di armata, rimasta in uso anche nel XX secolo. Imperfetto o limitato anche il fondamentale eco linguistico delle guerre napoleoniche e degli ordinamenti che ne conseguono. Manca una corretta definizione di armata, per la quale egli mantiene quella dell'Enciclopedia francese 1754 (moltitudine di uomini, ecc.; sinonimo di esercito, e non anche parte di un esercito a sua volta suddivisa in corpi d'armata). E se la definizione di divisione è corretta, manca il concetto di corpo d'armata (o corpo d'esercito) come autonomo aggruppamento di divisioni. A tutto questo va aggiunto che il Grassi ha il merito di rimediare all' esclusione del Montecuccoli da parte della Crusca, ma non considera, ad esempio, un nome come il napoletano marchese Palmieri. Degli italiani contemporanei, sceglie nomi tutto sommato di scarso peso come il Botta e il Colletta, ignorandone altri (come il Vacani, il Lombroso, il Foscolo ecc.) che forse avrebbero potuto dargli di più. Pur concordemente giudicato insufficiente o non alieno da mende, il lavoro del Grassi rimane riferimento costante per tutti gli studiosi italiani che, da allora in poi, si sono cimentati con la materia da lui affrontata. L'impossibilità di prescindere - anche nel XX secolo - dal suo apporto è il miglior attestato di validità per un'opera che, dopo tutto, non ha potuto veder data a11e stampe come avrebbe voluto: gli Accademici di Torino, come nota il d ' Ayala nel suo dizionario 1841, «dopo lungo considerare con troppa gelosia di amichevoli officii [i manoscritti da lui lasciati N.d.a.] si determinarono di farli pubblici ta1i quali il dotto autore aveali lasciati, non quali li avrebb' egli ridotti».5 1 Lo stesso d' Ayala è con lui benevolo: gli addebita solo «qualche errore», e annota nella Bibliografia 1854 che la seconda edizione del 1833 è «rimasta in qualche parte imperfetta» . Ma pur riconoscendo necessario «apporvi e giunte e osservazioni», ritiene che «vada raccomandato l'uso di un libro, che dovrebb' essere come presidio di colui il quale ne11o scrivere di cose di guerra cerca lode di purgato scrittore».52 51
M. d' Ayala, Dizionario Militare francese-italùmo, Napoli, Tip. G. Nobile 1841 , p. 9.
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ivi.
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Accanto al d' Ayala un altro esponente del polo culturale napoletano, Pietro Colletta, non solo affianca il Grassi nello schieramento purista, ma assurge al ruolo di una sorta di consulente o mentore militare dello stesso Grassi per la compilazione della seconda edizione del dizionario: lo dimostrano le lettere scambiate tra i due nel 1828 - 1829, nelle quali il Colletta gli suggeri sce il significato da attribuire ad alcune voci fondamentali. 53 U Colle tta condivide le posizioni puriste del Grassi e loda l'iniziativa del dizionario, anche se giudica improprio non solo l' uso «senza critica e senza scelta» ùi paruk l"rarn.:csi, ma anche que llo <<di parole antiche non più esprimenti idee novelle», di modo che viene disperso nella lingua italiana «quel non poco, c he pur le rimane di buone voci, atte ad esporre le cose presenti». Ma le difficoltà dell 'opera sono a suo giudizio grandissime: smarrisco a riflettere quanto i11gcg110 e quanta fatica richiede il rappresentare lo stato presente delle scienti' 111ili1:11i e ciella guerra; in che vernmente consiste lo scopo la<.: ilo e il mcritn del dizionario. Pochi scrittori abbiamo di queste materie, cd antid1i; veggo spesso nei moderni adoperati vocaboli che respingono di pili ~ccoli la militare sapienza: e non raramente vedo in altri trasandate e deformate le teorid1e novelle: errori e fatture, che il solo Ji1.iun.1ri\Ì può far Jispatire.
li Colletta definisce il Grassi «cultore di più ri gida dottrina». Lo fa a ragione, perché alla prova dei fatti egli si dimostra assai più c lastico dello stesso Grassi, sempre molto lig io ai classici e alle «autorità». li Colletta invece ammette che esistono molte voci nuove da legittimare: in quanto alle «autorità», egli disinvoltamente pensa c he, se non c i sono, bisogn a crearle . Poiché gli eserciti moderni sono formati di ve rsamente dagli antichi, lo Stato Maggiore, il Corpo del genio, e simili, sono composizioni e nomi nuovi: la legione, bella voce antica può scacciare la moderna, bruttissima divisione; ma la bri~ata non ha, che io sappia, il suo nome dà classici; è nuovo il reggimento; il ba11ag lione ha scambiato senso; lo squadrone è addivenuto proprio alla cavalleria. Non parlo dell' amministrazione militare, nel quale sono sorte molte cariche e voci nuove, importanti [che il Grassi 1833 tuttavia 110 11 cita - N.d.a.]. Tutti i governi d'Italia hanno adottato coteste novità
53
Opere inedite e rare di Pietro Col/ella - Voi. I, Napoli, Stamperia Nazionale 186 1, pp. 499-547.
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nelle leggi ed ordinanze; ma gli scrittori rimangono incerti, e spesso straziando il vecchio e il nuovo, credono dire con modi classici quel che veramente non dicono. Era mio desiderio veder composto un dizionario, che animosamente registrando }e. nuove parole, desse loro cittadinanza italiana, come dai Governi han ricevuto legittimità [quindi, per il Colletta il problema non è tanto e solo di eliminare, ma di scegliere le voci più appropriate e - dopo - renderle italiane anche se non lo sono; non viceversa - N.d.a.].
La discutibile metodica suggerita dal Colletta - prima cercare termini e definizioni appropriati, poi vedere di giustificarli dal punto di vista lessicale - si manifesta soprattutto a proposito delle definizioni di strategia, tattica e topografia, da lui definite «le parti sublimi del mestiere delle armi». Tre termini legati insieme: la tattica dei medesimi è ingrandita: una teorica nuova, col nome di strategia e formule semplicissime, risolve ormai gl'intricati problemi degli eserciti: per essa sono brevi le guerre, men disumane le battaglie, poco importanti le fortezze; in aiuto di lei è stata perfezionata la topografia militare, inventando strumenti, usando nuovi metodi, ed applicando aJle arti meccaniche del disegno le scienze inimitabili e certe della geometria e del calcolo.
Per far sì che questi termini abbiano «il loro linguaggio e il loro monumento» mancano gli esempi: ma poiché questi, nei dizionarii, hanno doppio scopo, cioè chiarire il concetto, e confermarlo per l'autorità, io vorrei crear gli esempi, manifestare al pubblico la licenza, rinunziare al peso dell' autorità, contentarmi di far più chiara la idea, ed aspettar tempo che le imparate parole avessero scrittori e credito.
Concetto, per la verità, un pò troppo elastico e disinvolto, sul quale più avanti il Colletta ritorna ricordando, a mò di giustificazione, che questi esempi per la strategia e la tattica non si trovano negli antichi autori, «perché quelle dottrine sono moderne», e nemmeno nei nuovi, «perché non ancora in Italia ho visto libro militare autorevole». E poi insiste sulla proposta: «se vi piacesse, come io proposi, fabbricar gli esempi per aggiungere chiarezza al concetto, io mi offro a presentarvene parecchie per ambe le voci». Altro che purismo! In una lettera successiva il ColJetta sente quasi il bisogno di giustificarsi, e mostra di credere che anche nell'antichità si trovano validi exempla di tattica e strategia praticate:
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gli esempi sono fabbricati, ma veri, cioè tratti da casi che ho visti o scritti [anche se i casi esaminati sono autentici, sono pur sempre fabbricati - N.d.a.]: sono molti per darvi opportunità di scegliere i meno peggio, e sono disposti ad ordine, acciò facciano con la definizione corpo e dottrina. Biasimerete forse l'autore di averli tratti dalla guerra moderna e più fresca, ma sentite le scuse. Certamente in antico si hanno alcuni esempi di strategia casuale, o per ingegno indovinato; e tanti di tattica quanti, almeno ai dl nostri [...] Ho creduto che si potesse rinunziare al vanto di aver letto Senofonte, Polibio, Adriano, Cesare in grazia di farsi intendere, che è primo debito di chi scrive. Ma se volete di quell'esempi, ve ne darò a sazietà.
V'è da meravigliarsi che il Grassi abbia accettato un simile sodalizio, basato sulla fabbricazione di exempla a posteriori, cioè su una filosofia peggio che antitetica rispetto al purismo (almeno, gli antipuristi non fabbricavano exempla). D'altro canto il Grassi, «dovendo per evitare ogni invidia attenersi a un solo autore fra i viventi che scrissero in prosa le guerre dei nostri tempi», nel messaggio ai lettori dell'edizione 1833 indica tale autore in Carlo Botta e non nel Colletta, i cui brani «fabbricati» sono peraltro citati a proposito delle voci fondamentali: forse se ne vergogna ... In effetti, il Botta nella sua Storia della guerra d'indipendenza degli Stati Uniti54 si dimostra purista convinto e coerente assai più del Colletta, e indica l'impostazione linguistica della sua opera nella scelta di tre categorie di vocaboli che ricordano grosso modo gli orientamenti del Grassi (voci della Crusca; voci omesse dalla Crusca ma usate dagli autori della stessa epoca di quelli citati in prevalenza dalla Crusca, come Guicciardini, MachiavelJi ecc.; infine voci non appartenenti alle prime due categorie ma «dall'uso volgare» d'oggidì autorizzate», come quelle dei proclami e delle:"disposizioni ministeriali). A proposito di quest' ultima categoria, egli è mestrero l'osservare che questa facoltà ha usato l'autore assai parcamente, essendo egli alienissimo dalla moderna corruzione della toscana favella, la quale, come se fosse vecchia, o difforme diventata, molti purtroppo, trasandati i proprj suoi, vestono di panni forestieri.
Con il Botta termina la lista - in definitiva ristretta - dei più illustri puristi militari amici del Grassi. Il Progresso di Napoli, periodico di 54
Parma, Blanchon 1817, Tomo I, pp. Vl-Vm.
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grande prestigio anche in campo naziona]e, nel 1836 dedica alla edizione 1833 del dizionario una ritardata recensione a firma di un non meglio individuato G.P.,55 nella quale çritiche severe sono appena mascherate da lodi formali e da elogi alla metodica seguita in aspetti secondari delJ'opera. Del lavoro si dà un giudizio globalmente positivo, scusandone le lacune con la cecità dell'autore e la sue eccessiva predilezione per il linguaggio fiorentino. E si afferma che il Dizionario Militare Italiano conseguirebbe la completiva numerosità sua, ove un Italiano, che fosse da tanto, imprendesse a trattare un'opera che manca alla nostra Italia, la storia cioè dell'italiana arte militare, Imperrocché gran parte della sua lingua, che giace sepolta negli archivii, sarebbe disseppellita in andar frugando le occorrenti notizie delle patrie consuetudini et instituzioni guerriere. La quale storia della milizia italiana sarebbe la storia originale e primitiva della milizia dell'Europa moderna; chè voglianlo o no gli stranieri, l'Italia, la quale creò tutte le arti della civiltà cristiana, fu anche creatrice di quella delle armi.
Queste parole di tiepido apprezzamento - o meglio di comprensione - per il Grassi, sono accompagnate da un virulento attacco agli Accademici della Crusca, accusati di ricercare - pur che fossero toscane - «fonti ignobili e plebee» anche nel «plebeo titolo da essi prescelto» (appunto la Crusca) e di privilegiare, nelle fonti da loro decretate legittime, «anzi le scurrilità, le quisquilie, diremo ancora le laidure, che le gemme del pensare e del dire». Il recensore dissente anche da Pietro Giordani, il quale in una lettera al Grassi aveva affermato che nella lingua c'è una parte spirituale e viva, le frasi, e una parte materiale e morta, i vocaboli. E poiché «i vocaboli d'arti sono segni materiali di cose morte, morti, son cifre, son cifre algebriche, senza vita né colore, immutabili», si tratta di andarli a trovare dove sono, senza porsi altri problemi. E il Giordani conclude, rivolto al Grassi: «l'opera vostra è questa; né altro debito avete che di guardare se colui dal quale pigliate il vocabolo è del mestiere e lo sapea bene». Persino ovvie le ragioni del dissenso di G.P.: i vocaboli - egli afferma - hanno vita e spiritualità propria come le frasi, e tra il pensiero e i vocaboli con cui viene espresso vi è un' «armonia prestabilita», perché ogni vocabolo porta in sé la sua storia e «i vocaboli tecnici sono per lo più traslati, ossia opere non arbitrarie ma motivate dalle ragioni che hanno spinto ad intendere in una parola più che in un'altra in 55
«Il Progresso» (Napoli) - Quaderno XXV (gennaio-febbraio 1836), pp. 109-145.
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senso diverso dal proprio, e ad adottarla per siffatto uso nuovo. Le voci bomba, schioppo, cannone sono parole non arbitrariamente, bensì con disegno foggiate a contenere e dire la storia della propria originazione ... ». Di qui l'importanza della storia, che «può in qualche modo supplire al vacuo della scienza strategica», e la lode di G.P. per le numerose citazioni inserite dal Grassi nella edizione 1833, che danno la storia e i vari significati di ciascun vocabolo. Dopo l'adesione moderata e molto condizionata dal Progresso di Napoli, vengono le posizioni opposte come quelle del Vacani , autore significativamente ignorato dal Grassi anche nell' edizione 1833. IJ Vacani - date le finalità divulgative della sua opera, diretta ai giovani ufficiali e a tutti gli Italiani - chiede indulgenza «se il mio stile, forse di soverchio libero e negletto, se. te alquanto l'impronta dell'età marziale in cui vivo, e non è sparso della pompa del dire ove vanno giustamente altieri i classici scrittori dei primi secoli italiani». Assicura, però, di aver attinto ad autorevoli fonti come l' Algarotti, il Marini e lo stesso Grassi, e per quelle poche voci che essi non usano, siccome ammette lo stesso trecentista Veronese, quanto a vocaboli e nomi, assaissimi se ne possono aggiungere, poiché le cose nuove debbono dirsi con nuove voci; e che se i trecentisti non le hanno, pigliar si debbono dai moderni. Io direi di più, che se i moderni Italiani non le hanno, pigliar si possono dallo straniero cui fu comune coll'Italia l'originaria lingua latina, o in fine ovunque siansi, purché dall'uso e dai dotti ricevute e ratificate; giacchè sembrami che in quel modo che l'antica Roma non isdegnava trar modelli delle armi donde nieglio il giudicava, così irritar non si debba l'Italia moderna con chi tolga lo straniero idioma alcune poche voci militari ora generalmente conosciute, e che sa forse un tempo proprie di lei pure.56
Le considerazioni del Vacani - che pure è un militare - attengono esclusivamente alle dimensioni che può assumere l'arricchimento delle voci classiche: pur ritenendolo indispensabile il Grassi lo vuole limitato, controllato e comunque sempre ristretto a fonti nazionali, mentre il Vacani lo vede - come il Giordani - senza limiti e esteso anche a scrittori non italiani. Ma la communis opinio che unisce gran parte degli oppositori del Grassi - alla quale aderisce almeno in parte anche il d' Ayala - è 56 C. Vacani (I.R. generale del genio), Storia delle campagne e degli assedi degl'Jtaliani in lspagna dal 1808 al 1813 (1823-1825), 2A Ed., Milano, Tip. Pagnoni 1.845, pp. XXIV-XXVI.
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che di linguaggio militare può trattare solo chi abbia una buona pratica della vita di caserma, solo un ufficiale di carriera insomma. Di conseguenza ·secondo questa corrente di pensiero il Grassi prendeva fischi per fiaschi, per la semplice ragione che era un civile digiuno di cose militari. Queste argomentazioni extra-scientifiche emergono in particolar modo nelle tesi dei due più acerrimi critici della prima edizione del dizionario del Grassi, naturalmente due ufficiali: il maggiore dell'artiglieria delle truppe parmensi Gian Giacomo Ferrari (1819) e l'ufficiale superiore napoletano Roberto de Sauget (1827). In particolare il Ferrari dedica un suo saggio a Vincenzo Monti - notoriamente amico del Grassi anche se non della Crusca - invitandolo a non appoggiarlo e a non dare così autorità alla sua opera, alla quale - «si propongono di attingere gli Editori Bolognesi del Gran Dizionario della lingua italiana».57 Il Monti desta delle speranze nel Ferrari, perché assume una posizione ambigua. Da una parte egli giudica la prima edizione del dizionario del Grassi «ben intesa, ben ordinata, ben scritta» e concorda con quest'ultimo sulle <<piccole omissioni» del suo vocabolario, che lo hanno indotto a iniziare subito la revisione della prima edizione. Dall 'altra polemizza fortemente con la Crusca, pubblica deHe osservazioni al suo vocabolario, la l:hia nrn <<il sinedrio della Crusca» e accusa «gli infarinati dcll' Amo» di non sapere il greco. Non dimostra nessuna simpatia nemmeno per il Fcrrnri: il 10 agosto 1919 promette al Grassi che <<Con La ncetti studieremo il modo di ridurre al silenzio le arroganze del militar piacentino» (il Ferrari era di origine piacentina). Queste osservazioni del Monti confermano che, almeno dal 18 17 al 1819, il Grassi è tutt'altro che totalmente allineato con la Crusca e nella revisione alla prima edizione vorrebbe mantenere una posizione intermedia tra quest'ultima e gli antipuristi. Ma al Ferrnri t111to <jt1Mlo non basta, né egli si cura della Crusca: nel 1819 giudica la prima edizione del dizionario del Grassi «una meschinità e guazzabuglio d' inesauezze e di errori», caratterizzato da «povertà delle voci e fa llacia delle dichiarazioni». In particolare le sue critiche si imperniano su tre aspetti: a) nel dizionario mancano gran parte delle voci tecniche che riguardano l' artiglieria, la fortificazione, la tattica, la strategia, l'amministrazione e la di57 R. De Sauget, Osservazioni al dizionario militare italiano del signor Giuseppe Grassi, Napoli 1827 (opuscolo anonimo, a firma «un ufficiale superiore dell'esercito») e G.G. Ferrari, Al Signor Cavaliere Vincenzo Monti sovra ciò che appartiene alla milizia nel divisamento del grande dizionario della lingua italiana, Piacenza, Tip. Del Majno 1819. Sugli accenni del Monti alla Crusca e al vocabolario del Grassi (J• Ed.) si veda Epistolario di VincenZo Monti - Voi. VI, Milano, Resnati 1842, pp. 304-313.
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sciplina; b) i regolamenti e le istruzioni degli Stati italiani sono «traduzioni servitissime di originali oltremontani», e l'Italia non ha una lingua propria. «Bisogna dunque trarre il militare comando dagli oggetti, dai modi, dai fini delle varie operazioni e vestirlo di foggie nostrali»; c) il Grassi non può compiere questa operazione, sia perché non ritiene opportuno utilizzare i numerosi ed eminenti autori italiani che hanno scritto su materie tecniche (e qui il Ferrari elenca una serie di nomi sconosciuti), sia perché, essendo un civile, è «un orbo che va brancolando», confonde e altera la materia: «Tractent fabrilia fabri». Nel primo dei due saggi sull'Antologia del 1828 il Grassi risponde sia al Ferrari che a De Sauget: è questo l'unico caso, perché le tesi dei suoi numerosi critici da allora in poi assumono le antipatiche sembianze di dure invettive contro chi, ormai scomparso, non si può difendere. Anche per questo, male hanno fatto gli accademici delle Scienze di Torino a togliere questa parte dall'edizione 1833. Diventa, perciò, doveroso riassumere in questa sede la difesa del Grassi: due uffiziali mi fecero l'onore delle loro osservazioni; l'uno di grado superiore nell'Esercito del Re delle Due Sicilie, l'altro di uguaJ grado nelle Lruppe locali di Parma; il primo con amore e con modi gentili, e rimeritandomi dell'intenzione; l'altro con qualche sostegno e senza modi; tutti e due dotti e intelligenti del paro nelle cose della milizia, e singolarmente in quelle di artiglierie; ma tutti e due poco usati al maneggio della lingua nostra, e nuovi troppo dei principii coi quali si reggono le favelle. È da vedersi l'uffiziale parmigiano quando flagella le parole di quel povero Dizionario con una tempesta di solecismi e neologismi da far ritrarre il più intrepido novatore, e da disgredarne un francese se prendesse a scrivere italiano; ma cosl dei modi come dello stile non giova qui far parola, bensì alle massime alle quali si sono nelle loro critiche osservazioni attenuti. L'ira dell'uffiziale parmigiano è stato mossa, a quel che pare, dal falso supposto che quel mio libro andasse a ferire la rinomanza dell' esercito del cessato Regno d'Italia, nel quale egli aveva militato, qua,;i che io avessi preteso di far cattedra di scienza militare e insegnarla come cosa ancora ignota in Italia.
li Grassi ricorda di aver reso omaggio, nella prima edizione, alla gloriosa memoria di quell'esercito, e che «non la scienza, ma i vocaboli di essa voleva offrire alla milizia italiana», vocaboli che erano e sono per la maggior parte ignoti (anche nell'esercito del Regno Italico vi era ignoranza di lingua). Per il resto, il motto del Ferrari tractent fabrilia fabri vale per le cose manuali ma non per quelle dell'intelletto, perché «ogni cosa razionale è comune ad ogni intelletto dotato di ragione, e tutto
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che s'impara collo studio, si può da ogni mente capace di studio imparare e insegnare» [non è solo questione di studio: l'esperienza minuta, pratica e quotidiana, nella quale si riassume tanta ricchezza di vita di un esercito o di un'istituzione, non vale niente? - N.d.a.]. Egli definisce «un gravissimo errore» dei suoi critici, quello di pretendere l'adozione - quali vocaboli di uso comune in un dizionario italiano - delle forme dialettali usate nei vari eserciti itaJiani nelJe forme più volgari proprio per essere intese dalla «bassa forza» (sottufficiali, operai, soldati) e inquinate da espressioni straniere; di qui la necessità di ricorrere a una lingua generale. La visione del Grassi ha risvolti oggi preziosi. Da essa si deduce, anzitutto, che l'ufficialità italiana del tempo - quali che ne fossero le idee, l'habitus mentale, I\ ;sercito locale di appartenenza - al di là della dipendenza da governi reazionari e filo-austriaci nati dalla sconfitta di Napoleone, rivendicava ancora con giusto orgoglio e come propria l' esperienza delle guerre napo leoniche, alla quale aveva partecipato. In secondo luogo il Grassi mellc s ul tappeto un problema mai definitivamente risolto: il rapporto tra studio, intelletto, speculazione teorica e filosofica ed esperienza o vita quotidiana neIJ'lstituzione militare, che spesso ha dato luogo a due figure non sempre ben integrate tra di loro: il militare dotto, l'intellettuale militare, e il troupier, l'uomo d 'azione, l'uomo che - diversàmente dal precedente - si trova a suo agio solo nel quotidiano, nella vita pratica di caserma. Allora come oggi, difficile trovare una risposta diversa da questa: che teoria e pratica, studio ed esperienza, letteratura e scienza o tecnica, pensiero e azione dovrebbero fondersi insieme nello stesso individuo, sia esso un comandante militare che uno studioso «laico» di cose militari come il Grassi, per il quale non v'è dubbio che l'inesperienza militare è una seria lacuna, visto che la lingua è qualcosa che appartiene - appunto - alla vita pratica e quotidiana di caserma, e dunque rivela un patrimonio, un retroterra, una tradizione, una mentalità che non si trovano scritti da nessuna parte, anche se sono - almeno quanto la teoria e la letteratura - un motore prezioso, potente e insostituibile. Il fatto, poi, che un qualsivoglia linguaggio militare debba adattarsi alle quotidiane esigenze della «bassa forza» non va visto come un limite e un segno di «volgarità», ma, al contrario, come un pregio e un segno di aderenza alla realtà. Infine, «offrire i vocaboli di una scienza» significa automaticamente, checché ne dica il Grassi, studiare e fornire le basi concettuali della scienza stessa, quindi di non è operazione culturale neutra e limitata. Riporteremo altre valutazioni critiche dell'opera del Grassi trattando dei rimanenti dizionari coevi. Nel secolo XX l'unico autore che dedi-
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ca un certo spazio al dizionario del Grassi è lo Sticca, il quale non dà alcun peso alla sua (asserita) incompetenza militare: nel commento che fa delle sue prime opere si trova solo un «sebbene non uomo di spada». 58 Per il resto lo ritiene troppo purista, fino a definirne l'approccio «anacronistico per il suo misoneismo». Questo addebito un pò pesante non impedisce, però, allo stesso Sticca di essere il suo più sperticato laudatore, senza badare alla contraddizione in cui cade: giudica la prima edizione del dizionario, ritenuta dallo stesso Grassi abbisognevole di profonda revisione, «opera di lunga lena che può ritenersi tuttora insuperata». E la seconda edizione 1833 -anch'essa imperfetta se non altro per la prematura morte dell'autore- sarebbe «la sua vera gloria». Infine lo Sticca cade in errore, imputando al Grassi di non aver tenuto conto delle critiche del maggiore Angelucci (che invece risalgono alla seconda metà del sec. XIX).
In conclusione, si deve ritenere non sufficientemente motivata la patente d' incompetenza che molti autori rilasciano al Grassi, solo in base al motto tractent fabrilia fabri : diversamente, significherebbe ammettere che di storia militare devono trattare solo gli ufficiali , di storia della Chiesa solo gli ecclesiastici, di storia della medicina o della musica solo medici e musicisti. D'altro canto la competenza e l'esperienza professionale richiedono una lunga routine ... sono dei valori difficili da raggiungere e reperire, non delle res nullius che si trovano a disposizione di chiunque all'angolo della strada. Ci voleva ben altro che il Colletta: il Grassi avrebbe dovuto avvalersi di un'intera équipe di tecnici militari per materie come l'artiglieria, il genio, l'amministrazione ecc.. Un dizionario non potrà mai essere un manuale tecnico, ma ciò non significa che non debba contenere un complesso organico di voci anche per le discipline militari più moderne. li quadro di riferimento della Crusca era sostanzialmente - la guerra di recente descritta da Aldo A. Settia in Comuni in guerra -Armi ed eserciti nell'Italia delle città. 59 Basti ricordare, in proposito, che il Vocabolario degli Accademici della Crusca 174160 non contiene la parola tattica, non include tra le fonti nemmeno il Machiavelli e il Montecuccoli, e di guerra e battaglia dà definizioni tautologiche: guerra è «tutte quel tempo, nel quale si prepara il combattimento, o si combatte» mentre per battaglia si intende «fatto d'arme, combattimento, affrontamento di eserciti nemici ». Per arrivare al1 'arte militare del secolo XIX, non bastavano certo completamenti e adeguamenti, ma
58
G. Sticca, Op. cit., p. 224.
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Bologna, Ed. Clueb I 993. Vcnczia, PÙteri 1741.
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vi era tutto un edificio nuovo - e diverso - da costruire, pur nel rispetto della base classica. Solo in questo modo il Grassi avrebbe potuto mantenere fede al suo intento di fare cosa utile nella pratica quotidiana, accogliendo anche vocaboli mutuati dalla lingua parlata. Non avrebbero forse potuto servirgli - se non altro da termine di confronto - il pur ingente carteggio, le istruzioni, i numerosi regolamenti in italiano ecc. de11'età napoleonica? La pretesa che detti documenti «interni» si purgassero, si emendassero ipso facto, e solo in base alle sue indicazioni, non poteva che essere una pia illusione, coltivabile solo da chi non aveva vissuto all'interno delle caserme. Né è accettabile la distruzione che egli fa tra un dizionario, cioè una raccolta di vocaboli, e un'opera di scienza militare vera e propria: perché i vocaboli sono la forma che assume la scienza militare stessa, dunque sono un tutt'uno con la sostanza, e presuppongono - per essere calzanti - una compiuta conoscenza dello scibile militare, rispetto alla quale un pò d'esperienza non fa mai male. Lo sanno, da sempre, i compilatori (militari) di manuali, regolamenti e istruzioni, che non hanno mai trovato disdicevole - e anzi hanno costantemente ritenuto necessario - ricorrere al contributo di nitri militari con specifiche esperienze e conoscenze nella branca. Ecco: come tutti gli intellettuali troppo amanti della vita in una sorta di turris eburnea, il Grassi pecca di presunzione e in tal modo fornisce buone munizioni ai suoi avversari (il Ferrari parla di «certi letterati quasi potenti del mondo, [che] avvisandosi di tutto invadere e possedere come questi , urtano e sommergono allorché non tangenda trasiliunt vada»). Per questo il giudi zio che di lui dà il Quarenghi nel citato saggio del 1880 ci sembra il più equilibrato. Il Quarenghi esordisce sottolineando un'osservazione del generale Bardin, autore del grande dizionario militare francese 1851, secondo il quale la creazione di nuove voci militari dovrebbe essere affidata a «un'accademia di dotti militari, di uomini conoscitori profondi della nomenclatura e della letteratura di guerra, al fine di evitare il pericolo di avere vocaboli impropri, che non danno chiaramente il concetto delle cose o definizioni errate, composte di lunghe e inutili perifrasi». In proposito, ci sembra opportuno sottolineare che il linguaggio militare più di tutti i linguaggi specifici ha da sempre avuto bisogno - per ovvie ragioni - di chiarezza, e di imperatoria brevitas. Non può esserci molta differenza tra il linguaggio dei dotti, dei teorici militari, e quello corrente nelle caserme: ne nascerebbero dicotomie inammissibili in campo militare, anche se più tollerabili in campo civile. Dopo avere come tutti contestato al Grassi frequenti errori, «errori
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che se vennero notati e fatti conoscere da scrittori dell'arte, vennero però accettati e usati da altri che le cose militari non intendevano», il Quarenghi ne riconosce finalmente il reale merito, che non consiste solo in un'operazione di carattere scientifico ma nell'aver contribuito più di tutti, fin da allora, a creare le premesse per rendere italiano l'esercito piemontese e savoiardo, facilitandone la pur faticosa e assai lenta evoluzione: al Grassi va reso onore grandissimo d'aver per il primo fatto conoscere all'esercito piemontese, che esso aveva una lingua sua propria, all'infuori di quella francese in quel tempo comunemente usata; che i militari potevano compilar libri, dare comandi, scrivere rapporti con parole tecniche, con frasi e voci italianissime. Per far questo egli consultò i nostri scrittori antichi e tolse qua e là parole e definizioni di arte militare: ma non tutte essendo buone le fonti alle quali attinse, non grande come al giorno d'oggi essendo il numero dei testi di lingua, dei documenti preziosi da consultare, gli va perdonato se molte voci omise, se altre non polè o non seppe rettamente definire. 61
Dall 'antipurismo del Ballerini ( 1824) al purismo moderato del Carbone-Amò (1835), del d'Ayala (1841) e del Parrilli (1846) All'opera del Grassi, classificabile nel polo piemontese, va affiancata quella di un militare napoletano, il capitano Giuseppe Ballerini, che dà alla luce il suo Dizionario italiano scientifico - militare per uso di ogni arme nel 1824: in senso stretto, quindi, la sua opera è successiva a quella del Grassi, con il quale apertamente polemizza. Anche l' edizione 1833 del dizionario del purista piemontese, infatti, finisce col mantenere ben ferma la fede purista e se mai la rende più salda. Come il Grassi, il Ballerini accosta a ogni vocabolo il corrispondente termine francese, ma le analogie si fermano qui. Il suo è, anzitutto, il primo dizionario militare italiano (parrà strano: ma è anche l'ultimo, fino ai nostri giorni) a trattare insieme, in un unico contesto unificante, i vocaboli relativi alla marina e all 'esercito. Il suo approccio, la sua ottica sono totalmente opposti a quella del Grassi, perché assegna la priorità non tanto alla Crusca o al linguaggio di autori antichi e moderni opportunamente scelti, ma alle parole consacrate dall'uso militare quotidiano, che dunque è il riferimento trainante:
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C. Quarenghi, Art. cit..
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in genere di linguaggio tecnico di un ramo qualunque di scienze, o di arti meccaniche, del cui sviluppo e progressi la mente creatrice dell'Uomo alla giornata ne presenta continui prodotti, non valgono le dottrine degli antichi Scrittori, né tampoco le simmetriche nonne di eleganti diciture della moderna Crusca, che par che vogliano circoscrivere le infinite ed innumerevoli idee dell'umano ingegno. In attenzione [in attesa - N.d.a. I dunque, che dé scientifici, in caricati della riforma della nostra italiana favella, ci faccian conoscere i loro precetti; non vi è male a parer mio, che Noi [noi militari N.d.a.J parlando c'intendiamo meglio, ed estrinsechiamo le nostre idee e le espressioni dell'anima con più chiarezza e precisione, adottando le enunciate voci ed altri simili, che ho creduto convenevole inserire nel presente Dizionario.62
In aderenza a questi orientamenti il Ballerini non riporta sotto ciascun vocabolo - come fa il Grassi e come fa il vocabolario della Crusca - le frasi dei vari autori, o meglio delle autorità, dalle quali - e solo dalle quali - sono ricavati il significato o i vari significati, ma si limita a riportare in testa al dizionario una bibliografia tutto sommato succinta, suddivisa in 5 parti: lnfanteria (33 autori o titoli, dei quali 15 italiani), Cavalleria (12 autori o titoli, dei quali 7 italiani), Genio e Fortificazione (37 autori o titoli, dei quali 15 italiani), artiglieria (21 titoli, dei quali 14 italiani), Marina e costruzioni navali (23 titoli, dei quali 6 italiani). In totale 126 titoli dei quali 57 italiani, equivalenti solo al 45,2%. Cifre che non stupiscono: poiché il Ba11erini vuol solo prendere atto di una certa situazione e non si ripromette come il Grassi di modificarla, la prevalenza della cultura francese nella sua opera è inevitabile. Tale prevalenza, nettissima in fatto di marina e costruzioni navali, è più forte proprio nelle materie «terrestri» al tempo ritenute fondamentali: infanteria (nella quale sono comprese arbitrariamente le opere riguardanti l'arte della guerra in genere) e genio e fortificazione. In sostanza l'ottica del Ballerini - ufficiale del genio - è prettamente «contemporaneista» e tecnica: trascura autori de11'antichità classica e del Rinascimento e invece privilegia autori coevi o recenti di manuali, trattati, istruzioni e opere tecniche sulle vari Armi, senza dimenticare le più recenti istruzioni e «ordinanze» prevalentemente napoletane, che dunque non sono testi da purgare e verificare alla luce delle interpretazioni e indicazioni del suo dizionario, ma - al contrario - ne diventano i primi riferimenti. Se il dotto Grassi esagera nel difendere la trincea spes62
C. Ballerini, Dizionario italiano scientifico militare ... , Napoli, Dalla Tip. Simoniana 1824, p. XI.
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so malferma e aggirata del purismo, il militare Ballerini risente più del dovuto e del necessario sia della «napoletanità» che del tecnicismo del mestiere delle armi, e lungi dal difendere la trincea del Grassi, non prova nemmeno a schierarvisi. Per lui le uniche leggi o norme e regole che fanno testo - in attesa di essere a loro volta superate dalle pratiche contingenze e/o dal progresso tecnico - sono quelle consacrate dall'uso quotidiano: in senso stretto, quindi, il Ballerini non può essere definito un linguista. Riguardo agli autori italiani, il Ballerini cita Machiavelli, Montecuccoli, Algarotti, Galilei, ma trascura la profluvie di scrillori militari italiani del XVII secolo e non fa cenno del Palmieri; per contro dei francesi egli ricorda molto opportunamente Folard, Guibert e Jomini, ignorati dal Grassi che in tal modo toglie molta parte di realtà contemporanea, mutuata dalla Rivoluzione Francese, al suo lavoro. Per la parte marittima il Ballerini loda fin troppo il precedente vocabolario dello Stratico, «scritto con una precisione incomparabile, e con una chiarezza e metodo tali, che rendono l'Autore di dett' Opera caro ag'ltaliani tutti, e pregevole il suo nome nelle diverse Accademie letterarie e scientifiche». 63 Dallo Stratico egli ammette di aver attinto le definizioni, gli usi e le norme adottate «nella Marina italiana» per la parte tecnica della navigazione, «riservandomi di aggiungere alla fine di quest' opera una raccolta di voci del linguaggio tecnico della Marina napoletana col rinvio a quella generalmente adottata negli altri diversi porti d'Italia». Non è chiaro: al momento, (magari fosse vero!) non esiste una marina italiana, bensì vi sono diverse marine italiane; e il problema è quello di trovare almeno un linguaggio unificante, cosa tentata daJlo Stratico con ben scarsa fortuna o ben scarsa incidenza su11a realtà quotidiana, visto che il Ballerini sente la necessità di riportare nel suo dizionario un confronto del linguaggio de11a marina napoletana con quello delle altre marine italiane. Mentre lo Stratico aveva allargato l'indagine alle fonti marittime inglesi (allora importanti almeno quanto oggi) e in parte anche a quelle tedesche, il Ballerini si ferma a quelle francesi. Ciononostante, lo spiccato carattere di dizionario encic1opedico che mantiene anche per la parte terrestre, fa del testo del Ballerini un passaggio obbligato per entrare in profondità - al di là di regolamenti e documenti - nelle istituzioni militari di allora, nella loro vita quotidiana, nel loro modo di essere. Ancor più prezioso è il suo lavoro per definire lo stato delle marine in Italia nell'età della Restaurazione, per le quali mancano a tutt'o~gi studi speci63
ivi, p. X.
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fici sufficientemente approfonditi e non episodici o settoriali. Lo riprenderemo pertanto in esame trattando dell'arte militare marittima nel periodo considerato. Si è già detto che vi è molto da esitare, prima di definire il Ballerini un linguista. Nella sua bibliografia mancano i principali riferimenti linguistici del Grassi (il dizionario delJ' AJberti e il vocabolario della Crusca), al tempo inevitabili per qualsivoglia linguista, e manca il dizionario del Grassi stesso, il che ci sembra strano ed eccessivo. Mancano anche la fonte principale dello Stratico (il Vocabolario di Marina del Lescallier - 1798 e il Dizionario francese del Romme); al contrario, viene citato il Nouveau Dictionnaire de Marine del francese Villaumez. L'esclusione del Grassi appare ancor più sorprendente - e denota forse un astio personale inconciJiabile con le più elementari norme di serietà e correttezza scientifica - se si considera che, nel messaggio ai lettori, il Ballerini non manca di riferirsi (senza nominarlo) ad alcuni aspetti dell'opera del Grassi, condannando senza perifrasi l'impostazione purista, che a suo giudizio non rende bene il significato delle parole (come invece fanno le voci italiane derivate dal francese), oppure dà origine a vocaboli che non si prestano aJl'uso pratico. Egli si chiede - interrogativo certamente non ozioso - se sia il caso di ammettere o no nel suo dizionario «un'infinità di voci, derivanti dal francese, e per convenzione adottate nel militare linguaggio delle diverse materie di ogni ramo di scienze, delle quali verun Dizionario Italiano ha fatto menzione finora». Tali voci a suoi giudizio sono ormai «espressioni dell'anima nostra e delle nostre distinte idee» e servono a indicare con precisione i vari significati, onde distinguere il meglio possibile una cosa dall'altra: or siccome le voci suaccennate sono intese, capite ed usitate da tutti gl'Italiani, che ne professano il mestiere, perché non avrei potuto adottare, per esempio, le voci Corvea da Corvèe; Garitta da Guerite; Plotone da PeJoton; Turno da Tour; Polizia da Police; Bivacco da Bivouac, ed altre infinite, che per brevità tralascio di disegnare? Qualche Autore moderno [riferimento al dizionario Grassi del 1817 - N.d.a.], scrivendo non ha guari sulle cose militari, ha preteso che Corvea dovesse dirsi fatica, che Garitta dovesse chiamarsi Casotto, che Plotone dovesse chiamarsi Drappello ecc., attenendosi strettamente aJJe espressioni, che può offrire per approssimazione la nostra italiana favella, creduta sanzionata per questa parte da taluni particolari cd antichi Scrittori; senza riflettere, che Fatica, Casotto, Drapprello ecc. non sono che termini generici, i quali non designano affatto la Corvea, la Garitta, il Plotone ecc. OJtredichè ogni militare, che ha buon senso, rileverà che il solo pronunziare Drappello in voce di comando, a fronte di Plotone, scomparisce as-
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sai all'orecchio e al tuono militare, con cui si deve comandare nelle manovre e nè fuochi. D'altronde la voce Corvea da me adottata, non è affatto lo stesso che Fatica o travaglio, come crede il suaccennato Autore; poiché il francese ha le voci di Corvée e Travail, che distinguono perfettamente due differenti servizj, come li abbiamo anche Noi nelle nostre truppe. Il servizio, detto Corvea, comprende quel turno di servizio senz'armi, che i soldati fanno nell'interno del proprio Quartiere [... ] Il servizio poi detto Fatica o Travaglio, è quell'opera che si presta per giornate dagli Artiglieri, Zappatori, Minatori [ ...] E se poi dicesi Giberna da Giberne; Marea da Marée; Rampa da Rampe; Ramparo da Rampart; perché non potrebbe dirsi benanche Corvea da Corvée, Bivacco da Bivouac che arricchiscono di altre voci la nostra italiana favella ... ?
Qui Je ragioni e i torti come sempre si incrociano, non sono da una parte sola. Anche alla luce dell'esperienza che si riflette nelle voci oggi ( 1995) comunemente usate in campo militare, ha ragione il Ballerini a ritenere ammissibili termini - come plotone, garitta, Polizia, bivacco ecc. - che sono ormai entrati ne11 'uso comune, hanno precisi significati e, per così dire, hanno da11a loro parte la storia, visto che sono tuttora in uso. Corvée, addirittura, si usa ancora così com'è, e indica un particolare servizio interno di caserma non arniato (pulizia caserma, movimentazione di materiali ecc.), ben diverso da quelli che il BalJerini chiama fatiche o - con brutto francesismo - travagli, e che oggi si chiamano semplicemente lavori, come rettamente traduce il Grassi richiamandosi alla tradizione c1assica (anche se il vocabolo fatica è sopravvissuto, oltre che nel normale significato italiano eh~ gli viene attribuito, in taluni termini come giubba da fatica, berretto da fatica ecc.). Il Grassi rettamente parla di lavoratori, operai, guastatori (con quest'ultimo vocabolo, egli traduce il francese Pionnier e il termine francese antico Gastadour), muta (e non turno, come fa il BaJlerini). A proposito di Bivacco (e di Accantonamento, dal francese Cantonement) ha invece pienamente ragione il Ballerini: preso com'è dal suo amore per i classici, _il Grassi dimentica la precisa e doverosa indicazione dj una forma di stazionamento oggi di minor frequenza e importanza, che però nonostante il notevole disagio che causava alle truppe - era stata uno dei capisaJdi de11a strategia napoleonica. Anche per questa via si può vedere in quello del Grassi un lavoro di base indispensabile e non privo di risultati, pur non essendo sempre in grado di far fronte a11e ricadute tecnologiche e «interne» dei tempi; però il Ballerini non riconosce nemmeno questo lato positivo, anzi lo ritiene inutile e fuorviante passatismo. Di qui l'ostilità del Grassi, che non solo
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trascura completamente l'apporto del Ballerini nella preparazione della seconda edizione della sua opera, ma nel citato saggio del 1828 sull'An. tologia di Firenze si scaglia con violenza inusitata nelle polerrùche letterarie contro di lui, accusandolo addirittura di plagio e negando ogni vaJidità scientifica al suo contributo: non ho creduto dover interrompere il filo di questa già troppa mia lunga lettera per disvelare una grossolana impostura, colla quale altri si prevalse del mio primo Dizionario guastandolo in più luoghi per farlo suo, senza che di questo indegno plagio abbia pur dato segno una volta col far menzione del mio nome. L'opera, nella quale venne a questo modo svisata insieme a quel1a del Dizionario marinaresco dello Stratico, del quale per maggior astuzia è stato serbato il nome onde farla più franca col mio, porta questo stranissimo titolo: Dizionario ... Dopo aver trascritto l' invero troppo lungo e pretenzioso titolo dato dal Ballerini - alla moda francese - al suo dizionario, il Grassi ironizza sulla retorica dedica che quest'ultimo fa del lavoro («All'Amor delle scienze» ecc., «Face illuminatrice» grazie alla quale il Ballerini afferma di aver trovato la forza di addossarsi «un sì difficile incarico», e di non scoraggiarsi di fronte al «labirinto inestricabile in cui intricato io fui»). TI Grassi chiude osservando causticamente che l'incarico gli sarebbe stato più leggero, s'egli avesse deposto le penne altrui per volare colle sole sue ali sul labirinto inestricabile, in cui fu intricato, e basti del pseudo-autore e dell'opera, nella qua-
le la parte ridicola abbonda così da disarmare ogni più sdegnosa voglia. L' unico amico coevo del Grassi - quindi nemico del Ballerini - è il d' Ayala, che pur essendo anch'egli napoletano ne lla sua bibliografia 1854 giudica il dizionario del concittadino in questo modo: «cotesto capitano si provò di ampliare, cioè corrompere il dizionario del Grassi, e aggiungervi i vocaboli di marineria dello Stratico». 64 Quindi, secondo il d' Ayala dopo aver guastato un testo «terrestre» il Ballerini si sarebbe limitato ad aggiungergli semplicemente un testo marittimo che a sua volta - come si è visto - avrebbe favorito «l'insozzamento» del linguaggio marittimo italiano con vocaboli stranieri. Assai meno severo il giudizio dello Sticca, che pur registrando le critiche del Grassi, riconosce che «ne
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M. d' Ayala, Bibliografia ... (Cit.), p. 366.
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è buono il metodo, opportuna l'accoglienza dé vocaboli moderni: defi-
ciente però la coltura necessaria a tanta impresa».65 Dopo aver vagliato questi due altri importanti tasselli e dopo aver confrontato sia pur sommariamente i testi del Grassi, dello Stratico e del Ballerini, si può serenamente affermare che il Ballerini non merita 1a stroncatura ciel Grassi, anche se in nessun tempo - né tanto meno allora - si può prescindere totalmente da fonti autorevoli come la Crusca e il Grassi. Prescindendo da minute analisi comparative che esulano dal1e nostre finalità, dobbiamo infatti constatare che il Ballerini spesso va più in là dello Stratico e del Grassi, apre nuovi spazi e nuove prospettive, parte dal giusto principio che la lingua non è una camicia di forza da imporre ad ogni costo alla naturale evoluzione dei costumi e del1e scienze, ma si plasma e si adatta sulla realtà, sulle cose. Forse per questa sua flessibilità che sconfina nell'eclettismo, il dizionario del Ballerini - tipica espressione della cultura militare napoletan& - è 1'unico ad avere due diverse edizioni anche in altre parti d 'Italia, e precisamente a Bologna. Ci riferiamo a] Dizionario teorico-militare contenente le definizioni e gli usi delle diverse voci e comandi coll'equivalente in francese accanto d'ogni vocabolo arricchito d 'istruzioni flnaloghe di Giuseppe Ballerini, poscia modificato, ridotto a miglior uso ed accresciuto di alcune osservazioni sulla scienza della guerra e di note relative da un veterano d'Italia (Bologna, Ed. Della Volpe, 1832). Ad esso fa seguito sedici anni dopo, il Dizionario teorico-militare contenente le definizioni e gli usi delle diverse voci e comandi coll'equivalente in francese accanto d'ogni vocabolo arricchito d 'istruzioni secondo la scuola moderne pei militari d'ogni arma e compilato da un uffiziale della già armata italiana - seconda edizione riveduta dal medesimo, e resa più succinta e istruttiva (Bo1ogna, Tip. Sassi Nelle Spaderie, 1848). Non si conosce l'identità del «veterano d'Italia» e dell '«uffizia]e della già armata italiana»: si tratta sicuramente del1a stessa persona. Ambedue le opere, comunque, lasciano inalterate l'impostazione e le voci principali del1'opera del Ballerini, limitandosi a sostituire i termini ritenuti di meno diretto e immediato interesse militare con minute - ma oggi interessanti e rare - norme sull'istruzione pratica del soldato, le armi, la fortificazione ecc .. Nel messaggio al lettore che precede l'edizione 1832, l'editore precisa che «la presente opera L...] comprende i doveri del soldato, dei sotto-ufficiali, dei comandanti 1e compagnie, dagli ufficiali superiori e ge65
G. Sticca, Op. cit., p. 225.
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nerali. Spiega le regole per le scuole del soldato, di plotone e di battaglione: per quelle di cavalleria. di artiglieria e di marina ... »_ Infine, in materia di fortificazione, vi è stata aggiunta «la breve e sensata istruzione del colonnello Gaudi la quale fu adottata dà francesi con entusiasmo». Così facendo, si tende a trasformare ìl dizionario del Ballerini in una sorta di manuale per l'i struzione dei Quadri e della truppa: ma l'intento del compilatore è diverso, perché «dalla vastità di cognizioni e ammaestramenti [.. _] ben risulta che la presente opera, affatto nuova, è l'unica nel suo genere, potendosi giudicare a ragione una militare Enciclopedia, o pure una Teoria universale di tutto quanto è necessario a sapersi degli ufficiali». Tanto più c he «fu mio pensiero di porre in fronte a quest'opera alcune mie Osservazioni sulla Scienza della guerra e sulla militare disciplina che è il vero fondamento di essa»_ Per inciso, come meglio vedremo in seguilo queste osservazioni si discostano alquanto dalle idee del Ballerini e dalle sue definizioni dei principali termini dell'arte militare. L'edizione 1848 nun presenta differenze rispetto a quella del 1832: in appendice vi si trovano pe rò alcune voci, tra le quali quella Carabinieri, con una specie di codice morale che ne elenca e descrive dettagliatamente i doveri (probità di costumi - cieca ubbidienza ai Superiori - doveri di civiltà - cautela nelle azioni - gravità nel portamento - pulizia del vestiario). Va ricordato, in merito, che il Grassi - anche nell'edizione 1833 - parla del Carabiniere (dal francese carabinier, carabin) semplicemente come di «soldato armato di carabina a cavallo o a piedi» e aggiunge che «nella moderna milizia le compagnie scelte d'ogni battaglione di fanteria leggera, prendono il nome di compagnie di carabine o di Carabinieri, delle quali si fanno in tempo di guerra battaglioni o corpi volanti; vi hanno altresì i Carabinieri a cavallo, che non sono più una milizia leggera, come già i Carabinieri, ma di grave armatura come le Corazze, alle quali precedono in ogni fazione». Nell'edizione 1848 del dizionario in esame, invece, i Carabinieri sono presentati come «efficaci tutori delle private proprietà e del buon ordine» e si afferma che «l'onesto cittadino non può che ravvisare in essi la propria salvaguardia». Essi non sono solo piemontesi, né sono nati in Piemonte: «in qualche stato d 'Italia, e segnatamente in quello della Chiesa, esiste una forza militare governata da speciale regolamento, e che ha per titolo Corpo dé carabinieri. Esso è diviso in reggimenti composti di fanteria e cavaJleria [ ... ] Nel cessato regime italico questo corpo appellavasi gendarmeria dal francese gendarme , che significa uomo d'anne o cavaliere armato»_
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L'istruzione sui lavori di campagna del colonnello Francesco Gaudi, la cui carriera - si ricorda - è terminata col grado di «generale distinto di Federico Il, dopo aver contribuito a rendere la scuola prussiana la migliore d'Europa», esordisce con una premessa che dimostra l'importanza già allora assunta dalla fortificazione campale, al tempo detta passeggera: «è necessario a un militàre e soprattutto a un ufficiale il conoscere a fondo l'arte di fortificare, non già quella delle fortificazioni permanenti in tutta la sua estensione, ma bensì l'arte della difesa in generale, acciò egli sappia impiegare tutto ciò che può contribuire a rendere suscettibili i piccoli posti di una vigorosa resistenza [...]. Bisogna dunque che l'ufficiale [... ] sappia all'occorrenza far costruire lavori in aperta campagna senza il soccorso dell'ingegnere, vale a dire fortini, capi di ponte, frecce, trinceramenti ed altre opere passeggere di questo genere». Il Ballerini non fa testo. Da allora in poi, non viene più ripetuto il tentativo di riportare - più che unificare - le voci terrestri e marittime in unico contesto. E le opere che vengono subito dopo - il Dizionario di Artiglieria dei capitani di artiglieria piemontesi Carbone e Amò ( 1835) e il Dizionario militare del d' Ayala (1841) - sostanzialmente sono un ritorno all'impostazione classica e purista dei quali era stato poco apprezzato sostenitore il Grassi, pur con gli adattamenti e temperamenti suggeriti da specifiche e ben circoscritte esigenze tecniche. In particolare il dizionario di Carbone - Amò, pur essendo meno ambizioso di quello del Ballerini e riferito ad una sola branca tecnica (l'artiglieria), assume il ruolo di una vera e propria «reazione antiballeriniana» e sotto diversi aspetti rappresenta il tentativo più equilibrato (e per questo meglio riuscito) di conciliare il linguaggio tecnico moderno con l'antico e con il classico, mai molto amici delle discipline più tecniche e quindi più soggette all'evoluzione del materiale. In tutto il secolo XIX e nella prima metà del XX la branca artiglieresca (della quale fanno parte fino alla seconda metà del secolo XIX, anche i pontieri e il genio) più di tutte è soggetta ai mutamenti provocati in campo militare dal progresso delle scienze. Ci preme subito rimarcare, a questo proposito, l'intelligente metodo seguito da Carbone e Arnò, che come il Ballerini - sono degli ufficiali di un'Arma dotta, dei tecnici e non dei linguisti. Essi pensano bene di avvalersi di esperti, di linguisti della scuola del Grassi, e/o deg1i stessi Accademici di Torino che avevano dato alle stampe la seconda edizione del suo dizionario (i colonnelli di artiglieria Francesco Omodei, Giacinto e Luigi Quaglia e Carlo Sobrero; il signor Dionigi Bianchini; il prof. Antonmaria Robiola). Questi distinti esponenti dell'artiglieria e della cultura non si limitano a dar consigli e s':1ggerimenti, ma rivedono il testo.
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Non risulta, come già si è dovuto sottolineare, che il Grassi (e gli stessi Accademici delle Scienze che licenziano la seconda edizione) abbiano sentito il bisogno di consultare almeno qualche «tecnico», qualche militare; al contrario il militare Ballerini spregia i linguisti, e ritiene ormai definito il linguaggio classico. Carbone e Amò sono i primi a mettere fine a opposti estremismi, a non chiudere la porta e a cercare suggerimenti, il che prima ancora che una saggia metodica scientifica, specie in lavori del genere è una questione di elementare buon senso. Nel consueto messaggio «al lettore benevolo» che precede l'opera, Carbone e Amò ritengono necessario che, così come avviene per le lettere e le scienze, anche «le arti» abbiano un loro proprio lessico, che valga a dare delle voci e frasi che loro sono proprie un corretto e definitivo significato, evitando alterazioni dovute «agli ignari, e a stemperati ingegni». Come avviene anche per il Ballerini, il loro fine è eminentemente pratico, e si direbbe interno e «logistico»: ma se ciò torna necessario nelle altre arti, necessarissimo tornava all'Artiglieria Piemontese l'aver un Vocabolario tecnico proprio, che somministrasse la nomenclatura non più delle cose, ma ancora di tutte le parti di esse, affi nché gli inventari tornassero uniformi, i quali, sebben soventissimo se ne facessero, riuscivano sempre disparati, e mal certi per manco di nomenclatura stabile e nota, onde frequenti equivocazioni e incagli accadevano nel servizio.66
Dato il loro intento pratico, Carbone e Amò non appesantiscono il testo con ampie citazioni di exempla dei vari autori (come fanno la Crusca e il Grassi), né vi inseriscono (come il Ballerini e a volte lo stesso Grassi) cligressioni storiche e considerazioni varie sulle voci più importanti. Lo spazio dedicato a ciascun vocabolo è generalmente assai ridotto, più ridotto di quello che si concedono gli altri autori: fanno eccezione le voci che oggi definiremmo composte o complesse (come «affusti, ceppi, carri e macchine d' artiglieria»), sotto ciascuna delle quali sono indicati i «sottotipi» e, per ciascuno di questi ultimi, le singole parti componenti_ In tal modo, più che quelle di un clizionario e di un'opera linguistica il lavoro di Carbone e Amò assume le sembianze di un nomenclatore o manuale tecnico. E chi voglia ad esempio studiare le caratteristiche del carreggio coevo, le macchine e le attrezzature delle officine militari, i materiali da ponte ecc. trova nel Carbone - Amò una fonte insostituibile, 66 Dizionario d'artiglieria dei capitani Carbone e Amò, Torino, Ceresole e Panizza 1835, p. III.
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anche perché al tempo l'artiglieria racchiude in sé quello che oggi chiamiamo Servizio dei trasporti. Ciò vale non solo per l'esercito piemontese ma per tutti gli eserciti italiani del tempo, perché ancora una volta (e anche in questo settore specifico) l'influsso francese prevale su ogni altro e - di gran lunga - su que11o austriaco, fungendo abbastanza paradossalmente - in mancanza di meglio - da elemento unificante anche nel campo dei materiali, per una semplice ragione: tutti gli ufficiali dei gradi medio - alti degli eserciti pre-unitari proveni vano dall'unificante esperienza napoleonica e poco o nulla avevano avuto a che fare con l'esercito austriaco. Non è il caso di insistere oltre sulle finalità pratiche e interne, e sulla impostazione tecnica: perché questo dizionario rimane - anche e proprio per questo - un'operazione linguistica di primaria importanza, in tanto in quanto si sforza - con cospicui risultati - di recuperare agli studi linguistici un'ampia area tecnico-militare fino a quel momento ignorata e/o la<;ciata a] margine. Di questa lacuna sia pur su versanti opposti sono dimostrazione il Grassi e il Ballerini, che si escludono a vicenda tagliando ogni raccordo: se il Ballerini ignora il Grassi o a lui si riferisce - senza nominarlo - solo per criticarlo, Carbone e Amò ignorano il Ballerini (senza che ciò - intendiamoci - vada oggi considerato un merito: è meglio, anzi è corretto, criticare piuttosto che ignorare completamente). Il lavoro di Carbone e Amò ·non è spontanea iniziativa scientifica dei due autori, ma è dovuto a ben precisi e antichi orie ntamenti della Monarchia Sabauda che lo rendono ufficioso (sia pur con tutte le riserve che possono essere fatte su questo aggettivo, perché al tempo qualsivoglia pubblicazione - e tanto più le pubblicazioni dovute a militari o di carattere militare - doveva essere «approvata da Sua maestà»). Era stato addirittura Vittorio Amedeo II di Savoia detto il Grande (1665- I 732), «vago di propagar l'uso della buona lingua fra nui» a ùisporre per primo la compilazione (non si sa .a cura di chi) di un dizionario di artiglieria, «per cui meno si venissero ad evitare gli equivoci, e gli sbagli, che nelle materie di questa special Milizia troppo facili nascono tra il nostro [dialetto?] piemontese e la lingua scritta».67 Ma il lavoro che ne era seguito era rimasto un semplice manoscritto, «non essendo stato allora con quella perizia e accortezza condotto, che si desiderava». A causa delle vicende politiche seguite alla Rivoluzione Francese, per lungo tempo il lavoro era stato sospeso, e ripreso solo dopo il 1814 per ordine di Vittorio Emanuele I che lo affidò agli ufficiali direttori delle officine di artiglieria: nemmeno questo lavoro, «sebbene meglio ideato del primo», era stato condotto a buon fine. 67
ivi, p. IV.
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Si tratta evidentemente di lavori destinati solo a uso pratico interno, resi al momento vieppiù necessari dal progresso tecnico. Quando subentrano Carbone e Amò, essi raccolgono l'eredità dei due precedenti tentativi. E per prima cosa, onde evitare che la nuova pubblicazione faccia la fine delle altre, ritengono necessario «che ella fosse, più che poteasi, di buone voci toscane composta, e per via delle stampe, a maggior utile di tutti, divulgata». Val la pena di ricordare, a questo punto, le difficoltà e i problemi che incontrano i due autori nel corso del loro lavoro e la metodica da essi prescelta per superarle. La prima difficoltà è dovuta alla mancanza, in Italia, di un dizionario enciclopedico generale sul tipo di quelli francesi del Diderot ed' Alembert dal quale sarebbe stato agevole trarre gran parte della nomenclatura (anche se non tutta, per i continui ritrovati e le innovazioni). In mancanza di un'opera del genere in Italia, occorre ricorrere anzitutto agli scritti o al linguaggio parlato degli «artefici» della Toscana: or dalla viva voce, se già non ci conducessimo in Toscana. non si può; resta, che questa nomenclatura si abbia a torre degli scritti; ma, se Dio ci aiuti, qual è quello scritto, che di queste arti sì piena mente favelli, che tutte possa fornirci quelle voci e frasi, che a tessere siffatti lessici si richieggono? Ecco i due pressochè insuperabili impedimenti che si attraversano in Italia a chi voglia per mano alla, fra tutte le altre, laboriosissima fatica del compilare un perfetto lessico di una qualch' arlc.
Poiché mancano anche scritti italiani «che di questa arte previamente favellino», è giocoforza ricorrere all'estero, e naturalmente alla Francia. E i due autori dichiarano di aver anzitutto spogliato delle voci di interesse della loro Anna. due testi francesi specializzati, l'Aide - Memoire à l'usage des officiers d'Artillerie del generale Gassendi (citato dal Ferrari e dal Ballerini) e il Dizionario d'artiglieria del generale Cotty. A questa operazione preliminare seguono le altre, ben scandite e graduate nel tempo: - spoglio delle voci di interesse contenute nel dizionario della Crusca e nel Dizionario Enciclopedico dell' Alberti (quest'ultimo citato anche dal Grassi); - spoglio delle voci tralasciate dalla Crusca e dall' Alberti, ma tuttavia contenute nei testi degli autori da essi citati; - confronto tra le voci francesi e italiane così individuate e definizione del loro significato (che peraltro lascia ancora molte voci francesi senza la corrispondente italiana); - altro spoglio di «buona schiera di scrittori militari italiani e tecni-
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ci» per colmare il vuoto in mancanza della tempestiva pubblicazione della seconda edizione del Dizionario del Grassi. Gran parte di tali scrittori saranno poi citati in tale seconda edizione. E siccome dei revisori di Carbone e Amò fa parte l'Omodei che è anche revisore della prima edizione del Grassi, non ci pare da escludere che Carbone e Amò abbiano potuto prendere visione e tener conto, in anteprima, delle schede compilate dal Grassi dal 1817 alla sua morte nel 1831; - ricorso per colmare i vuoti rimasti, al linguaggio delle officine toscane, le cui voci sono sempre fornite dallo stesso Omodei e da un altro revisore del Grassi, i] Carena, che si recano - non si sa st: appositamente o meno - in Toscana; - scelta, per indicare per Ja prima volta tutte le voci dei materiali da ponte, di voci marittime italiane che hanno qualche analogia con il linguaggio dei pontieri, tratte «non vegendo miglior via» dalla Crusca, dall' Alberti e dallo Stratico; - alle voci francesi che nonostante tutti i precedenti tentativi rimangono senza il corrispondente vocaholo italiano (perché riferite a nuove invenzioni e a nuovi materiali da poco tempo in dotazione all'artiglieria piemontese), Carbone e Amò tentano di «dare quell'aria italiana c he sapemmo migliore, modellandole su quelle già ricevute e registrate nei Dizionari della lingua, siccome autorizzate dall'uso, od accettando talora un francesismo già visitato, ma rarissimamente, e solo quando la traduzione richiedeva una perifrasi». Insomma, Carbone e Amò ritengono che «quando la lingua ti somministra il vocabolo proprio [... ] l'accettarlo dalle lingue straniere, ben lungi dall'esser virtù, come è si fanno a credere, è anzi un imbratto, e un biasimo vero», ma quando manca la voce italiana, prenderla altrove non è una scelta, ma una necessità ... Il d' Ayala riporta (solo nella parte dedicata all' artiglieria della sua bibliografia) il dizionario d'artiglieria di Carbone e Arnò, senza commenti. Lo Sticca definisce l'opera dei due autori «inteJJigente e tenace», e dopo aver ricordato che l' Arnò, congedatosi, fu per 30 anni professore all'Accademia Militare di Torino, giudica l'opera importante e pregevole, e aggiunge: «sono lavori che richiedono cultura non superficiale, spirito critico, attitudine alla sintesi, senso della misura[ ... ] ed una pazienza da certosino. De] merito di tale Dizionario depongono le ristampe che ebbe in prosieguo».68 Con maggior dottrina e ampiezza di vedute dei capitani Carbone e Amò, nel 1841 con il suo Dizionario Militare francese-italiano edito a 68
G. Sticca, Op. cit. , p. 221.
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Napoli lo stesso d' Ayala riprende l'orientamento purista e soprattutto le invettive antifrancesi del Grassi, esaltando ancora una volta la ricchezza di nomi e d'ispirazione della cultura militare italiana dei secoli che precedono il predominio francese (per i quali fornisce una succinta bibliografia, che prelude alla sua più volte citata bibliografia edita nel 1854). Par di sentire il piemontese Grassi, quando il napoletano d' Ayala ringrazia Ferdinando ll Re di Napoli e afferma di aver pubblicato il suo vocabolario «affinché in mezzo all'Esercito nu11a rimanga che possa dichiararci servi, insipienti, ignari» e aggiunge - con pomposa e retorica immodestia meno fredda, più scoperta di quella del Grass.i e affine a quella del Ballerini - che il suo vocabolario «aprirà nobil cammino>> a molti ufficiale del Re. 11 suo furor antifrancese non trova peraltro l'alimento principale, come nel Grassi, nella Crusca e nena antichità classica, ma nella più recente fioritura della scienza militare italiana pressochè ignorata dalla Crusca: ventinove scrittori italiani conta la militare architettura nel secolo XV, quando sullo spirare del XVI secolo apparve in Francia il primo trattato di fortificazione di Errard ingegnere di Enrico IV. Arrovelliamo dunque d'italiano rossore nel vedere chi ancora voglia esser tenero della lingua militare francese, adoperando nelle scritture e nei parlari un bastardume di voci. Purghiamo l'azzurro del nostro Cielo dai miasmi del gallicismo , chè oramai non ha d' uopo la militare italiana di altra veste che non sia la sua, candida quanto le nevi delle sue Alpi. 69 Dunque il d' Ayala è un purista sui generis, più dichiarato che reale perché si ispira a autori militari italiani recenti. Forse nel suo approccio al problema linguistico entrano anche problemi e rapporti personali: non partecipa a un'iniziativa culturale coeva di grande rilievo come I' Antologia Militare napoletana; non cita mai il Ballerini; viene criticato - come meglio vedremo in seguito - da esponenti di grande rilievo dell' establishment culturale militare napoletano diversamente da lui rimasti 1igi al Borbone, come il Blanch e lo Sponzilli. Lo definiremmo un purista cosmopo1ita, se non bifronte e confuso: oltre al Grassi, si rifà a dichiarati nemici di quest'ultimo come il maggiore parmense Gian Giacomo Ferrari e Pietro Giordani, dei quali abbiamo già preso in esame il pensiero. Per la parte marinaresca, si richiama al lavoro di Pantera Pantera da Como su l'armata navale ecc. corredato da un dizionario, e a un nome - co69
M. d' Ayala, Dizionario militare francese-italiano, Napoli, Dalla Tip. di Gaetano Nobile 1841 , p. 8.
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me Simone Stratico - che è grande ma può essere definito l'antitesi di un purista, fino a far esclamare allo stesso d' Ayala, nel citarlo, «tuttoché senta del veneziano dialetto». Il d' Ayala, comunque, tiene a precisare di non aver voluto riferirsi solo ai pochissimi «autori che van considerati siccome classici». A tal proposito egli si richiama proprio ali' affermazione di Pietro Giordani antitetica all'approccio del Grassi, e criticata anche dal Progresso di Napoli: i vocaboli sono arbitrario segno delle cose; e ogni cosa deve avere il segno proprio; altrimenti non sarà enunciata, e l'idea tlj lei non potrà passare dall'uno nell' altro cervello. Questi segru, questi vocaboli bisogna prenderli come sono e dove si trovano. Non li pigliate voi dalle nazioni lontane anche barbare, quando vi danno la casa, prima ignota? E se li pigliate dalla Cina o dall'America, perché no da uno scrittoruccio anche rozzo o di Bergamo e di Messina, o di ieri e di quattrocento anni fa?
In definitiva il d' Ayala si allontana alquanto dal Grassi, e non si perita - quando gli capita - di correggerlo nel suo vocabolario. La sua filosofia linguistica è semplicemente «con il Grassi finché possibile». come fanno gli artiglieri Carbone e Amò: e da buon artigliere egli stesso, sa benissimo che specie per le voci tecniche più recenti è impresa ardua e spesso inutile o dannosa - ancorché non impossibile - distaccarsi dal linguaggio d'oltralpe. Per la parte marittima, v'è da fare poco affidamento sul d' Ayala, che non ha l'ambizioso programma del Ballerini ma si limita a poche voci non sempre esatte. Per ultimo, al di là di succinte osservazioni e di giudizi molto brevi quanto taglienti contenuti nel testo, quella del d'Ayala è l'opera del periodo che meno denota i caratteri del dizionario, avvicinandosi invece a quelli di un sintetico vocabolario. Vi si riscontra buona parte delle omissioni tecniche del Grassi, e l'attenzione da lui dedicata a branche vaste come l'artiglieria o la marineria non regge nemmeno il paragone con l'opera del Ballerini, dello Stratico o del Carbone - Amò. Sempre al polo culturale napoletano - e non poteva che essere così, date le cure sempre dedicate dal Regno di Napoli alla marina - appartiene il Vocabolario Militare di Marineria francese - italiano (1846) del barone Giuseppe Parrilli, ritenuto dal d' Ayala «pregevolissimo lavoro, di certo preferibile a quello dello Stratico».70 Questo lusinghiero giudizio è ripreso da11o Sticca, che lo ritiene «diligentissimo, paziente e scrupoloso, superiore per certi riguardi e quello dello Stratico, questa volta senza dare 70
M. d' Ayala, Bibliografia ... (Cit.), p. 375.
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peso al fatto che l'autore non è un ufficiale di marina».7 1 Sono misura ed equilibrio i caratteri distintivi del lavoro del Parrilli, il quale parte dalla presa di coscienza del grande progresso tecnico della navigazione: or fra tutti i linguaggi delle arti, nessuno ce ne ha che sia tanto abbondante di voci proprie e d'infiniti modi di dire, quanto il tecnicismo marino, imperrocché è nato dall'applicazione e dal concorso di tante svariate branche dcli' umano sapere, che hanno spinto l'arte della marineria a quel grado di perfezionamento in cui la vediamo giunta oggidl, perfezionamento che debba veramente tenersi come un prodigio. Le matematiche, la navigazione, l'astronomia, la fisica, la geografia, l'architettura navale, la idraulica, l'arte di attrezzare i vascelli, la manovra, la tallica navale e l'artiglieria, tutte costituiscono quell'insieme che vien denominato arte della marina.72
Arte della marina, dunque, come coagulo di discipline, elementi e componenti tecnico-scientifici e militari, con prevalenza di quelli tecnici perché l'aspetto militare è una sorta di suvrastrullura, di adattamento intimamente connesso con tutto il resto, e anzi da esso dipendente: a poco vale la potenza dei cannoni, la capacità dell'anuniraglio senza maestria nell'arte della vela e delle manovre. A quanto ci risulta, è questa la prima definizione in Italia dei termini arte navale, nautica ecc. che conosciamo. Definizione per queste ragioni ancor separate da quella («terrestre») di arte militare o della guerra, ma che si avvicina ali' attuale arte militare marittima con quell' «arte della marina» già equivalente a «arte marittima», alla quale basta aggiungere «militare» per arrivare al termine attuale e al concetto che esso sottintende. La base di partenza del Parrilli è la stessa di quella dello Stratico e del Ballerini; quest'ultimo non viene mai da lui nominato, pur appartenendo anch'egli alla scuola napoletana e pur essendo anch'egli ufficiale delle Armi dotte di quell'esercito. Segno non indubbio di dissenso dai suoi orientamenti anti-puristi, anche se il Parrilli è costretto a prendere atto che sul disordine del linguaggio marinaresco italiano hanno influito due parametri principali: la separazione nei tre filoni sardo, napoletano e veneziano e l'influsso straniero, cioè inglese e francese (influsso in buona misura inevitabile, perché riflesso del predominio tattico-militare e soprattutto tecnico di quelle due marine, di gran lunga alla testa del progresso in Europa). 71
G. Sticca, Op. cit., p. 225. A. Parrilli, Vocabolario italiano di marineria francese-italiano, Napoli, S~b. Tip. Di Seguin 1846, Voi. I, p. 3. 72
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Se il linguaggio marittimo italiano «di necessità dovea contener delle voci che poco dolci suonano ad orecchie italiane», la portata del fenomeno è aggravata da fattori, per così dire, endogeni: oltreché la diversità dei dialetti d'Italia parlati dai marinai di Venezia, di Napoli e di Genova, il capriccio degli ufficiali della marineria di cambiar spesso nome agli oggetti medesimi, l' anglomania di taluni altri che spingevali ad accoglier voci di comando affatto inglesi, la pieghevolezza di tutti in generale nel porre in uso i modi goffi dei marinai, e la mancanza assoluta di ordinanze stampate per la istruzione di costoro, per la manovra delle navi, e per le evoluzioni delle armate, che sanzionato avessero un linguaggio invariabile, sia per le cose, sia pel comando, ebbero a rendere sempre più incerti e vacillante il tecnicismo (Nota (a): Presso di noi si è in parte ovviato a siffatto inconveniente, mediante l'Elenco delle voci di comando messo a stampa nell'anno 1842 per ordine di S. M.). Per la parte marittima la situazione è peggiore di quel la terrestre, per almeno due motivi: il primo è che all' influsso francese si aggiunge l'influsso inglese (cioè della marina che era un modeilo per tutte le altre, esclusa queila francese); il secondo è che i tentativi di purificare il linguaggio sono resi più ardui sia dal naturale cosmopolitismo marinaro, sia dal progresso tecnico della navigazione i cui referenti si trovano esclusivamente oltr'alpe e oltre Manica. Non si tratta di elementi e problemi nuovi: molti di essi li abbiamo già trovati neilo Stratico e nel Ballerini. Il Parrilli oltre a dime nticare significativamente il Ballerini ricorda lo Stratico, ma solo per dirne male come fa il d' Ayala, - e non certo per tenerlo a base del suo lavoro: primo a concepire l'idea di un vocabolario di marineria generale per la Italia, fu l'emerito professore Simone Stratico [... ] Ma siffatta opera, ammirabile al certo per l'ardua fatica durata dal suo compilatore nel condurla a termine, in nulla migliorava la condizione delle cose: essa invece aumentava la incertezza e la confusione, imperrocché vedonsi quivi registrate tutte le voci e i modi di dire appartenenti ai diversi dialetti d' Italia, ed in ispezialità quella della marineria veneziana e sarda [... ] ed altro simile bastardume; in vece del quale, ove gli scrittori nulla avessero offerto, valeva meglio appigliarsi alle voci particolari della marineria napoletana, che hanno un' impronta più italiana a petto di questi servili gaUicismi.73 73
ivi, p. 5.
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In tal modo, aJ «modello» veneziano dello Stratico il Parrilli vorre~be sostituire - come meravigliarsene? - il «modello» napoletano... comunque, egli giudica positivamente la versione italiana delle voci marinaresche francesi fornite dal d' AyaJa nel suo dizionario: «ma non essendo stato suo divisamento quello di dar fuori un vocabolario speciale per la marineria, ha dovuto per necessità attenersi alle principali, in guisa che, pel loro picciol numero, sono esse un nulla a fronte di un tecnicismo, che abbraccia oltre seimila vocaboli e modi di dire».74 Per il Parrilli, il dizionario del d' Ayala pur essendo insufficiente rimane l ' unico valido: dopo una panoramica di per sé interessante di quanto è stato prodotto dalla letteratura marinaresca italiana dal XVI secolo fino al XIX, egli giudica o antiquati o parziali e locali i vari contributi. A suo giudizio, i diversi vocabolari generali italiani seguono più o meno «i medesimi errori, barbarismi e imperfette definizioni» dello Stratico. Anche i vari vocabolari pubblicati in lingue straniere con i vocaboli corrispondenti in italiano (tra di essi, cità il Roding in tutte le lingue d'Europa, e il Duhamel in sei lingue) non sono affidabili, perché i loro autori, non sapendo bene quale delle voci delle tre marmerie era quella giusta, «scelsero a caso tra quelle che meglio lor suonavano ali' orecchio, o che più comunemente ebbero ad udir pronunziare a bordo delle diverse navi veneziane, napolitane e sarde».75 Nei pochi trattati italiani tradotti dal francese - prosegue il Parrilli non vi è nulla che riguardi «la odierna costruzione delle navi, quella delle macchine a vapore, l'artiglieria navale e la manovra dé vascelli». Pertanto, egli è costretto ad ammettere che «è giocoforza far capo tutto dì agli autori francesi, dei quali per vero dire grandemente abbonda quella, se non fortunata, al certo dotta marineria». [si tratta di autori francesi al tempo da tutti ritenuti fondamentali, ma non tradotti in italiano -N.d.a.]. È qui che nasce l' idea e la necessità del vocabolario. infatti per intendere siffatti trattati non basta essere ben ammaestrato nel francese idioma: è mestieri appararne uno novello, quel che si è il tecnicismo proprio di quella marineria per determinare le idee di rapporto tra quella favella e la nostra; e come apprender siffatto linguaggio senza il soccorso di un vocabolario apposito, il quale con voci determinate, note alle tre marinerie d'Italia ed accompagnate da esatte definizioni, stabilisca la corrispondenza fra le due lingue?76 74
Ibidem. Ibidem 76 ivi, p. 6. 75
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Ma qual'è la concreta formula, quali sono i riferimenti italiani del dizionario? Il Parrilli ritiene necessario - anche se difficoltoso - «scegliere quei vocaboli che meglio suonano all'orecchio, che più frequentemente sono stati usati dagli scrittori, e le cui radici appartengono all'italiana favella, in preferenza di quelli che sono una servile imitazione degl'idiomi stranieri».77 Si tratta di un obiettivo opposto a quello del Ballerini, che non si pone problemi di purismo e che trova miglior partito nel registrare, semplicemente, le voci italiane derivate dal francese e ormai entrate nell'uso comune. Ma nemmeno il Parrilli può essere definito seguace a pieno titolo del Grassi, visto che riscontra la necessità di proporre nuovi vocaboli «per tutto quel che concerne i miglioramenti e le scoverte fatte da 30 anni a questa volta, fra le quali quella importantissima dei piroscafi» e accenna al Grassi e alla sua scuola solo indirettamente, e solo per condannare «l'eccessiva severità dei puristi, i quali d 'altra banda condannar vorrebbero la nostra lingua a rimanersene mutola in fatto di arti e mestieri». Anzi, questa è stata per lui un'altra difficoltà, perché i puristi di fronte alla sua opera «certamente gridato avrebbero allo scandalo». La tiepidezza del Parrilli verso i puristi lo spinge ad accusare apertamente Carlo Botta (è l'unico caso) di essere « un esempio strano», perché avrebbe creato nella sua recente opera sulla guerra d'indipendenza americana e nena sua versione del viaggio del Dubat Cilly, «un nuovo linguaggio, del tutto diverso da quello che si parla in qualsiasi marineria d'Italia, e da quello ch'è stato scritto da verun patrio autore». 78 Segno inequivocabile di dissociazione, visto che il Botta - con il poeta Monti per così dire in seconda schiera - era stato l'unico riferimento coevo del Grassi, suo entusiastico estimatore. Pertanto su questo punto il ParriJli diverge anche dall'altro purista d' Ayala, che nena sua bibliografia, pur mettendo in guardia i giovani dall' «abbracciarne ciecamente tutt'i vocaboli militari», indica il Botta come «uno dé principali sostenitori di nostra favella, allorquando andavasi corrompendo con voci servili», e ricorda che il Grassi ha scelto la sua opera «siccome testo, che per franchezza di stile e proprietà di locuzione non la cede ai migliori dé nostri scrittori italiani». 79 Delineati il contesto generale e i conseguenti obiettivi, il Parrilli (che non è ufficiale e/o ufficiale di marina) definisce con queste parole i
71
ivi, p. 7. Ibidem. 79 M. d' Ayala, Bibliografia ... (Cit.), p. 246. Per inciso, il d'Ayala indica come esempio di voci del Botta da eliminare i termini abbattuta e brulotto, tuttora rima~te in uso. 78
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contenuti principali del suo vocabolario, a] quale ha messo mano grazie anche all'incoraggiamento di «vari egregi uffiziali» della marina napoletana: mi sono determinato a dar fuori il presente lavoro, il quale offre una raccolta compiuta di tutti i vocaboli e di tutti i modi di dire del tecnicismo marino francese, ricavato dalle più pregiate opere di quel paese, accanto alle quali trovasi la versione italiana, ed è questa accompagnata da articoli diffusi abbastanza, da servir non solo alla definizione delle voci , ma benanche a dare una idea delle cose alle persone estranee al servizio marittimo, cui prender potrebbe vaghezza di conoscer questa portentosa arte, che tanto ha operato pel propagamento della civiltà in tutti i punti del globo e serve di sostegno ai più possenti Imperi.
E qui il Parrilli accenna al crescente successo deUe opere di viaggi e scoperte italiani e francesi, i cui autori o traduttori non sono generalmente versati nelle cose marittime, quindi devono avere un testo di riferimento tale da istruirli e da «porli al coverto delle beffe e dal dispregio degli uomini dell'arte stessa». Rimane da dire qualcosa sulla sua metodica: egli dichiara di voler semplificare la materia, e non vuole complicarla come - a suo dire . . :. fa lo Stratico. L'impostazione del lavoro ha qualche affinità con quella di Carbone e Arnò, ma ben diverso è il punto di partenza: se per quest'ultimi i riferimenti rimanevano Je voci de] vocabolario della Crusca, il Parrilli si richiama anzitutto alle voci comuni alle tre marine italiane principali, anche «per consentimento degli scrittori». In secondo luogo, egli accoglie quelle voci specifiche di ciascuna delle tre marinerie «che possono accettarsi perché non derivanti da voci straniere travisate». Poi vengono le voci più moderne, introdotte dalla consuetudine e a carattere più spiccatamente tecnico, riferite alle novità introdotte nelle costruzioni, nelle attrezzature, nello stivaggio delle navi, nelle artiglierie navali e nei lavori d'arsenale: per queste ultime, l'autore «ha reputato proporre qualche miglioramento, tendente a sopprimere talune voci, le quali essendo una letterale traduzione dal francese nulla definiscono, e talune altre le quali per la loro sconcezza meritar non possono un posto in un vocabolario procurando nel tempo stesso di sostituirne altre più proprie ed accomodate alla nostra favella». Con queste innovazioni, il Parrilli si dice certo di riscuotere il plauso della generalità degli ufficiali di marina, «che ad onore dei giorni nostri studiansi, non solo di migliorare i loro modi di dire sia nello scrivere, sia nel comandare, ma benanche di pregarvi i marinai, i quali passando dalla indipendenza della marineria mer-
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cantile, al rigore della disciplina di quella da guerra, soggiacer debbono per dire così ad una novella educazione». Abbiamo a suo tempo inserito il Parrilli nello schieramento purista: eppure è mosso da prospettive concrete e attualizzanti come questa. O meg1io, è schiacciato, dominato dal progresso tecnico della navigazione, il quale diventa 1a misura di tutte le cose e impone di per sé - per ragioni pratiche - l'unificazione e standardizzazione degli antichi, gloriosi linguaggi marinari italiani. Limitare al minimo i danni, conciliando il linguaggio delle galere e triremi con quello delle macchine a vapore e delle artiglierie: non può che essere questo il programma di Parrilli, il cui vocabolario è il primo del genere a prendere atto dell'esistenza di navi a vapore e a descrivere le macchine a vapore. D'altro canto, quando egli dà aJJa luce il suo vocabolario la app1icazione del vapore (e della corazza) alle navi da guerra è appena agli inizi e la relativa tecnologia abbisogna ancora di vasti perfezionamenti: ciononostante - come riferisce l'Enciclopedia Militare 1933 - nel 1862 l' ArnmiragUo Persano, allora Ministro della Marina, dispone che «il tecnicismo consacrato nel vocabolario del Parri11i divenga linguaggio ufficiale della R. Marina ltaliana». 80 Segno definitivo de11a va1idità dell'opera, anche se l'Enciclopedia militare guasta tutto con una valutazione critica inesatta: «ciò produsse qualche inconveniente, perché l'autore, reputando barbari i linguaggi marinari ligure, napoletano e veneto, si era proposto di creare un linguaggio nove11o per i marinai dell'intera penisola». Prima ancor che un linguaggio nuovo, il Parrilli voleva introdurre un linguaggio unico, nel quale convivessero armonicamente il nuovo e i1 vecchio: né si è mai sognato di giudicare barbari i linguaggi di Genova, Napoli e Venezia, depositari de11e più grandi tradizioni marinare italiane; vero è, però, ma la sua come quella del Grassi è una proposta, un tentativo di imporre al linguaggio quotidiano dei marinai italiani l' adozione di determinate espressioni da lui - e solo da lui - ritenute valide e unificanti. Il lavoro del napoletano Parrilli risponde a una sentita esigenza: contemporaneamente o quasi, nell'Italia Settentrionale l'alfiere di vasce11o delle Marina austriaca (poi ammiraglio italiano) Luigi Fincati un nome che ritroveremo spesso nel pensiero navale del secolo XIX pubblica l'opuscolo Sulla compilazione di un linguaggio marittimo italiano (Venezia, Tip. Merlo 1847), il quale dimostra che il problema di un linguaggio marinaro italiano comune era, al tempo, assai sentito anche nel-
80
«Enciclopedia Militare» 1933, Voi. V, p. 838.
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la marina austro-ungarica, forse perché per la maggior parte composta da italiani. Il Fincati scrive che studiando «la scienza marittima» era stato costretto a ricorrere a fonti straniere, perché «non tardai ad avvedermi, fin dalle prime, della mancanza di libri italiani che vertano sulla marina e specialmente di quella d'un buon vocabolario, o meglio della insufficienza di quello dello Stratico e della infelice traduzione di quella del Saverien stampata in Venezia nello scorso secolo». Egli constata anche che «la marina, somma dello scibile, e, in paese marittimo, somma altresì dei maggiori interessi nazionali, non gode più in Italia della considerazione che altri Paesi a ben giusto titolo le tributano; ma è mestieri che su questa si parli, si scriva e molto; il nostro avvenire e il nostro interesse lo esigono imperiosamente» [l'avvenire, interesse di chi? dell'Italia o dell'Impero austro-ungarico? - N.d.a]. Di conseguenza vorrebbe fare un vocabolario e corrisponde con il Parrilli, che gli manda il primo volume del suo dizionario, non ancora noto a Venezia; sulla melodica da seguire, però, polemizza con il prof. Tonello, che - dimostrando di non conoscere ancora il lavoro del Parrilli - in una comunicazione alla IX riunione degli scienziati italiani aveva anch'egli esposto un progetto per la compilazione di un dizionario di marina, che contenesse «tutti i termini dei varii dialetti marittimi de11 'Jtalia, osservando benissimo che ogni porto, ogni costa, ogni spiaggia ha il suo particolare». Il Fincati guarda verso 1'Italia. Si dichiara contrario a questa soluzione, e in merito ricorda le critiche del Parrilli allo Stratico e al Botta e si chiede: «in quell'assemblaglia [che vorrebbe il Tonello - N.d.a.], quale sarà la lingua, quale il dialetto? Chi volesse scrivere sulle cose marittime, per l'Italia, a quali voci dovrà attenersi per essere inteso da un capo all'altro della penisola?». Anche in Francia, in Olanda o in Spagna - egli aggiunge - si trova la stessa varietà di dialetti che esiste in Italia; eppure, queste nazioni già possiedono da tempo un vocabolario di marina per così dire ufficiale, che costituisce riferimento comune. Si deve quindi fare un vocabolario di marineria italiano che valga per tutti, mentre «il fare dei semplici vocabolarii parziali di dialetto per facilitare le conoscenze delle voci di lingua, sarà briga affatto locale». Ciò non significa, però, che nel dizionario del Parrilli vada tutto bene: il Fincati critica talune voci che vi sono state introdotte al posto di altre definite «barbare» ma non sono usate da nessuno, e a ragione osserva anche che, anziché far precedere le voci italiane da quelle francesi (come il Parrilli fa in quel dizionario) sarebbe stato opportuno fare il contrario. Soprattutto, il Parrilli ha scelto - da solo - dei vocaboli tra i
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vari dialetti italiani; bisogna invece tener conto che «per forza di cose, la lingua marittima dell'Italia non è una, né puossi, giudicando imparzialmente, decidere di quale delle marine italiane debbasi adottare il frasario. Per l'antichità e lo splendore, tutte hanno diritto a far prescegliere il proprio; senonché coll'adottarne uno ad eccezione degli altri non si ottiene lo scopo di formare cioè un dizionario generale». Dopo questa non troppo implicita accusa al Parrilli di voler imporre scelte unilaterali e arbitrarie (probabilmente troppo a favore del linguaggio marittimo napoletano), qual'è, allora, la soluzione del Fincati? «fare della fusione di tutti una scelta giudiziosa e formarne un tipo, è cosa da non poter essere condotta ad effetto se non da una società di persone idonee per conoscenze marittime e letterarie, senza di che tale lavoro non giungerebbe a rivestire forma e autorità». E poiché il dizionario del Parrilli è stato compilato da una sola persona, «non so fino a che punto le marine italiane si crederanno obbligate a uniformarsi al suo frasario». Quindi sarebbe opportuno «prendere in esame il lavoro del barone Parrilli , sottoporne le osservazioni a un futuro Congresso italiano (e <lico a un Congresso, solo perché a un Congresso viene fatta la proposizione del Sig. Tonello), ad una società o accademia letteraria e spargerle al pubblico, perché, sanc_ito ed emendato, ottenga da quella rappresentanza del sapere italiano e da questo giudice quasi inappellabile , quella autorità che niun altro può dargli». Il Fincati conclude giudicando quello del Parrilli «prezioso lavoro da trame il maggior partito», quindi da prendere in esame e migliorare specialmente per la parte etimologica, perché «sembrami utilissimo l'occuparsi esclusivamente di termini di lingua, senza di che non avremo né scrittori né opere sopra una materia che offre alla scienza e alla letteratura un campo tanto vasto e quasi vergine»; non è tuttavia conve niente compilare un nuovo dizionario, «che mettendosi in concorrenza con quelJo di Napoli, manterrebbe la divisione di lingua e di opinioni». Molte considerazioni del Fincati sono condivisibili: ma far emendare da una commissione il dizionario del Parrilli, non s ignifica forse compilarne uno nuovo? In altri Paesi, senza seguire il sistema da lui proposto si erano già compilati - per stessa ammissione del Fincati - dei buoni dizionari: né sembra che l'intervento di una commissione garantisca di per sé la qualità del lavoro, data anche la prevedibile difficoltà di mettere d 'accordo i v·ari membri, specie in Italia. Le osservazioni del Fincati e del Tonello dicono perciò una cosa sola: che il dizionario del Parrilli è comunque un riferimento fondamentale, e che a metà secolo XIX il problema del linguaggio marittimo è assai sentito in Italia, ma rimane ancora aperto e senza quelle soluzioni unificanti, alle quali si è già pervenuti
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in altri Paesi. D'altro canto, se rimane aperto non è tanto dovuto a ragioni scientifiche o puramente linguistiche, ma soprattutto alla mancata unità po1itica della penisola: questo il Fincati non Jo dke, forse perché non lo può dire. Nelle sue considerazioni, non è dunque i1legittimo cogliere un indiretto messaggio a favore dell'unità nazionale.
Dal linguaggio militare regionale italiano a quello europeo: il livore polemico anti purista dello Sponzilli ( 1846)
L'ultima opera che prendiamo in esame (Della lingua militare d 'Italia - Origine e progresso non che dé miglioramenti e sussidii di cui pare suscettiva) è anch'essa del 1846 ed è dovuta al capitano del genio napoletano Francesco Sponzilli, l'anti - Grassi per eccellenza, che già nell'Antologia Militare di Napoli del 1841 aveva contrastato con indubbia abilità gli errori del Grassi, non senza aspre frecciate polemiche dirette a) d' Ayala e al Botta. Forse per questo il d' Ayala nella sua bibliografia pur così esauriente non accenna a quest'opera, mentre lo Sticca si limita a dire che «iniziò un Dizionario militare [non è vero: l'opera contiene solo indicazioni propedeutiche per la sua compilazione - N.d.a] che nella sua mente doveva evitare il purismo del Grassi e il campanilismo del Carbone, come dichiarò nel bello e diffuso studio su Il vocabolario militare». 81 [Probabilmente lo Sticca si riferisce al citato studio sull'Antologia Militare - N.d.a.]. L'opera che ora esaminiamo non è un dizionario o vocabolario militare: lavori del genere, secondo lo Sponzilli, sono tali da assorbire per intero la vita di un uomo, e anzi da richiedere un complesso lavoro d' insieme di più esperti. Per questo, affettando una modestia che non possiede, egli si sottrae all' impegno: giusto perché quanto più vedo terra a me innanzi, più remoto ne scorgo l'esteso orizzonte che la chiude, più nella mia ammirazione sono astretto ad esclamare il quantum est quod nascimus! io mi reputo meno adatto di altri alla difficile bisogna. Solo il purista che per nulla vede quanto lontani sono i confini del viaggio, può mettersi alacremente al lavoro ...
Delineando in tal modo - forse per pigrizia - una sorta di gran rifiuto, lo Sponzilli non per questo rinuncia a montare in cattedra e coglie 81
G. Sticca, Op. cit., p. 329.
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l'occasione per vibrare una de11e tante stilettate al Grassi e ai puristi, obiettivo dal quale egli non distoglie mai lo sguardo, e al quale, naturalmente, guarda anche nell'indicare le finalità del suo lavoro del 1846. Quest'ultime non coincidono affatto con la modestia precedentemente ostentata: io, solo ho in mente provare che i correnti Lessici di guerra, sono fra noi mancanti del meglio (!) e ciò faccio, recando una moltitudine di nobilissime voci, edizioni di prima necessità, le quali i vocabolaristi non conobbero, o per deliberato loro commodo fine, fecero le viste di non aver conosciute, o reputarle immeritevoli di registro. Ho in idea di raddrizzare talune torte definizioni; chiarire talune etimologie; rivendicare la nobiltà di molti utili neologismi, e numerose voci e frasi delle nostre sapienti Ordinanze, o del nostro Uso parlante, denigrate dai ciechi puristi come idiotismi da soldatesca. Finalmente, farmi voglio a provare con ampia raccolta di vocaboli europei [ ...] che nelle cose filologiche militari una è la ragionevole via dell'Arte e della Scienza, e questa via è diametralmente opposta a quella dé Puritani». 82
Lo Sponzilli si limita perciò a compilare un Catalogo di vod e maniere di dire militari degne di nota, che intende fornire del «materiale novello» ai compilatori di vocabolari e dizionari, per i quali è assai prodigo di consigli e indicazioni di metodo. Sempre evitando di cimentarsi direttamente, egli vuole nondimeno indicare la formula di un dizionario, e per questo divide la sua opera in due volumi. Nel primo, diviso in tre parti, egli espone una sorta di breviario, di discutibile filosofia antipurista, con un'indagine storica approfondita e abbondanza di esempi e riferimenti. Nel secondo riporta una serie di puntualizzazioni e approfondimenti a proposito delle voci più controverse, naturalmente con continuo, puntiglioso e ostile riferimento alle interpretazioni del Grassi e/o della Crusca. Un'altra caratteristica particolare del lavoro dello Sponzilli (che oltre a contrapporlo frontalmente al Grassi e al d' Ayala lo distingue anche da chi purista certo non è, come il Ballerini e lo Stratico) è l'assenza nella sua opera di qualsiasi afflato nazionale. Oltre a non sentire il bisogno di un'unità o unificazione o uniformità nazionale nel linguaggio, egli oppone regionalismo a regionalismo con un'aperta contestazione del primato della lingua toscana, al quale contrappone la piena validità del linguaggio militare dell'esercito napoletano. Questo ultimo non deve scom-
82
F. Sponzilli. Della lingua militare d 'Italia ... (Cit.). Voi. I. p. 264.
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parire, ma ha importanza e diritto alla vita al pari del linguaggio di qualsivoglia altro esercito pre-unitario: da ultimo, per ciò che ha riguardo a molti particolari delle definizioni, i quali è probabile che siano variabili al variar delle italiche province; io che notar non posso tutti gli svariati usi di quelle contrade, né potendolo, forse utile sarebbe che lo facessi ; così ottimo divisamento credo sarà quello per lo quale esporrò l'uso dell'Esercito al quale ho il sommo onore di appartenere. Vero è che il Grassi dall'alto del trihunale suo sentenziato aveva essere un errore per noi altri militari napoletani il citar gli usi siano filologici, siano artistici della Casa nostra; ché questa facoltà l'avevano, non i toscani, i fiorentini in generale, ma i facchini, i treeconi, i pescivendoli di Firenze!!!
In diverse parti della sua opera, lo Sponzilli attacca frontalmente il primato toscano (e perciò la lingua italiana) con frasi come questa: «il parlar di Toscana - tranne il bel melodico suono che a noi natura vieta di acquistare - è formato di tale metallo e di maniere tali, che se forse posposto ad altri dialetti esser non può, il menomo diritto non ha di preminenza sul sermone di ogni altro popolo d'Italia - Nota (1 ): il dialetto toscano, il melodioso dialetto toscano eleva i] capo sugli altri, perché altri hanno la debolezza di stare inchinati al cospetto di lui ... ». Come anche oggi accade, a questo approccio localistico e non nazionale - per non dire antinazionale - a] problema linguistico, si accompagna un vivo spirito europeo. Per lo Sponzilli vale il principio - di per sé condivisibile - che nel parlare e nello scrivere chiunque deve farsi intendere dal massimo numero di persone, e per questo egli accusa i puristi di usare volutamente un linguaggio insolito e indecifrabile, onde acquistare fama di «saccentoni». 83 Ne dovrebbe conseguire - in linea di stretta conseguenzialità - una netta opzione per una lingua e una parlala italiana capace di allargare al massimo la comprensione di vocaboli in uso nei singoli eserciti, estendendoli a livello nazionale. Con dubhia coe renza egli esalta invece le parlate locali, aggiungendo che se cccc llc111c potrebbe essere una italiana favella, del pari eccellente dovrcbhc essere una lingua europea (è l'unico a parlare di lingua militare europea, di ''" caboli europei). E così come la lingua italiana dovrebbe avere la pi cee denza sulle parlate locali [ma perché, allora, esalta il ruolo e lu 11ohll1:1 e l'insostituibilità di tali parlate? come dovrebbe formarsi qucsln l1111•ua i-
83
ivi, p. 223.
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taliana? su questi punti lo Sponzilli sfugge - N_d.a.], così la lingua europea dovrebbe avere la precedenza su quella italiana: di guisa che laddove onde esprimere una medesima idea militare, per noi si avessero due vocaboli, uno italianissimo - sia pure così e l'altro forestiero ma Europeo, cioè di già adoperato nell'uso dei militari d'Italia come da quelli di altre nazioni d'Europa, dovrà questo avere la precedenza sul primo .... 84
Quel «sia pure così» è altamente indicativo dei gusti deJlo Sponzilli. Insomma, questa evanescente lingua italiana viene schiacciata tra due realtà alle quali lo Sponzilli non vuol rinunciare: i linguaggi locaii e quella lingua europea tutta da definfre e costruire, ché non bastano pochi vocaboli per fare una lingua, e ad essa - come anche lo Sponzilli insegna - deve corrispondere un ben preciso contesto politico - militare e sociale, insomma: un'unità europea sia pure in forme da stabilire. Dalle regioni all' Europa, saltando l'Italia: strana procedura, così attuale e così antica. La contestazione che lo Sponzilli fa del Grassi, dei puri sti e della Crusca è in parecchi punti condivisibile anche se inutilmente acre. come se si trattasse di un fatto personale. Citiamo due esempi tra i tanti, che testimoniano la sua animosità nei riguardi del Grassi e del d' Ayala. A proposito di drappello, parola della quale mette in rilievo l'origine francese, attacca i puristi aggiungendo che «l'esempio degli sbagli presi da un grande filologo quale (a parte il suo non coscienzioso purismo) si era il Grassi, dovrebbe loro servire perché si mettessero in silenzio». E al d' Ayala, che chissà perché non indica mai con il suo nome e cognome, indirizza attacchi velenosi come questo: «Il mio puristuccio quando era militatore, e tutto di candida neve delle Alpi formò un Dizionariuccio militare che è un capo d'opera di gelatina; in quel Dizionariuccio, e fra un milione di altre corbellerie scrisse che il Fuoco di righe «Vien dal Grassi noverato tra i fuochi della fanteria, ma le moderne ordinanze (che Egli non avea lette) certo noi prescrivono!! !».85 Nonostante queste cadute di stile, si deve riconoscere che l'opera dello Sponzilli è piena di spunti brillanti e pertinenti, che testimoniano il suo ingegno acuto, la profondità e serietà dei suoi studi, la sincerità del suo impegno. Né vi mancano riconoscimenti - purtroppo non coerenti con altre parti antinazionali - delle vette raggiunte dall'arte militare italiana dei secoli passati: afferma, ad esempio, che il sistema bastionato iw 115
ivi, p. 263. ivi, pp. 294-295. Si veda anche M . d ' Ayala, Dizionario ... (Cil.), p. 150.
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deve essere più rettamente denominato primo sistema italiano di fortificazione, 86 e a proposito del vocabolo Tendina polemizza con chi crede che le cose di casa nostra siano ignobili, e nobilissime quelle altrui .... 87 In senso lato, molte delle sue tesi - se viste nella sostanza più che nella forma - attengono all'antico contrasto tra letteratura e scienza, tra discipline umanistiche e scientifiche che hanno sempre stentato a trovare un collegamento. E lo Sponzilli, ufficiale del genio, è portatore delle istanze e del peso linguistico del progresso tecnico e quindi anche del ruolo dei tecnici, anche in questo contestando il Grassi il quale riteneva i problemi del linguaggio militare alla portata di chi militare non era. Lo Sponzilli invece parla (come del resto Carbone e Amò) del danno che alle guerresche discipline proviene daJl'esser elle trattate con soverchia leggerezza dagli uomini di lettere, i quali tutti bisogna dir che le credono non già severissime speculazioni riservate alla penna di pochi e sapienti guerrieri; ma facili cose tanto negli elementi loro quante né loro complessi. così che ad ogni uomo di alta mente e di forbito stile, esser possa lieve parlar di loro senza aver menomamente messo il piede sulla soglia di qué penetrali artistici e scienti lici, né quali cauti e riverenti inoltrare fur visti i colossali intelletti di Federico, di Napoleone e dell'Arciduca Carlo. Quindi gli errori, i giudizi fallaci, le quistioni interminabili e torte; quindi gli spesso giusti risentimenti dé militari, e le spesso ingiuste repulse dé letterati. 88
Posizioni già espresse dai due primi contraddittori del Grassi, il De Sauget e il Ferrari. Ad esse lo Sponzilli aggiunge pertinenti richiami che partono da un fatto elementare e incontestabile, già ampiamente considerato anche da altri: richiamandosi all'antichità classica e ai secoli Xlii XIV, i puristi hanno automaticamente escluso gran parte dei vocaboli tecnici (artiglierie, fortificazioni, ecc.) che riassumono il progresso del materiale, progresso che negli ultimi secoli ha visto le principali nazioni europee - e non l'Italia - dominare lo scenario. Questo non può non riflettersi sul linguaggio, dunque le barriere e i richiami all'antichità classica sono, per lo Sponzilli, antistorici, inutili e dannosi, oltre che pretenziosi: a costoro che vaneggiando gridano non avere l'Italia bisogno di ricercare gli elementi della civiltà moderna presso lo straniero, per-
86 87 88
ivi, pp. 541 -545. ivi, p . 575 . ivi. p. 211.
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ché questa è mai sempre la Magna Saturnia tellus; a cosloro darei consiglio perché pria di aprir bocca instituissero sopra di un ramo qualunque di scienze ed arti un paragone tra lo stato di sviluppamento in cui quello si trova sulla faccia della Saturnia, e lo slalo in cui progredisce al di là dei monti, e dé mari che circondano questa terra. Un tempo sapientissima maestra, ed in oggi, perspicace, operosa, ma non altro che modestissima discente[ ... ] Anzi, questo declamare continuamente fra noi, e ad occhi chiusi, e senza la minima distinzione contro le cose forestiere - parlo di Scienze e di Arti - questo gridar unico nel Mondo, ed a noi sufficiente in tutto, la italica antichissima sapienza la quale un giorno era à seggi primi ed opera per mutate sorti è per lo più nella seconda riga; egli è come imporre alla operosa massa dé nostri di arrestarsi nel progresso al quale aspira, è consigliare chi si conosce indigente a rifiutare le oneste largizioni del ricco[ ... ] Noi andiamo in eslasi quando pensiamo che un italiano fu primo ad applicare il vapore alle macchine (il Branca nel 1629 nella sua opera che à per titolo Macchine ec.) e non deploriamo che nelle piccole nostre Officine non si è potuto ancora formare una locomotiva mentre che da quelle di Stephenson ne esce una novella ogni settimana. Ci vantiamo concittadini di Volta, di Galvani e di Brugnatelli, ma non è fra i nostri chi lev:.ir potè in onore le scoperte di qué grandi con applicazioni gigantesche alle Mine, alla Telegrafia, alla Galvanoplastica. 89
Constatazioni - più che orientamenti o tesi - estensibili a qualsiasi branca dello scibile militare, a cominciare da quella più propriamente strategica, perciò tali da far ritenere antistoriche e sterili le frequenti lamentele d'ogni tempo sulla -«dipendenza» del nostro pensiero militare, il quale - come qualsiasi altra cosa - è sempre quello che può essere in una data epoca, non ciò che potrebbe o dovrebbe essere. Ma est modus in rebus: nel suo furore iconoclastico, nella veemenza della sua polemica, egli passa il segno. Quando vuol abbattere le statue di Grassi e della Crusca e ne indica - più che gli errori - le vi stose lacune, egli non fa certo opera originale (nemmeno quando ricorda le posizioni del Grassi contrarie all'eccessivo rigore della Crusca, oppure condanna l'incompetenza dei non militari): sono motivi che si ritrovano anche nel campo degli autori puristi. Ma perché scendere alle aperte ingiurie? Un conto è ostentare uno spregio totale per l'opera di quest'ultimi, un conto è negare il ruolo di «modello nazionale» alla lingua toscana, cioè alla lingua di Dante e Petrarca, e accomunare nella negazione alla
89
ivi, pp. Vlil-X
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lingua toscana addirittura la lingua italiana e la lingua latina, estendendo la svalutazione totale al linguaggio dei pur innumerevoli, celebri scrittori e architetti militari italiani dal Rinascimento in poi. A tal proposito, per lo Sponzilli non c'è altro da fare che rassegnarsi all'influsso francese nel linguaggio, visto che si tratta di un riflesso inevitabile, automatico del primato francese nelle scienze e nelle arti; ma quando, solo un paio di secoli prima, è prevalso anche in campo militare il «modello» italiano, questo fatto per lui non ha alcun valore e akun riflesso sulla proprietà del linguaggio militare italiano di allora ... L'esaltazione in chiave anti-unitaria e antj-toscana della storia, de11a tradizione, del linguaggio «della nobilissima contrada italica appellata delle Due Sicilie» 90 si accompagna, nello Sponzilli, a un'esagerata valutazione de11'intlusso della lingua francese, «lingua universale» che in campo militare equivale addirittura al latino e al greco degli scienziati: questo sussidio che al Naturalista, al Chimico, al Botanico, al Geografo si concede trarre dal latino, dal Greco e da tutte le lingue viventi del Globo; questo sussidio che impingua di giorno in giorno il nostro Dizionario tecnologico generale, vorressi capricciosamente e con potentissima ingiustizia negare al Militare, e solo perché vedi, oprar nefandissimo! - chiama per avventura, e di preferenza in ajuto suo la lingua francese divenuta per nobiltà lingua universale; la lingua francese che à giorni nostri è la matrice vera nelle cose di guerra; la lingua francese dalla quale i padri della nostra favella tolsero un buon terzo di qué materiali di che, con lo spigolar nei favellari di tutta Europa, andaronla componendo?
Non si potrebbe essere più lontani dal Grassi. E se la lingua francese è più o meno il principio e la fine di ogni espressione linguistica, lo Sponzilli deve ammettere quasi a denti stretti - bontà sua - che pur esiste una nostra favella. Ma cos'è questa favella? or' la lingua italiana è lingua derivata. Or la lingua italiana non conta più di cinque a seicento anni di vita - (Quindi la supposta purità delle lingue, oltre che è affatto falsa, è inoltre un pregio chimerico poiché una lingua del tutto pura sarebbe la più meschina, e barbara di quante esistono - Ca<;arotti) ... dunque, Lingua italiana e Purismo sono due cose che per diritto raziocinio non hanno fra loro la menoma relazione.91
90 91
ivi, pp. 248-249. ivi, p. 21.
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Segue tutto un insieme di verità e di mezze verità, più o meno distorte e usate in modo capzioso per dimostrare ciò che unicamente g1i preme: che i1 punto forte del1e tesi dei puristi avversari (la lingua italiana dei secoli XTTI - XIV) è inconsistente e inesistente. Inconsistente non tanto perché superato nei secoli successivi dal1e voci indotte dal progresso tecnico, ma perché si tratta di fonte rozza e inquinata, aJla quale non vaJe proprio la pena abbeverarsi. Egli respinge la tesi che la lingua itaJiana, in quanto derivante dal Greco e dal Latino, «purissimi ed antichissimi linguaggi», se non una purità assoluta, può almeno vantare una purità relativa. Infatti, a suo giudizio la lingua greca «era essa stessa lingua derivata, quindi ben lontana dal vantare purità». Peggio ancora per la lingua italiana: lasciamo stare che la lingua nostra anche fosse nata dalla Latina lma cos'è: una faticosa concessione? un'ipotesi? - N.d.a.], nata sarebbe dalla bassa latinità - cioè da quel bastardo idioma surlo in Italia, nel 5° secolo, per gli svariati popoli barbari conquistatori; nata sarebbe dalla corrunela di quella brillante lingua del secolo di Augusto; avrebbe avuto origine sulle labbra della plebe di Roma e di tutta Italia, e di conseguente dalla bocca di un volgo profano, e dal corrompimento di una favella, tull' altro, per ordine di natura, potea a lei venire che limpidezza e purità. 92
Quando gli fa comodo, e per svalutare la tradizione classica, lo Sponzilli esalta il valore del linguaggio d'ogni giorno, delle parlate locali che certamente non sono più nobili del latino, ammesso che valgano accostamenti del genere; in questo caso, invece, parla del1a lingua italiana come di bastardo idioma e di lingua del basso volgo, citando anche il Muratori che avrebbe invitato i filosofi a cercare i nostri vocaboli presso quelle nazioni che per lungo tempo donùnarono l' Italia <<Col commercio e con la mercatura». Fino al secolo XIV - aggiunge lo Sponzilli - in relazione alle vicende storiche e politico-militari, «il linguaggio guerresco formato da eterogenei favellari, ritener dovea di ragione , la qualità impura, figlia della sua impura origine».93 Ne llo stesso secolo era in uso scrivere nella lingua latina, Dante e Petrarca scrivevano in latino, mentre la lingua italiana era considerato «un parlare scarso» e riservata a chi, come il Boccaccio, scriveva di co se di amore . In conclusione come tutte le altre cose umane, la nostra lingua nacque rozzissima, che che ne dicano coloro che ne fanno mercato, o quelli che fanno 92
93
ivi, p. 22. ivi, p. 39.
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le viste di adorarla, ma non vogliono durar la fatica di conoscerla a fondo. Della quale rozzezza lutti i veri grandi letterati italiani hanno consentito ....94
Pur di spregiare l'italiano, ne11e pagine seguenti lo Sponzilli non si perita di ricordare - cosa peraltro ben nota - il ruolo di quel tanto disprezzato latino quale «lingua solenne così nelle private come nelle pubbliche scritture» e come lingua comune militare del sec. XIII, «in mezzo a tanto svariato bastardume di favellari». Riconosce che anche il francese e l'inglese sono lingue derivate e bastarde; e per combattere l'ostilità dei puristi alle parole francesi mette in rilievo l'origine comune dell'italiano e del francese (dalla lingua romanza}, e l'origine latina de11a lingua francese, che per lui diventa così un titolo di nobiltà, mentre per la lingua italiana era una grave pecca. E anche per il secolo XV e XVT, dove pur fiorì la letteratura militare italiana e dove architetti e condottieri italiani, lo Sponzilli non vede riflessi linguistici che non siano i soliti: rozzezza e imbastardimento del linguaggio. Solo il primato militare italiano, per lo Sponzilli, non produrrebbe effetti linguistici: e a nulla contano i Machiave11i, i Guicciardini, i Montecuc.coli e i tanti altri eminenti cultori dell'arte della guerra. Nel caso delle parlate locali egli contesta il primato toscano o di chicchessia e sostiene la tesi del1a parità; ma trattando delle lingue per così dire europee non contesta affatto - anzi apprezza e ammira - il linguaggio francese, che non qualifica mai di bastardo, rozzo, volgare ecc. come queI1o italiano, pur essendo anch'esso parlato dalla plebe. La «volgarità» del linguaggio è, a seconda dei casi, un pregio o un difetto, visto che egli ce l'ha coi puristi perché appunto nobilitano troppo il linguaggio, che deve essere quello d'ogni giorno, ma ce l'ha anche con Carlo Botta per il suo linguaggio ricercato, e con il d' Ayala che pure si sforza di trovare un equilibrio tra gli opposti eccessi ... In mezzo a tanto veemente strafare, lo Sponzilli perde la bussola, e con essa perde di vista l'unico obiettivo che poteva avere chi, come lui, avrebbe voluto contrapporre al Buon secolo dei puristi. (il XTV secolo)95 il Buon senso: mantenere parole di derivazione francese o slraniera, solo quando ciò era cosa indispensabile per rendere a tutti intelligibili i progressi delle scienze e de11e arti, e solo quando mancavano parole italiane di pari efficacia. Ne risultano vanificati taluni suoi buoni propositi, come questo: 94
ivi, p. 53.
95 Jbidem.
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cercherò alcun poco di Scienza ed Arte militare né libri stranieri, e vestendo lo anderò con adatte parole intese da tutti i viventi uomini di guerra italiani, e, quando me ne verrà il destro, con parole adatte alla larga intelligenza non solo dé concittadini nostri, ma pur degli stranieri à quali tuttodì affratellandoci andiamo come in una sola, europea, vastissima famiglia. Propositi condivisibili allora come oggi; ma se il Grassi predica bene e razzola male, per lo Sponzilli si verifica più o meno il contrario: se si scorre il suo concreto apporto linguistico, cioè il catalogo, non si può che essere - in parecchi casi concreti - d 'accordo con lui. Riguardo invece alle tesi generali da lui sostenute nelle prime tre parti dell'opera, gli spunti acuti, pertinenti e attuali - che pur non mancano - sono nascosti, soffocati e guastati da pos iz ioni non equilibrate sul rapporto tra linguaggio locale e linguaggio italiano, e tra quest'ultimo e linguaggio europeo, rapporto nel quale il soccombente è sempre e unicamente il linguaggio italiano. Sostanzialmente concordiamo pertanto con il Quarenghi, che nel suo citato articolo sulla Rivista Militare 1880 pur dichiarandosi convinto antipurista condivide le critiche dello Sponzilli alla Crusca, il cui vocabolario non avrebbe diritto «a signoria della lingua», perché è pieno di errori, non rispondente alle esigenze moderne e «limitato alla intelligenza dei soli fiorentini », anziché di tutti gli italiani. Ma a questi riconoscimenti, il Quarenghi aggiunge: con rara dottrina davvero lo Sponzilli si pronunciò contro il purismo delJa Crusca pescato nelle auree carte del secolo XIV e contro quello affettato dal Grassi, ma egli cadde in un altro eccesso e per negare l'origine italiana delle parole volute pure, affermò che le voci della nostra lingua ebbero tutte origine da lingue straniere, importate da chi in Italia ebbe dominio e commercio.%
Conclusione Nella prima metà del secolo XIX il linguaggio militare italiano è come non mai espressione diretta di una nuova realtà in continua evoluzione, sulla quale si riflettono tematiche culturali generali, e che a sua volta influenza tali tematiche, perché non «prende» solamente, ma tal96
C. Quarenghi. Art. cit..
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volta anche «dà». Ci ha colpito ritrovare le tematiche che prima abbiamo visto dibattere in un articolo del 1985, nel quale si parla di un modo di interpretare i «sistemi» lessicali del tutto nuovo, basato sull'osservazione delle trasformazioni progressive del contesto glottologico, quale manifestazioni probanti di un substrato umano in continua evoluzione. In tale processo, il linguaggio militare ha avuto gran peso, unitamente a quello agreste, tenuto conto che la struttura della società all'epoca della nascita del volgare italico era prevalentemente a carattere agricolo, con una forte componente militare tratta dalle campagne.97
Dopo aver accennato al fenomeno di deformazione progressiva dei vocaboli dovuto ad esigenze pratiche di facile e immediato apprendimento da parte della truppa di comandi e/o prescrizioni, 1' autore - come lo Sponzilli98 - si rivela piuttosto pessimista, perché accenna alJ' impossibilità di « una qualsivoglia attività di decontaminazione e di emendatio» dei riflessi linguistici della secolare egemonia spagnola e francese. E chiude con parole, le quali dimostrano che dopo quasi due secoli, il problema del linguaggio militare italiano non è mutato di una virgola: ancor oggi, per altro, non è stato definito un modello linguistico univoco e «accettato», soprattutto nella pressante presenza di neologismi e di termini stranieri (... I Si arricchiscono i vocabolari, ma forse si impoverisce la genuina espressività del linguaggio autoctono [... ] Talché si avverte sempre più la necessità di ribadire concetti e parametri etimologici codificati dalla scienza filologica, per controbattere la massiccia ondata delle contaminazioni, che si ammantano di una dignità apparente ma certamente abusiva.
Oppure si deve applicare anche al linguaggio militare il classico laisser faire, togliere tutte le dighe? li problema è sempre lo stesso. Anche per questo ci sembra più che opportuno un esame sufficientemente approfondito della rinascita del problema del linguaggio militare, proprio in un periodo nel quale si prepara la rinascita nazionale.
97
A. Angelini, Sintesi storico-filnlogica di linguistica militare italiana (in «Studi Storico-Militari 1985», Roma, SME Uf. Storico 1986, pp. 261-276). 98 L'autore dell'articolo cita solo DeLLa lingua militare d'Italia deUo Sponzilli.
CAPITOLO V
LE VOCI PIÙ SIGNIFICATIVE DELL'ARTE MILITARE TERRESTRE E MARITTIMA NELLA LESSICOGRAFIA ITALIANA
Premessa
Nel precedente capitolo IV abbiamo indicato nell'insolita fioritura degli studi linguistici militari il segno premonitore della rinascita nazionale; quest'ultima non poteva non essere preceduta dalla ricerca del modo migliore per dare un'impronta autenticamente italiana al linguaggio, che anche in campo militare rispecchiava un primato francese ormai ritenuto inattuale e soffocante. Un altro obiettivo non meno importante era quello di ricercare un linguaggio comune tra i vari eserciti italiani e tra le varie marine, quale premessa indispensabile e funzionale per la loro auspicata azione comune. Poiché il linguaggio militare oltre che strumento di lavoro quotidiano è anche termometro sicuro della cultura prevalente e dello spirito nazionale che percorre i ranghi, ha trovato piena giustificazione l' inserimento della sua problematica di base e dell'animato dibattito che essa suscita nel capitolo precedente, che definisce il contesto generale nel quale incomincia a prendere forma - dopo secoli di letargo - un rinnovato pensiero mmtare italiano. Le esigenze che ora si pongono sono ben diverse: dopo aver percorso a grandi linee il pensiero europeo (capitolo I - III) e aver individuato filoni e figure principali del dibattito sulla lingua militare e i loro rapporti, si tratta di vedere più nel dettaglio - e con riferimento a specifici aspetti e vocaboli - qual'è il rapporto che il pensiero militare italiano mantiene con le due grandi correnti dei dottrinari e degli ideologi. In altre parole, prima di prendere finalmente in esame i singoli autori italiani è necessario creare una buona base di partenza, individuando i nodi del linguaggio comune e gli influssi d'oltralpe che in esso si manifestano: è questa la miglior via per caratterizzare sia gli autori che il periodo. Intendiamo mantenerci coerenti con il nostro rifiuto di considerare
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arte militare e strategia come qualcosa di angustamente terrestre; quindi ci occuperemo anche della terminologia marittima (e non angustamente
navale), in esclusiva o unitamente alla parte terrestre, senza «confinarla» in apposito capitolo. Per questo l'ordine di trattazione più adatto nel caso specifico è quello cronologico, tale da consentire l'individuazione di momenti evolutivi, di raccordi immediati e di successivi influssi là ove essi esistono, influssi dovuti sia alla pubblicazione di nuove opere, sfa al progresso tecnico.
Il « Vocabolario di Marina in tre lingue (italiano - francese - inglese)» di Simone Stratico ( 1813): prevalente influsso francese.
Quando lo Str. compila questo vocabolario' esiste da molti secoli una strategia navale - almeno per quanto lo consente Re Vento - istintiva e praticata, ma non una strategia navale riconosciuta come tale, parlata e scritta. Al momento il vapore è ancora alle primissime armi, e i confini tra l'arte di navigare civile e militare sono assai labili: si può anzi dire che il problema fondamentale della navigazione rimane quello di sfruttare al meglio i venti e di aver ragione delJe avve.rsità atmosferiche. Di fronte a questa esigenza primordiale, ogni considerazione o fattore di carattere meramente tecnico-militare viene meno. La mancanza di una strategia navale scritta, parlata o teorizzata non è dunque segno di decadenza, incuria o infanzia, ma semplice adeguamento a una ben precisa realtà tecnica: al tempo le singo]e navi come le flotte non sono come ordinanze militari terrestri che il capitano può pur sempre spostare con relativa facilità e senza troppi vincoli da parte dell'ambiente naturale, fino a far dire a Maurizio di Sassonia che il segreto della vittoria sta nelle gambe dei soldati. Sul mare, è quest' ultimo a venire prima dei disegni deg]i uomini; al comandante in mare è richiesta, prima di tutto, una consumata abilità ed esperienza nell ' arte della navigazione e delle evoluzioni, tendenti a sfruttare al meglio il vento. Con queste premesse generali, non può stupire più di tanto se lo Str. - pur essendo un dotto senza alcuna esperienza o preparazione militare e senza alcuna pratica navale - dedica una parte della sua opera a voci marinaresche di diretto interesse militare; o, al contrario, se le voci di interesse militare sono inserite nel più ampio contesto delle voci attinenti alla navigazione, e anzi con esse formano un tutt'uno senza nette separaz10n1.
1
Cfr. S. Stratico, Op. cit. (4 Voi.).
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Oltre che la voce strategia (marittima/navale), il vocabolario dello Str. omette di definire anche altre voci fondamentali come guerra, battaglia e combattimento (l'Enciclopedia Francese del 1757 invece già parla di battaglia e combattimento navale, e come meglio vedremo in seguito, dedica un certo spazio anche alla guerra navale). Nemmeno vi compare la voce arte militare marittima: si parla solo di Navigazione, definita «scienza e arte di dirigere e condurre le navi sul mare, da un paese all'altro, nei diversi paraggi del globo». Essa non consiste solamente nel condurre il naviglio da un luogo all'altro, ma nel fargli mantenere la direzione voluta manovrandolo e governandolo con sicurezza. La navigazione si divide in alturiera o di lun1:o corso e costiera o di cabotaggio; il termine nautica viene definito «scienza del navigare». Gli aggettivi più importanti citati sono: nautico, «ciò che si riferisce alla navigazione»; navale «si dice delle cose che appartengono alle navi da guerra e alla guerra marittima, come armata navale (Fleel); combattimento, battaglia navale». L'aggettivo marittimo viene citato, ma non se ne dà una vera e propria definizione: si indicano solo i sostantivi ai quali si accompagna (affari marittimi; servizio marittimo; potenze marittime; coste marittime). Fin da allora, quindi, l'aggettivo marittimo ha un significato più pregnante, completo e meno angustamente militare di navale, che è invece un termine prettamente militare, cioè riferito a navi da guerra e al loro aggruppamento e impiego. l termini prettamente militari sono quelli relativi all'impiego (tattica navale e evoluzioni navali) e quelli di carattere organico (armata navale, squadra navale, divisione navale, linea e colonna). Lo Str. considera la flotta un termine riferito essenzialmente a un insieme di navi mercantili che navigano di conserva (il riferimento è ai convoglio spagnoli dalle Americhe), pur ammettendo che «si dà il nome di flotta , ma abusivamente, anche a una squadra o a un'armata navale» (per la flotta si indica il diminuitivo flottiglia , piccola flotta). L'armata navale «è una forza grande composta di molto numero di navi da guerra. Quando il numero delle navi di linea, non comprese le fregate, è minore di ventisette, non è un'armata navale, ma una squadra. Un'armata navale è divisa in tre squadre, la prima delle quali forma il corpo di battaglia, la seconda è la vanguardia, la terza è la retroguardia, ciascuna delle quali è comandata da un uffiziale generale, e sono d'ordinario distinte con i colori bianco, turchino, e mezzo bianco e mezzo turchino. Ogni squadra ha tre divisioni». Per divisione navale si intende «un certo numero di navi che fanno parte di un'armata navale composta di tre squadre. Chiamasi anche divisione una piccola squadra destinata a una missione particolare».
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La tattica navale - prima definizione italiana del secolo XIX - è «l'arte di fare le evoluzioni navali, e la cognizione dei diversi movimenti che possono fare, e delle disposizioni che possono prendere le navi d'un corpo d'armata navale o di una squadra». Ancor più importante la voce evoluzioni navali, nelle quali si compendia la tattica: «sono la scienza della tattica navale, (sic) la cognizione del modo di eseguire diversi ordini di marcia o di battaglia, e delle posizioni che possono prendere le navi in un corpo d'armata navale o di squadra, manovrando tutte insieme o successivamente, per giungere alla combinazione ordinata dal comandante. In ciascuna evoluzione che fa un'armata navale, essa muta di posizione relativamente al nemico, secondo il vento che spira, e sovente la situazione rispettiva delle sue divisioni si muta. Dalla perfetta intelligenza di questa parte e dal pronto eseguimento, per profittare dei vantaggi che possono offrire le differenti combinazioni, risulta il guadagnare le battaglie ed il buon successo degl'irnpegni di guerra marittimi. La nave comandante indica !'evoluzioni con dei segnali, che nello stesso istante fa ripetere da una nave almeno di ciascuna divisione e da alcune fregate che, essendo fuori della linea di battaglia, sono meglio vedute da tutte quelle dell'armata». Le formazioni di battaglia sono la linea e la colonna. Sono riportate le voci linea e linea di battaglia. La linea «è la maniera in cui è disposta d'ordinario un'armata per combattere. Chiamansi navi di linea quelle a tre ponti e quelle che hanno due batterie, cominciando da quelle di 50 cannoni o più, poiché queste soltanto si dispongono in linea per combattere; anzi da lungo tempo francesi, inglesi e spagnoli non mettono più in linea le navi di 50 cannoni». Interessanti le ulteriori considerazioni a proposito di linea di battaglia: «disposizione delle navi di una squadra o armata navale su di una stessa linea, per combattere il nemico. Questa linea d'ordinario è quella del più presso, perché in questo momento è essenziale mantenersi al vento, o per guadagnare il sopravvento al nemico o per conservare questo vantaggio se si ha, o finalmente per poggiare, se le circostanze del combattimento lo richiedono». Non manca, infine, il classico termine che definiremmo nelsoniano: tagliare la linea del nemico, cioè «attraversare 1a linea dell'armata nemica, separandone una parte dall'altra, sicché non possano sostenersi vicendevolmente». Per nave si intende un bastimento grande a tre alberi e più ordini di vele. Le navi possono essere da guerra, di compagnia (navi che appartengono a una compagnia mercantile) mercantili (il cui unico impiego è il trasporto di masserizie), da carico (costruite con fondo largo e grosso corpo, per poter aumentare il carico), da trasporto (navi noleggiate per
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conto de11o Stato, per portare viveri e munizioni a] seguito di una spedizione). Le navi di linea, cioè le navi da guerra maggiori, sono distinte in vari ranghi, secondo i] numero dei cannoni e le loro dimensioni (i vascelli di primo rango sono a tre ponti e hanno da 90 a 132 cannoni). Non tutte le navi da guerra fanno parte della linea: infatti «si usa di non contare le armate navali se non che per il numero delle navi di linea, delle quali sono composte, e non si riguardano le fregate, le flutte, i brulotti, i bastimenti di trasporto, se non come accessorj» . Le navi da guerra minori, che non fanno parte della linea, si distinguono in fregate e corvette. Le fregate sono «navi da guerra guernite come le navi di linea, che somigliano ad esse in tutte le loro manovre, e non ne differiscono se non per essere più piccole, e perché hanno una sola batteria (26-40 cannoni di calibro 12- 18). Si mettono aJ quinlo rango delle navi da guerra[ ...] sono utilissime per andare alla scoperta, per dare la caccia, per portare avvisi, per dare soccorsi e proteggere hastimenti disarmati. Devono marciare velocemente ...». Le corvette sono bastimenti da guerra della stessa forma e altrezzatura delle fregate, ma di dimensioni minori e con minor numero di cannoni (da 6 a 20). Servono soprattutto per esplorazione e per parlare notizie; debbono perciò essere in grado di muovere velocemente. I brulotti sono bastimenti riempiti di polvere e materie infiammabili, che si guidano verso una nave nemica onde appiccarvi il fuoco. Sempre a proposito dei tipi di navi, la voce incrociatore - nello Slr. come in tutti gli scrittori coevi - non identifica ancora un tipo di nave con caratteristiche ben definite e corrispondenti a un altrettanto ben definito ruolo nella squadra navale, ma piuttosto «bastimento che incrocia o è in crociera. Vascello che scorre o corseggia sopra una costiera o spiaggia, per guardarla o per esercitarvi la pirateria». Per la loro importanza ordinativa e logistica, riportiamo le voci Marina e Arsenale. La voce Marina ha tre significati: a) in senso generale, tutto ciò che ha attinenza al servizio in mare sia militare che civile, alla navigazione, alle costruzioni ecc.; b) «l'insieme di tutte le navi fmilitari] ed altri bastimenti e munizioni navali che appartengono allo Stato, per servire a11e difese dai nemici o per attaccarli, a proteggere il suo commercio marittimo, o a distruggere quello dé suoi nemici». Si distingue in Marina Militare e Marina Mercantile; c) «collezione delle cognizioni e delle arti necessarie alla costruzione, ali' armamento, all' equipaggiamento delle navi, alla loro navigazione. Questa scienza è molto ampia e ne abbraccia molte altre. Tutte le scienze matematiche, la meccanica, l'idrodinamica, la statica, l'astronomia, la fisica, vi hanno relazione, come ancora la maggior parte delle arti e mestieri più comuni. La Marina fran-
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cese (militare e mercantile) è governata dal Ministro, autorità operativa e logistica, civile e militare. Il corpo militare di marina è composto da vice-ammiragli, contrammiragU, capitani, luogotenenti, insegne di navi. Le spese e approvvigionamenti fanno capo a ufficiali civili. L'iscrizione marittima dei marinai, la navigazione mercantile ecc. sono regolate e sopravvegiate dai commissari d'iscrizione marittima, sottocomrnissari e preposti, stabiliti nei diversi porti, sotto l'autorità degli ordinatori dei porti di Brest, Tolone, Rochefort e del1'0riente ... ». L'Arsenale - che è insieme base operativa, base di raddobbo, arsenale di costruzione e deposito fortificato di tutto quanto serve alla flotta - è l'elemento portante della Marina. Al tempo, quello di Venezia è ancora il più importante in Italia: ARSENALE, s.m. ARSENAL. A. royal dockyard, together it's warren or gun warf Recinto in una piazza marittima, per contenere tutti i magazzini, cantieri, officine necessarie alla costruzione e raddobbo delle navi da guerra, fregate ed altri bastimenti appartenenti al sovrano, al loro approvvigionamento e al loro armamento. Un arsenale debb'essere fortificato, e, se si può, isolato, onde essere custodito con facilità, e trovarsi aJ coperto delle sorprese del nemico. Debbe avere il minor numero possibile di sortite. Bisogna ch'egli sia bastantemente spazioso, onde si abbia una grande estensione di rive murate, e luogo per tutti i magazzini necessari alla conservazione degli attrezzi delle navi e d'altri bastimenti, un magazzino generale per le provvigioni d'ogni sorta, una corderia, una sala d'armi, una sala ampia per disegnare i sesti, un parco d'artiglieria, delle tettoje e magazzini per alberi, legname, bottame ecc.; degli scali e cantieri per la costruzione delle navi; dé bacini e forme per rifare e raddobbare i bastimenti; una macchina o mancina da inalberare; delle officine d'artefici di tutte le arti relative alla marina, come girellaj o bozzellaj, trevieri o velaj, remaj, bottaj, falegnami, scultori, carradori, tornitori ecc. La fonderia, la fucina, l'officina del magnano, la pegoliera debbono essere separate dal resto, e, se si può, circondate d'acqua, per prevenire i pericoli degl'incendj. L'arsenale debbe avere alla sua portata un forno da pane e da biscotto, dé magazzini di viveri, e un ospitale pé marinaj e per gli operaj; ma questa parte conviene che sia fuori dal ricinto. Si debbe stare sempre in guardia per prevenire gli incendi in un arsenale; perciò i magazzini di polvere debbono esserne molto lontano, non si deve permettere che entri nel porto verun bastimento, iJ quale abbia a bordo della polvere, e quelli che sono carichi di materie combustibili, come canapa, catrame ecc., tengansi lontani dalle navi e dai magazzini. Tutti i magazzini, né quali sono riposte materie infiammabili, abbiano delle secchie, botti, ganci,
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scale, trombe da incendj; e nessun operajo o marinajo possa fumare o far fuoco. Debbono esservi delle buone guardie a tutte le sortite, e delle sentinelle distribuite né posti importanti, una nave da guerra all'uscita dalla parte del mare, e delle patasce galleggianti nelle diverse parti del porto, con corpi di guardia. Gli arsenali più rinomati sono quelli di Brest, di Tolone, di Rochefort, dell'Oriente, di Portsmouth, di Ferol, di Cartagena in Europa, di Venezia, di Copenhagen, di Carlscrona, di Cronstadt, dell' Avana nell'isola di Cuba. ARSENALOTTI, s.m.pl. Nome collettivo che si dà in Venezia agli artefici d'ogni classe che lavorano nell' arsenale, e sono soggetti alle discipline del luogo. Erano anche la guardia del maggior consiglio quando si adunava nelle feste, armati di brandistocchi.
Scorrendo le pagine dello Str. si ha una prima efficace immagine non solo dei termini prettamente marinareschi del tempo, ma anche dell'arte militare marittima - e della guerra sul mare, ivi comprese la logistica, l'organica e l'amministrazione. L'ottica internazionale dello Str. - che aiticola il suo dizionario in un testo di 3 volumi (ciascuno corrispondente rispettivamente all'italiano, al francese e all ' inglese) e in un volume di illustrazioni - ha, all'atto pratico, un ben concreto significato: non esistono caratterizzazioni o aspetti prettamente nazionali nell'arte militare marittima, ma il «modello>> dominante e anzi unico è quello delle due grandi marine europee, con particolare riguardo per le marine d'Italia - a quello francese, spesso indicato nei particolari e continuamente citato. Nell'ambito nazionale, le marine dominanti sono comunque tre: la veneta, la napoletana e la genovese. Ciascuna delle tre ha diverso linguaggio; inutile dire che lo zaratino Stratico, vissuto all'ombra della morente Repubblica di Venezia, in ambito nazionale tende istintivamente a privilegiare il linguaggio dei marinai di Venezia. Riguardo alla tattica navale, nel concetto dello Str. si nota la sua pratica identificazione con le evoluzioni: tendenza, questa, destinata a sopravvivere e più tardi severamente condannata da molti autori europei dell'età del vapore, tra i quali il nostro Fincati,2 perché confonde il mezzo (le evoluzioni navali) con il fine (che è vincere con idoneo dispositivo il combattimento tra flotte contrapposte, cosa per la quale non è sufficiente compiere bene le evoluzioni ordinate dal!' Ammiraglio e che comunque è il vero obiettivo della tattica). Quest'ottica di2
L. Pineali (Amm.), Studi sul combattimento in mare, Roma, Forzani 1882, pp. 3-4
e 62-64.
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storta trova naturalmente ampia giustificazione nell'importanza che nelle marine a vela assumevano le evoluzioni, per conservare la linea di fila e il vantaggio del vento in un'armata navale: di qui una libertà di manovra assai ridotta delle singole navi in formazione, i cui comandanti specie nel «modello» francese danno prova della loro abilità soprattutto nel mantenere con rigore geometrico, nonostante i capricci del vento, il posto in formazione loro assegnato con relative distanze e intervalli. Poiché il culto per la conservazione esatta de11a linea di fila e per le evoluzioni è - come meglio vedremo in seguilo - prevalentemente di marca francese, sono gli autori di vocabolari o dizionari di marina francesi a costituire la maggior fonte d 'ispirazione dello Str., né egli cita nella prefazione all'opera alcun autore di specifico interesse militare; d'altronde oltre a non essere un militare, lo Str. non è nemmeno uno scrittore militare né un marinaio. Forse perché lo Str. non è un militare, nell'opera non si trova il significato di tennini oggi fondamentali con dominio del mare, potere marittimo, ecc., né egli sente il bisogno di fare considerazioni sull'importanza delle flotte e del commercio marittimo. Sicuramente il Nostro non ha consultato l'Enciclopedia francese del 1754, dove sia pure troppo succintamente la battaglia navale viene definita «battaglia <lata in mare» e dove si trovano le pregnanti considerazioni - tratte dalle opere del Marchese di Santa Cruz - sul ruolo delle forze navali, che ci riserviamo di prendere in esame nel prosieguo dell'opera. Dopo aver rilevato queste mende, non si può essere troppo severi con lo Str. e si deve riconoscere che la sua opera è un riferimento fondamentale per tutti gli autori che seguono. Ancora una volta è il confronto che vale: se, ad esempio, si consulta il Dizionario di Marina medievale e moderno del 1937,3 vi si nota ugualmente l'assenza <li termini come dominio del mare - potere marittimo, battaglia e combattimento navale ecc., mentre per voci fondamentali come strategia navale e guerra marittima si riprende l'Enciclopedia italiana del periodo o vi si rimanda. E nello stesso Dizionario del 1937 alla voce tattica navale si fa esplicito riferimento a11o Stratico, dandone una definizione somigliante a quella jominiana per la tattica terrestre, e identificandola con l'azione, con la condotta, senza precisarne il fine o i limiti: «parte dell'arte militare marittima che riguarda la condotta di una forza navale, avvistando il nemico e durante l'azione offensiva (Stratico, ecc.)». 3
Roma, Reale Accademia d'Italia 1937.
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Da Montecuccoli a ]omini: il «Dizionario militare italiano» di Giuseppe Grassi (l8 Ed. 1817; 2a Ed. 1833)
Il dizionario militare de] Gr.,4 più che essere so1o ta1e, è un'enciclopedia o un dizionario enciclopedico: pur essendo dovuto a un civile, dà un'immagine efficace e abbastanza completa non solo dell' arte militare terrestre ma anche della vita, del costume militare del tempo, ivi compresa la vita di caserma, ]a fortificazione, la disciplina, l' amministrazione, ecc .. Almeno sotto il profilo de11'arte militare e della sua ripartizione e de1le principali voci che la caratterizzano, le due edizioni del dizionario, delle quali sotto il profilo linguistico generale abbiamo già trattato ne] capitolo IV, non presentano differenze sostanziali. Accenneremo pertanto alle differenze solo 1à ove esse sono significative, per il resto rifacendoci all'edizione 1833 come a quella più «matura» e completa. Invano si cercherebbe ne11e pagine dei più celebrati scrittori e storici del tempo, ciò che si trova nelle pagine del Gr., il quale aggiunge alle voci più importanti proprie considerazioni sulla materia. Per inciso il Gr., autore di un'edizione in due volumi del Montecuccoli,5 mollo ne loda gli scritti ricordando che all'estero erano ritenuti «esemplare irrefragabile e unico di scienza militare ridotta a suoi più schietti principii», mentre l'edizione del Foscolo «non bastò a ritornare a quelle opere l'intiera fama loro, perché l'illustre editore per la mancanza di un buon testo, come per impazienza d'ingegno, 1e diede al1'Italia imperfette e scomposte». L'influsso di Montecuccoli è evidente nel concetto di guerra, che può essere marittima o terrestre ed è così definita: «militarmente parlando, è ]'azione di due eserciti offendentesi in ogni guisa, il cui fine è la vittoria». Peraltro, si aggiunge la definizione di Grozio e dell' Enciclopedia Francese: «coi Giurisprudenti è un dissidio fra due Stati, che si definisce coll'armi». Si cita anche i1 detto di Machiavelli che «solevano i Romani far le guerre corte e grosse», e si ricorda che ciascun tipo di guerra ha precetti e regole specifici. Da notare la differenza tra guerra campale (che ha come fine ultimo la battaglia) e guerra di montagna (che evita la battaglia e intende stancare, logorare il nemico contenendo la sua avanzata). Nell'edizione 1817 si trova un accenno ai vantaggi della guerra di montagna per gli italiani (in funzione antifrancese?) che stranamente scompare ne11'edizione 1833: «la natura diede all'Italia monti, gioghi, valli interrotte da fiumi, e stretti inaccessibili; diede agli i4
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G. Grassi, Op. cit.. Torino, Favale 1821.
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taliani [non ai piemontesi! - N.d.a.] corpo sofferente, anima ostinata, ed ingegno acuto. Non mancano più le istituzioni e gli studj guerrieri; e però se mancherà l'amore di patria le nostre sciagure saranno colpa nostra, e nostra infamia». In compenso nell'edizione 1833 si trova la voce guerra minuta (frane. petite guerre, traduzione contestata dallo Sponzilli) che significa «un combattere senza ordinanza e alla spicciolata, che si fa per lo più nei paesi di montagna, ove poca gente difesa dal sito e vantaggiata dalle eminenze, molestando da ogni banda e con tiri accertati il nemico, gli contende gran tempo il passo». Nella stessa edizione 1833 il Grassi è l'unico degli scrittori italiani coevi a distinguere tra buona guerra (regolata secondo i diritti e gli usi della gente civile) e mala guerra (il contrario di buona, che viene condotta senza attenersi alle regole e consuetudini in uso tra gente civile). Nel 1817 l'arte bellica o della guerra è «la disciplina del guerreggiare, che ha per oggetto la guerra e per fine il vincere» e si divide in castramentazione, strategia e tattica. Nel 1833 l'arte militare - suddivisa in tre parti come nel caso precedente - è l '«arte di impiegare ostilmente le forze di una nazione contro una nazione nemica; ha per oggetto la guerra e per fine il vincere». Distinzione, quest'ultima, assai moderna e più pregnante della prima, visto che considera uno scontro tra nazioni e non solo tra eserciti. Essa ha tre parti principali: «la castramentazione (arte di accampare); la strategia (arte di marciare); e la tattica (arte di ordinarsi in battaglia o scienza delle evoluzioni)». Più nel dettaglio, la strategia nel 1817 è definita (senza corredo di citazioni) come «arte di condurre gli eserciti, e intendesi particolarmente la scienza delle marce». A parte il pasticcio assai comune anche oltr'alpe tra arte e scienza, da questa definizione emerge abbastanza chiaramente l'indubbio oggetto della strategia (che è arte di condurre gli eserciti, basata sul loro movimento) e la sua differenza rispetto alla tattica (che si occupa di disporre gli eserciti sul campo di battaglia, cioè riguarda le battaglie e non la guerra). La definizione di strategia del 1833 è assai peggiore perché - sotto l'influsso di Jomini e/o dell'Arciduca Carlo - riduce la strategia a pura teoria o scienza, che semplicemente riguarda il movimento fuori dalla vista del nemico: «Teorica del muovere gli eserciti fuori della vista del nemico, per condurgli dove più giovi a combattere le forze contrarie, od a riparare ad esse. La strategia non è a confondersi con la tattica, essendo questa propriamente l'arte delle battaglie, quella la scienza della guerra (sic), che ne comprende e ne combina tutte le generalità: questa scienza stringe in un pensiero tutte le combinazioni della guerra o di un'impresa, che sono infinite, mentre la tattica considera i soli particola-
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ri del vincere. Vuolsi qui rammentare una bella distinzione di un'illustre capitano, l'Arciduca Carlo, il quale dice che la strategia è la scienza, e la tattica è l'arte della guerra; che la prima è per così dire la mente, la seconda il braccio d'ogni militare impresa. In questo significato la voce è nuova, e tuttora incerta ... ». Queste definizioni vanno verificate alJa luce dei concetti di battaglia e di vittoria (o vincere): dal 1817 al 1833, anche in questo caso si nota una certa attenuazione del ruolo decisivo della battaglia e della tendenza a concepire la debellatio de]l ' avversario come fine ultimo della battaglia e della guerra. Nel 1817 si nota l'influsso contrapposto di Montecuccoli e insieme dell'Enciclopedia Francese, e compare il concetto di battaglia decisiva che poi non si ritrova più nel 1833: «La battaglia è l'approntamento di due eserciti nemici ordinati a combattere. Il nome di battaglia si dà solamen~e quando l' affrontamento ha luogo tra due eserciti compiuti, o almeno quando una delle parti combattenti ha tutto il suo esercito ordinato, quando questi eserciti combattono in linea di battaglia, e quando si decide in essa la somma delle cose. La battaglia obbliga necessariamente uno dei due eserciti a cambiare la base delle operazioni; se la base rimane la stessa, se uno dei due eserciti è attaccato alla sprovveduta, se non si trovano unite nei due eserciti combattenti le loro forze maggiori, l'azione prende il nome di combattimento, o di fatto d'arme. La battaglia si dà, si riceve, si sfugge, s'incontra, si disputa, si vince, si perde. La battaglia vinta prende il nome di vittoria. La battaglia perduta si chiama sconfitta, disfatta. La battaglia (1817) dicesi decisiva, giusta, compiuta (bataille decisive) «quando uno dei due eserciti rotto o sperperato abbandona al vincitore il campo di battaglia, che occupava; quando lascia scoperta una piazza di prim'ordine già protetta da esso; quando è costretto a trasportare indietro la base dalle sue operazioni lasciando in preda al vincitore una gran parte delle sue artiglierie e dei suoi bagagli, quando insomma ha perduto la linea delle sue prime operazioni» [qui è evidente l' influsso dell'Enciclopedia Francese - N .d.a.]. La vittoria (1817) è «la battaglia vinta colla disfatta dell'esercito avversario. La vittoria è il fine della battaglia. Per tenerla in pugno conviene avere soldati disciplinati, ed esperto capitano. Amplificare la vittoria, perseguitare l'esercito battuto colla spada né fianchi, non dargli più riposo, minacciare, e staccare gli alleati dall'avversario, invadergli il Paese, rompergli affatto la linea delle comunicazioni, impadronirsi dé suoi magazzini, è opera del vincitore. La vittoria è indecisa quando dopo la battaglia gli eserciti rimangono ancora sui campi, che prima occupavano e cantano tutti e due il Te Deum». Sempre nel 1817, il verbo vincere ha un
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significato dal quale risulta ben chiaro che la vittoria deve essere netta, decisiva, e comportare la distruzione dell'avversario. Esso è «il fine della guerra, cioè restare al di sopra dell'inimico, averne vittoria, superarlo, debellarlo, soggiogarlo, sconfiggerlo, volgerlo in fuga, in rotta ecc.». Nel 1833 non compare più l'importante concetto di battaglia decisiva, né si precisano le circostanze nelle quali si può verificare qualcosa del genere (perdita delle artiglierie, abbandono del campo ecc.). In compenso si insiste molto sul concetto di bataille rangée che già compare nell'Enciclopedia Francese, traducendola con vari termini: battaglia campale, di campo o giornata, («conflitto» tra due eserciti «ordinati», nel quale combattono o possono combattere tutte le rispettive forze, e col quale si decido l'esito della guerra); battaglia affrontata (battaglia campale d'incontro, nella quale due eserciti si incontrano di fronte e in ordine di battaglia), battaglia giudicata o ordinata, (battaglia giusta, ordinata, combattuta, con tutte le forze dei due eserciti, e secondo le buone regole e gli ordini della milizia). Nel 1833 si ammette che la vittoria può essere oltenula, oltre che con la disfatta, anche con la semplice ritirata dell'avversario, e si prevede anche che la vittoria può essere indecisa, «quando dopo la battaglia i due eserciti, che hanno combattuto, rimangono negli stessi campi che prima occupavano, e da ambe le parti si canta il Te Deum» (riferimento a quanto dice in proposito l'Enciclopedia Francese). E il vincere consiste semplicemente nelJ' «ottenere il fine della guerra o della battaglia; restare al di sopra dell'inimico; averne vittoria», senza più parlare di debellare, soggiogare, volgere in rotta ecc. il nemico. Questa tendenza ad annacquare i concetti a che cosa è dovuta? a una evoluzione o involuzione culturale, alla aspirazione dello stesso Grassi negli ultimi anni ad essere pienamente accettato nel I' establishment, oppure alla mano moderatrice degli Accademici? Le differenze tra l'edizione 1817 e l'edizione 1833 a proposito dei termini fondamentali sono dovute anche alle critiche. Ad esempio il maggiore G.G. Ferrari nel citato opuscolo del 1819 (vds. Capitolo TV) contesta specialmente le voci strateJ?ia e evoluzioni dell'edizione 1817. A proposito della prima il Ferrari osserva che l'equivalente francese di strategia non è stratégique (come scrive il Gr. nel 1817) ma stratégie (e nel 1833, il Gr. così modifica la versione francese). Ma poi il Ferrari perde lo smalto, perché pur negando la validità della definizione che il Gr. dà nel 1817, anch'egli più o meno ricalca gli stilemijominiani, scrivendo che la strategia è «Scienza delle grandi operazioni di guerra cioè di quelle operazioni che dipendono da calcoli e da combinazioni mentali del generale, e succedono in un raggio più esteso che quello di un campo
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di battaglia. Le operazioni che si fanno sopra un campo di battaglia ove il generale decide secondo ciò che vede cò propri occhi [nostra sottolineatura - N.d.a.] spettano al1a tattica». A parte altri influssi, quanto scrive i] Gr. nell'edizione 1833 rendendo esplicito omaggio aJl' Arciduca Carlo, non è in contrasto con il punto di vista de] Ferrari. Più centrate le osservazioni del Ferrari a proposito del vocabolo evoluzione/i, che il Gr. nell'edizione 1817 estende anche al campo strategico pretendendo di tradurre con tale termine anche la parola francese manoeuvre, e affermando che il segreto delle grandi evoluzioni consiste ne] solito principio jorniniano di «portare maggior massa w11 maggiore velocità contro l'inimico, e nel moltiplicare la massa per la velocità». Di conseguenza nel Gr. non compare nemmeno nel 1833 il termine manovra (derivato dal francese) oggi comunemente usato, così come non compare la traduzione italiana della parola francese combinaison, combinazione, particolarmente usata da Jomini in campo strategico per indicare la riunione della massa delle forze nel punto decisivo. E ha parecchie ragioni il Ferrari scrivendo (come ha fatto Clausewitz più tardi) che il Sig. Grassi è un orbo che va brancolando quando dogmatizza essere il segreto delle grandi evoluzioni nel portare maggior massa
con maggiore velocità contro l'inimico, e nel moltiplicare La massa per la velocità. Qui egli confonde le evoluzioni che appartengono alla tattica coi grandi movimenti di calcolo e di combinazioni proprii della strategia; confonde la massa e la velocità che costituiscono la quantità di moto in un corpo meccanico spinto da una forza, con un grosso di truppa recato speditamente, sovra un punto ove l'inimico abbia a riescere più stremo, che è il vero segreto posto interamente nella sagacità del generale e pel quale un Esercito inferiore, quasi per incantesimo, si fa padrone della vittoria. La quantità di moto meccanico applicata un tempo al calcolo della forza d ' urto nello scontro della cavaHeria con la fanteria (abuso di teorie or deriso) ha forse confuso il Sig. Grassi nella spiegazione de lle grandi evoluzioni di guerra.
Si deve prendere atto che questa è una fondata critica alle pretese geometriche de11' Arciduca Carlo. E il Gr. nell'edizione 1833 ne tiene opportunamente conto, eliminando gli accenni alla massa e alla velocità, mostrando di voler restringere ]e evoluzioni a] campo tattico e riprendendo quasi alla lettera talune considerazioni del Ferrari, ad esempio là ove egli afferma che «A formar linea di evoluzione basta presso i francesi che vi sia più di un battaglione, e più di un reggimento presso gli austriaci». Le interpretazioni e considerazioni su11e voci fondamentali sono di-
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scutibili come tutte quelle del periodo: esse comunque non bastano a qualificare l'opera, che nel suo complesso è una vera miniera di dati, riferimenti e curiosità. Troviamo ad esempio nelJ'edizione 1833 il termine batteria gallegiante (in francese: batterie .flottante) che, sempre più corazzata e sempre più mobile e semovente, avrebbe appunto dato origine alla nave corazzata: «una quantità di bocche di fuoco posta sulle piatte, o sopra barche cannoniere per battere dal mare, o da un gran fiume, o da un lago la città assediata, od il nemico». Un altro termine i cui contenuti consentono di chiarire la vera origine del famoso, omonimo corpo è bersagliere (tirailleur). Nel 1833, cioè prima che il capitano Alessandro La Marmora presentasse al Ministro Villamarina la sua proposta (1835), il Grassi per bersagliere intende «soldato che combatte spicciolato o a branchi fuori dalla fronte del battaglione, dello squadrone, o dell'esercito per assaggiare le forze dell'inimico, commettere i primi colpi, sostenerne l'impeto con vivo fuoco, stancheggiarlo, pizzicarlo. È voce moderna» [usata dal Foscolo - N.d.a.]. Quindi il bersagliere era un soldato speciale che agiva fuori dai rigidi ordini di battaglia della fanteria di tutti gli eserciti. Quest'u]tjma combatteva schierata su diverse righe e in ben determinate formazioni serrate, che compivano evoluzioni e movimenti d'insieme rigidamente prestabiliti in appositi regolamenti; il bersagliere invece si muoveva più liberamente e sparava al bisogno (e non solo su ordine come avveniva per la normale fanteria). Era insomma qualcosa di simile al vélite romano, e il Grassi indica come suo sinonimo Feritore: «chiamarasi dagli antichi con questo nome i soldati della schiera che moveva la prima contro il nemico, e che dava il primo assalto, essendo a quel tempo gli eserciti divisi per lo più in molte schiere f...l si adopera ora in istile nobile per soldato armato alla leggiera, c he commette spicciolato i primi colpi contro il nemico, quello che i francesi chiamano Tirailleur, ed i nostri scrittori dell'arte Bersagliere». Non si tratta di curiosità filologiche: se ne può dedurre che il corpo dei bersaglieri costituito da Carlo Alberto con il R. Brevetto in data 18 giugno 18366 non rappresenta - come si è scritto di recente - una reazione, un rimedio al carente addestramento tattico e all'insufficiente attitudine al tiro al bersaglio della fanteria del tempo, 7 ma piuttosto l' istituzio6
Cfr. «Enciclopedia Militare», Voi. li p. 210. Così si sostiene nel Quaderno n. 4/1986 della Rivista Militare, dedicato appunto ai bersaglieri. Noi riteniamo che se la fanteria era poco addestrata, evidentemente il problema era di addestrarla meglio e non di creare specialità che tra l'altro la depauperavano, quindi la rendevano ancor più carente e aggiravano il problema anziché risolverlo. 7
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nalizzazione - con la creazione di un'idonea specialità della fanteria- di un'esigenza sentita fin dai tempi più antichi con i veliti: la necessità di disporre di truppe armate alla leggera per tutti i compiti da svolgere al di fuori e in ausilio delle normali, rigide ordinanze cli battaglia della fanteria, specie su terreni rotti, montuosi e accidentati e per quella che gli scrittori francesi del secolo XVlll e XIX chiamavano la petite guerre, piccola guerra. Il corpo dei bersaglieri del 1836 in sostanza non era che la versione piemontese dei tirailleurs francesi (specialità della fanteria già esistente ai tempi di Napoleone e fors'anche prima), degli schiitzen prussiani e svizzeri, deifeldjiiger austriaci ecc .. Non è affatto vero che essi non andavano confusi con la fanteria leggera: quale specialità o Arma, se non la fanteria leggera dei principali eserciti del tempo, era più adatta «per concorrere nei servizi dei posti avanzati, di vanguardie, pattuglie, scoperte, esploratori» e per venire impiegata «nei paesi montuosi , nelle diverse fazioni della guerra minuta?». Il nuovo corpo, dunque, non era visto come rimedio alle carenze della normale fanteria, e nemmeno era qualcosa destinato a sostituirla: era semplicemente ausiliario rispetto alla fanteria stessa, non casualmente chiamata ancor oggi di linea, cioè idonea solo a schierarsi in formazioni di battaglia e non ad agire alla spicciolata come i bersaglieri. Va da sé che tutte le ben note, spiccate doti morali e fisiche richieste dal La Marmora, e lo speciale armamento da lui voluto, servivano essenzialmente a sviluppare una capacità di rapido movimento senza schemi· rigidi, e una capacità di tiro e cli azione individuali. Doti indispensabili per lo specifico impiego che tuttavia non guastavano certo nel fante normale, il quale, al bisogno, avrebbe dovuto svolgere gli stessi compiti dei bersaglieri ... 1 bersaglieri piemontesi del 1836 erano particolarmente idonei ad agire nei terreni montuosi e alpini, e non agivano più - come scrive il Gr. - subito davanti alle rigide ordinanze della fanteria, perché queste erano ormai assai meno rigide. È se mai questa spiccata idoneità ad azioni autonome in montagna (non sono ancora nati gli alpini) che li differenzia dalle tradizionali truppe leggere, e li rende somiglianti ai cacciato ri a piedi (vi erano anche quelli a cavallo) nella formula indicata dal Grassi, «vestiti, armati e disciplinati per le fazioni della milizia leggera», e scelti fin dal sec. XVII tra gli archibusieri «più agili e più destri così al tirare, come al correre, per attaccare le scaramucce, fare agguati e scoperti, spiare le mosse del nemico, stancheggiarlo e molestarlo». Armamento ed equipaggiamento avevano gli stessi requisiti di quelli dei bersaglieri: rispetto alla normale fanteria avevano «fucile più corto, e meno grave il corredo» e già portavano per distintivo quegli «spalloni verdi », che poi
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saranno emblema dei bersaglieri. Emblema verde, appunto, come le valli alpine... Manca nel Grassi il temùne logistica, i cui contenuti attuali sono da lui attribuiti in buona parte - nel 1833 - al termine amministrazione militare (non citato nel 1817), con una certa accentuazione di tutto ciò che riguarda la gestione del contante a livello centrale e la logistica di produzione e, per contro, con l'attenuazione di tutto ciò che riguarda l'attuale logistica di distribuzione o di campagna. L'amministrazione (1833) è «cura e sopraintendenza di tutte le spese che si fanno per una guerra, come la massa dé viveri, e delle vestimenta fatte per via di contribuzione o d'appalto, le tende, i procacci, le condotte, i magazzini, gli ospedali, la fabbrica delle munizioni da guerra d'ogni genere, quella delle armi bianche e da fuoco, quella delle polveri, insomma d'ogni cosa di che abbisogni un esercito tanto pel sostentamento dé soldati, quanto per le imprese militari che dee fare». Altre voci logistiche fondamentali, da allora in poi largamente usate, sono sussistenza (non citato nel 1817): <woce collettiva di tutto ciò che è necessario al sostentamento d'un esercito, come vettovaglie, foraggio ecc.», e treno o traino (francese train), «nome generico degli uomini, dé cavalli e dei carri, coi quali si vettureggiano negli eserciti le artiglierie, le munizioni da guerra, ed ogni sorta di arnesi e attrezzi militari. Chiamasi anche più particolarmente Treno dell'artiglieria ogni cosa del treno che dipende da questa milizia». Mancano invece in ambedue le edizioni del Grassi termini logistici fondamentali e già antichi come Intendente e Intendenza, che pure avevano rivelato tutta la loro importanza nelle guerre napoleoniche. Ciò può essere attribuito solo in parte all' ossequio del Grassi per la lessicografia classica, perché il termine Intendente già era usato ai tempi di Guicciardini e Montecuccoli e nell'età dei Comuni. Non è quindi un'istituzione solo francese, anche se - come si è visto - l'Enciclopedia Francese del 1757 parecchi decenni prima del Grassi dice già tutto quanto c'è da dire su questa fondamentale carica: «Intendente in un esercito è normalmente un referendario [del governo N.d.a.] che occupa la carica di Intendente della Provincia vicina al luogo dove si fa la guerra, che il Re nomina per sovraintendere al rispetto delle norme di polizia militare [al tempo, con tale termine si intende il codice delle leggi militari pubblicate dal sovrano, con particolare riguardo a quelle di carattere amministrativo - N.d.a.], vale a dire al pagamento del soldo alle truppe, alla fornitura di viveri e foraggi, a regolare le contribuzioni, al servizio degli ospedali, all'esecuzione delle ordinanze del Re ecc[ ... ]. L'Intendente deve essere partecipe del segreto della Corte come il generale. Ha alle sue dipendenze un certo numero di commissari che
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impiega in mansioni particolari. Eg]j stabilisce tutte le spese ordinarie e straordinarie dell'esercito. Ha la sua sede di diritto al quartier generale, e la fanteria gli fornisce una guardia di 10 uomiru al comando di un Sergente. Allorquando un Intendente possiede tutte le doti richieste dalla sua carica è di grande aiuto al suo generale, che si trova liberato da un'infimtà di impegm e pensieri che non possono che distrarlo dai piani che deve concepire contro il nenùco». Accanto alle omissioni, va segnalato che per la prima volta compaiono ne] Gr. numerose voci di grande interesse operativo e logistico, alle quali anche oggi è utile riferirsi per delimitare bene problemi, argomenti, idee, significati e/o per individuarne l'origine. Ne indichiamo, a mò di esempio, alcune. Razzo: «una sorta di fuoco lavorato, che va in alto, e scorre ardendo per l'aria, onde si usa in guerra pei segnali; è di forma cilindrica, fortemente legato dall'un dé capi, e stoppinato dall'altro. Razzo Congreve. «Chiamasi con questo nome dai moderm una specie di razzo così detto dal colonnello inglese Congrewe, che ne fu l'inventore» fera un· arma ovviamente molto imprecisa lanciata da un cavalletto, usata per la prima volta dalla flotta inglese nel vittorioso e brutale assedio di Copenhagen (1807) per incendiare le case - N.d.a]. Ruzivne (frane. ration) «Quella porzione di viveri, che si distribuisce a ciascun soldato». Corredo: «l. Guermmento di tutto ciò che fa bisogno a un esercito tanto per le cose dell'annona, quanto per le militari. 2. S'intende con questo nome generico una certa quantità e qualità d'arnesi del soldato, che non fanno parte del suo armamento, né delle sue vestimenta, come il budriere, la bandoliera e la giberna del soldato, la cassa, le barchette, la cinghia, la collana ossia il porta-tamburino, il porta-piffero del piffero, il cornetto da cacciatore, il grembiale del falegname ecc. La voce è di Crusca, ma in questo sigmficato particolare è adoperata nell'esercito piemontese». In riferimento a quanto già affermato nel capitolo IV a proposito delle proposte del Colletta nella riformulazione delle voci più propriamente tecniche e strategiche de11'edizione 1933, rimane ora da chiedersi come e dove si manifesta l'influsso dell'ufficiale napoletano. Ebbene, non solo per ]e voci principali come strategia, tattica, topografia, ma anche per le altre connesse come obbietto, linea e base d'operazione, Stato Maggiore, ecc., il Gr. riporta fedelmente e pressoché alla lettera sia le definizioni suggeritegli dal Colletta, sia gli exempla da lui «fabbricati». E gli dà retta anche a proposito del modo di trattare le voci: «Signor Professore - gli scrive il Colletta - ho fatto seguire alla definizione mo]-
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te osservazioni, e molti esempi: metodo forse necessario, o certamente giovevole nella esposizione delle nuove parole, e tanto più se la parola nuova contiene nuova dottrina». L'unico punto sul quale il Gr. - forse in omaggio ai classici, quindi alla Crusca - fa di testa sua, è nell'indicare come terza parte dell'arte della guerra la castramentazione della quale il Colletta non parla: troppo poco. Troppo poco anche per il Colletta, che come tutti gli altri da lui così disprezzati non fa che riprendere - per strategia e tattica - i concetti jominiani di strategia vista come teorica della guerra, di tattica arte delle battaglie ecc., precisando di aver aggiunto a~la definizione di strategia (teorica del muovere gli eserciti) le quattro parole «non visti dal nemico» per due ragioni: «l perché sostanza e condizione della strategia; 2° per non confondere strategia e tattica, non bastando la differenza poco sentita di teorica ed arte». E anche in fatto di esempio propone di ricorrere a Jomini: «qualche uffiziale dé migliori, dovrebbe tradurre in italiano un'opera deUo Jomini; qualche altro altr'opera dell'Officio Topografico di Francia, o della Scuola Politecnica; suttu la direzium:, per la lingua, del Professor Grassi. E poscia il dizionario trarrebbe da codesti libri gli esempi necessari aHe voci nuove». Con questo programma di lavoro che riduce il Gr. a revisore di traduzioni di parole francesi fatte da militari, non si capisce proprio dove va a finire il conclamato purismo del Colletta, e quello meno instabile del Gr. stesso. E anche la fede jominiana del Colletta è tutt'altro che salda, visto che lo rende bersaglio delle sue ironie (o veri e propri attacchi?), consigliando al Gr. «scrivete non per i soli militari, ma per tutti, anche della plebe; talché a scapito della presunzione del mestiere ho composto le definizioni, le osservazioni, gli esempi così piani da essere intesi dallo Jomini e dallo Spazzino [lo Sponzilli ? - N.d.a.]. Osservate negli scritti moderni qual uso fanno delle voci nuove per non averne imparato il vero senso». Non è questa la sede per giudizi complessivi sul Colletta e la sua opera: ci sentiamo tuttavia autorizzati ad affermare che, in fatto di arte della guerra e sua ripartizione il Colletta non brilla certo per perspicacia e originalità, e quindi non ha nessun diritto di «tirarsi fuori dal mucchio» di coloro che egli accusa di esterofilia. Né sembra aver capito molto della strategia napoleonica, scrivendo (forse per piaggeria nei confronti dell' establishment e del suo concetto di guerra limitata) che «era virtù di un esercito scontrare il nemico e distruggerlo; oggi è la maggior virtù di un capitano vincere senza combattere; così fu vinto in Ulma l'anno 1805 il generale Mack [ma nelle altre battaglie, che cosa è avvenuto? N.d.a.]. E però il posto, che occupato, invalida o scema le forze del nemico, si chiama giustamente obietto di operazione». O
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TI Grassi merita maggior indulgenza: non ha compiuto studi militari ad hoc, e colma le sue lacune come può.
La prima opera linguistica a carattere inte,forze.- il «Dizionario Italiano Scientifico - Militare» di Giuseppe Ballerini ( 1824)
Va ancora sottolineato che il dizionario del napoletano Ballerini è rimasto a tutt'oggi l'unico a comprendere sia le voci relative alla guerra terrestre che quelle relative alla guerra marittima. Anche per il B. la guerra può essere marittima o terrestre: tuttavia egli non riprende la definizione del Grassi o del Machiavelli ma quella dell'Enciclopedia Francese, definendola «discordia, contesa, litigio tra due Stati» [con le armi o meno? questo non lo precisa - N.d.a. l. L'arte militare anche per il B. è solo terrestre: «è la scienza di vincere pugnando il nemico». Si divide - come avviene per il Grassi - in castramenlazione, tattica di evoluzioni militari e strategia. E il B. ricorda l'ottica antimilitarista dell'Enciclopedia Francese, quando osserva che «in tutt' i tempi gli uomini han convenuto di spogliarsi gli uni cogli altri , e di ammazzarsi fra di loro, e per far ciò con più malizia e più ingegno, essi hanno inventato delle regole, che han denominato arte militare ; alla pratica delle di cui leggi, vi han posto dell'onore e della gloria, onde renderle vieppiù imponenti». Del tutto analoghi a quelli del Grassi (e dell'En c iclopedia Francese) i concetti di battaglia e di combattimento, ai quali il B. aggiunge di suo la voce di battaglia navale, definita peraltro semplicemente «battaglia di due flotte navali» (si noti l'uso del termine.flotta, che per lo Stratico è improprio e va riferito solo alla marina mercantile). Alla voce strategia il B. dedica un largo spazio, dal quale traspare anche in questo caso un concetto essenzialmente jominiano e geometrico dell'arte militare, con lunghe disquisizioni sui punti strategici, sulle linee di comunicazione ecc .. La strategia viene definita «una delle parti principali della scienza della guerra; essa traccia il piano, abbraccia l'insieme e determina l'andamento delle operazioni militari: è particolarmente questo lo studio dé Generali in capo [...] La strategia determina i punti essenziali, di cui convien essere padrone per giungere allo scopo che si ha in mira, e disegna le linee per stabilire le comunicazioni». Alla voce Arte militare la strategia viene anche definita «scienza degli stratagemmi militari», perché il generale per eludere le manovre del nemico e nascondere i propri disegni «impiega qué stratagemmi necessari per riparare a tutto, e vincer lo stesso con simili mezzi, piuttosto che con una fon:a
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imponente». In tal modo la strategia viene riduttivamente concepita come un insieme di stratagemmi, quando invece è cosa assai più complessa; e la si presenta come studio, piano ecc., lasciando l'azione alla tattica. Il B. è il primo a distinguere tra tattica (sottinteso: terrestre) e tattica marittima o navale. A proposito della prima, con un pasticcio di tennini abbastanza frequente al tempo egli afferma che «è l'arte della guerra, che fa anche parte della scienza militare». Essa «insegna il metodo di eseguire i progetti strategici, quindi è inerente al comando». E sempre riferendosi alla guerra terrestre, mette in guardia dal confondere insieme la tattica con le evoluzioni , perché, anche se sono legate insieme, la tattica è «l'ordine e la disposizione», che varia a seconda del genere di combattimento che si deve dare, mentre l'evoluzione «è il movimento che conduce a quest'ordine». La tattica è anche «la sc.i enza (sic) degli ordini nelle differenti occasioni della guerra». Poiché gli ordini si formano o si trasformano solo per mezzo delle evoluzioni, «da ciò può giudicarsi faci Imente quanto è grande l'errore di coloro che ignorando, e disprezzando i principj di dette evoluzioni, vogliono nondimeno darsi il nome di tattici». Parlando di tattica il B. sembra riferirsi alla «grande tattica» in senso jominiano, che - cosa strana - sarebbe a suo giudizio solo affare dei generali e non degli ufficiali di grado inferiore: «La grande tattica è assolutamente necessaria agli uffiziali generali, e tutti gli uffiziali e soldati non devono sapere che so1tanto le evoluzioni; ma gli Uffiziali Generali che devono sapere a fondo la tattica non devono ignorare queste ultime». Alle voci tattica marittima o navale ed evoluzioni navali, il B. trascura i suoi stessi ammo nimenti a proposito dell'opportunità di non confondere la tattica con le evoluzioni, e riprende pressoché alla lettera le definizioni dello Stratico, definendo tra l'altro le evoluzioni navali «la scienza della tattica navale». Diversamente dallo Stratico, comunque, il B. distingue la tattica navale in due parti: «la prima è l'istorica, che comprende le ordinanze che possono essere osservate dalle flotte né combatti menti. La seconda contiene la conoscenza della forma dé vascelli e la maniera di costruirli». Un'altra differenza rispetto allo Stratico è una netta sottovalutazione della importanza della guerra sul mare, che corrisponde a un'idea abbastanza diffusa tra i maggiori scrittori terrestri del tempo: «qualunque antichità si voglia dare alla guerra del mare, è sempre molto al di sotto di quella della guerra di terra; per la quale gli uomini si sono lungamente disputati pria di pensare a far del mare il teatro de11e loro discordie» (frase aggiunta alla voce tattica navale; evidente-
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mente il B. dimentica che al tempo la maggior potenza mondiale, l'Inghilterra, è diventata grande proprio facendo del mare il teatro delle sue discordie, a tutto danno dei competitori). I significati attribuiti alle rimanenti voci terrestri e navali non sono sostanzialmente diversi da quelli del Grassi e dello Stratico. Rispetto allo Stratico, comunque, il B. attribuisce un diverso e più elastico significato al termine Flotta («moltitudine di navi che fanno insieme cammino», senza limitarle come fa lo Stratico al naviglio mercantile) e chiarisce meglio la differenza tra gli aggettivi marittimo e navale, differenza anche oggi valida. Marillimo significa «appartenente a Marina: così diconsi i porti, e le piazze marittime, perché son situati sulla riva del mare». E, a questo punto, il B. sembra dimenticare all'improvviso il concetto riduttivo della guerra sul mare del quale abbiamo prima parlato: «le forze marittime di uno Stato, che sono composte di marinai e vascelli, formano la gloria d'una nazione, soprattutto ai dì nostri, che tutte le nazioni marittime si sono rivolte vero il commercio del mare e delle colonie». Navale, invece, «si dice delle cose che appartengono alle navi da guerra e aJJa guerra marittima, come armata navale, combatti mento navale, battaglia navale, munizioni navali ecc.». Per quanto è di preminente interesse navale, alla voce palla incavata il B. accenna al problema del lancio di proiettili esplodenli con cannone a tiro teso. specie in marina: problema che, come meglio vedremo in seguito, in quel momento stava per essere risolto in Francia. Egli definisce le predette palle specie di piccole bombe di ferro cilindrica, il diametro delle quali è inferiore al calibro dei cannoni, e la cui lunghezza è di due calibri più o meno. Si erano queste immaginate per uso della marina, e si mettevano nel vuoto di esse dé fuochi di artifizio, delle palle di piombo, dé chiodi, della metraglia di ferro r... ] Ma ogni volta che si è fatta la prova di queste palle, esse scoppiavano in aria, o pure le spolette o non prendevano fuoco, o si estinguevano, e il loro effetto per conseguenza diventava inutile. Forse prendendo molte precauzioni e studiando su questa idea, si potrebbe trarre qualche partito, ma gli uomini hanno diggià bastanti modi di distruggersi. Altronde è presso che convenuto tra le nazioni colte di non far uso dé fuochi d'artifizio, quando una nave tira sopra l'altra; ma le fortezze o batterie stabilite in terra sono autorizzate ad impiegare ogni mezzo di difesa contro qualunque bastimento che venga ad attaccarle. In realtà il B. - pur appartenendo a un'Arma tecnica - non ha ancora una nozione esatta dell'importanza della granata d'artiglieria nel sen-
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so attuale del termine, e indica la granata come un ordigno esplosivo che si lancia prevalentemente a mano, anche se non ne è escluso il lancio con mortai o obici: su questo argomento, il Grassi meglio di lui accenna alla possibilità del lancio di granate anche con cannoni, cioè con traiettorie a tiro teso. Il B., sia pure molto succintamente, accenna per la prima volta a tre voci di grande avvenire in ambedue gli elementi: torpedine, «macchina infernale marittima», e telegrafo, «macchina da cui si può dar notizia di chicchessia per mezzo di segni convenzionali a coloro che si trovano in grandissima lontananza». Incrociatore, come per lo Stratico, è «vascello incrociatore, è un bastimento che incrocia, o è in crociera. Vascello che scorre e corseggia sopra una costiera o spiaggia, per guardarla o per esercitarvi la pirateria». Ciononostante, la novità di maggior rilievo che si trova nel dizionario del B. rimane quella relativa a11a prima definizione di barca a vapore (manca ancora la voce piroscafo): «questa è una utile invenzione di recente posta in uso e consiste a far muovere, coll'uso del vapore, che per mezzo di tubi si raccoglie da due grandi calderoni d' acqua bollente, due ruote di mediocre grandezza, situate à due lati d'un bastimento, che a guisa di ruote di molino, girando continuamente e con rapidità nell' acqua del mare, danno un veloce corso al bastimento, anche contro vento e in senso contrario alla corrente dé fiumi. Questa interessante scoperta può preparare l'umano ingegno ad intentare nuovi mezzi, onde perfezionarla, appropriandola a cose più utili ancora» (e qui il B. accenna a un servizio di battello a vapore tra Napoli e la Sicilia, che «parte ad ore designate, giunge ad ore prefisse, e ritorna all'ora prestabilita», senza citarne le applicazioni militari pur già in atto). Da questo sommario accenno sono totaImente e stranamente assenti i problemi di applicazione del vapore alle navi da guerra: il B. mostra di ignorare quanto si sta facendo a11'estero da tempo in questo campo, che viene descritto anche in Italia dal Cav. Luigi Serristori nel suo saggio (per così dire, promozionale) Sopra le macchine a vapore, (pubblicato nel 1816, quindi parecchi anni prima dell'uscita del dizionario del B.).8 Eppure il Serristori - sulla cui opera ritorneremo - accenna per primo in Italia alle due fregate varate negli Stati Uniti nel 1814-1815, mosse da una sola ruota a pale e non da due, con ponte a prova di bomba e capaci di navigare controcorrente e controvento, il che le rende «molto superiori a tutti gli altri vascelli da guerrn».9 8 Cfr. L. Serristori, Sopra le macchine a vapore, Firenze, Stamperia Magheri da Badia 1816. 9 ivi, pp. 75-76 .
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Va tuttavia riconosciuto al B. il merito di trattare con il dovuto risalto - diversamente da quanto fa il Grassi - le voci riguardanti il vertice logistico dell'esercito e della marina, i cui significati dimostrano che, in campo logistico, sia le forze armate del Regno di Sardegna che quelle del Regno di Napoli (e a maggior ragione quelle dei vari Stati italiani) seguono in tutto il modello francese napoleonico e/o post-napoleonico. L'Intendenza generale dell'Esercito è un «ramo amministrativo dipendente dal Ministero della guerra: da questo l'Intendenza generale dell'esercito riceve le partecipazioni di tutt'i regolamenti e gli ordini analoghi al disimpegno delle sue incombenze [... ] Oltre gli ordinativi del materiale, e le verifiche di tutte le spese militari, conserva e verifica annualmente gl'inventarj di tutto ciò che viene acquistato, e si possiede dal ramo della guerra...». In particolare l'Intendente dell'Esercito è un generale Capo del commissariato di guerra, che «esamina le riviste, e rivede i diversi conteggi delle differenti amministrazioni dei Corpi dell'armata di terra, presiede à diversi appalti e ad altri contratti [... ] ha in suo ajuto e sotto la sua dipendenza il commissariato di guerra per le ispezioni locali di ogni ramo del servizio amministrativo, e per stabilire il diritto a tutte le competenze, tanto del personale, che del materiale dell'armata». Quando un corpo d'armata esce dal Regno viene nominata una Tntendenza di campagna retta da un Intendente di campagna. il quale ha ai suoi ordini i commissari di guerra, i funzionari della cassa di campagna e tutti gli altri funzionari che occorrono. Per la marina sono previsti l'Intendente delle armate navali, «ufficiale destinato a regolare le spese, la polizia, il governo ecc. delle armate navali», e l'Intendente di marina, «ufficiale di amministrazione il quale deve conoscere tutti i dettagli dell'armamento e del disarmo delle navi». 10 Anche la definizione di sussistenza (francese subsistance) appare meglio formulata rispetto a quella del Grassi, facendo riferimento ai vari generi e mettendone in rilievo l'importanza: «vi sono due specie di sussistenza; le une si trovano nel paese, come i foraggi e il grano, per le distribuzioni; le altre si hanno da lontano, come il pane, il vino, la carne, e le piccole forniture dell'armata. La legna, la paglia sono delle cose indispensabili; un generale deve avere cura che la sua armata sia provveduta sì delle prime, che delle seconde, poiché la mancanza di esse produce delle tristi e perniciose conseguenze». Meno felice - sempre rispetto a quelle del Grassi - la definizione di treno, che il B. vuol riferito a quel 10 Per un più circostanziato raffronto con le analoghe soluzioni deU ' armata sarda si rimanda a F. Bolli, La logistica dell'Esercito Italiano, Roma, SME - Uf. Storico 1991, Voi. I Parte Prima, pp. 59-98.
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corpo di truppe che assicura il trasporto solo dell'artig1ieria e delle relative munizioni, mentre il Grassi gli attribuisce -il compito di trasportare anche tutto ciò che è necessario; il B., comunque, si diffonde sulle conoscenze e sulle qualità che deve possedere l'Ufficiale del treno. Pur non mancando di spunti di elevato interesse, l'opera del B. rimane confusa e non brilla per originalità. Essa non denota alcun reale progresso rispetto al Grassi e allo Stratico, e non recepisce appieno nemmeno l' eredità delle guerre napoleoniche. L' «uffiziale della già armata italiana» o il «veterano d'Italia» nella premessa alle citate edizioni bolognesi del 1832 e 1848 (vds capitolo IV) cammina per conto suo, senza fare riferimento alcuno alle definizioni del Ballerini. La guerra «costituisce una scienza formale e immensa»; .al momento manca ancora «una classificazione ben motivata ed un'esatta connessione con le principali sue parti». La scienza della guerra (non arte militare, come nel Ballerini) «si definisce una unione universale delle cognizioni di-tutto ciò che è relativo al militare, e di tutto quanto far devesi alla guerra. Essa consiste nella perfetta conoscenza dei differenti mezzi che sono in proprio potere, nel saperli ben disporre e calcolare giudicando dé loro rapporti e misure, facendone l'applicazione all'uopo, nell'esercitare la memoria con acume di penetrazione, nel prevedere le difficoltà, le casualità, e nel saper prendere il mig1ior partito in tutti gli avvenimenti». In tal modo - con una contraddizione assai frequente essa diventa soprattutto arte .... 11 «veterano» la divide in sei parti, ben diverse da quelle indicate dal Ballerini, anche se - come in quest'ultimo - la strategia è all'ultimo posto: «1. Costituzione generale dello stato militare. 2. Disciplina, che riguarda il buon ordine e le gradazioni della militar gerarchia. 3. Tattica, che abbraccia i movimenti, le manovre e prepara le operazioni. 4. Genio, o sia l'arte di fortificare, di attaccare e difendere le fortezze e le opere di campagna. 5. Artiglieria, che ha di mira la maggiore offesa e difesa, e dove anche si comprendono diversi oggetti d'attiraglio [cioè: per il traino - N.d.a.]. 6. Strategia, o l'arte (sic) di comandare con finezza d'ingegno, o dirigere le operazioni di guerra». fma qual'è, allora, la sua differenza dalla tattica? -N.d.a.]. Più avanti l'ignoto autore si sofferma sul significato di strategia, fornendone una definizione che pur essendo anch'essa riferita esclusivamente alla guerra terrestre, tutto sommato la presenta più di quella del Ballerini come arte: «la strategia va necessariamente unita alla tattica. Il suo significato ci viene dal greco stratego cioè capo o generale. Essa abbraccia i piani offensivi e difensivi, dispone le operazioni secondo le località proprie dei differenti corpi, prepara le occasioni, prevede le circo-
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stanze e le possibilità degli avvenimenti in ragguaglio del tempo; fa penetrare l'abilità dell'avversario e ciò è un oggetto di somma importanza; fa discernere per vere o simulate le di lui manovre per opporne delle migliori; fa essere intraprendente, audace e talvolta prudente per risparmiare il sangue; calcola le distanze, le combinazioni delle marce; approfitta degli errori del nemico cui sa nascondere con arte fina i propri divisamenti; previene le difficoltà e in un momento ripara e cangia il piano offensivo in difensivo in virtù di riflessioni rapide e giuste». Per fare un gran capitano non è però sufficiente l'abilità di comandare gli eserciti, e farli muovere e combattere: occorre «il colpo d'occhio militare, che è il vero genio della guerra». Esso «è piuttosto un particolar dono di natura, ed anche si acquista e si perfeziona col lungo uso della strategia». Sarebbe assai interessante conoscere il nome di chi ha fornito queste definizioni: perché esse sono tra le più lontane dalla rimasticatura di concetti jominiani o attribuibili all'Arciduca Carlo, che contraddistinguono in massima parte la letteratura militare italiana del periodo.
Le voci tecniche e le caratteristiche dei materiali nel «Dizionario d'artiglieria» dei capitani Carbone e Amò (1835)
Come si è visto, si tratta di un'opera dal contenuto essenzialmente tecnico, che vuol colmare le lacune dell'opera del Grassi e tratta la nomenclatura - in gran parte derivata dal francese - relativa all'artiglieria, a] genio e alla fortificazione. Non vi compaiono, perciò le voci di interesse generale e strategico/tattico/ordinativo. L'artiglieria è, al momento, l'Arma che più impiega carreggio e animali da traino: sono quindi accuratamente trattate le voci relative al carreggio e all'impiego del cavallo, come ad esempio le varie parti che compongono la briglia, i diversi tipi di bardatura ecc .. Il carreggio viene distinto in carretti (a due ruote), carri (a quattro ruote) e carriuole (a una sola ruota, trainabile a mano)i Sono elencati i vari tipi di carro e per ciascun tipo se ne indicano nel dettaglio le parti componenti. Si distinguono: - carro a ridoli (alla Gribeauval o mod.32) «sulle cui stanghe è fermata una gran cassa quadrilunga, scoperta, e colle fiancate fatte a rastrelliera, dette Ridoli»; - carro da forme e carro da gettatore, usati nelle fonderie per trasportare le forme delle artiglierie, i metalli ecc.; - carro da munizioni (mod.1830), con tre casse per il trasporto delle munizioni in campagna;
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- carro da parco, «carro destinato a far parte dé traini della artiglieria: con esso trasportasi la polvere, gli stromenti, e simili» (può essere coperto o scoperto); - carro da bagaglio; - carro diavolo, «carro da quattro rotel1e per lo più di ferro fuso, con sale di ferro, e due robuste stoviglie, col quale si carreggiano i mortai ed altri pesi gravi, per piccoli tratti di strada, o per strade strette o incassate»; - carro leva, «specie di grosso carretto a1 timone, che opera come una leva per sollevare gran pesi, e sorse anche per trasportarli». Può essere di diversi tipi (ordinario, con due grandissime ruote; a vite, con congegno a vite per sollevare pesi da terra; a mano, trainabili a mano; da piazza, con dimensioni minori rispetto ai tipi precedenti); - carromatto, <<carro con due robustissime stanghe parallele, e poco distanti fra loro, con cui si carreggiano le artiglierie scavalcate». In base alle dimensioni si distinguono tre specie di carromatti: a ruote grandi, da piazza e a ruote piene. L'artiglieria, al tempo, comprende anche i pontieri (pontisti o pontonieri, dal francese pontonniers). Quest'ultima voce deriva da ponton, pontone, «specie di barche con ossatura di legno vestita di lastre di rame, o anche di latta; trainavasi sopra adattati carri dietro gli eserciti». I pontoni venivano impiegati per gettare «ponti estemporanei», cioè occasionali. Poiché al momento (1835) erano caduti in disuso, Carbone e Amò dichiarano di preferire la voce pontista, della quale danno la seguente definizione: «soldato d'artiglieria, addetto alla costruzione di ponti militari. T1 pontiere debbe essere attivo, robusto, intelligente e intrepido né pericoli, nei quali egli spesso si trova. La costruzione dei ponti esige inoltre buoni Navalestri, Fabri, Funaioli, Barcai, e Legnaccioli». I ponti si dividono in stabili e occasionali o temporanei. Questi ultimi sono detti anche ponti militari e possono essere: di barche; sulle botti; di casse; di cavalletti; di corde; di foderi (nome toscano per zattera usati nei fiumi poco rapidi, e quando mancano barche); di palafitte (stabili, costruiti nelle retrovie «per assicurare la via ai parchi generali»); di pontoni; di telai (nei quali i telai prefabbricati sono collocati sopra elementi galleggianti come botti, otri o casse incatramate); levatoi. L'artiglieria ha proprie barche, che servono sia per traghettare truppe o materiali che per gittare ponti. «Presso di noi sono di legno, leggere, fatte con poggia piana e verticale in forma di mezze barche, dimodoché, unendole a due a due, vengono a formare, se tale il bisogno lo chiegga, una barca assai lunga». Per il trasporto delle barche e dei materiali da ponte si usano carri da barca e carri della fucina dé pontieri (si-
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mili ai carri da barca, con in meno alcune parti - testiera e rotolo - e aggiunta di altre in legno e in ferro)_ Particolare interessante, viene riportata anche la voce carroponte, pur dichiarando questo veicolo ormai in disuso. Come dice la parola stessa, il carroponte serviva a gittare una sorta di ponte sommerso in fiumi di poca profondità: «gli attrezzi del ponte venivano trasportati su questi carri, ed occorrendo di gettarlo, uno o più carri erano calati successivamente nella corrente, e a distanza discreta, e sovra di essi s'intavolava la travatura». Come del resto fa anche il Grassi, Carbone e Amò non riportano la voce avantreno (dal francese avant-train). Per questa voce, che già troviamo nel meno purista Ballerini, essi usano la citata voce carretto, «specie di carro con due ruote, il quale forma la parte davanti dei veicoli da quattro ruote; ed à quali si unisce mediante una cavicchia di ferro verticale detta Maschio». Se ne conoscono svariati tipi, che corrispondono più o meno a ciascun tipo di carro: carretto dall'affusto d'assedio alla Gribeauval; dell'affusto da battaglia (mod. 1830); dell'affusto d'a~sedio (mod. 1833); dell'affusto da piazza; dell'affusto da piazza e costa; dell'affusto da posizione; del carro a ridoli aJla Gribeauval; del carro a ridoli mod. 1832; del carro da munizioni (mod. 1830); del carro da parco coperto; del carro da parco scoperto, ecc. Il Carbone e Arnò sono i primi in Italia a fare esplicilo riferimenlo ai cannoni da bomba (canons à bombe) studiati in Francia dal tenente colonnello di artiglieria Paixhans soprattutto come armamento delle navi. L'ottica di Carbone e Amò è però esclusivamente terrestre: il cannone da bomba è definito «grosso cannone incamerato, con cui si scagliano bombe; i cannoni da bomba approvati nell'artiglieria piemontese hanno 8 pollici di diametro. Questa artiglieria fu riproposta dal Paixhans, in questi ultimi tempi, per adoperarla negli assedi e nelle piazze [non solo: anche - e soprattutto - nella guerra marittima! - N_d.a.]». Ma, a questo punto, Carbone e Amò mostrano di non aver capito l'innovazione, e di dare importanza esclusivamente alla incameratura della bocca da fuoco, quando invece è il proietto con carica scoppiante (l'attuale granata) a costituire la vera innovazione. Essi infatti inspiegabilmente indicano come «un' arma simile» a quella del Paixhans il vecchio cannone da pietra, che lanciava appunto palle di pietra piene (e non vuote e scoppianti): «di simile arma facevasi già uso nel 1618 in Italia, e con essa cacciavansi palle di pietra, onde era nominato Petriero, o cannon Petriero». La granata Cobusy (in francese grenate) viene distinta dalla bomba, perché è una «palla di ferro fuso, cava come le bombe, però di minor diametro, che si empie di polvere, e s'innesca con una spoletta». Come la bomba può essere incendiaria, essere lanciata a mano, fatta rotolare
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dalle brecce delle mura contro gli assalitori (granata da ramparo). Vi sono numerosissimi tipi di palle per artiglieria; anzitutto si può avere la palla (o bomba) fumifera, o soffocante, o puzzolente, cioè - diremmo oggi - caricata a gas: «bomba, o granata piena d'una materia atta a produrre densissimo fumo, o vapore soffocante, od anche mortifero. Alcune volte fannosi come le palle di fuoco, ovvero con istoppa aggomitolata, e tempestata di stoppini, quindi ammollata in una mistura di fumo. Soglionsi palle siffatte gettar nelle gallerie delle mine dé nemici per iscacciarveli». Vi sono poi palle di fuoco, che servono per rischiarare il campo di battaglia e/o incendiare edifici, depositi ecc .. Si dividono in carcasse (composte da un sacco di tela con mistura combustibile), palle luminose e palle incendiarie, contenenti ambedue una miscela allo stesso tempo incendiaria e illuminante. E inoltre: palle fasciate (con involucro di tela o cuoio), palle messaggere (contenenti notizie o provviste da lanciare in un campo o città assediata), palle roventi (arroventate per incendiare case, fortificazioni o navi), palle sciolte ( «palle non calzate di tacco»), palle ramate (palle congiunte con un'altra a mezzo di un braccio di ferro, scagliate contro i vascelli per romperne il sartiame, squarciare le vele, disalberarli) e palle incatenate (che esercitano Jo stesso effetto delle precedenti). Il dizionario in esame riporta con particolare ampiezza tre voci per così dire di grande avvenire e di grande importanza attuale: razzo, torpedine e organo. Come si è visto, la voce razzo viene più succintamente citata anche dal Grassi (1817 e 1833) e dal Ballerini, che vi aggiungono il nome «Congréve» (da Lord Congréve, che ne è l'inventore): RAZZAIO, s.m., Artificier, Artefice, che lavora razzi ed altri fuochi artificiali, alcuni vogliono chiamarli Fuochisti. RAZZIERE, s.m., Nome dato a quel soldato d'Artiglieria che ministra i razzi da guerra. V. Racche. RAZZO, s.m., Fusée volante. Fuoco lavorato fatto di un tubo di carta, di cartone, di ferro, od anche di canna vegetabile, il quale empiesi di una mistura artificiata ben compressa, ed a cui si lega una verga di legno dritta e parallela al suo asse, o in dirittura del medesimo, e s'innesca dalla parte della verga con istoppini od altro. Questo artifizio si muove su per l'aria per forza intrinseca dell'ardente mistura. Fannosene di più grossezze, ed hanno vario uso. In un Razzo in generale distinguendosi le seguenti parti principali, cioè: L'Anima Ame. Il Calice. Entrée de la cartouche. Il Cappelletto, dal Capobianco, Lanterna. Pot, Cane Jncendiaire. Il Cartoccio. Fourreau.
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Il Focone. Lumiére. Il Governale. baguette directrice. Il Guscio, o Guaina, o Canna. Cartouche. Il Massiccio. Massif. La Strozzatura, in quelli di carta. Gorge. RAZZI. Chiamansi anche quelli empiuti come i predetti, che s' attaccano attorno a ruote artifiziate per farle girare, ovvero si dispongono con un cert' ordine sopra di un legno od altro per produrre un qualche bell'effetto né fuochi d'allegrezza. Questi vengono poi distinti coi nomi di Razzi da girandole, e di Fontanelle di fuoco. RAZZI DA GUERRA, Fusées de guerre. Sono Razzi più grossi degli ordinari, con guscio di lamiera e con in cima una granata, o materie incendiarie, racchiuse in una lanterna o cappelletto conico di lamiera, foracchiato, il quale ha una punta aguzza per ficcarsi nel legno. Ve n'ha di vari calibri, ed usansi ad incendere, o si lanciano contro le soldatesche. Da alcuni diconsi Rocchette. Questi Razzi secondo il Montgéry sono d'antichissimo uso in guerra; ed infatti il Colliado a pag. 275 parla di Razzi, che si lanciavano dentro una cerbottana per rischiarnre la campagna, e per ispavenlare la Cavalleria. RAZZI DA SEGNALE, Fusées de signau.x. Sogliono essere fatti di carta o di cartone, ed hanno in cima guemizioni di roccafuoco, di stelle, o di raganelle chiuse in una_guaina di carta, le quali guarnizioni, accendendosi al termine del volo del Razzo, producono una fiamma assai durevole che scopresi da lontano. Essi si adoperano per dar segnali in tempo di guerra. 11
Per il trasporto dei razzi e relativa attrezzatura per lanciarli, nell'esercito piemontese è previsto un carro speciale, detto appunto da razzi, con tre cofani, «due dei quali sono fermati lungo la parte di dietro, e l' altro sul carretto». La torpedine - che il Ballerini cita ma non descrive - viene così descritta da Carbone e Amò: TORPEDO, s.m., e. TORPEDINE, e TORPIGLIA, s.f., Torpèdo, Torpille, Macc hina
11
Non manca chi, già a quel tempo, sulla base dell'impiego che ne hanno fatto.gli inglesi contro Napoleone ritiene i razzi un' arma di grande avvenire. Nel suo libro Dello spirito delle Istituzioni militari (1845) il Maresciallo napoleonico Marmont, grande artigliere, afferma che i razzi se impiegati a massa sono destinati a rivoluzionare l'arte della guerra, fino a rendere la fanteria ausiliaria dei razzi stessi: «questa invenzione, così com'è e coi perfezionamenti di cui è suscettibile, si presta a tutto, a tutte le circostanze, a tutte le combinazioni, e avrà un'importanza immensa sui destini del mondo». (Mar. Marmont, Dello spirito delle istituzioni militari, Firenze, Le Monnier Rist 1939, p. 39).
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infernale inventata da Roberto Fulton per guastare e mandare in aria le navi: a questo effetto o si sommerge a certe profondità nell'acqua un numero sufficiente di questi artefizi, là dove credesi abbiano a passare legni nemici, affinché essi venendo quindi ad incontrarsi in quelli, ne producano lo scoppio; ovvero si appiccano ai fianchi di navi ancorate, od alla vela, affinché, scoppiando dopo un determinato tempo, facciano il loro effetto. Questa specie di mina di mare, o di Petardo, consiste essenzialmente in una scatola cilindrica di rame, con basi emisferiche, atta a contenere circa 48 chilogramma di polvere da fuoco; a questa scatola ne va congiunta per mezzo di viti una seconda, men grande della prima, che racchiude un acciarino, il quale scattando accende un'inescatura compresa in un pezzo di canna da schioppo, che mette per un capo nell'interno della Torpiglia. Da questa seconda scatola esce un'assai lunga verga di ferro, che da una sommità è congegnata coll'acciarino, e dall'altra termina in una forchetta. Codesta verga, che quando la Torpiglia è sommersa, spunta a pelo d'acqua, serve ad armare il cane, ed a farlo quindi scattare ne11'atto, che viene incontrata da una nave. Le Torpedini che vengono destinate ad essere appiccate, hanno però qualche varietà; esse in vece della verga comprendono nella scatola, oltre l'acciarino, il rotismo di un oriundo, il quale congegnato col detto, ed esso si carica, e dopo un determinato tempo promuove lo sgri11ellamento del cane. Supra la difficoltà di servirsi difensivamente di quest'anna struggitiva, ed ai pericoli in cui s'incorre anche per collocarla, pare, che ne sia affatto abbandonato dopo l'uso.
Né il Carbone - Amò, né gli altri dopo di loro ricordano il primo caso d'impiego delle torpedini, avvenuto ad opera dell'ammiraglio inglese Keith il quale nel 1804 lanciò contro la flottiglia francese all'ancora nel porto di Boulogne delle torpedini allora chiamate «Cataramans». L' Enciclopedia Militare 1933 così descrive l'episodio: ne11a notte dal 4 al 5 ottobre [1804] una navicella della flottiglia vide una corvetta inglese, che si dirigeva verso il porto. Mossosi pe~ affrontarla, vide un corpo lunghissimo, navigante a fior d'acqua, che non presentava alcuna sporgenza, ne fu urtata e saltò in aria. Qualche giorno dopo alcuni granatieri pescarono una macchina piatta avente la forma di un canotto, e vi trovarono dentro un movimento di orologeria del quale la molla faceva funzionare una batteria da fucile in comunicazione con una cassa di polvere pirica. Più tardi uno di questi «Cataramans» scoppiò sul fondo scoperto de11a bassa marea. Di questa torpedine si ebbe una descrizione dettagliata: si trattava di una grande cassa di m.3,50 di lunghezza per 1 me-
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tro di larghezza, terminata in punta alle estremità ermeticamente chiusa ed equilibrata, in modo da galleggiar a fior d'acqua. Era piena di polvere, di materie infiammabili, e mossa da movimento d'orologeria. Nel 1805 Fui ton ottenne dal Governo inglese di esperimentare tali torpedini sulJa flottiglia francese di Boulogne. Due canotti inglesi attaccarono cannoniere francesi con quattro torpedini, ma esse, mal dirette, scoppiarono vicino alle cannoniere senza recar loro danno. 12
L'impiego della torpedine, che emerge in tutta la sua efficacia nella guerra civile americana 1861-1865, trova dunque i suoi prodromi all'inizio del secolo e nelle guerre napoleoniche. Qualcosa del genere avviene anche per la mitragliatrice: infatti per organo al tempo si intende una sorta di mitragliatrice pluricanne disposte su una sola tavola, nella quale c'è anche l'idea della razziera multipla (chiamata appunto, nel 19391945, organo di Stalin). Paradossalmente, essa cade in disuso dopo l'introduzione del munizionamento a mitraglia per i cannoni (di qui - in seguito - il vocabolo mitraglia, mitragliatrice): ORGANO, s.m., Orgue. Macchina da guerra, che era composta di più canne da fucile, disposte sopra una medesima linea, collegate strettamente insieme da una medesima tavola orizzontale, ed in modo che i loro foconi si corrispondessero, per potere comunicare il fuoco a tutte in una sola volta, o con una traccia di polvere, ovvero con un solo stoppino. Il Montecuccoli, nelle sue Memorie sulla guerra, fa menzione d'una simile arma da fuoco ordinata sopra un affusto con due ruote, ma l'invenzione della metraglia ha fatto dimenticare affatto l'uso dell'Organo, non meno che di altre macchine consimili destinate allo stesso fine.
L'organo è comunque ancora importante, visto che Carbone e Amò lo ritengono meritevole di citazione (e non sono i soli). Se ne deduce che, quando nella guerra civile americana 1861-1865 compaiono leprime mitragliatrici pluricanne (idea poi sviluppata dai francesi nel 18701871) non si tratta di una scoperta, di una novità assoluta, ma della riscoperta e dello sviluppo di un'idea antica, risalente al secolo XVII: nihil sub sole novi, così come già è avvenuto per la torpedine. Anche se riferito a un particolare settore, il dizionario di Carbone e Amò fornisce un'idea precisa e dettagliata del materiale più sofisticato di un esercito del tempo e, al di là di esso, anche del modo di produrlo 12
«Enciclopedia Militare», Voi. TT, p. 19.'i.
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e/o ripararlo. In proposito va sottolineato che, pur riferendisi in special modo all'esercito del Regno di Sardegna, Carbone e Amò forniscono una panoramica da ritenersi valida per tutti gli eserciti italiani del tempo, che per il materiale e l'organizzazione logistica segui vano quasi senza eccezioni il modello francese, anche perché gran parte del materiale era stato ereditato dalle disciolte truppe del periodo napoleonico.
Il «Gran Dizionario teorico-militare contenente le definizioni di tutt'i termini tattici spettanti all'arte della guerra» di G. Medini - F. Collina M. Minarelli (1836) 13 Questo lavoro è indice assai significativo della scarsa originalità che caratterizza molte opere di letteratura militare del periodo, e che si manifesta nel mettere insieme ciò che non può essere messo insieme e nel fare operazioni di collage di dubbia efficace anche nei riguardi del pensiero italiano. Riferito principalmente (anche se non esclusivamente) alla guerra terrestre, il dizionario del Medini-Collina-Minarelli (nomi non altrimenti noti) riprende in larga parte il Grassi e il Ballerini e per le voci tecniche il Carbone - Arnò, con una contaminatio di termini e tendenze che rende l'opera un ibrido difficile da caratterizzare. Per quanto Jomi.nj nel 1830 abbia già introdotto il termine logistica con i suoi nuovi contenuti, non vi si trova alcun accenno a questa disciplina. La voce arte militare viene molto sinteticamente definita - con il solito bisticcio di termini - «scienza di vincere pugnando l'inimico». Riprendendo quasi alla lettera il Ballerini essa viene ripartita in castramentazione, tattica di evoluzioni militari e scienza degli stratagemmi militari, in tal modo confondendo strategia e stratagemmi. L'unica parte originale e positiva è quella introduttiva, dove compaiono «osservazioni sulla scienza della guerra aggiunte al dizionario teorico di Ballerini da un veterano d'Italia». Non si sa chi sia questo veterano, se uno dei tre autori o altri; sta di fatto che queste «osservazioni» sembrano assai poco omogenee rispetto al testo e corrispondono, in gran parte, a quelle citate in precedenza a proposito delle edizioni 1832 e 1848 del dizionario. Buona parte delle osservazioni riguarda una serie di argomenti a carattere prevalentemente etico e morale (della strategia e dell'eminenti qualità di gran capitano; della disciplina, dell'obbedienza e del coraggio dell'onore e dei buoni costumi; delle ricompense e dei ca13
Napoli, Dalla Tipografia di Carlo Cataneo 1836.
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stighi). Ragioni di spazio ci impediscono di entrare nel merito delle riflessioni del nostro veterano, in massima parte ancora attuali. L'unica nota che nell'ottica di oggi appare stonata è l'accenno al-bastone, «gran correttore degli uomini indisciplinati, che ove non costuma vien messo in pratica per la punizione dé ladri; tanto questo delitto risulta abominevole a tutti!» Ma al tempo stesso, si sottolinea il valore insostituibile dell'esempio e si afferma che le punizioni devono essere ordinate «più a vantaggio del comune esempio che per opprimere il delinquente». Inoltre «le personalità, i titoli ingiuriosi, le sevizie disdicono all'ufficiale, mentre avviliscono la divisa del soldato che pure è la sua». In tempi in cui la struttura sociale è ben diversa dall'attuale, non vi è dunque nessuna tendenza a svilire la dignità del soldato: anzi, «anche il generale è soldato come l'ultima de11e sue schiere», e si citano i detti di Solone «loda in pubblico il tuo, sgridali soli; e «non mai fu il vero onor don di fortuna», sottolineando il peso e il valore della parola di elogio del comandante. Le «osservazioni» chiudono con una raccomandazione, che da sola basta a dimostrare quanto sia improponibile la cesura tra il concetto ottocentesco di disciplina e quello attuale: si punisca ogni mancanza del medesimo grado, ma non nello stesso modo. Dev'esser di norma la qualità, il temperamento, l ' inclinazione del colpevole; se la mancanza proviene da pura negligenza, da giovanile irriflessione, da inesperienza, o pure da malizia, da prova d'abitudine, da fredda riflessione. Chi desidera procurarsi dé buoni allievi, ritenga la seguente massima d'un gran savio: «un burbero misantropo considera gli uomini come tanti diavoli; un allegro filantropo li crede mansueti fratelli, e lascia loro la briglia; ma un uomo di senno è persuaso, che non tutti gli uomini sono buoni come non tutti sono cattivi. Egli premia il merito, castiga con fermezza la colpa, è moderato con la debolezza ed è affabile con tutti.
Una semplice variante (o meglio un'edizione analoga) del dizionario del Medini - Collina - Minarelli è il «Dizionario teorico-militare contenente le definizioni e gli usi delle diverse voci e comandi coll'equivalente in francese accanto ad ogni vocabolo, arricchito d'istruzioni secondo la scuola moderna per militari d'ogni Arma», compilato da «un uffiziale dell'esercito del già Regno d'Italia». 14 Questi non dice il suo nome, e con ogni probabilità è uno dei tre e precisamente il «veterano d'Italia» autore delle considerazioni sulla disciplina ecc. che riporta con le stesse parole sull'opera edita a Firenze. 14
Firenze, Giuseppe Lelli &litore 1847.
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Sulla scia del Grassi: il «Dizionario Militare francese-italiano» di Mariano d'Ayala (1841)
Ancora una volta, per le voci fondamentali il d' Ayala segue le tracce del Grassi, e anzi ne riprende alla lettera le definizioni. Come nel caso precedente, benché nel 1830 Jomini abbia già introdotto la logistica come parte dell'arte della guerra questa voce non è trattata nel dizionario, che pure dovrebbe tradurre in italiano le voci francesi. Per ragioni che non si comprendono, erroneamente il d' Ayala definisce la strategia «parola di fresca data ma necessaria» e similmente la castramentazione «voce nuova ma assai necessaria». Per quanto detto prima la strategia è invece vocabolo antico se mai riverniciato a nuovo, mentre la castramentazione - oltre a non avere più l'importanza antica - è termine classico citato anche dalla Crusca, e in vigore fin dal secolo XVI. La definizione di arte della guerra (o arte militare) si discosta alquanto dal Grassi e forse risente di letture di autori francesi, dalle quali però non si traggono tutte le conseguenze: «componesi di due parti capitali, una intorno a ordinamento, sussistenza, disciplina, marce, accampamenti, assedio, difese, e l'altra alle armi e alle macchine. Potrebbesi dividere in castramentazione, strategia e tattica». Non si può non rilevare la scarsa originalità delle voci riportate e delle relative definizioni; tuttavia il d' Aya]a ha il merito di essere l'unico autore de] periodo a fornire - nel dizionario citato - lo schema per la classificazione delle opere in una biblioteca militare, suddivise in sette collezioni ciascuna composta da numero vario di sezioni. Questo schema sottintende anche un certo concetto dello scibile militare, perciò lo riportiamo integralmente. Salta subito all'occhio l'assenza di una collezione o sezioni nella quale compaia l'Arma del genio, che non si può identificare interamente con la fortificazione, né con le «scienze e arti attinenti al dotto soldato». Discutibile anche l'aggruppamento ne1la collezione V di materie del tutto divergenti tra di loro; molto ben suddivisa la marineria.
Collezione I. Arte della guerra I. Sezione Trattati generali
II. Sezione Trattati speciali
111. Sezione Costituzioni degli eserciti
IV. Sezione Disciplina militare
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Collezione II. Milizie di linea 1. Sezione Delle Fanterie
Il. Sezione Della Cavalleria
lll. Sezione Soldatesca leggiera
Collezione ID. Artiglieria I. Sezione Opere generali e Dizionari
Il. Sezione Opere particolari e Costruzioni
Ili. Sezione Ordinamenti ed ordinanze
Collezione IV Fortificazione I. Sezione Il. Sezione Dettati compiuti e Fortificazione Dizionari permanente e Mine
Ili. Sezione Fortificazione passeggiera
IV. Sezione Ordinamenti e Servigi particolari
Collezione V Filosofia, economia e letteratura militari I. Sezione Il. Sezione Dritto della guerra Sussistenze e e coscrizione amministrazione
Ili. Sezione Igiene del Soldato e Veterinaria
IV. Sezione Storia militare e scritture periodiche
Collezione VI Marineria I. Sezione Architettura navale
II. Sezione Trattati di navigazione
Ili. Sezione Tattica ed Artiglieria navale
Collezione VU Scienze ed arti attinenti al dotto soldato I. Sezione Mineralogia, Fisica e Chimica
Il. Sezione Geodesia, Geografia e Carte
IIJ. Sezione Architettura, Tecnologia ed Arti cavalleresche
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Testimonia l'importanza attribuita alla cultura militare nell'esercito del Regno di Napoli anche ciò che dice il d' Ayala alla voce biblioteca, libreria (biblioteque): «è inutile dimostrare l'importanza di una biblioteca militare al seguito di ogni reggimento .e in tutte le città di guernigione. A Napoli v'è quella dell'Officina Topografica, ricca di 16 mila volumi all'intorno». Oggi le biblioteche militari di guarnigione sono ancora importanti? sono frequentate? Come il Carbone - Amò, anche il d' Ayala tra le poche voci di interesse marittimo cita Torpedo, Torpille, «macchina infernale inventata da Roberto Fulton per mandare in aria le navi, o sommergendone a una certa profondità un sufficiente numero Jà dove credesi abbiano quelle a passare, o appiccandone ai fianchi di navi ancorate o anche alla vela. La quale specie di mina di mare o di petardo consiste essenzialmente in una scatola cilindrica di rame con basi emisferiche, capace di 48 chilogramma di polvere; a questa scatola ne va per mezzo di viti congiunta un' altra men grande della prima, che racchiude un acciarino il quale scattando accende un'innescatura compresa in un pezzo di canna da schioppo, che mette per un capo nell'interno della torpiglia». Nessun accenno al vapore e alle sue applicazioni; meritano comunque di essere ricordate alcune voci francesi di interesse del XX secolo e la relativa traduzione del d' Ayala: camion, «carromatto. In Piemonte viene denominato carretta da mortaio. Ed in Toscana carretto». Chauffer, «fuochista; colui che attende al fuoco, massime nelle macchine a vapore» (è l'unico accenno al vapore). Couin, «carro armato. Era un carro con lame taglienti di cui si servivano in guerra i Galli e quelli della Gran Bretagna.» (questa è la prima volta, a quanto ci risulta, che si usa il termine carro armato, e che sono citati «i Galli e quelle del Gran Bretagna» tra coloro che hanno impiegato carri da guerra). 15 Troviamo, infine, anche in d' Ayala la voce organo (francese argue): «cos) in altri tempi si sono chiamate parecchie canne di fucile riunite e fissate sopra un tavolone. Una specie delle macchine infernali di questi tempi». In sintesi, i contenuti delle principali voci del suo dizionario dimostra.no che il d' Ayala più che stra.tega e studioso di arte militare, è un dotto, un letterato militare: non è la stessa cosa, perché quando scrive di teoria e arte militare il d' Ayala non può certo dirsi grande, né originale, né geniale. 15 L ' «Enciclopedia Militare» (Voi. Il, p. 726) forse riprendendo le tesi del d' Ayala afferma che «è probabile che i Romani abbiano avuto dai Galli l'idea di impiegare il carro nella lotta campale».
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La comparsa dell'arte militare marittima e delle applicazioni militari del vapore nel « Vocabolario Militare di Marineria francese - italiano» · di Giuseppe Parrilli (1846) T1 Parrilli è il maggior scrittore navale del periodo: non casualmente egli è napoletano. Poiché lo Stratico rivolge la sua attenzione principalmente alla tecnica della navigazione e alle costruzioni, quest'opera è la prima del secolo XIX in Italia, interamente dedicata alla marina militare. Al di là della terminologià, l'autore attraverso commenti, considerazioni e tabelle che completano le voci principali fornisce una panoramica organica - e ancor più completa di quella del Ballerini - di tutto quanto è connesso con la guerra marittima, sì che questo dizionario assomiglia molto a un trattato di arte militare e marittima. Rispetto allo Stratico e al Ballerini, la novità principale del dizionario del P. è l'esame dei riflessi linguistici, tecnici e tattici delJ' introduzione della propulsione a vapore nelle marine da guerra.. Vi compare inoltre per· la prima volta la voce arte della marina, del tutto analogù all'attuale arte militare marittima visto che «le matematiche, la navigazione, l'astronomia, la fisica, la geografia, l'architettura navale, l'idraulica, J'a,te di attrezzare i vascelli, la manovra, la tattica navale e l'artiglieria, lulle costituiscono quell'insieme che viene denominato arte della marina». Anche le principali voci marinaresche - per qua11to solo parzialmente vi si prenda atto dei riflessi della propulsione a vapore - appaiono meglio centrate e più complete rispetto a quelle riportate dallo Stratico e dal Ballerini, a cominciare dai termini tattica navale e battaglia e combattimento navali. Per contro, non bisogna dimenticare che si tratta di un vocabolario francese - italiano, il che dimostra di per sé - senza bisogno di ulteriori commenti - la dipendenza pressoché totale del pensiero navale italiano del tempo da quello francese. li dizionario del P. contiene anzitutto voci generali che - assai. meglio di quanto fanno lo Stratico e il Ballerini - mettono in evidenza il ruolo e l'importanza della marina militare e il suo rapporto organico con quella civile (marina; potenza marittima; forze navali; amrniruslrazione di marina)_ Secondo il P., La marineria del commercio va considerata come sussidiaria di quella di guerra, e però richiamar debbe tutte le cure di ogni governo saggio e preveggente; dappoiché, prescindendo dalla prosperità di quel paese le cui relazioni commerciali sono molto estese, queste due parti distinte sono l'una indispensabile all'altra. Una marineria da traffico non può prosperare senza la protezione di quella da guerra, e questa sarebbe nulla senza la prima; imperroché quella
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costituisce il vivaio dal quale lo Stato trae gli uomini necessari al servizio dell'annata, uomini che prima di divenir soldati e cannonieri, come si fa oggidì, è mestieri che abbiano appreso a quella grande scuola l'arte marinaresca, navigando fin dai primi anni della loro età [... ] I vascelli, profondendo milioni, si possono costruire di bel nuovo; ma i marinai, quando la marineria da traffico non ne offre, non si possono al certo creare ...
La potenza marittima (da puissance maritime; oggi si parla più frequentemente di potenza navale, il che è poco corretto perché non è data solo da quantità e qualità delle navi da guerra) non viene propriamente definita, ma si indica la graduatoria de11e potenze marittime; «chiarnansi potenze marittime tutti quegli Stati i quali posseggono forze navali di una grande importanza». Il P. le suddivide in tre categorie: di l° ordine (Gran Bretagna, Russia e Francia); di 2° ordine (Olanda, Svezia, Stati Uniti, Egitto e Turchia); di 3° ordine (Spagna, Portogallo, Brasile e tutti gli Stati Italiani). Le forze navali di uno Stato «sono la totalità delle navi che esso possiede, come vascelli di linea, fregate, corvette, brigantini, golette, avvisi, battelli cannonieri, e i piroscafi [cioè le navi a vapore N.d.a.]. Possono comporsi di armate, di squadre, di armatette, di squadrette e di divisioni, secondo il numero delle navi». Tenendo presente che un'armata è composta da 27 navi di linea, le fori;e navali della Gran Bretagna possono fornire più armate; quelle di Russia e Francia una sola armata; quelle degli Stati Uniti una sola squadra, e quelle degli Stati italiani solo un' armatetta. L'amministrazione di marina equivale più o meno all'amministrazione militare per l'esercito: è «voce che denota l'insieme di tutti gli uffiziali civili della marineria, come Intendente, commessari ordinatori, commessari contatori, guardamagazzini ecc., i quali sono preposti al pagamento degli stipendi della gente marina, alhr compera di tutto il materiale di cui abbisognano gli arsenali e le navi nel loro particolare, e alla custodia di tutt'i generi». Per quanto riguarda più specificamente le operazioni navali, manca sempre la voce strategia marittima o navale: ma la voce tattica navale viene ben distinta da combattimento navale, così come avviene nella guerra terrestre. Tuttavia, essa non è ancora esplicitamente riferita alla organizzazione e condotta della battaglia o del combattimento e tende, come al solito, ad identificarsi con il movimento (nella fattispecie; con le evoluzioni), finendo con l'assomigliare alla strategia terrestre, che nel movimento ha anch'essa la sua essenza e consiste nel creare con detto movimento le più favorevoli premesse per la battaglia. Con questi limiti, la definizione che ne dà il P. denota la crisi di tra-
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sformazione in atto e la mancanza di autori italiani contemporanei di rilievo: «arte di far muovere le armate [nel senso di armata navale, forze navali - N.d.a.] con diverse evoluzioni, come i generali fanno muovere gli eserciti. Quest'arte è sottoposta a principi scientifici, e comprende tutte le manovre che eseguir possono i vascelli. Ci hanno dei trattati sull'obietto; e dopo la tattica di Leone VI Imperatore d' Oriente, inapplicabile alle presenti condizioni dell'arte della marineria, vengono quelle de] Padre Hoste, quella del Conte di Morogues, quella di Amblimont e quella del Ramatuelle, che è la sola la quale sia stata volta in italiano; ma che sebbene molto pregiata, pure non è stata sperimentata in grande». La voce battaglia navale ha un significato analogo a quello della battaglia terrestre, perché indica lo scontro tra la maggior parte delle forze delle due marine contrapposte. Infatti «non è a confondersi la battaglia navale con la semplice fazione. La prima voce ha una estesa significazione, e si adopera a denotare una pugna ordinata di più ore, avvenuta fra due armate; la seconda, in un senso meno largo, indica semplicemente il combattimento fra due squadre o due divisioni». Di conseguenza il combattimento navale è «azione del combattere delle navi fra di loro; ma è propriamente una pugna tra poche navi, ovvero una zuffa alla larga e non già terminativa. Che se poi venisse combattuta da due armate o da due squadre, colla rotta di una delle due, meglio sarebbe detta battaglia». Quando prende in esame il termine evoluzione, il P. mette in evidenza soprattutto le difficoltà che comportano i movimenti coordinati in formazione: «movimento qualunque eseguito da più navi riunite in isquadra o in armata, simultaneamente o successivamente, per serbare i diversi ordini, come quelli di marcia, di battaglia, di ritirata; ovvero per passare da un ordine all'altro. Siffatte evoluzioni sono di una straordinaria difficoltà, essendo impossibile avere·una quantità di navi riunite, le quali abbiano proprietà tutte uniformi, sia nella celerità del cammino, sia nell' ubbidire all'impulso del cannone o delle vele; e però si richiede somma espertezza, tanto nell'ammiraglio che governa la intiera armata, e comanda le evoluzioni, quanto nei capitani delle navi che debbono eseguirle». E alla voce esecuzione: «Allora quando l'ammiraglio segnala una evoluzione da farsi dalla sua armata, la medesima non va eseguita se prima tutte le navi non abbiano fatto conoscere all' ammiraglio di aver ben capito l'ordine trasmesso e star parate ad eseguirlo». Per la trasmissione degli ordini si usa il telegrafo navale, variante navale del telegrafo, «macchina fatta per trasmettere da un luogo ad un altro dei segni convenzionali, offrendo a tal modo il mezzo di far percor-
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rere delle grandi distanze a notizie importanti pel governo, con una celerità tale da superare quella dì tutti i veicoli di cui è dato all'uomo avvalersi. In tutti gli Stati del mondo l'amministrazione dei telegrafi è una dipendenza del Ministero delJ'Intemo; poiché essa di fatto non ha nulla di comune con la marina. Ma presso dì noi [cioè presso la Marina napoletana - N.d.a.] siffatta branca di servizio trovasi aggregata alla marineria». In effetti, il telegrafo navale così come lo descrive il P. è cosa ben diversa dal telegrafo, diciamo così, terrestre, che allora si andava sviluppando: TELEGRAPHE NAUTIQUE. TELEGRAFO NAVALE. - Chiamasi telegrafo navale un congegno consistente in una pastecca a rastrelliera, fatta da 13 poleggie, ciascuna delle quali è provveduta di una sagola, ove è attaccata una bandiera di colori e disegni diversa dalle altre; e tutte siffatte bandiere vanno poi riposte in una cassa, entro cui ciascuna ha la propria casella, in fondo alla quale ci ha un'altra poleggia su cui scorre la sagola della rispettiva bandiera. Quando si vuol far uso del telegrafo navale, si apre la cassa, s'issa la pastecca a rastrelliera alla penna del picco della randa, ed allora tutte le sagole pendono dall'alto, ciascuna mettendo capo alla propria casella; sicché tirando uno dei rami di due o tre sagole diverse, è dato far sal ire in alto più bandiere alla volta, ed esprimere sollecitamente dei segnali. È indispensabile il telegrafo navale neJle armate e neJle squadre, per trasmettere i comandi relativi alle evoluzioni da farsi, e che non potrebbero altrimenti comunicarsi da vascello a vascello. In ordine poi ali' ingegnosissimo sistema sul quale poggiano i segnali telegrafici, ci è d'uopo rinviare i1 lettore all'articolo Signaux de jour.
Accanto al telegrafo navale citiamo anche una voce di grande avvenire come hangar, poi termine aeronautico di largo uso: «tetto piantato sotto pilastri di fabbrica, fatto per garantire dalla pioggia i legnami grezzi, che serbansi per indi lavorarli quando sieno completamente essiccati. Negli arsenali ce ne hanno taluni assai lunghi, da potervi accogliere i grandi tronchi di abete da alberatura; come anche ci hanno delle tettoie alte tanto, da ricoprire dei vascelli sui loro cantieri». I rimanenti vocaboli (evoluzioni, linea di battaglia, armata navale, colonna, divisione, ecc.) sono ancora riferiti alla navigazione a vela, e hanno significati analoghi a quelli che attribuiscono loro lo Stratico e/o il Ballerini: altra prova della loro derivazione da un unico cespite dottrinale, quello francese, del quale il P. cita del resto anche gli autori. Da notare ciò che dice il P. alla voce abbordo (francese abordage), precisando che «comunemente si tà altresì uso delle voci abbordaggio e arrem-
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baggio [così fanno lo Stratico e il Ballerini - N.d.a.], le quali non si leggono in veruno scrittore riputato». Dopo aver djstinto l'abbordaggio in involontario e volontario, il P. afferma che questo modo di combattere basato sul valore personale è stato comune «in tutte le zuffe navali ed anche nelle battaglie ordinate» fino al secolo XV1TI, e in tale specie di combattimenti i francesi hanno rivelato «una manifesta superiorità». Ma i miglioramenti apportati a11e artiglierie navali negli ultimi anni «han dovuto dar bando a tale uso; imperocchè il fuoco dé cannoni, che scagliano 30 libbre di palla alla breve distanza di una gittata di pistola, è tale che in venti minuti costringe il più forte vascello a desistere dalle offese». Queste considerazioni non si trovano nello Stratico e nel Ballerini, anche se il primo definisce ormai raro l'abbordaggio tra le navi maggiori: il P. dunque, incomincia a prendere atto de11e trasformazioni della tattica navale, dovute sia al perfezionamento delle artiglierie che alla propulsione a vapore. Come già abbiamo detto, il P. considera ancora validi gli ordinamenti e le formazioni del periodo velico che sono ormai aJ tramonto, ma alla voce fronte di battaglia accenna ai possibili mutamenti nelle formazioni imposte ,dal vapore, con una previsione peraltro errata relativa alla sistemazione de11e artiglierie sui piroscafi (nuovo termine per indicare una nave con propulsione almeno parziale a vapore, che troviamo per la prima volta nel P.). Le galere - egli afferma - avevano solo la prora armata di artiglierie, quindi in battaglia si disponevano in linea di fronte. Successivamente sono state disposte numerose artiglierie su ambedue i fianchi delle navi, quindi si è passati alla linea di fianco o colonna: ma «la introduzione dei piroscafi nelle armate navali, debbe di necessità far rivivere l'antica ordinanza, non potendo siffatte non combattere altrimenti che con la prora o con la poppa». I problemi tecnici e militari della propulsione a vapore vengono specificamente esaminati soprattutto nelle voci macchina a vapore (machine à vapeur), battello a vapore (bateau à vapeur), battello a vapore a elica (bateau à vapeur a hélice) e fregata a vapore (frigate à vapeur). Diversamente da quanto avviene per il Ballerini, il P. alla voce macchina a vapore fa esplicito riferimento al saggio del Serristori e per la parte militare non manca di valutare i riflessi dell'introduzione del vapore. In particolare, diffondendosi su numerosi particolari tecnici e sulla manutenzione e impiego delle macchine in navigazione attribuisce all'americano Fulton (1802) il merito di aver per la prima volta applicato la macchina di Watt a un battello che navigava nella Senna. E aggiunge che dopo riuscite applicazioni commerciali, nel 1814 venne varato a Nuova York il primo battello da guerra,
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costruito da Fulton sulle dimensioni di un'antica fregata da 32 cannoni, cui in onore di questo illustre concittadino fu imposto il nome di Fulton 1°. Posteriormente nel 1818 altro se ne costruiva, le cui dimensioni in lunghezza e larghezza sorpassavano quelle della più gran nave di linea, e che andava armato di 44 cannoni, dei quali alcuni del calibro di 100 libbre di palla, ed altre di 60.
Ma questi due piroscafi, che pure avevano destato grande attenzione in Europa e in America «per il portentoso loro macchinismo, il quale li abilitava a scagliar palle arroventate, ad armarsi i fianchi di picche e sciable mobili ed a scagliare getti di acqua bollente nel fine di difendersi dall'abbordo» finirono dimenticati nel porto di New York, non appena essi rivelarono difetti meccanici e pericoli. Dopo questo primo esempio di costruzioni di navi da guerra, sempre secondo il P. la Marina inglese ha avuto il merito di colmare il ritardo e di studiare e risolvere con successo i problemi delle navi a vapore, ormai entrate in uso nelle principali marine. Il battello a vapore (o piroscafo) viene da lui così definito: «nave messa in moto da macchine animate dalla forza del vapore acqueo, il quale opera sopra le ruote a palette di cui van provveduti i suoi fianchi. Queste navi nate dapprima ali' America per opera del celebre Roberto Fulton, e poscia al]'Europa, sono una invenzione portentosa del volgente secolo; e da ben pochi anni sono state usate come navi da guerra. I piroscafi da guerra della Gran Bretagna, sù quali sono modellati quelli di tutti gli Stati marittimi, appartengono a quell'ordine di navi dette a barbetta, ossia armate di artiglierie solo sulla tolda». Le navi a vapore del momento sono anche fomite di alberi e vele, per poter navigare alla stessa velocità di quelle a vela quando fanno parte di una formazione navale. E dopo aver descritto le loro caratteristiche costruttive rispetto ai velieri, il P. mette a confronto le caratteristiche positive e negative dei piroscafi da guerra con quelle dei pluriarmati vascelli a vela, dimostrandosi tutt'altro che entusiasta della propulsione a vapore, fino ad escludere - con considerazioni che meritano di essere qui interamente riportate - che in futuro il nuovo sistema possa soppiantare totahnente la navigazione a vela: avvegnachè superiori alle navi da guerra a vela sieno i piroscafi, e per la celerità costante del loro corso, e per la direzione invariabile del loro cammino, e per la facilità di aggirarsi in tutti i versi, pur non di meno quanto mai non sono essi inferiori a quelle stupende moli [cioè i vascelli di linea a vela - N.d.a.] i cui forti fianchi vanno armati dagli 80 fino ai 120 cannoni, e di cui una sola fiancata
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tratta a breve gittata varrebbe a mandarli a picco! Questa osservazione sconfortante non poteva sfuggire ai favoreggiatori di queste novelle navi da guerra; e però immaginarono di munirle con armi le quali, comechè inferiori di numero a quelle delle navi di linea, tuttavia pei loro tremendi effetti valessero a superarle. Così vedemmo gli Americani pé primi armare il Fulton 11° di cannoni che scagliavano delle enormi palle di 60 e 100 libre.- V. Canon à bombes. Molto si è disputato intorno alla importanza dei piroscafi da guerra, ed in ordine al vantaggio che se ne può trarre; ed i marini partiti in due schiere opposte hanno esauriti tutt'i ragionamenti, taluni per mostrare la impotenza di essi come macchine da combattimento, ed altri per dimostrarli superiori di tanto alle navi a vele, da voler bandite quest'ultime. In mezzo ad opinioni sì divergenti e smodate ci permetteremo talune brevi osservazioni all'uopo. Precipuamente è ad aversi per fermo che ,di molto si è magnificata la forza dei piroscafi, potendo essi bensl far parte di un'armata, ma giammai costituirne il nerbo sostanziale; dappoichè considerati come islrumenti di guerra, presentano una grande sproporzione fra i mezzi di offesa e quelli di resistenza, essendo la loro struttura molto più debole di quella dei vascelli di linea, sia per la spessezza maggiore dé legnami di questi, sia per la complicazione grandissima del loro meccanismo che li espone a ricevere le più terribili avarie nelle loro parti vitali. Così il fracassamento di una ruota, la perforaz.ione delle caldaie, la rottura o ammaccatura delle aste degli stantuffi e di tanti piccoli bastoni metallici motori delle svariate parti del macchinismo, e da ultimo l'incendio di una tramoggia, possono essere l'effetto di poche palle piene e di qualche granata, bene aggiustata al corpo del piroscafo e penetrare nella sua sezione centrale. E di fatti, ove si ponga mente alla prepotenza delle navi di linea, i cui forti fianchi, mentre su di un piano verticale tutto al più di I 80 piedi di lunghezza per 30 di altezza, vanno armati da 40 fino a 60 cannoni che tutti in una volta possono vomitare altrettanti proietti, sono poi atte in pari tempo a resistere all'azione di più di un centinaio di essi, si scorgerà di Jeggieri che un piroscafo ha su di un vascello di linea il solo vantaggio di poter ferire, mediante la straordinaria gettata dei suoi cannoni, ad una distanza sufficiente da mettere sé medesimo fuori il tiro delle artiglierie che scaglian proietti vuoti e delle quali viene armata la batteria bassa di quello. Ma ove mai si riuscisse a munire anco le navi di linea con cannoni da bomba di I O pollici, montati sopra affusti giranti in tutti i versi come quelli dé piroscafi, non solo sarebbe ristabilito l'equilibrio fra le forze di queste navi di guerra diverse, ma prepondererebbero forse quelle delle prime. Utilissimi se non pertanto i piroscafi per le operazioni di guerra che richieggono rapidi movimenti, come sarebbero gli sbarchi, le
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sorprese dé porti, le intercettazioni dé convogli, ed anche i bombardamenti delle piazze munite di artiglierie di non lunga gittata. Così abbian veduto i piroscafi della Gran Bretagna, risalendo i fiumi della Cina, penetrare in poche ore nel cuore delle provincie di quel gigantesco, e ad un tempo debole impero, e spargere dovunque il terrore. In ordine poi ai vantaggi riportati da queste navi sulle coste della Siria nelle fazioni di S. Giovanni di Acri e di Beyrut, su quelle di Marrocco nei bombardamenti di Tangeri e Mogador, e su quelle del Rio della Plata, sono altresì deboli argomenti in loro favore; dappoichè ove si ponga mente alla condizione tanto inferiore delle artiglierie opposte dagli Egiziani, Marrocchini e Buenossariani, a quelle dé piroscafi, ed alla possibilità di potersi armare le batterie da costa con cannoni da bomba di 10 pollici, svanirà gran parte del prestigio dal quale vanno accompagnate queste macchine da guerra. Da ultimo avvaloreremo questa nostra opinione intorno ai piroscafi da guerra, riportando quella di un egregio uffiziale della marineria inglese, il retro-ammiraglio Napier, il quale avendoli veduti combattere sotto i suoi ordini nelle fazioni della Siria, era senza fallo in condizioni di dar fuori ad un ponderato giudizio. I piroscafi, egli dice in un suo discorso, vanno considerati come atti unicamente ad esercitare in un' armata le funzioni affidate alle milizie leggiere in un esercito: quindi è loro uffizio quello di navigare a qualche distanza dall'antiguardo, come esploratori; intercettare il cammino delle navi sospette che s'incontrano, senza che però si arresti il viaggio dell'intiera armata; sorprendere i convogli che profittando di un qualche vantaggio di vento potrebbero con facilità involarsi al nemico che li caccia; nella mischia bersagliarlo di lontano con le loro armi di lunga gittata; aggredire una nave disalberata e strascinata in iscaroccio; prenderne a rimorchio una della propria bandiera che si trovasse nelle medesime condizioni; comunicare celermente ordini dall' antiguardo al retroguardo in una estesa linea di battaglia; e generalmente arrecar soccorsi a tutte quelle navi che potessero abbisognarne, evitando sempre per altro di arrestarsi pel traverso dei vascelli di linea dell'inimico. Dalle quale osservazioni chiuderemo questo lungo articolo col dire, essere apertamente manifesto quanto vadano errati quei novatori, i quali hanno pronosticato che la guerra navale avrebbe sofferta un giorno una intiera rivoluzione, mediante il totale abbandono della navigazione a vela.
Con questo concetto riduttivo, il P. mostra anche di non valutare nella loro giusta importanza i risultati delle esperienze e degli studi sul cannone a bomba, sulle corazze e sulla propulsione a vapore fatti dal Paixhans in Francia (1822-1825). Né egli considera che con l'adozione
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della propulsione ad elica i cui vantaggi sono da lui stesso così ben descritti, e con i1 continuo perfezionamento de11a macchina a vapore, gli asseriti svantaggi dei piroscafi da guerra si sarebbero ridotti sempre più. Come si è visto, il P. prevede che la propulsione avvenga a mezzo di ruote sui due franchi mosse dalla macchina a vapore; ma egli riporta anche la voce bateau a vapeur à l'helice, che non traduce come battello a vapore ad elica, ma battello a vapore a vite propellente, ideato perché «gli sconci che presentano le ruote a palette finora adoperate nei piroscafi, e sui quaJi convengono ed ingegneri, costruttori, e marini, e meccanici, occuparono l'ingegno di molti per sostituir loro un altro macchinismo atto ad imprimere il moto a11a nave; e fra gli svariati tentativi fatti all'uopo, sembra quello dell'applicazione dell'elica essere il solo che abbia dato dei risultati più utili degli altri». Dopo aver descritto l'elica, «detta altrimenti Vite propellente o Vite d'Archimede», il P. accenna ai gravi inconvenienti che sono emersi nei primi esperimenti in Francia (sul piroscafo Napoléon e in Inghilterra (sul piroscafo Archimede). Peraltro questi esperimenli pucu felici - egli afferma - non hanno scoraggiato i meccanici, i quali «proseguon tuttodì i loro tentativi per migliorare un macchinismo che ci auguriamo vedere perfezionato in guisa, da potersi bandire quelle sconcissime ruote a palette le quali deturpano la più sublime invenzione dell'ingegno umano» TI vapore viene subilo applicato anche ai brulotti, cioè ai bastimenti carichi di materie infiammabili spinti contro il naviglio avversario per bruciarlo, frequentementi usati da secoli nella guerra navale. Il P. cita in merito la voce Brulot à vapeur, piroscafo incendiario: «L' ingegno umano che seppe trarre vantaggi tanto proficui al traffico e ali ' industria dall'applicazione delle macchine a vapore alla navigazione, ha voluto puranche tramutare questa novella scoverta nel più tremendo istrumento di distruzione, costruendo dei piroscafi incendiari. Queste macchine da guerra fabbricate per la prima volta nell' arsenale di Woolwich in Inghilterra, vennero vedute e descritte dall'ingegnere francese Tommaso Don nel 1840» (segue una minuta descrizione). Un tipo di nave che dovrebbe sparire per effetto dell'introduzione del vapore e delle nuove granate d'artiglieria è la corvetta bombardiera, «nave a barbetta annata da 20 a 24 carronate, e da due mortai da 12 pollici, piantati tra i passavanti: i tiri di questi passano sopra le murate; le quali vanno ricoperte, nel momento di trarre, con cuoi, a fin di preservarle dalle fiamme ch'escon fuori dai mortai. La introduzione dei piroscafi da guerra e dei cannoni da bombe, debbe di necessità farle andare in disuso». Espressione del livello culturale della maggiore Marina italiana del
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momento, il P. più che per la mancanza di doti profetiche a proposito del vapore, va giudicato per le molte appropriate considerazioni che compaiono nel suo vocabolario e per il quadro generale della problematica marittima che sa offrire. Anche se non è stato profeta, è stato un buon testimone del suo tempo.
«Della lingua militare d'Italia - origine e progresso non che dé miglioramenti e sussidii di cui pare suscettiva» di Francesco Sponzilli (1846): perdurante influsso straniero. A parte le connotazioni puramente linguistiche che già abbiamo esaminato nel precedente capitolo N, questo lavoro del capitano del genio napoletano Sponzilli riassume in sé molti pregi e difetti della letteratura militare italiana del periodo: animosità e anzi faziosità contro gli avversari interni (nella fattispecie, il Grassi e il d' Ayala), piaggeria nei riguardi dei modelli stranieri (anche per lui, l'Arciduca Carlo e Jomini, dei quali vanta o millanta l ' amicizia e la particolare considerazione) ma, in tutto questo, vivacità di acume, d'ingegno e spunti assai originali, che fanno dello Sp. una figura di grande rilievo del periodo. Il suo concetto di guerra è affine a quello del Machiavelli e di Napoleone, perciò diverge da quello di molti altri scrittori coevi e dell'Enciclopedia Francese: «complesso di tutti i procedimenti di un esercito per distruggere le forze di un potente nemico, onde ottenere un qualche fine di benessere sociale». Può essere: di cordone, difensiva, a difesa attiva (o difesa offensiva), a difesa passiva, di movimenti, d' invasione, di posti, metodica, offensiva, sotterranea. Oltre a discostarsi dal Grassi, con questo concetto della guerra e dei suoi vari tipi lo Sp. si discosta notevolmente dal suo amico Jomini, perché sembra ridurre la guerra a un affare di un solo esercito e non di due e comunque - come lo stesso Machiavelli - a un affare solo militare, dove non compare più la politica. Anche l'Arciduca Carlo, che nei citati Principi della parte sublime dell'arte della guerra del 1806 (da lui tradotti e fin troppo elogiati) riduce i tipi di guerra a due soli, offensiva e difensiva, non è certo l'ispiratore di questa suddivisione. A parte questi limiti, le considerazioni dello Sp. sui vari tipi di guerra non mancano di acume e anticipano molti modi di condurre la guerra (anche sbagliati) che sono tipici del secolo XIX e XX. La guerra di cordone è una «vecchia maniera di difendere una frontiera dividendo e disseminando le truppe sopra tutti i passi, e trovandosi debole da per tutto». La guerra a difesa attiva equivale, più o meno, a una guerra difensiva-
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controffensiva, o meglio ancora al moderno concetto di difesa reattiva e dinamica. In essa «si oltrepassano, anche momentaneamente, i punti strategici che si voglion custodire, e si corre a incontrar l'aggressore» (di qui il pasticcio di termini difesa offensiva). Due guerre tipiche del XX secolo fino al 1945 sono la guerra di movimenti (guerre de marches) e la guerra di posizioni. La prima è il «modo attivissimo col quale Buonaparte tenne per due anni mano forte contro tutta Europa. Concepimenti chiari, marce rapidissime e frequenti, poche ma decisive azioni»: il mito degli strateghi del XX secolo insomma. La guerra di posizioni è definita in maniera del tutto aderente a quanto si è visto nella prima guerra mondiale: «maniera compassata, fredda e ingloriosa di fare la guerra non avanzando, e non retrocedendo se non mettendo piede sopra forti posizioni (stii.rke Positionen degli alemanni). La fecero i generali che niente impararono da Gustavo Adolfo e da Federico; finì allo svilupparsi della maniera di Napoleone» [ma nel secolo XX resuscitò - N.d.a.]. Una sorta di variante della guerra di posizioni è la guerra sotterranea, cioè la guerra di mina e contromina che è «lunga e dubbiosa». La guerra metodica è l'opposto di quella di posizioni, visto che in essa «si procaccia ed è possibile l'applicazione di tutti i principi teoretici dell'arte militare». Non si capisce perché lo Sp. vuol distinguere la guerra offensiva da queJla di movimento; la prima presuppone il movimento, perché è «quella per la quale un esercito procede con continuato vantaggio sempre attaccando l'inimico, e sempre guadagnando il terreno di lui. Strategicamente si tiene l'offensiva quando si passa dalla propria base per portarsi al di là della medesima, onde successivamente guadagnare dé punti strategici conducenti al grande scopo della campagna» (la guerra difensiva è esattamente il contrario, perché si limita a difendere finché possibile i punti strategici senza oltrepassarli). Dopo queste considerazioni abbastanza originali sulla guerra, lo Sp. affronta in modo francamente deludente termini - chiave come arte militare, strategia, tattica, battaglia ecc., dove riprende spesso alla lettera i concetti e le definizioni dell'Arciduca Carlo e - in misura minore - di Jomini. Egli non indica nemmeno alcuna chiara ripartizione dell'arte militare. Pur denominandola arte la indica come scienza o conoscenza, nella quale si distingue: - una branca scientifica, denominata strategica e costituita dalle «cognizioni che riguardano le circostanze politiche, statistiche e topografiche di un Paese, studiate nel fine di farlo vantaggiosamente percorrere da un esercito»; - una branca a sfondo artistico, denominata tattica e costituita dalle
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cognizioni «che hanno per obietto un esercito, tanto re1ativamente agl'individui che lo compongono, quanto a1la sua massa, considerato il tutto nel fine di metterlo in grado di percorrere, stanziare e combattere sopra un determinato paese». Lo Sp. ha il merito di non parlare di castramentazione come parte dell'arte della guerra e di rimbeccare a ta1 proposito il d' Ayala, precisando che non si tratta certo di una voce nuova, ma di una voce che si ritrova negli scrittori italiani addirittura a cominciare dal XVI seco1o. E ha anche il merito di coi;reggere a1cune errate interpretazioni di vocabo]i francesi che si trovano nel Grassi, con osservazioni per lo più condivisibili che hanno solo il torto di essere inutilmente, pesantemente offensive nei riguardi del non-militare Grassi, ignorando i suoi meriti pionieristici. Nessun accenno, nel dizionario, a1la logistica, termine del quale pur parla nelle note al paragrafo II - marce della traduzione dei Principi della parte sublime dell 'arte della guerra dell'Arciduca Carlo (Capitolo Il), indicandola - a imitazione di Jomini - come precipua cura degli Stati Maggiori, i1 cui compito è quello di sollevare il comandante dai particolari re1ativi a11'organizzazione e controllo del movimento. 16 Nella traduzione citata egli identifica la logistica esclusivamente con le marce, cosa che non fa nemmeno Jomini, e la considera (primo in Italia) come parte de1l'arte della guerra. Ma di tutto questo si perdono due anni dopo le tracce, visto che nel dizionario ora in esame non c'è spazio che per la strategia e la tattica, marcando e rendendo ancor più schematica la differenza tra scienza e arte, con esplicito richiamo ali' Arciduca Carlo. Questa impostazione si trova alla voce arte della guerra: ma quando lo Sp. definisce partitamente e più nel dettaglio le voci strategia e tattica, si trova ancor più marcata la differenza tra scienza e arte, con erronea identificazione della tattica addirittura con l'arte della guerra. La strategia «è la scienza della guerra; è una cognizione del paese ove si guerreggia, dell'intuito particolare a un generale in capo [ma come vi può essere cognizione dell'intuito? L'intuito si manifesta ma non si conosce fin che non è messo alla prova - N.d.a.], perché possa bene dirigere un esercilo». La tattica «ne11o stato attuale delle cognizioni militari, è stata dai maggiori intelletti d 'Europa definita l'arte della guerra (a differenza della strategia che è 1a scienza della guerra), quella per la qua1e si adopera ogni modo nel fine di eseguire .i concepimenti strategici». La tattica - come per Jomini - secondo lo Sp. si divide in gran tattica (organizzazione e condotta della battag1ia) e piccola tattica, concernente 16
F. Sponzilli, Op. cit. , pp. 54-55.
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l'istruzione individuale e di reparto. In generale, per tattica si intende anche «il complesso di quelle conoscenze necessarie al Generale e all'Officiale di ogni grado, per formare le truppe, muoverle in già determinata direzione, ordinarle a riposo o a battaglia, e dare tutti i provvedimenti di regola ed estemporanei perché si consegnano le vittorie». A proposito de] significato generale di battaglia, lo Sp. non diverge dagli autori italiani del tempo e dall'Enciclopedia Francese. La definisce «la più grandiosa la più magnifica azione di ostilità fra due armate nemiche; quella nella quale prendono parte quasi tutti i corpi ond'etle sono composte; quella in cui combattono i due Generali in Capo, che mena a grandi risultamenti ecc.». Ma quando si tratta dei vari tipi di battagUa mette insieme - con discutibi1i risultati - quanto afferma in merito il Jomini (che distingue tra battaglia offensiva, difensiva e improvvisa) con le considerazioni che si trovano alla stessa voce nell'Enciclopedia Francese (che parla di eserciti rangées en bataille, di battaglia completa e decisiva ecc.). Per lo Sp_ i tipi di battaglia diventano così sei: decisiva, difensiva, offensiva, improvvisa, simulata, ordinata (rangée). 1 dubbi nascono per i concetti di battaglia decisiva e di battaglia rangée. La prima sarebbe, per lo Sp., «quella la quale pone l'esercito che la perde nella circostanza, per lo meno, di non riprendere l'offensiva». Definizione assai discutibile, perché anche un esercito sconfitto a metà o non sconfitto in una battaglia inconcludente potrebbe decidere di non riprendere almeno temporaneamente l'offensiva, per ritornare a un certo punto a intraprenderla magari con successo, e allora non si vede che cosa avrebbe di decisivo la battaglia. Se invece- come precisa l'Enciclopedia Francese - la battaglia decisiva si concluçle con la debellatio, lo sbandamento di uno dei due eserciti, allora essa è veramente tale e solo in questo caso può decidere dell'esito di una campagna. La battaglia rangée viene tradotta dallo Sp. in «battaglia preveduta, battaglia preparata, così detta per distinguerla dalle battaglie improvvise». Preparata e prevista, dunque, da ambedue le parti, che si schierano a regola d ' arte - come anche l'Enciclopedia Francese-afferma - su un terreno con caratteristiche tali da consentire alla maggior parte delle forze dei due eserciti di combattere (di qui la frequente definizione non del tutto calzante di battaglia campale, usata anche dal Grassi). Questa volta ha ragione lo Sp., e torto il Grassi con il quale egli aspramente polemizza. D ' altro canto, se è così sia lo Sp. che Jomini e il Grassi hanno torto: perché le battaglie dovrebbero essere suddivise in rangées (cioè preparate) oppure non rangées, cioè improvvise almeno per uno dei due, o d'incontro; ciascuna di esse potrebbe essere offensiva o difensiva, e tutte potrebbero avere effetti decisivi ....
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Conclusione: la strategia italiana alla ricerca di originalità Più che scoperte eclatanti, l'esame delle voci militari di base nei dizionari del periodo fornisce delle conferme di quanto emerge dall'approccio filologico e linguistico condotto nel capitolo IV: preponderante influsso francese e jominiano anche in chi lo vorrebbe rifiutare, minore influsso dell'Arciduca Carlo, assenza di riferimenti a Clausewitz o comunque di concetti concordanti con le sue teorie, scarsa originalità di molti autori. Vi sono anche spunti originali e personali: ma bisogna cercarli e non sono la norma. In campo marittimo, l'influsso francese è se mai maggiore di quanto avviene in campo terrestre: gli autori di riferimento sono sempre e solo francesi ... I giochi sono fatti dal 181 O al 1820, con la comparsa delle opere del Grassi per la parte terrestre e dello Stratico per la parte marittima: tutti gli autori che vengono dopo prendono come base e riferimento queste due opere, anche quando - come il d' Ayala e lo Sponzilli - intendono correggerle o migliorarle o le criticano fin troppo aspramente. Quello di strategia rimane, al momento, un termine usato solo in campo terrestre. La progressiva diffusione della propulsione a vapore serve solo a far emergere l'incipiente crisi dell'arte della guerra navale, ancora legata alle caratteristiche delle navi a vela. Scorrendo le pagine de11o Stratico, del Ballerini e del Parrilli si fa una constatazione positiva, e una negativa. Quella positiva è il gran numero di voci ancora oggi in uso - anche se non esclusivamente - nel campo marittimo, della navigazione a vela, dei comandi sulle navi ecc.; quella negativa è il numero estremamente ridotto di voci militari, al quale consegue il mancato approfondimento della problematica concernente l'impiego tattico delle flotte. In campo terrestre si nota la perdurante assenza ingiustificata, anche dopo il 1830, del termine logistica introdotto da Jomini, del quale molti sono tuttavia dichiarati o nascosti allievi. L'importanza attribuita dalla quasi totalità degli autori - a cominciare dal Grassi - al termine castramentazione, comunemente considerato come parte dell'arte de11a guerra, non trova riscontro nei principali autori europei post-napoleonici e dà luogo a interrogativi senza risposta: le guerre offensive e di rapido movimento alla maniera napoleonica - che dopo il l 815 sono un modello per tutti, o almeno un caso ideale - portavano addirittura a fare meno delle tende preferendo l'addiaccio, mentre le artiglierie rendevano poco efficaci quelle difese campali improvvisate che invece erano la forza dei castra romani. Chi e che cosa ha suggerito al Grassi, purista imbevuto di studi classici, di indicare il termine castramentazione come parte dell'ar-
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te della guerra? senza dubbio la Crusca e gli autori classici ai quali si richiama; certamente non il modello napoleonico. L'importanza della castramentazione è tipica del periodo pre-napoleonico, prima di tutto in Francia: basta consultare la voce castramentation dell'Enciclopedia Francese nella quale si afferma che «è una parte così importante dell'arte militare, da far apparire sorprendente il fatto che essa sia stata assolutamente trascurata negli autori moderni che hanno scritto di guerra» [il riferimento temporale di queste considerazioni è, naturalmente, la seconda metà del secolo XVIII - N.d.a.]. Segue un ' ampia descrizione della sua storia, e delle alterne fasi di decadenza e di ritorno in auge che essa ha attraversato: ma, nella fattispecie, queste vicende dimostrano che il Grassi e molti altri hanno del ruolo della castramentazione un concetto superato. Tutto questo induce a concludere che i numerosi dizionari militari e navali italiani del tempo dimostrano una sola cosa: in campo terrestre la robusta persistenza di concetti di origine pre-napoleonica e l'incompleta assimilazione dell'effettiva portata innovatrice della strategia nata con la Rivoluzione; in campo navale, la ancor scarsa percezione del ruolo della battaglia decisiva secondo il modello nelsoniano e dei vantaggi che comporta il dominio del mare. Ancora embrionale e impert·eua, e comunque non lungimirante, la valutazione dalle possibilità offerte dal vapore e dalle nuove artiglierie. Le analisi critiche da noi compiute, doverose e necessarie anche per rispetto al lettore e per stimolarne la riflessione, non possono non essere accompagnate, e in certo senso temperate da una semplice domanda: nel campo della linguistica militare si è fatto di meglio, nel periodo considerato, in altre nazioni d'Europa e soprattutto in Francia? Allo stato delle nostre conoscenze attuali, non abbiamo sufficienti elementi per rispondere con sicurezza: nelle opere militari del periodo, infatti, si incontrano numerose citazioni di fonti straniere, ma in nessun caso viene falla menzione di dizionari o vocabolari coevi di uso generale. Questo vale anche per gli autori italiani, dove i riferimenti a lavori che trattino della lessicografia militare sono pochi. Presso la Biblioteca Militare Centrale abbiamo visto ad esempio un Dictionnaire Militaire portatif del capitano E. Legrand (I 837) 17 con finalità pratiche divulgative, le cui voci dimostrano una cosa sola: che sotto nessun aspetto, né teorico, né pratico, né dal punto di vista della regolamentazione, l'arte della guerra e/o l'istruzione militare francese del tempo superano quella napoletana o piemontese, oppure differiscono
17
Paris, Librairie Delloye 1837.
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molto da esse_ Anche le modalità per la paga, il vestiario ecc. sono simili; e persino gli autori militari indicati dal Legrand per approfondire i vari argomenti - tutti francesi - sono quelli normalmente citati dai nostri autori. Strategia secondo il Legrand è l'arte di compilare un piano di campagna, di fissare i punti di partenza, e di tracciare la direzione principale deJle operazioni. Tattica è l'arte di disporre e di far muovere le truppe nella maniera più vantaggiosa per l'impiego delle loro armi. Sono ignorati termini come subsistance, sussistenza, che pure in alcuni nostri dizionari hanno un certo spazio. Prevedibilmente non si parla di logistica, ma si trattano voci logistiche come ad esempio logement (alloggio), habillement (vestiario), o logistico-amministrative, come livres de compagnie, registri di compagnia, o livret de solde, libretto del soldo. Molto brevemente, da queste voci si trae la conferma che l' organizzazione logistico-amministrativa piemontese è simile a quel1a francese e che, ad esempio, anche il soldato francese dell'epoca si adatta all'occorrenza a dormire in due per letto. 18 Infatti le modalità per l'alloggio presso l'abitante (in marcia) secondo il Legrand sono le seguenti: «l'ufficiale alloggia in stanza singola; gli abitanti devono prestargli, come alla truppa, gli utensili di cucina e le suppellettili da tavola, e concedergli fuoco e lume. I sergenti, marescialli d ' alloggio, furieri, caporali, brigadieri, e soldati hanno diritto a un letto ogni due persone; gli aiutanti sottufficiali, tamburi maggiori, trombe maggiori, sergenti maggiori e marescialli d'alloggio capi, a un letto ciascuno». In tempi molto più recenti e dopo l'esperienza della prima guerra mondiale, il generale francese Culmann incomincia il suo libro sulla strategia così: «i tedeschl, principalmente sotto l'influsso di Clausewitz, hanno sminuito il ruolo della strategia» (seguono considerazioni di stampo inconfondibilmente jominiano sulla natura della strategia e i suoi principi). 19 Possiamo quindi concludere che non si può tacciare sic et simpliciter i vari dizionari italiani prima esaminati di scarsa originalità o di dipendenza dall'estero; ancora una volta, si hanno buone ragioni per ritenere che in campo linguistico l'adesione alla scuola jominiana, sia pure con qualche variante non significativa, è comune agli autori francesi e non, tedeschi esclusi. Ciò che invece si deve positivamente registrare è il diffuso bisogno di porsi dei problemi linguistici, di ricercare - magari in contrapposizio18
19
F. Botti, Op. cit., Voi. I, Parte Prima. F. Cullmann. Stratégie, Paris, Lavauzelle 1924, PP- 11 -22.
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ne e in polemica con altri- la via per elaborare un nuovo linguaggio militare nazionale e quindi una nuova cultura militare italiana. Che poi questa cultura potesse trovare solo in Italia e solo nel nostro pur cospicuo patrimonio culturale le fondamenta, le ragioni della sua rinascita, è altra cosa: i tempi non lo consentivano.
CAPITOLO VI
I PRECURSORI: SOITOFONDI TEORICO-MILITARI DELLA RINASCITA NAZIONALE NEGLI SCRITTI DI GAETANO FILANGIERI, MELCHIORRE GIOIA E UGO FOSCOLO
Storia e rinascita nazionale
Gli studi e i dibattiti sul linguaggjo mrntare e sui suoi termini fondamentali, pur carichi di significati, rimangono solo un segno, una manifestazione importante, ma pur sempre preliminare e non unica, del la rinascita di un pensiero politico - e quindi anche militare - con carattere naziona1e. I1 problema della formazione di un nuovo pensiero militare italiano e del suo raccordo sia con i grandi movimenti di pensiero europei sia con ]a nostra tradizione e i nostri autori antichi nasce comunque ancor prima di quello del linguaggio, e ha sempre su11o sfondo l'esigenza ben concreta di adattare alla realtà, allo spirito e alla tradizione nazionale dei modelli nati oltr'alpe, quindi costruiti su misura per altri popoli con altre Istituzioni. Operazione difficile, a vo1te compiuta d' istinto, inconsapevolmente, mantenendo fermo l'ancoraggio a singole realtà regionali, che però spesso rispecchiano anche realtà nazionali. Per questo ]'obiettivo più o meno latente e aperto di dare finalmente spazio a un approccio nazionale e unitario viene raggiunto so]o in parte, a]meno per Cesare Balbo che nel 1846 annota: io vorrei saper capacitare i nostri militari della necessità di scrivere sull'arte loro. Non credano che i libri stranieri possano supplire interamente. Certo che sarebbe tempo perduto rifare, anzi che tradurre, i libri ben fatti in altre lingue. Ma primamente si traducan dunque questi, e un pò bene, con militare semplicità. E traducendoli, poi si vedrà, che non uno forse può stare senza note o mutazioni, per adattarli a un servigio, a un paese diverso da quello per cui furono fatti . E pur si vedrà che queste traduzioni, e note, e mutazioni non basteranno ad ogni uopo nostro; non saranno tutto ciò che si
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può e debba fare per la milizia italiana risorgente. Sono in ogni patria militare certe necessità speciali a cui provvedere. E la pubblicità, lo studio, l'occupazione scientifica sono poi necessità di tutte le milizie. Si farebbe un volume dell'elenco dé libri militari di che or avremmo bisogno. I Napoletani e i Lombardi sono i soli italiani, che dal 1814 in qua n'abbiano scritti un pò abbondantemente. E i Napoletani, e i Toscani stessi, hanno giornali militari! Non è egli curioso (per non dire altro) che l'esercito piemontese non n'abbia? 1
Verificare questo giudizio sostanzialmente negativo di Cesare Balbo sarà il nostro primo obiettivo. Ma, intanto, teniamo a sottolineare che il risveglio del pensiero militare e strategico è preceduto, accompagnato, preparato e in certo senso inquadrato dal risveglio degli studi storici (militari e non), per il quale rimandiamo alla Storia della storiografia italiana nel secolo XIX del Croce e - per la parte più propriamente militare all'articolo panoramico di Giuseppe Sticca I nostri scrittori militari.2 Gli studi storici - rinnovati nelle metodologie - sono universalmente visti come premessa spirituale per la riuscita nazionale o meglio per una rinascita della coscienza nazionale. Ugo Foscolo nel 1809 esorta gli Italiani alle storie, e con brevetto del 20 aprile 1833 Re Carlo Alberto istituisce una «Regia Deputazione» per gli studi di storia patria, in quanto «gli studi storici sono oggidì più che noi fossero mai, in meritato onore presso le meglio colte e le meglio incivilite nazioni, ed il favoreggiarli è ufficio di Principe, cui stia a cuore e la propria e la gloria dei popoli sottoposti al suo reggimento». Segue l'istituzione in Torino nel 1846 della prima cattedra di «storia italiana», così come in Napoli nello stesso periodo viene ideata la prima cattedra di «scienza storica» .... Solo nel loro passato, e in particolar modo nelJ'antichità classica, gli italiani possono trovare motivazioni morali e spunti teorici per preparare il terreno a un grande sforzo unitario: e così la letteratura militare o di interesse militare del periodo è la risultante della fusione più o meno felice di apporti in senso lato europei, con la nostra più pura tradizione civile e militare, che trova appunto nell'antichità classica il suo massimo fulgore. La cultura diventa così strumento di un vasto disegno che dovrebbe aiutare gli italiani a ritrovare sé stessi, senza tagliare i legami con le grandi correnti di pensiero europeo ma anche senza esserne succubi o cattivi imitatori.
1
2
C. Balbo, Scritti militari (a cura di E. Pa~samonti), Roma, Ed. Roma 1936, p. 126. «Rivista Militare», 1904, Voi. IV, Disp. XI. pp. 1999-2024.
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Non casualmente ai due principali poli militari e di cultura militare italiani del periodo, Torino e Napoli, corrispondono anche i due principali centri propulsori degli studi storici. Le opere di storia militare del periodo sono strettamente inquadrate nel rinnovamento in una prospettiva nazionale e unitaria degli studi storico-letterari. Per questo il Croce caso unico - cita spesso, nella sua Storia della storiografia italiana del secolo XIX, autori militari o autori che si occupano anche di cose militari (ciò che non è più avvenuto nel secolo XX, dove storici e letterati militari rimangono in una sorta di limbo culturale). Un'altra caratteristica di rilievo della cospicua produzione letteraria militare del periodo - a sfondo storico e non - è la completa acquisizione, senza complessi, del periodo napoleonico e rivoluzionario come parte della storia d'Italia, e fonte - oltre che di ispirazione teorica - di orgoglio nazionale per il valore dimostrato dalle truppe italiane al servizio di Napoleone. È francamente raro trovare - a distanza così ravvicinata da fatti, che anche allora hanno diviso politicamente e moralmente gli italiani - una simile concorde e serena volontà di metabolizzare avvenimenti spesso traumatici, e di trarne tutti i possibili ammaestramenti nonostante l'orientamento fortemente antinapoleonico dell' establishment del momento. Citeremo ciascun autore se e quando necessario, in relazione a11e specifiche finalità della nostra opera; comunque i Lombroso, i Ricotti, i d' Ayala, i Botta, i Colletta, i Saluzzo, i Vacani, i Papi, i Ferrarlo e tanti altri, tutti insieme costituiscono una sorta di terreno di coltura nel quale nuotano gli studi più propriamente strategici e tecnico-militari. Mai come in questo periodo la strategia è apparsa legata alla storia, e gli scrittori di strategia sono spesso stati anche scrittori di storia e politica. E mai come in questo periodo la storia - a dispetto della «storia vera e propria» della quale parla il Croce - ha avuto uno scoperto fine didattico, pedagogico e didascalico nei riguardi di tutti gli italiani e non solo dei militari, è apparsa insomma «indirizzata al bene beateque vivendum, con l'ufficio di censurare, elogiando e biasimando, le umane azioni, e di fornire paradigmi di bene e di male alla morale, alla politica e alla vita tutta».3 Un tipo di approccio che diventa quasi naturale e ha lunga durata, anche al di là della Restaurazione: così il Giornale Militare del 1854 annuncia a tutti i corpi che «i tipografi Sebastiano Franco e figli, e compagnia, hanno testè pubblicato il 1° volume della traduzione in italiano dei Ricordi Militari degli Stati Sardi, opera in due volumi, estratta da varie opere del Cav. Cesare Saluzzo. Ravvisando opportunissima tale opera a-
3
B. Croce, Ultimi saggi, Bari, Laterza 1935, p. 315.
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gli esercizi di lettura nelle Scuole reggimentali, il Ministero autorizza i vari Corpi di R. truppa a farne acquisto di quel numero di esemplari che ravviseranno conveniente, per valersene come libro di lettura insieme a quello già pure autorizzato del dottor Sacchi».4 Un libro militare di autore piemontese scritto in francese, poi tradotto in italiano e distribuito come testo per le scuole reggimentali: fatto apparentemente contraddittorio o inusuale, sul quale vale la pena di soffermarsi. Che cosa significa, nella Restaurazione e anche dopo, il largo uso del francese in Piemonte, anche in campo militare? Semplicemente che il francese - non solo in Italia - è la lingua colta (militare e non) di uno Stato retto da una monarchia savoiarda: non significa di per sé dipendenza dalla Francia, e nemmeno - in parecchi casi - influsso della cultura militare francese. Ad esempio Annibale Saluzzo (da non confondere con Cesare) oltre a scrivere - in funzione di difesa contro possibili invasioni da oltr'alpe, cioè francesi - Le Alpi che cingono l'Italia militarmente ( 1845) scrive in francese ... propri saggi che riguardano esplicitamente la guerra contro la stessa Francia: Projet de défense du Piémont contre la
France, Considerations sur la guerre de.fensive contre la France dans les Alpes .... Se non tutti coloro che vedono con scarsa simpatia la Francia e studiano il modo di contrastarla condividono il purismo antifrancese del Grassi, le numerose traduzioni di opere militari straniere che si notano nel periodo - per le quali rimandiamo alla bibliografia del d' Ayala - non sono - o non sono solamente - segno di dipendenza dalla cultura militare straniera, ma al contrario denotano un positivo risveglio di interesse per il problema militare e - per ciò stesso - per il problema del riscatto nazionale contro lo straniero. Realisticamente, a fronte di una decadenza dell'arte militare nazionale nel secolo XVIII contrapposta al rigoglio di altre nazioni e specialmente della Francia, la base di partenza, i modelli di riferimento dopo il 1815 non potevano che essere ricercati all'estero. Tutto si riduce, dunque, al come, al quando e al perché recepire un inevitabile influsso straniero: in questo vanno ricercate differenze e analogie tra i vari autori. Con un siffatto orientamento preliminare, gli scrittori che prenderemo ora in esame non trattano in profondità questioni di strategia o di carattere tecnico-militare, ma indicano a grandi linee il rapporto tra Istituzione militare e società, oppure ricercano le fondamenta storiche del problema militare nazionale e le esigenze che esso pone. Cominceremo l'indagine da scrittori che chiamiamo precursori, perché pur avendo pubblicato le loro opere prima del 1815 hanno esercì-
4
Nota n. 172 del 5 dicembre 1854 (G.M. 1854, pp. 924-925).
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tato notevole influenza nel periodo successivo, oppure hanno per primi introdotto tematiche di grande interesse anche per i decenni successivi.
Gaetano Filangieri, precursore napoletano della «nazione armata» e del ruolo sostitutivo della Marina Militare ( 1780-1785) Militare, avvocato e gentiluomo napoletano, Gaetano Filangieri condensa le sue idee in campo politico e militare nella sua opera più famosa, la Scienza della legislazione ( 1780-1785) ispirala ai principi dell'astratto, totalizzanle razionalismo e alla fede nella umana natura che sono tipici dell'illuminismo della seconda metà del secolo XlX.5 F. perciò, crede assai ottimisticamente che l'applicazione di leggi «illuminate» dettate dall'alto ba~ti da sola ad instaurare nel mondo la felicità, e considera l'uomo non quale è senza rimedio; ma quale dovrebbe o potrebbe essere. In tal modo - come afferma un suo critico - il F., al contrario di quanto fa il Vico, nella sua pretesa di modellare l'uomo attraverso le leggi «dimentica del tutto la feccia di Romolo e si avvicina alla Repubblica di Platone». Risente di questa ottimistica interpretazione il modello milita.re che il F. delinea particolarmente nel Tomo Il della sua opera, alla quale - e questo fatto ha anch'esso dei riflessi militari - lavora contemporaneamente alla Rivoluzione Americana ( 1775-1783), dove sulle truppe mercenarie inglesi finiscono con il prevalere (dando origine a discutibili interpretazioni estensive di taluni scrittori e storici coevi e non) dei minutemens (cioè dei cittadini pronti a trasformarsi in combattenti con un minuto di preavviso) dei futuri Stati Uniti d'America. Acerrimo nemico del modello militare europeo del momento (eserciti permanenti composti da volontari a lunga ferma), il F. ne condanna gli inconvenienti e i riflessi negativi con argomentazioni poi largamente riprese - fino ai nostri giorni - sia dei sostenitori della «nazione armata» (cioè dell'esercito di cittadini), sia dalle correnti antimilitariste. La critica di F., liberista fino all'estremo, muove anzitutto da ragioni economiche. Per giustificare le «insopportabili contribuzioni» - egli dice - si invocano dei falsi bisogni dello Stato, quali sono le spese per il mantenimento di corti lussuose e oziose, e, appunto, le spese militari:
5 G. Filangieri, la scienza della legislazione, pubblicata per la prima volta presso l'editore Raimondi di Napoli (1780-1785). Noi facciamo riferimento all'edizione in otto tomi di Jvone Gravier Librajo (Genova, 1798).
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si può forsi chiamar bisogno dello Stato una guerra, che s'intreprende per la conquista d'una provincia, sulla quale si vantano alcuni dritti antichi poggiati sopra alcune antiche usurpazioni? [ ... ]. Si può finalmente chiamar bisogno dello Stato il mantenimento di centomila combattenti, che fan vedere gli orrori della guerra anche in mezzo della pace e che invece di difendere la nazione, la spopolano col loro celibato, e cò loro vizj; con quello, che consumano senza riprodurre, e colla miseria, alla quale sono condannati i popoli per provvedere al loro mantenimento? Lo Stato si opprime, la nazione si spopola per alimentare tanti spopolatori [... ] Un milione, e dugento mila uomini compongono lo stato ordinario delle truppe dell'Europa, quando il mondo è in pace. Questi non sono altro, che un milione, e dugento mila uomini destinati a spopolare l'Europa colle armi, nel tempo di guerra, e col celibato, durante la pace. Essi son poveri, ed impoveriscono gli Stati. Essi mal difendono le nazioni al di fuori, ma le opprimono nell'interno. Noi manteniamo più truppe nel tempo di pace, che non ne mantenevano i più gran conquistatori, allorché facevano la guerra a tutte le nazioni del mondo. I popoli sono per questo più sicuri, e i confini delle nazioni sono forse meglio difesi? Questo è un errore di calcolo. Ogni principe ha accresciuto le sue truppe a proporzione, che i suoi vicini le hanno aumentate. Le forze si sono equilibrate, come lo erano prima [... ]. I vantaggi dunque della maggior sicurezza sono ridotti al zero: l'eccesso non si ritrova, che nelle spese, e nella spopolazione. Non era questo il sistema militare degli antichi ...6
Il F. si preoccupa in particolar modo degli effetti demografici, e definisce addirittura «antropofogia mostruosa» questo enorme numero di celibi, che deve essere continuamente rinnovato con altri celibi sottratti alla riproduzione. D'altro canto il soldato mercenario viene pagato troppo poco per poter mantenere moglie e figli: «le truppe dunque saranno celibi, finché saranno mercenarie, e saranno mercenarie, finché saranno perpetue».7 Si tratta di un sistema dispendioso che non garantisce affatto la sicurezza degli Stati e dei Principi, perché «se i loro sudditi tremano innanzi alle loro truppe, le loro truppe fuggono innanzi all'inimico».8 Per rimediare a questo stato di cose, il F. suggerisce un Progetto di riforma del sistema militare presente9 fondato su un esercito di cittadini o di milizia 6
ivi, Tomo TI, pp. 47-50. ivi, p. 56. 8 ivi, p. 70. 9 ivi, pp. 57-73.
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chiamato solo al bisogno, nel quale sia possibile «imitare l'economia militare degli antichi senza esporre a niun rischio la sua nazione». 10 E poiché anche a quei tempi la difesa militare di uno Stato con sbocchi sul mare comprendeva sia forze terrestri che marittime, la riforma del F. ha un respiro interforze assai raro da trovare anche oggi, che prenderemo contestualmente in esame. Nel concreto il F. vorrebbe far rivivere il modello militare greco e dell'età repubblicana di Roma, dove «ogni cittadino era armato; il campo era la sua città; egli cingeva al suo lato il ferro, che assicurava la sua libertà». Questo richiamo fideistico a exempla historica riferiti solo a certi periodi dell'antichità classica appare contraddittorio rispetto all'importanza eccessiva attribuita dal F. - e non è il solo - alla scoperta della polvere e agli aspetti finanziari della guerra moderna. A suo giudizio, non abbiamo più nulla che ci renda simili agli antichi: «cosa ha di comune il nostro genio e la nostra indole colla loro? Dov'è quel trasporto per la guerra, e per le conquiste? Dove quel genio belligerante, che invasava tutti gli spiriti, che armava tutte le nazioni, e che alterando i sentimenti istessi della natura, rendeva meno cara la vita, e meno spaventevole la morte?». 11 A causa della scoperta della polvere «oggi questo coraggio, e questa forza istessa è diventata inutile». Anche l'importanza della preparazione fisica del soldato è grandemente diminuita, perché nell'esito delle guerre la robustezza, il vigore, e la destrezza del combattente non hanno più il peso di una volta e non sono più curati dal legislatore: il Cretese, lo Spartano e il Romano non sembrerebbe forse oggi un uomo d'una specie diversa dalla nostra? In mezzo a un milione, e quattrocentomila mercenarj armati, quale è tra noi il guerriero, che
regger potrebbe agli esercizj della Greca falange, o della legione di Roma? 12
Secondo il F. le macchine hanno ormai prevalso suJl'uomo, fino a fargli affermare che «si è data alle macchine l' energia degli uomini, ed agli uomini si son date le qualità delle macchine» e che «i veri soldati, i veri guerrieri sono il fucile, ed il cannone; e i campi, e gli eserciti non sono altro, che i pascoli, gli alimenti di queste metalliche fiere». 13 Per-
ivi, p. 56. ivi, Tomo I, p. 205. 12 ivi, Tomo VI, p. 205. IO
11
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ivi, Tomo VI, p. 207.
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ciò, di fronte a un siffatto mutamento della guerra «i legislatori hanno rivolto alla perfezione delle armi quelJe cure, che una volta erano interamente dirette alla perfezione dell'uomo». Gli aspetti spirituali, le umane passioni, la bontà della causa, il morale delle truppe non contano dunque più niente? Rispetto all'antichità, per il F. vi è un'altra differenza fondamentale: l'abbondanza di denaro, lo sviluppo dell'agricoltura e industria e del commercio, che una volta venivano considerati la prima ragione deJla decadenza politica e militare delle nazioni, oggi sono considerati la prima fonte della loro forza anche militare: quindi «i nostri politici non vanno in cerca che di ricchezze e di tesori». 14 Mentre nell'antichità i popoli più poveri - quindi più bellicosi - dettavano legge ai più ricchi, oggi avviene il contrario: ci sarebbe forse niente da temere nello stato presente delle cose da una repubblica, che avesse l'istesso principio, le stesse mire, e le stesse istituzioni di quella di Roma? lo l'ho detto: la natura delle cose si è mutata. Non è il più forte, che dà la legge aJ più debole, ma il più ricco è quello, che domina il più povero. È finito il tempo, nel quale con due legioni si andava a muover guerra a una nazione intera. Ci vogliono eserciti oggi per combattere, e gli eserciti han bisogno di tesori [...] Le ricchezze sono dunque divenute il primo istrumento della guerra e l'oro e l'argento sono gli argini, o i veicoli delle conquiste. 15
.11 F., che pure ha un'illimitata fede negli effetti di una razionale legislazione, non ritiene possibile mutare questo contesto generale, del quale il legislatore deve prendere atto al massimo per migliorarlo. A suo avviso le istituzioni della virtuosa, povera, frugale repubblica romana non possono essere resuscitate: ma nel caso dell'istituzione militare - e solo in questo caso - dimentica questa constatazione che fa in altra parte del testo. E dimentica anche il palese contrasto tra il suo modello di guerra moderna di macchine (dove ha gran peso la forza economica e finanziaria degli Stati) e la guerra di milizie cittadine, le quali dovrebbero essere necessariamente dotate da quel1o stesso spirito che animava i soldati - coloni della Repubblica romana, con esso supplendo magari anche a deficienze tecniche. Eppure - come afferma il F. «la natura delle cose si è mutata ... » . Gli sfugge il fatto fondamentale che gli eserciti di massa e di popolo provocano un incrudeli~ento della 14
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ivi, Tomo I, p. 209. ivi, pp. 210-211.
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guerra e la spingono all'assoluto. Egli non è certo buon profeta, quando afferma: una volta le nazioni si armavano per distruggere, e per fondare i regni, o per vendicare i diritti naturali dell'uomo. Si combatte oggi per la presa d'un porto, per la conquista d'una miniera, per l'esclusiva d'un atomo, o pel capriccio di qualche uomo potente. Queste guerre per lo più fatte da lontano, e sulle acque dell' Oceano, sono meno sensibili alle nazioni. Quelle che si fanno sulla terra ferma, sono lente. e rare. 16
Le devastanti guerre della Rivoluzione Francese - devastanti anche e soprattutto per la Francia - sono ben lontane da questa prospettiva di qualche anno prima, dove le «guerre di Gabinetto», magari lontane dall'Europa, sono presentate come un progresso, come la forma definitiva della strategia (qualcosa del genere sta avvenendo anche oggi 1995). Eppure, lo stesso F. ammette esplicitamente - senza averne l'aria - che gli eserciti di popolo dell'antichità non servivano a mantenere la pace, mentre con il tanto deprecato milione e più di uomini sempre in armi, l'Europa almeno vive in pace: «I nostri padri senza truppa fissa e mercenaria, erano in continuo stato di guerra [quindi, dovevano abbandonare di c.:ontinuo i 1.:ampi - N.d.a.], e noi oggi siamo in pa1.:e in mezzo ad un milione, e dugentomila uomini armati di continuo. Uno spirito di permuta, e di commercio agita la terra, e da per tutto non si pensa ad altro, che ad essere in pace, ed arricchirsi». 17 In fondo gli eserciti permanenti possono avere qualche ricaduta economica positiva: a proposito dell'opportunità di decongestionare le capitali di organi istituzionali , egli ammette: «Noi sappiamo per esperienza che un solo reggimento, che forma la guarnigione d'una città di provincia, basta ad arricchirla». 18 In questo mondo dominato dall'interesse e dall'egoismo, dove la ricchezza è tutto anche in campo militare e le virtù antiche non servono più, sembra al F. che l'esperienza incominci a persuadere i princìpi che questi soldati [cioè i soldati - cittadini - N.d.a.] sarebbero tanti Spartani, tanti Ateniesi, tanti Romani [... ]; che l'inimico non guadagnerebbe niente allora, guadagnando una battaglia, perché troverebbe sempre nuove resistenze, finché troverebbe nuovi cittadini da combattere; che le guerre sarebbero allora rare, e giuste, e le lo-
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ivi, pp. 205-206. ibidem. 18 ivi, Tomo II, p. 139.
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ro vittorie onorevoli; che i trionfi non sarebbero allora, come oggi lo sono, mescolati e turbati dà sospiri degl'infelici [ ... ]; che le benedizioni dé popoli sarebbero allora le trombe vittoriose, che annunzierebbero il passaggio dell'Eroe, che ha salvata la patria; che allora, senza offendere la Divinità, si potrebbe chiamare un Dio benefico il Dio degli eserciti; e che allora finalmente i ministri dell'altare potrebbero senza fremere, supplicarlo di benedire le loro bandiere. 19
Insomma, la guerra sarebbe finalmente giusta, e come d'incanto scomparirebbero i suoi mal i ... Il F. si preoccupa anche di rintuzzare le numerose obiezioni sugli inconvenienti che comporta l'esercito di mj]jzia. «Oggi che la comunicazione dé popoli è universale, oggi che i prìncipi hanno mille occhi stra. nieri, che li riguardano», non sono più possibili aggressioni improvvise, quindi è inutile prepararsi in anticipo a fronteggiarle con forze permanenti. Le truppe permanenti non servono nemmeno a difendere i troni, la cui migliore difesa è la giustizia e l'umanità dei principi e la loro rinuncia a esercitare un potere assoluto; solo i tiranni hanno bisogno di truppe mercenarie, delle quali diventano al tempo stesso schiavi e vittime. Anche i vantaggi che assicurerebbe contro truppe improvvisate di cittadini un corpo disciplinato e ben addestrato, sono illusori: io rispondo, che questi vantaggi sono compensati dalla mollezza, che l'ozio delle guarnigioni ispira al soldato, e che due, tre mesi di maneggiamento d'armi basteranno per addestrare un agricoltore robusto, ed indurito al lavoro, nel mentre che tre settimane di fatica distruggeranno in una guerra le legioni intere dé soldati agili, e disciplinati, quando questi non sono avvezzi al travaglio, ed al rigore delle stagioni.20
In quanto al valore [dunque: esso continua ad essere importante! N.d.a.], «io sono dell'opinione che questo sentimento che nasce dalla cognizione della propria forza, può allignare in tutti gli animi, ma che il soldato mercenario indebolito dall'ozio ne sarà sempre meno suscettibile dell'agricoltore robusto. Tutta l'istoria è una prova di questa verità ... ».21 In tal modo le doti militari del singolo combattente, cacciate dalla porta perché ormai «i veri soldati, i veri guerrieri sono il fucile e il cannone»,
19 20 21
ivi, p. 70-71. ivi, pp. 62-63. ivi, p. 64.
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rientrano dalla finestra. Tanto più che soprattutto sulle doti morali e spiritual i, non su paghe o altri vantaggi materiali, sarebbe fondata la forza di questi eserciti non professionali e improvvisati, per i qua1i l'oro sembra non servire più, non essere più importante: una nazione, per povera ch'essa fosse, potrebbe avere trecentomila combattenti sempre pronti a difenderla, quando questi non lasciassero in tempo di pace di essere agricoltori, artieri, cittadini liberi, e padri. Alcune esenzioni, alcune prerogative d'onore, un dritto per esempio esclusivo d'andare armati, una preferenza nella provvista di quelle cariche, che non ricercano altro, che l'onoratezza, e la fedeltà in coloro, che debbono esercitarle, potrebbero mettere il governo in istato di scegliere fra i suoi cittadini gli uomini non atti a difendere la nazione in tempo di guerra, ed a farla rispettare in tempo di pace. Tutti i cittadini farebbero a gara per essere assentati nel libro militare, quando l'obbligo del soldato non fosse altro, che di difendere la patria in tempo di guerra. Ogni vantaggio, per picciolo che sia, è un bastante compenso per un pericolo remoto, e incerto. 22
Il F. aggiunge che nei paesi di frontiera e nelle piazze forti la guarnigione potrebbe essere sostituita da «una guardia urbana, che si mutasse in ogni giorno (sic)», mentre «basterebbero due soli reggimenti per custodire la sacra persona del principe».23 Sarebbe anche possibi1e addestrare convenientemente; in tempo di pace, i1 personale prescelto, che prima di essere iscritto nei registri di mobilitazione potrebbe ricevere una conveniente istruzione per un breve periodo (il F. non ne indica la durata), ne1 quale sarebbe mantenuto a spese dello Stato. In seguito i cittadini così addestrati dovrebbero esercitarsi, nei giorni di festa, sotto la guida di ufficiali scelti tra i proprietari più ricchi e nobi1i del posto, «anche a costo di qualche premio, che questi non isdegnerebbero di offrir loro per farsi un merito col principe, che premierebbe colla gran meta degli onori 1a 1oro vigi1anza». 24 Ne deriverebbero altri vantaggi accessori: gli ufficiali non dissiperebbero più nei vizi e nell'ozio delle guarnigioni le loro sostanze, ma servirebbero il Sovrano senza abbandonare le loro terre, la cui produzione migliorerebbe. Ogni due o tre anni, infine, si dovrebbe fare una rassegna generale, nella quale ufficiali incaricati dal governo dovrebbero girare 1e province, «ed in ciascun paese esaminare i 22
ivi, pp. 65-66. ivi, pp. 68-69. 24 ibidem. 23
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soldati, che vi sono, e rinnovare alla loro memoria quegli esercizj, che furono loro insegnati, anorché si ascrissero».25 Il F. ammette che «questo progetto è informe, ma nel1'esecuzione si perfezionerebbe, e i governi molto meglio di me istruiti né bisogni degli Stati supplirebbero a quello, che io ho mancato di proporre».26 Intanto gli effetti positivi che egli senz'altro attribuisce all'introduzione di un siffatto sistema di reclutamento sono ben precisi e piuttosto miracoUstici. Le truppe non sarebbero più composte di mercenari o di delinquenti sfuggiti alla giustizia; essere soldato non sarebbero più un'infamia. Anche le diserzioni in tempo di guerra sarebbero più rare, perché «un cittadino, che ha proprietà, che ha moglie, e che ha figlj, non lascia così volentieri il suo posto, come fa un mercenario, al quale torni sempre conto di rivendere la sua persona ad un altro principe, e che non perde niente perdendo la sua patria» [ma chi ha moglie, figli e ricchezze, sarà sempre così voglioso di combattere, oppure cercherà di farlo fare ad altri? e sarà sempre convinto che una data guerra è giusta? e che, perdendo la Patria, egli perderebbe tutto? - N.d.a.]. Un altro grave inconveniente (che secondo il F. scomparirebbe come per incanto, e che invece di fì a pochi anni sarebbe stato uno dei risvolti più traumatici - e meno apprezzati dai popoli - della Rivoluzione Francese) è la leva forzata. Egli la vede come un tristo abuso, una violenza tipica solo del sistema degli eserciti permanenti, che in tempo di pace, pur essendo economicamente rovinosi, non possono mai essere così numerosi da corrispondere alle esigenze del tempo di guerra. Il quadro è lacrimevole fino a)]'eccesso, fino a risultare strumentale: qual tristo spettacolo! Qual presagio funesto! quei cittadini, che non han potuto nascondersi, che non han potuto fuggire o sottrarsi da queste leve forzose col soccorso dé privilegi, o del denaro, sono legati, sono strascinati innanzi a un delegato, le funzioni del quale son sempre odiose, c la probità sospetta à popoli. I parenti accompagnano quest'infelici; essi danno tremando in mano del delegato i nomi dé figli, ed aspettano la decisione della sorte. Un biglietto nero esce allora dall'urna fatale, e destina le vittime, che il principe sacrifica alla guerra [riferimento al sorteggio, che tra l'altro dimostra che la leva anche in questa forma non era così generalizzata come sarebbe stata dopo - N.d.a.]. Questa cerimonia accompagnata dalle lagrime dé padri, dalla disperazione delle madri, dà pianti delle mogli, qual coraggio può ispirare a questi nuovi combattenti,
25 26
ibidem. ibidem.
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à quali tutto annunzia una morte sicura? No, non si comprano a questo prezzo i veri soldati ... 27
Come si elimina questo inconveniente? Molto poco opportunamente il F. si richiama ancora una volta all' esempio - che tra l' altro non dovrebbe più essere valido - dell'antichità: non furono chiamati in questo · modo alla guerra gli Alani , i Gepidi, gli Unni ecc., che «devastarono l'Europa, e furono tutti i compagni, e non gli schiavi dei loro barbari capi». Preparativi per la guerra tetri e luttuosi come quelli descritti scomparirebbero, «quando in una nazione vi fossero trecentomila combattenti, che volontariamente si sono obbligati a difender la patria, e che non sono stati strascinati dalla forza, né destinati dalla sorte». Il F. insiste molto sulle negative incidenze economiche del mantenimento di eserciti permanenti in tempo di pace, ma non considera affatto che per mobilitare le masse di combattenti che al bisogno dovrebbero come per incanto spontaneamente accorrere, è pur sempre necessario predisporre per tempo un'equivalente e costosa massa di fucili , cannoni, equipaggiamenti militari, che non possono essere approvvigionati con la requisizione. E ancor di meno considera che la costruzione di navi da guerra richiede un impegno economico e industriale ancor maggiore, quando indica nello sviluppo della marina militare un contraltare alla riduzione delle truppe terrestri, contraltare che addirittura assicurerebbe dei vantaggi economici alla popolazione. Quella nazione - egli afferma - che sarà la prima a mettere in esecuzione la riforma da lui suggerita, sarà la prima a sentirne i vantaggi. Inoltre: riformando le sue truppe di terra, essa si metterà anche in stato di meglio difendere il territorio comune, quel territorio, sul quale tutte le nazioni hanno uguali dritti; ma che la forza oggi non ha dato il dominio, che a poche; quel territorio, che rende tutti i popoli confinanti, e che gli espone a tutt'i pericoli, come a tutt'i vantaggi dei paesi limitrofi; quel territorio finalmente, sopra il quale ciaschedun popolo dovrebbe tenere alcune forze capaci a conservare la libertà generale, sola, ed unica legge, che una nazione può dare aJ di fuori; e questo territorio è il mare [nostra sottolineatura - N.d.a.]. La marineria militare converrebbe dunque innalzare sulle ruine delle truppe cli terra. Queste cagionano, come l'abbiamo dimostrato, la miseria dei popoli, senza difenderli, e quella li difende non solo senza impoverirli, ma arricchendoli. Non è questo il tempo da de-
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ivi, pp. 66-67.
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scrivere tutti i vantaggi, che recherebbero ad una nazione i progressi della marineria militare. Io potrei anche dimostrare come la popolazione intera ci guadagnerebbe, ma mi distenderei troppo, se volessi mettere tutti questi vantaggi in veduta. Mi contento di avere qui gettata questa verità come di passaggio.28
Meritano un breve cenno due altri aspetti di interesse strategico e militare dell'opera del F.: il suo atteggiamento filo-americano, che si colora di tinte profetiche, accompagnato da un altrettanto netto atteggiamento antinglese. L'ammirazione incondizionata e quasi ingenua per le nuove frontiere politico-sociali ed economiche raggiunte dalla rivoluzione americana è tipica dell'intero movimento illuminista, quindi non può sorprendere. Assai meno usuali, invece, le considerazioni del F. sui futuri riflessi economici e strategici dell'indipendenza conquistata dagli Stati Uniti, per i quali egli prevede che un giorno prevarranno anche militarmente - e grazie al1e loro forze marittime - sull'Europa: le ricchezze sono dunque divenute il primo istrumento della guerra, e l'oro e l'argento sono gli argini o i veicoli delle conquiste. Secondo questi principt incontrastabili, perché fondati sui fatti, che passano sotto i nostri occhi, secondo questi principi, io dico, è altrove, che noi dobbiamo rivolgere i nostri sguardi timorosi. In un angolo dell'America presso un popolo libero, e commerciante, figlio dell'Europa, ma che l'oppressione ha reso inimico della sua madre, presso questo popolo, io dico, si innalza una voce, che dice: Europei, se per servirvi noi siamo venuti nel nuovo mondo, sappiate, che oggi le nostre ricchezze, e la cognizione di quelle, che possiamo acquistare, non soffrono più una servitù oltraggiosa, che può essere permutata con una specie di libertà, che non tarderà molto a metterci nello stato di darvi la legge, e che vi farà un giorno pentire d'essere stati gli artefici delle vostre catene. La nostra indipendenza, frutto delle vostre ingiustizie, e del nostro risentimento, i vantaggi della nostra posizione, la celerità, che può avere il nostro commercio, la facilità di richiamare a noi con un solo atto di volontà le ricchezze, e gli agi dé due emisferi; i progressi della nostra popolazione accresciuta nel tempo stesso, e dalla moltiplicità dé matrimoni, che 1'opulenza pubblica produce, e dal concorso degli stranieri, che la speranza di miglior fortuna richiamerà sulle nostre rive ridenti per i raggi d'una nascente libertà; tutti questi vantaggi uniti alla superiorità, che dà agli Stati, ed agli uomini il vigore della gioventù accoppiato al sentimento della prosperità, ci
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ivi, pp. 72-73.
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renderà gli arbitri del destino dell'America, e della sorte dell'Europa: noi potremo con facilità strapparvi dalle mani le sorgenti delle vostre ricchezze; lo spazio immenso, che ci separa da voi, ci permetterà di compiere i preparativi delle nostre invasioni; prima che lo strepito ne sia pervenuto né vostri climi noi potremo scegliere i nemici, il campo e il momento delle nostre vittorie; i nostri tesori, e la nostra situazione ci assicureranno sempre della felicità delle nostre intrapTese; i nostri navigli vittoriosi compariranno sempre innanzi alle coste, che non possono essere né ben custodite, né ben difese da potenze lontane; i vostri soccorsi giungeranno sempre tardi; le vostre colonie finalmente diverranno le nostre provinl:it: o spezzeranno le loro catene col soccorso della nostra alleanza, che noi non negheremo mai, allorché ci sarà richiesta dalla voce della libertà contro la tirannia. Privi allora dell'America, e per conseguenza dell'Asia, che non va in cerca, che del nostro argento, voi ritornerete nell'oscurità, e nella barbarie, dalla quale siete usciti, e la vostra sola povertà potrà garantirvi dalle nostre giuste, ma non profittevoli vendette. Questa è l'intimazione funesta, che le colonie Anglicane possono fare all'Europa, e un popolo come questo, e non già una repubblica di Romani poveri guerrieri, può oggi divenir l'oggetto dé suoi timori.29
La perdita della grande colonia americana è vista dal F. come conseguenza della cattiva politica estera, navale, commerciale e coloniale dell'Inghilterra, basata sull'egoismo e sulla ricerca del monopolio. Questi ingiusti principi provocano la tendenza - fin da allora - a fare dei mari un dominio esclusivo inglese esercitato solo a vantaggio dell 'Inghilterra, quando invece dovrebbero essere aperti e liberi per qualunque nazione. Il F. ritiene infatti che la libertà generale dell'industria, e del commercio, questo è il solo trattato, che una nazione commerciante, ed industriosa dovrebbe stabilire nel suo interno, e cercare al di fuori. Tutto quello che favorisce questa libertà, giova al commercio; tutto quello, che la restringe, gli nuoce.30
Di conseguenza egli condanna le «gelosie di commercio» che causano aspre rivalità e sanguinose guerre tra le nazioni. Il commercio, che dovrebbe essere il vincolo della pace, diventa in tal modo una causa perenne di guerre e languisce, con danno di tutti, anche presso quei popoli
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ivi, Tomo I, pp. 211 -213. ivi, Tomo Il, p. 209.
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che vorrebbero trovare nella neutralità la loro pace e i loro vantaggi_ Prevale infatti l'errato principio che «una nazione non possa guadagnare senza che le altre perdano, che essa non possa arricchirsi, senza che le altre s'impoveriscano, e che i] grande oggetto della politica sia ]'innalzare la propria grandezza sulle altrui rovine». 31 In tal modo ciascuna nazione cerca di ostacolare le pacifiche iniziative commerciali di un'altra nazione, e gode delle sue perdite: vedremo i fulmini della guerra accesa dal commercio, rimbombare fra un polo, e l'altro, sulle coste dell'Asia, dell' Affrica, e dell' America, sopra l'Oceano, che ci separa dal nuovo mondo, e sulla vasta estensione del mar pacifico. Noi vedremo l'Inghilterra, e la Francia sempre inimiche tra loro, e sempre vigilanti a profittare delle occasioni di scambievolmente rovinare il loro commercio; la Spagna costretta a garantire i suoi galeoni con squadre formidabili sopra un mare immenso tinto di sangue, e coperto di cadaveri nelle sue guerre contro gl'Inglesi; il Portogallo divenir la vittima di una nazione, che gli ha fatto più male colla sua confederazione, cò suoi trattati, e col suo commercio, che non gliene avrebbe fatto colla guerra istessa; l'Olanda, questa repubblica, che dovrebbe più delle altre rispettare la giustizia e fomentare la libertà generale dell'industria, e del commercio, noi vedremo, io dico, l'Olanda trascurare i suoi veri interessi, profondere i suoi tesori, preparare la sua rovina, in quelle guerre nelle quali né la sua gloria, né la sua sicurezza, né la sua libertà, ma la sua sola ambizione smisurata, il solo spirito di gelosia, e di rivalità, poteva impegnarla. 32
La politica commerciale e coloniale seguita dall'Inghilterra le ha procurato l'ostilità di tutte le nazioni d'Europa, ostilità che il F. ritiene tutto sommato giustificata, anche se - coerentemente con la sua visione -la rovina dell'Inghilterra e del suo commercio non gioverebbe a nessuno, perché in un'economia libera ogni nazione ha bisogno delle altre. E non manca nemmeno un attacco diretto del F. alla politica estera e navale francese nel Mediterraneo, che favorisce - con danno diretto anche dei traffici napoletani - la pirateria contro i traffici di tutte le altre nazioni, pur dì risparmiare - in cambio - al proprio commercio di pericoli di attacchi: qual'è il vantaggio, che raccoglie la Francia da questo spavento universale? 'avere una preferenza di trasporto e di traffico in questo 31
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ivi, pp. 187-188. ivi, pp. 190-191.
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mare. Ma questo commercio di traffico, di trasporto, d'economia, è forse quello, che conviene a questa nazione? Secondo i principj da me sviluppati negli antecedenti capi, questa nazione non dovrebbe forse rinunciare a questo commercio, che è contrario alla natura del suo governo, alla fertilità del suo terreno, alla sua estensione? Il commercio di proprietà, che è quello che conviene alla Francia, ha forse bisogno di questo istrumento distruttivo per prosperare? Questo diverrebbe al contrario più profittevole a misura, che quello delle altre nazioni diverrebbe più libero. L'evidenza di questa verità mi dispensa dal dimostrarlo. Non è dunque l'interesse della Francia il fomentare la pirateria del Mediterraneo, e questo tratto d' una politica distruttiva discrediterebbe in eterno il nome di questa nazione senza recarle alcun vantaggio reale.33
Comunque per la Francia del tempo, che pure è già nell' anticamera del dissesto economico e della grande crisi della Rivoluzione, il F. è tutto sommato assai benevolo, auspicando che l'abolizione dell 'esercito permanente venga attuata prima di tutto in questa nazione, grazie ai progressi gloriosi che comincia a fare la libertà presso quella nazione stessa, che è stata la prima a sperimentarne [con Carlo VII e Luigi XIV - N.d.a.] le conseguenze funeste ....34
Ma se, sempre per la Francia, il F. sottolinea i vantaggi della riduzione o eliminazione delle forze terrestri sempre pronte, parallelamente ne auspica il rafforzamento militare sul mare, per bilanciare la preponderanza inglese. Cosicché le ragioni e i vantaggio dell'equilibrio delle forze fin dal tempo di pace, che come si è visto per il F. non valgono per le forze di terra, improvvisamente diventano l'unico concreto strumento per assicurare la libertà dei mari per tutti: se l'Oceano, che la bagna da un lato [il riferimento è sempre alla Francia - N.d.a.], e il Mediterraneo, che la bagna dall' altro, le facessero conoscere l'inutilità della sua truppa di terra, e la necessità di quella di mare; se gli occhi del suo governo, chiusi per lo spazio di tanti anni da un profondo letargo, si aprissero un giorno, la sua marina innaJzata a quel grado di potenza, dove dovrebb' essere, e dove pare, che oggi sia per giungere, arricchirebbe il commercio del Nord; l'impero del mare contrastato fra due potenze egualmente forti per impedire, che alcune di esse se l'appropriasse, restereb-
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ivi, pp. 198-199. ivi, pp. 71-72.
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be indeciso, e la libertà del commercio dell'Europa tutta sarebbe forse al coperto. 35
Tesi non sempre lineari come queste, e in particolare l'opzione idea1istica per quell'esercito di cittadini e di massa che è stato realizzato dalla Rivoluzione Francese soprattutto con la leva forzata, sono tipiche dell'illuminismo francese e degli enciclopedisti; su di esse influisce anche l'esperienza della rivoluzione americana. Sarebbe interessante stabilire - per la parte mHitare - influssi, interscambi, analogie tra il F., il movimento illuminista e le teorie di scrittori militari francesi come il Guibert, anch'egli forte critico degli eserciti permanenti. È tuttavia assodato che, in senso generale, la Scienza della legislazione non è la semplice versione italiana di un movimento culturale e filosofico nato in Francia, ma rappresenta piuttosto un apprezzabile arricchimento e un originale contributo di un grande italiano. Lo dimostrano le numerose traduzioni francesi e spagnole dell'opera fin dal suo apparire, e lo dimostrano i documentati rapporti del Filangieri con Benjamin Franklin compilatore della Carta Costituzionale americana, oltre che 1' ammirazione dimostrata per la sua opera da Napoleone Primo Console. Dal punto di vista strettamente militare, si può dire semplicemente questo: che le idee del Filangieri sui pregi della nazione armata e sui difetti, inconvenienti e pericoli che riguarderebbero esclusivamente gli eserciti permanenti, al di là dei loro limiti, sono ricomparse instancabilmente fino ai nostri giorni. Anche la sua tendenza a vedere lo sviluppo delle forze marittime come compensazione vantaggiosa della riduzione delfe forze terrestri è tuttora un motivo operante nella politica militare degli Stati Uniti, come lo è stato - per secoli - per l'Inghilterra. Si deve anche constatare che la condanna del F. per le «rivalità del éommercio» e gli egoismi economici nazionali è tutt'altro che superata, e ha prodotto e continua a produrre - nell'Europa e nel mondo - guasti, guerre e rovine. Infine, nel campo della storia navale il Filangieri occupa un posto di grande rilievo finora misconosciuto: è il primo a mettere bene a nudo il legame tra forze terrestri e navali nella politica militare di una grande nazione, oltre che i rapporti di interdipendenza esistenti fin da allora tra politica estera, politica navale, politica economica e commerciale, marina mercantile e militare. E se si tiene conto che la sua opera è del 17801785, quindi pre-rivoluzionaria e pre-napoleonica, egli è stato - salvo smentite - anche il primo a intravedere chiaramente il grande avvenire 35
ivi, pp. 196-197.
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degli Stati Uniti, destinati a conquistare il dominio del mare e con esso (anzi, grazie ad esso) il predominio sulla vecchia Europa e il primato economico e commerciale.
I nocivi riflessi militari della soluzione federalista per l'Italia negli scritti del Melchiorre Gioia Forse nessun altro scrittore e inte11ettuale di fine secolo XVlll dimostra, come Melchiorre Gioia, una visione così chiara e realistica del problema dell'indipendenza nazionale e de11e ricadute unitarie che - anche e prima di tutto per ragioni militari - esso comporta. Non ci soffenniamo, tanto esso è evidente, a sottolineare il significato della data (1798) di compilazione del suo scritto Dissertazione sul problema «Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità dell'Italia». 36 Basti solo dire - e questo è già un non piccolo merito - che il Gioia è lontano dalla piaggeria filo - francese così frequente tra l' intellighenzia italiana del tempo, e anzi sostiene tesi radicalmente opposte alla politica più seguita in Italia dai governi della Rivoluzione e di Napoleone. La tesi di fondo del Gioia è semplice. Sia la divisione dell' Italia in tante piccole Repubbliche indipendenti, sia I~ sua trasformazione in una federazione di Repubbliche servirebbero solo ad alimentare gli odi e le rivalità tra Stati e le lotte tra fazioni all'interno degli Stati stessi, che storicamente hanno sempre favorito le ingerenze straniere in Italia. Infatti «tante repubbliche isolate formerebbero tante sfere differenti di patriottismo», e ciascuna repubblica acquistando un grado di patriottismo in più si priverebbe degli «immensi vantaggi» dell'unità, trasformando ben presto l'indifferenza per gli altri Stati in odio e disprezzo tanto più frequenti in piccoli Stati vicini. Inoltre, nei piccoli Stati «se il patriottismo è forte perché gl'interessi del cittadino tendono·a confondersi con gli interessi particolari, conviene però riflettere che gli odii personali, la vanità, l'avanzia, l'ambizione condensati in poco spazio fanno degenerare il patriottismo in spirito di partito, e dividono i cittadini in tante fazioni». Nel caso di repubbliche federate, prevalgono del pari interessi locali e settoriali: «Ciascun membro della confederazione non calcolando che il proprio interesse, allontanando ogni idea di futuro particolare bisogno, decantando i propri servigi, poco riflettendo agli altrui, chiudendo gli 36 In AA.VV., Gli ideali del Risorgimento e dell'unità (a cura di G. Talamo), Roma, Ente Naz. Bibl. Pop. e Scolastiche 1961, pp. 23-29.
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occhi sul bene generale, deve frapporre degli ostacoli a quelle determinazioni dalle quali non gli proviene un pronto e particolare vantaggio». I riflessi militari di questa situazione sono inevitabili e di grande portata, sia in terra che per mare, e il pericolo per la sicurezza e l'indipendenza dell'insieme è vieppiù rafforzato dalle particolari condizioni geografiche della penisola: dividete l'Italia in tante repubbliche confederate: le città bagnate dal mare ed esposte dal mare a una pronta invasione, saranno già conquistate quando il Congresso della Italia sarà ancora occupato a deliberare. Egli farà marciare delle armate quando i nemici si saranno già ritirati o torneranno all' attacco con nuove forze. Che il fuoco della guerra si accenda ai piedi dell' Alpi; la Calabria si farà chiamare molte volte in aiuto e non verrà che a passi lenti ad estinguerlo. Se qualche Xerse scenderà dai monti del Tirolo per cadere sopra la repubblica Lombarda, forse le altre repubbliche gelose dell'onor patrio non vorranno combattere che guidate da un Euribiade e forse non ritroverassi un Temistocle che salvi l'Italia come la Grecia fu salvata a Salamina. La facilità d'invasione in Italia, la difficoltà di far concorrere tutti alla difesa, la gelosia naturale alle repubbliche confederate, la lentezza inerente alla confederazione mi fanno abbandonare il progetto del federalismo 1... 1. I disordini delle repubbliche indipendenti, la lentezza e la gelosia delle repubbliche confederate invitano l'Italia ad unirsi in una sola repubblica indivisibile. Difatti la natura del territorio italiano, le cui parti avvicinate tra di loro non sono separate da alcun ostacolo naturale, il clima che poco cangia dall'una ali' altra estremità, la fertilità delle città situate nel continente, lo stato precario d'alcune altre poste sulle frontiere, la quantità dé fiumi che possono far circolare rapidamente e dappertutto le nostre e le altrui derrate, la nostra abbondanza in ogni genere che provocando l' altrui cupidità mantiene vivo il desiderio d'un 'invasione, la moltitudine di porti, la capacità dé seni che mentre ci trasmettono le estere ricchezze ci rendono accessibili da tutte le parti agl'invasori, l'impotenza di ciascuna città a resistere solo alla forza, all' avvedutezza, all'ambizione di costoro, l'unione che può dare alle masse italiane quella solidità onde renderle lo scoglio eterno dé conquistatori, l'esperienza del passato che ricorda ali' Italia che divisa fu conquistata e tiranneggiata dalle estere nazioni; lo stato di depressione in cui giace al presente la nostra marina che diverrebbe il riparo della libertà se fosse sostenuta dall'unione [ ...]; in una parola il fisico, il morale, il politico, tutto c'invita ad unirci colla massima possibile strettezza nel seno d' una sola repubblica indivisibile. Esaminiamo più davvicino il nostro carattere nazionale e la nostra fisica posizione e ci persuaderemo
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sempre più che la repubblica indivisibile può sola essere l'istrumento ed il riparo della nostra libertà_ La storia di Napoli, di Roma, di Firenze, di Genova, di Milano e di Pavia dimostra che il carattere degli Italiani, pronto ad accendersi e ad estinguersi, spera tutto da un primo successo, ma tutto dispera quando è arrestato da un ostacolo, che domina in lui quella specie d'inquietudine e di movimento che proviene dalla debolezza congiunta alla memoria della forza; ch'egli ha bisogno di essere arrestato nelle sue impetuosità e sostenuto nelle vacillazioni di sua incostanza. Quasi tutti gli altri popoli, eccettuato il francese, lo superano in stabilità ed in fermezza. Dunque se si erigessero in Italia delle repubbliche indipendenti o confederate, l'inquietudine e l'incostanza degli llaliani alimentate dalle dissensioni e dalle gelosie di detti governi aprirebbero il campo a mille discordie feroci che si riprodurrebbero sono tutte le forme possibili 1...1. La posizione dell'Italia, le qualità del suo clima, le sue ricchezze molteplici ci conducono alla stessa conclusione. L' Italia ha una estensione abbastanza va'>ta per poter aspirare all' indipendenza, e limitata abbastanza per non essere indebolita dalla sua grandezza. La natura circondandoci di mari ci destina alla navigazione; collocandoci sopra fertili terreni vuole che cerchiamo né solchi delle campagne la nostra grandezza; creando in mezzo di noi un'immensa popolazione ci dà le braccia necessarie ai travagli della terra e del mare.
li Gioia è dunque il più acerrimo nemico del federalismo, nel quale vede la consacrazione dell'asservimento dell'Italia allo straniero e non un segno di progresso. Asservimento prima di tutto militare: l'unità nazionale va ricercata, anche e soprattutto perché uno Stato federale non garantirebbe aJcun efficace dispositivo di sicurezza atto a scongiurare le secolari invasioni dello straniero. Per questo egli è contrario anche al modello militare americano, che pure ha consentito agli Stati Uniti di conquistare con un esercito di milizia improvvisato l'indipendenza, combattendo con successo contro l'esercito volontario inglese . La sua ostilità al modello militare d'oltre oceano non ha un fondamento sociale, ma puramente tecnico-militare: «chi non sa quanto la debolezza del legame federativo in America», egli esclama, «nocque a] successo della guerra contro il nemico del1'indipendenza americana?» In sostanza il Gioia è uno dei tanti autori del periodo (ne daremo sommario conto nel prosieguo della trattazione) che sostengono la «non esportabilità» del modello americano, risultato vincente nonostante la particolare struttura politica e le improvvisate strutture militari, e non grazie a questi fattori. Tesi tutt' altro che peregrina ripresa, ad esempio, in un articolo su «Alere Flammam» del 1971, nel quale si osserva che
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benché sia stato coinvolto, fin dal primo sbarco di coloni europei sul suolo americano, in guerre piccole o grandi, il popolo degli Stati Uniti d'America in realtà solo dopo il secondo conflitto mondiale ha espresso un contributo effettivo allo sviluppo del pensiero militare su un piano teorico di elevato livello [ ... ]. Tutto questo appare logico, riguardando specialmente la «eredità» di fattori nazionali permanenti che hanno inciso e incidono sulla politica interna e internazionale degli Stati Uniti - il carattere e la psicologia della popolazione, le condizioni geografiche, l'assetto istituzionale nel campo sociale politico ed economico - e che non consentono alcun confronto con quelli che sono i fattori nazionali dei singoli Paesi europei, così imbevuti di «storie nazionali» sempre in contrappt,sizione, e quindi determinanti, nello sviluppo delle teorie della guerra. In effetti sono eserciti europei i primi che combattono in terra americana, nella stessa guerra di indipendenza sono generali americani quelli che assistono Washington ed è un generale prussiano, giova forse ricordarlo, il barone Von Steuben, che può considerarsi il grande organizzatore dell'esercito di liberazione. 37
È cosa norrnale e prevedibile che Washington segua - appena può, quando può, come può - il modello europeo: e se si ammette comunemente - da sempre - che le istituzioni politiche sono peculiari di ciascun popolo e anche in Europa non sempre sono esporlabili, perché questo non dovrebbe avvenire delle istituzioni e delle strategie militari? Vi è comunque un altro aspetto da chiarire e anzi sottolineare: Von Steuben è stato prima di tutto un organizzatore, e la sua opera è stata comprensibilmente fondamentale in un esercito improvvisato e privo di un'ossatura di Quadri e Comandi permanenti. Non può essere stato - come sostengono taluni - il fondatore della dottrina e della disciplina militare statunitensi, invece spontaneamente scaturite dalla particolare mentalità e dalle istituzioni di quel grande popolo. In altre parole, Steuben non ha fornito ricette, e le ricette che avrebbe fornito in campo disciplinare e addestrativo non sono state il toccasana, né avevano valore eterno e ininùtabile. Se, dunque, M.G. è poco tenero e poco credulo riguardo al modello americano, ha le sue ragioni. Ancor meno simpatie incontra nei suoi scritti la politica interna, estera e navale dell'Inghilterra. Moralista e moralizzatore come il Filangieri, nel 1806 scrive che «la pessima educazione privata e pubblica svolge negli inglesi il germe di tutti i Vizi» e che «la corruzione muove la molla del loro governo ed assicura il successo ad ogni voglia del sé». La politica estera e navale inglese, improntata ali' egoismo, deriva dall'ingiusta ed egoistica politica interna: 37 R. Rufino - E. Doniselli, Del pensiero militare e della dottrina, «Alere Flamman» luglio-agosto 1971, p. 397-398.
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i prodotti delle manifatture vendute a basso prezzo dalla nùseria popolare presentano ai trafficanti l'occasione di enornù guadagni, mentre lo Stato va a perdersi nella voragine del debito pubblico. Sostenuti costoro dall'ambizione governativa figlia dell'orgoglio nazionale, spingono i loro vascelli sulla vasta estensione dei mari, e vantando libertà ne divengono i tiranni.
Così il dominio del mare diventa, per gli inglesi, il mezzo per costringere «i popoli a comprare da essi, e a vendere ad essi soli», e l '«unico fine» dell'imperialismo inglese è di «comparir soli né mercati stranieri».38 Spunti occasionali anche questi di M.G., che pure non è scrittore militare: ma proprio per queste spontanei e utili, per dimostrare quanto siano fallaci certi miti ideologizzanti inseguiti da taluni scrittori militari o presunti tali. Le prime basi e gli indirizzi rrwrali del pensiero militare. italiano contemporaneo negli scritti di Ugo Foscolo
Temperamento d'artista, carattere instabile, mutevole e indisciplinato, personalità non aliena da difetti e umane passioni, Ugo Foscolo non è stato militare di vocazione e di temperamento. Ufficiale «d'occasione» (così lo definisce il Tosti) della Repubblica Cisalpina e del Regno ItaUco, nei suoi scritti rimpiange comprensibilmente di dover sacrificare allearmi quella vocazione letteraria e artistica, che era l' unica sua autentica. 39 Ciononostante si comporta valorosamente in diverse occasioni, e quando - lui letterato e poeta - nel 1805 viene relegato a Valenciennes al comando di un deposito militare, nel poco gradito e oscuro incarico dimostra senso pratico, capacità amministrativa, sensibilità e sollecitudine per i reali bisogni del soldato. Cessate ben presto le prime illusioni, le guerre napoleoniche più che l'ammirazione per le gesta di Napoleone e l'identificazione della causa nazionale con quella delle armi francesi, svegliano in lui l'esecrazione 38 M . Gioia, Cenni morali e politici sull'Inghilterra, estratti dagli seri/lori inglesi 1806 (in Atti del Convegno di studi su i politici del pensiero di Melchiorre Gioia - 5-7 aprile 1990, «Bollettino Storico Piacentino», pp. 41-42). 39 Ci riferiremo principahnente alle Pagine militari di Ugo Foscolo (a cura di Amedeo Tosti), Roma, Ed. Roma 1935. Sulla vita e sull'opera del Foscolo, Cfr. anche C. Podestà, Ugo Foscolo soldato, «Rivista Militare Italiana», Anno LVl, Voi. II, Disp. IV - 16 aprile 1911, pp. 661-679 e G. Bargilli, Ugo Foscolo scrittore militare, «Rivista Militare Italiana» Anno LVI, Voi. II, Disp. V - 16 maggio 1911, pp. 910-914.
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per le fazioni e un profondo, genuino e realistico sentimento d'ita1ianità, che gli fa sentire come un prodotto straniero anche i riflessi della Rivoluzione Francese. Il suo rapporto travagliato e problematico con l'Istituzione militare italiana e francese del tempo - o meglio con gli uomini che la rappresentano - non gli impedisce di affrontare con passione e al tempo stesso con estrema lucidità e preveggenza - quando ancora gli italiani combattono in tutta Europa sotto bandiere napoleoniche, quindi straniere - il problema dell'unità e indipendenza d'Italia e i suoi risvolti militari: trinomio in lui inscindibile, dove gli aspetti tecnico-militari pur senza perdere una loro autonoma valenza discendono, prendono vita, acquistano nuova forza dall'inscindibile binomio unità/indipendenza nazionale. Dal punto di vista editoriale le note del F. alla riedizione delle opere del Montecuccoli da lui curata nel 1808-1809 sono state un insuccesso e sono state aspramente criticate dal Grassi: ciononostante, non abbiamo alcuna esitazione a definirle le prime e significative fondamenta del pensiero militare italiano contemporaneo, le cui origini prima ancor che a istanze tecnico-militari, rispondono a istanze morali e spirituali e trovano alimento nella rinascita di una coscienza nazionale. Senza compilare voluminosi trattati, senza addentrarsi in disquisizioni tecniche e organiche. il poeta e non militare Foscolo riesce molto meglio di tanti altri a indicare delle coordinate di riferimento e delle direttrici di sviluppo per una riflessione politica e quindi anche militare sugli ultimi avvenimenti, visti alla luce della storia d'Italia. In questo senso, ritroviamo nel Foscolo quello storicismo che - più che scelta - è tappa necessaria per qualsivoglia operazione culturale, e premessa per il risveglio nazionale. Nella citata prolusione di apertura del suo insegnamento di eloquenza a Pavia (1809) egli esclama: «O italiani, io vi esorto alle storie, perché niun popolo più di voi può mostrare né più calamità da compiangere, né più errori da evitare, né più virtù che si facciano rispettare». Il ricorso alla storia come passaggio obbligato e strumento di riscatto di tutto morale compare in tutta la sua ampiezza proprio nel suo approccio al problema militare. Afferma il Tosti che come il Machiavelli, era convinto il Foscolo che una forte struttura militare è condizione essenziale per l'autorità, il prestigio, la potenza dello Stato, e pensava che la mancanza di una vera grande tradizione militare avesse costituito e costituisse per l'Italia il principale impedimento alla resurrezione e all'unità. La costituzione purtroppo effimera - di un regno italico, la creazione di milizie nazionali e la partecipazione non ingloriosa di esse alle gesta napo-
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leoniche ridestarono nel cuore generoso del Poeta la grande speranza di un'Italia indipendente e unificata sorretta dalle armi dei suoi cittadini; perciò egli volle essere ufficiale, andò resuscitando scritti e memorie di grandi condottieri nostri, incitò la gioventù a ricercare nella storia le testimonianze più insigni del nostro passato, pensò di riunire egli stesso le sparse fila di una storia delle armi italiane.40
Ecco perché egli coltiva senza mai realizzarlo il progetto - significativamente paral1elo - di una Storia d'Italia e di una Storia dell'arte della guerra, dove si sovrappongono ragioni e motivazioni puramente culturali e altre invece nazionali. Un rnode11o di storia militare, il suo, che anche se ha come obiettivo la ricerca jominiana di principi invariabili, non è angustamente nazionale né angustamente militare ma mira a mettere in relazione l'arte militare - e l'Istituzione militare che essa esprime - con la politica, la legislazione, l'economia e le scienze: se non che, anche quest'opera, mirando a una sola nazione, avrebbe somministrato alla scienza militare insufficiente materia. Per giungere à principj, e fissare la loro invariabilità, bisogna risalire per la scala di tutti i fatti, di tutti i tempi e di tutti gli agenti; paragonare il sistema di tutti i popoli dominatori, e il genio dé celebri capitani, onde scoprire le cause generali che influirono alle conquiste della terra; finalmente esaminare sotto quali apparenze e con quali effetti queste cause generali agiscono à nostri tempi, Al che non si giungerà se non quando uno scrittore di mente filosofica, d'animo liberissimo e di vita guerriera (rare doti a conciliarsi), con lo studio degli autori antichi e moderni, delle imprese di tutti i grandi guerrieri, delle scienze che giovarono alla istituzione, alla economia, alla tattica, alla strategica ed alla fortificazione, estrarrìi una storia dell'arte della guerra; storia che ha quattro età, determinate dalle solenni rivoluzioni di quelle parti del mondo illuminate dalle tradizioni storiche: l'età incerta dalle memorie degli Assirj e dé Trojani sino a Ciro, che né documenti degli scrittori appare primo istitutore d'un'arte ragionata di guerra; la prima età, da Ciro sino al decadimento della milizia romana; la seconda, sino alla invenzione della polvere; la terza, sino al presente sistema militare d' Europa. Queste età solenni, suddivise ciascheduna in più epoche maggiori, determinate dalle imprese, dalle leggi e dalle teorie dé diversi popoli e capitani conquistatori, presenterebbero la storia di tutti gli Stati, poichè le rivoluzioni dé costumi, delle religioni e del-
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Ugo Foscolo, Op. cit., pp. 24-25.
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la legislazione delle genti furono operate dalle conquiste. E perché l'universa natura ha per agenti la forza ed il moto, e la forza ed il moto del genere umano sono esercitati dalla guerra, noi vedremmo forse in questa storia l'essenza e l'uso delle forze fisiche e morali dell'uomo, e i diritti e i limiti di esse.41
La scelta di riproporre e commentare gli scritti del Montecuccoli è quanto mai indovinata, perché soddisfa all'una e all'altra delle due esigenze. Grande condottiero, Raimondo Montecuc~oli fa parte con Niccolò Machiavelli e Giulio Douhet del trio di autori italiani che ancor oggi sono gli unici citati e studiati ali' estero. Il generale Cadoma ne ha curato negli anni Venti un'edizione di pagine scelte; 42 i suoi Aforismi dell'arte bellica sono stati ripubblicati nel 197343 e riproposti di recente da Raimondo Luraghi in un'opera edita dall'Ufficio Storico dello SME. Il Foscolo si propone, anzitutto, di trovare rimedio a una vecchia piaga significativamente aperta ancor oggi: il disinteresse per gli studi militari. Dedicando al generale Caffarelli il suo commento a Montecuccoli, egli scrive nel 1807: l'Italia, che illustrò la filosofia e le ingenue discipline, trascurò gli autori d'opere militari, perché gli studj presero norma dagl'istituti dé principi e dalle circostanze dé tempi. Se il nome di Raimondo Montecuccoli non vivesse né fasti dé celebri capitani, s'ignorerebbe per avventura da noi, che quel grande lasciò à posteri un libro, ove i precetti sono pari agli esempi ch'ei diede à suoi contemporanei conducendo gli eserciti. 44
Sullo stesso tema ritorna più avanti in chiave nazionale e antifrancese, non peritandosi di muovere contro quella specie di monumento o mostro sacro che era - ed è - l'Enciclopedia Francese: nacquero dalla guerra le vicende dé popoli e degli Stati; però non v'è arte che più della militare abbondi di storici e di maestri; ma non vi sono autori che più dé militari rimangano inosservati. Vincenzo Lancetti, capo della Sezione delle scuole militari, sta apparecchiando l'edizione d'una Biblioteca militare; dalle schede ch'io vidi, parmi più ricca di molto delle tante spacciate dà ciarlatani sotto questo titolo, specialmente in Francia. E per tacere di siffatte 41
ivi, p. 49. Milano, Treves 1922. 43 Fratelli Fabbri Editori, Milano 1973. 44 U. Foscolo, Op. cit., p. 33. 42
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compilazioni, l'Enciclopedia quante inutili farragini non lascia a troncare, quanto cose utili e necessarie lascia a desiderare! Una biblioteca militare seguita con erudizione e con accurate divisioni di epoche e di materie, riescirebbe utilissima alla storia delJ' arte della guerra.45
Il movente dell'interesse per le cose militari del Foscolo va, con più precisione, ricercato nella Rivoluzione Francese e nelle reazioni che ha provocato nell'animo degli italiani, con i quali non è affatto tenero. Non si trovano, nella sua prosa, i toni epici e lirici del Vacani, del Saluzzo e dei numerosi scrittori coevi che esaltano le gesta degli italiani inquadrati nella Grande Année, traendone sic et simpliciter la speranza di un futuro riscatto. In Francia - egli scrive dopo il 1815 - la Rivoluzione è stata attiva, si è diffusa e alimentata da sé, si è estinta da sé per troppo ardire, lasciando tuttavia nelle sue ceneri un calore sufficiente per impedire ancora per molto tempo il ritorno della servitù. Al contrario, in Italia la Rivoluzione è stata passiva perché è stata portata dall'esterno da un solo uomo, Napoleone, che l'ha governata a suo pim..:imenlo e nello esclusivo interesse straniero. Per quanto il carattere della nazione italiana si sia rinvigorito e siano avvenuti in pochi anni mutamenti che avrebbero richiesto tre generazioni, il motore era pur sempre dipendente da altri: «però l'Italia al cadere di Buonaparte, ricadde nell'antico suo stato di servitù, e fra poco anni forse non presenterà vestigio alcuno di avere sì potente operato nella generale rivoluzione d'Europa».46 Sotto Napoleone gli italiani hanno combattuto valorosamente in tutta Europa, ma non si sono dati la pena di combattere, quando si è presentata l'occasione, per l'indipendenza nazionale: «avete piantato le vostre insegne nelle terre meridionali e nelle più settentrionali d 'Europa; l'avete percorsa da vincitori; ma dov'è una sola città d'Italia, che siasi poco o molto serbata da voi medesimi, tosto che vi è mancata la fede, e l'alleanza, e il comando dello straniero?». E qui F. cita la risposta di un Ministro inglese a un deputato, che accusava quel governo di aver permesso che nel Congresso di Vienna i monarchi si dividessero come branchi di pecore i popoli: «che ha dunque fatto l'Italia?» [come dire: perché gli Italiani non si sono battuti per l'unità, non si sono preoccupati essi stessi del loro destino? N.d.a.]. E il Ministro - aggiunge Foscolo - ha parlato ancor più chiaramente nella successiva adunanza del Parlamento inglese,
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ivi, Nota (I) p. 49. ivi, p. 139.
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allorché con assai diffusa orazione sostenne che all'Europa necessitava lo smembramento e la servitù dell'Italia, e che Genova, conceduta al Re di Sardegna, avrebbe pianto per avventura la sua antica libertà, ma avrebbe giovato all'universale equilibrio; da che il Piemonte diventava più forte contro gli assalti di casa d' Austria, o di Francia[...] La verità è che fu regola sempre à ministri delle potenti nazioni d'obbligare, per mezzo della gÙerra e del commercio, i popoli più deboli a pagare tributi. 47
Lezione di realismo politico e militare spesso dimenticata fino ai nostri giorni: ma Foscolo (le vicende della sua vita lo dimostrano) non aspetta la caduta di Napoleone per giungere a queste conclusioni. Ha una vera idrosincrasia per le fazioni, nelle quali ved_e la prima causa delle sventure d'Italia e dell'oppressione straniera. E, per lui, l'istituzione militare è anzitutto l'usbergo contro le fazioni interne: lo dimostra proprio la Rivoluzione Francese, dove l'armamento e la mobilitazione di tutto il popolo generano ben presto lotte intestine di tutti contro tutti. Foscolo non è amico della «nazione armata», milu dd XIX seculu, né lantu meno delle guerre totali, quando vede nelle vicende della Francia dopo il 1789 un esempio di fazioni le quali, aiutate dalla nazione, sbranano la nazione mentre gli esercii.i la difendono. Gli eserciti che proteggevano da tutte le frontiere la Francia contro i monarchi dell'Europa vendicatori dei diritti reali non si possono chiamare fazioni, perché, uniti in un solo volere e in una guerra giusta e esterna, sostenevano la loro nazione. Bensì erano fazioni tutte quelle che dalla convocazione degli Stati si giovarono della plebe nobilitandola del titolo di guardia nazionale, segnatamente in Parigi, e si divorarono sì atrocemente in pochi anni.48
I Romani - egli aggiunge - pur essendo nati soldati, fino a Mario avevano evitato di dare le armi agli schiavi domestici e all' «ultima plebe». Quando Mario l'ha fatto, la storia di Roma si è trasformata in guerra di fazioni, fino a quando «Augusto chiuse le porte di Giano, per divezzare il popolo dalla guerra». Invece un esercito nazionale che guerreggia fuori dai confini incorpora al suo interno sia i rappresentanti delle fazioni sia coloro che ne sono vittime: perciò «l'esercito finalmente diventa signore delle fazioni, e chi ha riportato più illustri vittorie diventa
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ivi, p. 135. ivi, p. 425.
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principe dello Stato, e se il popolo non è civilmente libero, diviene ad ogni modo politicamente indipendente». L'esercito, insomma, come collante nazionale e medicina contro le divisioni interne, a dispetto dei pericoli per la libertà. Queste parole, in cui tutto viene sacrificato all'indipendenza e unità nazionale e si guarda con diffidenza alla formula tipicamente democratica della mobilitazione totale, fanno pensare: ma Foscolo è tutto, meno che un codino e un moderato. Probabilmente, la sensibilità dell'uomo e del Poeta è stata colpita, traumatizzata dallo spettacolo dell'Italia del tempo, i cui uomini più rappresentativi qualunque sia la loro idea, sono sempre ingenuamente in attesa di qualcuno - o qualche cosa - oltre confine. Spettacolo non gradito a un uomo, che dedica al generale piemontese e napoleonico Caffarelli la sua opera sul Montecuccoli, precisando però che «nel restituire all'onore e all' Italia le opere del Montecuccoli ebbi unico scopo di rivocare gl'Italiani alle arti guerriere a cui solo possono commettere la loro salute».49 Questa ispirazione quasi ossessivamente nazionale guida anche la parte più propriamente tecnico-militare della sua opera, dove - senza scendere in particolari - Foscolo dice abbastanza. Cita diversi autori francesi (Puységur, Folard, Guichard, Guibert, Montesquieu, Gibbon ... ) e interpreta rettamente le gesta di Federico II di Prussia: ma per la sua fede nei princip1 innati non può essere definito clausewitziano. Nemmeno è jominiano: non cita mai Jomini, e l'importanza che dà al morale, allo spirito e al talento del Capo unita al suo amore per la sintesi anziché l'analisi, lo allontanano assai dal barone svizzero (la cui opera nel 18071809, quando scrive i Commentari, è ancora poco nota e incompleta, così come quella di Clausewitz). Già a fine secolo XIX e ancor prima della Rivoluzione, predomina la cultura e la cultura militare francese: il non-militare Foscolo non può non esserne influenzato, ma si guarda bene dall'esserne sovrastato, e questo è - date le circostanze - un grande e raro merito. Prima ancor che Montecuccoli, l'antichità cJassica e Machiavelli gli forni scono gli strumenti per un'elaborazione autonoma e nazionale dei contenuti dell'arte. Egli individua nella rovina dell'Impero d'Oriente, nella scoperta dell' America, nell'invenzione della polvere e della tipografia l'inizio della ricerca dei principi dell'arte della guerra, e per primo il Machiavelli «investigò né suoi Discorsi sopra Livio le cause della libertà e della prosperità di Roma; e nel suo libro su l'Arte della guerra tentò di ridestare le istituzioni della legione, delle marce e degli accampamenti romani. 50 49
ivi, p. 80.
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Nel secolo XVI il sistema feudale, le divisioni provinciali, «e le cattedre di letteratura usurpate dà preti e dà monaci» non consentirono di richiamare in vita le grandi teorie degli antichi: molte furono le battaglie, poco le risultanze; si operò sempre e non si meditò mai. E mentre la fortuna e le passioni governavano la guerra, innumerabili traduttori e interpreti desunsero esattamente le istituzioni e i metodi della Grecia, prima inventrice della disciplina militare, e di Roma conquistatrice del mondo: ma si tradusse col lessico, e si commentò con la grammatica. Rara la filosofia, e rarissima l'esperienza concorreano negli studj eruditi. Si ammirava l'antica milizia, si notomizzavano ad una ad una le imprese, ma chi mai dalle scuole di Giusto Lipsio e di Giovanni Meursio poteva risalire alle ragioni universali delle vittorie greche e romane? [Nostra sottolineatura - N.d.a.]. Così i guerrieri abbandonavano i maestri di guerra agli antiquari. Questi, per fastidio delle cose contemporanee, quelli per poca stima dell'antichità, credeano che la diversità originata dalle armi, dalle artiglierie e dalle fortificazioni non ammettesse più ormai né paragone né imitazione tra gli eserciti antichi e moderni.51
F. parla di «ragioni universali delle vittorie greche e romane»: dunque anch'egli - come Jomini e lo stesso Napoleone - crede in principi dell'arte della guerra immanenti nella storia, che bisogna scoprire e studiare. Per Jomini, la fonte precipua d'ispirazione rimangono le guerre di Federico II e Napoleone: Foscolo, invece, vede nel Montecuccoli colui che per primo rivela i principi eterni dell'arte, già ben vivi nell'antichità classica. Dei numerosi condottieri europei del secolo XVII, «unico il Montecuccoli risalì alle cause, ridusse l'arte in sentenze, e primo meditando gli scritti dé Romani e dei Greci provò che un'arte quantunque si valga di mezzi diversi ed abbia diverse apparenze, serba non pertanto sempre lo stesso scopo, gli stessi principi e la medesima essenza». 52 Di tutti i numerosi scrittori militari del secolo XVIII - prosegue il F. - «molti traviarono, e i pochi che s'incamminarono drittamente, si rimasero a mezzo». Non fa eccezione il Guibert, che richiamandosi alla tattica prussiana e alla potenza delle armi moderne «fé reputare inutili le lezioni degli storici e dé capitani dell'antichità». Tuttavia «quell'eloquente Aristarco di tutti i libri di guerra non contende la pal50
ivi, p. 45.
51 ivi, 52
pp. 45-46.
ibidem.
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ma di classico autore al Montecuccoli, che non pertanto ricavò i principi dell'arte dà fatti e dà detti degli antichi». Fino a che punto Montecuccoli merita questa posizione di preminenza? Non rientra nelle finalità del nostro lavoro l'esame particolareggiato del suo pensiero. Ci basti qui osservare che già l'Enciclopedia Francese contiene continui richiami all'antichità classica come fonte principale di ispirazione per l'arte della guerra del momento, e che - come dice lo stesso titolo della sua opera - Montecuccoli non parla mai di principf (cioè di concetti - base, idee prime, elementi che si considerano essenziali in una teoria o speculazione), ma più modestamente indica degli aforismi, cioè un insieme di definizioni o sentenze dove si trova di tutto, ma dove l'arte militare non viene, per così dire, ridotta a pochi principi-guida (se non a uno solo, come fa Jomini). Non è del tutto esatto affermare che Montecuccoli ricava «i principi dell'arte dà fatti e dai detti degli antichi» per un'altra ragione: ciò che prevale in Montecuccoli è l'esperienza, e la sua esperienza personaJe di condottiero. I richiami all'antichità classica gli servono - come per Clausewitz - solo da conferma per questo o quell'asserto. Molti aforismj sono esclusivamente riferiti aJl 'arte bellica e ai materiali del momento, quindi non possono essere confermati da richiami al passato. La stessa scienza militare per Montecuccoli è frutto dell'esperienza, dove ben poco conta lo studio: è «qualità principale, pratica, non infusa, chè non nascono i capitani famosi, non sui libri, ma sul campo, non lussureggiando, ma nè disagi sotto le armi, e sulla neve sudando e gelando». Nemmeno possono essere definiti principi (cioè criteri-guida, elementi di base) que11i che il F. ritiene di indicare come cause delle vittorie di Montecuccoli, somiglianti piuttosto a modalità e accorgimenti: a) la repressione «più col vigore del senno che dell'autorità» delle discordie tra generali e la forza e celerità delle operazioru; b) i cambiamenti del territorio dove condurre la guerra; c) i continui movimenti dell'esercito; d) la tendenza a «trascurare ogru vantaggio di scaramuccie e di bottino, perché la somma del suo divisamento stava nella conservazione delle poche forze, e nell'uso de] tempo da cui solo poteva sperar la vittoria» [è questo l'unico principio, equivalente a quello di Jomini della massa N.d.a.]; e) la scelta di buone posizioni, la disposizione delle ordinanze in base al terreno e al nemico, ecc .. Con questo, si deve ammettere che quasi tutto ciò che - con minore o maggiore enfasi - si trova negli autori del secolo XVIIl, e persino in Jomini e in Clausewitz, si trova più o meno sviluppato anche in Montecuccoli, a cominciare daHa guerra che non ammette limiti, dal ruolo centrale della battaglia e della ricerca della guerra rapida e risolutiva tipica
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TL PENSIERO MTLITARE ITALJAN0(1789- 19J5) - VOL. l
del XX secolo. Aspetto,. quest'ultimo, ben messo in rilievo dal generale Cadoma nell'introduzione alle citate Pagine scelte, dove - avvicinandosi all'interpretazione del Foscolo forse da lui meditata - afferma che negli scritti che egli [cioè Montecuccoli - N.d.a.] ci lasciò, le sue sentenze sono in notevole parte applicabili in ogni luogo e in ogni tempo appunto perché si mantengono nell'alta sfera dei principi generali [ma tra sentenza, e principio, c'è differenza, e molte sentenze di Montecuccoli riguardano argomenti particolari ancorché importanti - N.d.a.].
Cadorna nota anche che Montecuccoli rifugge dal dogmatismo; noi aggiungeremmo che, pur dando grande rilievo alla personalità del Capo e ai fattori spirituali, egJi è ben lungi dal trascurare il ruolo della logistica e considera nel suo giusto peso l'importanza della preparazione e il suo influsso sulla condotta, senza dicotomie clausewitziane. Sta di fatto che F. mostra di avere idee simili a quelle di Jomini (pur senza nominarlo) e si dichiara al tempo stesso nemico delle teorie bmtalmente materialiste ed evoluzioniste, quando afferma che se si fosse considerato che le arti tutte sono fondate sù principi veri ed eterni della natura delle cose; che dallo scoprimento, dal calcolo
e dall'applicazione dé principj derivano le scienze, e che quindi una scienza, più o meno sviscerata, fu sempre la mente dell'arte della guerra, si sarebbero, investigando questi principi, riconciliate le diversità accidentali dé metodi antichi e dé moderni. Né i fautori dell'antichità avrebbero magnificato le ordinanze profonde e le armi dappresso; né i nostri contemporanei riporrebbero tutto l'evento della guerra nelle artiglierie e nella combinazione della loro tattica.53
Dallo studio de11e gesta e delle teorie di Montecuccoli F. deduce anche un'altra massima di sapore jominiano: che cioè «i principi dell'arte sono certi e perpetui, ma l'applicarli praticamente non s'appartiene se non all'uomo a ciò destinato dalla natura ed educato dalla scienza» e che «le teorie delle arti, quando siano attinte dall'analisi e dalla esperienza, non vengono distrutte mai, ma soltanto modificate dalle vicende dé tempi, dà maggiori e minori mezzi, e dà diversi metodi con cui sono applicate».54 Accanto a queste idee, altre sono di matrice clausewitziana o napoleonica: «prima sentenza fu sempre, che la vittoria deriva più dal1'ingegno e dall'animo del capitano che dal valore degli eserciti e dà comu53
U. Foscolo, Op. cit., pp. 47-48.
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ni precetti dell'arte [... ] Le scienze matematiche ritrarranno a calcolate dimostrazioni tutte le parti materiali dell'arte bellica; ma perché non può essere animata se non dalla virtù secreta dell'uomo nato guerriero, a lui solo si spetta di giudicare dell'esattezza o inesattezza del calcolo, a lui di farne a suo senno l'applicazione». 55 Montecuccoli non indica una precisa ripartizione dell'arte della guerra in diverse branche, limitandosi ad affermare che la vittoria si consegue con l'apparecchio (cioè la preparazione, soprattutto logistica e organica), la disposizione (cioè: la strategia, visto che essa si ragguaglia alle forze, al paese, al tipo di guerra ecc.) e l'operazione (cioè: la fase esecutiva, i movimenti, ecc., più o meno riconducibili alla tattica). Nell'indicare in maniera sia pur sommaria la ripartizione dell'arte militare, F. segue molto alla lontana le tracce del Machiavelli, e ha l'aria di subire piuttosto l'influsso degli autori francesi del secolo XVIII: la tattica e le artiglierie sono elementi della guerra, ma sono connessi alla istituzione militare, che dipende dalla politica; alla strategia, che dipende dalle situazioni geografiche; e ali' amministrazione militare, che dipende dalle sorgenti e dalle leggi della pubblica economia.56
Lascia perplessi l'affermazione che la strategia dipenderebbe solo dalle situazioni geografiche, tale da risentire delle teorie geometriche e matematiche del Btilow e di altri. Ma l'indicazione di un legame organico tra istituzione militare e politica ci sembra di grosso rilievo; inoltre se non il primo, F. è tra i primi a indicare l'amministrazione militare (cioè: la logistica di distribuzione del tempo) come branca dell'arte militare e come branca dipendente dall'economia del Paese, cioè dalla logistica di produzione. Questi aspetti particolari confermano il giudizio conclusivo che va dato del F. scrittore militare: il suo è un apporto incompleto e non approfondito ma tutt'altro che da trascurare, per la profonda ispirazione nazionale che lo anima e per una visione sostanzialmente equilibrata e moderna della problematica militare, della quale non andrebbero dimenticate le pagine estremamente moderne sulla disciplina che siamo costretti a trascurare. 57 È un vero peccato che non abbia potuto portare a compimento il suo progetto di una storia delJ'arte della guerra: perché,
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55 56
ivi, p. 76. ivi, pp. 68-69. ivi, p. 48.
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lui poeta, promette molto in quelle poche righe, che hanno solo il torto di trascurare i riflessi militari e tecnici del coinvolgimento delle masse nella guerra inaugurato dalla Rivoluzione Francese, coinvolgimento reso inevitabile dall'idea di nazione da lui tanto caldeggiata per l'Italia. Anche se il F. non è stato propriamente scrittore militare, la sua opera militare è viva, meritoria, interessante, precorritrice, profondamente italiana, quindi giustamente tenuta in grande onore dagli scrittori coevi (a cominciare dal Blanch, che esamineremo nel prosieguo dell'opera). Per questo egli non merita le ingenerose critiche che anche di recente gli sono state rivolte da egregi autori, né tanto meno quelle del Grassi che lo accusa di aver «guastato» Montecuccoli. Il Bastico (Vol. II dell'Evoluzione dell'arte della guerra) è tra i pochi a rilevare con chiarezza e acume l'importanza del suo pensiero, attribuendogli il merito di aver riallacciato - attraverso Montecuccoli - il pensiero militare italiano alle sue antiche tradizioni. In particolare - annota Bastico - il F. darà al pensiero italiano quel più palese carattere spiritualistico,
che quasi soffocato dai concetti materialistici, appena si intravede nelle opere dell'arciduca Carlo e di Jomini, e che solo più tardi aleggerà in quelle del sommo teorico della guerra, il Clausewitz, e dei nostri più insigni e moderni scrittori militari [ ... ]. Nei rapidi cenni relativi all'influenza delle virtù cittadine su quelle guerriere, e della religione sulla grandezza dei popoli, ed ai fattori primi della vera disciplina, e nel diffuso commento sull'uso degli antichi libri di guerra, stanno i più chiari accenni di una nuova dottrina militare ....
Oltre che opera di grande valore scientifico e storico, con il suo commento a Montecuccoli il F. fa dunque opera di grande rilievo nazionale. E i suoi scritti si colorano dello smalto dell'attualità, per esempio là ove afferma che «la vera disciplina ha per fondamento la virtù e giustezza del governo e la dignità del soldato» a che «le virtù cittadine producono le virtù guerriere e le guerriere mantengono gli Stati; ma dalla costituzione degli Stati e più delle virtù dei governi dipendono le virtù cittadine; diversamente le vittorie nascono dal fanatismo e dal senno di un uomo solo e i loro frutti muoiono nella seconda generazione». Né la sua fede nei principi è assoluta, come avviene per Jomini: perché «l'arte della guerra ha come l'eloquenza molti relatori che fissano le Colonne d'Ercole dell'arte; ma i grandi oratori e i grandi guerrieri le ol-
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ivi. pp. 81-85.
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trepassano sempre con ardire nuovo e mirabile». Nel F. dunque si fondono - come raramente avviene - gli ardenti sentimenti del patriota con l' acume dello scrittore e storico militare. Ci piace concludere queste brevi note con le parole che si trovano alla fine del1e sue considerazioni sulla disciplina: «il cuore umano è la sorgente da cui s'hanno sempre a derivare argomenti per persuadere e dissuadere i soldati, e la filosofia della guerra [cioè lo studio della guerra sotto l'aspetto delle forze morali e spirituali che l'agitano e la dominano - N.d.a.] è la parte difficile e sublime dell'arte del capitano». Se un poeta come il E è sempre - nella sua fede - un pò militare, anche il vero militare è sempre un pò poeta: ecco che poesia e arte militare hanno un terreno d'incontro.
Conclusione Secondo il ben noto detto antico, historia non facit saltus. Nel prosieguo dell'opera, ci si troverà continuamente di fronte alla nazione armata teorizzata in pectore da Gaetano Filangieri, al federalismo o meno e ai riflessi militari della divisione dell'Italia di Melchiorre Gioia, a11'aspirazione a una storia militare nazionale (e quindi a un pensiero, una dottrina nazionali) del Foscolo, ai richiami all'antichità classica, alle antiche virtù militari che sempre nel Foscolo saldano passato e presente e preparano l'avvenire della Patria. Merita anche di essere sottolineato che tutti tre questi autori, in epoche e in modo molto diversi, sono concordi su una premessa ben precisa: nessuna rigenerazione nazionale e politica sarà possibile senza una rigenerazione morale di tutti gli italiani e senza uno strumento militare che la rispecchi, esaltando prima di tutto i motivi di unità e coesione interna e chiamando ciascuno a compiere il l!.UO dovere per la difesa e l'unità nazionale. L'età napoleonica non ha fatto che catalizzare questi temi, che già erano nel profondo della cultura, dell'anima italiana.
CAPITOLO
vn
LUIGI BLANCH, «MASTER» DELLA CULTURA MILITARE EUROPEA DEL SECOLO XIX
Caratteri generali dell'opera: uno scrittore più europeo che italiano
Luigi Blanch, allievo della Scuola Militare della Nunziatella e ufficiale di carriera dell'esercito del Regno delle due Sicilie dimessosi per motivi politici nel 1821, è il più illustre esponente del cospicuo polo culturale che sorge a Napoli nel secolo XIX. La formazione militare e l'ispirazione politica moderata sono gli unici punti in comune che ha con molti esponenti del polo culturale piemontese, e segnatamente con Cesare Balbo. A questi due caratteri in comune se ne può aggiungere un terzo: il riferimento alle teorie di Jomini e dell'Arciduca Carlo, più pronunciato nel Bl. che in altri scrittori italiani coevi. Ed è tutto: perché il BI., a torto definito dal Croce «caldo di spiriti patriottici», è scrittore più europeo che italiano. La sua opera non è ispirata come tante altre dalla necessità di creare le premesse culturali per l'unità e l'indipendenza nazionale, non è richiamo di glorie antiche della Patria, invito all' azione o filosofia dell' azione, ma piuttosto frutto di fredda speculazione teorica. Egli ricerca nella storia europea, più che nella realtà italiana del passato e del presente, i motivi di fondo della sua ispirazione: sembra anzi che voglia volgere le spalle a un presente che lo delude, per guardare esclusivamente al passato. La ricerca di moduli per l'azione del momento, che nel suo tempo tormenta la parte migliore dell'intellettualità italiana, è pressoché estranea alla sua opera. Quindi la storia è da lui concepita non come ricerca di «modelli» da restaurare (ché anzi, diversamente dal Botta, vede l'avvenire dell'Italia «non nella restaurazione d'ordini antichi ma in nuovi, e in combinazioni che non appartengono alle previsioni del momento»), ma come materia dalla quale trarre risposte per ben definiti quesiti teorici che concernono il significato della storia stessa e servono a individuarne il graduale divenire, in tutti i suoi aspetti. Strategia e arte militare come teoria e prassi e come argomenti di attualità non costituiscono affatto i fuochi dell'indagine del B1.; egli è pri-
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ma di tutto uno storico e uno storico militare, poi un teorico dell'arte militare, e infine un protagonista del suo tempo. Il fine del BI. scrittore militare non è- come avviene per il Balbo - didascalico e pratico (o almeno, non lo è in pari misura e direttamente), ma trova nella ricerca di leggi e di rapporti che governano la storia la sua prima ragione. Storia vista come scienza da indagare: per questo il Croce inquadra l'opera del BI. nei «tentativi di storiografia scientifica»' E nota il Croce che Bl. «vede in Polibio il più moderno degli storici antichi, quello in cui l'interesse scientifico predomina sul drammatico e artistico, e che precorre, finanche nelle esagerazioni, la storiografia moderna». Un vero e proprio determinismo storico insomma, che fa di BI. uno scrittore assai più anticlausewitziano di Balbo e un celebratore delle «magnifiche sorti, e progressive» della scienza militare e anzi della strategia, viste in parallelo con il graduale evolversi delle tecnologie e delle condizioni socio-politiche. Come il Croce ricorda, per lui ogni lavoro storico «ha per ultimo un risultamento di appoggiare una dottrina dogmatica, e ogni trattato dogmatico ha bisogno di lumeggiare la storia della scienza per giustificare la sua impresa». Non una storia - come quella di Clausewitz - dominata dal caso o dall'incertezza, nella quale si sente l'influsso di fattori morali e spirituali come tali poco quantificabili, ma una storia che ha delle leggi, dei principi di causalità, dei percorsi rettilinei, dei passaggi da uno stato all'altro, dove ciascun evento assume un preciso significato e una precisa collocazione nel contesto generale. Così la storia del BI. diventa, in larga parte, storia delle organizzazioni, delle Istituzioni e delle loro regole, con rischio di trascurare troppo i fattori morali e spirituali. E quella mancanza di spirito combattivo fin dai tempi di Carlo VIII che il piemontese Balbo condanna senza perifrasi negli italiani e nei meridionali in particolar modo, dal napoletano Bl. è giustificata e corretta mettendola in relazione con la mancanza di organizzazione politica. Gli italiani - egli afferma - sono il popolo più incivilito del mondo, e pertanto hanno creduto un errore dare la vita per un fine che non meritava tale sacrificio: sono stati perciò restii alla guerra, mancando tra essi «la forza dell'ordinamento che ispira·confidenza nel successo col risvegliare le idee di spirito di corpo e di gloria Patria». Sorge a questo punto spontaneo un interrogativo: secondo quanto teorizza lo stesso Bl., questo ordinamento politico (e quindi anche militare) non va visto forse come frutto, come ricaduta inevitabile dell'indole, 1 B. Croce, Storia della storiografia italiana nel secolo XIX, Bari, Laterza 1921, pp. 18-27.
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delle passioni, delle tradizioni, dei sentimenti, della socialità di un popolo? per il legame stesso tra Istituzioni militari e civili così ben sostenuto dal BI., virtù civiche e militari non camminano forse di pari passo? Chissà perché Croce apprezza siffatti deboli e contraddittori argomenti .... Bl. si discosta da Balbo anche per il suo accentuato, angusto gradualismo politico e militare. L'obiettivo lontano da perseguire è una monarchia rappresentativa; per lui l'unità e indipendenza italiana non possono essere frutto - come quella spagnola - di un concorde, duro impegno militare contro lo straniero e/o di una confederazione o aJleanza dei principi, ma della graduale eliminazione degli Stati minori e da contingenze europee che permettano di ridurre a uno solo gli Stati italiani. Questo gradualismo, questa fede nelle ragionate evoluzioni lo distacca da Balbo e da altri anche nella prassi strategica, quando nel 1848 egli mostra di ignorare qualsivoglia principio teorico o criterio della guerra moderna, sostenendo che l'esercito napoletano inviato nel Veneto non doveva prendere l'offensiva unitamente a quello piemontese contro I' esercito austriaco (realizzando così il principio teorico della massa), ma piuttosto rimanere sulla destra dell'Adige per coprire il Mezzogiorno da eventuali attacchi austriaci. Come se l'obiettivo fosse questo, non l' indipendenza d 'Italia e il riscatto del suo prestigio militare ....
1 nove «Discorsi della scienza militare» (1832): loro pregi e limiti2 Discende da questo habitus culturale e storico tutt'altro che convincente l'opera più famosa e apprezzata del BI., Della scienza militare considerata nei suoi rapporti colle altre scienze e col sistema sociale Discorsi nove, pubblicata dapprima nel 1832 in diverse puntate sul Progresso di NapoU, e nel 1834 in unico volume edito dalla tipografia Porcelli di Napoli. Benedetto Croce - chi oserebbe contraddirlo? - non dà di questo e di altri scritti del BI. un giudizio troppo lusinghiero, anche se si deve tener conto che la sua è un'ottica puramente filosofica e storica: che cosa fece difetto al Blanch perché egli sorgesse tra i più alti ed efficaci rappresentanti dell' indirizzo scientifico della storia? Con tanta disposizione al filosofare e con tanta ricca conoscenza dei fatti, egli non aveva forse nel grado desiderabile né lo spirito sistematico del filosofo né l'amore dello storico a penetrare i fatti nelle lo2 Ci riferiremo alla ristampa curata - con ampia introduzione - da Luigi Susani nel 1939 (L. Blanch, Della scienza militare considerata nei suoi rapporti colle altre scienze e col sistema sociale, Roma, Ed. Roma).
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ro particolarità; e perciò anche gli piacque soprattutto recensire libri altrui e prenderne occasione per le sue osservazioni. Rimase così sempre nella condizione di chi si prepari a un gran lavoro, senza far mai fascio delle proprie forze e dirigerle sopra un punto determinato per ottenere il maggior effetto possibile. Il che si rispecchia nel suo stile, o piuttosto nella sua mancanza di stile, in quella sua prosa piena di ripetizioni o d'improprietà, rivolgente di continuo il pensiero enunciato senza svolgerlo, ed enunciandolo in termini quasi sempre avviluppati e mal certi. E se ne ha una conferma nel disegno che vagheggiò durante tutta la vita, cioè fin dal 1804, di comporre una storia militare, considerando la guerra come «espressione della società», e facendo riflettere nelle forme varie di essa le forme varie della società, e deducendo insieme queste dalle forme della guerra. Ma la serie di articoli che scrisse in proposito, e che poi raccolse in volume, rimase uno schema, nel quale la tesi fondamentale (che era, per altro, ovvia) è piuttosto ricordata di continuo che non messa in atto nel racconto, il quale procede povero e generico. Fors'anche mancava al Blanch la necessaria preparazione e disciplina alle ricerche dirette e particolari; ma gli mancava appunto perché egli si soddisfaceva negli orientamenti generali e nel dare l'avviata a chi volesse seguire le sue indicazioni; e, per questa parte, l'opera sua non rimase del tutto sterile, ché il libro sulla Scienza militare, tradotto anche in francese e lodato da uomini di grande competenza e autorità come il Jomini, ebbe efficacia sui nostri storici militari e in particolare sul Marselli. Uno solo, forse, dei suoi scritti unisce all'altezza del pensiero generale la determinatezza dei particolari, ed è un articolo su Napoli nel 1806, estratto da una sua opera inedita sul periodo di storia napoletana che scorse dalla pace di Firenze ( 180 I) alla nuova invasione francese ( 1806), e che egli considerava come quello in cui si dissolsero tutti i fondamenti dell'antica monarchia e si preparò il passaggio del regno di Napoli dalla forma feudale alla forma dello Stato moderno. Ma in questa opera, che egli offriva come «materiale agli storici futuri», il Blanch parlava di ca<;i dei quali era stato parte, testimone e attento osservatore.3
Si deve ammettere che l'architettura generale dell'opera, che qui brevemente riassumeremo, conferma - anche da un punto di vista strettamente tecnico-militare - le perplessità del Croce: Bl. chi~e, si chiede, promette, enuncia molto ma dà a<;sai meno risposte - e ac;sai meno risposte coerenti - di quanto sarebbe necessario. Il punto di partenza dei Nove discorsi è il detto del Cousin (1828) 3
B. Croce, Storia della storiografia ... (Cit.), pp. 18-27.
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«Datemi lo stato militare di un popolo e il suo modo di fare la guerra ed io mi incarico di rintracciare tutti gli altri elementi della sua storia [...] Perciò l'organizzazione stessa degli eserciti, la strategia stessa importa alla Storia».4 La guerra come fatto sociale, insomma: è un'acquisizione anche di Clausewitz, non la è di Jomini. E il BI. addirittura corregge con una visione più equilibrata l'esasperato spiritualismo di Clausewitz, affermando (senza mai mominarlo) che «le scienze morali, le esatte e naturali corrispondono ai principali elementi della guerra, cioè agli uomini, alle armi, e agli ordini, con la cognizione degli spazi ove quelli e questi operavano».5 Il primo discorso, dal titolo «Idee generali intorno alla scienza militare ed alle sue relazioni con le altre scienze e con lo stato sociale», si conclude con quattro postulati: a) il grado di sviluppo delle arti della guerra è direttamente proporzionale a quello delle arti non militari, e la decadenza di quest'ultime si fa sentire anche sulle prime; b) le relazioni della «scienza>> militare con le «scienze morali, economiche, fi siche, naturali e esatte» e la sua dipendenza da esse, s i accrescono quando un esercito entra in guerra; e) la politica militare (o filosofia della scienza bellica), cioè «la parte trascendentale della scienza, dove si formano i piani di guerra, si stabilisce il sistema di difesa d ' uno Stato o si pon mano alla militare costruzione di un popolo» ha strettissima relazione con la storia, con il diritto pubblico e con l'arte diplomatica; d) la scienza militare influisce molto positivamente sullo sviluppo dell'intelligenza e della volontà; la miglior scuola della volontà è sempre stata la guerra. Nel secondo discorso «Delle differenze tra la scienza militare degli antichi e quella dé moderni», il BI. intende dimostrare che: a) la principale differenza che sussiste tra l'arte militare degli antichi e quella dei moderni è che la prima aveva un carattere proprio e locale, mentre la seconda ha assunto un carattere generale, attenuando grazie al cristianesimo, al sistema feudale e alla letteratura classica - le differenze tra i vari popoli e aumentando le somiglianze, fino a far assumere all'arte militare europea «un carattere scientifico e universale»; b) gli antichi possedevano un grado di conoscenza delle scienze esatte ristretto e tale da poter servire solo alla tattica. Di conseguenza «la parte trascendente dell' arte della guerra Icioè la teoria strategica -
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L. Blanch, Op. cit., p . 29. ivi, p. 23.
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N.d.a.] presso gli antichi era più dell'istinto degli uomini grandi che nello stato de11a scienza». Mentre al condottiero antico bastava il merito tattico nella guida di un'ordinanza che era tutta sotto i suoi occhi, i1 Capo moderno «dev'essere strategico, vale a dire dee saper dirigere e muovere 1e sue truppe su terreni che non vede»; c) rispetto all'antichità sono migliorate 1e armi, ma peggiorati gli uomini: «gli uomini che componevano le falangi e 1e legioni avevano indubbiamente una gran superiorità sovra quella moltitudine di che si compongono gli eserciti deUe moderne nazioni; [... ] benché questi, a dire il vero, migliorino a misura che negli. Stati si adotti la massima che il servizio militare è un dovere di tutti contemporaneamente»; d) la superiorità del soldato antico era di carattere soprattutto morale, perché a lui si chiedeva «non la limitata cooperazione che la ubbidienza ispira, ma quella più elevata, più compiuta, più feconda per la sua natura di grandi effetti, perché spontanea»; e) venuta meno tale superiorità e «degenerati» gli uomini, l'Impero romano è caduto in mano ai barbari. Ma se le scienze fossero state allora al livello attuale, «l'arte militare si sarebbe mantenuta al loro livello, ed i barbari non avrebbero potuto osare l'invasione» [quindi: la scienza, la tecnica può supplire all'animus pugnandi: concezione tipicamente materia]jsta - N.d.a.]. Nel terzo discorso, riferito aUa scienza della guerra dal Medio Evo fino alla scoperta della polvere, il BI. afferma che: a) l'arte militare in questo periodo segue la decadenza rapida di tutte 1e scienze e di tutte le istituzioni che costituivano la civiltà del mondo antico; b) «la Lega lombarda fu la prima che in quell'epoca presentasse lo spettacolo di una milizia comunale radunata dal popolo senza distinzioni di classi [... ] La Lega offre il simbolo della unità federale, e la sua pratica applicazione nell'esercito collegato che operò a Legnano»; c) gli uomini della Lega erano armati molto semplicemente (spada, scudo, braccialetti e cosciali). Quest'armamento non comportava alcun ordine tattico ma tutto era affidato al valore individuale, che aveva come meta la difesa del Carroccio; d) la fanteria era solo «una massa informe senza regolarità nelle sue armi e nei suoi ordini». Peraltro i condottieri e le loro bande nati nel corso del XVI secolo cominciarono a mettere in atto il principio de11a divisione della fatica applicato all'arte militare e segnarono un ce.rto progresso nei metodi: «il germe degli eserciti permanenti e del progresso dell'arte militare sta nella istituzione di tali bande, giacché altro non bisognava che renderle nazionali perché si operasse la trasformazione» [e
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la superiorità morale degli ordinamenti nazionali e non professionali, riconosciuta dallo stesso BI.? - N.d.a.]. 11 quarto discorso «Della scienza della guerra e delle sue correlazioni colle altre scienze e con lo stato sociale dalla scoperta della polvere fino al suo risorgimento sotto Nassau e Gustavo Adolfo ( 1350- 1560)» individua nel periodo esaminato una mescolanza tra vecchio e nuovo, che lascia sopravvivere sotto diversi aspetti le istituzioni e gli ordini militari medioevali, anche se si notano molti embrioni del futuro progresso. Ciò è dovuto al fatto che al tempo «la scienza era più considerata come una serie di verità la cui cognizione doveva soddisfare la intelligenza umana, che come una utile applicazione ai bisogni della società». Quindi la separazione degli eruditi dagli uomini pratici fece sì che l'arte militare «non trovasse in esse quei mezzi e quei metodi che corrispondevano al loro stato». Tuttavia «la strategia fu sentita, presentita e praticata, benché non composta ed elevata a grado di scienza». Al tempo stesso è diventato indispensabile un sistema di amministrazione militare [cioè: un'organizzazione logistica basata su principì hen definiti - N.d.a.j, anche se imperfetto al punto tale da rendere la guerra «funesta alle contrade che n'erano teatro». Le armi da fuoco, introdotte tra il 1330 e il 1460, sono ancora uno strumento meramente ausiliario e l'ordine profondo della fanteria in battaglia rimane immutato, mentre la fortificazione si evolve e si inizia a sostituire i bastioni alle torri. A tal proposito il BI. omette di ricordare il primato italiano nella ricerca di nuove forme di fortificazione da metà secolo XV in poi, con Francesco di Giorgio Martini da Siena, Giuliano e Antonio Giamberto di Sangallo ecc.: ma significativamente egli afferma di «considerare la scienza come cosmopolita».6 In conclusione già affiora in questo periodo «il bisogno d'ordine, d'amministrazione e di istituzioni per reggere una società che dee operare per uno scopo dato, e l'importanza della castramentazione, della tattica e della strategia».7 Il quinto discorso (tra l'abdicazione di Carlo V e la pace di Westfalia - 1555/1548) non presenta elementi sostanzialmente nuovi. Dal punto di vista politico decade il potere feudale e tende a prevalere il principio di nazionalità, con le monarchie che accentrano il potere politico-militare; di conseguenza nascono gli eserciti permanenti e nazionali con le relative uniformi. Nell'esercito svedese nasce il reggimento, in quello francese Turenne crea la brigata, e «potettero allora apparire la istruzione uniforme e la disciplina: cioè potettero i soldati presentarsi su un
6 7
ivi, p. I I 2. ivi, p. 100.
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campo preventivamente istruiti coi medesimi principii, informati alle medesime abitudini, animati dal medesimo spirito e stretti dall'intimità della continua obbedienza ai capi, nei quali rispettavano non già i loro padroni, ma i depositarii del potere monarchico, al1e cui leggi capi e soldati erano egualmente e promiscuamente soggetti. L'esercito divenne una corporazione compatta, con leggi, doveri, vizii e virtù speciali, cessando di essere un accozzamento incoerente di genti tra loro sconosciute e sovente nemiche». 8 ln sostanza il periodo presenta i seguenti caratteri: «l O Ritorno a quei principi della scienza militare degli antichi ch'erano compatibili con le nuove a1111i; 2° separazione più distinta dai metodi del medio evo; 3° sviluppo più compiuto quanto a1le nuove armi, di tutto ciò ch'erasi cominciato nel precedente periodo».9 Vi è «una quantità di gran capitani [molti dei quali italiani - Kd.a.] che operavano con alta intelligenza della scienza, con l'istinto, e sovente coi metodi della strategia». Ma la strategia nel periodo considerato non riveste ancora, per il Bl., il carattere di scienza, perché «tratta dei particolari e procede per induzione». E, al momento, «i limiti in cui ci siamo ristretti non permettono di svolgere [... ] in queste campagne il pensiero strategico (se così possiamo esprimerci) non solo istantaneo, ma seguito, regolarizzato, non con la metafisica della scienza, ma con la sua logica». 10 li concetto di scienza che il BI. per l'occasione enuncia è quello di Aristotele: per rivestire il carattere di scienza la teoria strategica deve ahbracciare quel ch' è universale ed essere dimostrata, in quanto «la conoscenza assoluta abbraccia ciò che è universale e ciò che è necessario, l'essenza propria delle cose: la conoscenza relativa ciò che è particolare e contingente, le cose accidentali. Solo la prima merita il nome di scienza, la seconda non può ricevere che quello di opinione, o di credenza; la prima risulta dalla dimostrazione, la seconda dall'induzione ... ». 11 Nel campo tattico le formazioni diventano più sottili ma non compare ancora la gran tattica, che consiste - per il Bl. - nell'assumere rapidamente gli ordini di battaglia e nel passare rapidamente da ques6 a1la formazione in colonna per il movimento. Le armi da fuoco aumentano il loro peso (e qui il BI. a torto individua un fattore ritardante del movimento nella tendenza - sostenuta dal Montecuccoli - a dotare sia la fanteria che la cavalleria di armi da fuoco, anziché riunire quest'ultime tutte insieme). Acquista maggiore importanza la castramentazione (cioè l'arte
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ivi, p. 109.
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ivi, p. 119.
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ivi, pp. 114-115.
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ibidem.
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di disporre gli accampamenti e di dotarli di sistemi di fortificazione di campagna). Infine «l'amministrazione [cioè la logis!ica di oggi - N.d.a.] diventa più complessa, perché deve soddisfare bisogni molteplici a cominciare dal rifornimento di munizioni da guerra e da bocca [cioè: di viveri e munizioni - N.d.a.] in lunghe campagne e assedi prolungati: e non v'ha dubbio alcuno su questo, benché gli autori contemporanei non ci tengano costretti dei metodi coi quali si nutrivano, s'approvigionavano e si conservavano gli eserciti di quei tempi, nessun trattato essendocene rimasto. Questa scienza è tuttavia nell'infanzia, e forse un dì sarà riguardata siccome un ramo dell'economia politica applicata ai bisogni degli eserciti». 12 Ma allora - aggiunge BI. - l'amministrazione era pressoché ignota, e il Re Filippo di Spagna non era in grado di pagare i suoi eserciti, i quali spesso si ammutinavano. Questa era una delle conseguenze della cattiva amministrazione tipica della monarchia spagnola, «i cui effetti dolorosi si risentono ancora dopo qualche secolo negli Stati che ne hanno più lungamente fatto parte» 13 [evidente il riferimento all ' Italia N.d.a.J. Gli eserciti vivevano con il sistema delle requisizioni che pesavano più o meno sul paese, e che l'amministrazione militare tendeva a regolarizzare. «In effetto Vallstcin e Gustavo Adolfo vivevano egualmente a spese dei Paesi nei quali operavano: ma ValJstein era considerato come un flagello e Gustavo come un protettore, perché l'uno dilapidava e l'altro regolarizzava ciò che esigevano in tributi». L' artiglieri a e il genio già formavano corpi specializzati a parte, e già si richiedevano cognizioni scientifiche agli ufficiali che dovevano farne parte: «inoltre abbisognavano il materiale degli arsenali e un sistema amministrativo, il quale era imperfetto e reso pressoché inutile, perché gli Stati faceano delle guerre lunghe e non aveano come soddisfarne le spese con imposte e prestiti, giacché le prime erano in ispropozione coi mezzi e i secon<li erano ignoti».14 11 sesto discorso (1648-1718) va dalla pace di Westfalia a quella di Passarowitz, periodo politicamente caratterizzato dal rafforzamento dell'istituto monarchico che segna - per il BI. - l'inizio in campo politico e militare dell'era moderna, con istituzioni militari compiute. Il BI. lo divide in due fasi: dalla pace di Westfalia a quella di Nimega (1679) e dalla pace di Nimega a quella di Passarowitz. Nel primo periodo le armi sono ancora miste (bianche e da fuoco), ma nel1a fanteria il fuoco tende
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ivi, p. 119.
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ibidem. ivi, pp. 126-127.
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a prevalere sul movimento mentre l'artiglieria si perfeziona e aumenta la sua mobilità. Di conseguenza le formazioni adottate sul campo di battaglia si modificano: nella fanteria - che prevale sulla cavalleria - la profondità varia da 5 a 3 righe e si diffonde la suddivisione in compagnie, battaglioni e reggimenti. La disfatta deJle truppe spagnole a Rocroy (1643) e delle truppe svizzere a Marignano (1515) è da ritenere, per il Bl., l'ultimo colpo portato aJl'ordine profondo: ciononostante l'ordine sottile stenta ancora ad affermarsi. Più favorevole - sempre nel primo periodo - la situazione della strategia: gli eserciti sono ancora poco numerosi e quindi sono molto mobili. Le battaglie vengono decise più dalla rapidità dei movimenti, che dalla sapiente disposizione delle forze sul campo di battaglia e dall'intelligente impiego delle riserve. Nel secondo periodo (dopo il 1679), nonostante le condizioni più favorevoli (abolizione deJle picche, adozione del fucile con baionetta, tendenza a ridurre ulteriormente la profondità degli ordini, fortificazione elevata a scienza esatta, preponderanza deJl'artiglieria e deJle armi da fuoco) né la tattica né la strategia progrediscono, e la guerra di posizione prevale sulla guerra di movimento. Manca ancora la compilazione di un piano di campagna, e la strategia «non s'innalzò ad alti concepimenti per l'accrescimento delle masse che, togliendo loro ogni mobilità, inviluppò per così dire il genio nella difficoltà di muovere e di nutrire eserciti così numerosi [... ] L'offensiva mancava ancora di energia: non rapidi movimenti operati sul campo di battaglia, non alcun artifizio di tattica per modificare l'ordine primitivo». 15 Nel campo tattico la fanteria non riesce ancora a reggere gli attacchi della cavalleria. Poiché il vero scopo della tattica consiste nel combinare la solidità con la mobilità, e nel passare rapidamente dalle formazioni richieste per la difesa a quelle tipiche dell'attacco, «l'abolizione delle picche e la diminuzione della profondità non erano per anco supplite dalla solidità necessaria per sostenere la cavalleria formando un corpo profondo, né dal perfezionamento del fuoco combinato colla bajonetta: giacché non si era ritrovata la maniera colla quale oggidì formansi quadrati pieni e vuoti, e si dà ad essi una posizione che li faccia scambievolmente sostenere, in modo da improvvisare un sistema di fortificazioni. Né si era tolto l'inconveniente della poca celerità e della imperfezione del fuoco, cagionate dalla bacchetta di legno e dal non sapere incannare la baionetta senza impedire l'uso offensivo del fucile». 16 Ciononostante l'istituzione militare diventa un sistema organico: l'i15 16
ivi, pp. 139-141. ivi, pp. 137-138.
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stituzione di collegi militari è «il segnale chiarissimo» che la guerra è divenuta una scienza collegata ad altre scienze. Anche il progresso della marina militare corrisponde al progresso «della società, del commercio, dell'industria, e del vincolo che unisce le forze conservatrici e produttrici». L' «amministrazione militare» [cioè l'odierna logistica - N.d.a.] compie anch'essa un salto di qualità, «in ragion composta dei progressi dello Stato e dei bisogni dell'esercito. Da ciò ebbero origine codici militari, sistemi di somministrazione, contabilità dei corpi, separazione degli amministratori militari dai combattenti, stabilimento di caserme e di ospedali ecc .. La sola creazione degli amministratori militari dividendo il lavoro ne dimostra il progresso, e Louvois è considerato come l'autore di questo ramo importante». 17 Tuttavia - aggiunge BI. - il nuovo sistema fortificato di Vauban non raggiunge lo scopo di arrecare sollievo ai popoli presso i quali si fa la guerra e al tempo stesso riesce funesto agli eserciti. «I movimenti divennero più tardi, la guerra più costosa, le perdite più affliggenti»; ne scapitava anche 1a moralità, visto che, a dispetto dei sacrifici e del valore dei combattenti, «gli amministratori erano quelli che, meno soffrendo, più fortuna acquistavano». Infine due provvedimenti innovativi adottati sotto Luigi XIV, l'istituzione di un ospedale per i vecchi soldati invalidi e «la riunione delle carte, dé piani e delle memorie al deposito di guerra», dimostrano che la guerra è ormai diventata scienza e arte: «scienza, perché bisognava· conservare le idee e le tradizioni; arte, perché gli uomini che vi si dedicavano il facevano a vita e non a tempo» [dunque: arte solo nel senso di professione o mestiere -N.d.a.]. L'esempio di tutto questo sono gli ordinamenti militari di Luigi XIV, dove si trovano per intero le componenti di ogni moderno esercito: «lo spettacolo di tutto ciò altro non può denotare se non essere quello di una società particolare nello Stato, la quale in sé il comprende e riassume, giacché tutte le classificazioni vi sono rappresentate. E poiché questa società ha nel suo seno le leggi, arti, religione, scienze, ricompense, tradizioni, istoria, lo Stato che la comprende dovrà averne ancora il più alto grado» .18 l discorsi settimo (dal trattato di Passarowitz alla Rivoluzione Francese - 1718/1789) e ottavo (dal 1789 al Congresso di Vienna del 1815) sono i più importanti, perché toccano da vicino le reali innovazioni introdotte dalla Rivoluzione Francese e da Napoleone e il loro rapporto con Federico ll e l'arte militare precedente: periodo sul quale abbiamo 17 18
ivi, p. 144. ivi, p. 154.
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già cercato di chiarire le posizioni e ci siamo già pronunciati (vds. capitoli II e Ili). L'interrogativo da sciogliere è duplice: fino a che punto il B1. coglie - in questa occasione - la reale carica innovatrice della strategia che prende forma dopo il 1789 e le cause essenzialmente politico-sociali dei mutamenti? e fino a che punto la guerra rapida, decisiva «artistica», basata sul coup d'oeil di Napoleone trova nel BI. la sua giusta collocazione storica? La risposta è complessa, perché l'analisi che egli compie in questi due discorsi, pur centrata su molti aspetti: a) insiste eccessivamente sul fatto che la strategia diventa definitivamente scienza, mentre se mai è vero l'opposto, visto che con Napoleone essa è arte, sublime e irripetibile; b) mette sullo stesso piano Napoleone e l'Arciduca Carlo, con la solita, eccessiva e quasi cortigiana esaltazione delle gesta e delle teorie di quest'ultimo. Non si trova, in BI., alcun accenno al fatto non marginale che dopo tutto l'Arciduca è stato duramente sconfitto da Napoleone e costretto a ritirarsi, né che la sua teoria strategica «scientifica» è esattamente l'antitesi di quella «artistica» di Napoleone, presentato quasi come suo allievo; c) al contrario di quanto fa Clausewitz, il BI. tende a considerare soprattutto il peso fisico - e non quello spirituale - della guerra di masse della Rivoluzione e di Napoleone, e riduce la guerra degli avversari di Napoleone all'applicazione contro di lui degli stessi sistemi di reclutamento su larga scala, cioè a un fatto puramente ordinativo; d) sottovaluta la tendenza a portare colpi rapidi e decisivi e a imprimere la massima rapidità alle operazioni tipica di Napoleone, trascura il suo legame con Federico Il e l'involuzione degli ordinamenti e dei metodi militari prussiani dopo quest'ultimo. Bl., per carità, dice tulto: ma anche cose che almeno in parte annacquano ciò che ha detto poche righe prima. Tipico di questo approccio non rettilineo è il suo giudizio su Napoleone, da lui definito uomo di genio, che grazie alla sua capacità di rapida analisi sapeva giungere senza idee intermedie «ai principii primitivi, per cui era sintetico come scienziato, ed era sul campo di battaglia inspirato come artista».19 Di conseguenza egli «riuniva ciò che vi è di più sublime nella scienza a quanto vi è di più alto nell'arte», rimanendo tuttavia sempre fedele ai princip'ì. Quindi va studiato ma con cautela, e tenendo presente che «nel genio vi ha due parti, l'una che resta come metodo, ed è la parte umana, l'altra è la divina: la prima è da tutti, l'altra da pochi». 19
ivi, p. 234.
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Dopo di questo, il Bl. non mette però in rilievo né la strategia di Federico II, né il raccordo che essa ha con Napoleone. In compenso afferma che, dopo il 1789 «la strategia acquistò tale importanza, fece tali progressi, che rivestì interamente presso gli scrittori militari che ne trattarono, il carattere di una scienza, se non esatta, quasi che esatta» [ ma, allora, dove sta il genio di Napoleone? è riducibile a formule? - N.d.a.]. D'altro canto, il Bl. non sente nemmeno il bisogno di mettere un pò di ordine nel diverso modo di intendere la strategia (anche dal punto di vista filologico) degli autori del periodo. Smaccata e ingiustificata, invece, l'esaltazione dell'Arciduca Carlo e la parallela diminutio capilis della strategia di Napoleone, fino a presentare - seguendo in questo Jomini come un caso fortuito, un «raro fenomeno che difficilmente si rinnoverà», quel monumento di strategia che è invece stata la campagna d'Italia. In tal modo l'Arciduca Carlo, riconducendo la strategia alla sua gran regola di operare in massa, che la guerra rlé sette anni aveva s'ì hen dimostrato [ma prima di lui lo aveva fatto Carnot - N.d.a.] salvò la Germania dall'invasione, e se la guerra fu in ultimo favorevole ai francesi, secondo che ne fa fede la pace di Campoformio, ciò fu dovuto al duce delle armi francesi in Italia, il quale applicò con maggior vigoria il sistema che il principe austriaco aveva seguito in Germania, e dié luogo a un raro fenomeno che difficilmente si rinnoverà, vale a dire che la casa d'Austria fu minacciata nella parte men vulnerabile delle sue frontiere, cioè in quella che è custodita dalle Alpi Noriche e Rezie. A Montenotte, a Lonato, a Castiglione e a Rivoli si videro i miracoli della strategia, e i risultamenti di Wurzburg in Germania ne furono la controprova: 20 In nota il BI. (ricordiamo in proposito, le c,Titiche di Jomini) definisce «falsissimo» il piano del Direttorio di attaccare l'Austria attraverso la sua frontiera meglio difesa, cioè dal Tirolo e dalle province illiriche. E le strepitose vittorie di Napoleone anziché dare ragione a questo piano diventano rischiose imprese, come se non fosse una delle doti principali del condottiero la capacità di correre rischi: «malgrado i prodigi di scienza [non arte? - N.d.a.] e di valore del Capitano francese e del suo esercito, a Lodi, a Castiglione, ad Arcole ed a Rivoli si corse rischio di perdere tutto il frutto delle più belle operazioni già fatte, e di tornare al pié delle Alpi L... J Alla vigilia di segnare i preliminari di pace la posizione del ge-
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ivi, p. 217.
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nerale francese era molto azzardata ... ». 21 Per il BJ. dunque, si dovrebbe vincere senza rischiare, il che è sempre stato difficile. E l'Arciduca Carlo diventa «il primo che diede una forma dimostrativa alla scienza» (il che non è vero), colui che nella campagna del 1796 ha applicato «le regole di sana strategia» contro i francesi e che nel suo libro su tale campagna «come Polibio attribuisce i rovesci e le riuscite delle potenze belligeranti all'aver esse seguite o violate le regole di strategia». 22 Dunque non è stato gran condottiero e gran teorico, visto che le ha anche violate... Duole constatare che, su queste questioni capitali, il Bl. non afferra certo il bandolo della matassa. Ciò che dice sa di scolastico e di imparaticcio, con analisi e citazioni di seconda mano dove non si scevera bene la materia e ci si limita a generiche lodi e superficiali giudizi. Ciò non toglie che su altri aspetti i suoi giudizi siano assai più centrati: dai progressi del1a tattica prussiana all'aumento della mobilità dell'artiglieria (sistema Gribeauval) , al perfezionamento del fucile applicandovi un nuovo tipo di baionetta che non impedisce il fuoco, alla costituzione della divisione e del corpo d'armata come Grandi Unità autonome, alla strategia di masse della Rivoluzione adottata da Carnot perché la Francia era costretta a risolvere il problema di «muovere masse numerose, poco istruite e con capi nuovi nell'arte, contro avversari che possedevano gli opposti vantaggi». Da ricordare anche gli accenni all'importanza delle linee di comunicazione e al parallelo fallimento della logistica napoleonica, per quanto più razionalmente organizzata rispetto al passato. Con il passaggio dal sistema delle requisizioni e dei convogli alle requisizioni locali essa «non ebbe più importanza né azione, e fu subordinata ai capi militari di cui diveniva un 'passivo strumento. Così accrebbe talvolta il male, facendo patire ad un tempo le truppe e i paesi». 23 Altro importante mutamento, «la castramentazione subì una compiuta modificazione e fu quasi distrutta, la mobilità essendo divenuta lo scopo principale degli eserciti. Giusta l'esempio dei francesi le tende furono aboUte, e all'attendarsi sottentrarono il serenare e il barricarsi nelle posizioni più lungamente occupate». 24 Per ultimo, egli sottolinea l'importanza assunta dalla geografia e dagli Stati Maggiori, e il riordino dell'amministrazione militare intesa in senso lato, al quale va però contrapposta la crisi della logistica:
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ivi, pp. 217-218. ivi, p. 231. 21 ivi, p. 227. 24 ivi, p. 226. 22
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è cosa evidente che in un sistema di guerra simile a quello che ab-
biamo esposto, l'importanza del terreno, sotto l'aspetto tattico e strategico, ed anche amministrativo, era immensa; e perciò lo stato maggiore doveva acquistare una alta importanza; e con esso acquistarne dovevano tutti i lavori topografici, la riunione de documenti, e le memorie descrittive. In effetto il deposito della guerra divenne una grande istituzione, il che dovea essere quando nel primo periodo della guerra un comitato sedente nella metropoli aveva diretti più eserciti operanti in luoghi diversi. Tutte le potenze belligeranti imitarono la Francia, e nel secondo periodo lo stato maggiore francese, cosl per istruzione come per considerazione, era inferiore a quello degli altri stati. La parte scientifica riguardava gli uffi ziali del Genio, e quelli segnatamente ch'erano addetti alla topografia. È stato rimproverato a Napoleone l'abbandono in cui lasciò lo stato maggiore, e certo non è mai da scusare chi tien male ciò che è destinato ad essere buono, mentre costa lo stesso e rende meno: ma d'altra parte bisogna riflettere che l'influenza dello stato maggiore, la quale si accresce in ragione che l'esperienza e la scienza mancano in un esercito, diminuisce in ragione che l'una e l'altra sono più sparse. Questo appunto fu il caso in Francia durante le guerre dell' Impero, oltre di che il capo supremo comandava in persona, ed aveva il suo stato maggiore particolare. li Genio ebbe nei zappatori delle truppe pel servizio dell'arma; il treno e gli equipaggi militari furono sottomessi alla disciplina comune ed offerirono tutti i vantaggi della regolare milizia; e gli infermieri finanche furono militarmente ordinati. Il carattere scientifico appariva in tutte queste istituzioni, mentre le scuole militari acquistavano nuovo splendore, massime la Politecnica, la quale più in là ci faremo a considerare sotto un aspetto diverso. L' amministrazione militare fu più razionalmente ordinata, e l'ultimo passo di essa fu la separazione del personale dal materiale, colla creazione degli ispettori alle riviste. In Francia ciò avvenne nel secondo periodo, dopo il 1800, e il Ministero stesso della Guerra fu diviso .in due dipartimenti indipendenti, e vi si aggiunse il Maggior generale che presiedeva ai movimenti militari d' importanza in tempo di guerra. Ma l'amministrazione militare, malgrado qualche perfezionamento, dal momento in cui i movimenti furono cosl rapidi, e che al sistema dé magazzini e dei convogli venne sostituito quello di requisizione locale, non ebbe più né importanza né azione, e fu subordinata ai capi militari di cui diveniva un passivo istrumento. Così accrebbe talvolta il male, facendo patire ad un tempo le truppe e i paesi, senza impedire le depredazioni fatte, o tollerate per lo meno, da chi più poteva. E i paesi tutti e gli eserciti han conservato trista memoria della militare amministrazione, la quale, una volta discreditata, non fu più, come accade, ritenuta dal
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pudore, e rese vere le accuse che le si mossero contro. Del resto quel genere di guerra, ripetiamolo pure, non ammetteva la possibilità di un ordine amministrativo regolare, talché gli eserciti del nord, strascinati dalle circostanze han dovuto rinunziare ai metodi severi ed esatti della loro amministrazione, per adattarsi ai bisogni del tempo, e lo Sthuthereim rileva questa disposizione parlando della battaglia di Austerlitz da lui descritta. D'altra parte non dee tacersi che un codice amministrativo, una contabilità più regolare, han preparato gli elementi propri ad innalzare al grado di scienza questa parte della guerra, in armonia con gli stati ove l'ordine amministrativo ordinavasi giusta i proprii metodi. E per notare qualcuna di queste invenzioni della Inilitare amministrazione, citeremo quella dei fogli di rotta, in virtù dei quali un individuo poteva percorrere tutta l'Europa colla sicurezza di veder rispettati i propri diritti.25
Un quadro efficace e condivisibile, dal quale si deduce che dopo tutto, anche l'amministrazione militare nel senso lato e attuale del termine compie con Napoleone dei notevolissimi progressi. Ma per quanto attiene alla logistica di campagna, ciò che dice il BL è solo il rovescio della medaglia della strategia napoleonica, che pure ha fornito dei risultati rimasti in gran parte un modello insuperato: questo il BI. doveva ben dirlo, e non lo ha fatto. Poiché il nono e ultimo discorso non ha come i precedenti dei confini storici e dei caratteri propri, ma tratta tematiche di carattere generale che non investono le questioni di fondo, ci si può chiedere se e fino a che punto va condiviso il giudizio non proprio entusiastico di Benedetto Croce, la cui ottica - come già detto - rimane quella del filosofo e del filosofo della storia, quindi non è la nostra. Ebbene, riteniamo fin troppo severo il giudizio sul «racconto che procede povero e generico»: la lettura di Nove discorsi è anzi stimolante e consigliabile - anche oggi - a chi voglia individuare le radici profonde della strategia e della logistica e avere un'idea dei mutamenti dell'istituzione militare. Ciononostante, non ci sentiamo di unirci al coro di lodi incondizionate e d'obbligo che latotalità degli scrittori militari tributa al BI., lodi tutte incentrate - con diverse sfumature - sulla sua analisi della guerra come fatto sociale, dunque sul rapporto storicamente univoco tra società, scienza, economia, industria ecc. e istituzioni, ordinamenti, strategie e tattiche militari delle varie epoche. Se fosse solo per questo, il BL - come osserva lo stesso Croce - direbbe cose se non ovvie, abbastanza scontate, e inconsciamen-
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ivi, pp. 226-228.
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te ripercorrerebbe le tracce di Clausewitz, autore a lui certamente non noto. Nemmeno i problemi che in senso lato egli tratta (se la guerra sia un'anomalia o un fatto naturale; relazioni tra stato sociale e scienza della guerra; raccordi tra scienza della guerra e arti e scienze, industria ed economia ecc.) hanno il crisma della novità assoluta, ché qualsivoglia scrittore o teorico militare di un certo spessore, non li può non toccare in qualche modo: tutto si riduce, dunque, a vedere come procede il suoragionamento e a chi si ispira, tenendo presente che le lodi a Jomini e all'Arciduca Carlo non sono affatto giustificate nemmeno sotto l'aspetto del rapporto istituzioni militari/società. Anzi, tali lodi sono in contraddizione con quanto lo stesso Bl. sostiene, visto che sullo sfondo delle loro opere vi è la strategia con i suoi principi immanenti, non la sua evoluzione in rapporto alla società e comunque a fattori non strettamente militari. Scorrendo le pagine del Bl. troviamo una conferma, e una delusione. Una conferma perché - cosa finora non notata da alcuno - si ispira al Foscolo da lui in diverse parti citato, e troviamo nella sua opera riferimenti al Machiavelli_e soprattutto al Montecuccoli e al Palmieri. Il BI. anche se non mette l'Ttalia al centro della sua riflessione - s' innesta pienamente nelle tradizioni autentiche del pensiero militare italiano. E cogliamo l' influsso del Foscolo nell'architettura stessa dei No, •e discorsi, divisi in età che, come diceva il Foscolo nella pagina a suo tempo citata, sono «determinate dalle solenni rivoluzioni di quelle parti del mondo illuminate dalle tradizioni storiche». Dunque un'opera non solo nazionale, né attenta solamente ai fatti militari, perché - è sempre il Foscolo che parla - «per giungere ai principi, e fissare la loro invariabilità, bisogna risalire per la scala di tutti i tempi, di tutti i fatti e di tutti gli agenti». E chi è, chi non vuole essere il Bl., se non quello «scrittore di mente filosofica, d'animo liberissimo e di vita guerriera (rare doti a conciliarsi) fchel con lo studio degli autori antichi e moderni, delle imprese di tutti i grandi guerrieri, delle scienze che giovarono alla istituzione, alla economia, alla tattica, alla strategia e alla fortificazione, estrarrà una storia dell'arte della guerra», del quale parla il Foscolo?26 Parole, queste del Foscolo, che sono il succo di pagine integralmente citate dal BI., a conclusione dei Nove discorsi. Opera ciclopica questa, e tale da richiedere il sacrificio di tutta una vita: non c'è da meravigliarsi che il Foscolo, grande ma incostante ingegno e animo d 'artista più che di dotto, non l'abbia nemmeno tentata, e che lo stesso BI. la delinei nei Nove discorsi ma non la concluda mai, nemmeno nei numerosi scritti inediti. A questo punto ciò che si deve 26
U. Foscolo, Op. cit., p. 49.
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cercare nel Bl. appare chiaro: non un'analisi esaustiva ma una prima impostazione della problematica, delle idee, degli scorci. È proprio sotto questo aspetto che la sua opera merita tuttora di essere letta e meditata: su un cammino così lungo percorso con gli stivali delle sette leghe, nondimeno ci si imbatte continuamente in preziose interpretazioni, in sc~rci che aprono panorami più vasti, in gemme sparse insomma, tali da costituire materia per indagini più mirate e da indicare - da sole - in che cosa consiste il pregio autentico dell'opera. Dov'è, dunque, la delusione? Non è certamente nel sostanziale determinismo scientifico e storico che volentieri gli perdoniamo, e nemmeno ne] tentativo - rimasto a metà ma sempre utile e meritorio - di sottoporre la storia a un metodo d'indagine scientifica, mirante a presentare - come del resto già faceva il Foscolo - l'arte militare e la sua storia soprattutto come scienza, come sistema compiuto soggetto a propri princ.ip'ì, leggi e regole. Ciò che delude è anzitutto l'assenza di un'impostazione di fondo coerente, alla quale riferire cuslanlcmente la complessa materia. Il Bl. dice tutto, ma spesso anche il contrario di tutto: e allora qual'è il suo vero pensiero? la sua opera è forse la risultante non organica di una serie di apporti e influenze mal digerite? Il secondo aspetto che lo distingue non positivamente dalla quasi totalità degli scrittori italiani coevi, napoletani e non, è la mancanza nel BI. - scrittore militare «cosmopolita» - del Bl. italiano, e persino del Bl. napoletano. Su questo punto, farebbe ben sperare quanto il Bl. afferma a proposito delle condizioni dell'Italia nel periodo che precede la Rivoluzione Francese: «la vita attiva era quasi che spenta negli individui, nessuno sforzo si esigeva da essi, né dalle masse, per cooperare a un ordine di cose che procedeva naturalmente [...] Ben trista era una sì fatta disposizione per affrontare quella serie di solenni e gravi avvenimenti che doveano sconvolgere la penisola dalle Alpi al faro» [cioè fino a Reggio Calabria - N.d.a.]. «Affrontare» come? puntellando l'assetto italiano esistente contro l'impeto della Rivoluzione e le sue milizie, oppure rovesciando i principi nemici della Rivoluzione? Quel poco - troppo poco, e non può essere fatto casuale - che il Bl. scrive un pò più avanti, porta piuttosto ad accreditare la prima ipotesi. Anche se l'Italia in quanto tale non ha avuto alcun peso, nelle guerre napoleoniche «circa dugentomila italiani sotto nomi diversi, e combattendo anche per cause opposte, comparvero con onore sul campo di battaglia». E fu così dimostrato, anche in campo civile, che «nella lunga pace nulla si era perduto d'intelligenza e di energia in quest'antica e illustre famiglia d'Europa».
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Benissimo: è quanto dicono il Foscolo e tanti altri. Ma, subito dopo, la Restaurazione viene letta dal BI. in chiave «continuista», positiva, persino progressista. Con la restituzione agli antichi sovrani dei vari Stati italiani «le repubbliche LVenezia, Genova - N.d.a] e tutte le istituzioni del Medio Evo scomparvero, ed in molti Stati furono sanzionate in parte le istituzioni che la conquista avea seco recate, ma che essendo in armonia con la civiltà dell'Italia, erano state reclamate dà suoi sapienti e cominciate a introdurre dà suoi antichi Sovrani». Quest'ultimo e non negativo giudizio è assai poco in armonia con la precedente affermazione a proposito della «trista era» che in Italia precede il 1789: ma dopo viene un'elencazione degli aspetti positivi del congresso di Vienna, senza mai parlare dell'Italia e del predominio che vi esercita l'Austria. TI BI. in questa occasione si tiene molto sulle generali , e nota solo la prevalenza acquistata dagli Stati settentrionali d'Europa su quelli meridionali, dovuta «all'importanza della Russia e della Prussia, all'abbassamento della Francia, alla poca importanza delle due Peni sole IItaliana e Iberica - N.d.a.] e ali' isolamento dell'Inghilterra, che non trova alleati [ma non li vuole! - N.d.a.] né nell'oriente, né nel settentrione». E i vantaggi del Congresso di Vienna per il BI. sono tanti : abolizione del feudalesimo e della tratta dei negri , distmzione o riforma delle repuhhli che medioevali, riconoscimento dei fatti compiuti, «garanzia dé diritti» Lquali'! - N.d.al acquistati neHa rivoluzione e nelle sue fasi, «Lega tra le grandi potenze per conservare la pace, e per conseguenza abbandono (sic) di tutti gli antichi risentimenti delle potenze fra loro» ... A Vienna, dunque, secondo il BI. non si torna indietro, ma si va avanti; non si ripristina l'antico, ma al contrario, si aboliscono vecchie strutture: poco importa se tra queste si trovano le gloriose Repubbliche Marinare italiane ... Ecco dove porta un concetto sostanzialmente deterministico della storia. Anche sul piano più strettamente tecnico-militare egli vorrebbe dimostrare il contrario di questo asserto recente: «i mezzi della guerra si perfezionano (perfettibilità-tecnica): l' arte della guerra varia, ma non si può dire che progredisca. (Parlare di evoluzione deH' arte della guerra, come si fa spesso, è un errore ...)».27 Ma in molti casi devia da un percorso, che vorrebbe essere rettilineo, e non lo può o non lo può sempre: ed è periodicamente costretto ad ammettere - come Clausewitz - il peso di fattori morali e spirituali, del caso, della fortuna, delle passioni. Tutto questo dovrebbe portarlo a una critica originale e puntuale delle teorie di Jomini e dell'Arciduca Carlo, da lui invece lodate oltre misura, come se non rappresentassero a loro volta un momento evolutivo.
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R. Alberini, Art. cit..
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Né l'italiano BI. spiega a sufficienza, come e perché l'Italia si discosta spesso e volentieri - in campo politico e militare - dalle linee di tendenza omogenee che egli individua per l'Europa nelle varie fasi storiche. Secondo Ugo Foscolo, nell'individuare le linee portanti della storia non bisogna fermarsi all'Italia; e Cesare Balbo inserisce l'Italia - suo principale riferimento - in Europa. Bl. invece spazia in Europa e nel mondo, ma è stranamente eva<;ivo sull'Italia e la sua storia. Forse non lo può fare nel clima napoletano del tempo, e per concrete, comprensibili ragioni di censura: ma il fatto rimane. Così come rimane un altro fatto: il suo evoluzionismo socio-politico lo porta a delineare bene i vari passaggi, e così nella sua analisi la nobiltà feudale diventa prima serva dei re e poi cede le armi alla borghesia. Ma qui tutto si ferma: è nota l'avversione di Bl. per le teorie e prassi democratiche - militari e non - che tendono a spingere I'orizzonte politico e militare oltre la borghesia. Qui i casi sono due: o non si è per il determinismo o lo si è, e in questo ultimo caso si deve accettarne le conseguenze anche spiacevoli, senza pretendere di bloccare l'inesorabile processo storico nel momento in cui ciò ci aggrada. Così come, non si può individuare nella storia d'Europa - come fa il Bl. - una progressiva tendenza alla costituzione di Stati nazionali e unitari, e poi ostacolare - come egli fa negli scritti su Omnibus nell'aprile-maggio 1848 - il concreto processo di unificazione nazionale, legato a un impiego unitario delle forze militari. E perché, lui italiano, non esamina almeno in linea teorica i riflessi italiani della tendenza unitaria europea? E ancora: quale fervido patriota e coerente teorico politico-militare egli può essere, se - come scrive il suo biografo N. Cortese - «il B. nel 1848-1849 non fu in grado di comprendere il significato della lotta per l'indipendenza e l'unità italiana [... ] Scettico sulla possibilità di creare a Napoli un governo costituzionale[ ... ] il BI. finiva per auspicare il ritorno a un dispotismo illuminato di tipo murattiano o addirittura l'occupazione del Regno da parte di «una nazione più civile», quale l' Inghilterra, la Francia o I' Austria». 28 Se è così, dov'è il sentimento patriottico, l ' istanza di autonomo riscatto nazionale e militare contro l'ingerenza straniera che è punto fermo di tanti altri scrittori e politici coevi? e dov'è la prospettiva nazionale, in una visione che non va oltre Napoli? Le contraddizioni continuano, anzi sono più articolate e incessanti, quando il BI. affronta la parte più propriamente teorica dell'arte militare e della sua ripartizione, e indaga sulla natura della strategia; quest'ultima per il Bl. non è propriamente una scienza esatta, ma da questa constata-
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«Dizionario Biografico degli fta]jani », Voi. X p. 775.
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zione non trae conclusioni coerenti. Riproducendo su scala più vasta le contraddizioni di Jomini, egli scivola piuttosto nel campo di una concezione scientifica e geometrica della guerra, e riferendosi al periodo 1718-1789 afferma che già esistevano particolareggiati piani di campagna «stabiliti sulle conoscenze anteriori, topografiche e descrittive» e che in questi piani si pretendeva di calcolare tutta la serie di operazioni da condurre, sia in caso di successo che di sconfitta nel perseguire gli obiettivi fissati: e però a torto voleasi trattare come scienza esatta quella che, avendo moltissimi dati ignoti, non può essere se non una scienza per così dire approssimativa. Ma questa esagerazione del valor della scienza ne dimostra appunto la sua esistenza e il suo primo periodo. Sempre che lo spirito umano scopre un metodo, è nella sua natura di credersi giunto a quella superiorità ideale a cui aspira. Dà in conseguenza alla scienza più nuova un merito e degli effetti superiori alla realtà; in seguito i progredimenti stessi della scienza fanno che sia ridotto al suo reale valore. Ciò è addivenuto della strategia scientificamente considerata.29
Che cosa significa «scienza approssimativa«? Una quasi-scienza? Una mezza scienza? Insomma, la guerra è scienza o no? E per scienza, Bl. intende semplice studio e conoscenza di tutto ciò che la riguarda, oppure un sistema, una disciplina compiuta? Su questi aspetti fondamentali le risposte di BI. sono tutt'altro che univoche e chiare e risultano spesso contraddittorie, forse per il carattere di work in progress del suo lavoro. Se guarda alla guerra come scienza, a volte parla anche di arte. Nulla di male in ciò: sempre per il periodo dal 1718 al 1789, afferma che il progresso delle scienze sperimentali e dunque delle scienze in generale, faceva nascere un legame tra arti e scienze, «talchè le prime non erano se non l'applicazione delle seconde astrattamente considerata», accrescendo così l'importanza degli artisti senza diminuire quella degli scienziati.30 Della guerra ha una visione morale ed etica legata alla natura umana: non si diffonde, come Jomini e l'Enciclopedia Francese, sui vari tipi di guerra, non ne dà come Clausewitz una definizione né ne esamina la natura in relazione alla politica: si limita a osservare che, al di là delle apparenze e delle condanne, «la disposizione alla guerra nasce dalla nostra natura, e non dalla sua corruttela» perché è l'espressione del naturale sentimento di difesa, necessario allo sviluppo della natura umana non
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L. Blanch, Op. cit., p. 171. ivi, p. 190.
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meno che alla sua esistenza. E quando tale sentimento degenera in offesa, la guerra «non è già l'effetto della natura corrotta, ma effetto bensì dell'abuso operato del sentimento il più nobile, e insieme il più utile all'uomo e alla società». 31 Nel discorso nono tratta i rapporti della guerra con le arti e la letteratura, visti come espressioni del sentimento che esalta i valori morali dell'uomo in guerra, concludendo che la «la scultura del pari che la pittura, la musica egualmente che la Poesia hanno molteplici rapporti con la guerra». 32 Questa impostazione di primo acchito farebbe pensare a un concetto clausewitziano della guerra; malauguratamente compare accanto ad essa un'enfasi tutta jominiana sulla guerra come scienza esatta e su una dubbia dicotomia tra pensiero e azione, visto che - per Bl. - l'arte non entra nella guerra come scienza, progetto, calcolo, organizzazione, e riguarda solo la fase esecutiva (sarebbe come dire: il genio, la capacità individuale, la fantasia del capo non si vedono nella preparazione e organizzazione, ma solo nella condotta): la guerra senza dubbio come scienza poggia sulle scienze esatte, perché nel complesso delle sue operazioni si riduce a un calcolo di spazio e tempo[... ] Se è vero che tutte le arti elevate a principi generali si trasformano in scienze, così come tutte le scienze discendendo alla pratica applicazione assumono il carattere di arti, la guerra ancora deve seguire questa legge comune. 33
Per Clausewilz avveniva esattamente l'opposto: la strategia era il sommo dell'arte, non aveva nulla della scienza, non ammetteva leggi univoche e costanti, mentre per BI. - in piena sintonia con Jomini - «la strategia non consiste se non nelle leggi della guerra, ed applichiamo la definizione di Montesquieu, che considera le leggi come rapporti tra le cose; vale a dire naturali, eterne, che l'uomo non crea, che può scoprire con la scienza, sconoscerli quando n'è puro, ma anche in questo caso averne l'istinto e il presentimento».34 Non si tratta sempre - prosegue il BI. - di un'acquisizione graduale (da parte dei popoli, degli scienziati e dei generali) di queste leggi naturali: vi sono delle fasi di «decadenza» anche morale e spirituale, come quella corrispondente al primo periodo del medioevo. Quindi, da una parte per il BI. si tratta di scoprire delle 31
ivi, p. 45. ivi, p. 261. 33 ivi, p. 267. 34 ivi, p. 91 . 32
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leggi e dei principì (che però - osserviamo noi - una volta scoperti dovrebbero rimanere validi ed essere costantemente operanti); dall'altra, l'arte militare è soggetta a fasi di rinvigorimento, rinascita, decadenza, dove non valgono più i principì, le leggi eterne e naturali, ma le condizioni sociopolitiche, economiche, il progresso de11e scienze ecc. che inesorabilmente determinano lo stato dell'arte militare del tempo. Insomma, se la scienza o arte militare - come tutte - ubbidisce a principi eterni e naturali, allora non dovrebbe risentire più di tanto de11e trasformazioni sociali e del1e scoperte scientifiche. Invece a proposito della scoperla della polvere il BI. cita il Cuvier, secondo il quale questo avvenimento cambia l'arte della guerra, sottrae il coraggio alla superiorità della forza fisica, e impedisce addirittura che di nuovo i paesi inciviliti siano preda di azioni barbare.35 Al contrario, se «il principio conservatore delle società risiede nel loro movimento progressivo», e se Bousset, Vico, Herder e Miiller «fanno rientrare nel corso degli avvenimenti ordinarli, benché strepitosi, ciò che l'ignoranza presentava come scandali storici e morali»,36 perché questi «scandali» dovrebbero essere ammissibili solo per la scienza della guerra? Infatti, se è vero che quest'ultima è legata a11o stato della società, non si dovrebbe mai parlare di decadenza, imperfezione, ecc., ma solo di diverse fasi corrispondenti a diversi stadi del progresso sociale e scientifico, visto in chiave di continuità. BI. insiste continuamente sul fatto che la scienza della guerra non può essere separata dalle altre scienze e ne segue e riflette in ogni epoca il progressivo divenire. Ebbene, è un fatto che il progresso scientifico non ha - quali che siano le condizioni sociopolitiche del momento - delle soste o delle fasi di decadimento, ma si basa su un sistema di conoscenze e tecnologie che col tempo si perfezionano e accrescono continuamente, secondo un processo lineare: se è così, la scienza della guerra non dovrebbe an1mettere fasi di decadenza, ma solo dei mutamenti o degli adeguamenti. Se, invece, si vuol parlare di decadenza, allora essa non è più scienza, ma risente di fattori e condizioni non misurabili e diversi da que11e di altre scienze, è dunque arte nella più pura espressione del termine. Vi è perciò, nel Bl., una non chiara e poco coerente e lineare visione della guerra come scienza e come arte, con distinzioni improprie come quella che gli fa definire la guerra dal 1648 al 1718 come scienza e arte nel senso di mestiere artigianale: «scienza, perché bisognava conservare le idee e le tradizioni; arte, perché gli uomini che vi si dedicavano lo fa-
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ivi, p. 84. ivi, p. 157.
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cevano a vita e non a tempo»-37 Arte dello spadaio, come diceva Clausewitz? Né ci sembra calzante citare il Foscolo, come fa il BL, a proposito delle trasformazioni che la polvere provoca nell'arte della guerra. Il Foscolo afferma che «daUo scoprimento, dal calcolo e dall'applicazione dé principi derivano le scienze, e quindi una scienza, più o meno sviscerata, fu sempre la mente dell'arte della guerra». Quindi ricercando questi principi «si sarebbero riconciliate le diversità accidentali dei metodi antichi e moderni». 38 Dunque: la scoperta della polvere, è solo una «diversità accidentale» o una tappa fondamentale, una svolta, come la presenta il BL? E l'arte della guerra che si avvale di questa scienza, in quanto frutto di genuina e autonoma ispirazione e manifestazione dello spirito, può forse decadere? Clausewitz faceva dipendere la fisionomia reale della guerra dalle diverse istanze della politica combinate con fattori morali e spirituali_ Lo stesso Jomini attribuisce grande importanza alla politica militare, anche se non ne trae tutte le conseguenze sulle modalità di condotta della guerra, in tutti i casi ristrette all' applicazione del principio della massa. Bl. invece mostra di non considerare affatto i mutevoli influssi della politica sulla guerra, le reciproche sfere d'azione del militare e del politico e i problemi di raccordo che ne nascono. Tutto ciò che dice sull'argomento serve per avvalorare il suo concetto della guerra come scienza e come teoria, alla quale pare che tutti possano facilmente avere accesso: anche l'invasione dell'Olanda nel 1762 fu eseguita strategicamente, come lo addimostra la controversia tra il Ministro e i generali sulle operazioni da farsi: poiché l'opinar di un politico in materia guerresca, fa chiaro esser la guerra una scienza che appare per teorica, indipendentemente dalla sua pratica. 39
Dunque la pratica della guerra è indipendente dalla teoria, e la politica - come attinente alla sfera pratica - non ha alcuno rapporto con essa? Nel far consistere l'arte della guerra nella scoperta progressiva di principi immanenti, Jomini ne escludeva l'evoluzione, ché i principi erano sempre gli stessi e variavano solo le modalità di applicazione. Eppure, definendo fuggevolmente la strategia BI. si a11inea completamente a Jomini: 37
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ivi, p. 144. ivi, pp. 100-101. ivi, p. 140.
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la strategia che forma i piani di campagna e dà i metodi delle grandi operazioni di guerra, la tattica che decide delle battaglie che compiono [cioè completano - N.d.a.] i movimenti strategici e l'attacco e difesa delle piazze, che hanno per oggetto di difendere il proprio suolo o di solidamente stabilirsi su quello del nemico, costituiscono la parte alta della scienza militare.40
Tattica e strategia sono ambedue soggette al progresso, «ma benché sembri più naturale e più ragionevole che la tattica, meno sublime nei suoi metodi, dovesse progredire prima della strategia, pur nondimeno il contrario è provato dall'ìstoria militare [... ] con estrema diffidenza osiam proporre una spiegazione di questo fenomeno, e diremo (se così possiamo esprimerci) che la strategia, come tutto ciò che è generale nello scibile, si rivela più facilmente al genio qualunque sia lo stato della società: mentre che la tattica, più metodica e più artistica, ha bisogno di più condizioni prese nello stato della società per fissarsi. Osiamo ancor dire, che in un'epoca poco inoltrata in civiltà, si ritrovano uomini superiori che giungono con la forza del loro genio a penetrare le grandi leggi della natura, ma non a ridurle a metodo». 41 Discutibile approccio jominiano, assai contraddittorio: sembra che il genio militare sia qualcosa che si trova pur sempre per strada, che cresce spontaneo, e che è artificiosamente limitato alla strategia, anche se la tattica è «più artistica»: come può il genio di Napoleone segnare «un progresso» rispetto a quello di Annibale e Cesare, visto che si tratta pur sempre di «penetrare le grandi leggi della natura»? Se la tattica rispecchia le condizioni politico-sociali e la tecnologia del tempo, ne è la naturale trasposizione in campo militare, perché deve essere più difficile - e non quasi automatico - «fissarla»?. E perché la strategia, a sua volta madre della tattica, dovrebbe risentire di queste condizioni, visto che la Rivoluzione Francese e Napoleone dimostrano esattamente il contrario, facendo della strategia (e anche della logistica e degli ordinamenti) un fatto eminentemente socio-politico e lasciando la tattica, i materiali, le armi ecc. più o meno ai livelli precedenti? Bl. dimostra un approccio antidausewitziano e contraddittorio anche a proposito dello studio della scienza militare, per la quale «il metodo analitico è quello che debbe preferirsi pel suo insegnamento. Ed invero le sue regole sono state formate sulle ripetute osservazioni di tanti casi particolari, dai quali si è dedotto che bisognava così agire in casi simi-
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41
ivi, p. 91. ivi, pp. 94-95.
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li [... ] ma è ugualmente vero che per gli esseri privilegiati le regole di una scienza, considerate in senso stretto, siano più atte a comprimere che a dirigere il loro genio nella sua rapida intuizione. Uomini di questa tempra leggono nel libro della natura, e vi trovano rapporti che al talento stesso sfuggono, o solo gli scovre dopo molto tempo e lavoro ... ».42 Se è così - come già osservava Clausewitz - si tratta di regole false, quindi improponibili e da evitare: tanto più che - come riconosce il BI. in nota a piè pagina - la distanza che separa la conoscenza come scienza dall'applicazione come arte è data dalla difficoltà di determinare con esattezza - cosa che è di pochi «ove cessino le simiglianze e dove cominciano le differenze» di un caso concreto, rispetto agli exempla historica oppure ai dati di esperienza. Ne discende l'utilità dello studio della scienza militare per gli ufficiali, tenendo presente che, secondo Bl., per studio non si intende la mera lettura di testi, la mera frequenza di scuole o la semplice esperienza fornita da un lungo servizio, bensì «la meditazione e il lavoro della propria intelligenza su tutto ciò che la propria e l' altrui esperienza fornisce».43 Ne consegue che un analfaoeta dotato di spirito di osservazione e di classificazione «se compara, analizza, classifica, distingue, e fa tutte le operazioni intellettuali, avrà tosto elevato le sue sensazioni ad esperienza, e la sua esperienza a teoria». Non si può perciò dire che non ha studiato: «egli non ha letto, ma ha studiato, poiché la sua intelligenza non è stata inerte, anzi ha dovuto più operare, essendo egli privo degl'istrumenti che ne facilitano le operazioni, quali sono i metodi scientifici o la cognizione degli antecedenti».44 Non si ha esperienza vera senza studio, dunque: e l'uomo che studia, non fa che trovare da solo la linea d'azione giusta. Se di questo si tratta, il Bl. trova delle regole vere, e Clausewitz e Federico TI sottoscriverebbero queste sue parole, che peraltro passano con la massima facilità, nel filo di uno stesso ragionamento, da schemi jominiani a proposizioni clausewitziane, senza però evitare contraddizioni e senza elaborare una sintesi organica, originale, convincente e soprattutto coerente con le premesse e idee-guida. Accanto alle ombre, le luci. L'importanza della logistica, la evoluzione degli ordinamenti e del reclutamento, i progressi del materiale, dell'artiglieria e della fortificazione, la legislazione militare, il nuovo ruolo della geografia, della topografia e degli Stati Maggiori in rapporto 42
ivi, pp. 268-269. ivi, p. 279. 44 ivi, p. 271.
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all'accresciuta importanza della strategia, le scuole militari, i riflessi militari dell'introduzione del vapore: tutti argomenti affrontati senza dubbio in maniera troppo sommaria nei Nove discorsi (perché magari approfonditi in altre sedi), che però vi trovano una giusta collocazione e giudizi assai pertinenti, non senza qualche eccezione e qualche caduta. Ad esempio, BI. sostiene la dicotomia netta tra Comando e amministrazione, in questo allineandosi a Clausewitz e senza approfondire il rapporto e le interdipendenze tra i due settori, perché un conto è precisare che alle spa1le degli eserciti operanti deve operare chi - nel Paese - gestisce, sostiene e alimenta 1a guerra in armonia con le esigenze operative, e un conto è sostenere che la logistica non ha niente a che fare con il Comando operativo. Tra le pietre preziose che si trovano sparse nella sua opera maggiore, basti citare alcune considerazioni che servono a meglio lumeggiare la nascita della teoria strategica, e al tempo stesso a individuare le tendenze assolutiste e miracolistiche insite in parecchie teorie contemporanee (pensiamo allo stesso Clausewitz, ma anche a Mahan e Douhet). BI. si pronuncia sulla questione se gli antichi possedessero o no economia politica, con parole che vanno benissimo come risposta chiara e definiti va anche alla questione se essi possedessero o no una strategia militare, terrestre o marittima che dir si voglia. In proposito, egli osserva che tra i disputanti sull'economia politica degli antichi regna un equivoco, «confondendosi la cosa per sé stessa e certe regole che naturalmente si presentano, quando un individuo o una società ha un bisogno a soddisfare, con la scienza sottomessa ad un metodo razionale»; e che «certo, sotto questa forma, gli antichi non avevano economia pubblica, ma bensì la possedevano sotto il primo aspetto considerata». E parlando dello stato dell'arte della guerra dal trattato di Passorowitz (1718) alla Rivoluzione Francese del 1789, BI. scrive che «la strategia, che abbiam prima veduta istintiva, poi sottomessa a un certo calcolo e divenuta intuitiva, acquistò in questo periodo il carattere dimostrativo: e ciò proveremo non solo mercè della indicazione rapida delle operazioni strategiche, ma con l' autorità degli scrittori militari dell'epoca».45 Ecco dunque ben chiarita da BI. la distinzione tra strategia praticata e reale e strategia scritta, parlata o teorizzata in sistemi più o meno compiuti. Ne deduciamo che si può essere grandi strateghi senza aver nozione dell'esistenza di una strategia come termine dell'arte militare, come teoria, come oggetto di studio nelle Accademie e scuole, come argomento della letteratura militare, come arte o scienza oppure ancora arte e
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ivi, p. 171.
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scienza. In questo senso - e solo in questo senso - a parer nostro, non solo i sempre ricordati Alessandro, Annibale, Scipione, Cesare, ma anche i più recenti Napoleone, Wellington, Washington e Nelson sono stati grandi strateghi istintivi o intuitivi. D'altro canto - come osserva il Croce - il BI. interpreta il fenomeno della Rivoluzione Francese in chiave «continuista»,46 e questo concetto si fa sentire anche nel campo più propriamente militare: nel senso che i successi della Rivoluzione non sarebbero dovuti «alle misure del Terrore e alle passioni vili che ne sorgevano come da tutte le tirannie» ma, al contrario «alle passioni nobili, il cui fuoco si era conservato nell' esercito», mentre il fine del consolato corrisponderebbe alla tendenza tradizionale della monarchia francese, cioè di «concentrare il potere a] centro dello Stato, e farlo agire in tutta la sua circonferenza». Per il BI. la politica militare e la strategia della Rivoluzione e di Napoleone sono dunque grandi, solo nella misura in cui conservano il passato e affondano le loro radici nella robusta tradizione militare francese preesistente: siamo ben lontani dalla «rottura» spirituale e morale che lo stesso Clausewitz riconosce alla strategia di masse francese dopo il 1789. Nasce da questo atteggiamento l'interesse del BJ. per il pensiero militare francese pre-rivoluzionario, predominante in Europa nella seconda metà del secolo XVITT. Egli ha il merito di condurre un primo (e sia pur troppo sommario) tentativo di analisi e confronto degli scritti dei principali autori del periodo (Puységur, Guibert, Maizeroy ... ), in questo seguendo le tracce di Jomini. 47 Dell'Arciduca Carlo abbiamo già detto: dei tedeschi ignora Clausewitz e cita solo Btilow, degli inglesi ricorda Lloyd. Jomini viene da lui ritenuto il più importante autore del secolo XTX, così come Lloyd del secolo XVIIl e Feuquières del secolo XVII.48 Non è del tutto esatto affermare, come fa il Bl., che Jomini giudica «come un'aberrazione della scienza le prime guerre della rivoluzione, fatte più secondo il sistema di Btilow che secondo quello di Federico, attribuendo i1 buon successo dei Francesi alla violazione, che i loro avversari facevano ugualmente di questi principi, mentre non avevano tutti i vantaggi di altra natura dei quali erano in possesso i Francesi».49 Dove sono, allora, i meriti di Carnot? come può una grande vittoria essere dovuta a «un'aberrazione della scienza»? Jomini non è così categorico, non parla di aberrazione e non cita Btilow in proposito: si limita a sostenere - a
46
B. Croce, Storia della storiografia ... (cit.), Vol. II, pp. 23-24. L. Blanch, Op. cit. , pp. 180-184. 48 ivi, pp. 145-146 e 229-230. 49 ivi, p. 230. 47
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torto - che in queste prime campagne, e in particolare in quella d'Italia, non sempre si è verificata una coerente applicazione del principio della massa, mentre tale principio è stato ancor meno applicato dagli avversari degli eserciti francesi. Tra principi imperfetti e aberranti, c'è differenza! L'influsso preminente degli autori militari francesi pre-rivoluzionari favorisce senza dubbio, in BI., la sottovalutazione della svolta napoleonica e ne fa un illuminista militare in ritardo, tendenzia1mente portato a concepire l'arte della guerra come sistema scientifico compiuto. Ma un siffatto tipo d'approccio all'arte militare ha anche i suoi vantaggi , e lo aiuta a cogliere meglio di tanti altri - siamo nel 1832 - l'importanza militare della nuova macchina a vapore, e - al tempo stesso - a giudicare con prudenza ed equilibrio l'esperienza di guerre nazionali - come quelle americana e spagnola - dove l'entusiasmo e lo spirito combatlivo dei cittadini - soldati improvvisati, i fattori prettamente spirituali in somma, avevano sostituito validamente il materiale e l'addestramento. A proposito del vapore, egli rettamente osserva che le guerre posteriori a1 congresso di Vienna non sono nei limiti che ci siam prescritti; ma nessuna grande innovazione vi si è veduta, e noi crediamo che la novità desiderata dall'arte, e la nuova era della sua storia, debbano essere il risultamento dell'applicazione del vapore alle armi. Allora una potente modificazione in queste ne produrrebbe come sempre una negli ordini, e da questi in tutte le parti così secondarie che tra<;ccndenti della scienza e dell'arte.50
Che cosa hanno veramente cambiato le guerre napoleoniche? La polemica con il maggiore parmense Gian Giacomo Ferrari Con un discorso che dice e non dice e continuamente si riavvita su sé stesso, nei Nove Discorsi BI. spesso sfugge a giudizi netti , perché riesce a dire cose non troppo coerenti e approfondite, che poi ciascun lettore può a suo piacimento utilizzare in un senso o neJI'altro. Affermando, ad esempio, che BI. sottovaluta le ricadute della Rivoluzione Francese e delle guerre napoleoniche si rischia di dire il vero e il falso ne11o stesso tempo: lo dimostra la sua polemica con il maggiore Gian Giacomo Ferrari, l'avversario del Grassi (vds. capitolo IV) della quale troviamo eco anche nell'edizione definitiva 1834 dei Nove discorsi da noi citata (pp. 228-229).
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ivi. p. 283.
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In un articolo sul Progresso di Napoli del 1833 (Vol. IV, pp.15-36), il Ferrari cerca di dimostrare che nel campo tecnico-militare e dei materiali le guerre della Rivoluzione e di Napoleone non hanno provocato alcun mutamento di rilievo rispetto a «quello che era nel suo complesso il sistema della milizia», e che «non potersi qualificare la nostra un'epoca nuova per la milizia. Molte cose sono si fatte, ma o non toccarono che parti accessorie, o non furono che cose da nulla». Ciò che, per il Ferrari, è emerso di veramente nuovo, è stata la centralità dell'uomo. Oltre che grazie al suo genio, Napoleone ha vinto con gli uomini e le loro doti; come scrive il Carrion-Nisas, diversamente da quanto avviene nelle altre arti, nell'arte della guerra, «tornerebbe di continuo a danno più o meno grande dell'arte stessa e degli uomini, di sostituire a codesti le macchine». Dire uomo è dire fanteria: perciò per il Ferrari si tratta soprattutto di migliorare l'armamento individuale, sostituendo con il fucile a percussione il vecchio fucile a pietra focaia dal funzionamento mal sicuro. Infatti l'arma da fuoco per il fante (e qui il Ferrari cita ancora il Carrion Nisas) «è così dire un sesto senso, un organo nuovo, una facoltà di più data all'uomo, la quale gli si fa in qualche modo inerente; facoltà micidiale a un tempo e salutifera, vero compenso dell'ineguaglianza fisica, e però sostegno della pubblica libertà, e altresì della medesima civiltà comune». E la introduzione della «polvere nitrata» addirittura «porterà al suo apice il fuoco della fanteria, riducendo ai confini loro gli accessori che hanno sin qui usurpato le ragioni della parte precipua e fondamentale dell'arte». Per il Ferrari, i procedimenti tecnici e strategici sono stati e rimarranno quelli di sempre, e l'artiglieria, i razzi ecc. non hanno fatto e non faranno grandi progressi: una volta migliorato il fucile, si è fatto tutto. Visione assai diversa da que11a evoluzionista del Bl., impegnato a dimostrare il contrario, cioè il nesso tra costante progresso delle scienze in genere e costante progresso delle scienze e dell'arte militare. A questo rapporto di dipendenza il Ferrari non crede, tant'è che alla fine del suo saggio non manca di inserire qualche frecciata polemica contro il Bl. stesso, sia pure senza nominarlo. Con il miglioramento del fucile - egli afferma - «verificherassi quell'epoca di nuovi incrementi che le illusioni di spiriti guasti o preoccupati vollero mostrate nell'età nostra, e che noi, usi non tanto ano studio che all'esercizio della milizia, né ossequienti all'autorità dei nomi anzi che a quella de11a ragione e del vero, ci siamo argomentati di francamente denegare». Nell'edizione definitiva 1834 dei Nove discorsi il Bl. così replica a questo attacco:
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si è dubitato se queste ultime guerre avessero o no portato delle grandi modificazioni alle belliche scienze e à loro pratici risultamenti. 11 barone Ferraci in un articolo inserito nel Progresso (Volume IV, pag. 15) ha impreso a dimostrare non esservi stati gran cambiamenti nell'arte, le armi essendo rimaste le stesse. Nello stesso volume (pag. 208) un anonimo, nulla negando della debita lode all'articolo del Ferrari, ha luminosamente svolto tutti i progressi fatti dall'arte e messo in luce i loro vasti risultamenti rispetto al sistema sociaJe. Questo egregio lavoro ci dispensa dal parlare più oltre di una tale materia, e ci limitiamo a invitare i lettori a percorrere un taJe articolo ...
Ancora una volta il Bl. scantona di fronte a un argomento - chiave per il riscatto nazionale. Ma l'anonimo (X.) ha «luminosamente svolto» i progressi dell'arte deHa guerra nel periodo napoleonico a un punto tale, da far ritenere che molto probabilmente dietro lo pseudonimo si nasconda lo stesso BL, X. rimbecca, infatti, il Ferrari ricorrendo al concetto ispiratore dei Nove discorsi: dato il progresso delle arti e scienze a fine secolo XVlll «sarebbe meraviglia se nel successivo ingrandimento di quelle (di che nessuno disconviene) l'arte de11a guerra che ne discende, rimasta fosse fuori dall'universale progredimento». I mutamenti ci sono stati, e come: altrimenti «come si spiegherebbero e gli eserciti in un lampo raccolti e mossi, e l'ardimento dei concepimenti?[ ...] E come si spiegherebbero i Regni abbattuti, gli eserciti disfatti, l'Europa percorsa nel volger breve di due o tre mesi, e quei Regni risorsi a nuova gloria e a nuova potenza?». Per X. anche se «l'uomo non ha inventato un nuovo agente di distruzione più potente della polvere da guerra», ne11e guerre napoleoniche ogni parte della scienza militare si è ampliata e perfezionata. Il progresso dell'artiglieria ha reso il combattimento ravvicinato più raro, e ormai l' «ordine esteso» (cioè lo schieramento su ampia fronte e poco profondo, per facilitare il fuoco) deve essere la formazione normale della fanteria. TI fucile con baionetta fissa ha dimostrato tutte le sue possibilità, e il progresso non potrà consistere che nel perfezionamento dei metodi per abbinare il combattimento da lontano (condotto esclusivamente con le armi da fuoco) con quello ravvicinato, alla baionetta. L'eredità di Federico Il non può essere trascurata, ma nelle sue guerre era ancora sconosciuto l'impiego delle masse di artiglieria che ha caratterizzato le battaglie napoleoniche. In sintesi, secondo X. i progressi dal 1789 al 1815 sono stati molti; d'altro canto il fucile a percussione tanto esaltato dal Ferrari non potrà provocare i profondi mutamenti da quest'ultimo sperati, mentre la polvere fulminante «non entrerà nei miglioramenti del fucile da guerra come arma se non come una frazione di frazione».
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Affermazioni, queste, che contraddicono quelle dei Nove discorsi, nei quali il Bl. osserva (p_ 207) che, nelle guerre napoleoniche «se grandi furono gli effetti di questi avvenimenti sugli uomini, piccoli furono sulle armi». X. (o Bl.?) va anche molto più in là, esaltando la coscrizione con un'osservazione fondamentale, che non si trova nel Nove discorsi: «argomento misto di politica e di alta scienza di guerra sarebbe anche quello, il quale trattasse della coscrizione, riguardandola come la terza trasformazione che dal rinascimento della civiltà subirono gli elementi primi degli eserciti in Europa». In proposito, noi osserviamo che quando i Nove discorsi scandiscono la storia in periodi non tengono certo conto di questo, né vi si trova traccia della visione lirica e utopistica - che ricorda il Filangieri - con la quale X. enumera i riflessi della coscrizione stessa, presentando gli eserciti di leva in guerra come il regno della virtù e della pace. Con la leva in massa, egli dice, divenne allor la guerra più mite Lè avvenuto il contrario - N_d_a.l, la sventura non fu un diletto, la preda non fu il fine del servire; ma
l'onore e la patria, cioè la vera gloria e la conquista sempre funesta, potè almeno conservare ordine e fonnc di umanità e di giustizia. Cosl divenivan facili le grandi imprese, perché ivi era cuore per volerle e intelletto per apprezzarle. Così la guerra fu affar proprio; la bandiera rappresentò la Patria; ivi, e perciò fu facile l'imperio, consentita l'obedienza, lo scopo comune e nobilissimo.
Nelle guerre napoleoniche - prosegue X. - il genio non ha fatto tutto da solo ma è stato completato dal valore dei gregari; perciò sulle teorie sistematiche e sulle invenzioni (altra contraddizione rispetto a taluni passi dei Nove discorsi) è prevalso «il peso maggiore della forza d'animo, del vigore del braccio, e dell'esaltazione del coraggio» (quindi, rispetto all'antichità le armi da fuoco non hanno certo eliminato l'importanza delle doti fisiche e morali individuali ... ). Tutto questo non impedisce a X. di confermare ancora una volta le lodi alle teorie geometriche e scientifiche di Jomini c dell'Arciduca Carlo, che segnano anche la differenza tra gli scrittori militari dei tempi di Federico II a quelli attuali, e deducendo dai fatti i principi, elevano l'arte della guerra a scienza (se mai, si dovrebbe dire il contrario). In conclusione, per X. anche prima del 1789 tutto esisteva, ma «tutto esisteva confusamente, e i germi erano sterili e quasi inoperosi». E fra i due giudizi estremi, cioè che tutto è cambiato o non è cambiato niente, «non sarà irragionevole supporre che un mezzo vi esista, il quale precisamente esprima che tutto non è camhiato, né che tutto è rima<;to inva-
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riato dell'arte della guerra». Non si può che condividere questo salomonico giudizio, il quale, però, è anche dimostrazione ulteriore dei limiti dei Nove Discorsi. Ancora una volta X. (o il BI.) non precisa, una volta per tutte, che cosa è soggetto a mutamenti e che cosa rimane fisso nell'arte della guerra; e l'uso dello pseudonimo abbinato alle lodi inusitate alla coscrizione fa ritenere che l'atteggiamento molto più sfumato e sfuggente dei Nove Discorsi su questo argomento, più che a vere e proprie contraddizioni è probabilmente dovuto a mere ragioni di opportunismo o a timore della censura da parte di un uomo che dopo il 1821 si è guardato bene dal «rompere» con il regime.
Guerra e strategia in uno studio del 1838 sull'«Antologia Militare»: riavvicinamento allo spiritualismo di Clausewitz? Abbiamo già notato che nei Nove discorsi il BI. non approfondisce più di tanto la materia più propriamente strategica, sulla quale è lungi dal fornire al lettore una visione coerente e organica, senza sbavature. Qualcosa di più - e anche di meglio - egli dice a questo proposito nell' ampia - ma non sempre chiara e Lineare - recensione alle Lezioni di Strategia dello Sponzilli sull'Antologia Militare del 1838.5 1 Prenderemo ancora in esame nel prosieguo della trattazione le sue valutazioni critiche a proposito di quest'opera: intanto, ci preme far notare che in questa occasione il BI. annacqua alquanto il concetto materialistico, scientifico ed evolutivo del fenomeno guerra e del modo di condurla (cioè della strategia) tipico del Nove discorsi. Il BI. concorda con lo Sponzilli, che presenta la guerra come« un dramma passionato» e non «un'operazione matematica». La guerra - egli aggiunge - «è scienza men certa, perché è di que11e più immerse nella materia, o neJle più recondite del cuore umano [... ] è un fatto in cui gli elementi essenziali sono gli uomini, ed il terreno, quindi rientra nelle scienze men certe di quelle che prendono a considerare oggetti fisici, meccanici o morali». Sulla base della filosofia del Vico, questa volta giudica lo spazio e il tempo - cioè le due componenti principali del concetto scientifico della strategia patrocinato dall'Arciduca Carlo - «le nozioni le più astratte». Inoltre fanno parte della strategia «quel1i elementi che non soltanto sono materiali, ma anche quelli morali, vale a dire i meno adatti per dar certezza a una scienza» (ma allora, se non è basata su elementi certi, come può la strategia essere una scien51
«Antologia Militare» n. 6/1838, pp. 123- 152.
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za?). TI B1. cita anche Jomini (e non l'Arciduca Carlo), secondo il quale «bisogna diffidarsi in parte e non trattar la strategia troppo geometricamente, ed esser persuaso, che se questa scienza ha fatto gran progressi, è suscettibile di essere perfezionata, modificando il sistema geometrico e quello fondato su i principi e l'esperienza della guerra, il quale consiglia di allontanarsi un poco dal primo». A proposito del grado di esattezza che può avere la strategia considerata come scienza, «benché abbia principi, legami, e conseguenze pratiche, nascenti dall'aver questi segni, o negletti; pure fa d'uopo considerarla come scienza approssimativa e non esatta». Mal' Arciduca Carlo non aveva mai detto questo, pur essendo soverchiamente lodato dallo Sponzilli e dallo stesso Bl.; aveva anzi detto - pur ricordando la difficoltà della loro applicazione pratica caso per caso - che «le regole deUa Scienza militare furono, sono e saranno sempre le medesime, perché riposano sopra verità matematiche e incontrastabili» e che i punti e le linee indicati dalla scienza strategica «sono invariabili, e dipendono dalle località che costituiscono il teatro della guerra, mentre che il tattico trova nella sua arte deUe risorse, onde supplire à difetti d' una posizione svantaggiosa per mezzo di manovre, di posti rinforzati, di stratagemmi ecc.» Come già abbiamo visto (capitolo Il), per l'Arciduca Carlo la strategia è scienza a pieno titolo e non scienza approssimativa, e principi e regole ne detenninano il carattere di scienza, anziché attenuarlo. E ancora una volta il BI. - come lo Sponzilli - diverge dall'Arciduca Carlo, indicando - come Jomini - come fattori che determinano i punti strategici non solo gli elementi geografici, ma anche quelli risultanti dalla posizione reciproca delle forze ... Anche a proposito della necessità di non lasciare scoperte le proprie linee di operazione - presentata dall'Arciduca Carlo come dogma che non ammette eccezioni - il BI. concorda con Jomini e con lo Sponzilli, sull'esempio delle ardite manovre di Napoleone. Infine per essere la guerra scienza e arte al tempo stesso, il capitano non solo deve essere scienziato ma artista, e perciò come tutti gli artisti è mestieri che si assicuri della natura, e delJe condizioni degli elementi, cui l'arte deve modificare, prima di piegarli all'opera. Or l' elemento positivo della guerra è l'uomo, essere dotato di intelligenza e volontà, sottomesso agli errori, alle passioni, essere composto in cui le forze morali contribuiscono, in una forte proporzione per accrescere o diminuire il valore positivo; quindi la forza reale di un esercito si misura dalla bontà e dalla armonia dé tre elementi primi, che ne basano la sua essenza; e perciò il metodo che si può usare con un esercito contro tale altro, fa d'uopo non porlo in opera allorché i dati sono diversi.
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In questo modo di vedere c'è quasi nulla dell'Arciduca Carlo e c'è ben poco anche di Jomini. Infatti - pur confermando l'utilità di principi ed exempla historica perché «il successo continuato come tutto ciò ch'è costante dimostra l'esistenza di una legge» - il BI. ammette (influenza del Précis di Jomini?) che la nomenclatura scientifica sorta dall'istesso progresso, ha urtato coloro i quali credono, e con ragione, che la guerra non è un gioco di scacchi, ma un dramma, in cui gli accidenti, la forza di carattere e l'ispirnzione decidono degli avvenimenti, e non già le prescrizioni scientifiche circondate dalla nomenclatura matematica; ed era un tristo effetlo, quello di crear metodi, i quali fan credere a ogni individuo, capace di mandare a memoria quelle regole, e corredare di citazioni storiche, essere nel caso di regolar le guerre, disprezzando di discendere da tanta altezza per riempire i più modesti doveri; disposizione, che se divenisse dominante nè giovani uffiziali pe1turberebbe l'ordine, la disciplina, e la forza morale degli eserciti.
Jomini, invece, aveva lasciato credere che lo studio dei principi e delle regole dell'arte, corredato da exempla, bastava a formare una media di buoni generali, perché la scienza strategica era relativamente semplice, e più difficile era la tallica ... Tutti questi tasselli concorrono a negare la sostanza della strategia specie nel concetto dell'Arciduca, e anche la sua definizione come scienza. Perché il BI. non ne trae tutte le conclusioni, e non nega recisamente la natura di scienza della strategia stessa? La risposta può essere duplice: o il Bl. anche in questa occasione non sa o non può sottrarsi - per ragioni extra-scientifiche - al consueto omaggio alle teorie dell'Arciduca Carlo, oppure non spinge a fondo la riflessione sull'argomento, né è in grado di trarre tutte le conclusioni dal concetto generale di scienza.
Il giudizio sulla guerra d 'indipendenza americana (1775-1 782) e sulla guerra nazionale spagnola ( 1808-1813) Nell'analisi della guerra d'indipendenza americana e della guerra nazionale spagnola contro le truppe napoleoniche il BI. perviene a conclusioni analoghe a quelle del Botta e del Balbo: accanto alla particolare indole di quei popoli, egli ritiene che abbiano gran peso fattori specifici di vario ordine - a cominciare da quelli geografici ed economici - che penalizzano tutti fortemente gli eserciti invasori. Sul piano generale giudica perciò «un errore che se aveva fatto del male nel passato, poteva
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fame anche nel tempo avvenire» la pretesa di dedurre dalle vittoriose guerre d'indipendenza degli Stati Uniti, di Spagna 1808-1813 (e della stessa Francia rivoluzionaria) che - indipendentemente da ogni altra costanza - ogni nazione con il solo entusiasmo avrebbe potuto aver ragione di eserciti regolari disciplinati e agguerriti.52 Per la guerra d'indipendenza americana, «ridotto al suo vero valore l'entusiasmo popolare dalla corrispondenza uffiziale e confidenziale di Washington», secondo il BI. si deve tener conto del merito «relativo ma incontestato» dello stesso Washington, delle difficoltà locali, degli aiuti francesi e spagnoli, e di «tutt'i vantaggi che ha un paese sì vasto, dove gli accidenti naturali del terreno, come fiumi e monti, sono in una dimensione superiore alla proporzione degli stessi accidenti in Europa, ove l'esercito nemico doveva essere trasportato ed alimentato per mezzo del mare, ciò che circoscrive il numero, e rende incerte le operazioni che su di un elemento al calcolo ribelle debbono combinarsi, senza poterlo evitare». Di conseguenza «la guerra fra le colonie americane e la madre patria non poteva per le sue circostanze particolari essere guidata con i soli principì dell'arte»53 [cioè: con gli stessi criteri e principi delle guerre tra eserciti regolari europei - N.d.a.]. Mentre nel campo opposto i condottieri inglesi si erano dimostrati uomini di second'ordine, Washington «senza essere un genio aveva compreso lo spirito di quella guerra», creando un esercito e difendendo il paese. E poiché egli disponeva di truppe inesperte e poco addestrate contro truppe istruite e agguerrite, «fece sorgere la guerra di bersaglieri, che vedremo svilupparsi il meglio ne1le prime campagne della rivoluzione» [ricordiamo ancora che i bersaglieri ne1I'accezione del tempo non indicano ancora l'attuale specialità bersaglieri, ma dei soldati che combattono liberamente, alla spicciolata, non inquadrati nelle rigide formazioni di battaglia della fanteria allora in uso, con il compito di scompigliare e logorare le contrapposte formazioni delle fanterie del tempo, le quali si muovono e fanno fuoco tutte insieme e solo su ordine - N.d.a.J. Washington dimostra «in sommo grado» fermezza di propositi nonostante gli ostacoli che gli si oppongono, non si cura della popolarità né «dei sarcasmi degl'invidi e del gridar dei malevoli», e «l'insieme de1le operazioni del generale americano può sostenere l'analisi senza temere la censura dei periti dell'arte [frase che peraltro contraddice quanto detto prima, che cioè la guerra americana non può essere giudicata sulla base di principi validi ne1le guerre europee - N.d.a.].
52 53
L. Blanch, Op. cii. , p. 33. ivi, p. 187.
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Se in questi giudizi il Bl. non è solo, è certamente l'unico del suo tempo a intravedere nella conquista dell'indipendenza da parte delle colonie americane il «preludio della decadenza» del sistema coloniale. Infatti fin da allora appariva chiaramente che il monopolio delle metropoli sulle loro colonie, considerato come la sorgente della ricchezza dello Stato, doveva accelerare la separazione degli Stati americani, i quali avrebbero oramai influito lentamente sul sistema generale come Stati e non più come possessioni europee, secondo che era accaduto fino all'epoca di cui teniamo discorso. 54
Anche per la guerra degli Spagnoli contro Napoleone prevalgono circostanze contingenti e specifiche condizioni locali o esterne, a cominciare dall'aiuto inglese: senza le condizioni di spazio, di suolo, degli antecedenti storici e del carattere nazionale e peculiare, l'alleanza e i soccorsi degli inglesi, e le guerre che dal Nord richiamavano tutta l'attenzione generale della coalizione, non solo di diverse nazioni, ma anche di principi che affini non erano tra di essi, avesse rovesciato l'Impero, la nobile perseveranza degli Spagnoli non li avrebbe preservati dalla sottomissione, che potevano senza disonorare accettare dopo tanti sforzi fatti. 55
Citando l'Enciclopedia del Courtin, egli vede nella guerra spagnola «la combinazione della guerra popolare colle forze regolarmente ordinate e coi vasti spazi» (dunque non la guerra popolare tout court). Non si è trattato di una scelta strategica, ma di un rimedio obbligato, perché era l'unico a poter neutralizzare la superiorità francese nelle battaglie e il sistema napoleonico di distruggere con rapidi colpi l'esercito avversario, contando sull'inerzia del popolo per penetrare in profondità nel Paese senza mantenere la guerra alla periferia: tale fu la guerra della Penisola, ove la popolazione energica della Spagna, ajutata indirettamente e direttamente dall'Inghilterra, sembrò rinnovare il sistema, praticato nell' antichità e ignoto ai moderni, che gli Spagnuoli avevano impiegato contro i Romani e gli Arabi [ ... ] La dura necessità forse più che la ragione fece adottare un
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55
ivi, p. 204. ivi, p. 32.
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sistema che preservava dal doppio effetto della massa e della mobilità delle truppe. Lasciando loro [cioè ai francesi - N.d.a.] grandi spazi di Paese~ la loro linea d'operazione si rendeva profonda e la loro fronte estesa per modo che dividendosi perdevano tutti i vantaggi inerenti alle masse e concentrandosi tutti quelli inerenti alla mobilità, il che rendeva ancor più grave la difficoltà delle sussistenze. Il sistema di difesa della penisola fu dunque regolato in modo tale che il nemico non trovasse ostacoli nella sua impulsione offensiva, ma che una volta padrone di vasti spazi, fosse costretto a difenderli, e perdesse così tutti quei vantaggi primitivi che il proprio suolo e le simpatie locali offrono in questo genere di guerra [ ... ] TI Portogallo costituiva la cittadella della Penisola, e le linee di Torres Vedras erano per così dire il ridotto dove l'esercito ausiliario inglese, che conteneva l'elemento meglio ordinato della resistenza, poteva restringere la sua difesa, ed uscirne onde riprendere l'offensiva [ ... ] Il duce britannico che fece più figura in questa guerra fu Wellington, cui si può appropriare la saggia espressione del Foy per caratterizzare l'esercito inglese, cioè di avere la calma nella collera. Questa qualità è il segreto della carriera del duce britannico, che non è mai stato battuto. Le sue battaglie furono difensive: considerò il Portogallo come una cittadella, e la Spagna come una piazza alleata che doveva essere soccorso dal Nord, il che costituisce un gran capitano. 56
La guerra di Spagna secondo il BI. mette in luce anche l'importanza della fortificazione permanente e della guerra d'assedio, per la quale è necessario il concorso di tutta la popolazione. IJ ]ungo blocco di Cadice (1810-1812) e la difesa di Burgos e Badajoz mostrano lo stato dell'arte fortificatoria del tempo, nella quale i francesi (Rogniat, Haxo, Vallée) mostrano l'antico valore e flessibilità nei metodi, mentre l'opera del colonnello Jones «dimostra l' inferiorità degl'lnglesi in questa parte dell'arte: non per mancanza di perseveranza e di valore, ma per difetto di metodi».57 Con una certa forzatura (data la ben diversa estensione della guerra spagnola e la ben diversa determinazione dimostrata da tutto un popolo) BI. definisce «guerra popolare», anche gli episodi di resistenza popolare ai francesi avvenuti nel Regno di Napoli nel 1799 e nel 1806: il Regno di Napoli è il primo ove la guerra popolare sia stata fatta quasi che senza l'ajuto di truppe regolari. Quivi si difese la capitale
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ivi, pp. 221-222 e 233-234. ivi, p. 225.
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nel 1799, e si combattè nell'anno medesimo alla spicciolata e nella capitale e nelle altre città, come ad Andria, Trani, Sansevero e Trajetto. Dal 1806 in poi si vide lo stesso in Calabria, dove la difesa dell'Amantea è stata notata dagli scrittori militari, per esempio dal Dumas. La guerra di Calabria era come quella di Spagna in una più piccola scala, e l'inazione di Massena contro i forti di Reggio e di Scilla somiglia in piccolo a quella in cui dovè rimanere nel Portogallo per le medesime cause. 58 Il Bl. compie a parer nostro un'altra forzatura, quando accosta al caso spagnolo e americano il caso francese, dove le tradizioni militari, lo spirito bellicoso del popolo, la fortificata frontiera, la civiltà sparsa nelle classi, che rendeva un uffiziale atto a rimpiazzare la forte e solida istruzione dei corpi scientifici, hanno potuto dar vita e direzione all'entusiasmo di cui le masse erano animate, le quali soccombevano e di panico terrore erano prese, quando queste condizioni mancavano; e in ultimo che, senza gli errori dei coalizzati politici e militari sembravano ai più caldi amatori della patria molto incerta, anzi funesta la lotta. 59 La guerra popolare e la guerriglia è cosa evidentemente ben diversa dalla strategia delle masse della Rivoluzione, impostata sulla guerra rapida, offensiva e di annientamento di forze pur sempre agenti secondo i principi della guerra tra eserciti. Sembra quasi che l'unica cosa che in questa occasione interessi al BI., è sminuire il ruolo dell'entusiasmo e della partecipazione popolare nelle guerre del presente e del futuro, che invece altri moderati si guardavano bene dal sottovalutare. Sullo sfondo c'è sempre la strategia geometrica dell'Arciduca Carlo, il più lontano dallo spirito delle guerre di Napoleone. Anche il paragone tra la rivolta calabrese contro Massena e la guerra in Portogallo appare sproporzionato, così come la rivendicazione del primato delle guerre popolari per il Regno di Napoli non regge a una seria critica storica. Lo stesso BI. in altra sede tiene a rimarcare il carattere del tutto sui generis della guerra spagnola, che non la rende «esportabile». Ed egli sembra pensare alla improponibilità in Italia di quel «modello», quando in un articolo sull'Antologia Militare del 183560 mette con ancor maggiore efficacia in luce la conformazione del terreno della 58
ivi, p. 220. ivi, pp. 32-33. 60 L. Blanch, Considerazioni sulla guerra di Spagna combattuta dal 1808 al 1814, <<Antologia Militare», Anno I (1835), N.1 , pp. 3 1-67. 59
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penisola iberica e le sue vaste zone montuose, deserte o incolte, che ostacolano le operazioni di un esercito invasore e il suo approvvigionamento. A questo fattore di base che gioca a tutto sfavore de11e truppe napoleoniche si aggiungono le abitudini, i principi e la indole degli abitanti, i cui tratti salienti sono «tenacia, bravura, sobrietà, alta ed esagerata idea di sé, dispregio per gli stranieri, nobiltà, spirito di indipendenza e perfino ferocia». Doti preziose in una guerra nazionale, che tuttavia - par di leggere tra le righe - sono quanto di più diverso possa esistere dal temperamento degli italiani di ieri e di oggi. E forse egli pensa proprio all'Italia, quando si chiede se in tutte le guerre nazionali gli ostacoli siano gli stessi. La risposta è netta e rivelatrice: per fare veramente una guerra nazionale, ci vogliono popoli, o che hanno una tinta di barbarie, o una compiuta civiltà; poiché nel primo caso i grandi sacrifizf si fanno naturalmente, e nell'altro per manira antiveggenza. È mestieri per altro che il Paese presenti difficoltà naturali nel suo spazio, nel suo clima, nel genio dé suoi abitanti, e che infine i vantaggi della disciplina e dell'arte indeboliti per la natura del paese, si aumentino a fronte de!J'energia e della destrezza individuale [... ] Ma per operar questa salda difesa ripeto è d'uopo che il terreno sia propizio e che la nazione veramente decisa senta di più di quel che medita, tenga a!Je sue opinioni piucchè agli interessi, e faccia con liberalità quei grandi sacrifizi che nessun potere può comandare.
Parole che non hanno perduto d'attualità nel secolo XX, anzi ne hanno acquistato di più: come non pensare, ad esempio, a quanto è avvenuto nel particolare ambiente geografico ed etnico dell'ex-Jugoslavia, dal 1941 al 1945 e negli anni 90? come non pensare a quanto il BI. stesso dice degli italiani, a giustificazione del suo gradualismo?
Concb,tsione: i poco felici riferimenti al Blanch da parte degli scrittori coevi e successivi Con tutti i loro limiti, i Nove discorsi del BI. rimangono tuttora l'unica opera del genere in Italia: essi potrebbero essere definiti la prima ma anche l'ultima intelaiatura comparsa in Italia - incompleta e opinabile fin che si vuole, ma sempre utile e stimolante - di una storia incentrata sul rapporto tra arte e istituzione militare da una parte, e scienze e società dall'altra. Una storia, quindi, non aridamente tecnica, dove la parte
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dedicata alla strategia, alla tattica, alla logistica è minoritaria rispetto ad altri aspetti, e dove i contenuti risultano dai legami e rapporti reciproci : non viceversa. Una storia però - questo va ancora evidenziato - non «nazionale» e unitaria. T punti di caduta dell'opera sono dovuti sia alla sua complessità, sia al fatto che, nella prima metà del secolo XIX, mancano più che mai (e non è una colpa del Bl.) strumenti d'indagine, riferimenti certi, basi teoriche ben salde, tutti insomma i presupposti per affrontare in modo organico una materia, peraltro lungi dall'aver trovato anche oggi un assetto definitivo, con acquisizioni tali da superare quelle della prima metà del secolo XIX. Egli tende a descrivere, a studiare, a porre problemi d'interpretazione o a fornire indicazioni per l'indagine: ma le conclusioni e gli ammaestramenti che ne trae per il suo secolo e per l'attualità sono deboli e incerti, perché - com'è inevitabile - anche quando discorre di cose militari «le sue idee non vanno oltre il rifornùsmo settecentesco» e «egli non sente, in effetti, alcun influsso dei nuovi ideali romantici deJla libertà e della nazione» (Cortese), cioè trascura proprio quegli ideali che invece sia pur in diverso contesto sono la fonte primaria di ispirazione per Clausewitz. Il tentativo di approccio scientifico e deterministico al fenomeno guerra e alle sue manifestazioni nella storia serve nondimeno a richiamare l'attenzione sul legame induhhiamente crescente tra guerra e scienze positive, tra guerre e istituzioni. È, insomma, un invito ad affrontare la problematica militare con un metodo e una direttrice di marcia, e ariconoscerne quelle basi scientifiche e tecnologiche che pur esistono, anche se non vanno sopravvalutate o male interpretate. In questo senso l'opera di Bl., esitante e contraddittoria di fronte alla vera e completa eredità anche spirituale della Rivoluzione Francese e di Napoleone, serve almeno a smentire l'osservazione di Voltaire che «l'arte della guerra è come l'arte della medicina: fondata su congetture e micidiale». Al di là dei limiti dell'uomo e dell'opera che doverosamente devono essere messi in luce, il BI. rimane il principale autore militare italiano della prima metà del secolo, e tra i pochi teorici militari italiani d'ogni tempo letti e apprezzati anche all'estero. Il capitano francese Haca ne traduce i Nove Discorsi (Paris, 1854), il De La Barre du Pare cita in termini lusinghieri la stessa opera nel Voi. ll della sua Storia dell'arte della guerra (1854). Viene lodato anche dal generale Oudinot, e risulta in rapporti di amicizia e di reciproca stima con l'Arciduca Carlo e soprattutto con Jomini. Quest' ultimo è il suo maggior estimatore coevo, forse perché individua nei Nove Discorsi un interessante esempio di determinismo storico e
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strategico che in fondo non smentisce mai, anzi rafforza le teorie sul valore decisivo deJla massa e il suo concetto a sfondo scientifico dell'arte della guerra. Pietro Ulloa recensendo i Nove Discorsi sull'Antologia Militare afferma che il Jomini nella prefazione posta in fronte al quadro analitico delle combinazioni della guerra (quarta Ed.) vien notando come molti saggi vennero pur fatti per una storia dell'arte della guerra, ma che a petto del Lavena, del Carrion Nisas, e del Rognancourt, era quest'opera del nostro autore quella che volesse tenersi in conto di più utile e pregevole61
Anche nel Précis (Introduzione al Vol. I) Jomini loda il BI.: qualche saggio è altresì stato tentato per una storia dell'arte della guerra degli antichi ai giorni nostri [... ] li Capitano Blanch, ufficiale napoletano, ha fatto un'analisi interessante dei differenti periodi dell'arte scritta e dell'arte praticala.
Come tanti altri, e come lo stesso Clausewitz, il BI. è un autore più citato e lodato che studiato. Quasi tutti gli scrittori militari italiani coevi - a cominciare da quelli «laici» - lo citano favorevolmente. A lui si richiama, come meglio vedremo in seguito, il Marselli: ma, con la sola e parziale eccezione del Pieri che gli dedica due pagine richiamando il giudizio critico del Croce,62 gli autori italiani del secolo XX non vanno molto al di là di una lode generalizzata e piuttosto ripetitiva del Bl. e della sua indagine sul legame tra guerra e società, trascurando di prende-
61
«Antologia Militare», Anno I, N. 111836, p. 181. P. Pieri, Guerra e politica ... (CiL), p. 153 e Storia militare del Risorgimento ... (Cit.), pp. 161-162. In quest'ultima opera (p. 12) il Pieri ricorda il favorevole giudizio del BI. (1819) sulle «guerre civili» delle popolazioni meridionali contro le truppe napoleoniche (a Napoli nel 1799, in Abruzzo, nelle Puglie, nelle Calabrie) che «sono piene, nelle ultime classi della società, dei tratti di un eroismo feroce, che onorerebbero qualsiasi popolo» e che sarebbero fallite per la scarsa partecipazione delle classi più elevate. Sta di fatto che le sollevazioni antifrancesi in Italia furono tutte sporadiche, brevi, locali ed episodiche (ben diversamente da quanto avvenne nello stesso periodo in Spagna, in Germania, in Russia, dove assunsero quel carattere unitario, nazionale e totale che era l'unica garanzia di successo). Né questa constatazione del 1819 induce il BI. - nei Nove discorsi e nei numerosi altri scritti successivi - a modificare il suo giudizio sulla «non esportabiHtà» e sull'improponibilità per l'Italia del modello di guerra spagnolo e americano, e il suo pronunciato, persino eccessivo scetticismo sulla possibilità di una guerra --ct·indipendenza italiana. 62
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re in esame i limiti dell'uomo e dell'opera e di condurre un 'analisi criti ca organica dei suoi numerosi scritti.63 Il Pieri e il Cortese nel secondo dopoguerra non possono che rilevare la mancanza di un lavoro adeguatamente approfondito sugli effettivi contenuti del suo pensiero. Il Cortese, che è il suo maggior biografo, è assai parco di elogi, forse fuorviato dallo Sticca che (non avendolo letto o non avendolo letto bene) chiama il BI. «solitario apostolo del genio napoleonico».64 Il colonnello Bobbio nel 1927 parla dei Nove discorsi come di «opera essenzialmente spiritualista e italiana» e afferma del tutto fuori luogo che «contemporaneamente al Clausewitz egli concepisce la vera guerra moderna di nazioni e di popoli, guerra che assorbirà tutte le energie morali, intellettuali e materiali ...» . Giudizi non centrati: perché il BI. tutto può essere definito, meno che teorico spiritualista; e senz'altro è meno «italiano», meno preoccupato del problema dell'unità nazionale di tanti altri nostri scrittori coevi. Né la prospettiva della guerra totale - della guerra napoleonjca per intendersi - può essere ritenuta, nonostante tutto, il motivo traente di un autore che diffida costantemente del coinvolgimento popolare. Infi ne, il suo conterraneo Mariano d' Ayala nella sua bibliografia cita i Nove discorsi, ma senza una sola riga di commento, il che fa supporre un giudizio non entusiastico se si considerano le lodi del d'Ayala, in questa sede, ad altri autori assai meno noti. Almeno gli autori prima citati ne parlano: ma vi è anche chi non ne parla affatto, come il Ten. Col. Nicola Brancaccio che nei suoi tre lunghi articoli del 1915 sulle origini della «dottrina di guerra» italiana65 elenca parecchi scrittori stranieri ma non menziona il BI., forse perché la sua analisi è incentrata sugli autori piemontesi o forse perché lo ritiene uno storico deUa guerra come fenomeno sociale e scientifico, più che uno studioso di strategie e dottrine mHitari. A tal proposito, merita una breve puntualizzazione la recente polemjca tra due militari sociologi, il napoletano Rodolfo Guiscardo e Giuseppe Caforio.66 Il Guiscardo vede nel Blanch un esponente di spicco 63 Cfr. E. Rocchi, Luigi Blanch e l 'evoluzione della scienza della guerra, «Rivista Militare» 1899, Voi. I, Disp. I (gennaio), pp. 5-27; ID., L'evoluzione del pensiero italiano nella scienza della guerra, «Nuova Antologia» Fase. 687 - 1 agosto 1900, pp. 505506; E. Bastico, Op. cit, Vol. li, pp. 168-172; E. Bobbio, La guerra e il suo sviluppo storico, Torino, Schioppo 1927, pp. 185-188. 64 G. Sticca, Op. cit., p. 186. 65 N. Brancaccio, Studiamo la nostra dottrina di guerra, «Rivista Militare» 1915, Voi. Il, Disp. V , p. 881-905; Voi. 11, Disp. VI, pp. 1911-1929; Voi. UJ, Disp. VII , pp. 2245-2264. 66 A. Guiscardo, La sociologia militare meridionale, Napoli , Ed. La Buona Stampa 1979, pp. 25-34 e G. Caforio, Sociologia e Forze Armate, Lucca, Ed. M . Pacini Fazi 1987, p. 146.
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della «sociologia militare meridionale» insieme con altre figure notevoli come il Palmieri, il Pisacane e il Marselli; il Caforio nega che si possa attribuire la qualifica di sociologi a questi autori, i quali «si occupano essenzialmente di arte militare con sconfinamenti più nella scienza politica (Pisacane) o nella filosofia (Marselli), che verso la sociologia». E sempre a parere del Caforio, quest'ultima disciplina non viene mai toccata dai predetti autori «in modo essenziale». Non vi è dubbio che - come osserva il Caforio - la lettura che il Guiscardo fa di questi autori «è in certa misura ideologica»: ma se si tengono presenti gli incetti limiti e l'incerto ruolo e significato che ha tuttora la sociologia militare, si deve ammettere che Luigi Blanch, così attento alle trasformazioni sociopolitiche come matrici dei mutamenti nell'arte militare, pur non essendo un sociologo puro rimane l'autore militare italiano del suo tempo che più dà spazio alla fenomenologia sociale, quindi è il più sociologo di tutti. Il materiale da lui fornito non può essere trascurato da chi si dedica a questa disciplina, anche perché serve a far distinguere bene la sociologia militare scritta o parlata, da quella effettiva o praticata. La prima è giovane e di derivazione prevalentemente anglosassone; la seconda affonda le sue radici nella storia e nelle tradizioni di ciascun popolo. Che cosa sono gli ordinamenti di ogni tempo, se non espressione concreta di un dato assetto sociale, e quindi risultante di un'operazione sociologica? Ecco una ragione di più per riproporre all'attenzione degli studiosi uno scrittore che non crede all'unità italiana a tappe ravvicinate ma senza volerlo la prepara, aprendo delle prospettive e indicando agli italiani, con la sua indagine che giunge fino a un passato recente e ancor vivo, che la capacità militare non è cosa che riguarda solo gli ufficiali ma è la risultante di una complessa serie di fattori, e in primo luogo del progresso civile e sociale e del sentimento unitario di ciascun popolo.
PARTE TERZA
LA TEORIA DELLA GUERRA TRA ESERCITI: SCRITTORI ITALIANI «SCOLASTICI» E «LAICI»
CAPITOLOVill
SCRITIORI «SCOLASTICI» PIEMONTESI: GIUSEPPE CRIDIS, PAOLO RACCHIA, GIUSEPPE POUGNI-GUILLET, SEBASTIANO VASSALLI, ENRICO GIUSTINIANI
Premessa In ogni epoca vi sono autori militari che - sia per il loro status di militari di carriera in servizio attivo che per gli incarichi ricoperti - si trovano vicini al pensiero militare ufficiale, e anche se non esprimono una dottrina militare vera e propria, almeno forniscono i criteri e i principi teorici generali sui quali si basano i regolamenti e le istruzioni militari del momento (che non sono cosa immutabile e neutra ma rispecchiano sempre una determinata intelaiatura teorica). Al tempo stesso, vi sono autori che danno luogo a un pensiero militare per così dire «laico», svincolato dalle idee e dai programmi degli Stati Maggiori e/o dei Governi ma non per questo da essi sempre divergente, né sempre lontano da finalità concrete, pratiche e strumentali e da esigenze pedagogiche. A conti fatti, una suddivisione di massima tra pensiero «scolastico» e pensiero «laico» ci sembra l'unica possibile, anche perché - diversamente da quello scolastico - il pensiero laico non necessariamente si manifesta in trattati o studi aventi come oggetto precipuo gli aspetti teorici dell'arte della guerra, e/o in scritti aventi come finalità principale quella di trattare argomenti militari. Si possono trovare frammenti di pensiero militare «laico» ovunque: mollo più circoscritta invece la ricerca di materiale riconducibile al pensiero militare «scolastico». Una cosa però va chiarita. Non necessariamente il pensiero militare «laico» è portatore di concetti strategici innovativi o alternativi, e non necessariamente - per essere ancora più chiari - i suoi esponenti vanno inquadrati ipso facto nei sostenitori della nazione armata, delle guerre di popolo ecc. ecc .... L'ispirazione politica di fondo (democratica, progressista o conservatrice) ha la sua importanza, ma non va sopravvalutata e non ha trasposizioni automatiche nel campo del pensiero militare.
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Altrimenti, non si comprenderebbe perché i migliori allievi di Napoleone - anima militare del concetto democratico di Nazione sono stati per oltre un secolo gli junker prussiani; non si capirebbe perché i grandi eserciti permanenti del secolo XIX e XX hanno tratto le loro ragioni - prima di tutto spirituali - di legittimità e di efficienza dalle guerre napoleoniche e dalla levée en masse; né si capirebbe, infine, perché da Trotzkji in poi l'apparato militare della rivoluzione russa del 1917 ha abbandonato ben presto, spinto dalla necessità, l' utopistico bagaglio teorico e ordinativo dei primi tempi per ritornare se voleva aver ragione del nemico - a quelli che potremmo chiamare i criteri strategici, ordinativi e gerarchici classki, impiegando largamente i tecnici «zaristi» e imitando senza pregiudizi - là dove lo richiedevano le pure ragioni dell'efficienza - i «modelli» delle nazioni capitaliste, a cominciare da quello germanico e anzi prussiano. In tal modo, per combattere il modello sociale «capitalista» non si è trovato di meglio che applicare il suo mode1lo militare: fatto questo, che dovrebbe far riflettere i sociologi sostenitori di trasposizioni automatiche tra eserciti e società. Dai tempi più antichi fino alle recenti guerre d'Algeria e di Indocina, è incontestabile che, non appena possibile, le forze della guerriglia alimentate dalla guerra di popolo si sono trasformate gradualmente in esercito regolare, e molto spesso non sono state che force multipliers di eserciti regolari. In proposito il Blanch, recensendo sull'Antologia Militare napoletana il Sommario politico e militare della campagna del 1815 del Jomini pubblicato a Parigi nel 1839, 1 contesta il principio spiritualistico che «una nazione può sempre difendersi quando vuole, e può anche riuscire nel successo» e richiama l'attenzione su11'«importanza che deve avere negli eserciti moderni l'aumento numerico degli eserciti attivi e soprattutto l'estrema mobilità, con la quale quelle masse percorrono oggi il teatro di guerra». Di conseguenza egli ritkne che gli eserciti regolari siano sempre da preferire - potendolo fare - alle masse popolari più o meno armate, perché «nello stato presente dell'arte e della civiltà, non vi ha che gli eserciti ordinati i quali possano, salvo qualche eccezione [nostra sottolineatura - N.d.a.], offrire un ostacolo a chi ci invade». E qui il Blanch ricorda la costante preferenza di Napoleone per gli eserciti regolari, e il suo febbrile lavoro nei cento giorni del 1815 per ricostituire nuove e rumorose forze regolari da opporre alla coalizione dei Re, così come nel
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«Antologia Militare» 1844, I semestre, pp. 83-156.
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1808 si preoccupa soprattutto dell'esercito spagnolo. E cita questo passo del Napier, illustre storico della guerra spagnola: «Napoleone, che ben sapeva non altro essere la guerra scientifica che una savia applicazione della forza, rideva dell'errore di coloro che riguardavano la mancanza di un esercito regolare come una circostanza favorevole, e che onoravano il contadino indisciplinato del nome di difensore della patria. Egli sapeva, che una insurrezione generale non può mai avere lunga durata, essendo una militare anarchia che non può offrire forza reale. Ben sapeva, essere stati i battaglioni disciplinati di Yalley-Forge, e non i Volontari di Lexington, quelli che avevano assicurato l'indipendenza dell' America; ed essere stati i veterani di Arcole e di Marengo, e non i repubblicarti di Valrny quern che avevano fissato la sorte della Rivoluzione Francese. In conseguenza i suoi sforzi erano diretti ad impedire gli Spagnuoli di riunire un corpo di esercito regolare».
Nel 1815 non era possibile - secondo il Blanch - ricorrere aJla guerra popolare per difendere la Francia dall'invasione: occorreva un' abnegazione assoluta da parte del governo, delle Camere o della nazione intera, che nella fattispecie mancava. E così prosegue: ecco come dice il generale Lamarque nel suo libro De l'armée permanente pag. 4: «Ma non si corse alle armi, non si tentò di respingere il comune nemico, perché le nazioni non combattono più in Europa. Esse non combattono più dopo che la guerra è raddolcita, incivilita, non minaccia più tutto un popolo della morte, o della schiavitù, esse non combattono più dopo che la proprietà divisa all'infinito fa sentire al maggior numero il bisogno dell'ordine e della sicurezza». Ed ecco le eloquenti parole che riportammo nel n. 27 del Progresso del sapiente autore, il quale datosi a trattare questa quistione analizzando il I numero dcli ' Antologia milita re intorno all'articolo della guerra di Spagna, svolge quest'idea con vedute poco comuni, e dà piena intelligenza del passo del Lamarque». «Le guerre popolari non si comandano, perché non si comandano le passioni. Esse quando sono veramente nazionali costano immensamente. Possono essere coronate da buoni successi, ma con lunghi sforzi, e lungo tempo, se fra colui che invade e colui che si difende esiste un certo equilibrio nelle politiche alleanze, nella forza numerica, nelle ricchezze, e se gli spazi non mancano à difensori. Le pa<ssioni debbono essere profonde, e costanti per mettere dal canto loro il benefizio del tempo. L'invasore deve tendere a vibrare colpi vivi, e frequenti, deve compensare il numero con la rapidità dé movimenti, e con la moltiplicità delle manovre: il che lo consuO
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ma». E soggiunge: «È egli vero che una nazione per comprendere una guerra popolare, abbia bisogno di una tinta di barbarie o di una completa civiltà, come pensa l'autore? Consentiamo alla prima parte di questa proposizione, ma dubiteremo della seconda fin quando non ci venga dimostrato, che la ricchezza, e l'agio siano eccitamento al martirio, e che l'interesse è un efficace movente di eroismo. lmperciocché l'odierna civiltà si studia meno di diminuir la sornrna dei bisogni, e degli individuali piaceri, che non di soddisfarli, né ci sembra che prenda Sparta per modello alle sue azioni.
Nelle circostanze de] 1815, solo un grande esercito poteva difendere la Francia: NapoJeone lo aveva ben compreso, ma pur lavorando 16 ore al giorno per rafforzare le truppe a sua disposizione, non riuscì a crearlo. Quindi, il Blanch conclude che in quell'occasione né la difesa popolare né que11a militare erano possibili per la Francia. Ciò che allora sosteneva il Blanch e il punto di vista di Napoleone ci sembrano validi anche oggi: le strategie «alternative» della guerriglia, della gu~rra nazionale e di popolo ecc. nascono in nazioni particolari, in popo]i particolari con forte spirito unitario e forte coesione sociale, in circostanze particolari, per esigenze particolari. Tuttavia anche nella seconda metà del secolo XIX esistono correnti di pensiero che attribuiscono alle guerre di popolo sul modello spagnolo il ruo]o preminente, e alle guerre per così dire «classiche» (cioè solo tra eserciti regolari che si scontrano in battaglie rangées, ordinate, campali) un ruolo sussidiario; oppure, che sostengono la prevalenza delle forze che ricorrono alla guerra di popolo rispetto agli eserciti regolari e alla strategia dassica non solo in casi particolari, ma sul piano generale. Accanto alla discriminante fondamentale tra «scolastici» e «laici» bisogna tenere conto anche che i «laici», a loro volta, si suddividono in sostenitori della guerra tra eserciti e delJe connesse strategie e forme di reclutamento (che non necessariamente sono quelle napoleoniche) e in sostenitori de] primato della guerra di popo1o oppure «per bande»; questi ultimi vanno trattati a parte, in quanto portatori di strategie che non integrano quelle classiche finora esaminate, ma intendono sostituirle e averne ragione. Solo ricorrendo a queste discriminanti diventa possibile collocare ciascun autore nella nicchia che gli compete, delineando al tempo stesso uno sviluppo logico degli argomenti da trattare. Una volta chiarito il quadro genera]e con l'esame del linguaggio militare e dei significati dei vari termini, sono venuti Ugo Foscolo, Melchiorre Gioia e Luigi Blanch che hanno fatto da battistrada. Esamineremo ora distintamente gli «scolastici» e i «Jaici», e infine i teorici della guerra di popolo.
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Gli «scolastici» sono molto numerosi: ne citeremo perciò solo i principali, e li suddivideremo ancora in «piemontesi» - da trattare in questo capitolo - e in «napoletani e altri»: questo consentirà cli apprezzare meglio - se e quando ci sono - le differenze tra i due principali poli cultura1i italiani del periodo in esame. In quanto alle differenze tra i singoli apporti, esse potranno emergere con la necessaria chiarezza solo stabilendo, per ciascun autore, a quale delle due scuole di pensiero europee - quella clausewitziana e quella jominiana - appartengono (o si avvicinano di più) i tratti salienti della sua elaborazione teorica. L'obiettivo di fondo dell'analisi che svilupperemo in questo capitolo e nei successivi sarà la verifica di questa affermazione del Pieri, assai discutibile perché vorrebbe presentare il legame tra politica e arte della guerra (o strategia) non come fatto naturale ma come limite oggettivo: gli studi del Blanch, dello Zambelli e le osservazioni del Cattaneo mostravano una particolare tendenza negl'italiani a cercare di vedere una storia militare è un' arte della guerra strettamente legate col fattore politico [ma questo è vero anche per Clauscwitz, e persino per Jomini - N.d.a]; mentre nessun lavoro di rilievo appariva pel mo mento nei riguardi dello studio tecnico della strategia e della tattica.2
Dunque per il Pieri J' opera di coloro che chiamiamo «gli scolastici» e che ci accingiamo ad esaminare è poca cosa; e in nota egli cita solo i libri dei due ufficiali piemontesi Racchia e Pougni-Guillet, pubblicate nel 1832, sulle quali il suo giudizio non è certo entusiastico: «il primo era un sommario di arte militare scritto con chiarezza, ma senza originalità, il secondo, appoggiato anche ad esempi storici, era alquanto migliore, ma si atteneva sostanzialmente all'arciduca Carlo e allo Jomini [chi non vi si atteneva? Questo è il punto - N.d.a.]». Per verificare se il Pieri ha o meno ragione, bisogna stabilire in via preliminare se gli «scolastici» piemontesi assumono o meno posizioni sufficientemente concordi e univoche sugli aspetti essenziali della problematica strategica e ordinativa, fino a delineare qualcosa di simile a una dottrina. Nel suo lungo saggio Studiamo la nostra dottrina di g uerra comparso in tre puntate sulla Rivista Milita re del 1915,3 il tenente colonnello di 2
P. Pieri, Storia militare del Risorgimento (Cit.), p. 165. N. Brancaccio, Studiamo la nostra dottrina di guerra, «Rivista Militare» 1915, .Yol. Il, disp. V, pp. 881-905 e disp. VI, pp. 1911-1929; Voi. III, disp. Vll, pp. 22452263. 3
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fanteria Nicola Brancaccio non indica chiaramente se dal 1815 al 1848 esiste o meno una dottrina di guerra piemontese né tanto meno italiana, anche se par di capire che la sua risposta è più affermativa che negativa. L'impressione è che il Brancaccio - come il Bastico e tanti altri confonda dottrina militare con pensiero militare ufficiale: si tratta invece di due cose profondamente diverse, perché il pensiero attiene alla teoria, ai principì e ai concetti generali, mentre la dottrina riguarda la loro temporanea applicazione a un caso concreto, in un dato momento, contro un determinato nemico, in un determinato ambiente naturale, con determinate alleanze, con specifiche finalità politiche della guerra. Come mette in evidenza il Canevari, «risulta chiaro come vi sia una sola scienza della guerra [nel senso di conoscenza, studio - N.d.a.] e, per contro, dottrine varie e variabili, e come ogni dottrina abbia carattere prevalentemente sintetico, miri a uno scopo pratico, tecnico-applicativo (quasi sempre alla preparazione alla guerra) e abbia infine una portata limitata al tempo, all'ambiente ed ai mezzi che costituiscono i termini del problema».4 Sotto questo aspetto vi è certamente, all'epoca, un pensiero militare ufficiale anche in Italia. Esso si manifesta soprattutto in Piemonte e a Napoli ed è costituito in misura preminente dalle opere degli autori «scolastici» che ci accingiamo a trattare, i quali per lo più sono lo sottolineiamo ancora - militari in servizio. In qualsivoglia Stato italiano della Restaurazione, infatti, vale quanto osserva il Brancaccio per il Piemonte: per ricercare quali fossero, nel periodo anteriore al 1848, le idee sulla guerra in Piemonte, quali i concetti che inspiravano la preparazione piemontese, non rimane che ad esaminare i libri ed i regolamenti pubblicati in quel periodo. Si sarà, anche per i primi, quasi sicuri di avere l'espressione del pensiero ufficiale, o per lo meno di un pensiero che poco se ne discosti, giacché per le patenti reali del 28 febbraio 1826, rimaste in vigore fino alla proclamazione dello Statuto nel 1848, tutte le pubblicazioni in genere dovevano essere controllate e poi autorizzate dalla Gran Cancelleria dello Stato, e quelle più specialmente di argomento militare dovevano inoltre essere esaminate dalla Segreteria di guerra. Di conseguenza, quanto su questo speciale argomento si pubblicava, aveva impronta recisamente ortodossa. 5
Fin qui il Brancaccio, il quale attribuisce a questo stretto controllo il
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E. Canevari, Op. cit., p. 32.
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N. Brancaccio, Art. cit. , disp. V, pp. 890-891.
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fatto che «in Piemonte si scrisse poco di cose militari fino al 1848, mentre dopo quest'anno le publicazioni sovrabbondarono». Non concordiamo con questo giudizio, e ne esporremo in seguito i motivi. Osserviamo anche che, se di pensiero veramente militare italiano si deve parlare, non ci si può limitare (come fa il Brancaccio) al Piemonte, ma devono essere considerati anche gli altri Stati e in particolare il Regno di Napoli, per individuare analogie e differenze e stabilire fino a che punto esiste un minimo comun denominatore, che consenta di cogliere le eventuali caratteristiche unitarie di un pensiero nazionale e italiano. Intanto una dottrina militare nel senso attuale del termine non poteva esistere né in Piemonte né altrove, non solo perché mancava - almeno fino al 1848 - la nozione indispensabile di un nemico e di una regione dove combatterlo (in una parola: l'obiettivo strategico), ma perché non vi erano i presupposti interni e tecnici necessari affinché una dottrina militare nasca e si sviluppi. Come osserva lo stesso Brancaccio, affinché in uno Stato prevalga una determinata dottrina di g uerra,
occorre vi esista, od un forte sentimento comune a tutta la cittadinanza e più intenso nelle forze armate, oppure un comando dell'esercito fortemente organizzato ed accentrato, od anche si impongano alla generalità dei cittadini, prevalenti questioni d' interesse materiale. In ognuna di queste eventualità ci vuole un organo di diffusione della dottrina, ed è questo generalmente un istituto militare di insegnamento superiore.
Ebbene, sempre a parere del Brancaccio non si può dire che in Piemonte esistesse questo forte sentimento comune. Il sentimento religioso era poco vivace e il sentimento nazionale «mediocremente forte». L'unico ad essere vivo e sentito era - specie nell'esercito - il sentimento dinastico, che però «non poteva avere in sé grandi fermenti di azione; orientava tutte le attività a tutela ed ossequio di una persona, di una dinastia; non era ad ogni modo tale da poter inspirare un'energica azione di guerra». Nell'Esercito piemontese non esisteva neppure un Comando fortemente organizzato, perché i poteri militari erano accentrati nella persona del Re e i monarchi da11a Restaurazione in poi «non furono forniti di coltura militare e di carattere tali, da poter inspirare un'energica dottrina di guerra». Inoltre mancavano interessi materiali comuni così forti, da imporsi alla popolazione del Regno e da spingerla ad operare fuori dai confini, né esisteva un centro superiore di cultura militare, «il più importante istituto militare del Regno essendo 1' Accademia militare di Torino; più che altro scuola di reclutamento, nella quale si preparavano soltanto i sottotenenti de11e varie Armi».
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In questa situazione non si può certo parlare di dottrina militare, e in effetti il Brancaccio parla solo di «indizi sulle idee piemontesi circa la condotta della guerra», che possono essere ricavati dalle «poche opere» del periodo 1815-1848, tra le quali cita solamente, in ordine cronologico: - Paul Racchia, Précis analytique sur l'art de la guerre (1832); - G.B. Prunetti, Pratica dell'ufficiale subalterno difanteria (1837); - Sebastiano Vassalli, Lezioni di arte militare ad uso della scuola d'applicazione (1847); - Enrico Giustiniani, Essai sur la ractique des trois annes isolées et réunies (1848) e Nozioni elementari di strategia (1851). Dimostreremo in seguito se e in che misura questa elencazione rispecchia lo stato del pensiero militare italiano. Intanto - anche volendoci limitare al Piemonte - registriamo subito l'assenza di riferimenti al Grassi e al Carbone - Amò, le cui opere non possono essere ristrette al campo linguistico. Né al Brancaccio poteva sfuggire - almeno nel 1915 - l'importanza che ha avuto il contributo di pensiero degli ufficiali napoletani per la formazione di un pensiero militare e di una dottrina nazionali dopo il 1861: e allora, perché non citare anche i numerosi autori napoletani del periodo, e/o iniziative culturali di grande peso come I' «Antologia Militare Napoletana»?
Sezione I - «Della politica militare - libri quattro» di Giuseppe Cridis (1824)6 Nella sua bibliografia militare, il d' Ayala è l'unico a dedicare al Cridis e alla sua opera qualche riga: «Cridis Giuseppe da Biella. Era il Cridis un avvocato di fama, e morì vecchio verso il 1833. Il titolo dell'opera mi sembra alquanto inesatto, poiché la politica militare abbraccia da sé la scienza militare. Ei mostrossi timidamente amico delle libere istituzioni>>.7 Condividiamo quest'ultimo giudizio, perché il Cridis questo è uno dei principali motivi di interesse dell'opera - è effettivamente interprete del punto di vista dell' establishment del suo tempo sul problema militare, anche al di là del Piemonte. Ma quando il d' Ayala vorrebbe considerare la «scienza militare» come parte della politica militare e non come
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G. Cridis, Della politica militare - libri quattro, Torino, Per l' Alliana, 1824. M. d' Ayala, Bibliografia ... (Cit.). p. 21.
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sua derivazione o conseguenza con una propria autonomia, dimostra poca chiarezza di idee e contraddice quanto afferma nella prefazione alla sua bibliografia militare. Al contrario, quello del Cr. è un libro in certo senso anomalo nella letteratura militare del tempo, proprio perché i suoi contenuti sono in armonia con il concetto attuale di politica militare (che riguarda le concezioni strategiche di base, le problematiche generali, i lineamenti generali per l'organizzazione e l'impiego delle forze armate). Delle forze armate, abbiamo detto: perché il Cr., pur appartenente a uno Stato che, come il Piemonte, non aveva mai avuto fino a quel momento una vocazione marinara, non dimentica la marina e il suo ruolo e dedica uno specifico capitolo alle navi da guerra. Esamineremo a parte, nel capitolo a ciò dedicato, le idee del Cr. su questo argomento. Intanto notiamo che egli è ben lontano dalle solite visioni totalizzanti e di forza armata, nelle quali si distinguono per malinteso spirito di corpo parecchi scrittori terrestri e navali di ieri e di oggi. Per iJ resto, con una visione d' insieme molto serena, realistica ed equilibrata e con una prosa abbastanza scorrevole e leggibile il Cr. affronta tutti gli argomenti che, al suo tempo come oggi, costituiscono il clou della politica militare. Nessun accenno al rapporto tra politica e strategia e/o aJla parte meramente teorica dell'arte della guerra; il Cr. osserva solo che «l'arte della guerra, e le sue diverse parti, la tattica [non parla mai di strategia N.d.a.], la scienza dé stratagemmi, quella dell'artiglieria, e l'arte della fortificazione «non possono fiorire presso una nazione immersa nell'ignoranza». E con il consueto, massiccio ricorso ad exempla hislorica tratti dall'antichità classica dimostra che sono in errore coloro i quali al tempo vedono ancora ne1le scienze qualcosa di contrario alle qualità del vero guerriero, sostenendo che «lo studio indebolisce il corpo, e gli toglie la forza necessaria non solo per resistere alle fatiche, e agli incomodi, cui sottoposti vanno i soldati, ma anche per adoperare vigorosamente le armi contro i nemici». Nessun riferimento ad autori coevi e/o a vicende italiane che al suo tempo potevano dirsi contemporanee: il Cr. si ispira agli autori classi italiani (Machiavelli, Guicciardini, Algarotti, Montecuccoli), a un autore spagnolo (il marchese di Santa Cruz) e soprattutto a gran numero di scrittori francesi non sempre noti come il generale Rogniat, il Mirabeau, il generale Duhesne, il La Tour du Pin, il Camot, il du Bellai, il Folard, il maresciallo di Montluc ... L'autore italiano più recente da lui citato è il marchese Palmieri (fine secolo XVlll), ma solo a proposito di un fatto quanto mai discutibile e marginale come la grande efficacia delle armi
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bianche, se confrontate con le poco perfezionate armi da fuoco del tempo. Sono assenti i richiami a autori militari italiani coevi e non solo al solito Jomini, ali' Arciduca Carlo ecc .. Non si fa parola di Napoleone, delle sue guerre e della Rivoluzione Francese, come se tutto quanto è avvenuto dal 1789 al 1815 fosse cosa trascurabile. Il Cr. non si perde in disquisizioni teoriche fine a sé stesse. L'obiettivo della sua opera è piuttosto l'individuazione ragionata di concrete soluzioni per i principali aspetti della problematica militare: aspetti non specificamente riferiti a un periodo o a uno·Stato. Il pregio della concretezza del lavoro, quindi, viene disperso da un'eccessiva e forse voluta genericità dei parametri di riferimento, tale da fornire opinioni, soluzioni e opzioni non specifiche ma buone per tutti gli usi. Il Cr. esamina le argomentazioni a favore o contro una data soluzione per poi dire la sua opinione, sempre in modo molto equilibrato. Anche questa impostazione contribuisce a rendere incerto il giudizio sul suo lavoro, che a volte ha l'aria di voler dire di più di quello che vorrebbe dire, e con giudizi salomonici sembra evitare di proposito posizioni decise e recise. In altre parole: l'opera del Cr. è solo un tentativo di tlemmatizzare i problemi del momento, riducendo il tutto a piatto buon senso, a concetti elementari e terra terra fino a peccare di semplicismo? o al contrario è una semplificazione di problemi complessi aventi magari fini didattici o didascalici, come quello di erudire senza compromettersi troppo il Principe e la classe dirigente piemontese? Una cosa è certa: in tutto quello che dice il Cr., c'è certamente poco o nu11a che possa solo dispiacere - non si dice dar fastidio - ali' establishment del momento in Piemonte, che in tal modo diventa una specie di convitato di pietra, la cui presenza moderatrice si sente anche se non si vede. Ed è anche questo il vero motivo per cui egli tralascia certi argomenti, affermando nella prefazione: due cose dirò ancora in questa breve prefazione. La prima è che passai sotto silenzio molti fatti storici, che non avrei trala<;ciati, se non avessi temuto di render l'opera troppo voluminosa; la seconda è che non volli parlare di alcun avvenimento dei tempi nostri , o ad essi vicino; considerando che la maggior parte degli uomini suol riguardare con passione i fatti recenti, e quelli che il lungo corso degli anni non ha ancor resi lontani.
Più che una ragionata delimitazione della materia, questa è un'autocastrazione: perché ignora tutti i mutamenti profondi che hanno introdotto la Rivoluzione Francese e Napoleone, mutamenti con i quali in quel momento hisogna pur fare i conti.
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Il concetto di guerra giusta: offensiva o difensiva?
Il punto di vista del Cr. sulle ragioni per le quali vaJ la pena di fare una guerra non può essere che quello moderato e cattolico: l'unica prospettiva considerata è quella della guerra tra principi, e tra i casi in cui si riconosce giusto e ragionevole ricorrere alle armi non vi è ce110 quello di un popolo che - con i monarchi o non - si riunisce e combatte per conquistare la propria indipendenza. La guerra non viene esaminata dal punto di vista tecnico-militare, ma giuridico e morale. Dopo aver riconosciuto che «la passione della gloria militare, quando non indirizzata al pubblico bene, è vituperabile, e funesta», il Cr. ammette cinque motivi per cui vale la pena di «ragionevolmente intraprendere» una guerra: 1 °) per la difesa dei nostri diritti da una ingiusta aggressione, o per prevenirne una da parte di un vicino che ha ingiustamente acquistato troppo potenza; 2°) per recuperare o conseguire ciò che è nostro e ci è per giustizia dovuto, se l'avversario non accetta una pacifica composizione della vertenza: «Dico per giustizia; poiché le cose appartenenti soltanto agli uffizi di umanità, e beneficenza somministrar non possono un motivo sufficiente di muover la guerra, ecceltuato il caso di necessità»; 3°) per aiutare un alleato ingiustamente assalito u 1,;he vuole conquistare o recuperare ciò che è suo; 4°) per soccorrere qualunque Stato assistito dalla giustizia, al quale il nostro bene esige che rechiamo aiuto; 5°) per difendersi da un Principe che «avendo da noi ricevuto un'ingiuria, rifiuta di accettare una giusta soddisfazione» e in tal modo passa dalla parte del torto. Per il Cr. non si fanno guerre alla leggera: ma le linee di condotta da lui esaminate consentono pur sempre a uno Stato di intervenire a favore di un altro, tutti i casi in cui ne ha bisogno. È la filosofia della Santa Alleanza, basata sull'Austria garante della pace e della stabilità, con una robusta presenza militare in Italia che scoraggiava guerre tra Principi e al tempo stesso garantiva al bisogno un sostegno anche militare ai loro troni, in funzione di una politica antiunitaria. Tra la guerra difensiva e la guerra offensiva i1 Cr. preferisce quest'ultima, purché si abbiano forze sufficienti per portare l'offesa nel paese nemico. Chi attacca ha il morale alto, è ritenuto più forte del difensore, ha il vantaggio dell'iniziativa delle operazioni, combatte con più determinazione; infatti il difensore ha sempre la possibilità di rifugiarsi nelle fortezze vicine, ed è più facilmente soggetto a disertare per raggiungere la sua casa vicina. Chi conduce una guerra offensiva può avvalersi delle risorse del paese che invade, e nello stesso tempo le sot-
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trae al nemico. Un'altra ragione per preferire la guerra offensiva è che il paese teatro della guerra soffre moltissimo, e non solo per mano del nemico. Chi sta sulla difensiva, se è sconfitto perde lo Stato e se vince conserva solo il suo, senza conquistare quello avversario; mentre chi fa la guerra offensiva, se è superato non perde il proprio paese, e se vince conquista quello avversario.
I problemi del reclutamento e della durata del servizio militare
Al tempo alcuni principi Italiani - il Papa e il Re di Napoli - mantenevano al loro servizio truppe mercenarie straniere. Negli altri Stati vigeva un sistema di reclutamento in varie forme ma sempre lontano dalla coscrizione obbligatoria per tutti, che con temperamenti, esenzioni, sorteggi ecc. di fatto si avvicinava di molto al servizio volontario, per due ragioni essenziali: lunga durata delle ferme della maggior parte del personale incorporato, e tendenza generale a far compiere il servizio militare a contadini e/o agli elementi asociali, con pratica esclusione dei ceti più agiati e rappresentativi_ A questo risultato contribuivano tre fattori: diffidenza generale per la levée en masse sul modello della Rivoluzione Francese, non a caso abolita dopo la definitiva caduta di Napoleone o addirittura prima; esiguità dei bilanci militari che non consentiva comunque di mantenere alle armi la totalità del contingente teoricamente soggetto a obblighi militari; insufficiente gettito di volontari, che aveva imposto obtorto collo di ritornare a metodi che si avvicinavano alla coscrizione obbligatoria, peraltro estremamente impopolare. 8 In questo quadro generale il Cr. esclude la convenienza del ricorso a volontari stranieri, tra i quali non si trova certo il meglio del loro Paese e che sono più costosi delle truppe nazionali, meno fedeli, più soggetti a diserzioni, più facili ad ammutinarsi per questioni economiche e logistiche, più soggetti a litigi e incomprensioni con le popolazioni locali. È conveniente arruolare milizie straniere solo se lo Stato è ricco e poco popolato, o quando la popolazione nazion:,tle è imbelle: «deve però allora il Sovrano procurar di rendere il più presto che si può i proprii sudditi atti alla guerra». Ci si può servire di truppe straniere anche per impedire che le arruolino i nostri nemici, oppure quando il Principe non si può fidare delle milizie nazionali: ma è cosa pericolosa far vedere ai sudditi che si
8 Cfr. V. Ilari, Storia del servizio militare in Italia 1506 -1870 - Voi. I, Roma, Ed. Rivista Militare I 989, pp. 241-316.
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diffida di essi, e un Principe savio e virtuoso potrà sempre contare sulla fedeltà del suo popolo. Il secondo problema che il Cr. prende in considerazione è «se sia meglio valersi di soldati volontari o di arruolati contro voglia». Secondo taluni, quest'ultimi fanno temere che «costretti contro lor voglia ad abbandonare il suol nativo, le loro famiglie, i loro amici, le loro abitudini, ed a soffrire i disagi della vita militare, non siano valorosi , ma gettino le armi, e volgano le spalle al nemico quando dovranno combattere, e disertino alla prima occasione, in cui potranno ciò fare». 9 Per contro, secondo il Machiavelli si presentano come volontari gli elementi peggiori della società, che una volta incorporati si dimostrano insofferenti alla disciplina e «commettono infiniti disordini». Coloro che rimarrebbero volentieri a casa all'atto pratico accettano molto meglio la disciplina, e queste eccellenti qualità impediscono loro di disertare o di volgere le spalle al nemico. Inoltre coloro che si arruolano volontari possono anche cambiare idea, se non altro perché indotti con metodi fraudolenti ad arruolarsi dai «reclutanti», il cui impiego a giudizio di Mirabeau «è il più proprio di tutti a corrompere». Dopo aver esaminato i pro e i contro, il Cr. conclude che «quando bastano i soldati volontari non è bene far leve forzate», e che anche ammesso che le argomentazioni contro l'arruolamento di volontari abbiano qualche efficacia, esse riguarderebbero più l'esercito permanente (cioè l'aliquota dell'esercito composto da truppe a lunga ferma) che le milizie (cioè le truppe che - come i «provinciali» piemontesi - dopo un breve periodo di istruzione in tempo di pace rimanevano a casa, e venivano richiamate saltuariamente per brevi addestramenti). Questo perché non tutti i soldati volontari meritano di essere reputati malvagi, come li descrive il Segretario fiorentino [cioè Machiavelli - N.d.a.]; fra essi se ne ritrovano di quelli, che fomiti sono delle doti necessarie ai buoni guerrieri, come per altra parte non mancano cattivi uomini nel numero di coloro che vengono contro voglia fatti soldati. In secondo luogo la disciplina e la severità militare possono contenere, e correggere almeno in parte i viziosi, i quali per altro, se sono rei di gravi delitti, non debbonsi ricevere fra i difensori della patria. In terzo luogo pare esser meglio arruolar nelle truppe figlioli male educati, e mal sofferenti la patema autorità, e metter sotto le guerriere insegne persone, che non vogliono attendere né alle scienze, né alle arti, né al commercio, e che da sé stesse s'offrono alla professione delle armi, che strappar dal seno delle loro fami-
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G. Cridis, Op. cit. , p. 22.
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glie, e cacciar per forza ne11e truppe giovani morigerati, e che bramano occuparsi in pacifiche professioni. Ed è da notarsi che mentre la vita militare migliora colla disciplina gli uomini corrotti e dissoluti, può facilmente far perdere l'innocenza alle persone semplici, e virtuose. 10
Il Cr. passa poi in rassegna i metodi di arruolamento dei soldati di leva, ai quali si ricorrerebbe solo quando i volontari non bastano: quattro sono i modi, che sembrano i più adatti per la leva, ossia coscrizione. Il primo si è, che gli amministratori dei Comuni nominino quei, che devono essere soldati. Il secondo consiste nel tirar a sorte i nomi di quei che sono nell'età fissata per la coscrizione. Il terzo è di prendere i coscritti nelle famiglie più numerose. Il quarto si è di far soldati i mendicanti, gli oziosi, gli uomini senza mestiero, i giuocatori di professione, ed altri simili. 11
In tutti e quattro i casi, siamo ben lontani dalla coscrizione obbligatoria di matrice napoleonica: si ricorre alla leva solo ad integrazione dei volontari, solo quando ciò è necessario, nella misura minima possibile e con la massima considerazione per le esigenze sociali e produttive, fino a prevedere l'arruolamento dei soli elementi «diversi» e asociali. Il Cr. è portato a scartare il primo metodo, perché se da una parte gli amministratori dei Comuni conoscono molto bene le varie situazioni particolari e in teoria saprebbero scegliere bene, dall'altra questa scelta si presta ad essere viziata, perché «è a temersi che l'amicizia, l'inimicizia, la consanguineità, l'affinità, il credito, le raccomandazioni, il danaro dettino le nomine dé soldati». Migliore metodo sarebbe il secondo, che però ha il difetto <li favorire chi non lo merita, o al contrario di far incorporare coloro che hanno più ragioni per non fare il soldato: si polrebbero però esentare dal sorteggio coloro che hanno particolari condizioni di famiglia. n terzo metodo è migliore dei due primi e degno d'approvazione, perché non dipende né dalle passioni degli uomini né dalla fortuna, e arreca il minor danno sociale, climinuendo il peso sociale di una prole numerosa. Nemmeno il quarto metodo viene scartato dal Cr.: è sempre meglio arruolare coloro che non hanno di che vivere, e il cui sostentamento è a carico della società, piuttosto di coloro che si mantengono da sé o sono mantenuti dalle f arniglie. Per i poveri e i mendicanti la vita del soldato è
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ivi, pp. 25-26. ivi, p. 28.
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più sopportabile che per gli altri cittadini, e non va1e 1'obiezione che arruo1ando simi1i e1ementi Ja professione militare anziché essere stimata sarebbe considerata un disonore o una pena. Prima di tutto bisognerebbe presentare la vita mi1itare come un mezzo per riportare sulla retta via gli uomini viziosi o traviati, e non come un disonore; in secondo luogo, questi elementi potrebbero essere riuniti io reggimenti particolari «inferiori di grado agli altri», e in tal modo 1a professione militare conserverebbe il suo prestigio. I giovani dovrebbero essere chiamati alle armi non prima dei 18 e non dopo i 22 anni. Non prima, perché il corpo non è ancora ben sviluppato e molti non hanno ancora ultimato l'apprendimento di un mestiere; non dopo, perché superati i 22 anni molti sono ammogliati con figli, ci si adatta di me no al1a vita mi1itare e s i apprende di meno. Il servizio militare dovrebbe durare solo alcuni anni (non meno di 11, precisa il Cr.; cinque anni sono pochi!), perché in tal modo riesce meno gravoso, è ripartito su una fascia più ampia della popolazione e provoca meno disertori. Si ha inoltre maggiore possibi1ità di disporre di riserve istruite, vi sono meno paghe da dare agli invalidi e inoltre si crea minor separazione tra i soldati e il mondo civile, «la qual cosa contribuisce a impedir la malevolenza, c le discordie tra i so1dati, e le persone non militari». L' obiezione che colui che ha compiuto un certo numero di anni di servizio militare non riesce più ad adattarsi alla vita civile e a umili mestieri non è valida, ma questo inconveniente può essere evitato in due modi: evitando di mantenere eserciti in tempo di pace oppure evitando che io tempo di pace le truppe marciscano nell'ozio: e non mancano varii modi di farle in tempo di pace lavorare in pubblico vantaggio, impiegandole per esempio in costruir fortezze, in iscavar canali, indirizzare il corso di fiumi, e dé torrenti I ... ] E prescindendo dalle opere pubbliche, è pur cosa molto utile il procurar ai soldati tutte le facilità di occuparsi fuori delle ore destinate agli uffici militari, di occuparsi dico in quelle arti, e manirauure, che impareranno prima di essere arruolati, o in qualche altro travaglio, di cui siano capaci. 12
Il soldato dovrebbe essere congedato verso i trent'anni, quando il suo fisico tende a diventare grosso e pesante, «si attenua l'effervescenza della gioventù, che gli faceva trovare attraente la vita errante e varia de1 soldato, ed eg1i comincia a sentir bisogno di tranquillità: al tempo stesso,
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p. 72.
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non è troppo anziano per passare dal servizio di Marte a quello di Venere, cioè per ammogliarsi. Il servizio di dieci anni è giustificato dal fatto che «i congedi spediti dopo pochi anni di servizio [cinque anni - N.d.a.] priverebbero i corpi dé loro migliori soldati [... ] per iscarnbiarli con soldati novizii, ed ignoranti. Inoltre rinnovando le armate per quinti, invece di rinnovarle per decimo, bisognerebbe far in essa entrare in ciascun anno il doppio delle reclute. È la prima partenza che più affligge le famiglie, e che riesce più incomoda ai giovani[ ... ] e non la necessità di rimaner nelle truppe qualche anno di più».
Eserciti permanenti e di milizia: vantaggi e svantaggi Sulla convenienza di mantenere eserciti permanenti anche in tempo di pace stranamente il Cr. non prende una chiara posizione, limitandosi a riferire le opposte opinioni a favore dell'esercito a lunga ferma e dell'esercito di milizia (quest'ultimo composto da giovani che in tempo di pace sono periodicamente chiamati per un breve periodo di istruzione e poi rimandati a casa, per essere richiamati solo in caso di guerra). In poche pagine, egli condensa tutti gli argomenti pro e contro le due soluzioni che da allora in poi, con instancabile monotonia, hanno percorso la pubblieistica militare fino ai nostri giorni, senza mai giungere a conclusioni esaustive perché la rispondenza o meno di ciascuna di esse dipende, nel concreto, da una serie di fattori variabili di volta in volta e difficilmente quantificabili a priori. Secondo i loro fautori, gli eserciti permanenti sono molto utili per la sicurezza interna del Governo, e per impedire che «dagli ambiziosi, e dagli uomini torbidi, amanti di novità, e dai malcontenti non venga perturbata la tranquillità dello Stato». A questo vantaggio interno se ne aggiungono parecchi esterni: rispetto da parte degli amici e nemici, possibilità di prendere iniziative militari quando lo si ritiene opportuno, di cogliere i momenti più favorevoli, ecc .. ma ciò che soprattutto importa è che «senza armate permanenti non si può difendere lo Stato da un improvviso assalto, e le truppe sempre in piedi sono più agguerrite, e valorose che eserciti composti di uomini tolti recentemente dai campi, e dalle battaglie»_l3 Gli eserciti permanenti non possono essere sostituiti con milizie chiamate alle armi, in tempo di pace, solo per qualche giorno all'anno. Non vi è affinità tra il mestiere del soldato e le fatiche degli impieghi più
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ivi, pp. 77-78.
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bassi: di tre abitanti di un villaggio è meglio che uno si dedichi interamente all'arte militare, e gli altri due all'agricoltura. In tal modo il paese ha un buon soldato e due ottimi agricoltori, mentre con il sistema di milizia esso ha solo «tre soldati indisciplinati, che sono nello stesso tempo agricoltori oziosi, e corrotti». Inoltre se non esiste una forza militare sempre pronta, si potrebbe essere costretti a mobilitare improvvisamente i mietitori quando il grano è maturo, e i seminatori quando è il momento di seminare. L'esercito permanente oltre ad essere il mezzo più efficace per provvedere alla sicurezza interna ed esterna della nazione è anche il più economico, perché alla resa dei conti è quello che sottrae di meno forze produttive alla nazione. Infine, se lo Stato deve affidare la sua difesa a una milizia, deve armare tutto il popolo: la milizia deve essere numerosa a proporzione che è meno di sciplinata, e che è ordinata in una maniera più imperfetta, e più debole. Ora è cosa dubbia, se il Governo possa esser lungamente sicuro quando tutto il popolo è istruito nel maneggio delle anni, ed è assuefatto a ricorrere ad esse. Ciascuna fazione si troverà alla testa di un'annata, ciascun mal contentamento ecciterà una commozione, e ciascuna commozione una guerra civile. Il Paese sarà esposto a ri bellioni e rivoluzioni perpetue [ ... ] Ed è pur cosa degna di considerazione, che forse può governare una nazione armata, se non ciò che governa un esercito, cioè il dispotismo. 14
Gli avversari degli eserciti permanenti sostengono invece che essi tolgono braccia alle attività produttive, richiedono per il loro mantenimento gravosi tributi, facilitano le diserzioni, impediscono la procreazione da parte di uomini che sono nell'età più adatta per questo, e che inoltre a causa del celibato involontario, dell'ozio ecc. «corrompono e rendono dissolute le donne, e ampiamente diffondono i morbi venerei». Questi svantaggi non vengono eliminati permettendo ai soldati di ammogliarsi, perché ciò crea molti altri inconvenienti e non elimina l' immoralità. Inoltre «tutti i voti dé soldati permanenti sono contro la pace», perché dalla guerra sperano bottino onore e gradi, e in mancanza di nemici esterni «il loro sempre irrequieto coraggio si volge ora contro essi medesimi, ora contro i loro concittadinh>. E la pronta disponibilità di forze permanenti può incoraggiare i Governi a guerre e avventure ... Quanto al vantaggio - che fornirebbe l'esercito permanente - di proteggere la sicurezza intensa dello Stato, il miglior mezzo per mante-
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ivi, pp. 79-80.
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nere un popolo tranquillo e impedire sollevazioni è il buon governo; per contro, anche se il governo è buono i soldati mercenari si possono sollevare, perché il loro interesse è diverso da quello della popolazione civile. Se il Governo non è amato dalla nazione, finisce col dipendere interamente da questi ultimi, che a loro discrezione possono farlo miseramente cadere; oppure il Governo che dispone di truppe permanenti può «essere stimolato a servirsi del suo potere in una maniera molto spiacevole ai popoli, e atta a spingerli a qualche risoluzione violenta». I vantaggi esterni assicurati da forze permanenti non sono quelli che sembrano, perché «oggi la comunicazione dé popoli è universale», quindi non è possibile preparare guerre di nascosto e non sono da temere aggressioni improvvise: e anche con le milizie si può far fronte a un' aggressione, mobilitando gli iscritti delle province più vicine. Con le forze permanenti non si può ottenere maggior sicurezza, perché tutti le hanno accresciute in proporzione a quelle dei vicini, quindi l'unico aumento è stato «nella spopolazione, e nelle spese» [ma non è questo un argomento che milita a loro favore, visto che si tratta di mantenere l'equilibrio N.d.a.?]. I danni all'attività produttiva in caso di mobilitazione possono essere eliminati o limitati, sia mobilitando prima degli altri coloro che non sono contadini e concedendo dilazioni a questi ultimi, sia perché il tempo della mietitura o semina non è lo stesso ovunque, sia tenendo conto che, eccettuate le piccole nazioni vicine a potenti Stati, non è necessario che tutti i contadini siano iscritti alla milizia, e quest'ultima può essere composta solo da una parte dei giovani atti alle armi e appartenenti a tutte le classi sociali. In ogni caso, mentre con l'esercito di milizia si può qualche volta danneggiare la mietitura o la semina, con l'esercito permanente si danneggia l'agricoltura tutto l'anno ... A coloro che sostengono che almeno l'artiglieria e la cavalleria dovrebbero essere composte di unità perma ne nti, vi è anche chi obietta che, una volta istruiti gli ufficiali in scuole speciali, le funzioni del semplice soldato di artiglieria non sono molto difficili da imparare, e anche per la cavalleria il soldato può essere esercitato quanto basta, senza bisogno di mantenerlo armato. Un popolo non gravato dai grossi tributi destinati a mantenere forze sempre in piedi, «combatterà all'uopo per la sua patria, e pé vantaggi, di cui in essa gode, con un valore di gran lunga superiore a quello, che aspettar si possa da un esercito permanente di mercenari».15 Va anche respinta la tesi dell ' inconciliabilità tra mestiere militare e mestieri civili. Le milizie nei giorni festivi o nei periodi in cui il lavoro dei campi è me-
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ivi, p. 88.
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no intenso possono essere sufficientemente esercitate in tutto quello che deve fare i] soldato; i contadini sono molto adatti per i lavori di fortificazione spesso necessari in guerra, e la vita faticosa e dura alla quale sono abituati li rende capaci di resistere ai disagi de1la guerra molto più delle armate permanenti «ammollite da1l'ozio in tempo di pace». Con questa puntuale elencazione dei vantaggi della milizia termina l'esame del Cr., che con il solo fatto di non prendere posizione sembra favorire quella soluzione mista che poi è stata adottata in Piemonte.
L'attacco sotterraneo alla strategia, alla logistica e agli ordinamenti napoleonici: inconvenienti dei grossi eserciti e del sacco del Paese nemico Il Cr. attribuisce al peso sociale ed economico degli ordinamenti militari e della guerra un'importanza, una priorità che non era certo nello spirito della levée en masse, basata sul principio che tutti i cittadini in quanto tali dovevano offrire con entusiasmo il ]oro braccio e i loro averi per la difesa della patria. Egli invece considera la leva o la milizia come un gravame da evitare il più possibile, solo un espediente per supplire aJla mancanza di volontari: siamo dunque agli antipodi rispetto all'ottica ottimistica della Rivoluzione. Questo emerge ancor più chiaramente dalla posizione insolitamente categorica che egli assume contro i due capisaldi deUa strategia della Rivoluzione: i grossi eserciti e il sistema logistico di vivere sul Paese invaso. «Sia che si ami meglio la guerra offensiva, sia che si preferisce la difensiva, dico che a gravi inconvenienti si espone chi si vale di un esercito molto grande». 16 E quando grossi eserciti sono stati sconfitti da altri più piccoli, ciò non è avvenuto perché questi ultimi erano composti da soldati più valorosi o comandati da generali più abili, ma in molti casi a causa degli inconvenienti che comporta appunto l'impiego di grandi masse armate. Per prima cosa eserciti troppo numerosi spopolano gli Stati, richiedono spese eccessive e possono essere riforniti con grande difficoltà. Per di più richiedono lungo tempo per la mobilitazione e radunata, perdendo le occasioni favorevoli e fornendone al nemico. Sono difficilmente comandabili e controllabili in guerra da un solo condottiero, che può ricevere notizie in ritardo e far pervenire - con gravi conseguenze - ordini
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ivi, p. 192.
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in ritardo. Questo perché «se non è dotato di una straordinaria, e direi quasi sovraumana capacità di mente, sarà nella battaglia confuso dalla moltitudine di cose, che succedono, e dalle nuove, che continuamente riceve, e dal gran numero di ordini, che deve dare». È costretto a muoversi con perniciosa difficoltà e lentezza, quindi se procede su un solo itinerario si espone ad essere attaccato e distrutto separatamente: e difficilmente trova località adatte per accamparsi e per spiegarsi in battaglia. Quando si accampa è costretto da esigenze logistiche a cambiare di frequente posizione, e «aggiungasi introdursi facilmente le malattie nè troppo grandi eserciti»; infine, se è sconfitto compromette l'esito della guerra. Comunque, se il Principe a causa della vastità e ricchezza dello Stato vuole creare un grande esercito «è molto meglio formar diverse armate, che unire un eccessivo numero di truppe in un solo esercito». Il Cr. boccia senza riserve anche il sacco del paese nemico, conseguenza pressochè inevitabile della strategia di masse e offensiva di tipo napoleonico. Lo boccia non per ragioni umanitarie, ma perché «non solamente nuoce a chi lo soffre, ma reca altresì in varie maniere danno all'armata medesima, che saccheggia, e al di lei sovrano». Le truppe che saccheggiano si dividono e sono difficilmente comandabili, nascono risse tra i soldati, le risorse del paese vengono inutilmente rovinate quando potrebbero servire per molto tempo, gli abitanti sono indotti a rihellarsi, si diffondono epidemie, coloro che più godono dei saccheggi non sono i soldati ma i trafficanti al loro seguito. Un esercito gravato dal bottino è lento a muoversi; un soldato che ha fatto molto bottino o cerca di abbandonare la professione militare, o ha poca voglia di combattere, e infine chi mette a sacco il paese nemico deve poi aspettarsi che venga messo a sacco il proprio. Non valgono le obiezioni a favore del sacco (rovinando i paesi invasi, si convincono gli abitanti ad arrendersi più facilmente; i popoli che a noi si oppongono con le armi non meritano di essere trattati bene; se un paese occupato si solleva è giusto punirlo col sacco; la speranza del bottino induce i soldati a sopportare meglio fatiche e disagi e a combattere con grande valore). Lungi dall'indurre i popoli ad arrendersi, i saccheggi stimolano la vendetta, almeno se un popolo non è effeminato e vile. Se un popolo si solleva, normalmente è perché ingiustamente trattato; ma anche sè ciò non fosse, con il sacco si puniscono sia i colpevoli che gli innocenti; quest'ultimi sono la maggioranza, e si irriterebbero fino a far diventare l'insurrezione generale. Per accrescere lo spirito combattivo delle truppe vi sono altri mezzi oltre che la prospettiva del saccheggio. Comunque, se a questi mezzi si vuol aggiungere lo stimolo del lucro, anziché accordare ai soldati il saccheggio si potrebbe dividere tra di essi un tributo imposto
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al paese conquistato; così facendo il paese soffrirebbe assai di meno che con il sacco, e se ne conserverebbero le risorse. Anche se il nemico saccheggia il nostro paese, non conviene ricambiarlo della stessa moneta: «se vuolsi ricorrere alla pariglia, si faccia essa soltanto cadere sopra quelle persone, che commisero gli eccessi; e dopo d'averla una volta adoperata si dichiari al nemico, che si desisterà, se egli desiste, e che si continuerà, se egli continua».
Stato e avanzamento dei Quadri - ruolo del Principe nel comando dell'esercito Su questi importanti argomenti il Cr. dimostra idee sorprendentemente avanzate, a dispetto del luogo comune che vorrebhe la gerarchia degli eserciti della Restaurazione modellata sui privilegi della nobiltà. Per lui i gradi militari devono essere aperti a tutti i meritevoli soldati compresi, perché se gradi e onori sono riservati a una sola classe, tutti gli altri rimangono privi di stimoli. Inoltre gli stessi appartenenti alla classe privilegiata non avendo concorrenti numerosi negli avanzamenti non sono indotti a distinguersi : di più la giustizia vuole, che tutte le classi di uomini che sopportano il peso, e gli incomodi della vita del soldato, partecipino altresì del vantaggio dé gradi, e degli onori militari in proporzione dé meriti personali. Aggiungasi che i tributi destinati per il mantenimento dell'armala, gli alloggi militari, ed altri carichi, cui i popoli sono per cagione delle truppe soggetti, non vengono da una sola classe di cittadini sostenuti. 17 È giusto che nell'avanzamento oltre che dell'anzianità si tenga conto del merito, specie nei gradi superiori. E poiché la prima qualità dello stato militare è di esservi affezionato, il Cr. con ripetute citazioni del generale francese Duhesne dimostra che è bene che gli ufficiali abbiano qualche rendita ma non siano troppo ricchi, perché chi può vivere agiatamente a casa sua mal sopporta i disagi della vita militare e si ritira alla prima delusione. Al tempo stesso, nei reggimenti troppi ufficiali con qualità eminenti e di educazione brillante, che mirano in alto, sono più dannosi che utili. Lo Stato non può assicurare a tutti l'accesso ai gradi più elevati, e se questi elementi ben dotati rimangono per lungo tempo
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ivi, p. 43.
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nei bassi gradi, vedono le loro doti misconosciute, si scoraggiano e sono preda del disgusto e della noia della routine, fino a restare indietro rispetto «all'uomo mediocre, che non credendosi superiore al suo grado, lo riempie con zelo, e con applicazione continua». Di conseguenza - come vuole il genera1e Duhesne - nei reggimenti basta solo un quarto, o tutt'al più un terzo di ufficiali che possono aspirare ai gradi più elevati; un terzo dei posti dovrebbero essere riservati a soldati, «che in esso allevati limitassero i loro desiderii ad ascendere a tali gradi, e riguardassero il corpo, cui appartengono, come la loro culla, ed il loro tetto paterno». 18 I rimanenti dovrebbero essere ufficiali che «con un'educazione più comune, e con un patrimonio più mediocre hanno mire meno elevate, e una ambizione più moderata». E mentre gli ufficiali di queste due ultime categorie «hanno un vivo, genuino interesse per l'onore, per la buona condotta, e pel miglioramento del corpo, di cui sono parte», quelli che mirano molto in alto «non riguardano gl'impieghi di un reggimento che come gradi, che bisogna oltrepassare per ascendere più in alto». Sulla convenienza che il Principe assuma personalmente il comando dell'esercito, il Cr. non è tassativo e fornisce saggi criteri: a) il Principe non deve prendere di persona il comando dell'esercito, se non è adatto a questa carica;-b) il Principe non deve condurre di persona guerre lontane o poco importanti; c) in taluni casi è comunque opportuno che egli si porti vicino al teatro della guerra; d) quando l'esercito combatte per difendere il paese da una pericolosa invasione, conviene che il Principe si faccia vedere al campo, per infondere coraggio ai soldati; e) in tutti i casi, deve evitare di esporsi troppo, e di correre il pericolo di venire catturato.
Le armi da fuoco sono meno efficaci di quelle bianche?
Le argomentazioni del Cr. a proposito dell'efficacia delle armi da fuoco si distaccano un pò dalla nonna e non sono certo avveniristiche. Egli contesta (e non è il solo) l'opinione di coloro, i quali pensano essere le armi da fuoco contrarie al bene dé popoli, ed esigere la politica, che non vengano più adoperate, e che si ristabilisca l' uso delle arrni antiche, a cui furono sostituite. La ragione, sulla quale è fondato un tal sentimento è che
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ivi, P- 47.
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le armi da fuoco hanno reso le guerre nostre molto più sanguinose delle antiche. 19
Appoggiandosi a talune argomentazioni di autori illustri come il marchese Palmieri, il Carnot, il Folard, il Cr. cerca di dimostrare che sia le anni da getto individuali degli antichi (arco, fionda, balestra) sia le loro macchine da guerra erano più efficaci e con gittata maggiore, più rustiche e con peso minore delle armi da fuoco individuali e delle artiglierie dell'epoca; inoltre, a causa del rumore e del fumo che producono, l'impiego delle anni da fuoco dà luogo a numerosi inconvenienti- E mentre un arco per lanciare una freccia richiede solo quattro operazioni, un fucile per sparare ne richiede ben 19, diverse delle quali comportano, per giunta, un cambio di posizione per l'arma. Di conseguenza io non dirò già che le armi da ferir da lungi degli antichi, vincano le nostre da fuoco; sembrami per altro, che tali ragioni provano non aver queste armi sopra di quelle la grandissima superiorità che comunemente si crede.
Per molteplici ragioni connesse anche con le formazioni meno profonde che richiede l' impiego delle armi da fuoco, dopo l'i ntroduzione di quest'ultime le battaglie, contrariamente a quanto si crede, in proporzione al numero dei combatlenti sono diventate molto meno sanguinose di prima; inoltre l'uso delle armi da fuoco è una delle principali cause della superiorità che hanno in guerra le nazioni civili sui popoli barbari, che non conoscono la scienza dell' artiglieria e l'arte delle fortificazioni. Per queste ragioni il Cr. non concorda con coloro che vorrebbero abolirle. Ma anche se fosse vero che esse hanno reso la guerra più funesta per l' umanità, non si vede in quale maniera si potrebbe abolire il loro uso, «imperciocché una nazione non si lascierà mai indurre a rinunziare solo all' uso delle armi da fuoco, ed è cosa affatto improbabile, che tutti i popoli vogliano insieme accordarsi a non più adoprarle» .20 Con queste considerazioni che sono almeno in parte adattabili a qualsivoglia tipo di arma di distruzione di massa, chiudiamo l'esame dei principali argomenti trattati dal Cr., che al di là dei suoi limiti e della mancanza di originalità di molti concetti si dimostra specchio fedele del punto di vista dell' establishment del tempo - piemontese e non - sul
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20
ivi, p. 103. ivi, p. 122.
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problema militare; un punto di vista per il quaJe il modello napoleonico è più qualcosa da evitare e da dimenticare, che un riferimento tecnicomilitare. Il Cr. va anche ricordato per essere stato il primo ad usare il termine nazione armata, pur circondandolo di diffidenza. Nazione annata nel senso letterale del termine, di distribuzione delle armi (solo a1 momento del bisogno) a tutto il popolo e di suo coinvolgimento nella difesa nazionale. Ciò non significa automaticamente, però, adozione dei principi della guerriglia, della guerra per bande, ecc., o della guerra nazionaJe di popolo sul modello spagnolo: in base a quale strategia impiegare le masse armate, è problema derivato che il Cr. non tratta, sì che lo sbocco strategico e ordinativo da allora in poi può avvenire o sul modello della Rivoluzione Francese (corrispondente alla strategia classica) oppure sul modello della guerra nazionale spagnola (ove si trovano elementi di una strategia per così dire alternativa). Va detto, infine, che l'avversione agli eserciti permanenti della quale il Cr. elenca le ragioni non è solo dei Principi del tempo, ma corrisponde a un sentimenlu .IBsai diffuso, che in Francia come aJtrove aveva fatto degli eserciti di leva qualcosa di assai diverso dai miti utopistici coltivati dal Filangieri ed altri.
SEZIONE II - Il «Compendio analitico dell'arte della guerra per le Accademie» di Paolo Racchia (1832 - in francese) 21 Secondo il Brancaccio, questo libro in francese del tenente colonnello del genio piemontese Paolo Racchia «fece testo per molti anni presso lo Stato maggiore Generale piemontese, ed all'Accademia militare. Venne poi tradotto in italiano da due ufficiali napoletani (Torrebruna e Ruiz) e stampato anche a Napoli con il titolo di Compendio ana.litico dell'arte della guerra (1837)». Le finalità didattiche dell'opera sono del resto chiaramente indicate dall'autore nella prefazione, esprimendo senza alcuna modestia l'auspicio che «possa questo scritto contribuire ariprendere e stabilire, nell'ambito dell'armata reale, i veri principi dell' arte militare, impegnare i giovani ufficia1i ad applicarsi seriamente a uno studio senza il quale, meno che mai ai nostri giorni, non sarà loro possibile distinguersi nella carriera delle armi, o almeno spingere una penna più esercitata della mia a perseguire il medesimo obiettivo con risultati di rilievo».
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Torino, Chirio e Mina 1832.
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Ancor più ambizioso l'obiettivo che dichiara di aver perseguito alla fine dell'opera: ho voluto altresì fornire un' idea sulla composizione di un codice militare, dove la giurisdizione, le competenze, la procedura, il giudizio, e la pena siano chiaramente specificate e determinate; e quantunque queste materie non siano esclusivamente di competenza di uno scrittore militare, esse potrebbero essere considerate come delle indicazioni elementari per un'opera che disgrnziatamente è troppo incompleta nelle legislazioni d'Europa, e che dovrchbe riguardare le importanti componenti annate dei sistemi politici.22
In realtà di quest'idea si trovano nel libro tracce assai rare e pallide, perché il R. tratta argomenti essenzialmente tecnico-militari. La lingua francese, in quanto lingua colta nel Piemonte dell'epoca, non è di per sé indice di influsso di autori militari francesi: eppure tra tutti gli scritti che finora abbiamo incontrato, questo libro è il più schiettamente jominiano, a cominciare dal titolo e persino da! carattere di stampa usati. Anche se Jomini (e questa - a parer nostro e neH' ottica attuale - è una scorrettezza) non viene mai citato, le definizioni dei principali termini concernenti l'arte della guerra riprendono alla lettera - e non solo nella sostanza quelle di Jomini. L'unica eccezione - che non dovrebbe essere fatta - è il mancato accoglimento da parte del R. del termine logistica, già introdotto da Jomini con componente importante della strategia nel 1830. Diversa, in R., anche la ripartizione dell' arte della guerra. Nel Tableau analytique Jomini la divideva in cinque parti: politica della guerra, strategia, grande tattica, arte dell'ingegnere, tattica di dettaglio. TI R. invece la vuole articolata «in tre classi distinte di combinazioni, ovvero quelle politiche, quelle militari e quelle amministrative. La prima classe comprende «le combinazioni filosofiche, ivi comprese quelle legislative» e la politica militare degli Stati «tanto interna che estera». La seconda classe è così composta: - la strategia, o l'arte di muovere le masse sui teatri di guerra (stessa definizione di Jomini); - la tattica generale, o la grande tattica che costituisce l'arte delle battaglie, dei combattimenti e degli assedi (stessa definizione di Jomini, con aggiunta di «assedi»); - la tattica elementare (tactique elementaire), o l'arte di preparare le truppe per la manovra e il combattimento (Jornini parla di tactique du détail, con lo stesso significato; né Jomini né R. la trattano);
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ivi. pp. 352-353.
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- l'arte dell'ingegnere militare, che riguarda i lavori tendenti a dare al terreno un valore impeditivo maggiore e altresì la costruzione, l'attacco e la difesa delle piazzeforti [né Jomini né R. la trattano, pur attribuendole lo stesso significato]; - l'arte dell'artigliere, l'arte del pontiere, la geografia, la topografia e la statistica militare [materie tecniche secondarie che Jomini a ragione non indica come parti dell'arte militare, e che R. non tratta - N.d.a]. La terza classe, ovvero l'amministrazione generale della guerra, comprende l'armamento, l'equipaggiamento, le rimonte, il vestiario, il saldo, le sussistenze di ogni tipo, il casermaggio, il servizio dì sanità delle truppe ecc. (cioè: quella che oggi chiamiamo logistica). Il R. si prefigge di trattare solo «le branche puramente militari dell'arte», perciò tralascia gli argomenti attinenti alla prima e terza classe. Nell'ordine di trattazione degli argomenti il R. dichiara di volersi ispirare a Montecuccoli , esponendo nella prima parte dell'opera tutto ciò che si riferisce all'organizzazione generale della guerra (cioè all'apparecchio e alla disposizione del Montecuccoli) e nella seconda parte tutto ciò che riguarda le operazioni degli eserciti, cioè l'esecuzione generale della guerra. La prima parte è composta da quattro capitoli, dedicati rispettivamente agli eserciti in generale, alle piazzeforti, allo Stato Maggiore Generale dell'esercito e ai piani di guerra. Nella seconda parte, anch'essa di quattro capitoli, due capitoli sono dedicati alle «piccole operazioni» e alle «operazioni secondarie», e gli altri due rispettivamente alle operazioni strategiche e alla grande tattica. Quale che sia la ripartizione e l'ordine di trattazione della materia, il R. non fa che riprendere o sviluppare temi e problemi già toccati da Jomini nel Tableau analityque, spesso con le stesse parole. Il concetto che egli ha della guerra è però assai diverso e anzi opposto rispetto a quello del Montecuccoli, di Napoleone, di Clausewitz e dello stesso Jomini, perché il fine ultimo da lui indicato non è la debellatio dell 'avversario ma sembra affine a quel1o degli illuministi del XVIlI secolo: la guerra è l'impiego della forlil pubblica, rimedio estremo al quale i Governi fanno ricorso per mettere fine alle loro contese, allorché la via dei negoziati rimane senza risultati, per ricondurle a delle relazioni amichevoli o inoffensive. Nel sistema moderno di guerra, un Governo ha generalmente raggiunto il suo scopo, quando il suo esercito è riuscito a disorganizzare quello deJI' avversario. La schiavitù, la distruzione che, nei secoli della barbarie, segnavano normalmente il trionfo di una parte sull'altra [...] hanno fortunatamente lasciato il posto ad altre condizioni che onorano l'umanità; sicché o-
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gni resistenza che cessa di avere di per sé qualche possibilità di successo viene oggi considerata come temeraria, e rimettendo la parte più debole nelle mani del più forte, gli interessi più sacri dei Governi- civili consistono nel saper evitare un simile estremismo.23 De queste premesse si dovrebbe dedurre che le guerre senza quartiere di Napoleone, che terminavano con la distruzione degli eserciti nemici in battaglie decisive, non sono - come per Jomini e Clausewitz - dei modelli da seguire, ma piuttosto dei revival di sistemi di gue1Ta barbari e antichi ormai da accantonare in nome della civiltà o del progresso. Eppure in altra parte del testo R. afferma che 1'applicazione pratica dei principi dell' arte della guerra è privilegio dei gran capitano e che il numero delle massime dell ' arte non può essere considerato definitivo, perché ciascuna guerra, ciascun avvenimento militare, meditato nel silenzio del gabinetto, può aggiungerne altre alla preziosa eredità dell 'antichità, e a quella, ancora più preziosa, delle ultime campagne dove è emerso l'uomo di guerra più straordinario che i secoli ahbiano espresso.24 Al di là di questo esplicito omaggio a Napoleone e insieme allo storicismo jorniniano, nella prefazione all 'opera R. insiste proprio sul principio - base della guerra decisiva e di annientamento, che secondo Jomini era il segreto, il clou della strategia napoleonica e di que lla di tutti i grandi capitani: «concentrare ne i punti più importanti di un teatro d'operazioni e di un campo di battaglia forze superiori a quelle del nemico». Veramente Jomini parla in genere di un solo punto decisivo, e solo qualche volta di punti decisivi , e dell a «maggior parte delle nostre forze», che non è la stessa cosa di forze superiori a quelle del nemico: R. vuol forse dire qualchecos'altro? È da escludere: semplicemente, si esprime male. Come Jomini egli definisce quello della concentrazione delle forze nel punto decisivo «principio fondamentale, immutabile, indipendente dal tipo di armi, dai tempi e dai luoghi ».25 E nel prosieguo dell'opera parla di «punto decisivo del teatro della guerra» che deve essere considerato come il vero obiettivo delle armate, precisando che «per ogni buona operazione militare e per la stessa base, non vi deve essere che un solo obiettivo principale, perché la loro molteplicità sarebbe incombatti23
ivi, p. 4.
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ivi, p. 253. ivi, p. 7.
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bile con il principio fondamentale della guerra, cioè la concentrazione delle masse». 26 Non mancano neppure eloquenti e ripetuti- anche se poco originali - omaggi al concetto di battaglia decisiva: un esercito manovra per masse concentrate sul teatro di guerra, e successivamente sul campo di battaglia, allo scopo di ottenere la superiorità del numero e del terreno, e di distruggere le forze nemiche organizzate, sia che essere agiscano in campo aperto, sia che esse combattano sotto la protezione delle piazzeforti.27 E quando R. traccia un quadro della battaglia, sembra che abbia davanti quelle di Napoleone, dominate dal suo intuito: L'arte trionfa dell'arte, il valore del valore, e la vittoria rimasta per lungo tempo incerta viene colta con un ultimo sforzo, una residua felice ispirazione, un movimento abilmente eseguito con la rapidità di concezione, nel momento più opportuno, e contro il punto più decisivo. Io mi fermo a 4ueslo lt:ggeru abbozzo lld più grande llegli avveni-
menti che possa verificarsi sulla scena del mondo, e decidere in poche ore del destino degli eserciti e degli imperi che vi hanno preso parte.28 Lo «schizzo» è palesemente quello della battaglia napoleonica; e più avanti, si trova anche il riconoscimento della necessità dell'inseguimento, perché «incalzare fortemente un esercito battuto per gettare i suoi corpi nella confusione e disorganizzarlo totalmente, significa garantirsi i risultati della vittoria».29 Sempre com avviene per Jomini, le combinazioni della guerra devono ispirarsi a leggi fisse e/o principi generali immutabili, con modalità di realizzazione variabili nelle quali non si capisce bene fino a che punto c'entri la personale capacità del condottiero, dato che il genio, che sa creare e variare le combinazioni all'infinito, dare del valore al numero, e della potenza al materiale, potrà bene un giorno apportare dei cambiamenti alla tattica, così come alle arti dell'ingegnere e dell'artigliere; ma la strategia, immutabile nel mezzo di queste rivoluzioni, non vedrà che accrescersi e consolidarsi il complesso di conoscenze fisse che le servono attualmente da base. 30 26
ivi, pp. 256-257. ivi, p. 20. 28 ivi, p. 318. 29 ivi, p. 337. 30 ivi, p. 10. 27
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Dopo le lodi a Napoleone, tutto questo - in aderenza a1le teorie dell'Arciduca Carlo - sembra restringere l'opera del genio alla tattica e non alla strategia. E ancora un volta in contraddizione con l'esaltazione della battaglia decisiva compiuta in altre occasioni, R. attribuisce al cristianesimo il merito dell'accantonamento della guerra spinta agli estremi, come se questo fosse cosa ininfluente rispetto agli obiettivi e alle forme della strategia. E per effetto del cristianesimo e dell'introduzione delle armi da fuoco «nuove combinazioni morali, politiche e militari sostituiscono con successo, nei gabinetti come sui teatri di guerra e sui campi di battaglia, la politica e la tattica degli antichi». Tullo cambia, meno che la strategia! L'interrogativo che il R. scioglie ancor di meno di Jornini è sempre il solito: può la strategia riassumersi in principi fondamentali generali e nello studio e pianificazione? la strategia può non essere azione? e anche se rimanesse a livello di studio e pianificazione, può ignorare i mutamenti della politica o della tecnologia, visto che è figlia della poJitica, a sua volta non speculazione teorica ma azione concreta? Nel prosieguo dell'opera il R. non risponde a questi interrogativi e non risolve le contraddizioni alle quali si è accennato, limitandosi a riprendere parecchi degli argomenti ùel Tableau analytique jornin iano, pur in diverso ordine. Molto pochi gli spunti originali: di rilievo, comunque, il largo spazio dedicato alla petite guerre, cioè all'impiego di distaccamenti piccoli e grandi e di piccole unità mobi1i che agiscono intorno al grosso, per l'esplorazione e la sicurezza, l'eliminazione dei primi ostacoli alla sua marcia ecc .. Sono argomenti che Jomini trascura, ma che tuttavia al tempo erano già stati affrontati da diversi altri autori. Altro argomento che il R. - e questo è un merito - tratta con molta attenzione è lo Stato Maggiore generale dell'esercito, al quale dedica molto più spazio di Jomini, riservandogli un intero capitolo. Se si pone mente al ruolo tutto sommato marginale dello Stato Maggiore piemontese nelle guerre di indipendenza, si rimane stupiti dell'importanza che egli attribuisce a questo organismo, il quale lungi dall'occuparsi solo di carte topografiche e dati statistici deve essere considerato come la base principale per la formazione degli Stati maggiori dei corpi e delle divisioni di ogni esercito destinato a entrare in campagna, o a passare un tempo limitato in un campo d'istruzione. Questo corpo è inoltre il pivot intorno al quale ruota tutto il lavoro militare e amministrativo dell'esercito. Questa istituzione, la cui data di nascita è recente, contribuisce fortemente ad assicurare una buona direzione delle operazioni ordinate dal comandante in capo, ed a centralizzare la vasta amministrazione
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dell'esercito, assicurandone nel contempo la semplificazione [ ... ] Sotto il profilo del servizio, è il punto centrale deJle grandi operazioni militari e amministrative.3 1
Il R. ha un concetto per così dire allargato della composizione dello Stato Maggiore generale di un esercito attivo (cioè mobilitato), includendovi i generali governatori delle province e gli ufficiali superiori di tutte le Armi. A parte queste aggiunte, ne fanno parte: il generale in capo, il capo di Stato Maggiore Generale (o quartier - mastro generale) con un numero variabile di ufficiali di Stato Maggiore, i comandanti d'Arma (artiglieria, genio, fanteria e cavalleria). L'Intendente generale della guerra e gli ufficiali e impiegati civili delle differenti amministrazioni che da lui dipendono «formano un personale particolare che si trova ugualmente alle dipendenze del Capo di Stato Maggiore Generale». Il lavoro di Stato Maggiore viene suddiviso tra cinque sezioni o uffici, cioè: ufficio generale, ufficio amministrazione, ufficio situazione, ufficio finanze, ufficio polizia, ufficio topografico. Le principali materie trattate sono: le parole d'ordine e di riunione, gli ordini generali e per le divisioni, gli ordini di movimento, le istruzioni, il servizio militare, la corrispondenza, le varie situazioni, la parte segreta, le finanze, i fondi particolari, i depositi di convalescenza, i depositi di cavalleria, i lavori topografici, la parte storica, la smobilitazione dell'esercito. Il servizio giornaliero di Stato Maggiore consiste nella sorveglianza di tutto quanto attiene alle principali misure di polizia, al servizio militare, alla disciplina, alle misure di sicurezza, ai magazzini, alle caserme, prigioni, ospedali e a1le «distribuzioni» (cioè ai rifornimenti) di qualsiasi tipo. Nell'ambito del servizio di Stato Maggiore, il R. si sofferma particolarmente sulla geografia, sulla topografia e sulla statistica, discipline scientifiche i cui progressi a suo giudizio rendono la concezione e l'esecuzione delle combinazioni de11a guerra «più facile e meglio compresa». Riassumiamo qui di seguito il suo pensiero in proposito, dal quale si può ricavare un'idea di prima mano su come sono visti al tempo in Piemonte questi importanti aspetti della tecnica di Stato Maggiore. Le carte geografiche «servono a rappresentare la configurazione di determinate parti del globo, quella di differenti teatri di guerra e delle loro diverse combinazioni dalle quali si possono dedurre le rispettive possibilità militari e geografiche». 32 Va chiarito che, a quel tempo, le caratteristiche geografiche, demografiche, economiche ecc. dei vari Paesi non
31 32
ivi, pp. 93-94. ivi, p. 97.
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erano ancora diventate una sorta di patrimonio comune, senza segreti di alcun genere, come oggi: e così il R. arriva a dire - come tanti altri del resto - che dalla perfetta conoscenza degli elementi ricavati dalle carte «dipende in parte ]a scelta delle alleanze politiche, e tutte le disposizioni generali della guerra, quelle preliminari soprattutto, senza escludere le alte concezioni dell'arte tendenti ad aumentare la forza naturale del terreno». Per il R. la geografia è lo schizzo di una regione, mentre la topografia ne è l'immagine. Pertanto essa serve a determinare la «forza naturale» di una frontiera o di una qualsiasi estensione di terreno, e il suo scopo è quello di «individuare tutti i vantaggi che la natura e l'arte hanno potuto riunire su una determinata fascia di terreno, rendendola più o meno adatta all'attacco a alla difesa». 33 Particolare interesse rivestono le caratteristiche topografiche delle frontiere di uno Stato e di quelle dei paesi nemici ; a tal fine, la topografia si divide in topografia generale e topografia di dettaglio. La topografia generale si concretizza nelle carte generali, tracciate ricorrendo a procedimenti geodetici, e riguarda: - la topografia completa d'una parte delle frontiere d'uno Stato, che serve per l'insieme delle operazioni che si prevede di condurre; - la carta completa d'una qualsivoglia circoscrizione territoriale, o il movimento degli eserciti in una determinata regione; - la carta d'una parte delle frontiere di due Stati vicini, sulla quale sono tracciate le operazioni difensive e offensive degli eserciti belligeranti; - la carta d'insieme delle frontiere degli Stati vicini, che serve a indicare le linee delle piazzeforti, le basi e linee d'operazione dei rispettivi eserciti, le comunicazioni tra un paese e un altro, e infine tutti i punti che possono avere una qualche influenza sulle operazioni. Dal canto suo, la topografia di dettaglio si occupa della rappresentazione del terreno e insieme con esso dei dispositivi militari, «dall'accampamento di una compagnia a quello di un esercito». Essa riguarda le piante dettagliate delle città, delle strade, delle coste, delle piazzeforti, il tracciato delle fortificazioni di campagna, lo schema grafico delle operazioni di attacco e difesa, le planimetrie dei campi di battaglia, la rappresentazione grafica dei movimenti degli eserciti, gli itinerari, ecc .. Le varie carte sono compilate a una scala conveniente, in relazione al loro scopo militare. In genere:
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ivi, p. 98.
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- le carte geografiche hanno scala superiore a 1:200.000; - le carte topografiche generali hanno come limite inferiore la scala 1:5000 e come limite superiore la scala 1:200000; - le carte topografiche di dettaglio hanno come limite superiore la scala 1:5000. Il R. aggiunge anche che «le carte tracciate con il metodo dello sviluppo [developpement] sono preferibili a quelle che sono ricavate con il sistema delle proiezioni». Le conoscenze geografiche e topografiche sono integrate da quelle statistiche, intendendo la statistica come «massa delle conoscenze locali sulle risorse di ogni genere di uno Stato». 34 Di conseguenza «questa scienza fornisce i materiali più preziosi per calcolare in anticipo le esigenze degli eserciti, e pareggiare approssimativamente la somma dei mezzi disponibili con quella censita, in vista della realizzazione dello scopo che ci si propone». Per mezzo di questo lavori scientifici ciascun Stato che tiene alla sua gloria militare e alla sua indipendenza politica prepara in anticipo gli elementi indispensabili per una buona concezione e organizzazione delle operazioni belliche. Vi provvede in pace e in guerra la sezione topografica dello Stato Maggiore generale, che si occupa delle seguenti branche: operazioni geodetiche, levate topografiche, compilazione di carte geografiche e topografiche; disegno di piani con il sussidio dei precedenti storici; memorie descrittive; dati statistici; incisione e ritocco degli stampi in rame per la riproduzione delle carte; litografia. In tutti i casi, «le migliori carte possibili non sarebbero sufficienti per le differenti esigenze della guerra, senza l'ausilio delle ricognizioni, delle memorie descrittive, degli itinerari e dei dettagli diversi che ne derivano, e che riuniti insieme sono i soli capaci di fornire una idea precisa e fissa del terreno; lavoro preliminare indispensabile per tutte le operazioni parziali, tanto militari che amministrative». 35 Per completare il quadro, citiamo alcuni argomenti secondari. Sia pure in maniera sommaria, il R. fornisce anche un'idea delle modalità di reclutamento in voga al tempo, distinguendo tra truppe in servizio permanente, temporaneo o alternativo. Le truppe in servizio permanente, cioè quelle che rimangono alle armi per un periodo relativamente prolungato anche in tempo di pace, formano gli eserciti regolari. Le truppe in servizio temporaneo costituiscono le riserve, prestano un servizio atti-
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ivi, p. 101. ivi, p. 102.
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vo di durata limitata e prendono nomi differenti: guardia nazionale, milizie provinciali, landwehr e landsturm. Prestano un servizio alternativo coloro che passano da un servizio all'altro, cioè dalle riserve all'esercito regolare e viceversa. La forza dell'esercito regolare generalmente viene considerata oscillante tra 1,5 - 2% della popolazione. Ormai «il reclutamento tramite sorteggio è diventato un'istituzione fondamentale, alla quale è per così dire legata la sorte politica del bene della nazione». Il R., infine, sostiene la necessità di due provvedimenti senz'altro benefici, non ancora attuati nell'esercito piemontese del tempo: l'assegnazione all'artiglieria sia dei soldati per il servizio ai pezzi sia del personale, dei quadrupedi e del carreggio necessari per il traino dei pezzi stessi e per il trasporto delle munizioni e materiali (nell'esercito piemontese queste ultime mansioni erano ancora affidate al corpo del treno) e il passaggio dei pontieri da1l'artiglieria al genio, attuato molti anni più tardi. 36 Queste considerazioni di un certo interesse non bastano a riscattare l'opera, che nella sostanza rimane una cattiva e non dichiarata rielaborazione di molti dei contenuti dal Tableau analytique jominiano: quando il R. se ne discosta con accenti personali, non fa che creare contraddizioni e scompensi. Il modello napoleonico che a sua volta ispira Jomini, più che respinto, viene riverniciato e annacquato, creando così ulteriore confusione e rendendo poco chiara e coerente l'impostazione generale, nella quale si tende a conciliare e a far convivere ciò che non è conciliabile. Sono ad esempio estranei allo spirito e alla lettera della nuova guerra napoleonica il reclutamento basato sul sorteggio e la coscrizione considerata come gravame da evitare, che denotano il ritorno a vecchi topoi degli eserciti a lunga ferma di fine secolo XVIII. Poiché il R. non è il solo ad esaltare molti aspetti dell'arte militare napoleonica condannandone nel contempo la tendenza alla debellatio e alla guerra di masse, viene il sospetto che egli si adegui senza troppo convinzione al modello militare e strategico del momento, imposto per ragioni di mera politique politicieline interna da un establishment fortemente nemico di Napoleone, per la semplice ragione che Napoleone l'aveva sbalzato dal trono. Così il R. e altri autori coevi dipingono di una superficiale e malferma vernice opportunistica la concezione napoleonica della guerra, ma poi di fatto la riaffermano, negando subito dopo ciò che affermano di antinapoleonico. Manovrette forse inevitabili: ma tali da creare confusione di idee specie nei Quadri più giovani e inesperti. Aggiunge ben poco a questo giudizio l'analisi critica dell'opera del
36
ivi, p. 50.
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R. dovuta al coevo Francesco Sponzilli, capitano del genio napoletano a noi già noto, in certo senso suo concorrente perché autore di un'opera che nell' esercito napoletano corrisponde a quella del R. e che prenderemo successivamente in esame. Più che fare una critica più o meno serena, lo Sponzilli tenta un lavoro di autentica, spietata demolizione, dedicandogli sulla Antologia Militare napoletana del 1838 due lunghissimi saggi il cui stile prolisso, involuto e poco lineare forse vorrebbe nascondere in qualche modo l'animosità degli attacchi smussandone gli angoli. 37 Dopo aver definito Bonaparte «il massimo fra i capitani del mondo», perché «checché ne dicano taluni precJari autori moderni» ha mostrato chiaramente quelle leggi generali della guerra «delle quali il germe era in Federico, in Turenna, ed in qualche altro Capitano» lo Sponzilli lamenta che «noi quasi manchiamo di opere le quali giovandosi di tanti preziosi materiali sparsi, presentino un edificio corrispondente a un'idea d'insieme, ch'è ragionevole il desiderare, circa ciò che dirsi vorrebbe un corpo di scienza ed arte militare». Ciò premesso, egli accusa il R. di «aver steso sul cavalletto una tela sproporzionatamente ristretta alla sufficiente esposizione» della materia, «chè gravissimo detrimento una verità viene a ricevere, qualora per soverchio desìo di riassumere, monca rimane e priva delle parti onde maggiormente si distingue». E gli rimprovera di aver «fatto il maggior sacrificio che immaginar si possa» togliendo di mezzo gli esempi storici, «sorgenti a tutte le regole» che hanno reso celebri i libri di Jomini, dell'Arciduca Carlo ecc .. E poiché il libro vuol essere «un Vademecum diretto alla istruzione facile dell' ignorante e alla memoria del dotto», l'eccessiva ristrettezza della trattazione «poco mancò non rendesse inutili i talenti e la fatica dell'autore, perciocché il libro è risultato tale che l'allievo non riceve una idea netta, adeguata e sufficiente delle teoriche le quali alle parti diverse della facoltà militare appartengono, ed il guerriero già dotto non tutte ritrova quelle idee associate che nella mente sua un generale sistema della guerra hanno già preparato». Critica che non condividiamo, perché il R. non si rivolge ai dotti ma ai giovani Quadri che hanno poco tempo per istruirsi, e che sarebbero scoraggiati - anziché meglio nutriti - da un volume ponderoso, con pretesa di trattare tutto lo scibile militare e non alcune sue parti essenziali, salvo poi a lasciare a ciascuno l'approfondimento dei vari aspetti. Se
37 F. Sponzilli, Cenno critico sull'opera del Sig. 'J'en. Col. Paolo Racchia, intitolata ecc.. «Antologia Militare» n . 5 - T scm. 1R1R, pp. :n-67 e n. 6 - TI sem. I 818, pp. 1-19.
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m -G. CRIDIS, P . RACCHlA, G. l'OUGNJ - GUlLLET, S. VASSALLI, E. GI USTIN IANI
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mai, più che gli exempla, avrebbe giovato qualche pagina in più sulla politica militare, o sulla petite tactique ... Una critica più centrata è quella riferita all'uso della lingua francese da parte del R., definito dallo Sponzilli (che pure, come si visto, è un antipurista), un italiano che ha fatto torto alla sua terra e aJla sua illustre madre lingua, «chè male assolver lo farebbe il dir come la lingua francese è ora una specie di lingua europea, e che quindi per esser inteso oggi da tutta Europa, a trascurare si abbia la lingua di Dante, di Machfavelli, e di Monti». Giusto rilievo, abbiamo detto: strano però che venga da un antipurista accanito e filoaustriaco, dal più acerrimo nemico del piemontese Grassi ... È comunque un fatto che l'opera del R. - e diverse altre scritte in francese, in Piemonte e non - sono tradotte in italiano a Napoli, e solo a Napoli: segno positivo di una grande vitalità e curiosità culturale, senz'altro maggiore di quella che si trovava in qualsiasi altra parte d'Italia. Condivisibile anche la critica dello Sponzilli all'aggettivo analitico inserito nd titolo di un'opera, che ha il carattere spiccato di una sintesi e non di un'analisi. Perché il R. lo ha fatto? L'unica risposta a parer nostro è: per imitazione di Jomini ... Del pari condivisibile è l'appunto che lo Sponzilli muove al R. di avere male ordinato la materia, senza prevedere una successione logica degli argomenti, senza dare alla strategia iI posto e la preminenza che le spetta e senza trattare in modo completo la piccola tattica, cioè una disciplina di particolare e immediato interesse per la massa dei Quadri. Dove, invece, si deve decisamente dissentire è a proposito del concetto - questa volta aridamente scientifico - che lo Sponzilli dimostra di avere a proposito della guerra e della strategia, fino a rimproverare il R. per aver parlato, nel titolo dell'opera, di arte della guerra anziché di arte e scienza della guerra. La ragione - inutile dirlo - è sempre la stessa, e questa volta lo Sponzilli si dimostra perfettamente allineato con I' Arciduca Carlo: la strategia è scienza e la tattica è arte, quindi quella della guerra è scienza e arte. Lo Sponzilli poi - dimostrando molto minore elasticità che in altre occasioni - accusa più a torto che a ragione il R. di «degradare la strategia», perché la tratta nella parte esecutiva della guerra, quando invece essa è scienza, studio, organizzazione, e solo la tattica è esecuzione ... Di conseguenza, agli occhi dello Sponzilli il R. diventa una sorta di eretico, perché «il discovenire colla ragione e coll'autorità di tanti classici che formano una specie di pubblico militare in Europa, è un voler poco contribuire ai vantaggi della scienza in generale, ed al felice incontro dé proprii pregevoli lavori». Come dire: chi non concorda con le idee cor-
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renti, ha torto ... sta di fatto che il R. si avvicina più a Clausewitz dello SponziJli, il che va tutto a suo merito, perché al tempo anche Clausewitz era out, dissentiva da tutti gli altri_ Lo Sponzilli conduce poi un minuto esame del libro capitolo per capitolo, allo scopo di ricercarvi quelle idee diverse dalle sue «che esser potrebbero di non scarso nocumento ai buoni studii della scienza e dell'arte della guerra». Evidentemente solo le sue idee arrecano vantaggio ai «buoni studii»; e - per sua stessa ammissione - egli ricerca nel libro i difetti e le idee errate, non i pregi ... Al R. egli rimprovera ancora di dividere e suddividere troppo la materia, perché la manìa delle suddivisioni «è stata la peste della filosofia, è l' abbominio della Letteratura, ed è causa delle tenebre che coprono la nostra scienza e arte militare». Peccato che vi eccella proprio Jomini, idolo dello Sponzilli ... Gli altri rilievi, più o meno giustificati, riguardano particolari insignificanti, eccezion fatta per due questioni: convenienza o meno di separare la base di operazioni dalla base di approvvigionamento e ruolo del fucile e della baionetta. Sul primo argomento, sempre seguendo le tracce dell'Arciduca Carlo lo Sponzilli - diversamente dal R. - non ammette tale separazione. Ci sembra che egli abbia ragione ma non in via assoluta, perché si potevano presentare - anche allora - casi e situazioni nei quali diventava soluzione obbligata schierare i magazzini o loro aliquote più in avanti rispetto alla base di operazioni. Sul secondo aspetto, lo Sponzilli rimprovera al R. l'affermazione che «l'oggetto essenziale della fanteria è quello di agire ali' arma bianca», contrapposta all'altra che «il fuoco e l'urto [sono] il duplice meccanico impiego della fanteria». L'acre commento di queste affermazioni dimostra che l'ufficiale napoletano spregia proprio quel sistema di guerra, che a distanza di qualche decennio avrebbe fortemente contribuito a segnare la fine dell'esercito borbonico sotto le baionette manovrate dall'ardire garibaldino: non è possibile che il nostro autore [cioè il Racchia - N.d.a.] riguardi il vuoto della canna nel fucile come un mezzo per alleggerire l'asta di una bajonetta, e del quale poi si è profittato a bel talento onde lanciar fuori una palla; ciò ne farebbe tornare un gran tratto in dietro, quantunque non sarebbe il più gran danno dell'umanità se invece di procedere verso i terribili fucili a vapore di Perkins retrocedessimo dalla via della Picca e degli spiedi da caccia (schweins - federo) di Gustavo Adolfo ai tempi che precedettero la battaglia di Neerlande Lbattaglia del 1693 caratterizzata dal massiccio impiego di artiglierie - N_d,a.]
Le critiche dello SponziUi - ancorché non tutte ingiustificate - tutto sommato lasciano poche tracce, non incidono sulla sostanza delle teorie
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del R. e del suo concetto di arte militare. Aggiungiamo anche che la cattiva disposizione degli argomenti - in presenza di analoghi lavori coevi - va forse attribuita alla scelta di seguire l'ordine di trattazione della materia presso le scuole, nelle quali dalle cose più semplici si procedeva verso quelle più complesse.
SEZIONE m - Gli «Elementi di strategia e di tattica secondo i principi moderni, sviluppati con degli esempi applicativi sia in Italia che in Piemonte e in altre parti» del tenente generale Giuseppe Pougni - Guillet Barone di Monthoux (1832 - in francese) 38 Si tratta di un altro autore che scrive in francese, non citato dal Brancaccio forse perché ci fornisce solo l'ennesima rimasticatura di elementi jorniniani, condita da ovvietà: «la strategia e la tattica formano il complesso della scienza della guerra; quantunque separate l'una dall'altra, esse hanno nondimeno dei mutui rapporti che mettono in contatto i loro principi generali nelle definizioni che loro sono proprie: questi rapporti mi hanno indotto a far precedere la tattica dalla strategia». 39 L'autore si ripromette di sviluppare i principi rendendoli più convincenti con esempi dimostrativi, pen.:hi «la scienza o arte della guerra esige lo studio delle massime che devono guidarci in tempo di guerra, e prepararci ad affrontarla». Segue un aperto omaggio alla concessione geometrica della guerra, che nemmeno Jomini si era azzardato a fare: «questo studio sarà più facile per coloro il cui spirito sia preparato dagli elementi di geometria, la cui conoscenza deve essere considerata vantaggiosa per qualunque professione». La scienza della guerra si compone di tre branche «i ndipendenti nella loro esecuzione». La prima è l'arte di abbracciare le linee d'operazioni nella maniera più vantaggiosa, definita comunemente piano di campagna, «termine improprio, perché non è possibile compilare un piano generale d ' operazioni nel quale si possa prevedere ciò che avviene dopo il secondo movimento, dipendendo gli altri da avvenimenti imprevisti » (qui il P.G. cita gli elementi che secondo Jomini compongono un piano di campagna, precisando che essi in tutti i casi devono essere studiati e calcolati, perché «non hanno ancora un rapporto diretto con il movimento di un'armata del quale si parlerà più avanti, ma lo precedono»).
38 39
Torino, Luigi e Francesco Picco 1832. ivi, p. 5.
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La seconda branca è la strategia, ovvero «l'arte di portare le nostre masse il più rapidamente possibile sull 'obiettivo della linea d'operazioni o della linea accidentale». Una volta tanto, par di capire che è prima di tutto nella strategia che si manifesta il genio del condottiero, in quanto la strategia per il P.G. raggiunge il suo scopo con una serie di successive marce che derivano non solo dalla valutazione della situazione iniziale, ma anche da situazioni impreviste che si creano nel corso delJa guerra. Di conseguenza, «sono fattori come l'abilità che deriva da un genio chiaroveggente, l'applicazione dei principi, le conoscenze locali e l'esperienza, a dare a due rivali nella conquista della gloria la superiorità dell'uno sull'altro». In altra parte del!' opera, però, la strategia viene contraddittoriamente definita «la scienza che stabili sce i principì direttivi dei grandi movimenti d'un esercito tanto per l'offensiva che per la difensiva. Sotto questo profilo la strategia è l'anima di ogni combinazione della guerra, e del1e sue grandi operazioni. Dai princip'ì generali che le appartengono, derivano quelli secondari ... >> . Sempre la solita confusione tra scienza, intesa come conoscenza e studio o anche disciplina scientifica, e azione, visto che la strategia - se è l'anima di tutte le combinazioni della guerra - non può essere solo scienza o organizzazione. La terza branca è la taLLica, l' «arte dei combattimenti» o «l'arte di impiegare simultaneamente la maggior massa di forze possibile sul punto più importante del campo di battaglia». E il P.G. aggiunge anche che «fino al regno del Grande Federico non si conosceva che questa terza branca del1'arte de1la guerra, o, meglio, la strategia non era ancora stata ridotta in principi». 11 P.G. dice qualcosa d'originale solo quando condanna (per ragioni esclusivamente tecnico-militari? V'è molto da dubitarne) le guerre d'inva'>ione, le guerre portate, anzi esportate in altri paesi tipiche della politica militare e della strategia della Rivoluzione e di Napoleone. Egli distingue - e ci pare il solo a introdurre questo criterio - le «guerre d'invasione» da quelle «metodiche», e recisamente afferma che è difficile poter condurre le prime in Europa, senza esporsi, nell'in-
traprenderle, a tutti i rovesci che ha subìto Bonaparte in Russia: la guerra d'invasione che trascina le successive basi d'operazioni, i magazzini di viveri e di munizioni da guerra, i punti di appoggio in caso di sconfitta, e che non ha altro scopo che quello di andare in avanti, per vincere una battaglia e per poter occupare in seguito la capitale di un reame ... questo tipo di guerra, dico io, è arrischiato, distruttivo, e il più delle volte funesto. Una guerra del genere non può essere intrapresa che contro delle nazioni che non conoscono
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né principi strategici, né la costituzione di linee di difesa, né tattica, oppure contro truppe mal comandate, e in un paese sul quale si può vivere per mezzo di contribuù di qualsiasi genere. 40 Se il Racchia non respinge affatto - alla fin fine - il modello napoleonico e anzi esalta il genio militare dell'Imperatore, il P.G. non ha dubbi: le sue guerre non sono il cu]mjne dell'arte militare ma la sua negazjone, la negazione della vera arte. Forse il P.G. non si accorge di avallare senza volerlo la bontà della strategia napoleonica, quando afferma che una guerra d'invasione può pur sempre essere utilmente intrapresa contro truppe mal comandate e contro un paese sul quale si può vivere. Non sono state forse queste circostanze a spiegare i più cele bri successi di Bonaparte? Per mettere in evidenza i rovesci napoleonici, oltre aJla Russia avrebbe potuto citare la Spagna: ma P.G. sembra evitare un'argomentazione al momento forse imbarazzante, e cita invece come eccezione alla regola generale - la recente invasione del la Spagna da parte del Delfino ili Francia nel 1823, perché «in uno Stato in rivoluzione ove le opposte parti si scontrano, bisogna correre verso il centro il più rapidamente possibile». Tanto più che in questa operazione, vedi caso, s'è distinto il Re Carlo Alberto al momento al trono, al cui eroismo il P.G. rende omaggio .. _ ragione di più per pensare che la condanna delle guerre d'invasione sia il solito omaggio poco sentito all' establishment. La guerra metodica, la guerra patrocinata del P.G., è denominata come avviene per le teorie dell'Arciduca Carlo - dalla preoccupazione di mantenere sicure le retrovie e di garantire i rifornimenti, presidiando con una consistente aliquota ili forze la base d 'operazioni e le fortezze alle spalle deJJ 'esercito combattente. Di conseguenza, in spregio al principio della concentrazione delle masse sul campo ili battaglia pur dianzi sostenuto, il P.G. propone ili suddividere l'esercito in due parti: l'armata attiva, composta dalle truppe più agguerrite, istruite e disciplinate, e l'armata di riserva (1/3 della forza della precedente). La prima affronta le battaglie e s'impadronisce delle province, mentre la seconda le occupa, cinge d'assedio le piazzeforti o le blocca, fornisce i complementi per mantenere al completo i battaglioni, e assicura le comunicazioni tra la base d'operaziom e l'armata attiva. Quest'ultima ha continuamente bisogno di essere rifornita di viveri e munizioni da guerra che sono depositati in località ben difese, e dai quali par-
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ivi, pp. 29-30.
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tono i convogli per rifornire le truppe retrostanti: i magazzini possono essere provvisti in tutto o in parte a spese del neinico: questi depositi [arretrati] sono indispensabili, in relazione agli infiniti inconvenienti che nascerebbero se si volesse portarli al seguito, non solo per l'immenso allungamento delle colonne di marcia che ne deriverebbe, ma per il pericolo che potrebbero correre di essere catturati o distrutti dal nemico.41
Con queste idee, il P.G. prende evidentemente come riferimento quella guerra d'invasione e offensiva, che in altre parti del testo condanna. E fornisce dettagli anche sulle operazioni da condurre, che consistono in una prudente e metodica avanzata dell'armata attiva all'interno del Paese nemico, tallonata dall'armata di riserva che presidia la base d'operazioni inizialmente stabilita in corrispondenza della zona di confine. L'armata di riserva si mantiene a una distanza di una-due giornate di marcia (o anche più) da quella attiva, costituendo depositi di viveri a spese delle province conquistate (altro metodo napoleonico!). Quando l'armata attiva è giunta a 5-6 giornate di marcia dalla prima base d'operazioni, quella di riserva sposta quest'ultima e ne crea una seconda; intanto l'armata attiva approfitta del lasso di tempo per fermarsi, riordinare e riparare i materiali e il vestiario, ecc .. La preoccupazione principale <leve essere quella di evitare che l'esercito nemico tagli le comunicazioni tra l'armata attiva e la base d'operazioni senza perdere le sue, perché oltre al pericolo che corrono i nostri depositi, l'armata di riserva potrebbe essere assalita e dispersa prima di poter essere sostenuta da quella attiva. Alla vigilia delle battaglie l'armata di riserva si avvicina all'armata attiva, per essere in grado di sostenerla. In determinati casi - e specialmente quando si tratta di correre rapidamente incontro all'esercito nemico - l'armata attiva può fare a meno di essere metodicamente sostenuta da una base d'operazioni, si fa seguire da mandrie di bestiame e depositi volanti e vive fin che possibile sul paese nemico; inoltre l'armata di riserva può rinforzare quella attiva. Ma, al di là di queste considerazioni, nel P.G. prevale molto di più che nel Racchia una visione della guerra metodica, prudente e compassata, che è l'antitesi di quella napoleonica e ricorda gli aspetti meno brillanti delle prudenti teorie dell'Arciduca Carlo.
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ivi, p. 31.
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SEZIONE IV - Le «Lezioni d'arte militare ad uso della Regia Scuola d'Applicazione» di Sebastiano Vassalli (1847)42 Nel frontespizio il V. viene definito «Direttore degli studi e professore di fortificazione nella Regia Accademia militare», e la sua opera calorosamente approvata dal Ministro della guerra con lettera del 10 aprile 1847 - ha specifiche finalità didattiche: non mi sarei accinto a sì difficile impresa, se la esperienza di alcuni anni d'insegnamento dell'Arte Militare nella scuola d ' Applicazione, non mi avesse dimostrata la necessità di por nelle mani degli ufficiali, allievi di questa scuola, un libro di testo che contenesse un rapido svolgimento delle materie che sono numerate nel Programma approvato da S.E. il ministro della guerra, addì 8 ottobre 1842.43
Circa l'influenza che ha avulu quest'opera del V. e il suo rapporto con quella precedente del Racchia, il Brancaccio scrive che Racchia fece testo nell'esercito e all'Accademia fino alla pubblicazione nel l847 del libro dì Vassalli. Dovevano quindi avere i concetti di Racchia coloro che erano generali nel 1832, e coloro che studiarono ali' Accademia dal 1832 al 1837; ma se si considera che dei generali del 1832 non ve n'era più nessuno nel 1848, si constaterà che gli ufficiali che furono educati a quei concetti [del Racchia] erano al momento della guerra [del 1848-1849 - N.d.a.] nei gradi di tenente, di capitano e di maggiore, e di conseguenza anche negli Stati Maggiori dei Comandi. I concetti invece di Vassalli dovevano essere condivisi dal ministro certamente, e con molta probabilità dagli altri ufficiali generali in carica nel 1847; inoltre dagli Allievi della Accademia del corso 1847.
L'impronta didattica dell'opera del V. - assai più marcata delle precedenti - risulta dalla scelta, da11a collocazione e dall 'ordine di priorità degli argomenti. Inspiegabilmente i «principi di strategia» e i principi fondamentali della guerra - cioè la base di qualsivoglia costruzione o opera teorica come la sua - sono collocati al Capo XV, e preceduti da considerazioni sugli ordinamenti, sui combattime nti, sulle marce, su1l' impiego delle tre Armi ecc .. I primi due capitoli hanno carattere e-
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Torino, Zecchi e Roma 1847. ivi, p. IX.
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TL PENSIERO MILITARE ITALIANO (1789- 1915)-VOL. I
minentemente storico, e riguardano l'arte militare dei greci e dei romani, gli eserciti del Medioevo, le innovazioni introdotte dopo l'uso delle armi da fuoco e della baionetta. Un capitolo (il III) è dedicato a «composizione e ordinamento degli eserciti moderni», intendendo come tali quello di Federico, quello di Napoleone e infine quello di Carlo Alberto. In un altro capitolo (il IX) sono trattati argomenti affini a quelli del III, come l'ordinamento degli eserciti attivi, cioè mobilitati, lo Stato Maggiore, il corpo del genio. A parte i capitoli dedicati agli ordini di battagJia (che vengono prima del capitolo che riguarda i api di battaglia, fortezze e marce), le restanti parti riguardano l'impiego delle tre Armi, il passaggio delle strette, l'inseguimento, la guerra in montagna ecc .. L'impressione che si ha è quella di un programma centralizzato senza un successione logica e una ripartizione o riunione razionale degli argomenti, forse per il prevalere anche in questo caso di esigenze didattiche e contingenti estranee ai puri aspetti teorici .della materia. Del resto il V. stesso, nella prefazione, dichiara di non voler dettare un corso completo di arte ma indica come «unico suo scopo» quello «di esaminare le proprietà delle diverse specie di truppe che costituiscono un esercito attivo, e di cercare il miglior modo di adoperarle nei casi più frequenti della guerra». Il suo concetto della guerra diverge notevolmente da quello - più prudente e misurato, e a volte contraddittorio - del Racchia e anche del Pougni. Vi troviamo l'impronta del Machiavelli e - checché ne dica il Brancaccio - una sostanziale adesione al modello di guerra totale e spinta a fondo di tipo napoleonico. Anche se «tristissima cosa è il pensare che una delle prime arti inventate dagli uomini sia stata quella che tende alla loro distruzione», il V. non si dimostra certo fautore della guerra limitata e umanitaria, quando afferma che «Jo scopo della guerra è di vincere, la vittoria è tanto più segnalata quanto di maggior momento ne è l'esito». 44 Ancor più vicina a Machiavelli la definizione che si trova in altra parte del lesto: «La guerra è una successione di azioni d'eserciti che si offendono in ogni guisa».45 Due nazioni si fanno la guerra, «quando venute a gravi contese, non han più modo di riconciliarsi colle vie pacifiche dei negoziati , e delle mediazioni».46 Le ragioni legittime che possono indurre uno Stato sono diverse: 44
ivi, p. l. ivi, p. V I. 46 ivi, p. 243.
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V lii -
G . CRJDIS. l'. RACCHIA, G. POUGNI - GUILLET, S. VASSALLI. E. G IUSTI NIANl
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la salvezza dell'indipendenza nazionale; la vendetta dell'onore oltraggiato; il richiamo, o la difesa di diritti già pattuiti con altri Stati; l' adempimento delle stipulazioni d' alleanza difensiva o offensiva; e generalmente tutto ciò che può giustamente soddisfare ai grandi interessi, e alla prosperità dello Stato. In tutti i casi, come 1'individuo ha il diritto di difendere le sue sostanze e la sua vita, così un popolo ha tullo il diritto di conservare e mantenere la sua esistenza, le sue leggi, e le sue istituzioni, che costituiscono la sua vita politica e civile; onde è che egli all'uopo ricorre alle armi, si ordina, e riunisce Lutti gli sforzi individuali per formare una massa di forze da opporre alle massime dei suoi nemici.47 Questa affermazione va correttame nte inserita nel contesto generale. Esprime il diritto generale di un popolo aJla conservazione e alla difesa di sé stesso, diritto che al bisogno egli fa decidi::ri:: per la guerra: ma non è - o non è solo - esaltazione della guerra difensiva, visto che il V. prevede vari tipi di guerra tutti miranti alla conservazione dello Stato e alla difesa dei suoi interessi, e che dal punto di vista strettamente militare la guerra si divide in offensiva e difensiva, a seconda dei casi e delle situazioni e senza che il V. manifesti a priori delle preferenze. Né queste parole possono significare esaltazione della guerra nazionale e di popolo, visto che la prospettiva del V. non esce mai dalla guerra tra Stati e tra eserciti, il cui scopo principale è di ottenere una pace vantaggiosa. Tale pace può essere ottenuta solo con la rapida debellatio dell'esercito nemico; ma non si può giungere a questo fine, se non con fatti grandi, e definitivi. Il generale deve conoscere la parte, ove ha da vibrare il maggior colpo con tutta probabilità di buon successo, e il punto preciso di dar dentro. Da ciò segue che la massima fondamentale sta in operare con forze maggiori, rivolgendone tutto il nerbo contro il punto decisivo. 48 Dopo questa affermazione di stretta osservanza jominiana (quindi abbastanza comune) il V. ne fa altre un pò meno comuni: il comando supremo dell' esercito deve essere affidato a uno solo, perché se l'autorità è 47
ivi, p. V.
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ivi, p. 250.
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divisa sorgono pareri diversi e le operazioni mancano di unità; il generale in capo deve avere la dovuta autonomia, perché il buon esito delle operazioni dipende per lo più da circostanze impreviste, quindi «il segnar a un generale la condotta che egli ha da tenere dì per dì, è irragionevolissimo».49 Infine il generale deve mantenere l'iniziativa, perché altrimenti «non è più libero nè suoi disegni» ma deve regolare le sue mosse su quelle del nemico. Clausewitz non potrebbe dire meglio, e la manìa dei piani di campagna tipica dei seguaci di Jomini è assai lontana dal V.. Il Brancaccio mette a confronto il concetto di guerra del Racchia ( 1832) con quello del V. (1847), ma - forse sviato dalle citate considerazioni sul diritto di ogni popolo di difendersi ecc. - giunge a conclusioni del tutto errate. Giudica «materialista» l'impostazione teorica del Racchia, solo perché egli fa un'affermazione del tutto scontata, valida in ogni epoca e per chiunque venga coinvolto in una guerra, che cioè scopo della guerra deve essere quello di ottenere una pace vantaggiosa (c'è mai stato qualche Stato, o qualche popolo, che ha avuto uno scopo diverso o opposto?). Soprattutto, secondo il Brancaccio Vassalli si dimostra nettamente passivo: egli vuole riunire gli sforzi individuali sol per opporsi alle invasioni dei nemici. sol per mantenere esistenza, vita politica e civile di un popolo. Basterà perciò far mostra di forza per salvarsi. La guerra non è quindi che un atto di difesa, un mezzo per salvarsi; se implica energia è soltanto nel caso che la difesa sia ridotta agli estremi. È un concetto chiaramente materialista.
Non è vero: prima di tutto perché la concezione materialista della guerra non dipende tanto dall'atteggiamento difensivo o offensivo dell'esercito o dallo scopo deJle operazioni, ma dalla preminenza che nella condotta delle operazioni si intende attribuire a tutto ciò che concerne il materiale - e se vogliamo la logistica - rispetto a tutto ciò che riguarda lo spirito e l'intelletto. In secondo luogo, il V. afferma che la guerra può essere difensiva o offensiva manifestando contemporaneamente una netta preferenza per quest'ultima forma di guerra, ed elenca i diversi casi nei quali è legittimo per uno Stato ricorrere alle armi, ivi compresi «l'adempimento delle stipulazioni d 'alleanza difensiva o offensiva», «la vendetta dell'onore oltraggiato» e tutto ciò che riguarda la tutela dei grandi interessi dello Stato, che evidentemente può implicare sia guerre offensive che difensive.
49
Ibidem.
V
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In realtà il V. non si discosta mai - negli aspetti essenziali della sua opera - dal concetto di guerra di movimento e decisiva di marca napoleonica. Non compare nel suo pensiero alcun distinguo rispetto a quest'ultima - come invece avviene per il Racchia e ancor più per il Pougni - né si trova nei vari capitoli alcuna esaltazione della guerra metodica e alcuna condanna di quella napoleonica, che rimane il modello. Le definizioni di strategia e tattica date dal V. se mai lo avvicinano più di tutti gli autori italiani e stranieri esaminati ai concetti napoleonici e clausewitziani, quindi ]o allontanano più di tutti da Jom.ini e dalJ' Ardduca Carlo. Il V. non parla una volta tanto di scienza della guerra, ma di arte militare, che riunisce «le regole e i principi per ben condurre la guerra». La ripartizione dell'arte militare da lui prevista - in tre parti principali - ha qualche analogia con quella del Racchia, e assegna il dovuto ruolo all'amministrazione, cioè alla logistica nel senso attuale del termine: non si può far guerra senza soldati atti a combattere e a sostenerne le fatiche; né si han soldati senza dar loro la sussistenza necessaria, e provvedere ai loro bisogni. Di qui consegue che l'Arte Militare si divide naturalmente in tre parti principali: la prima ha per iscopo il far levata di soldati, armarli, ordinarli, istruirli sì nelle marce e nell'evoluzioni, sì nell'usar dell'armi loro; e questa la chiameremo piccola tattica, che significa ordine, disposizione. La seconda ha per oggetto di porre in azione, cioè far muovere e combattere le truppe riunite e ordinate, sì in piccole che in grandi masse, sul teatro della guerra, il quale abbraccia tutte quelle contrade, ove possono venir a conflitto due gran potentati: e questa parte comprende la strategia, e la grande tattica. La strategia è la scienza, per cui un generale preposto al comando d'un esercito, secondo i mezzi che egli ha, divisa, e fa eseguire sul teatro della guerra tutte quelle sue combinazioni che sono più proprie ad indirizzare le masse disponibili sui punti decisivi, e a disporle in modo ad ottenere sul nemico la superiorità del numero, e sul terreno il vantaggio della posizione. La grande tattica è l'arte, per cui un generale, che comanda un corpo composto di varie specie di truppe, le dispone, e le fa muovere in faccia al nemico, e per la loro ben combinata azione le fa concorrere alla vittoria. La terza parte principale dell' arte della guerra, è l'amministrazione. Il suo oggetto è di cercar mezzi di sostentar gli eserciti e di porre e mantenere l' ordine e la regolarità nella distribuzione dei viveri, del soldo, del vestiario, delle armi alle truppe, e di provvedere nelle varie circostanze a tutti i loro bisogni. Ciascuna di queste tre parti si suddivide in molti rami speciali; fra
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questi sono alcuni, per lo studio dé quali è poca la vita dell'uomo; tale è la scienza dell'artigliere, e quella dell'ingegnere. 50
In altra parte del testo, pur definendo contraddittoriamente la strategia come scienza il V. le assegna il compito di «mandare ad effetto sul teatro della guerra quelJe sue combinazioni, che sono più proprie ad indirizzare le masse disponibili verso i punti decisivi, e a disporle in modo da ottenere sul nemico la superiorità del numero, e sul terreno il vantaggio della posizione».5 1 Strategia, dunque, non solo come concepimento, studio, pianificazione, organizzazione, scienza, ma anche come esecuzione e azione, visto che «manda ad effetto» e «dispone». E ancora: «La strategia decide, comanda, e la tattica eseguisce, e in ogni tempo, in ogni caso è pronta a distruggere, e a mettere in soqquadro le forze dell'avversario». Dopo aver notato che il V. - diversamente da quanto fa il Racchia - parla una volta tanto di «distruzione» (altro che difesa passiva!), notiamo anche che la decisione e il comando sono qualcosa di estraneo alla scienza, sono azione, quindi per il V. la strategia è anche azione, sia pure ai livelli più elevati (mentre la tattica - par di capire - agisce ai livelli più bassi). Equesto vale, anche se proseguendo il ragionamento il V. cade nella solita contraddizione e sembra rinnegare ciò che ha detto prima, facendo della strategia qualcosa di invariabile e di meramente speculativo: la strategia ferma il tempo, il luogo, e calcola tutte le conseguenze di ciò che può succedere; i suoi principì sono invariabili, e si adattano a tutti i paesi, tutte le nazioni; per contro le mosse della tattica variano a seconda dé luoghi, truppe, armi e altre circostanze, che ci si possono dare innanzi.52
Per contro, si potrebbero citare altri passi dove la strategia ridiventa anche condotta: «Al buon esito della guerra non basta a un generale il condurre le masse sui luoghi più importanti, ma gli è necessario saper usarle, né lasciarle, dopo acquistatoli, anche inoperose».53 Qui c'entra anche la strategia, che appunto conduce, mantiene in movimento le masse! Ma dove il V. non si smentisce mai, è sulla distruzione dell'esercito nemico: indicando come esempio parecchi episodi delle guerre napoleoniche afferma - sulla scia di Federico n e Machiavelli - che
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ivi, p. VI-VIII. ivi, p. 241. 52 ivi, p. 242. 53 ivi, p. 252. 51
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non basta in guerra concentrare gli sforzi d'una massa maggiore contro parti più deboli, ma egli è anche necessario di incalzare vivamente un esercito rotto. La forza d'un esercito consiste neUa sua organizzazione, e in quel tutto che risulta dalla collegazione delle sue parti col punto centrale che le muove, dirige e fa operare; ma dopo la rotta questo tutto non c'è più, e l'esercito, rotti qué vincoli, è tutto risoluto e debole. L'attaccarlo è come un volarne al trionfo.54
Quanto si è detto del V. - il più «napoleonico» degli autori finora incontrati - basta a smentire ciò che il Brancaccio dice di lui e del Racchia: Racchia scriveva nel 1832, all'inizio del Regno di Carlo Alberto e del Ministero Villamarina, mentre il Re faceva politica austrofila; Vassalli scriveva nel 1847 verso la fine del Ministero Villamarina e quando il Re faceva politica anti-austriaca e desiderava anzi la guerra [...] Sta quindi il fatto che il concetto della guerra è in certo qual modo di offesa quando la guerra non è probabile, è invece marcatamente di difesa quando la guerra non soltanto è probabile, ma la si desidera.
Secondo questa interpretazione, le teorie del Racchia avrebbero impronta offensiva e quelle del V. sarebbero a sfondo difensivo; ci pare di aver dimostrato esattamente il contrario. Il che è anche logico, perché è abbastanza strano e inusuale che uno scrittore militare ufficioso o ufficiale esalti l'offensiva quando la politica militare del momento renderebbe preferibile la difensiva, o viceversa. Non termineremo il nostro esame del pensiero del V. senza ciò che egli dice delle qualità del generale in capo, del ruolo e dell ' importanza dello Stato Maggiore, dei rifornimenti. Il generale in capo al senno deve accoppiare la perfetta conoscenza degli uomini e delle cose, deve essere calmo, fermo ecc .. Deve aver molte cognizioni di storia militare, e inoltre deve mantenersi ben informato dell'economia politica, dei governi dei diversi popoli, della loro indole, e mezzi; deve essere molto previdente sì nelle cose militari, sì nelle amministrative; ma soprattutto debb'essere giusto, umano, scevro d' interesse personale, avari zia, alieno dalla depredazione, e amante della vera gloria. 55
54
Ibidem.
55
ivi, p. 149.
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Il ruolo dello Stato maggiore indicato dal V. (come del resto quello del Racchia) è estremamente moderno, e in esso non si accenna nemmeno ai soliti lavori inerenti alla cartografia: il capo dello stato maggiore è l'organo, per cui il generale supremo comunica coll'esercito, l'agente che mette tutto in moto; a lui è commesso vegliare tutti i rami dell'amministrazione, e tutte le operazioni militari; egli è consapevole così delle più alte combinazioni, come dei più minuti particolari. Sotto gli ordini immediati del capo dello Stato Maggiore stanno gli officiali dello Stato Maggiore, e lo secondano ....56
Oltre ad avere attribuzioni di carattere operativo, inerenti al carteggio ecc., questi ultimi si occupano anche della parte logistica, e «dirigono l' amministrazione militare, il servizio dei viveri e degli ospedali, lo stabilimento dei magazzini e depositi d ' ogni specie».57 Più in generale «lo Stato Maggiore, benché senza autorità propria, è l'organo del comando, il legame della comunicazione tra il capo supremo e l'ultime righe. Cogli occhi di esso il generale vede il paese, che è il teatro della guerra, conosce gli ostacoli del terreno». 58 Diversamente dal Cridis e dal Pougni il V. ritiene che il sistema di nutrire la guerra con la guerra, e il sistema connesso di requisizione sono «il modo più opportuno di provvedere ai bisogni d' un esercito»; tuttavia un esercito che entra in campagna deve essere provvisto di razioni di riserva di biscotto, delle quali una parte viene distribuita alla truppa e una parte trasportata su carri al seguito dei reggimenti. Ma il V. non si nasconde che il sistema di vivere sul paese comporta gravissimi inconvenienti, quando il nemico ritirandosi distrugge tutti i mezzi di sussistenza, come in Portogallo nel 1810 e in Russia nel 1812. In questo caso nelle marce rapide si è costretti a diradare le colonne, perché possano vivere più facilmente : ma così facendo diventa difficile concentrarle al bisogno, e si espongono ad essere distrutte alla spicciolata. Le invasioni improvvise e rapide per il V. possono riuscire solo in Paesi fertili; in questo caso l'esercito con marce accelerate può raggiungere il nemico prima che abbia avuto il tempo di prepararsi, «lo sconfigge in battaglia terminativa; blocca le fortezze e passa oltre per inseguire il già vinto nemico, e annichilarlo».59 Riassumendo 56 51
ivi, p. 151. ivi, p. 153.
58
Ibidem.
59
ivi, p. 178.
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il far la guerra senza magazzini, confidando nei mezzi che la vittoria sola può fornire, è l'unica via che conduce a sommi e felici risultamenti; ma questo espone l'esercito a mali irreparabili, se l'impresa da buon successo non è coronata. Quell'uomo, a cui venne fatto tante volte d' abbattere degl'hnperi colla rapidità del fulmine, cadde appunto per ]a terribile e lacrimevole campagna di Russia.60
Grazie a queste - e tante altre - sensate considerazioni, e aJ di là dei suoi difetti di stesura, l'opera del V. va giudicata equilibrata nel complesso idonea a fornire all'ufficialità piemontese alla vigilia della guerra una valida base teorica. Se si considera l'importanza che al tempo viene unanimamente attribuita alla storia militare (vista come concreto strumento professionale e non solo come disciplina teorica), non può essere condivisa l'osservazione del d' Ayala, secondo il quale «sarebbe stato più acconcio forse intitolare l'opera del Vassalli storia e arte militare».61 Se il V. - e non è il solo - dedica i primi due capitoli e una parte del terzo capitolo alle istituzioni e ordinamenti militari degli antichi fino a Napoleone, è perché al tempo l'arte militare era basata sulla storia, che dunque ne era parte integrante e riferimento costante. Forse il punto di vista del d' Ayala sarebbe pienamente calzante oggi, cioè in un periodo di cesura - netta e immotivata - tra storia e arte militare ...
SEZIONE V - Il ~saggio sulla tattica delle tre Armi isolate e riunite» di Enrico Giustiniaoi (1848 - in francese) 62
Come il Racchia e il Pougni, anche il Giustiniani - indicato nel frontespizio come aiutante di campo del generale Conte de Falicon governatore di Alessandria - scrive in francese. Il suo obiettivo è modesto, e lo dichiara egli stesso: il lavoro è rivolto agli ufficiali inferiori, agli ufficiali più giovani, che hanno poco tempo per istruirsi né hanno la possibilità di procurarsi tutte le opere di arte militare. n suo principale merito è perciò quello di «riunire e ordinare i precetti sparsi in un gran numero di opere straniere», senza alcuna personale interpretazione della teoria de11a guerra, perché «noi non forniamo alcuna massima che uno o più di ro ivi, p. 179. 61
M. d' Ayala, Bibliografia ... (Cit.), p. 66. Paris, Leneveu - Torino, Bocca 1848. Del Giustiniani ricordiamo anche la M émoire sul la gue"a de montagnes pubblicata sullo «Spectateur Militare» (Parigi) dell'aprile 1844, nella quale sostiene che «applicare la storia ai principi è il miglior modo di studiare la guerra» e che in montagna la difensiva è più vantaggiosa dell'offensiva. 62
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questi autori non abbiano adattato. La sola cosa che ci appartiene è la messa in opera dei materiali che le loro opere ci hanno fornito ....63 Il modello di riferimento sono dunque gli autori stranieri; ma nonostante questa implicita dichiarazione di sfiducia negli autori italiani, il libro si ispira al Racchia e - fatto inusitato - al napoletano Sponzilli: «noi abbiamo creduto che non era affatto impossibile fare sulla tattica un'opera analoga a quella che il capitano Sponzilli ha fatto sul1a strategia[... ] Noi non abbiamo affatto dimenticato di mettere a profitto 1'opera pubblicata recentemente in Piemonte dal generale Racchia». 64 Tra i numerosi autori stranieri citati come «modelli» (austriaci, prussiani, della Confederazione germanica, francesi e russi) si trova, naturalmente, Jomini ; non si trova, naturalmente, Clausewitz; un pò meno naturalmente non compare il nome dell'Arciduca Carlo. Come quel1o del libro di Gerolamo Ulloa, anche il titolo del libro del G. ricorda il Saggio di tattica delle tre Armi del Decker. Ma G. si limita a citare solo il nome di quest' ultimo tra gli altri autori europei senza alcun esplicito accenno a tale opera, e ignora completamente il lavoro de11' Ulloa uscito qualche anno prima a Napoli (che pure dovrebbe conoscere). Sotto questo aspetto, il Saggio sulla tattica delle tre Anni del G. è il pendant piemontese non solo di quello del Decker ma anche di quello del napoletano Ulloa, non è per nulla meno pregevole e viene ingiustamente trascurato dal Brancaccio. Dato il dichiarato intento del G. di rivolgersi agli ufficiali inferiori più giovani, l'opera tratta questioni di tattka e quindi rimane al di fuori della grande tattica e della strategia: «noi daremo agli ultimi tre capitoli alcune nozioni elementari della grande tattica, unicamente per preparare [il lettore] allo studio specifico di quest'altra branca dell'arte militare, che non è affatto indispensabile (sic) ai militari dei gradi inferiori».65 Particolare attenzione viene invece dedicata all'organizzazione generale degli eserciti e al loro ordinamento, alle caratteristiche delle tre Armi (fanteria, artiglieria, cavalleria) e soprattutto al loro impiego combinato in campo tattico. In merito, il G. fa delle osservazioni che ancor oggi vanno molto bene per inquadrare il problema - storico e di attualità - dei rapporti interforze, la cui vita quotidiana e la cui storia sono spesso perniciosamente dominate da distorte e faziose ottiche di forza armata: l'opera di un ufficiale oscuro senza esperienza di guerra potrà sem-
63
ivi, p. IV. Ibidem. 65 ivi. p. V. 64
V lli -
U. CRIDTS, P. RACCHIA, G. POUGNI - GUILLET, S. V ASSALLJ, E. GIUSTrNIANJ
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brare temeraria [...] Senza dubbio gli scrittori palpitanti di ricordi delle imprese immortali alle quali hanno assistito, hanno un grandissimo vantaggio su coloro che vengono dopo di essi per fare delle osservazioni, per raccogliere una massa di dati interessanti, ma, dominati a loro insaputa da passioni e pregiudizi, non hanno sempre la libertà di spirito necessaria per trame le deduzioni più naturali. L'uno attribuisce all'artiglieria i successi che l'altro rivendica per la cavalleria; costui assegna alla fanteria leggera le caratteristiche che l'altro rivendica per la fanteria di linea; qualcuno immagina che ciò che importa è il combattimento all'arma bianca; altri ripongono tutta la loro fiducia nel fuoco; qui si esalta l'ordine profondo, là si preferisce l'ordine misto. Ciascuno cita a sostegno delle sue idee una quantità di esempi, perché tutto si piega ai punti di vista degli spiriti sistematici o prevenuti. Che cosa concludere a proposito di una siffatta divergenza d'idee su dei punti importanti? Il fatto è che i militari, colpiti dai successi ottenuti da un'Arma, una formazione o una manovra in una circostanza importante, si immaginano di ottenerne sempre altri simili, senza riguardo al terreno e alle circostanze della guerra che variano all'infinito, e che perciò gli scrittori che arrivano dopo di essi sono più adatti a definire i principi di questa arte terribile.66
Il G. lerrnina la prefazione con una poco convincente - anche se interessante - giustificazione dell'uso della lingua francese anziché di quella italiana: la lingua francese è in qualche misura la lingua madre, la lingua naturale dell'esercito piemontese, e vi è gran numero di ufficiali in grado di tradurla correntemente. Questa lingua, dopo le guerre della rivoluzione, è divenuta la lingua militare dell'Europa, come lo è della diplomazia dopo Luigi XIV. I Russi e gli stessi Tedeschi, scrivono volentieri in questa lingua, sia perché la trovano più facile da usare della loro, sia perché sperano di avere un maggior numero di lettori. lo cedo alla tendenza generale, e mi uniformo all'uso che è prevalso.67
Pregi e limiti dell'opera di G. - citata dal Brancaccio insieme con le Nozioni elementari di strategia (1851) dello stesso autore, che esamineremo di seguito - sono quelli da lui stesso indicati. Il Brancaccio riferendosi ai numerosi ma poco noti autori europei indicati dal G. (Schamhor-
66
67
ivi, P- III. ivi, pp. V-VI.
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st, Valentini, Decker, Grevenitz e de Brandt in Prussia; Xylander, Milller e Bismark -da non confondere con il Ministro Bismarck- nella Confederazione Germanica; Jomini e Okounef in Russia; Rocquancourt, Jacquinot de Presle e Tenay in Francia) osserva, a ragione, che pochi di questi autori erano veramente autorevoli e avevano studiato a fondo l'arte della guerra. E poiché coloro che avevano approfondito questo argomento (Jomini, Scharnhorst, Valentini) avevano idee diverse, i libri piemontesi che avevano attinto agli uni e agli altri, in opposti campi d'idee, non potevano, non foss'altro che per questo fatto, essere inspirati ad una determinata dottrina, della quale forse non vedevano alcuna necessità, ma dovevano avere carattere di completo ibridismo.68
Opinione da condividere solo in parte; se è vero che specie nel Racchia emergono delle contraddizioni e si ha l'impressione di trovarsi di fronte a un imparaticcio, è vero anche che per il resto nella sua opera e in molte altre domina Jomini, e che nel Vassalli troviamo molte idee napoleoniche. Il G. dichiara esplicitamente di rifarsi a tutti i predetti autori stranieri, quindi nel suo caso l'accusa è giustificata: ma egli si limita al campo tattico, dove le possibili variazioni non sono molte e v'è una certa concordanza. Né va trascurato che tutti gli autori europei del momento non forniscono dottrine ma teorie, le quali possono ispirare le dottrine; tutto sommato, non risulta che al tempo nei vari eserciti d'Europa vi fossero vere e proprie dottrine nel senso attuale del termine, riferite cioè a un dato nemico, a un dato ambiente naturale e a un dato scopo delle guerra.
SEZIONE VI - Autori minori Gli autori prima citati non esauriscono il vasto campo degli «scolastici» piemontesi. Rimandiamo, in merito, alla Bibliografia Militare Italiana del d' Ayala (Parte I) e al libro dello Sticca Gli scrittori militari italiani (Il 1° cinquantennio del secolo XIX): vi si troveranno molti nomi, i quali già dimostrano di per sé che - ahneno dal punto di vista quantitativo - anche in Piemonte la Restaurazione non può essere definito un periodo vuoto o insignificante. Diamo ora qualche cenno di alcuni autori - non solo piemontesi ma
68
ivi, p. VI.
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anche dell'Italia Settentrionale e Centrale - che ci sembrano meritevoli di menzione, senza peraltro pretese eccessive di originalità. Ferrero di Ponsiglione (colonne1lo di cavalleria), Memorie militari estratte dalle norme del guerreggiare prescritte da grandi ed illustri capitani degli andati e moderni tempi (1839).69 È autore anche di un libro su Bellezz.e, imperfezioni, malattie e conservazione del cavallo (Cagliari) 837), l'unico ad essere citato dal d' Ayala nella sua bibliografia. Lo Sticca lo ignora, e lo stesso d' Ayala non lo include negli autori piemontesi compresi nel suo articolo del 1859 sulla Letteratura militare in Piemonte.70 In queste Memorie (nel senso di prescrizioni, precetti, nozioni) dedicate agli ufficiali di cavalleria il F. di P. esordisce in modo assai maldestro, con un elogio senza riserve alla geometria rettilinea (influenza di Btilow?), la quale deve essere «la prima e indispensabile cognizione d'ogni militare», forma la base dei piani di campagna e di tutte le altre operazioni di guerra, serve a calcolare lo spazio e il tempo ecc., «e deduconsi conseguenze infallibili». Con la conosct:nza ùi questa scienza, persino il «colpo d'occhio militare» diventa «misura esatta e sicura onde non commettere errori».71 Ma subito dopo il F. di P. si riscatta: e anche se sullo sfondo rimane sempre il consueto influsso jominiano e il solito concetto scientifico della guerra, della strategia come scienza ecc., egli ci fornisce due ordini di riflessioni importanti su argomenti assai distanti tra di loro: il reclutamento, la disciplina, la natura della strategia e della tattica. Su questi argomenti il F. di P. riesce a dire qualcosa di diverso dal solito, dimenticando senza accorgersene le teorie e i teorici, e facendo appello al suo buon senso e alla sua lunga esperienza. Non ci soffermiamo sulla visione che egli ha della disciplina, e che meriterebbe un approfondimento; ci limitiamo solo ad osservare che si tratta - né potrebbe essere altrimenti, dati i tempi - di un approccio paternalistico fin che si vuole, però pieno di saggezza, di equilibrio e di umanità, e tale da smentire l'immagine autoritaria e oppressiva con la quale si vorrebbe etichettare il clima delle caserme piemontesi del periodo. Parecchie delle affermazioni del F. di P. non hanno età: né potrebbe essere altrimenti, perché - al pari di alcuni fondamentali criteri e principi tattici e strategici - l'arte del comando, come tale sempre basata sull'uomo e non su astratte teorie, vede i suoi migliori interpreti adottare 69
Cagliari, Stamperia Reale 1839 (4 Voi.). «Rivista Militare Italiana» 1859, Anno IV, Voi. I disp. la, pp. 56-62. 71 F.d.P., Op. r.it., Voi. I, pp. Xll-Xlll. 70
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linee di condotta pratica e quotidiana sorprendentemente simili in ogni tempo e ci insegna a distinguere tra la vera disciplina e le sue degenerazioni, dovute sempre e solo a cattivi comandanti. La definizione che il F.d.P. dà di strategia e tattica - pur non essendo, come sempre, priva di contraddizioni - è tutto sommato preferibile rispetto a quella di tanti altri celebri scrittori. La strategia - che egli chiama strategica all'uso antico, dal francese strategique - è arte e non scienza, ed è «un vocabolo recentemente introdotto per esprimere ciò che altre volte dicevasi gran tattica». In essa compare l'azione, visto che «è l'arte di abbozzare un piano di campagna, di dirigere alcune volte, a distanze ragguardevoli, una armata su punti decisivi o strategici del teatro di guerra, e, nelle battaglie, di riconoscere qué punti ove conviene spedire la massa maggiore delle truppe per assicurare il buon successo dell'azione». La tattica è «l'arte di disporre e far muovere le truppe nel mondo più vantaggioso all'impiego delle loro armi [...]. Deve fornire i mezzi per condurre su un dato punto le maggiori forze possibili con sicurezza e celerità». 72 La tattica deve sfruttare le qualità individuali tipiche del soldato di ogni nazione e adattarsi al terreno. Va fatta una distinzione tra tattica e metodo di guerra: «la tattica di una nazione potrebbe essere simile a quella di un'altra, senza che il suo metodo di guerra fosse lo stesso. La tattica, approvata da una nazione, deve fondarsi sul suo carattere, diversamente sarebbe cattiva».73 L'esercito di una nazione di indole pacifica e fredda (come quella inglese e come quella russa) deve basare la sua tattica sul fuoco e sui movimenti regolari, mentre l'esercito di una nazione vivace di indole e impetuosa (come quella francese) considera come fattore secondario il fuoco, specie se eseguito a ranghi serrati, e «s'applicherà ad esigere una rapidità che sia superiore alla regolarità dé suoi movimenti».74 11 metodo pratico di guerra «deve essere calcolato su la natura [cioè sull'ambiente naturale - N.d.a.] del Paese ove si combatte, su la tattica approvata dal nemico, e sul suo carattere nazionale, quindi non può essere lo stesso sulle Alpi, sui Pirenei o su1le pianure di Fiandra, o contro un'armata francese o spagnola». Per metodo di guerra, quindi, il F.d.P. intende qualcosa di molto simile all'attuale dottrina, applicazione a un caso concreto di principi teorici, tattici e strategici. Naturalmente, subito dopo il F.d.P. sembra rinnegare il moJto di buono che c'è in queste considerazioni con il solito richiamo alla strale-
72
ivi, p. 73. ivi, p. 75. 74 ivi. p. 76. 73
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gia come scienza soggetta a poche variazioni, alla tattica che esegue i movimenti predisposti dalla strategia, ecc.: ma a1meno, ha il buon senso di dire che la strategia «è di tutte le scienze la più difficile», una nuova scienza le cui basi sono state stabilite da «un capitano illustre» [Napoleone - N.d.a.] e da «un abile scrittore» lforse Jomini - N.d.a.]. Egli tratta in maniera abbastanza approfondita anche la guerra partigiana e i suoi vantaggi e inconvenienti, con considerazioni che riprenderemo nel capitolo dedicato a questo argomento. In questa sede, ci sembrano invece assai calzanti alcune sue considerazioni sull'utilità o meno di una lunga istruzione per il soldato, che sembrano fatte apposta per contrastare i teorici della «nazione armata», degli eserciti di popolo improvvisati al bisogno. Nel concreto, il F.d .P. si chiede se i perfezionamenti interni e le minute, metodiche istruzioni tipiche della scuola prussiana del momento siano ancora validi: non è forse sufficiente che il soldato di fanteria sappia caricare il suo fucile e sia assuefatto alle lunghe marce; che quello di cavalleria sappia tenersi in sella e combattere? Risponderò che, sì, nello stato attuale dell'arte come prima dé suoi perfezionamenti, la regolarità che si esige negli esercitamenti di parata, non fu mai riconosciuta alcunamente utile alla guerra, né essa non fa che svogliare il soldato; ma sarebbe massimo errore immaginarsi che masse mal disciplinate possano vantaggiosamente affrontare quelle truppe che, quantunque inferiori in un numero, però sono ben esercitate alle mosse di guerra.75
Per la fanteria hanno quindi grande importanza l'addestramento al tiro e le marce con lo zaino, e per la cavalleria vi è ancor maggiore necessità di continuo esercizio e di conoscenza del governo dei quadrupedi: truppe assuefatte all'ordine e alla disciplina, capaci di piegarsi in colonna e spiegarsi rapidamente, sparpagliarsi in esploratori, rannodarsi in un batter d'occhio, e colpire esattamente in mira, per altra parte dirette da comandanti, e generali che per esperienza sanno applicare queste mosse su qualunque terreno e ad ogni evento, queste truppe, dirò, potranno sopportare sventure mediante una strategia superiore; ma esse la rivendicheranno poi a ben caro prezzo; questa sventura non produrrà risultamenti disastrosi, si salverà l' o-
15
ivi, pp. 78-79.
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nore delle armi, ed i successi di dette truppe saranno poi immensi, tosto che una strategia migliore si presenterà poi per dirigerle. 76
Il toscano maggiore conte Vincenzo Buonamici, autore dei Principì generali strategici sulla guerra offensiva dedotti da Napoleone, dalle campagne dei più gran capitani antichi e moderni con alcune sue osservazioni importantissime sopra La scienza militare (versione dal francese fatta il 1833)77 è assai più schematico, prevedibile e tradizionalista del Ferrero di Ponsiglione. Punto centrale della sua opera è che «nulla [... ] può dirsi essere stato immaginato di nuovo dai moderni nell'attuale meccanica ordinazione degli eserciti, o in ciò che al presente vuolsi chiamare tattica. I pretesi sistemi di condurre la guerra (sic), che costituiscono in oggi la strategia, cioè la scienza dei gran movimenti, o delle grandi operazioni degli eserciti, cadono anch'essi sotto il medesimo giudizio». 78 Tutti i piani delle quattordici grandi campagne di Napoleone furono conformi ai veri principi della guerra, gli stessi dei grandi capitani che lo hanno preceduto: «le sue guerre furono ardite, ma metodiche[ ... ]. Ogni guerra ben diretta è una guerra metodica» [riflessione non certo originale - N.d.a.]. Molte delle riflessioni del Buonamici non si discostano da quelle consuete, che abbiamo tante volte incontrato. Ricordiamo solo le sue considerazioni sul piano di guerra, nel quale - anche se è ben meditato - «si presentano moltissimi inconvenienti che impongono di scegliere il buono e rigettare il cattivo partito nell'istante della esecuzione stessa», inconvenienti che si fronteggiano con lo studio deJla storia, l'esperienza e il genio del capitano, tenendo presente che «la sola teoria non è altro che una raccolta di riflessioni, e di opinioni ricevute senza esame, le quali o si è inteso altrui aver posto in uso, o che si sono vedute da altrui esigenze». Un'affermazione tutt'altro che scontata a quel tempo è che «non vi è fuoco praticabile in faccia a1 nemico che quello a volontà». Sintetico ed equilibrato come pochi il giudizio sul ruolo della fortificazione permanente, valido anche per il secolo XX: le piazzeforti sono utili per la guerra difensiva come per la guerra offensiva. Non vi è dubbio che esse sole non possono tener luogo di un esercito, ma sono in vero il solo mezzo per ritardare, indebolire, inquietare un nemico vittorioso. E poi tengono in sicurezza i varj depositi di armi e munizioni, anticipatamente preparati pei bisogni della guerra; di più esse chiudono i principali passaggi delle 76
ivi, pp. 79-80.
77
Lucca, Giusti, 1846.
78
ivi, p. l l.
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montagne, e facilitano agli eserciti il passaggio dei fiumi, sopra cui esse formano delle teste di ponte. Finalmente, secondo le circostanze, offrono asilo e rifugio sotto le loro mura agli eserciti difensivi, asilo, che l'aggressore è obbligato di rispettare senza passare oltre, opponendosi la ragione di guerra di lasciare un esercito alle proprie spalle. Le guarnigioni delle piazzeforti devono prendersi dalla popolazione, e non dagli eserciti altrui. 79
Anche il giudizio sull'effettivo peso dei fattori morali è assai equilibrato: «il fanatismo, l'amor di patria, la gloria nazionale possono vantaggiosamente inspirare i giovani soldati, ma sopra ogni altro un buon generale, dei buoni quadri, una buona organizzazione e una buona istruzione, una buona e severa disciplina fanno delle brave milizie, indipendentemente da qualunque causa per la quale esse si battono».80 Il Buonamici è tra i pochi ad aver ben meditato anche gli aspetti logistici delle guerre antiche e contemporanee, senza le solite cesure tendenti a dimostrare che, nei secoli passati, la logistica non era poi così importante. Egli cita il motto di Federico II (1760) «l'arte di vincere è perduta senza l'arte di vettovagliare, rifornire». E aggiunge che «i soldati moderni non hanno bisogno di pane o di biscotto al di là di quello che ne avessero i Romani: se nelle marce si dia loro della farina, del riso, o dei legumi, certamente i medesimi non potranno soffrire. È un errore il credere che i generali dei tempi antichi non avessero tutta quella premura e attenzione che si deve pei loro magazzini: basta leggere nei commentari di Cesare, quanto in molte campagne questo importante oggetto l'occupasse. I medesimi avevano trovata l'arte solamente di non essere schiavi o dipendenti dai loro munizionieri; tale arte è stata e deve essere il segreto di tutti i sommi capitani».8 1
Che cosa si può dire di più, e meglio, della logistica di ieri e di oggi? Meritano, infine, un almen fuggevole ricordo altri scritti di non eccelso valore, i quali però tutti dimostrano un risveglio di interesse per le cose militari: - la Guida dell'uffiziale (1816) del generale napoleonico Cav. Gioachino Gifllenga, mentore di Cesare Balbo;82 - Il militare in guerra - raccolta d'esempj e massime tolte dalla storia romana e greca per ben servire e comandare in un'armata (1817), o19
ivi, p. 71. ivi, p. 78. 81 ivi, p. 63.
80
82
Vercelli, Stamp. G . Peretti 1816.
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pera edita sotto gli auspici del generale napoleonico Teulié dal capitano Filippo Argenti, «già istruttore nell'arte militare dei paggi dell'Ex Regno d'Italia» ;83 - le Osservazioni sull'arte della guerra di Cesare Laugier (1817);84 - Il generale in campo, ossia trattato di grande tattica raccolto dall'opera di Guibert e altri celebri autori (1823), dell'«l.R. capitano pensionato» Antonio Coltelli; 85 - le Notizie topografiche e statistiche sugli Stati Sardi dedicate a S.S.R.M. Carlo Alberto - opera preceduta dalle teorie generali sulle statistiche e speciali alle riconoscenze militari ( 1840 - 5 Yol.) del capitano G. Luigi Bartolomeis;86 - le Alpi che cingono l 'Italia considerata militarmente così nella antica come nella presente loro condizione (1845) di Annibale Saluzzo. 87 Risulta evidente, in queste opere minori rivo1te essenzialmente ai Quadri, l'impronta lasciata dalle guerre napoleoniche, baricentro di un movimento di idee che contribuisce fortemente ad ampliare gli orizzonti deU'ufficialità, aiutandola ad uscire da prospettive regionalistiche e meramente dinastiche. Contribuiscono a svegliare le coscienze anche le numerose indagini storiche che compaiono nel periodo, sulle quali non ci soffermiamo, limitandoci a segnalare - per il loro dichiarato fine didatt.ico, educativo e formativo - la Galleria militare: vita dé marescialli, generali, ammiragli ... che hanno comandato in capo gli eserciti e flotte dal 1794 al 1815 di Giacomo Lombroso (Milano, 1841). Dello stesso autore - e il titolo non richiede commenti - sono le Vite dé primarii generali ed ufflziali italiani che si distinsero nelle guerre napoleoniche dal 1794 al 1815 (Milano 1843). Opere, quest'ultime, non strettamente «scolastiche»: ma che tali sono nella realtà, perché essenzialmente rivolte ai Quadri e tendenti ad educarne i cuori ancor prima che le menti.
Conclusione TI primo dato che emerge è l'inaffidabilità e insufficienza dell'analisi del Brancaccio, che pure è il solo a tentare un esame organico degli 83
Milano, Per C. Silvestri 1817. Firenze, Stamperia Granducale 1817. Di Cesare Laugier si vedano anche i Concisi ricordi di un soldato napoleonico (a cura di Raffaele Ciampini), Torino, Einaudi 1942. 85 Venezia, G. Picotti 1823. 86 Torino, Stamp. Reale 1840. 87 Torino, E. Mussano 1845. 84
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G . CRIDIS, P. RACCHIA, G. POUGNI - GUll..LET, S. V ASSALLJ, E. G IUSTINI ANI
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autori del periodo, peraltro presentando come gli unici autori italiani scrittori che invece rappresentano solo una parte piemontese del pensiero militare. Non è vero che il pensiero militare piemontese della Restaurazione accantona Napoleone o trascura gli ammaestramenti delle sue guerre; lo fa nei limiti del possibile e se vogliamo in maniera spesso contraddittoria, pagando prezzi almeno formali alla vocazione antinapoleonica - peraltro blanda ed epidermica - dell' establishment politico-militare del momento. Pretendere che Cridis, Racchia ecc. siano dei ribelli, è un pò troppo: anzi, è ingiusto e fuori della realtà. Per questo gli scrittori ((scolastici» che prima abbiamo citato meriterebbero - tutti - miglior fama. Invece essi sono poco considerati anche dagli studiosi coevi, visto che il d' Ayala - pur citando nella sua Bibliografia del 1854 tutti gli autori qui esaminati - nel successivo e già citata saggio Della letteratura militare in Piemonte include tra gli autori del secolo XIX solo il Cridis, il Racchi a e il Giustiniani, «annegati » tra una miriade di altri nomi nuovi e non altrimenti noti, tra i quali, dunque, avrebbero dovuto figurare anche il Pougni - Guillct e il Vassalli.
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CAPITOLO lX
SCRITIORI «SCOLASTICI» NAPOLETANI (DONATO RICCI, FRANCESCO SPONZILLI, GEROLAMO ULLOA) E STAMPA PERIODICA
Premessa Che esista nella Restaurazione una corrente di pensiero «scolastico» napoletano è un fatto innegabile, da collegare anche all 'esistenza di quella fucina di eletti ingegni - e non di rado di patrioti - che è stato il Collegio Militare della Nunziatella, dove hanno insegnato i più celebri esponenti de11a cultura in senso Jato. Ci ripromettiamo ora di esaminare gli autori più importanti, le analogie e differenze con quelli piemontesi, i loro eventuali caratteri comuni. Nel capitolo VII abbiamo già preso in esame l'opera di Luigi Illanch, il maggiore esponente della cultura militare - napoletana e italiana - del periodo. Questa estrapolazione si è resa necessaria per due ragioni: primo, Luigi Blanch non è propriamente un autore «scolastico», non si occupa di strategia o di minute questioni militari d'attualità ma è essenzialmente un filosofo della storia militare, un teorico puro che ama stare tranquillo, non vuole scontri con il potere; egli dunque dissoda e prepara il terreno, getta delle basi teoriche, ma non si occupa di attualità come gti «scolastici». In secondo luogo, Blanch supera le stesse frontiere italiane e napoletane delle quali poco o niente si cura, è scrittore europeo che come tale non approfondisce molto tutto ciò che può riguardare la seconda grande istituzione militare italiana.
SEZIONE I - Scrittori di politica militare e strategia «La. scienza della guerra in progetto militare, che contiene i grandi mezzi politici, e guerrieri all'offesa, e difesa per ben servire la sovranità» ( 1824) di Donato Ricci1
Questo libro di Donato Ricci (avvocato criminale «di malavoglia» 1
Napoli, Tip. Raffaele Raimondi 1824 (2 Voi.).
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perché «Marte è stato sempre l'astro suo») è l'equivalente napoletano di que11o di Giuseppe Cridis in Piemonte (vds. precedente Capitolo VIII), che viene pubblicato nello stesso anno. Ha tutti i difetti della letteratura «scolastica» napoletana del periodo, ma non manca di pregi e fornisce se si scava bene - una veritiera, rara immagine dei problenù dell'esercito napoletano del tempo. Senza approfondire la tematica strategica e teorica, il R. caldeggia un suo progetto di riforma militare: ma lo fa con mille precauzioni, guardando al passato e ignorando e combattendo il più possibile l'esperienza napoleonica. Forse per timore della censura, nella «Nota seconda» che precede il testo si premura di avvertire che «dé vocaboli atti ad esprimere le idee di tante surte turbolenze dé condannati novelli sistenù politici, han macchiate le labbra per sola necessità di dare delle dimostrazioni necessarie al trattato della Scienza militare». E nella Nota terza ammonisce ad ogni buon conto che «assioma indubitato, è che chi è assoldato alla spada deve indistintamente obbedire all'Autorità, ed alla Legge, senza entrare in ragione qualsivoglia di quistioni politiche». Evidentemente ce n'è bisogno! Quando si inizia la lettura del libro, si rimane scoraggiati e quasi quasi si vorrebbe subito confinarlo tra i soliti sproloqui degli incompetenti. Lo stile è contorto, involuto e poco chiaro, con divagazioni frequenti e frasi e sentenze mal inserite nel contesto, fino a rappresentare un modello in negativo di retorica prosa militare. Persino la grafica è infelice, fino a nascondere (che sia un fatto intenzionale?) i concetti principali in un mare di parole che si avvitano su sé stesse. Numerose le esagerate adulazioni, e le profferte di fede!tà alla monarchia napoletana; il libro è dedicato al Ministro della guerra Principe della Scaletta, al quale l'autore nella dedica attribuisce addirittura «gli stessi lumi di Marte guerriero». E l'intento smaccatamente adulatorio, l'ostentato desiderio di scrivere solo cose gradite si manifestano in queste righe esemplari nel loro genere, che il R. chiama «rilievo militare» e scrive su richiesta di ungenerale «che aveva spirito in Consiglio di Corte», il quale evidentemente lo riteneva - lui avvocato - un esperto anche di cose pratiche della milizia: dall'insieme delle cose ho osservato che i Corpi di arma al toccare i Jimjti del campo serbavano un ordine esatto nella marcia: la simmetria, e l'agilità regolavano i movimenti schierandosi in battaglia, e le sembianze degli uomini effigiavano la forza e il contegno di Ercole. La tenuta delle truppe era sorprendente, e le armi, gli abbigliamenti e le dotazioni all'estremo desiderabile. L'energia, e la presenza di spirito degli offiziali, ed il genio dé comandanti aveva
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del distinto nelle evoluzioni dé corpi. Le manodoperc delle armature avevano del semplice, e del leggiadro[ ... ] Lo stridere delle armi portava una sola battuta [... ] Gli allineamenti mostravansi come la parete a piombo ....2 Contemporaneamente il R. ambisce a cose meno superficiali: si ripromette di «divergere le tenebre» nelle quali sono cadute le forze militari, a causa dell' «oblio della scienza della guerra». E ha deciso di scrivere il libro, perché le tante opere Militari sulle diverse, e molteplici parti della Guerra, non formavano un nesso di vedute che nell'insieme avessero dimostrato un quadro di osservazioni per riconoscerne le lacune, che tante emergenze politiche militari vi hanno occasionato. Ho scorso in 12 anni di metodica applicazione le pagine dé più classici scrittori politici, e militari che ho raccolti sulle indicazioni dé cataloghi delle pubbliche, e private Bibblioteche militari delle più autorevoli Nazioni, ed ho conosciuta questa verità.3 Rara modestia! i riferimenti che indica a piè pagina sono comunque in parte rivolti ad autori francesi non di primo piano, e spesso solo da lui citati; immancabile l'Arciduca Carlo; degli italiani, par~cchi rkhiami al napoletano Filangieri. Uno dei pochi pregi del libro è quello del collegamento tra politica e arte militare, tra economia e guerra, tra istituzioni politiche e militari, nell'intesa che «un'Armata formidabile che faccia argine alle invasioni esterne, ed alle ribellioni interne» è sempre la colonna fondamentale del Sovrano, «sia che [quest'ultima] sorga dalle onorate fasce della successione, sia dalla virtù, sia dalle armi». Ma la forza dell'esercito, e l'incisività delle riforme militari, non si ottiene solo con provvedimenti tecnicomilitari: come Clausewitz, il R. pensa che «la pianta politica deve essere messa in armonia con quella militare», altrimenti le riforme diventano «lenitivi del momento», mentre «il rompere i difettosi sistemi, il disorganizzarne momentaneamente l'insieme per riordinarlo, è l' unica, ma infelice cura che conviene al male».4 La scienza della guerra è anche «conoscenza perfetta della macchina politica» , che il buon generale deve possedere:
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ivi, Voi. II pp. 97-98. ivi, Vol. I p. 6. 4 ivi, p. 16. 3
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difatti chi potrebbe medicare il corpo umano, e dirigerlo alla vita [...], senza essere inteso del componente di questa macchina artifiziosa dalla più piccola fibrilla sino all'interno del suo costituente! Chi potrebbe riparare i guasti di questo corpo col ferro, e col fuoco senza prima conoscere il modo, ed il mezzo per ministrarlo, o ciò che si deve togliere, e ciò che si deve conservare! [... ] Quale generale potrebbe conoscere L...] il foco militare senza la scienza astratta della struttura organica di ogni corpo nazionale nella sua intera periferia, e del meccanismo dei suoi vitali movirnenti!.5
Le questioni teoriche concernenti la ripartizione dell'arte della guerra, la strategia e la tattica ecc. non rientrano negli interessi del R.: quando ne parla, dice quanto basta per includerlo tra gli innumerevoli seguaci di Jomini e dell'Arciduca Carlo, esplicitamente citati. Ad esempio: non rechi meraviglia se la guerra abbia ancora delle parti ignote, e che il tempo, e i genj andranno sempre più a sviluppare la sua macchina colossale. I gran segreti della guerra sono le comunicazioni intangibili [Arciduca Carlo - N.d.a.], e le conoscenze del punto da attaccarsi con tutta la massa della propria forza che spezza la ordinata concatenazione delle conseguenze militari [Jomini - N.d.a.] ... Ma ciò non pertanto omettere si devono i mezzi più appropriati che possano condurre a tal fine, in quanto alla rilevazione a punto di esame politico-militare nel dove abbiasi ad annidare lo spirito che regge la fona dell'armata propria, e di quella nemica, nelle 5 potenze, cioè armi, rapporti, denaro, opinione, eventualità.6
La scienza della guerra anche per il R. ammette dei principi costanti: «Tutto il rimanente non è che l'adagio filosofico dé suoi medesimi elementi sodi alle occorrenze che presentino le località, il numero, la proiezione delle forze, le condotte di contegno o audaci dé Generali, il tempo fisico, e politico che la ruota delle cose fa gravitare su dell'una, o dell'altra armata». Un fugace accenno anche alla strategia, e al fondamentale ruolo della geografia: nella veduta umana, è riposta la sicurezza sulla scienza strategica della guerra, e nel modo di rilevare i piani di difesa, e di offesa. Alla base dell'azione, ed a quella più elementare di questa più delicata parte militare, rari genj si estendono sino ad abbracciarne le complete masse delle sue vedute, mentre la maggior parte si dilata
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ivi, Voi. II pp. 9105-106. ivi, Voi. I p. 58.
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sino al punto tanto breve di difendere un trincera.mento, di attaccare un avamposto[ ...] Tale sublime impresa è riposta sull'analisi fisica e morale del territorio dominato dalle armi nemiche in relazione del proprio stato; e sibbene nell'equivalenza della costituzione organica militare e civile, nè mezzi offensivi e difensivi [... ] Tanto colpo di occhio può darlo solamente la carta topografica generale dé territorj nazionali in contesa, non che la rispettiva statistica civile, e militare.7 Solo il genio, dunque, è in grado di abbracciare e condurre ad unico fine tutti i complessi fattori della strategia: ciononostante, per il R. come sempre è la tattica a identificarsi con l'arte della guerra. Essa «è l' ausiliaria dei mezzi prescelti dalla scienza, che mai potrà essere assegnata determinatamente, ma sviluppa dalle occasioni indeterminate di tanti futuri incidenti, ed è rimessa alla prudenza della esecuzione del gran piano d'invasione, o difesa ... ».8 Così la tattica viene confusa tout court con la pratica militare minuta e quotidiana, e definita anche «quella meccanica conosL:iula palpabilmente con i sensi del corpo e con l'esercizio della manodopera. Quale facilità non incontra il genio militare quando la teoria è corroborata dalla tattica!». La pratica militare rende un tributo alla scienza, che l'ufficiale acquista gradualmente, progredendo nella carriera: «così praticamente si acquista esatta la conoscenza di tutto ciò che mai potrà istruire la letteratura, il che rappresenta l'essenziale del militare, collocandolo nelle concioni alla sede dell'Oracolo ... ». 9 Peraltro «la guerra ha più impero nel raziocinio che nel meccanismo di usare le armi: Enea il più antico scrittore militare si dice avesse col suo stile ferreo impresse su i papiri le lezioni della tattica conosciute dall'esperienza di quei tempi ... ». 10 Ma l'assimilazione della pratica militare e della tattica non è facile né è tutto: attualmente i casisti, ed i pratici baffuti osando dire che l'essere stati una, o due volte in guerra hanno perciò appresa tutta la tattica, e tutta la teoria, e di questi grilli antimilitari, deturpano la grave immagine di Marte. Sibila da più secoli che l'esito della battaglia dipenda dall'azzardo di capricciosa fortuna; ma è questo assurdo che denigra la bella ragione, e vela l'attore dell'eterna verità. Le armi sono i mezzi della vittoria, ma questa è dell'ente pensante militare. 11 1
ivi, Voi. II p. 111. ivi, p. 112. 9 ivi, p. 90. 0 • ivi, p. 92. 11 ivi, Voi. I p. 130. 8
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Pur mostrando parecchie volte di apprezzare dati d'esperienza e concetti riferibili all'esperienza napoleonica, il R. è il meno napoleonico di tutti gli scrittori del periodo, napoletani e non. Non elogia l'audacia ma la prudenza, perché «ogni azione militare senza essere messa in armonia della prudenza la quale insegna sola la esperienza della gran scuola di corte, tuttochè virtuosa per fatto, riesce inopportuna, o mal digerita».12 Ritiene preferibile che la guerra sia offensiva, ma afferma anche che «la guerra va limitata allo scopo di rimettere l'ordine alla società, e la forza finora sviluppata è molto sufficiente all'oggetto»Y Lo porta a queste considerazioni anche la grande importanza da lui attribuita all'artiglieria e specialmente a quella a cavallo, «arma infernale e la più terribile dé reggimenti della guerra, primo agente della guerra campale» . Non è certo originale, in questo: così come non è originale legando il fenomeno guerra alla natura umana, e però rifiutando la debellatio del nemico alla maniera napoleonica, fino a scrivere - come Sun Zu che le più belle battaglie sono quelle vinte senza combattere, a citare il detto di Scipione che è meglio conservare un soldato piuttosto che uccidere mille nemici, e a ritenere che non bisogna mai precludere del tutto la via della ritirata al nemico, per non costringerlo a combattere con una forza moltiplicata dalla disperazione. In molte sue considerazioni si sente l'influsso di Montecuccoli, peraltro mai citato; così dedica ben 22 pagine (da pag. 76 a 98 del Voi. I) a un'infinita serie di precetti, aforismi e stratagemmi di carattere politicomilitare, tratti dall'esperienza storica e riguardanti non solo la guerra tra eserciti o tra flotte, ma anche quella al morale e al benessere delle popolazioni. La quantità dei suggerimenti specifici è molto elevata, perché «le vedute politiche guerriere sono tante per quanto l'infinito numero delle contingenze possono offrire nelle future vicende». Un altro prevedibile bersaglio delle critiche del R. è la guerra di masse di tipo napoleonico, con il connesso sistema di coscrizione obbligatoria: i due capisaldi, insomma, della politica militare della Rivoluzione Francese. «La prima mira del politico militare è que11a di conoscere il cuore dell'uomo, l'istinto, il sentimento, le passioni che lo muovono». Non tutti hanno la vocazione militare, e non sono certo «baluardi inespugnabili alle vie nemiche» un lenone, un cuoco, un cameriere, un aspirante avvocato o prete, un effeminato, un «lisciardo alla moda» o un pacifico contadino.
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ivi, Voi. II p. 114. ivi, Voi. Il p. 101.
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Obbligare ad arruolarsi le classi sociali più utili, che non hanno alcuna attitudine militare e che con il loro lavoro assicurano il comune benessere, «sarebbe avviperirli, e farli agili, alla corsa ne l paragone di armi; finalmente queste braccia sono le più utili ma non pe r l' uso delle armi». Infatti l' «esame analitico delle armate» ha dimos trato che una metà della truppa ha servito per forza, un terzo per interesse, e un quarto per onore: quindi è che la prima ha gettato le armi alla presenza del nemico, al 2° è tornato più in grado vendere all'incanto il consecrato corpo, ed il 3° è stato il miserabile bersaglio della metraglia in campo t... J. Le forze finalmente terrestri, e marittime, fisse, o mobil i, si sono vedute con la massima facilità espugnate col frangere quella molla animale politica, e militare, così debole .... 14 Dunque, niente più sorteggi e niente più leve forzale, ma conviene con gli occhi di Lince distinguere l'uomo d' armi, cd assoldarlo, e qual nuovo Diogene cercare col lume il Guerriero. poiché la stabilità poco dipende dalla pavida toga ministra di regole dell' ordine privato, ma originariamente dalle anni, mentre la MONARCHIA di Successione, di Virtù, e di Alleanza isolatamente, non è che bella teoria. 15 Un esercito di uomini scelti e di alte doti militari sarebbe stato un fattore di pace e un organismo che non avrebbe richiesto per il suo governo misure coercitive. Con esso i REALI sogli non avrebbe avuto tradimenti, e viltà appendici funeste del difetto; la SOVRANITÀ sarebbe stata intangibile, e la presenza di una Armata avrebbe contenuto il nemico col nemico in comune terrore, e quindi ognuno avrebbe tenuto la spada nel fodero, calcolando le gravi spese, disordini ed esiti di sangue. Ecco i primi tratti di affezione che si raccoglierebbero dal Popolo estraendo dé vantaggi dai trasporti stessi dé Nobili, e della Plebe [ ... ] Finalmente non scrivo l'etica militare, e quindi limito il dire che i soldati non si comandano con la spada, o col bastone, ma con la ragione, e l'amore. 16 14 ivi,
Voi. I p. 21. ivi, pp. 25-26. 16 ivi, p. 26. 15
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Negativo anche il giudizio sugli effetti politici, e ancor più su quelli militari, delle rivoluzioni: che cosa è dunque un Popolo in rivoluzione? È la turba disordinata che presto va a finire di propria volontà ali' ordine, spaventata dai flagelli dell'anarchia, in similitudine del minatore che dopo accesa la mina se non può fuggire dalle voraggini che si scavano a suoi piedi corre a tagliarne la comunicazione, e queste conseguenze debbono aspettarsi sino a che cambi la natura.17 Una volta rovesciato il potere esecutivo interno, diventa inevitabile la guerra con «le vicine Potenze ordinate», a causa dello «scandalo» che loro si dà: ma si tratta di un tipo di guerra «in cui il popolo in massa a nulla vale». E non vale opporre a questa argomentazione «i sogni esecrati di colui che diè linguaggio agli animali nel potere dé clubisti senza veterana armata» [cioè l'esempio di Napoleone e delle sue guerre con grosse armate improvvisate - N.d.a.]. Questo perché l'ascendenza militare su i vicini, un partito generale che possa prendervi la truppa, un senato forte ed energico, la compromissione generale del popolo, l' energia di tutti i rami amministrativi può solamente aumentarne la difficoltà; ma con l'andare del tempo tutto va a rovine perché non è sperabile che in uno slancio il popolo passi dall' abituato rispetto verso del MONARCA ad una novità criminosa senza molto pericolo, e forse del cuore. 18 Ma quand'anche «dati certi permettessero che i paesani mossi dall'invidia, o dal favore dassero di piglio alle armi, ed Uomini d'influenza popolare cingessero la sciabola e sapessero concentrare le passioni» per dirigere l'impeto della rivoluzione verso ben definiti obiettivi politico-militari, l'esercito popolare non avrebbe alcuna possibilità di vittoria in una «battaglia ordinata» contro un ben addestrato esercito dinastico. Potrebbe solo dividersi in bande, per difendere luoghi montagnosi o selvosi che consentono di nascondersi e ripararsi, per dividere le forze nemiche, sorprendere i convogli ecc. a vantaggio del grosso dell'esercito: ma non potrebbe mai «battersi in ordinanza a petto nudo», perché l'esperienza ha dimostrato che siffatti eserciti «spariscono come polvere al vento, e le cause di tanto effetto sono ben conosciute». Essi potrebbero portare qualche vantaggio «nella guerra difensiva solamente
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ivi, p. 67. Ibidem.
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aJl'interno, quaJora persistesse nelle loro menti pertinace odio, o fossero ligati da compromissione capitale a battersi, la quale per altro è sempre indeboliLa dai proclami, o dagl'indulti nemici, ai quali non è troppo gran partito fidarsi». 19 G li stessi elementi che per il Filangieri (vds capitolo VI) dovrebbero fare la forza degli eserciti non di mestiere e su larga base popolare, per il R. diventano causa primaria di una debolezza prima di tutto morale così forte, da renderli non atti a sostenere battaglie campali ; peraltro il R. risente parecchio del Filangieri o meglio delle idee illuministiche di fine secolo XVIII. Lo dimostra lo stesso suo intento di proporre una riforma dall'alto dell' istituzione militare; lo dimostra anche il fatto che, dopo aver condannato severamente le rivoluzioni, esplicitamente citando il Filangieri egli condanna anche le repressioni e gli inasprimenti di pena decisi «senza togliere le cause feconde che inevitabilmente debbono dare alla legge la trista nota di reato». Le pene spaventano sì, ma colpiscono «inopportunamente» soprattutto chi perde la vita per un idea le: dovrebbero risorgere i cadaveri degl'eseguiti per rinfacciare che pochi savj conobberro l'Uomo. La sublime veduta politica per evitare le rivoluzioni che allo scoppio rovinano l'edifizio soci,de, ed alla caduta comunicano talora tremenda ondolazione ai vicini governi, è quella di avere i funzionarj dell' ordine amministrativo, giudiziario, e militare di quella dose di talenti, e di fennezza propria a corrispondere all'importanza dei doveri. 20
Di conseguenza «l'energia amministrativa militare che è l'anima essenziale di ogni sana MONARCHIA pende dal carattere delle braccia di coloro che la servono», e il R. insiste particolarmente sulle alte doti morali che deve possedere il Capo militare, in questo almeno dimostrando di essere in piena sintonia con quanto aveva detto Napoleone, ed era stato ripreso da Clausewitz. Le pagine che dedica alle doti dei comandanti incominciano così: Ificrate disse che il Generale rappresenta nel corpo di armata quella stessa potenza vitale che ha l'anima nella macchina umana[... ] Non gli onori, la nascita, le ricchezze, il linguaggio civile conduce alla vittoria, ma la scienza politica guerriera ha portato le palme, ed ha sostenute degnamente inalberate le Corone sul Capo degl'lmperatori. La stabilità legislativa, e dell'ordine civile è dipesa da questa
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ivi, p. 68. ivi, p. 115.
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gran causa. Il Senato disse a Gobria che si deve più temere di un Esercito di cervi presieduto dal Leone, che dell'Esercito dé leoni presieduto dal Cervo (... ] L'ottimo generale è la stella polare che guida l'esecuzione degli affari del trono, la zona che riunisce in sé le cause della terra politica [... ] È trito il detto di Scipione che non si debba tanto temere dalle armi nemiche quanto del Duce involto nelle bassezze. Se dunque deve essere egli la fiaccola guidatrice di tutto, colui che allontana le calamità pubbliche, è d'uopo che non sia eclissato. Tra le bottiglie non si comanda. Focione beffato della scarsezza del pranzo rispose, ila prandeo quia rem publicam administrator. La gozzoviglia non può essere nel cardine del Governo.2 1 In queste parole del R. è lecito intravedere riferimenti non tanto coperti alla necessità di una riforma prima di tutto del costume militare napoletano, e più in generale della leadership. Intento che emerge più chiaramente in ciò che egli propone a proposito della «organizzazione dell'armata», 22 accennando a «muti vetusti voti» per la riforma della struttura organica dell'esercito, «divenuta ormai cadente perché annuosa, logora, e rifatta in tante parti in cui la solidità del nuovo ha mortificato la debolezza del vecchio, e ne ha presentato un quadro rattoppato da mille genj, da mille mani, e da mille emergenze». Né è sfuggito «all'interna convinzione» di tanti Ministri del Re [i quali evidentemente non hanno fatto niente - N.d.a.] «che questa macchina polverosa debba essere cambiata, e combinata allo spirito di fortezza, e di energia, e finalmente ai progressi della scienza di guerreggiare». Segue la condanna degli eccessi e delle storture, che hanno intaccato l'efficienza bellica dell'esercito, unica meta da perseguire. E così la perfezione formale, magnificata con scoperto intento adulatorio in altra parte dell'opera, qui viene giudicata finalmente per quello che è, vale a dire vuota esteriorità: si videro delle truppe fare delle tante attitudini per dare colpo di occhio ai spettatori nel brandeggio delle armi, e nelle evoluzioni; si videro moltiplicate, e sottratte le cariche ed il numero dei superiori, per oggetto di saziare l'ambizione militare, e la svogliatezza alle rispettive fatiche, per premiare, o per economia finanziera senza la proporzione della ragionevole temperanza politica militare; ma giammai per non toccare gl'inveterati usi, o per non m1,10vere parziale malcontento con delle novità, si pensò a formare un ordine gerarchico, ed una distribuzione di forze adattate al gran fine della 21 ivi, 22
pp. 69-71. ivi, pp. 60-64.
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guerra, ed alla rapidità delle comunicazioni necessarie a] potere esecutivo, non che al mantenimento dell'esatta disciplina, ed all'ordine negli ordinari movimenti dé corpi d'armata, o sopra l'armi, o senza.
Più chiaro di così ... Non è un fatto casuale che chi scrive queste cose sia un avvocato, e non un ufficiale di carriera napoletano. E viene anche da chiedersi, se i difetti denunciati dal R. siano tipici solo dell'esercito napoletano, riguardino in qualche modo anche l'esercito piemontese e gli eserciti della Restaurazione, oppure siano tipici degli eserciti stanziali di ogni epoca e ogni nazione, che rimangono per lungo tempo senza combattere. Comunque sia, il R. ritiene che la «semplicità sola, e non la complicazione» è quella qualità che può re ndere efficiente l' eserc ito e celeri i suoi movimenti, e che ha richiesto tutte le cure dei geni militari. «Le truppe che ebbero tanti comandanti, à quali riuscì impossibile di lutti soddisfare, ed obbedire, che moltiplicarono gli ordini. e diedero remore a1le esecuzioni» hanno sempre dato cattiva prova: «insegna la storia che quei gentili popoli che ebbero più de ità, e più capi nelle amministrazioni pubbliche, ebbero sempre guerre e dissenzioni interne e clandestine». Il numero dei generali dovrebbe perciò esst:rt: aùallalo agli effettivi bisogni del Regno e definito in relazione all'este nsione territoriale dello Stato, alle piazze d'armi, alla forza dell'esercito ecc .. Escludendo i Servizi logistici, un reggimento di 3000 uomini dovrebbe avere un comandante, un aiutante, 30 capitani, 30 tenenti e 30 sottotenenti: ma il dito della derisione assegna la novità. Chi supplirà ai travagli delle altre cariche che resterebbero abolite, tanto per le evoluzioni, per le manodopre, per le cure dei soldati? Rispondo: quei soldati che dai superiori si credono a portala con potere uel momenlu, tenendosi presenti negl'ascensi mercè questi servigi straordinari, e l'obfio di quell'ozio, che è stato consumato con le mani alla cintola, dalle più autorità di spada come tante onorevoli braccia dé SOVRANl.
Il R. arriva a proporre l'elezione degli ufficiali da parte dei soldati [sistema ben presto abbandonato nelle stesse truppe della Rivoluzione Francese, e dopo un secolo, nelle armate bolsceviche in Russia - N.d.a.]. Con questo sistema, infatti, essi «educati sarebbero di più energico spirito, se pur la compiacenza Sovrana il valesse. La guerra non si è mai ben condotta per la maestà, e l'oro del Barone, e del Marchese». Le cariche degli ufficiali - esclusi i generali, la cui nomina rimarrebbe riservata al Sovrano - dovrebbero essere biennali; infine, dell 'esercito non dovreb-
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bero far parte «uomini agricoli, e da Città, per cui esigesse delle osservazioni attesa la rusticità, e fermezza [cioè, inerzia, torpidità - N.d.a.] dé primi, e la voluttà, e gentilezza dé secondi». Gli strali del R. si appuntano anche sulla musica militare, che evidentemente al momento è degenerata e non risponde più ai suoi veri scopi: bisogna allontanare tra le armi quella musica che qualunque si fosse la sua composizione, distrasse lo spirito militare, e suscitò in petto gli affetti più ameni all'allegria dei conviti. Ciò che è appannaggio del teatro, e della dansa sia lontano dalla guerra. Il suono per la fanteria riducendosi a tamburo, è fatto solamente perché dia i comandi, inteso nel momento che il fragore del cannone, il cicalìo delle ruote degli affusti L... ] la lunghezza ed estensione delle schiere non permette che si senta la viva voce del comandante [...] Il suono dé timbali semplici alla cavalleria, o delle trombe lugubri, ed eccitatrici per l'infanteria grave, molto si appropriano: quelle bande di musici imbecilli che in guerra servono per consumare viveri, e per imbarazzare gli equipaggi, dalla pubblica reputazione militare sono riprovati.23
Il R. non è attento solo ai fattori puramente militari e all'efficienza della leadership, ma fa dipendere l'efficienza militare in senso lato dallo spirito e dai costumi di tutto un popolo. Lamenta che «la scienza delle armi, e la cassa monetaria di guerra, sono le più necessarie, e pure queste si sono mai sempre poco stimate. Egli è troppo facile depositare questa forza numerarla dal ristagno animale, avanzo dé prodotti dell'industria dei sudditi».24 Eppure la forza è sempre stata «il più sublime potere in Terra», e di fronte alla vampa del cannone «i piatti, i legami, le carte e le pergamene sono svolazzate». Perciò egli consiglia di disarmare moralmente il nemico, «rendendo imbelli i popoli con teatri, arti, manifatture e crapula».25 Polemizza poi con «certi politicastri», secondo i quali «bisogna avvilire i fieri costumi, ed alimentare invece la dappoccagine militare, e la pubblica viltà per avere il popolo sociale, e servile, e che la guerra si sia fatta con l'ac;tuzia, e l'oro seduttore, formando di questo il più bell'assioma di sorpresa»; si tratta di «esecreto errore», perché «la virtù è una, ed è fatta per tutti i doveri». Più in generale chi apprese gli argomenti pastorali al tempio della pace, con molto stento entra in quello deUa guerra poiché la morale è nello stato politi23
ivi, pp. 64-65. ivi, p. 19. 25 ivi, p. 79. 24
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w, cd un popolo molle è poco utile aUa guerra, ma adattato a!Ja privata società: cd un popolo feroce è pericoloso ad ambedue i tiri, trovandosi nella temperanza l'obbedienza al centro della volontà generale. 26 M erita un breve cenno anche l' «Esposizione dei doveri del corpo d'armala per incremento della Popolazione, dell'Industria e dell'Agricoltura»,27 cioé: l'importanza dell 'economia, e della logistica di produzione, ai fini dell'efficienza dell'esercito. La stagnazione delle arti e delle industrie è segno della decadenza di uno Stato; l'esercito trae dall'agricoltura e dalla pastorizia il villo e gli animali da guerra, e «quanto più il popolo si profonde di abbondanza, altrettanto si regge forte la colonna militare». Tra organismo militare ed economia vi è interdipendenza, perché «le armi non sussistono senza un popolo, e questo non è senza viveri, e senza manifatture». Quindi è un dovere, «anzi un obbligo essenziale» dell'esercito proteggere l'industria, le arti e la scienza, perché da esse trae quanto gli occorre, mentre loro mancanza «qualche volta sperimentata per necessità di guerra, ha scio1to le forze con gravi sinistri, o ha impazientati i soldati». Se si vuol conoscere con precisione quanto importante sia per l'esercito la produzione civile di beni e servizi, «basta portare uno sguardo ai bisogni ed alle forniture di una armala tanto individuali che materiali, incluse le dotazioni di guerra, e si osserverà il tutto essere prodotto dalla mano d 'opera; non prestando i soldati che unicamente la mano a stringer l'arma, ed i superiori la spada di direzione». Una lettura affrettata potrebbe indurre a dare dell'opera del R. un giudizio più negativo di quanto meriti: a parte lo stile, le adulazioni e i tentativi di «annegare» i concetti più arditi e originali, più del Cridis il R. prende posizione, e riesce a far trapelare quei mali della macchina militare napoletana, che poi gli eventi successivi riveleranno. Da un punto di vista strettamente teorico, invece, non dice molto, e lo dice in maniera assai poco originale.
Il «Sunto di alquante lezioni di strategia o sia prospetto di un caso di strategia» di Francesco Sponzilli ( 1837) 28 Il libro si presenta sotto forma di una raccolta di lezioni (tenute dall'autore al Col1egio Militare della Nunziatella di Napoli) e può essere ri26 27
ivi, p. 13 1. ivi, Voi. li pp. 85-86.
28
Napoli , Real T ip. Della Guerra 1837.
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tenuto la più significativa espressione del pensiero strategico ufficiale del Regno di Napoli. Oltre che in questo stesso capitolo, abbiamo già avuto modo di parlare dello Sp. nei precedenti capitoli Il, IV e V, indicandolo come acceso antipurista nemico del Grassi e del d' Ayala oltre che come unico traduttore italiano e sviscerato amico - anzi adulatore - dell'Arciduca Carlo e di Jomini. Globalmente considerata, la sua opera rispecchia pregi e difetti della realtà militare napoletana, e conferma che - come scrive lo Sticca parlando del Colletta - «quella milizia [era] italiana di nome, austriaca per tendenze, per ordinamenti e comandanti». 29 Il libro ora in esame non può dunque essere una sorpresa, anche perché - diversamente dal Racchia e dal Pougni - lo Sp., oltre a corredare il testo di numerose citazioni a piè pagina, una volta tanto non fa mistero delle sue fonti d'ispirazione: il nostro lavoro è basato sopra due autori distinti, l'Arciduca Carlo e Jomini. In quanto alle opere che ahbiam volute ausiliarie, la scelta per noi fattane è tale, che il dotto lettore avrà forse motivo di applaudirla. Noi ci siamo serviti delle opinioni e dé metodi dé due nominati fondatori della scienza teoretica [quindi, ancora una volta Clausewitz viene ignorato - N.d.a.]. Abbiamo accolto i principi, i modi e le idee prodotte da altri recenti e chiari scrittori sulla guerra, e che naturalmente connetter si potevano al sistema nostro, senza però contorcere o piegare le opinioni affin di condurle alla via che tracciavamo; ed anzi laddove talune vedute furono impugnate da qualche dotto se n'é per noi fatto cenno ingenuamente nelle note, le quali, prolisse anziché no, sotto tale riguardo saranno compatibili, giacché vediamo essere un poco al di là queJla sobrietà che vi avremmo voluto serbare. 30
Il libro è preceduto - ne11o stile de11o Sp. - da un' ampollosa e fin troppo scopertamente adulatoria dedica al generale Carlo Filangieri Duca di Satriano, «Capo Supremo che degnossi facilitarmi le vie delle ricerche, Dotto che mi fu largo di consigli. Filantropo che animar mi volle con ogni maniera di cortesie e di conforti». È composto dai «Sunti» di dodici lezioni, i cui titoli sono: definizione de11a strategia; dé punti strategici; de11e linee strategiche; continuazione delle linee strategiche; della base di operazioni; delle basi secondarie o accidentali; delle linee-frontiere, e del teatro della guerra; della guerra offensiva, o delle operazioni;
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G. Slicca, Op. cit., p . 194. Discorso preliminare, pp. XVU-XVIII.
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continuaz ione della guerra offensiva: manovre; continuazione della grande guerra offensiva: seguito delle manovre; della guerra offensiva; magazzini e accantonamenti - conclusione. Queste lezioni sono pubblicate anzitutto sul «Progresso» di Napoli, periodico è di grande autorità e interesse anche nel campo militare. Al di là della faziosità e delle adulazioni che gettano ombre sul carattere dell'uomo, va riconosciuta allo Sp. una ben diversa, e molto maggiore caratura rispetto ad altri autori «scolastici», piemontesi e non, molto al di sotto per profondità di cultura di base e per capacità di condurre il ragionamento teorico. Lo Sp. si permette di discutere e confrontare, su un dato argomento teorico, le opinioni dei più rinomati scrittori europei, sia pure con la vistosa eccezione del Clausewitz: cosa che non è da tutti, né tanto meno del Cridis e dei piemontesi. Nel «Discorso preliminare» e nella prima lezione, egli mette a punto tutte le questioni relative alla strategia; e anche se - inutile dirlo sposa il punto di vista dell'Arciduca Carlo, lo fa con eleganza e vivacità rli argomcnt.a7.ionc, non a scatola chiusa. Punto centrale della sua riflessione è che deve esistere una scienza della guerra (e una scienza della navigazione), perché il solo genio dei condottieri di terra e di mare non basta (ma basta forse il contrario, cioè la sola scienza? Questo, lo Sp. non lo sottolinea bene). Però la distinzione che egli sa fare tra strategia teorica (parlata e scritta) e strategia istintiva o pratica dei grandi condottieri dell'antichità, che furono grandi strateghi anche senza conoscere o usare la parola strategia (o la parola arte di navigare, strategia marittima ecc.) è ancor più convincente di quella che fa il Blanch, da lui citato: ove con sensi uguali parlasse taluno di ciò che chiamasi Navigazione, e ridesse al pensiero di legare i venti e le onde che sono volubilissime tra tutte le cose, e si burlasse di chi studia regole onde con fragil legno andar sicuro in mezzo all'ire formidabili della natura irritata; ragionerebbe del pari a colui che leggendo di un Federico il Grande e di un Napoleone il Massimo, ascriver volesse solo al cieco favor della sorte le fronde innumerevoli degli eterni allori onde le tempia porteranno entrambi circondate. Orazio Nelson, senza la scienza della navigazione, senza una cognizione esatta, quantunque sviluppata sopra elementi variabilissimi, Orazio Nelson, con tutto il genio che lo distingue, forse sarebbe stato da meno di quei che primo con cuore di bronzo affidava sé stesso, con mal connessa barca, il pelago periglioso [...] Napoleone insomma, ove avuto non avesse mezzi affatto distinti e di gran lunga superiori al valor personale delle truppe, o, ciò che intender vogliamo una scienza, non avrebbe potuto per diciassette anni legar la sorte alle sue bandiere, perder non potea solo quattro, di 44 battaglie campali co-
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mandate in persona, non conquistare regni in una sola giornata, non assidersi signore in tutte le capitali del continente europeo.31
Se - come sostiene il generale Chambray sullo Spectateur Militaire - la vittoria non fosse figlia del principio, ma solo del numero e qualità delle truppe, Napoleone sarebbe stato solo fortunato ma non grande. Di qui la tesi - affine a quella del Jomini - dell'esistenza di principi innati magistralmente applicati anche in passato dai grandi condottieri: forse alla più parte dé leggitori sarà per sembrare inutile la quistione sulla possibilità dell'esistere una scienza della guerra, ed inutile non solo, ma ridicola nel medesimo tempo: forse a noi diriger si potrebbero le parole del Carion-Nisas, quando esclama: «Come! la strategia, la scienza dello stratego, del generale, quella per cui furono grandi Alessandro, Annibale, gli Scipioni, Gustavo Adolfo, Turenna, Federico, deve ancor nascere? Non pare sentire un fisico vantarsi di volere inventare il Sole e la Luna? Pure lo stato in che trovasi effettivamente la scienza à giorni nostri, è tale da autorizzare in taluni l'asserto, che manchiamo assolutamente di ciò che dirsi vorrla un corso di scienza della guerra, e da destare in altri anche il dubbio se uno esister ve ne possa. E che sia così, oseremo dire all'illustre autore del Saggio sull'istoria generale della arte militare, che la esistenza del Sole e della Luna non porta di necessità quella di una scienza scritta che ne particolarizzi le leggi: il calorico ha sempre invaso tutti i corpi della natura, ma non sempre ha esistito un libro nel quale se ne sviluppano le teoriche. Una idea archetipa della strategia potea ben essere nell'animo di grandi capitani, senza che della strategìa fossero già state inventate, ordinate ed esposte in un codice. La strateg1a, al dir di un dotto nostro concittadino [il Blanch - N.d.a.] è stata fino ad una certa epoca istintiva né generali di cui la storia trasmise le gesta gloriose: ma il primo a sottoporre in certo modo l'istinto, la inspirazione al calcolo, fu Federico II; e quegli che poi interamente mostrò la esistenza di relazioni scientifiche reciprocamente concatenate negli andamenti delle guerresche operazioni, fu Bonaparte. Dà giorni di Federico à nostri, molte menti, e dotte, si volsero alla investigazione dé principii che erano stati guida nelle grandi combinazioni della guerra. Vi fu chi scrisse della scienza mirando alla storia, fuvvi chi scrisse la storia mirando alla scienza; ma, abbiamo noi un corso sintetico di scienza sul quale convengono tutti o la maggior parte dé dotti militari in Europa? Potrem noi chiamarci contenti di una facoltà sulla
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ivi, pp. IV-V.
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di 11111,111111 dl'lln qunlc 11011 ancora si è convenuto; di una scienza d1 1111 1 1111111 ,pnli d ementi sono ancor controversi, sono, come per p1 11111 ,1, , rn ilu" rn con 4udli della fortificazione, or con quelli delIn 1111·11 111111·11'/ Cerio che no. Quando esser si voglia di buo na fede, 11111v1.•1111,,1 che la strategia teorica è una cognizione ancor bambi1111, 1· d1l' noi siamo ben lontani dal possederne un corso completo e \111 ld11-lac ·111c; ma, per lo contrario, il sentire da un uomo venerevole p1oclamare la guerra come insuscettiva di presentare un complesso di teorico insegnamento, il trovar parere che i soli principi gcncraJi ed incontrastabili che ricavar se ne possono non sono da tanto per servire di guida à generali, perché verità triviali e soggette ad una infinita mutabilità nelle loro applicazioni [Maurizio di Sassonia - N.d.a.] è cosa che all'ombra della giusta rinomanza dello scrittore tornar potrebbe anche di soverchio dannosa, ove non si esponesse alla mente dé mal cauti un ragionamento diretto ad interamente farla cadere.32
Qui lo Sp. non è affatto originale, perché riprende pressoché alla lettera la polemica di Jomini nel Précis del 1837 (vds capitolo II) contro Maurizio di Sassonia, e la s ua insistenza sui principi dell'arte. Jomini sperava, con la sua opera, di essere finalmente giunto alla compilazione di un trattato di scienza o arte de11a guerra, colmando un vuoto storico: evidentemente per lo Sp. nemmeno Jomini ha colmato questo vuoto e ha detto una parola definitiva, visto che egli continua a lamentare la mancanza di «un corso sintetico di scienza sul quale convergono tutti o la maggior parte dé dotti d'Europa». Non sappiamo se Jomini sarebbe stato o meno contento di leggere (o se non abbia letto) frasi come queste, che rivendicano chiaramente all'Arciduca Carlo - e non allo stesso Jomini - il primato di fondatore della strategia: venne finalmente l'Arciduca Carlo di Austria, e come il più grande dei capitani moderni, dopo Bonaparte [non è vero - N.d.a.] ci si assise a giustissima ragione, non solo giudice competente sul valore dé principi che generalmente cominciavano a pullulare, ma precettore eziandio della scienza, che con logica particolare sviluppò nel libro intitolato Principii di strategia, e che applicò alle stesse sue gloriose campagne (sic) [... ] Giudice e precettore l'arciduca Carlo, la scienza teoretica della guerra lungi dall'essere più posta in dubbio, ebbe un luminoso corpo di esistenza: i principi di essa, che i
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ivi, pp. VI-X.
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militari adottarono per Lloyd, Btilow e Jomini, ebbero una scelta e ' una sanzione .... 33 A detta dello dello stesso Sp., il suo libro nonostante «il talento fiacco e i mezzi scarsissimi» rappresenta pur sempre un tentativo di rimediare ai difetti fino a quel momento messi in mostra dal1a letteratura militare: fra le opere teoretiche moderne, ve ne ha talune che formano sistemi foggiati con modi particolarissimi, e non somiglianti nell'insieme a quel tipo che dietro l'opera dell'arciduca Carlo la mente dé militari ha continuamente dinnanzi: alcune non sono che apologie; altre, critiche trite per lo soverchio, poco profittevoli al grande della scienza, e non ancora si è volta una dotta mano a raccogliere tanti sparsi elementi, onde sceglierli, ordinarli e dar loro forma unica di didascalico complesso.34 Siamo nel 1837: Sp. non ha ancora visto il Précis di Jomini, che egli dichiara di aver ricevuto solo nel 1838? (stando a quello che dice lo stesso Sponzilli, non può verificarsi il contrario). E le opere precedenti di Jomini, hanno anch'esse i difetti lamentati dallo Sp.? oppure egli si riferisce - e qui avrebbe più ragione - solo alle opere pubblicate da autori italiani? Senza contare che nel 1837 è già uscito anche il Della Guerra di Clausewitz, e che i Principi di strategia applicati alla storia della campagna del 1796 in Germania sono pubblicati solo nel 1814, quindi non possono sancire il preteso primato dell'Arciduca Carlo, che lo Sp. è peraltro l'unico a sostenere ... Anche se non privo di elementi positivi, questo approccio dello Sp. è la parte meno apprezzabile dell'opera. Parlando nel capitolo I delle radici storiche del vocabolo strategia, abbiamo già esaminato ciò che egli afferr.1a in merito; basti qui ricordare che contesta la frequente affermazione di taluni autori (tra i quali il Carrion-Nisas) che i movimenti della strategia si fanno fuori della vista del nemico, mentre per quelli della tattica avviene il contrario: a suo giudizio invece i movimenti della strategia possono avvenire anche in vista del nemico, e quelli della tattica fuori vista del nemico. Altra affermazione contestata dallo Sp. benché sia dovuta a Jomini, è che la tattica riguarda i movimenti o combattimenti che avvengono nelle 24 ore.
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ivi, pp. XXII-XXID. ivi, pp. XXIV-XXV.
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Nonostante questi e altri richiami al buon senso, lo Sp. non risolve la contraddizione fondamentale che si trova nei principali autori, a cominciare da Jomini e dall'Arciduca Carlo: la tendenza a concepire la strategia come applicazione di principi teorici generali e quindi come sede privilegiata dove si manifesta il genio, e al tempo stesso a farne solo una scienza (intesa come studio, pianificazione, cognizione ecc.) che riguarda l'organizzazione, mentre la condotta spetterebbe alla tattica, l'unica ad essere arte. Lungi dal risolvere la contradduzione, Io Sp. vi affonda ancor più, anche se con grande intelligenza. Riconosce, infatti, che la strategia (da stratos, esercito, e ago condurre) serve in ultima analisi a condurre gli eserciti, e non è solo studio ma sua sapiente applicazione, quindi comando e azione. Ricorda che Napoleone chiamava grammatica la tattica, al di sopra della quale vi è l'altra parte della guerra, cioè la strategia dove si manifesta il genio. Afferma (con l'Arciduca Carlo) che la tattica fa vincere le battaglie che la strategia prepara. Si chiede se strategia e tattica sono scienza o arte. Parla - come si è visto prima - di movi1m:nli strategici in vista o fuori vista del nemico (movimenti che qualcuno dovrà pur condurre con azione che non sarà quindi tattica). Ma una volta esaurite queste appropriate riflessioni, arriva sempre a dar ragione all'arciduca Carlo, concludendo che «dubbio non v'ha che il concepimento sia la parte predominante, anzi totale (sic) della strategia». Eppure, nella seconda lezione esalta il genio di Napoleone non solo nell'individuazione, ma nel perseguimento della conquista dei punti strategici ... Naturalmente ritiene anch'egli «massima fondamentale delle cose guerresche», come Jomfoi e lo stesso Arciduca, «l'operare colla più grande massa delle truppe uno sforzo combinato sul punto decisivo» (cosa che - per inciso - rientra anzitutto nel dominio della strategia e che dunque non è solo un problema di organizzazione ma anche di condotta). Più originali, e assai più acute di quelle che sullo stesso argomento hanno scritto Racchia, Pougni ecc., sono le sue considerazioni su due cardini della guerra napoleonica: l'allontanamento della propria base di operazioni per colpire con più efficacia le linee di comunicazione dell'avversario, e la condotta di quel tipo di guerra che Racchia e Pougni chiamano «metodica». Non solo questi ultimi, ma l'Arciduca Carlo e i critici militari del tempo giudicavano erroneo, contrario a tutte le regole o addirittura folle un allontanamento dalla base di operazioni sul tipo di quello compiuto da Napoleone nella campagna di Russia, che si era allontanato di trecento leghe dalla propria base di operazioni sulla Vistola, per raggiungere e occupare rapidamente Mosca. Lo Sp. è di diverso avviso: pur ammetten-
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do che si tratta pur sempre di una violazione delle regole che solo Napoleone si poteva permettere (quindi non - alla maniera clausewitziana dell'applicazione di una regola somma, che solo il genio era in grado di intravedere), egli osserva che una critica superficiale e prevenuta grida imprudenza, stoltezza, manìa questo grande allontanamento; ma ove si consideri che i due terzi di cosiffatta straordinaria profondità, erano in paesi non dichiarati nemici, e cento leghe soltanto procedevano sul terreno dell'avversario; ove si rifletta che se Mosca non era incendiata, l'oste francese riunivasi e riordinavasi con gl'incalcolabili mezzi di quella gran capitale. Si dovrà concludere che l'impresa, sia qualunque la violazione delle regole, fu compiuta militarmente, perché l'esercito aveva ottenuto un grande ma decisivo oggetto di operazioni; fu compiuta politicamente, perché nella presa di Mosca, l'Imperatore Alessandro seguendo i dettami ordinari (sic) era astretto alla pace; or se i Russi preferirono quella scena ferale a un trattato di pace, ciò non fa torto all'ardito concepimento, ed alla portentosa esecuzione del disegno di Bonaparte. 35 La linearità del ragionamento è assai discutibile: secondo lo Sp. Napoleone aveva pensato bene, la colpa è dei Russi che non hanno seguito le consuete regole; ciononostante l'azione del grande condottiero, che pure in questo caso non ha previsto le contromosse del nemico, va giudicata positivamente. Sul piano generale questa interpretazione dello Sp. richiama indirettamente l'attenzione su un fatto non dubbio, che cioè la strategia di Napoleone nonostante tutto rimaneva legata alle tradizionali regole - scritte e non scritte - dei rapporti interstatuali pre-rivoluzionari, a codici non scritti i quali prevedevano ad esempio che uno Stato, una volta perduta la capitale, dovesse chiedere la pace. Ciononostante lo Sp., anziché condannare senza remissione - come il Racchia e il Pougni siffatte linee d'azione strategiche, le indica solamente come un lusso che non tutti si possono permettere: lin grande allontanamento dalla base, che dir vorremmo una scappata strategica [... ] checché ne dica la critica prevenuta, o insufficiente, egli è l'opera dell'ingegno cui sorride la sorte. Ogni generale quindi, che ha tanta modestia da non reputarsi un Bonaparte, farà bene di non mettere per nulla !I cuore in siffatti procedimenti ....36
35
G. Sponzilli, Op. cit., pp. 78-79.
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ivi, p. 79.
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In merito, lo Sp. ricorda il principio dello stesso Bonaparte di non abbandonare mai la linea di operazioni o comunque di essere sempre in grado di difenderla, e definisce «precaria, pericolosa, scoraggiante» la posizione di un esercito in un Paese nemico, che perde il controllo delle comunicazioni con la frontiera del proprio Stato. Le circostanze possono condurre a questo inconveniente: «ma che un condottiero abile vi si vada a porre di determinata volontà, e come principio generale di scienza, è quello che noi non arriviamo a concepire». 37 Si potrebbe obiettare che questo nessuno lo ha mai detto: molti invece lo hanno trovato fuori delle regole, e rispetto a quest' ultimi lo Sp. si dimostra solo un pò più elastico, ammettendo che le regole possono anche avere delle eccezioni. Questa linea di pensiero vale anche a proposito della distinzione che fa lo Sp. tra guerra d'invasione e guerra metodica, ambedue viste quali fonne di guerra offensiva (per tale tipo di guerra intendendo quella di un esercito che parte dalla propria base di operazioni per conquistare dei punti strategici che consentano di raggiungere lo scopo della campagna). Tn ambedue i casi il generale di eserciti, simile al giocatore di professione, saper dee profittare del suo quarto d'ora, e questa sola parola a chi bene la intende spiega a meraviglia iJ perché tutti i generali famosi, e particolarmente Bonaparte, ora si sono visti metodici fino allo scrupolo, ora azzardosi fino alla temerità. In guerra non solo bisogna saper fare, ma farlo io un tale istante favorevole, passato il quale non .più devesi agire così; per conoscere quel tale istante favorevole vuol vi il Genio; l'uomo mediocre non vede che la regola sacra, mentre il grande procede per continue eccezioni.38
La guerra d'invasione nel concetto dello Sp. è quella chiamata da altri scrittori coevi guerra nazionale, guerra di popolo, ecc. il cui prototipo è l'insurrezione del popolo Spagnolo contro le truppe napoleoniche, dove «la massa armata delle aggredite popolazioni prende una parte più o meno efficace». In questo caso, secondo lo Sp. per l'esercito invasore è necessario un condottiero di genio, capace al bisogno di andar contro alle regole; bisogna occupare l'intero paese, contravvenendo in tal modo al fondamentale principio della concentrazione delle forze; è necessario compiere movimenti che non possono essere «assoluti e precisi», e devono essere continuamente mutati in relazione a una situazione estrema-
37 38
ivi, p. 233. ivi, p. 88.
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mente variabile; infine, per forza di cose i generali luogotenenti devono operare fuori dalla voce e dal diretto contro11o del comandante in capo, (prima causa, questa, di disguidi, gelosie, errori e sconfitte). Ne consegue che in guerre come quella di Spagna non solo allo spesso vi è poco da imparare riguardo a metodo, ma le operazioni talvolta procedono tanto a controsenso con i fondamentali dettati della guerra teoretica, che affatto creder si potrebbe essere le medesime figlie di quella vastissima tra le umane menti, se l'Istoria imparziale fatte non avesse manifeste le cause irremovibili che comandano procedimenti di tale natura, e portano di conseguenza a infelici risultamenti [... ] Nelle guerre d'invasione come quella di Spagna, ove la massa della nazione aggredita vi prende una parte attivissima, non si conservano punti e province conquistate, non si riscuotono imposte, non si rinnovano depositi del bisognevole, non si aprono e mantengono comunicazioni se non occupando tutto il paese, vale a dire smembrandosi, vale a dire violando il preposto assioma fquello della concentrazione delle forze N.d.a.J.39
Il significato che lo Sp. attribuisce a guerra metodica è ben diverso da quello del Pougni, che ne fa una questione di rispetto delle regole e della geometria, di distanza dalla base d'operazione, di protezione delle retrovie con un'apposita aliquota dell'esercito ecc., e via elencando. Per lo Sp. la guerra metodica è semplicemente una guerra tra eserciti regolari, che risponde a un piano di operazioni e prevede basi, linee d'operazioni, punti strategici decisivi ecc .. Essa deve essere considerata come modello ideaJe, perché è «la sola fatta per mettere in gioco tutti i principi della scienza, mercè i quali aver protrassi speme non lieve di prosperi successi, indipendentemente dal favor di fortuna, dal talento del capo e · dal valore delle masse».40 Secondo Bonaparte, «ogni guerra ben condotta è guerra metodica». E qui lo Sp. sembra riferirsi aJ Pougni e a quelli della sua scuola, quando ricorda (in contrasto con la sua conclamata ammirazione per le teorie de11 'Arciduca Carlo) che ad onta delle tante regole nelle guerre Napoleoniche, pur v'ha chi pensa non aver Bonaparte conosciuta la così detta guerra metodica, e pretende che quel Massimo avrebbe dovuto subordinare il ge-
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ivi, p. 145. ivi, p. 146.
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nio alla scuola, e far la guerra non altrimenti che col compasso alla mano ....41
Ora che Napoleone comincia ad essere meglio conosciuto attraverso il carteggio con i suoi luogotenenti - prosegue lo Sp. - si può constatare che egli era «più metodico di quello che pensano gli uomini dalla corta vista». Segue una netta presa di distanza (non voluta, ma inconscia?) dai concetti dell'Arciduca Carlo: è naturaJe il credere che né con una né con cento aperture di compa'>so si conquistano Imperi, si fondano e si rovesciano monarchie, e che la regola non basta a formare un Bonaparte! Chi più di Mack conosceva la guerra metodica? eppure Mack non lasciò parlare che dé suoi disastri; Scerer anche la possedeva, ed ebbe il vantaggio di perdere metodicamente tutta l'Italia conquistata da Napoleone contro ogni regola dell'allora vigente scuola.
Quando parla di Napoleone, lo Sp. è tra i non molti del s uo tempo a cogliere senza alcuna pruderie l'esatta portata del suo genio: non è cosa da poco, visto che, ad esempio, vi era chi riteneva la magistrale campagna d ' Italia un esempio in negativo perché condotta contro tutte le regole, o chi - come lo stesso .Tomini - riteneva poco significative le campagne della Rivoluzione fino al 1801-1802. L'unica cosa da osservare, è che lo Sp. dimentica stranamente che il suo idolo, l'Arciduca Carlo, è il massimo rappresentante del concetto geometrico e metodico della guerra, e che - come sottolineano Napoleone e Clausewitz - il genio è tale non in tanto in quanto si permette di violare con successo le regole, ma perché intuisce regole normalmente non accessibili ai comuni mortali. Non possiamo seguire lo Sp. nelle sue interessanti considerazioni su basi, linee d'operazione, manovre ecc., dove compare una protluvie di exempla historica all'uso jominiano. Egli condanna la difesa passiva che subisce senza reagire l'iniziativa dell'attaccante, e ricordando il detto di Bonaparte che la guerra difensiva non esclude l'attacco, esalta la difesa attiva basata sulla guerra di movimento e spesso attuata dallo stesso Bonaparte, la quale «è figlia di un pensiero generoso che sdegna offrire vilmente le spalle ai colpi di un prepotente nemico, ed anche in faccia all'inevitabile momento della caduta, non brama rimaner prostrato che nella dignitosa attitudine di aggressione».42 Ciò che egli intende è, insomma, la difesa manovrata o meglio 1a difensiva - controffensiva, nella quale si 41 42
ivi, p. 30. ivi, p. 234.
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oltrepassano al bisogno i punti strategici da difendere per andare incontro al nemico, e che se ben condotta «può non solamente arrestare un esercito più forte, ma eziandio ridurlo a una ritirata». 43 Sp. polemizza anche con «un dotto, moderno scrittore austriaco»44 che parlando della manovra fatta dal generale austriaco Bianchi nella battaglia di Tolentino (1815) conclusasi con la sconfitta dell'esercito napoletano al comando di Murat, la giudica imprudente, aggiungendo però che «fatta contro Murat e le truppe napoletane fu procedere saggio e prova di quel colpo d'occhio, che distingue il vero generale». Punto ne] suo orgoglio di ufficiale napoletano, lo Sp. ribatte che così come le cento sconfitte dei capitani austriaci contro Napoleone non possono dare il minimo diritto a parole di disprezzo verso Ja stessa nazione austriaca vinta, la decisione del generale Bianchi fu azzardata forse contando sulla scarsa capacità strategica di Murato sulle discordie tra i suoi generali, «ma non mai lo potette essere per mala opinione del valore de1lo stesso capitano e di quelle medesime truppe che combattuto aveano, e con onore, le più brillanti campagne con Bonaparte, e che d'altronde sulle rive del Panaro, trenta giorni prima aveano, quantunque in picco1issimo numero, già dato con successo allo stesso generale Bianchi ed all'intero suo corpo, non lieve motivo ad essere stimate degne emulatrici dell'austriaca valentia». Per quanto devoto alla restaurata monarchia borbonica (che aveva mandato Murat alla fucilazione e perseguitava sia pur blandamente gli ufficiali murattini), lo Sp. assume come patrimonio dell'esercito napoletano del momento - e ne va orgoglioso - le glorie napoleoniche e persino quelle - meno brillanti - murattiane. Atteggiamento comune alla gran parte della ufficialità dei vari Stati italiani del momento, nel quale, più che un segno di trasformismo tipico dei pur numerosi «voltagabbana» della Restaurazione, noi intravediamo la rinascita di uno spirito militare nazionale, basato su un patrimonio comune di tradizioni e memorie - recenti e antiche - che ne è indispensabile premessa, e che trova il primo alimento proprio nelle guerre dal 1789 al 1815. A proposito della logistica, infine, Jo Sp. - unico tra g1i scrittori italiani del momento - riprende e anzi amplifica le considerazioni di Jomini sull'importanza dei magazzini. Ciononostante, il suo concetto di logistica rimane - come avviene per Jomini - ancorato a quello di arte di ben ordinare le marce di un esercito. Queste ultime sono dette da Jomini
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ivi, p. 235. ivi, p. 270.
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marce di via [cioè: marce logistiche, di trasferimento - N.d.a.], con cervellotica distinzione - ripresa anche dallo Sp. - dalle marce-manovra, che (come ad esempio quella di Napoleone attraverso il S. Bernardo) avvengono in relazione alle grandi combinazioni strategiche, e perciò non sono tanto operazioni logistiche ma «manovre ed operazioni decisive, anche senza le battaglie da cui furono seguite». Con un ragionamento analogo a quello condotto dal Blanch (peraltro non citato), ma con maggiore acume, immediatezza e concretezza di quest'ultimo, di Jomini e dello stesso C1ausewitz, lo Sp. è il primo a prendere atto dell'influsso della logistica (nel senso attuale del termine) sulla strategia e suUa tattica, e a1 tempo stesso a combattere la diffusa tendenza - che si protrae anche nena seconda metà del secolo XIX - a identificare i rifornimenti di un esercito soprattutto con il vettovagliamento, con la sussistenza. Alla radice di tutto vi è la scoperta della polvere da sparo: infatti «il cambiamento deUe armi offensive e difensive avvenuto in conseguenza della invenzione della polvere da sparo, rovesciò ogni sistema di tattica, e giunse a far che pure la strategia in qualche modo risentisse».45 [uno dei pochi giudizi equilibrati del momento - N.d.a.]. Gli eserciti antichi, con armi e macchine semplici e non abbisognevoli di essere sostituite di frequente, con soldati che avevano al seguito i viveri necessari per 15-20 giorni (che comunque si potevano trovare dappertutto) e con l'abitudine di fortificare rapidamente il proprio campo, erano delle vere e proprie fortezze ambulanti e autosufficienti per lungo tempo: non così i moderni: le loro gravi artiglierie, i projetti di ogni genere, le polveri e le macchine di ogni sorta; la maniera di vestire e di armarsi soggetta a continui ricambi; quella di cibarsi con generi manifatturati e cotti, non sotto la cenere, ma in forni costrutti con regola; la impossibilità di costruire prontamente a guarentigia di tanto aggregato di mezzi, ripari alla prova dell'impetuoso cannone, e delle gravi bombe, tutto loro pone nella necessità di disporre di grandi officine, di immensi depositi di ogni maniera di necessità, e disporli sovra svariati punti forti delle frontiere, perché da quelli emanassero continuamente i carriaggi e le salmerie di viveri e munizioni, che seguono gli eserciti e loro ministrando vanno il bisognevole per lo andamento delle operazioni, ed il consumo delle battaglie.46
L'aumentato peso logistico degli eserciti - che lo Sp. ha il merito di
45 46
ivi, p. 27 1. ivi, p. 272.
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ben delineare per la prima volta - ha imposto la costituzione di magazzini in località opportunamente scelte e se possibile fortificate, che costituiscono l'intelaiatura della base di operazioni. Ma - cosa ancor più importante - i magazzini non riguardano solo i viveri: comunemente per magazzini si vuole intendere la sussistenza di un esercito, e la si volge tutta sulla maniern di farlo vivere in un paese nemico, ed in mezro al corso delle operazioni. La questione sotto di un tale aspetto, è cosa assolutamente amministrativa, e forse escludere potrebbe il sistema dé grandi depositi; giacchè, ove non si trattasse che di trovar grano e foraggi, far pane e dar la carne e<l il vino alle truppe, il metodo tenuto nelle guerre della rivoluzione, quello cioè di sussistere presso gli abitanti delle terre nemiche, o procurarsi il bisognevole col provento delle requisizioni, saria il migliore, anche in paesi di una mediocre fertilità. Ma, prescindendo dall' essere un tale sistema impossibile nelle contrade non coltivate non ubertose; quando a viveri si aggiungerà il supplimento del vestiario, dell' armamento, dé projetti e delle polveri; il tesoro dell' esercito; i depositi di reclute, le rimonte, gli ospedali, le officine, i parchi di bocche a fuoco, i ponti e le altre macchine, si vedrà che tutto ciò non può essere reperibile né a dattabile indifferentemente da per tutto sul paese ove si portano le aggressioni, e che farà d' uopo formare grandi magazzini di prim'ordine, e da questi fare man mano avanzare il bisognevole al seguito dé diversi corpi, nelle loro mosse.
Officine e depositi sono diventati «le arche delle militari dovizie di una nazione, [... ] i punti singolari sopra di cui or sono costretti ad appoggiare i piani di operazioni, nelle loro guerre, i moderni». Alla loro sicurezza vanno rivolte le maggiori cure da parte del generale in capo, sia nell'avanzare che nel ritirarsi. Nel campo strategico da un bene calcolato ordinamento né magazzini, dalla facilità e frequenza delle linee di approvisionamento; dalle risorse che può fornire il paese sul quale si porta la guerra, dipende, la maggiore o minore celerità nelle opernzioni, lo allontanarsi in più o in meno dalla propria ba'-e, ed il permettersi talvolta una scappata con sufficienti numeri di probabilità. Bonaparte, nelle sue stupende opernzioni, fu secondato da uomini che in genere di amministrazione, sapeano far na"cere le risorse dal sa<;so. Non bastava a quel grande, che le truppe volassero e giungessero allo scopo; gli facea d' uopo che ivi sussistessero, e ciò si otteneva, forse con mezzi un pò troppo violenti, ma si otteneva!47
Segue una giustificazione dell' utilità del sistema di vivere sul Paese, 47
ivi, p. 277.
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così severamente condannato dal Racchia e dal Pougni: è «intempestivo e insultante», afferma lo Sp., di una parte mostrare di tutelare i diritti dell'uomo «gridando contro lo spoglio di alquanti villaggi», e dall'altra agire in modo da violare la vita, la salute, la proprietà degli individui e delle nazioni. Lo spoglio delle campagne è inumano, ma è uno dei flagelli che la guerra moderna ha aguzzati, ed un condottiero il quale lo trovasse mezzo inevitabile per la riescila di una operazione, mancherebbe al suo dovere ove, per un senso di pietà fuori luogo, non se ne avvalesse.48
Altro merito dello Sp. è il ridimensionamento della castramentazione o arte di accamparsi, che sotto il probabile influsso della antichità classica è ritenuta da parecchi scrittori italiani coevi parte dell' arte della guerra come la strategia e la tattica. Lo Sp. non la considera tale, facendone una questione di dettaglio rientrante nel campo della tattica, che riguarda l'organizzazione e sicurezza sia degli accampamenti che degli accantonamenti, scelti e disposti in funzione del dispositivo di marcia da adottare quando si riprende il movimento. Concludendo, quanto abbiamo dello dello Sp. ci sembra sufficiente per giudicare positivamente le linee portanti del suo pensiero, a parte il contraddittorio e incoerente concetto di strategia. La sua opera nella sostanza contrasta come poche con lo schematismo dell' Arciduca Carlo, del quale pur si professa seguace; ed è senz'altro tale da ritenere ingiustificata l'esclusione da parte del Brancaccio del suo nome dal novero degli autori ritenuti meritevoli di menzione. Egli ben merita le lodi dello Sticca, che lo definisce «colonna dell'Antologia Militare» e ne cita in termini lusinghieri le opere,49 mentre il d' Ayala - che con il Grassi è stato uno dei bersagli favoriti delle sue polemiche linguistiche - nella sua bibliografia ne cita le Lezioni di strategia e la traduzione dei Principii ecc. dell'Arciduca Carlo senza commenti. Nella recensione di quest'ultimo librio dello Sp. 50 il Blanch coglie bene i meriti complessivi dello Sp., ma trascura di mettere in evidenza con sufficiente chiarezza le contraddizioni in cui egli cade a proposito del concetto di strategia, che sulle orme dell'Arciduca Carlo vorrebbe presentare come scienza basata su spazio e tempo, quando invece - come scrive lo stesso Blanch - spazio e tempo sono quantità eminentemen-
48
Ibidem. F. Sticca, Op. cit., p. 329. 50 «Antologia Militare» n. 6/1838, pp. 123-152. 49
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te astratte, quindi guerra e strategia sono soggette a anomalie e forze morali non quantificabili. Se è così, come si può ottenere una scienza sommando il tutto? Né vale constatare - come fa lo Sp. e come ricorda ì1 Blanch - che gli elementi della guerra «non sono sì fattamente oscuri, scarsi, ed incompatibili tra di loro, che si speri di ravvicinarli, renderli pieghevoli a molteplici, e chiare applicazioni [... ] sicché costituissero una scienza di tale applicazione, che si possa considerar emula nell'esattezza alle matematiche verità». Qui i casi sono solo due, non c'è una via di mezzo: non esistono quasi-scienze, e se la strategia merita il nome di scienza, allora per la stessa definizione di scienza ammette dei principi, delle regole fisse e/o matematicamente determinate e dà luogo a un sistema; oppure non lo è - o non lo è sempre e totalmente - e allora è arte o almeno anche arte. Ciononostante il Blanch, come lo Sp., ammette che non basta conoscere i principi e la scienza strategica per vincere, e come si è visto scrive che il generale deve essere, al tempo stesso, scienziato e artista. L'unica critica che il Blam;h muove allo Sp. è di aver tralasciato «la politica della guerra, la logistica, la strategia applicata alla guerra di montagna, l'analisi dell'antico sistema di guerra di posizione, con quello attuale di marce ... ». Troppo poco: e si potrebbe anche replicare che in un trattato ad uso delle scuole come quello dello Sp., semplificazioni e omissioni sono - oltreché inevitabili - necessarie. Ma come avrebbe potuto il Blanch mettere bene in evidenza le contraddizioni dello Sp. a proposito di strategia e guerra come scienza e arte, quando non ha saputo o voluto eliminare bene le sue sullo stesso argomento (vds capitolo Vll)? Noi rimproveriamo piuttosto allo Sp. una piaggeria nei riguardi dell'Arciduca Carlo, che non è per nulla giustificata dall' indirizzo generale della sua opera, tutt'altro che dogmatico. Forse sì è trattato di puro, semplice e consapevole opportunismo, che non ci sentiamo di condannare troppo: come poteva un capitano napoletano giustamente ambizioso, contraddire apertamente un principe della Casa d'Austria, protettrice del Regno di Napoli? Il libro dello Sp. riscuote una certa attenzione anche all'estero (cosa assai rara). Lo dimostra la Lettera apologetico-critica di Francesco Sponzilli capitan comandante del genio napoletano al Signor A.G. autore di un articolo pubblicato sullo Spettatore Militare di Parigi, Voi. 32, p. 206 (Napoli, Real Tip. Mil. 1845), nella quale lo Sp. si sforza di rintuzzare talune critiche dell'autore dell'articolo al suo Sunto di alquante lezioni di strategia. In questa occasione lo Sp. si preoccupa soprattutto di mettere in evidenza che sia Jomini che l'Arciduca Carlo - i suoi due idola - hanno
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manifestato apprezzamento per il suo lavoro, del quale tiene a far rilevare l'ortodossia rispetto ai sacri testi; ma in tal modo - almeno agli occhi dei posteri - volendo difendersi, non fa che attenuare gli aspetti più interessanti e originali della sua opera, e mettere in mostra una pronunciata vanità nascosta dietro apparenze di modestia. L'approvazione di queste due somme Autorità è, per lui, il più probante e anzi l'unico attestato di validità: «a me basterà il dire che Ja mia Operuccia basata sopra elementi principali già da me sommessi al pubblico né miei Commenti alla strategia dell'Arciduca Carlo, e che riscossero in Europa voti troppo a me lusinghevoli dé quali le prime voci di cortesia partirono dal vostro Spettator Militare [lo Spectateur Militarie di Parigi, molto seguito in Italia nel secolo XIX, era il più autorevole periodico militare francese - N.d.a.], quella mia Operuccia fu giudicata dalla gentilezza del generale Jornini un' ouvrage interessant; quel mio povero Libriccino ebbesi l'alto onore di esser letto da S.A.1. e R. I' Arciduca Carlo d'Austria, che tanto in Napoli quanto da Vienna ebbe la Clemenza prodigarmi quelle onorande parole di conforto di cui voi, Signore, potrete vedere un bel saggio sul Volume 17° dell'Antologia Militare aJla pagina 180, e che qui farei troppo gran peccato di orgoglio se traserivessi». La materia del contendere non è gran che interessante e denota ia comune fede jominiana di ambed~e i contendenti, mentre lo Sp. in taluni casi (come a proposito della suddivisione in tre tipi delle linee di operazione) tiene a far rilevare che Jomini avrebbe preso da lui determinati concetti, mentre, in altri casi, egli è della stessa idea di qualche scrittore straniero, che però non ha letto. Il suo poco benevolo critico francese non condivide la poco originale affermazione che la guerra (e la strategia) sono scienza mentre la tattica sarebbe arte, e lo Sp. gli risponde così: «voi[ ...] meco discovenir non vorrete quando dirò che laddove il tronco ha nome di scienza, ben potranno i rami aver la denominazione di arte; ma quando il tronco avrà il nome di arte, non mai i rami scienza potranno essere denominati [... ]. Voi identificate due cose essenzialmente diverse fra loro: il principio e l'applicazione, la scienza teoretica della guerra, ed il complesso di tutte le qualità necessarie ad un generale in capo[ ...]. Dunque perché la scienza teoretica della guerra non basta sola a formare i grandi generali, rinnegherem noi la scienza della guerra, diremo che non è?» Ma chi ha detto che «i rami» debbono essere scienza? Non si potrebbe essere più lontani da Clausewitz: lo stesso si può dire a proposito della definizione di strategia. Il suo avversario francese critica la definizione dello Sp. ( «una cognizione del paese ove si fa la guerra, tutta parti-
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colare a un generale in capo») e la giudica a ragione assai vaga, proponendo di aggiungervi, alla manfora jominiana, «al fine di dirigere le sue forze al momento più opportuno sul punto più importante». Lo Sp. gli fa notare che ha dimenticato le ultime quattro parole della definizione del Sunto, «per dirigere un eserc ito», parole che a suo dire danno un senso compiuto al tutto. Il che non è vero: dirigere dove? dirigere come? Dirigere significa anche, genericamente, comandare, guidare ... Lo Sp. si conferma ancora una volta defensor fidei, mescolando senza distinguere le gesta di Napoleone con quelle dell'Arciduca Carlo: «io vi vedo dir molto circa il caos e le tenebre di una scienza, nella quale ad ogni passo io trovo la chiarezza, l'ordine e la facilità l--- 1- Voi confondete i difficili incerti svariatissimi casi d 'applicazione materiale, con i semplici chiari e pochi principi della scienza [ ma allora a che servono i principi? sono o no una guida? - N.d.a. I. Voi dite che la langue de la stratégie est à Jaire, ed io ho l'onor di rispondervi che è già fatta; che non con altra lingua per il massimo capitano [Napoleone - N.d.a.], furono scritte e rappresentate le celeberrime, immortali tragedie del 1800, 1805, 1806, 1809, 1813; che non con altra lingua espresse i concepimenti suoi l'austriaco giovanetto [l' Arciduca Carlo - N.d-a.] che a Stockach, a Schliengen e Wurtzburgo era nel tempo istesso il Fabio e il Camillo per cui fu salva l' Alemagna [come se non fosse stato sconfitto! - N.d.a.]; che quella lingua io la trovai nelle opere dell'Arciduca Carlo, di Jomini, di Wagner ___ » _ Queste affermazioni de llo Sp., che potrebbero essere fatte da Jomini stesso, sono in certo senso contraddette a distanza di qualche riga con altre, dalle quali si potrebbe legittimamente dedurre che estrarre dalla storia delle campagne passate corretti principì è cosa niente affatto facile, e che Clausewitz era un «minore intelletto». Rivolto al suo critico, infatti, lo Sp. esclama: «non mai io scorsi quell'oscurità e quelle contraddizioni e quegl'imbrogli e quel caos [notati anche da Clausewitz - N.d.a.J di che voi fate un cenno scoraggiante; ma bensì le ritrovai talora nella mente dé giovani che sdegnarono acclararne la metafis ica con il lento ma sicuro metodo sintetico, e cominciar vollero lo studio loro col far sulle campagne celebrate dalla storia un'analisi della quale i soli ingegni elevati [come lui? - N.d.a.] reggono alla difficoltà, e che non altro suol fruttare che tenebre alla debolezza dei minori intelletti». Pagine non esaltanti di un autore, che senza volerlo fa di tulto per apparire peggiore - e non migliore - di quello che è. Del resto, lo Sp. non è il solo a dimostrare gran reverenza per la letteratura militare d 'oltralpe: in una nota della prima pagina dell'opuscolo ci tiene a dir1.: che a vrebbe desiderato pubblicare la sua replica sulla Antologia Militan· di Napoli, ma che il direttore di quest' ultima (in tal modo sancendo una d1
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sparità di rango) «ha creduto doversene iscusare, per un delicato riguardo di cortesia (sic) verso lo Spettatore Militare di Parigi».
TI «Sunto della tattica delle tre Armi - Artiglieria, Cavalleria, Fanteria» di Girolamo Ulloa (1838) 51 Ufficiale di artiglieria dell'esercito delle due Sicilie e colJaboratore di punta - con il fratello Antonio - dell'Antologia Militare, Gerolamo Ulloa - come molti autori militari coevi - con questo libro si propone di «rendere facile e spedito à miei giovani commilitoni l'apparare nel proprio idioma i più importanti principii di tattica per tutte e tre le armi; e di quelli precipuamente che meglio ad essi si addicono, tolti daì più accreditati scrittori militari». Fatto non casuale, l'U. intende dedicare particolare attenzione ai rapporti tra le tre Armi e al loro impiego coordinato. Al tempo, vi era una spiccata tendenza alla separatezza da parte delle Armi «dotte», l'artiglieria e il genio,
pu(;U
(;UDUS(;iulc tlagli uffi(;iali di
fanteria così come i loro ufficiali - con formazione prettamente tecnica poco conoscevano caratteristiche e procedimenti d'impiego della fanteria: in tal modo, il problema interarma di allora diventava qualcosa di analogo all'attuale problema interforze. Anche per questa ragione libri del genere - con titolo analogo - al tempo erano abbastanza diffusi in Europa, e lo stesso U. fa esplicito riferimento alla traduzione francese dell' «esimia opera» del generale prussiano Decker Essai de tactique des trois armes, infanterie, cavalerie et artillerie, isolées et reunies dans l'e:.prit de la nouvelle guerre. L'U. afferma di aver iniziato il suo lavoro prima di conoscere quello del Decker, «ed avendone fatto tesoro allorché il mio lavoro era ordinato, non stimai d'arricchirlo, togliendo da quella ciò che v'è di maggiore utilità, poiché avrei dovuto tutto rifarlo [...] Il mio proponimento non era di scrivere un' opera vasta come quella, ma sibbene un sunto ... ».52 Scarsi - anche se non privi di interesse - sono gli spunti originali dell'opera, che come al solito si rifà spesso ad autori francesi (Rocquancourt, Jacquinot de Presle ... ). Né vale la pena di soffermarsi sui minuti particolari dell'ordinamento degli eserciti, dei rapporti tra le Armi, del loro impiego, sui quali si diffonde l'U., che descrive minutamente anche come si svolge una battaglia. Ci limiteremo pertanto a citare i punti del
sr Napoli, DalJa Tip. Dé Gemelli. 52 ivi, p. XII.
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libro di qualche interesse ai fini della nostra specifica indagine, tenendo presente che l'autore non si sofferma sulla de_finizione di arte della guerra e sulla sua ripartizione né suJla strategia, per le quali egli conclude come Jomini, Jacquinot e tanti altri - «che la guerra è sempre stata la stessa; si tratta di essere il più forte su un punto dato; ogni altra cosa è accessoria; che molte battaglie si somigliano nelle loro principali circostanze, e nei loro risultamenti, poiché le istesse evoluzioni e gli stessi errori producono effetti simili, qualunque possano essere i tempi ed i luoghi». Naturalmente, per comprendere tutto ciò che accade in una battaglia senza averne mai combattute, «non v'ha che un sol mezzo per riuscirvi: leggere i migliori scrittori militari, studiare le carte annesse alle loro opere. Cosl si acquisterà quel discernimento che conduce all'accordo perfetto delle operazioni». 53 Pertinenti e ben calibrate le riflessioni sulle innovazioni introdotte da Napoleone, compresa quella - assai poco nota, ma di estrema importanza ai fini della mobilità degli eserciti - dell'istituzione del corpo del treno per l'artiglieria e della militarizzazione dei trasporti, dei quali quelli per l'artiglieria erano magna pars: istituì inoltre Napoleone il corpo del treno deputato ad attaccare le artiglierie, e guidarle; la quale incumbenza era in Francia innanzi al 1805 affidato a impresari, cò quali si contrattava né pericoli di guerra per fornire gli animali pel trascico delle macchine, ed i vetturini ancora. I soldati del treno d'allora in poi emularono il coraggio dé cannonieri, e le evoluzioni delle artiglierie divennero più celeri e regolari. 54
L'esatta interpretazione delle guerre napoleoniche si ferma, però, quando l'U. - dimenticando che quella napoleonica è essenzialmente una strategia di masse - fa come il Cridis e altri l'elogio dei piccoli eserciti (come abbiamo visto, in questo non è il solo scrittore «scolastico» della Restaurazione): non è il numero che dà la vittoria, dice Vegezio. Difatti un grand'esercito riunisce molti impedimenti; le sue marce sono lente; le sue lunghe colonne vengono sovente volte molestate da pochi nemici; è difficile trovare le sussistenze per la soldatesca e per gli animali; il terrore si comunica più rapidamente, il disordine è irreparabile; le azioni di valore meno conosciute; quelle di viltà più occulte; le
3 ~ 54
ivi, pp. 229-230. ivi, p. 7.
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fughe più lunghe; la dispersione più estesa[ ... ]. I mediocri generali han cercato sempre di riparare col numero il difetto del coraggio e dell'intelligenza- Le più belle vittorie ottenute da Napoleone sono state in Italia, allorché egli comandava piccoli eserciti.55
A proposito dei concetti di guerra e di battaglia, l'U. cade in una forte contraddizione. Il suo concetto di battaglia ben si accorda con quello tipico dell'Enciclopedia Francese e della strategia napoleonica e ha sullo sfondo la debellatio dell' avversario: Una lotta generale fra due eserciti dicesi battaglia. Laonde le battaglie decidono i grandi litigi degli Stati, fermano la reputazione dé generali e degli eserciti, sono lo scopo cui mirano tutte le militari discipline, e lo studio e i disegni di coloro i quali reggono le nazioni e le soldatesche. Quindi è che tutta quanto l'arte della guerra si fa consistere appunto nel moltiplicare i casi favorevoli, e diminuire gli sfavorevoli che le tremende generali pubTTie possono offrire, facendovi all'uopo concorrere gli slanci del genio ed i calcoli dell'e-
sperienza dé secoli.56
L' U. aggiunge una riflessione perallro ovvia: · dal momenlo che la battaglia è così importante da decidere la sorte delle nazioni , essa deve essere affrontata solo quando vi è. una ragionevole, fondata speranza di vittoria, «a meno che dallo sfuggirla non ne derivi un danno certo quasi uguale all'incerto, che può apportare la perdita temuta; o non si possa altrimenti conseguire il fine della guerra». Fin qui va bene: ma a proposito dello scopo della guerra l'U. sembra rifarsi al Racchia e a1l'ottica moderata tipica dell' establishment politico-militare della Restaurazione, ottica nella quale l'arte della guerra e i preparativi militari dovrebbero servire prima di tutto a rendere le guerre meno rovinose e sanguinose: lo scopo principale della guerra non deve adunque, come altra volta [riferimento a Napoleone? - N.d.a.], esser quello di uccidere quanti più nemici, ma l'altro invece di scomporre l'esercito nemico, metterlo nella condizione di non poter restare in campo, impadronirsi del principal nervo di sue forze. Ed a questo menano le sapienti evoluzioni che sono le conseguenze dé buoni ordinamenti dei Generali e della sana e giusta applicazione dé principi dell'arte di guerreggiare. Sicché quali benefizi apportino agli Stati, con in-
. 55 56
ivi, p. 169. ivi, p. 219.
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tendere incessantemente a promuovere, mercè provvide e sagge istituzioni l'ordine militare, e col prodigare ingenti somme pel mantenimento degli eserciti, ciascuno di leggieri lo scorge.57
Non si parla mai di distruzione dell'esercito nemico: eppure le battaglie sono tremende e decisive! L'U. è purtroppo buon profeta quando - senza invocare, come fa Jomini, temperamenti alle guerre nazioni e ai grandi eserciti - afferma che «la guerra della rivoluzione[ ... ] che nel corso di ben 25 anni desolò e sconvolse Europa tutta [...] ha segnato le impronte di un secolo guerriero». 58 Nessuna concessione, da parte sua, al diffuso ottimismo ufficiale, che vorrebbe dimenticare le guerre napoleoniche per dare inizio a un'era di pace: né qui non si pari innanzi la benignità dé tempi in cui viviamo, i più miti costumi, le dottrine dei moderni scrittori, l'incivilimento ognor crescente, i qual i sono un sicuro garante della perpetua pace da tutti ragionevolmente apprezzata, perciocchè gli odi nazionali , effetto delle scissure politiche, degl'interessi illusori di commen:iu o d'ambizione, incitano sovente alle armi le nazioni; le quali non possono in altro modo estendere le loro conquiste che a danno delle vicine, e la felicità d'altronde e l'ingrandimento di una è quasi sempre legato all ' infortunio cd indebolimento dell'altra. Le coscienze politiche, dice un grave scrittore, sono mosse dall'utile, non già dal giusto e daJl ' onesto come le coscienze morali ; e la probità politica non è più al mondo. 59
Da queste constatazioni di singolare attualità dopo centocinquant'anni, l'U. trae l'ammaestramento a studiare l'arte della guerra, perché «se la guerra è un flagello inevitabile e alcuna volta utile anche, è d'uopo che pel bene dell'umanità e vantaggio delle nazioni si renda quanto meno disastrosa è possibile. La qual cosa non si consegue diversamente che collo studio dell'arte della guerra, poiché le battaglie sono più decisive e meno micidiali [caratteristiche contrastanti! - N.d.a.] al perfezionarsi di quella». Le battaglie di Napoleone, dove per ammissione dello stesso U. e di tanti altri del tempo si tocca il culmine dell'arte, sono forse state meno micidiali e sanguinose delle precedenti? Napoleone si è mai preoccupato delle vite dei suoi soldati e di quelle del nemico? si è mai chiesto quali erano le conseguenze economiche e sociali delle sue continue guerre, e i
57 58
ivi, p. X. ivi, p. VII.
59
ivi, p. IX.
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danni per gli Stati? L'U. non è il solo a cadere in queste contraddizioni e a non sciogliere chiaramente l'interrogativo, se le guerre napoleoniche appartengano al passato o - come par di capire - alle barbarie (ma allora, come potrebbero essere contemporaneamente un modello?), oppure siano il riferimento per l'avvenire. Alla fin fine, gli spunti maggiormente originali che si trovano nell'opera sono di carattere organico, e riguardano tre aspetti: la costituzione permanente di Grandi Unità anche in pace, la convenienza o meno di mutamenti ordinativi guerra durante, la convenienza o meno di costituire fanterie speciali. All'epoca, in tempo di pace le G.U. (divisioni o brigate) generalmente non erano costituite secondo l'organico di guerra, ma corrispondevano a ripartizioni territoriali dove avevano stanza - magari solo in parte - i reparti da mobilitare in caso di guerra (mancavano i Servizi logistici, le «Armi speciali», cioè l'artiglieria e il genio, il treno e il Comando di G.U.). All 'atto della mobilitazione, la di visione e il corpo d'armata diventavano attivi e si completavano degli elementi mancanti per raggiungere la zona d'impiego. L' U. indica invece come modello la soluzione della Prussia e della Russia, dove le G.U. anche in tempo di pace mantengono perma nente mente l'ordinamento di guerra. Un siffatto ordinamento «tranne qualche inconveniente inevitabile, offre a queste potenze il vantaggio di poter rendere prontamente movibili i loro eserciti, perché le truppe sono perennemente sotto gli ordini dé generali che debbono guidarle in guerra, e fornite del necessario all' uopo. La sicurezza esterna di questi Paesi è perciò meglio che in altri assicurata; stantechè con le loro forze essi possono respingere più sollecitamente una invasione, e sono in istato di operare meglio dé loro vicini».60 Un altro saggio principio che l'U. segnala è che «non bisogna nel corso di una guerra cambiare facilmente l'ordinamento dell'esercito una volta formato, poiché l'abito di combattere insieme, di vedersi e aiutarsi in tutte le occorrenze, fa nascere frà corpi che compongono i membri di un esercito una scambievole confidenza, e certe relazioni che utilmente contribuiscono ai loro successi; i generali conoscono così meglio le loro truppe dalle quali sono in contraccambio stimati».61 Quante volte, fino alla seconda guerra mondiale, si sono trascurati i vantaggi della stabilità organica! quante volte le divisioni sono state rimaneggiate! Ci pare condivisibile anche il pensiero dell'U. a proposito delle fan-
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ivi, p. 171.
61
ivi, p. 172.
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terie speciali. Esso è tale da anticipare - come meglio vedremo in seguito - una querelle infinita tra coloro che esaltano il superiore rendimento e lo spirito elevato delle truppe speciali e coloro che mettono l'accento sul rovescio della medaglia, cioè sul depauperamento della fanteria (iniziato ne11'esercito piemontese - proprio qualche anno prima, con la costituzione nel 1836 dei bersaglieri): spesso si sono riunite le compagnie scelte dell'infanteria, formandone corpi separati. Gli Austriaci hanno questo sistema anche in tempo di pace; ma i Prussiani, presso i quali altre volte era favorito, l'hanno abbandonato. La quale combinazione di truppe inchiude gravi difetti, perché tende a far indebolire, o perdere il morale dei reggimenti, privandoli dé migliori loro soldati, il cui esempio anima gli altri; li rende numericamente più deboli; e se si espongono con frequenza i corpi dé granatieri negli attacchi vigorosi, vengono i reggimenti ad esaurirsi dé migliori soldati, poiché si rinnovano più spesso le compagnie scelte.62
Concludiamo ricordando alcune auree pagine dell'U. in altra sede, cioè sull'Antologia Militare del 1838, a proposito dello Stato Maggiore degli eserciti. 63 In questo breve saggio l'U. dimostra una chiara e ancora attuale visione dei doveri, delle attribuzioni, dei requisiti culturali e di carattere di un ufficiale di Stato Maggiore, citando nei particolari quale esempio e modello da seguire lo Stato Maggiore prussiano, con ufficiali già allora altamente selezionati. L'U. mette in rilievo l'importanza della preparazione teorica e tecnica, che non può essere sostituita dalla sola pratica, e sintetizza con rara efficacia i compiti e la figura degli ufficiali di Stato Maggiore: sono essi i consiglieri dé generali, e gl'interpreti dé loro ordini. Il generale nota, riflette, osserva, decide e delinea le idee principali dé progetti , l'uffi ziale dello stato maggiore lega e sviluppa queste idee, di guisa che tutti quei che debbon prendere parte ali' esecuzione di un progetto, sappiano esattamente e con chiarezza l'estensione e la natura degli incarichi che debbono seguire. Ciò che il generale non può e non ha il tempo, l'ufficiale di Stato Maggiore vede, riconosce; gli ordini od i rapporti che per causa della lontananza o per mancanza di tempo non possono essere redatti in termini precisi o bene sviluppati sono portati
62
ivi, p. 175.
63
«Antologia Militare» -Anno Terzo - n. 5 ,- 1 sem./1838, pp. 120-127.
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da11'uffiziale di Stato Maggiore ch'è il confidente del pensiero del generale. Ad esso finalmente vengono confidati gl'incarichi più gelosi e arditi. L'U. ritiene anche indispensabile, in tempo di pace, impiegare gli ufficiali di Stato Maggiore in incarichi analoghi a quelli che sono destinati a disimpegnare in guerra, e cita l'esempio della Prussia e della Russia ove sono ripartiti nelle divisioni militari sotto la guida di ufficiali istruiti ed esperti: con uffiziali quindi di Stato maggiore fomiti di tali cognizioni puossi soltanto salvare un esercito dalla confusione che deriva dagl'infiniti e variabili servizj di campagna, possono classarsi e subbordinare tutt'i poteri, e spandere una felice chiarezza sull'insieme delle operazioni della guerra. Questo punto di vista dell'U. conferma che anche in Italia non è mancata certo, nella Restaurazione, una indicazione esatta, chiara e completa di come organizzare Stati Maggiori e Comandi e di come preparare - con ottica operativa - il relativo personale. In quanto al Sunto della tattica delle tre Armi, si tratta di un manuale dichiaratamente poco originale e con finalità didattiche: in questo sta il pregio e insieme il limite deH 'opera, che i rari spunti originali di nostro interesse non bastano a qualificare come qualcosa di rimarchevole. Benché sia meriti almeno ma citazione, essa è immeritatamente ignorata dal Brancaccio e daHo Sticca, e viene citata solo dal d' Ayala.
SEZIONE II - Autori napoletani minori e traduzioni
Autori minori e scrittori di logistica e amministrazione Gli autori minori napoletani sono assai più numerosi di quelli del Nord e Centro Italia. Essi raccolgono un'antica tradizione pre-napoleonica: basti ricordare il Marchese Palmieri, figura napoletana di grande rilievo del secolo XVIII che qui non esaminiamo, e - tra gli altri - un certo Felice Fusco, «Tenente del reggimento nazionale di Puglia» e insegnante al Collegio militare di Napoli, che nel 1782 pubblica un'opera intitolata Instituzioni militari nelle quali sono stabilite le regole generali per l'arte della guerra, 64 suddivisa in due libri: - Libro I Della tattica elementare (reclutamento, armamento, addestramento, evoluzioni, istruzione);
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- Libro II Della tattica sperimentale (composizione dell'esercito, accampamenti, marce, battaglie, scaramucce, riserve, attacco e difesa delle piazze, convogli). Nel Libro TI si trova una caratterizzazione delle battaglie certamente non smentita ma esaltata dalla strategia napoleonica, il che dimostra ancora una volta quanto deve Napoleone all'arte militare dei suoi predecessori: siccome le battaglie sono quelle azioni generali che decidono dell'esito di una guerra, cos) fa d'uopo venire a tal passo sol quando si stia quasi sicuro di riportare la vittoria, altrimenti bisogna cercare a tutto potere di schivarlo. Sempreché poi si dà, o si accetta la battaglia, conviene pralicare ogni mezzo per accrescere le forze proprie, e menomare quelle nemiche, non insuperbirsi per la vittoria ma renderla compiuta, né perdere il coraggio per la disfatta, ma fare una buona ritirata.65
Gli scrittori napoletani del periodo hanno un'altra caratteristica, che li distingue da tutti g li altri: estendono la loro indagine a settori partico-
lari altrimenti poco approfonditi, come la logistica (intese nel senso attuale), l'amministrazione in generale, e persino l'aeronautica. Tra coloro che si occupano di argomenti per così dire tradizionali o usuali (tattica, artiglieria ecc.) ricordiamo: - i precetti raccolti da Francesco Lomonaco (già professore di storia e geografia nella scuola napo leonica di Pavia) in Della virtù militare (1807) - Le Vite dé famosi capitani d'Italia (1831 - 3 Vol.) dello stesso Lomonaco;66 - La Scienza della scherma (Napoli 1806), La scienza della tattica ( 1814)67 e La scherma della baionetta (Napoli 1818) di Giuseppe Rossarol Scorza; - il Progetto d 'organizzazione della forza nazionale e militare del Regno delle Due Sicilie (Napoli 1820) di Nicola Salerno (citato solo dal d' Ayala e da lui definito «rarissimo»); - il Saggio sui rapporti tra i grandi mezzi di difesa, la di5posizione topografica del terreno e le operazioni degli ese rciti (Napoli 1828) di Carlo Afan de Rivera; 64
Napoli, Stamperia Pergiana 1782 (Libri 2). ivi, Libro II capo IV, pp. 202-203. 66 Lugano, Tip. Ruggia e C. I 831. Sulla vita e l'opera del Lomonaco Cfr. anche M. d' Ayala, Bibliografia ... (cit.), p. 297, e G. Sticca, Op. cit., pp. 204-205. 67 Napoli, Stamp. Reale 1814. 65
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- due libri del tenente Vincenzo Garofano, Compendio del/ 'arte militare presso le più celebri nazioni antiche, e moderne rilevato dà migliori autori (1829),68 e Breve raccolta di osservazioni su la tattica militare estratti dalle memorie dei signori generali Gourgand e Monthenot (1836); 69 - le opere sull'artiglieria di Mariano d' Ayala, insegnante al Collegio Militare di Napoli (Delle vicende d'artiglieria - Napoli 1837; Lezioni di artiglieria (1840);70 Delle artiglierie napoletane (1841). 7 1 Sullo stesso argomento, le Instituzioni di artiglieria (1832) di Raffaello Niola; - le opere sul genio e la fortificazione di Luigi Scarambone, Francesco Costanzo, Filippo Pagano. 72 Un libro che sfugge ai consueti schemi e argomenti della letteratura militare minore è L'istruzione per le truppe leggere in campagna estratta dalle opere di Federico II (1831) del secondo tenente Pompeo Quarto. 73 11 libro tratta essenzialmente de11a guerra di dettaglio o piccola guerra (petite guerre) per i francesi , così definita dal Ballerini nel suo di7.ionario (vds capitolo V): non v'è cosa che distrugga tanto e più facilmenle un ' armala, che la continua perdita di uomini e provvisioni [... I Col rischiare pochissima gente, quando è questa ben diretta, si è sicuri del più felice ri sultato, e dell'esito delle proprie intraprese, e riportando molli piccoli vantaggi. fa sì che l'inimico si trovi alfine spossato di forze, cd incapace di fare una più lunga ed ostinata resistenza 1---J La piccola guerra non consiste dunque che a saper battere in deltaglio dé piccioli corpi di truppe nemiche, impadronirsi dé suoi posti, convogli, foraggi e simili. Per riuscire con facilezza in tali spedizioni, bisogna avere buone spie, ed oltre ciò aver la conoscenza de l paese e degli abitanti; impiegando la fanteria nella montagna, e luoghi intersecati, e la cavaHeria nelle pianure.74
Quella che il Quarto indica come la forma di guerra più idonea per le truppe leggere assomiglia molto a una guerriglia condotta da forze regolari, tant'è vero che nella prefazione alla sua opera egli afferma: parte principale di questa istruzione è quella che insegna il modo 68
Napoli, Dalla Tip. Trani 1829. Napoli, Dai Tipi di L. Banzoni 1836. 70 Napoli, Tip. Militare 1840. 71 Napoli, Tip. Aautina 1841. n G. Sticca, Op. cii., p. 220. 73 Napoli, Stamperia e Cartiera Del Fibreno 1831. 74 G. Ballerini, Op. cii., Voi. I, p. 399. 69
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con cui guarentirsi in campagna dalle insidie e sorprese del nemico, e recare allo stesso danni infiniti col minor rischio possibile. Richiede la prima parte tutte le conoscenze per ben occupare custodire difendere [... ] L'altra poi consiste nel sapersi imboscare ed attirarsi il nemico; nel frastornare le sue marce; neU'introdursi tra le sue ed indagarne le posizioni, le forze, i mezzi di offesa e di difesa ...
Grande cura viene dedicata, nell'esercito napoletano, anche alla compilazione di manuali e istruzioni varie. E sempre a Napoli viene pubblicato nel 1837 un Saggio sull'aeronautica e aerostatica di Antonio Costa, 75 non citato né dal d' Ayala né dallo Sticca ma solamente daB'Antologia Militare (che la indica tra le opere pubblicate nell'anno 1837). Un libro importante, il primo in Italia a trattare dell'impiego militare dell'aeronautica, e tuttavia finora ignorato anche dagli specialisti di storia aeronautica. Esso costringe a spostare alla prima metà del secolo XIX - e non alla seconda metà- l'inizio della storia del pensiero militare aeronautico italiano, che noi stessi abbiamo collocato al 1884, per la semplice ragione che nel 1989 ignoravamo ancora l'esistenza di questo libro. 76 Un'altra disciplina fondamentale che riceve particolare attenzione a Napoli è la logistica nel senso attuale del termine. In merito, ricordiamo ancora che al tempo per logistica si intendeva una disciplina nuova che si occupava della organizzazione del movimento e dello stazionamento, mentre ciò che corrisponde più o meno alla logistica attuale veniva indicato con il termine amministrazione (quest'ultima branca peraltro, non racchiudeva in sé gli aspetti logistici dell'artiglieria e del genio - normalmente di competenza degli stessi comandanti delle predette Armi - e non distingueva bene tra logistica di produzione e di distribuzione). Un diffuso luogo comune, che pervicacemente sopravvive con sporadiche manifestazioni da parte di superficiali e improvvisati esegeti di questo o quel Servizio logistico, è che nella Restaurazione vi è stata scarsa attenzione per la logistica. Abbiamo già cercato di sfatare queste errate convinzioni o prevenzioni nel Vol. I (1831 -1861) della nostra Logistica dell'Esercito Italiano;77 in questa sede vogliamo ancora ribadire che: - esattamente come avviene per la strategia (terrestre, marittima o 75
Napoli, Stamperia Reale 1837. Cfr. F. Botti - M. Cermelli, La teoria della guerra aerea in Italia (1884-1939), Roma, Ufficio Storico Stato Maggiore Aeronautica 1889, pp. 3-5. «n primo scritto meritevole di ampio esame» viene ritenuto quello del capitano Lo Forte su L 'aeronautica e le sue applicazioni militari («Rivista di Artiglieria e genio» 1884, Voi. III). 76
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aerea), anche in questo caso bisogna distinguere tra logistica come disscip1ina o branca autonoma dell'arte militare parlata, scritta o teorizzata o codificata, e logistica istintiva e praticata. La prima inizia a prendere quota in Ita1ia ne11a seconda metà del secolo XIX. La seconda è invece nata quando sono nati gli eserciti regolarmente ordinati e ne ha seguito le vicende e i travagli organici; - per il periodo in esame (1831-1848) si può parlare di stasi (più che di regresso) dei provvedimenti concernenti la logistica di campagna e di temporaneo abbandono delle moderne acquisizionj del periodo napoleonico (militarizzazione dei commjssari e dei trasporti; organizzazione de11'Jntendenza, sanità ecc.), stasi che consegue all'accantonamento de]la prospettiva delle guerre interstatua]i, ne11'ambito della pax austriaca sancita dal Congresso di Vienna; - ]a Jogistica territoriale e di pace, e in ogm caso la logistica non specificamente rivolta alla guerra, riceve invece un notevole sviluppo, sia nel campo dei provvedimenti a carattere esecutivo dei Ministri de11a guerra dei vari Stati italiani, sia in quello degli studi. Essa tende peraltro a confondersi con l'attuale Servizio di amministrazione, inteso come gestione del contante e materiale e come trattazione della branca giuridicoamministrativa del personale. Le periodiche e prevedibili lamentele per la mancanza - in questo periodo e/o in altri - di studi di logistica e amministrazione militare, trascurano questo contesto e non sono perciò giustificate. Se in Francia nel periodo in esame scrivono le loro opere autori illustri e di grande influsso in Italia per tutto il secolo come 1'Odier e il Vauchelle, anche in Italia sono abbastanza numerosi saggi e Ubri su questo argomento, in buona parte pubb]icati a Napoli. In primis viene qui pubblicata ne] 1837 la prima opera di logistica nel senso attuale del termine, La scienza della strategia amministrativa e
militare che contiene la topografia e la scenografia campestre, paesistica e statistica gentile, per ben servire gli ordini dé tribuni, divisa in tre parti, anch'essa del già citato avvocato criminale Donato Ricci,78 citata dal d' Aya1a nella sua bibliografia con il seguente commento, nel quale par di cogliere un accenno al concetto attuale di logistica: «il modo di strategia amministrativa potrebbe forse adottarsi dagl'ltaliani per esprimere que1 ramo dell'arte della guerra, che la nuova nomenclatura francese ha detto logistique». Sempre a Napoli, Giuseppe Durelli pubblica nel 1838 il primo libro di ammfoistrazione e contabilità militare, Ammini-
n Roma, SME - Uf. Storico 1991. Tip. Agro lino 1837.
78 Napoli,
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strazione militare; dettagli sulle competenze in denaro, preceduti da nozioni sull'attuale stato organico ed economico dell'Esercito. 19 Luigi Gonzales pubblica nel 1828 Lo spirito delle legge militari, opera dj interesse logistico perché la legislazione militare del tempo riguarda in buona parte gli attuali Servizi di commissariato e di amministrazione. Per rngioni oggi difficili da individuare, ma che tuttavia vanno attribuite a un pronunciato interesse per la sa1ute delle truppe e dei quadrupedi, nel periodo sono assai numerosi i saggi e i libri - anche a carattere statistico e storico - non solo sulla medicina e sanità militare ma anche sul Servizio veterinario. In pieno periodo napoleonico Giovanni Vivenzio, protomedico genera1e del Regno di Napoli, scrive le Memorie intorno alle cautele e ai mezzi per conservare la salute di un'armata (1800)80 e il Piano generale d'uno o più !!,pedali di campagna (1800). 81 Nel 1838 Francesco Cervelleri, medico militare napoletano, pubblica i Risultamenti statistico-clinici degli ospedali militari del Regno delle Due Sicilie durante gli anni 1835-1836. 82 Risale al 1845 la prima opera organica italiana di medicina navalt: (Medicina militare e navale in rapporto alla reclutazione ed ascrizione marillima, volontaria o forzosa (Napoli 1845) di Gio. Antonio Grassi, (l'autore non ha nulla a che vedere con il linguista Giuseppe Grassi). Nel campo della veterinaria domina il nome del napoletano Vincenzo Mazza, «Direttore delle cliniche del Real Stabilimento veterinario di Napoli» e autore di parecchi volumi, taH da qualificarlo l'esponente italiano di punta della sua disciplina nel periodo: - Il veterinario militare ossia Istruzioni pratiche di veterinaria per uso utilissimo dé Veterinarj ed uffiziali di cavalleria (1830), in due volumi;83 - Chirurgia veterinaria, in quattro volumi (Napoli 1838), seguito nel 1842 da un Corso completo di chirurgia veterinaria pubblicato a Firenze; 84 - Sul moccio del cavallo detto impropriamente morva, trattato pratico per uso degli ujfiziali veterinari ... (Napoli 1842); - altri scritti minori, oggi custoditi specialmente nella Biblioteca dell'Archiginnasio di Bologna. A Napoli viene anche pubblicato, nel 1841, il Manuale d'ippiatria militare di Roberto Fauvet. 79
Napoli, Tip. Della Guerra 1838. Palermo, Reale Stamperia 1800. 81 Napoli, Tip. Guerra 1800. 82 Napoli, Tip. Guerra 1838. 83 Napoli, Real Tip. Guerra 1830. 80
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A fronte di questa imponente produzione napoletana della quale abbiamo citato solo i lavori principali, le opere pubblicate nel resto dell'Italia sono in numero inferiore, anche se relativamente numerose. Citiamo in questo capitolo, per un più agevole confronto e per comodità di trattazione, i seguenti lavori concernenti la sanità militare:
- l'Essai stratistique sur la mortalité dans le anciennes troupes de S.M. le roi de Sardaigne en temps de paix (1830) del medico militare piemontese (medico capo nel 1848) Gian Giacomo Bonino. Dello stesso autore i Cenni istorici sull'oftalmia purulenta, dominata in alcuni corpi dell'esercito, nel triennio dal 1836 al 1838 (Torino 1834) e Sopra tre casi di pretesa comunicazione della morva e del farcino del cavallo all'uomo: riflessioni critiche (Tomo 1842); - le Instituzioni di ma.scalcia (Ancona 1825) di Francesco Bonsi; - il Dictionnaire d'igiene et de police médicale militaire (Torino 1833) di Gaetano Ceresole; - le Istruzioni sulla morva ad uso delle truppe a ca vallo (1833) di Carlo Lessona. Dello stesso autore il Compendio d'ippiatria e la Patologia del cavallo ( 1833);85 - alcune opere e traduzioni riguardanti le ferite da arma da fuoco (la Clinica chirurgica - 2 Voi. - Firenze 1836 del famoso medico capo napoleonico Larrey; la Medicina specifica ... delle lesioni ... per proiettili da guerra - Torino 1848 di Lorenzo Granetti). Omettiamo, per brevità, altri titoli: quanto abbiamo indicato è sufficiente per documentare un elevato interesse - non solo a Napoli - specie per l'arte medica e veterinaria. Nemmeno il significato attuale di logistica viene ignorato: ne11'introduzione al suo citato libro del 1838, il Durelli così delinea i contenuti dell'amministrazione di allora: il Governo si assume la cura di provvedere a tutti i bisogni dell'individuo che di sua libera e piena volontà si dedica al nobile mestiere delle armi - o che dalla sorte vi vien chiamato per effetto dj una Legge - in qualunque posizione possa trovarsi, ed esige in pari tempo, che i fondi assegnati in ogni anno per farvi fronte siano scrupolosamente impiegati in ordine, e con ogni ben intesa economia. È questo lo scopo dell'Amministrazione militare. Essa comprende il soldo, indennità accessorie, e straordinarie; viveri , foraggi, e loro approvvigionamenti; vestiario, rimonta e bardatura; servizio sanitario, alloggio, casermaggio, riscaldo, e illuminazione, tra-
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Firenze, Sansone e Coen 1842. Torino, Fodratti 1833.
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sporti di ogni natura etc.. Comprende infine il materiale di artiglieria, che riguarda l'acquisto di munizioni da guerra, costruzione e riparazione d'armi da fuoco, e da taglio, projettili etc.; non che il materiale del genio, che abbraccia il ramo delle fortificazioni e il mantenimento degli edifizi militari.
La geografia è assai poco coltivata, sia nel Regno di Napoli che negli altri Stati dell'Italia Centrale. Il testo più ampio e interessante è la Geografia politica dell'Italia di Matteo Bianchi, pubblicata a Firenze (Società Ed. Fiorentina) nel 1845. n Bianchi si rivolge agli stranieri, «i quali, sebbene alquanto rimessi dai pregiudizi che li rendevano oltraggiosamente severi verso di. noi, pur tuttavia molto imperfettamente ci giudicano, specialmente per mancanza di libri manuali, che rendano loro familiare questo argomento». · Accanto a un ventaglio di rari dati st~tistici sugli aspetti economici, amministrativi e geografici dei vari Stati, non mancano nel libro notizie sulle forze militari di terra e di mare e sul loro ordinamento; l'esame delle caratteristiche geografiche viene spesso condotto senza ignorarne i sottofondi militari, sì che spesso il libro entra nel campo della geopolitica e geostrategia. Infine, come se fosse cosa scontata il libro tratta - e considera territori italiani - anche Malta e la Corsica.
Traduzioni Come si può constatare scorrendo la bibliografia del d' Ayala, le traduzioni di opere straniere sono numerose specialmente a Napoli. Le ragioni possono essere diverse. In primo luogo una maggiore vivacità e ampiezza d'interessi culturali nell'ufficialità napoletana; in secondo luogo una minore famigliarità con il francese - abbinata al prevalente influsso austriaco - nell' esercito delle Due Sicilie. In Piemonte si sente assai di meno il bisogno di tradurre dal francese, perché è una lingua assai diffusa e spesso usata a preferenza dell'italiano nell'esercito; nel regno di Napoli e nelle rimanenti parti d' Italia, invece, tale bisogno è più sentito, perché il francese - meno conosciuto - è pur sempre la lingua dei più celebrati autori militari del momento. Oltre che con la particolare mentalità piemontese, la minore ampiezza d'interessi che si riscontra nell'ufficialità sarda va forse spiegata con l'eccessivo appiattimento sui pur numerosi e importanti autori francesi o con l'eccessiva influenza di questi ultimi, che a Napoli sono apprezzati sì, ma accanto ad altri. Non depone comunque a favore di ambedue i poli culturali la mancata traduzione - nel periodo considerato, ma anche dopo, fino ai nostri giorni - dei più importanti autori europei
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di fine secolo XVlll (Lloyd, Btilow, Guibert ... e molti altri autori del secolo XIX rimasti poco conosciuti o ignorati spesso fino ai nostri giorni). Clausewitz è la vittima più illustre di questi mancati adempimenti, e le eccezioni sono poche. L'Arciduca Carlo, tradotto a Napoli dallo Sponzilli, è una di queste: ma la maggior parte delle sue opere sono disponibili solo in francese. Ricordiamo anche - sempre a Napoli - una traduzione in italiano dell'Arte della guerra del Puységur (1755) a cura di Ettore Ausilio e Cesare Ronchi, citata dal d' Ayala. Nel periodo considerato, di Jomini si conosce solo la traduzione della Vita politica e militare di Napoleone (Livorno 1829 - ignorata da «Clio») che da un punto di vista strategico e teorico non è certo la sua opera più importante: il Précis verrà tradotto molto dopo (1864) in Sicilia. Gli ufficiali italiani più colti del tempo conoscono indubbiamente il francese: ma questo non elimina il bisogno di traduzioni, che diventa via via più necessario. Eppure anche oggi gli scaffali delle biblioteche italiane contengono in gran numero opere in francese di autori francesi e europei dei secoli XVill e XIX, mai tradotte in italiano. Anche gli autori di lingua tedesca o russi (come il Btilow, il Decker, il Clausewitz, lo stesso Arciduca Carlo, l'Okounef, il Davidoft) in Italia sono conosciuti e presenti - quando lo sono - nella lingua francese. Come già abbiamo visto al capitolo m, la traduzione francese più antica di Clausewitz che abbiamo rintracciato in Italia (presso la Biblioteca Palatina di Parma, che custodisce la biblioteca dell'ex Scuola di applicazione di Fanteria e Cavalleria di Parma) è del 1849-1851. La totale assenza di riferimenti a Clausewitz negli scrittori italiani della Restaurazione è dunque da attribuire, almeno in prima approssimazione, alla loro scarsa dimestichezza (con l'unica eccezione dello Sponzilli) con la lingua tedesca, alla ritardata traduzione di Clausewitz nella stessa Francia, e ai rapporti radi e culturalmente insignificanti con la lontana Prussia. Oltre a Jomini, c'è qualche altro autore in Francia che conosce Clausewitz prima della guerra 1870-1871? e qual' è stata la risonanza di Clausewitz in Austria, cioè nella patria dello scrittore militare europeo che - pur essendo di lingua tedesca - ha la visione della teoria della guerra più divergente rispetto a quella di Clausewitz e più affine a quella del Btilow? Sono, questi, interrogativi da sciogliere, ma tali da poter essere sciolti solo da studiosi militari di quei Paesi ... In definitiva le traduzioni in italiano riguardano in buona misura opere a carattere «scolastico», utili cioè per l'istruzione dei Quadri e dedicate a specifici argomenti tecnico-militari. Tra di esse, la più importante - e attualmente la meno conosciuta - è a parer nostro il Sistema generale di tutte le cognizioni militari e metodo chiaro e preciso per istudiare or-
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dinatamente la scienza della guerra del colonne11o Nockem de Schom, tradotto dal francese dal napoletano Ferdinando Rodriguez, che vi aggiunge le «lezioni del re di Prussia à suoi aiutanti di campo, sopra la tattica, delucidate con alcune massime estratte dalle sue opere sull'arte della guerra». 86 Il de Schom scrive quest'opera nel 1783: chissà perché Jomini, nella Notice sur la teorie actuelle de la guerre che precede il suo Précis, tra i tanti autori europei che ritiene meritevoli di menzione non indica il nome del de Schom, e attribuisce a Lloyd e BUlow il merito di «aver sollevato il primo velo» della scienza strategica: perché il de Schom è il primo autore europeo, riteniamo, a dedicare alla strategia il dovuto spazio anzi un intero capitolo - e a inserirla armonicamente nella teoria della guerra, indicandola senza ambiguità come la branca più importante, ]a «parte sublime» che in sé comprende tutte le altre. Conosciamo poco del de Schom, che nella prefazione si autodefinisce «militare di professione», e che scrive in lingua francese, precisando che questa lingua non è quella della sua Patria (ciò conferma per altra via quanto abbiamo osservato a proposito del frequente uso della lingua francese da parte degli scrittori piemontesi). Il Rodriguez espone con molta chiarezza le ragioni deHa traduzione a Napoli di un 'opera straniera dopo quasi cinquant'anni dalla sua pubblicazione, che è antecedente alle guerre napoleoniche. Ragioni - come al solito - , eminentemente didattiche, legate alla struttura dell'opera e al modo di esporre la materia (con chiare tavole sinottiche e un'ordinata successione degli argomenti). Il Rodriguez ricorda di aver letto per la prima volta questo libro allora molto commentato, egli dice, dai giornali militari stranieri - nel 1805, quando fu incaricato di istituire e organizzare nell'allora Regno d'Italia la scuola militare di Pavia, e di averlo trovato molto adatto all'istruzione dei giovani, in quanto si tratta di «un libro elementare, una guida sicura onde intraprendere e proseguire con frutto lo studio della scienza della guerra in tutti i suoi differenti rami». Tra l'uscita del libro e la sua traduzione ci sono di mezzo le guerre napoleoniche, e non è poco: ma, per il Rodriguez, «i principi generali e le basi fondamentali della scienza della guerra non hanno da quel tempo in qua sofferto notabili cambiamenti». Egli non nega l' esistenza di altre opere «più degne di ammirazione>> da tradurre: ma quest'ultime a suo parere avrebbero soddisfatto le esigenze dei soli ufficiali dotti e compiutamente istruiti, mentre il suo obiettivo «è stato quello di giovare a coloro che non hanno an-
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Napoli, Dà Torchi di Raffaele Miranda 1825.
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cora terminato il corso della loro istruzione e che bramano di ben percorrere la loro carriera ... ». Scorrendo il libro (stranamente non citato dal d' Ayala nella sua bibliografia) si deve convenire che gli apprezzamenti lusinghieri del Rodriguez non mancano di buone ragioni, anche se nel 1825 insegnare ai giovani l'arte della guerra senza considerare l'esperienza napoleonica ci pare un assurdo; così come un assurdo pare riportare - come fa il Rodriguez - le massime di Federico Il, trascurando quelle di Napoleone ... Né bastano a colmare questa lacuna, quelle povere e poche note di aggiornamento dello stesso Rodriguez. Si deve anzitutto apprezzare il dichiarato fine didattico dell 'opera, e in proposito il de Schorn intende porre rimedio a due limiti storici della teoria strategica, limiti tuttora operanti: «alla imperfezione di ordine e di metodo che regna nella teoria della scienza militare considerata nella sua universalità e come si trova né libri, si accoppia ancora un altro difetto che non debbo dissimulare, perché lo reputo capace di ritardarne i progressi, ed esso consiste nella significazione vaga ed arbitraria dé vocaboli tecnici , dé quali si patisce molta penuria».87 Dunque i problemi del linguaggio militare non sono, al tempo, solo retaggio italiano. Anche se si tratta di autori che non citano esplicitamente i contenuti di quest'opera, nelle pagine del de S(:horn si trovano molti motivi ricorrenti nelle opere del Jomini e de] Blanch, sì che non è da escludere che questi due autori abbiano letto il de Schorn, e lo abbiano apprezzato e utilizzato più di quanto non appaia: altra conferma, questa, del prevalente influsso su Jomini degli autori militari pre-napoleonici, che abbiamo avuto già modo di notare nel capitolo I. Anche il de Schorn, intendiamoci, paga un certo tributo al consueto e allora universalmente imperante concetto «geometrico» e «scientifico» della teoria della guerra e delJa sua ripartizione: ma lo fa senza esasperazioni concettuali, in modo diverso e migliore insomma rispetto a quello che scrivono gli autori militari finora citati. Egli definisce la scienza della guerra «un complesso delle cognizioni di tutto ciò ch'è relativo allo stato militare, e di quanto deve farsi in tempo di guerra». La guerra non è solo scienza, ma anche arte; in merito, il de Schorn osserva molto a proposito che si tratta di due termini combinati «che una infinità di libri e libercoli assumono pomposamente per loro titolo generale mentre che essi non trattano che di una sola parte, e qualche volta versano sopra un solo argomento staccato e di poca
7 R
ivi, p. XVII.
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importanza». 88 La differenza che il de Schom indica tra scienza e arte ricorda quella indicata dal Clausewitz (vds capitolo ID): io metto una notabile differenza tra scienza e arte della guerra. La prima consiste nella perfetta cognizione della natura degli oggetti, dé loro principii massime e regole, e si acquista con lo studio e con la meditazione. L'arte, al contrario, consistendo nell'abilità di agire in conseguenza dé principii e delle regole attinte nella teoria, si conseguisce col frequente esercizio, e con pratiche ripetute con molta riflessione[ ... ] Non basta aver letto, meditato, studiato molto su di una scienza per riuscire subito nella sua pratica, cioè a dire nell'arte di agire. Mettetevi per esempio a dipingere o a scolpire, dopo aver letto e capito i migliori trattati scritti sopra queste due arti, e vi convincerete immediatamente da voi stesso di quanto ho asserito. Similmente, uno può essere molto istruito e anche dotto nella teoria di alcune parti della scienza della guerra come la tattica, l'architettura militare, l'artiglieria, la strategia, e al tempo stesso essere imperito e poco destro nella loro pratica [nostra sottolineatura - N.d.a.] .... In una parola la differenza la scienza e l'arte della guerra mi pare essere simile a quella che passa tra la teoria e la pratica.89
Non si potrebbe, anche oggi, dire meglio. Finalmente parole chiare e distinzioni ben marcate; fina1mente si ammette che la strategia non è solo scienza, studio, ecc., ma è anche azione, applicazione e arte. Il de Schorn distingue poi - e ci sembra il solo - tra talento militare e ingegno. Per talento intende «una facile attitudine ad acquistare con lo studio le cognizioni relative alla guerra». Se coltivato con l'applicazione e rischiarato da una ragionata esperienza, il talento può essere di molto giovamento a un militare: ma è solo l'ingegno a dargli «lo spirito creatore e trascendente». Con il talento si può diventare un buon ufficia1e o un abile generale; ma solo con l'ingegno si diventa in guerra «un uomo grande», perché il talento può essere nascosto ed ignorato per mancanza di occasione da risplendere e prodursi; al contrario l'ingegno si sviluppa, penetra e si spande malgrado tutti gli ostacoli, precede anche lo studio, si slancia per ogni dove, e domina per la sua naturale superiorità sovra tutti gli spiriti.90
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ivi, pp. 14-15. ivi, p. I R.
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In questo contesto, il de Schom divide ]a scienza della guerra in sei parti «integrali e primarie», cioè: la costituzione generale dello stato mi1itare; la disciplina; la tattica; l'arte dell'ingegnere; l'artiglieria; 1a strategia. Per costituzione generale dello stato militare il de Schom intende essenzialmente l'organica, l'ordinamento dell'esercito e i compiti e attribuzioni dei vari organi. Per disciplina, la legislazione e la regolamentazione addestrativa e di servizio sia in campagna che in guarnigione. Per tattica, l'arte di costituire, ordinare e regolare le truppe, che comprende tre grandi operazioni, cioè la costituzione, le ordinanze e le manovre. Si divide in generale (equivalente alla grande tattica di Jomini) e in particolare (la piccola tattica). Essa è il fondamento e la chiave di tutte le operazioni di guerra. I suoi
principii derivano dalla natura delle truppe, dalle loro anni rispettive, dagli effetti dell'artiglieria moderna, e dal modo di fare la guerra come si pratica oggidì. Ma l'applicazione delle manovre delle truppe ai casi diversi dipende dal colpo d'occhio militare, dalla situazione, dalla località, dalla quantità e qualità delle truppe rispettive, e dai movimenti del nimico.91
Una volta tanto - e ci pare sia questo l'unico caso, tanto più apprezzabile vislo che precede di molto Clausewitz e Jomini - non c'è, nel de Schorn, la pretesa di presentare la strategia come «quasi scienza esatta», «quasi invariabile» legata in prevalenza a quantità matematiche, come studio e pianificazione, lasciando solo alla tattica l'azione, e in definitiva presentando la strategia come scienza e la tattica come arte. Per il de Schorn, invece, la strategia è l'arte di comandare e di dirigere le operazioni di guerra [nostra sottolineatura - N.d.a.]: essa trae la sua etimologia dalla parola greca strateg6s che significa generale, o capo delle truppe. Essa forma la parte sublime e la più estesa della scienza, poichè ne presuppone ed abbraccia tutte le altre parti. U calcolo del tempo, delle distanze, e dé movimenti; la combinazione delle circostanze, e del fine con i mezzi; la previdenza delle difficoltà, delle casualità, degli accidenti non calcolabili, la cognizione del Paese; il colpo d'occhio sulle località; il modo di giudicare la posizione, le manovre, le dimostrazioni e i movimenti del nemico; l'attività; l'audacia; l'ingegno inventivo; in breve un' infinità di cognizioni e
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ivi, p. 25. ivi (ferza Tavola Metodica).
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di qualità sono necessarie ad un generale in capo dell'esercito, e con le dovute proporzioni, agli uffiziali superiori e anche subalterni. La strategia si divide in grande e in piccola. La prima appartier,e à generali; e la seconda che chiamasi piccola guerra riguarda i semplici uffiziali. 92
Il de Schom esagera, indicando come facenti parte della piccola strategia (o piccola guerra) operazioni tipicamente tattiche; e nella grande strategia sembra voler comprendere - oltre che l'attuale logistica - anche la politica militare. Difetti perdonabili, a fronte di un'esposizione chiara e metodica degli argomenti e di una somma di riflessioni e ancora in parte attuali sui vari argomenti, ivi compresi quelli di carattere morale, i criteri disciplinari, il modo di impostare l'addestramento, con forte critica all'addestramento di caserma e piazza d'armi. Per questo egli ben sopravvive a Napoleone, e le note di aggiornamento del traduttore a pié pagina oltre ad essere poche, non riguardano la sostanza degli argomenti. Quello che vale per l'arte della guerra e l'addestramento vale anche per i problemi del personale e del1a disciplina. Il de Schom mette in guardia dagli inconvenienti di una disciplina troppo rigida e vessatoria, raccomanda di trattare il soldato come un uomo, di risvegliare in lui i buoni sentimenti, e di non affaticarlo eccessivamente. Inoltre il soldato deve pagarsi e mantenersi in modo che stia meglio del contadino e del borghese comune. Si deve trattare con dolcezza e affettuosamente; ogni biennio [siamo nel periodo del reclutamento volontario a lunga ferma - N.d.a.] conviene accordargli un semestre di congedo per rivedere i suoi parenti o per guadagnar qualche cosa col suo lavoro. Bisogna operare allo stesso modo verso i sottoufficiali pagandoli bene, poiché essi sono l'anima della disciplina.93
Al sottufficiale e al soldato bisogna pag::u-e tutto quanto loro spetta, e in caso di morte fame pagamento ai più prossimi parenti. Anche gli ufficiali devono godere uno stato agiato proporzionato al grado, «senza e ssere obbligati per sussistere a consumare il loro patrimonio. Insomma l'ufficiale deve vivere con la sua spada, e da essa sperare la propria fortuna». E il de Schom sfata una convinzione tuttora diffusa tra i sociologi, che insistono sull'impostazione eminentemente classista della gerar-
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ivi, (Sesta Tavola Metodica). ivi p. 150.
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chia militare: non è sempre così nemmeno nel secolo XVIIJ, visto che egli scrive che Non basta che il soldato, il sotto-uffiziale, l'uffiziale subalterno superiore siano ben mantenuti, bisogna eziandio offrire loro la prospettiva di un lieto avvenire[ ... ] Per conseguenza è forza assicurare al semplice soldato e al sotto-uffiziale la possibilità certa di ottenere con i suoi meriti non solo il grado di uffiziale ma di poter altresì pervenire alle prime dignità militari.94
Sarebbe antistorico e irrealistico dedurre da queste parole del de Schom che negli eserciti pre-rivoluzionari del secolo XVIII o in queJli de1la Restaurazione l'origine sociale dei Quadri non aveva importanza: si può solo dire che là ove essa ha avuto la prevalenza sul merito, ciò ha provocato danni nel campo puramente tecnico-militare, quindi non è avvenuto in base a ben precise teorie o a imperativi tecnici, ma è slalo solo un fatto di costume sostanzialmente nocivo, che i buoni eserciti e i buoni Capi non hanno mai favorito ma combattuto nei limiti del possibile, prima e dopo la Restaurazione. Si può anche aggiungere che scorrendo le pagine del dc Schorn. ci si rende conto che i principi fondamentali dell'arte del comando e del buon governo degli eserciti, della cura del benessere morale e materiale del soldato e del sottufficiale non subiscono variazioni di rilievo nel corso dei secoli, né consentono di accreditare la tesi - oggi da taluna sostenuta - del contrasto tra individuo e organizzazione militare, e/o tra alti gradi e bassi livelli gerarchici. Questi contrasti si verificano solo nei cattivi eserciti, che come tali non applicano i principi e criteri indicati dal de Schom. Un'altra notevole traduzione è que1la dell'opera del colonnello barone austriaco Giuseppe Werklein, Ricerche intorno il servigio dello Stato Maggiore Generale e il governamento degli eserciti con un prospetto su le discipline di quello (1830 - 1A ed. 1828).95 Il Werklein è stato maldestro «Segretario intimo di Stato e di Gabinetto» di Maria Luigia o Duchessa di Parma. Succeduto nel 1820 al Neipperg, è stato costretto a lasciare in modo poco onorevole la carica dopo i moti del febbraio 1831. Un cattivo politico e Ministro, dunque; ma dal punto di vista militare il Werklein si rivela scrittore e studioso e tecnico di buon livello, dando un
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ivi, p. 151.
Nel frontespizio non sono indicati l'editore, il traduttore e la località, ma solamenle «Italia 1830».
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contributo notevole - se non unico - alla conoscenza dei dettagli dell'Amministrazione militare e del servizio di Stato Maggiore, argomenti che - al di là di enunciazioni teoriche generali - sono assai trascurati e poco approfonditi nell'Italia del tempo. Il suo libro ha il dichiarato carattere di un manuale pratico e non di un'opera teorica, ed è l'unico a prendere in esame i particolari organizzativi per l'imbarco e il trasporto di truppe via mare. Senza alcuna pretesa di completezza, tra le altre traduzioni ricordiamo, oltre alla già citata Arte della guerra di Puységur (Napoli 1755): la Tattica di cavalleria del conte Bismark, 96 il Saggio storico sulla fanteria leggera, ossia trattato sulle operazioni di guerra alla spicciolata del Duhesne, tradotto da L. Gabrielli (Napoli 1823); Napoleone e la grande armata in Russia, ossia esame critico dell'opera di Ségur (4 volumi), Italia 1826. Vi è persino la traduzione di un'opera sull'arte della guerra ... in versi (la Arte della guerra, poema in dieci canti del Conte du Pont luogotenente generale, traslatalo in versi italiani e dedicato a S.M. Carlo Alberto Re di Sardegna da Bernardo Bellini.97 Nel canlu setlimo di quest'opera «si tende a dimostrare che l'antica guerra si fu di svantaggio micidiale. Essa distrusse dei popoli che le nuove anni scampato avrebbero da un intero esterminio».
SEZIONE III - La stampa periodica: cenni sull'«Antologia Militare» e sul ~iomale Militare Italiano». Abbiamo finora citato diversi significativi studi del Blanch, di Gerolamo Ulloa, dello Sponzilli ecc. pubblicati sul1'Antologia Militare di Napoli, espressione della vivacità della cultura militare napoletana, fondata nel 1835 e soppressa nel 1846. Nel 1912 lo Sticca dopo aver attribuito ]a sua fondazione a «un manipolo di colti ufficiali d'artiglieria e del genio» la definisce «periodico interessantissimo, che nulla ha da invidiare all'attuale Rivista Militare Italiana. Lo diresse Antonio Ulloa e vi lavorarono il Blanch, lo Sponzil1i Gerolamo Ulloa, Nicola Landi, lo Scarambone, il Garofano, il Quaglia, il Novi; ma morì dopo un decennio nel 1846. A queU' odiator di pennaioli, che fu Ferdinando II, troppo davano ombra la libera parola e la illuminata cultura che l'avrebbero scalzato e abbattuto!».98
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Napoli, Tip. Saverio Giuseppe 1837. Mantova, Tip. Negretti 1846.
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Eppure l'Antologia Militare si dimostra un periodico tutt'altro che contrario alla monarchia, e può dirsi sostenitore di una sorta di illuminismo militare, di un moderato riformfamo mirante a rafforzare e non indebolire le istituzioni. Ma impostare il problema militare napoletano in termini di coerenza tecnico-militare e non di puro, passivo, retorico e sacrale sostegno dell' establishment, incominciare a fare i conti con l' eredità napoleonica, aprire la cultura militare alle correnti di pensiero europee, esaltare il valore napoletano e italiano, significava mettere indirettamente l'accento sull'inefficienza e decadenza dell'insieme, creando le premesse ineludibili per affrontare presto o tardi il problema - militare e non - dell'unità e indipendenza nazionale. Per questo non c'è da meravigliarsi delJa soppressione del periodico; c'è piuttosto da meravigliarsi della sua nascita (nulla di simile avviene in Piemonte) e della sua relativa durata, fino a un anno nel quale cominciano ad apparire le nubi all 'orizzonte italiano. Fatto non casuale, non figurano tra i collaboratori dell'Antologia ufficiali e scrittori militari napoletani anche allora di gran nome come M ariano d' Ayala e Pietro Colletta, che abbiamo visto (capitolo IV) aderenti al purismo e amici del Grassi, e perciò nemici dichiarati del filo-austriaco Sponzilli. In effetti la rivista ha un orientamento cosmopolita, e gli editori dichiarano che senza aspirare ali' originalità, togliendo il fiore delle opere straniere, ed il frutto delle vigilie dei buoni ingegni del Regno, si rinuncia dagli editori alla gloria di autori purché si giunga a dare una buona raccolta, la quale mirando sempre più a diffondere nell'esercito l'istruzione e l'ardore per le scienze militari, sarà in gran parte simile a quelle che si pubblicano in Europa. 99
Purtroppo l'unico ardore allora richiesto agli ufficiali italiani e non solo napoletani, era nei riguardi delle barcollanti monarchie locali ... Gli autori sono tutti napoletani, e sullo sfondo vi sono i problemi dell'esercito e della marina del Regno. Ma anche se vi manca un afflato nazionale, si tratta pur sempre del primo periodico militare italiano contemporaneo, quindi la sua è opera di cultura italiana ed è una spinta benefica a quel rinnovamento e a quella diffusione (fuori e dentro l'ufficialità) degli studi militari, che era indispensabile premessa per la rinascita nazionale.
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G. Sticca, Op. cit., p. 186. Prefazione all'Antologia Militare (Anno I, n. 2).
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Ragioni e obiettivi dell'opera sono indicati con molta chiarezza nella Prefazione al n. 2/1836, dove si accenna alla necessità e all'utilità di avere anche in Italia - come nei principali Stati d'Europa - un periodico militare, i cui obiettivi e le cui caratteristiche siano diretti essenzialmente a sviluppare con l'istruzione «le stabili qualità dell'uomo dabbene, e le energiche di quello di guerra». l vantaggi non meramente culturali che fornisce un periodico militare sono sintetizzati - con visione pienamente attuale - come segue: tutti i rami dell'arte della guerra vanno trattati in tali scritture; le quali han saputo popolizzare la scienza tra militari di tutti i gradi, né posano[ cioè riposano - N.d.a.] essi mai da raccor tutto dì' fatti; dallo svegliar la controversia e le discettazioni, formando un corpo di dottrine adatto alla diversa situazione degli stati. E spesso pria dell'esperimento di ordinanze inusitate, o di cangiamenti nelle cose stabilite, con esse si sveglia la sollecitudine e la discussione, se ne ordinano e se ne stabiliscono i principii, se ne lavorano e se ne preparano accuratamente i particolari. In esse tutte le idee, le stesse diverse gradazioni di opinione si accolgono, valutandoli colle regole della stretta equità; le quistioni vengono guardate sotto tutti gli aspetti; vi si porta una discettazione scrupolosa; e le critiche sono adattate all'estensione ed all'importanza delle materie. Con una bibliografia imparziale e motivata, rendendosi un conto sommario delle opere, si raccomandano le utili, s'impedisce il dispendio per quelle di poco o niun valore, si palesa l'importanza delle straniere, delle quali l'ignoranza delle lingue, e la deficienza dei mezzi, possono rendere infruttuoso o impossibile l'acquisto. La lettura di queste opere, e delle scritture periodiche che le raccomandano, inspirano à militari il desiderio di distinguersi ed imitar l'esempio di coloro che meritarono col coraggio e l'ingegno la fama ad un tempo e gli onori; poiché per divenir uomo di guerra «d'uopo è studiar in gioventù la storia, e la vita dé grandi uomini». Da queste scritture imparano ad amar la loro professione; e là cercheranno la gloria dove stà il dovere col coraggio e col pericolo. Rilevan da essere come gli onori e la fama non si acquistano che a forza di stento e di pene, e comprendon che gli esercizii d'ogni genere a cui van soggetti son fatti per indurli e prepararli alle fatiche della guerra; e l'amor proprio le fa poi tollerar con docilità e rassegnazione. I sentimenti d'onore vengon così raffor1:ati e divenir possono quali Catone desiderava i suoi soldati in Ispagna, non bravi solamente, ma onesti. In tutti gli Stati si è valutato perciò il benefizio e l'importanza di scritture periodiche per militari dalla necessità, e dall'inclinazione rivolti allo studio delle scienze che li riguardano, potendo essi interessarsi nel particolar genere delle loro cognizioni senza nulla to-
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gliere agli obblighi, alle cure, alle stesse abitudini della profession delle armi. Tutti i Governi ne han sentito il vantaggio: e dopo le provvidenze che fondavano istituti di ogni natura perché dassero l'istruzione necessaria agli uffiziali, davano agli scritti periodici incoraggiamenti di ogni specie, perché fecondassero le precedenti istituzioni. La disposizione degli animi in Europa al pacifico commercio delle idee, favoriva ancora l'attitudine guerriera degli Stati. E gli scrittori militari profittando di questa generai tendenza e di tutte le facilitazioni che sono in poter dei governi, si diedero, nelle ultime decade soprattutto, alle scientifiche discettazioni, divenute, cessate le operazioni della guerra frequentissime. E non stettero contenti al solo cambio delle idee che ravvicinava i rapporti delle nazioni, ma con zelo e perseveranza si sforzava di portar lo spirito investigatore nelle quistioni più ardue ed astruse, ricorrendo a fonti autentiche; raccolsero Lutti i fatti della storia dei nostri tempi per trametteme, dopo profonde discussioni, la sicura eredità ai posteri. Quest' impulso generoso dato alla scienza militare, da scrittori animati da zelo, spesso felice, e favorito dai Governi, si è manifestato generalmente e qua<;i ad un tratto in tutti gli Stati. Tre periodiche opere militari conta perciò la Russia, di cui una d' Igiene: quattro ne conta la Francia; la Svezia due, delle quali una racchiude le memorie dell'accademia militare di Stokolm, due l'Inghilterra, uno l' Austria .... mo
Manca lo spazio per un esame monografico, e più approfondito, delle tematiche e degli autori: osserviamo solo che un periodico come l'Antologia Militare basta a qualificare un periodo, e reclama che si renda finalmente giustizia ai numerosi militari colti italiani che allora si sforzano di mantenere il passo con l'Europa. Orientamento e valenza tecnica dell'Antologia napoletana risaltano ancor più al confronto con l'altro periodico militare che Io segue in Italia, il Giornale Militare Italiano, settimanale che nasce a Firenze il 23 febbraio 1846, stampato dalla tipografia Bencini e diretto da ce1to Francesco Gherardi Dragomanni di San Sepolcro. 101 Conta tra i suoi collaboratori anche i napoletani Mariano d' Ayala e Enrico Poerio, il colonnello Cesare Laugier (che poi se ne allontana), un cappellano militare (don Gioacchino Munoz) e persino un sottufficiale dei granatieri, il secondo sergente Bartolomeo Capecchi. Tratta «della milizia dei tempi dagli Etruschi sino ai moderni, dell 'eccellenza dell'arte militare, delle armi an100
Ibidem. Notizie tratte da M. Rosi, Dizionario del Risorgimento Nazionale, Milano, Vallardi 193 1. Voi. I, pp. 454-455. 101
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tiche e delle nuove, dell'invenzione dell'artiglieria, dei varii generi di battaglie, dell'utilità delle armi cittadine, dell'importanza delle fortezze, ecc .. Pubblica anche statistiche delle milizie ottomane, britanniche, francesi, piemontesi, napoletane, svizzere, descrizioni di ce]ebri battaglie (fra le altre di Benevento e di Lepanto), articoli sulla tratta dei negri, biografie di valenti capitani». Si mantiene anch'esso a]meno formalmente ossequioso verso 1'establishment politico-militare toscano. I1 15 novembre 1847 il titolo diventa Giornale militare e delle guardie civiche italiane, con l'aggiunta di «politico-letterario» a partire dalla terza annata. Un periodico, insomma, con un team di collaboratori che eccetto il d' Ayala non sono di gran nome, né si distinguono altrimenti nella letteratura militare o nella cultura coeve. Ma l'aggettivo italiano che compare nel titolo, 1' ampio ragguaglio che il gioma1e dà dei fatti di Parma, Siena e Lucca del 1847 e la commemorazione di Giovanni Bacchiega, martire dello Spielberg, qualificano questa iniziativa culturale come l'unica del genere autenticamente, apertamente italiana (e non localistica o europea come l'Antologia) e le fanno assumere un carattere anche po1itico che prevale sempre più sui contenuti puramente tecnicomilitari. Il Giornale Militare cessa le pubblicazioni il 18 maggio 1848, quando tutti i collaboratori partono per la prima guerra d' indipendenza: ed è una gran bella fine, molto migliore di quella de11' Antologia Militare.
Conclusione I limiti del pensiero militare scolastico risultano tutti dall'esame dei singoli autori, senza bisogno di qui ripeter1i ancora. Osserviamo so1o che una robusta iniezione dello spiritualismo di Clausewitz, della sua diffidenza per schemi e regole, avrebbe fatto un bene immenso a archetipi teorici che - come quelli piemontesi - non erano certo alieni dall'ossequio per schemi e modelli, fino a fornire un'immagine artificiosa della realtà della guerra tra eserciti, prospettiva peraltro estranea agli interessi dell'eestab]ishment del momento. Una domanda sorge spontanea: l'incerta prova data - da un punto di vista strettamente strategico e tecnico-militare - dagli eserciti italici (non solo da quello piemontese, ma anche da quello napoletano) nella prima guerra d'indipendenza del 1848-1849, dipende forse da questo substrato culturale imperfetto? Non è ancora il momento di rispondere compiutamente: è però doveroso precisare che l'influsso jominiano non è di per sé indice di arretratezza, e si coglie largamente anche nel pensiero militare francese della seconda metà del secolo XIX.
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Né può essere dimenticato che nel 1848-1849 la vittoria è andata a un esercito tipicamente dinastico come quello austriaco, i cui Quadri dal punto di vista teorico e strategico erano stati formati alla scuola «geometrica» e sostanzialmente antinapoleonica dell'Arciduca Carlo, assai peggiore di quella jominiana. Non è quindi questo il punto, perché in ogni tempo una leadership militare valida ha saputo superare e adattare tempestivamente alla realtà gli schemi teorici appresi nelle scuole, traendone ciò che veramente serviva al momento e tralasciando il resto. Sicuramente negli eserciti pre-unitari ita1iani non sussi stevano le condizioni politico-sociali necessarie per dare vita a una cultura militare, a una formazione dei Quadri tali da far emergere le idee più sane e valide, e soprattutto da fare sì che venissero applicate sul campo. Dopo tutto, accanto a molto ciarpame, queste idee sia all'interno che all 'esterno dell'istituzione militare non mancavano. Ma nella prassi quotidiana, erano la fedeltà al Sovrano e la salvaguardia della sicurezza interna i due principi-guida che al tempo davano l'impronta all'eserc ito. L'efficienz,a da un punto di vista bdlil.:o, la capacità di condurre operazioni richiedenti elevata mobilità o il problema di alimentarle adeguatamente, prima del 1848 erano passate in sottordine, e non potevano improvvisamente diventare un traguardo possibile. Né si può parlare di pianificazione delle operazioni iniziali, di studio accurato del terreno del teatro d'operazioni ecc., perché la concreta prospettiva della guerra ali' Austria si è affacciata solo poco tempo prima del suo inizio. Dopo tutto, Jomini e i suoi seguaci italiani sia pure con diversi accenti avevano molto insistito sull'accurata preparazione dell 'esercito - a cominciare dagli Stati Maggiori - fin dal tempo di pace, sullo studio preventivo del terreno per ricavarne un realistico piano di campagna, sulla conseguente importanza dello Stato Maggiore, della geografia, topografia e statistica ecc.; e parlando dello Stato Maggiore se ne era da più parti sottolineata la importanza di centro decisionale, senza limitarne il ruolo ai pur importanti uffici topografici e alle mansioni d ' ufficio. Naturalmente ci si era anche soffermati sulle basi e linee d'operazioni , sui magazzini e sull'alimentazione dell'esercito. Fin d'ora, quindi, si può escludere che errori e insuccessi del 18481849 derivino sic et simpliciter da una cultura militare ufficiale, che nel periodo che va dal 1815 al 1848 è più vittima che protagonista, ma ciononostante alla vigilia del 1848 fornisce anche in Italia quanto basta a chi sa cercarlo e trovarlo. Un conto è riconoscere gli oggettivi limiti del pensiero militare del periodo, un conto è valutarlo in vacuo, con troppa approssimazione e giudizi negativi palesamente esagerati. Lo Sticca ignora gli scritti di Cridis,
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Pougni, Vassalli, Gerolamo Ulloa, che qui abbiamo citati perché qualche cenno pur lo meritano. Il Bastico prende per buone le erronee interpretazioni del Brancaccio a proposito del Racchia (forse perché non lo legge direttamente), dandogli una patente di cultore dell'offensiva che non ha mai avuto e meritato, e dicendolo ispiratore dei gradi intermedi, mentre generali e giovani ufficiali, allievi del Vassalli, sarebbero stati difensivisti. 102 A noi invece sembra che nel Vassalli e in altri si trovi quanto basta per recepire quanto era possibile del1a guerra napoleonica. E riteniamo ingiusto il giudizio dello Sticca, secondo il quale, a] di fuori del Blanch, «niun tesoro si fece degli ammaestramenti napoleonici», perché nelle opere del periodo dominerebbe «quello scolasticismo cattedratico, estraneo a qualsiasi progresso, sordo alla voce dei fatti, quando pure non vi traspaiano lo sforzo e Jo studio di parer nuovi e originali ad ogni costo, rimescolando la vecchia materia. In verità fa pena al cuore il riscontrare tanta incoscienza e tanta ostinatezza». 103 Troppa severità! A parte il fatto che il Blanch si ispira all'Arciduca Carlo e Jomini, lo Sticca non si guarda intorno bene; non è sempre così, non è tutto così. Certi difetti o certe contraddizioni dei nostri autori si trovano anche in Europa; e in ciascun autore sia pure in misura variabile c'è del buono. Bisogna anche considerare il punto di partenza che è pressoché da zero, perché non si può parlare di cullura militare italiana in quel secolo XVill, dove al nostro Palmieri si contrappone uno stuolo di studiosi di altre nazioni e segnatamente francesi. Il risveglio c'è, si vede, si sente: questo almeno crediamo di aver dimostrato. E come potrebbero tanti ex-ufficiali Italiani di Napoleone aver improvvisamente dimenticato, a distanza di qualche anno, le lezioni del massimo astro della guerra? Lo scrittore è sempre uomo, e uomo de] suo tempo: chi può escludere che quando Racchia e qualcun altro si accontentano di disorganizzare l'esercito nemico salvo poi a elogiare e studiare Napoleone e le sue campagne, non fanno che tributare un omaggio d'obbligo all' establishment, allo spirito del tempo, per rendere più accetta e pubblicabile la loro opera? e che dire del coerente e comune atteggiamento degli ufficiali degli Stati pre-unitari (siano essi parmensi <? piemontesi o napoletani e persino dell'esercito austriaco), tutti uniti e concordi non solo nel ricordare o non rinnegare, ma nell'esaltare il passato di valore e sacrificio degli italiani sotto le bandiere del massimo nemico dei loro Sovrani del momento?
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E. Bastico, Op. cit., Voi. III pp. 172-173. G. Sticca, Op. r.it., p. 212.
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Rimane solo da porsi un ultimo interrogativo: l'accentuata dipendenza da Jomini e dall'Arciduca Carlo va giudicata positivamente, negativamente oppure in modo neutro? Per rispondere almeno indirettamente a questa domanda vi sono due constatazioni da fare: a) nell'Europa del tempo, sulla tematica strategica con la rilevante eccezione di Clausewitz nessuno riesce a dire qualcosa di meglio di Jomini; b) l'influsso di Jomini, nella stessa Francia, si spinge fino al secolo XX. Ovunque in Europa si adorano Jomini e l'Arciduca Carlo. Ad esempio il russo Okounef nelle sue Mémoires sur les principes de la strategie et sur ses rapports intimes avec le terrain (1831 ). 104 rende anch'egli il solito omaggio a Jomini e all'Arciduca Carlo, come Jomini dichiara superato il Bi.ilow, e recepisce il solito concetto jominiano che «se la tattica è sottomessa a degli imprevisti che sconvolgono qualche volta le combinazioni meglio stabilite, la strategia in parecchie delle sue componenti è basata su un calcolo pressoché invariabile». 105 A fine secolo XIX, il generaJe francese L. Jablonski nel suo libro L 'Armée française à travers les ages ripete ancora quasi alla lettera il succo delle teorie jominiane, ivi compresi il solito pasticcio tra scienza e arte e il culto per I' exemplum: la scienza della guerra, che viene chiamata comunemente arie militare, non è una scienza esatta; è una scienza sperimentale, come la storia, sulla quale è basata interamente. Dallo studio dei fatti si deduce un insieme d'insegnamenti che sono stati riuniti in un sistema ragionato e metodico. Le conoscenze dei fatti passati [... ] servono a determinare le medesime regole e i principì naturali dell'arte militare. Queste regole e questi principi sono semplici; ma la diflicoltà della guerra consiste nella loro applicazione .... 106
Nel 1783 de Schorn, in fondo, aveva enunciato concetti più o meno analoghi. Lo stesso Jablonski dopo aver fugacemente citato Clausewitz a proposito del rapporto tra guerra e politica, ricade interamente - e prevedibilmente - nei consueti concetti di Jomini, esplicitamente citato: si ammette generalmente che la scienza militare si compone di due branche, la strategia e la tattica; l'una che immagina, combina e prepara le operazioni militari; l'altra che esegue con delle disposi-
ioi 105 106
Paris, Anselin 183 1.
ivi, pp. 10-11. Paris, Lavauzelle (senza data), Voi. V p. 5.
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zioni, dei movimenti, in una parola con i mezzi di azione che le sono propri, le operazioni fissate dalla prima.
Naturalmente anche per Jablonski i principi della strategia risultano dallo studio delle guerre passate, dalle campagne dei grandi capitani ecc .. Il primo di questi principi, «che sembra banale tanto esso è semplice, è che bisogna essere il più forte, ovvero, per parlare con linguaggio dotto, che bisogna portare e mettere in azione sul punto decisivo del teatro di guerra dove ci si batte tutte le forze disponibili, per assicurarsi la superiorità sull'avversario». 107 E altrettanto naturalmente, il suo concetto dì logistica nonostante tutto riprende alla lettera quello del Jomini di parecchi decenni prima e sfuma nel campo della tattica, anziché essere parte importante de11a strategia. In particolare si indica con il nome di tattica l' insieme delle conoscenze [dunque: anch'essa è solo scienza? - N.d.a.] necessarie per far muovere e combattere le truppe [oggi si dice qualcosa del genere per la logistica - N.d.a.]. La tattica studia le caratteristiche delle diverse Armi e determina, sulla base di queste caratteristiche, le regole da seguire per organizzarle, farle agire insieme, disporle, per farle vivere, muovere, stazionare e combattere nelle condizioni più vantaggiose. Alcuni autori non comprendono sotto il nome di tattica che i principi relativi al combattimento [e le battaglie? - N.d.a.] e chiamano logistica l'insieme delle regole afferenti al movimento delle truppe.108
Dunque non risulta definitivamente risolto, a fine secolo XIX, il contrasto tra coloro che il comandante Mordacq nel 1912 chiama i dottrinari (i cui capi-stipite sono, inutile ripeterlo, Jomini e l'Arciduca Carlo) e gli ideologi ( il cui capo-stipite è natural mente Clausewitz). 109 Scrive in proposito il Jablonski: se la scienza (sic) della tattica non offre affatto delle regole assolute, suscettibili di fornire a colpo sicuro una soluzione favorevole al combattimento, essa stabilisce nondimeno certi principi fondamentali la cui conoscenza è indispensabile per diminuire le conseguenze dell'imprevisto, la cui influenza è così grande in guerra. L'essenziale è che questi principi siano i medesimi per tutti, vale a dire che, in uno stesso esercito, il modo di recepirli e applicarli non di107
ivi, p. 51.
108 ivi, 109
p. 42.
Commanclant Mordacq, Op. cii.. p. 37.
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penda dai diversi punti di vista. Questa opinione, che appare giusta, si manifesta nella maggior parte delle opere pubblicate da ufficiali. Pressoché tutti ritengono necessaria una regola ufficiale, una istruzione per il combattimento, una guida comune e tale da suggerire dei principi uniformi. Essi pensano che devono essere stabilite delle regole e che gli ufficiali devono studiarle, perché né il caso né l'esperienza saprebbero ispirarli sul campo di battaglia 1..• ] Altri si oppongono a queste idea di «regolamentare la battaglia» e temono che dei principi ufficialmente stabiliti nuocciano alla riflessione personale e allo spirito d'iniziativa. Essi pensano che nulla possa sostituire l'esperienza della guerra e che l'ispirazione fa vincere tutte le battaglie. 110
Da queste considerazioni del Jablonski - tipicamente jominiane - si desume che ai suoi tempi il contrasto tra arte e scienza della guerra è ancora aperto. Lo dimostrano anche le affermazioni del Mordacq, che per conto suo fa una scelta precisa: la strategia «est bien un art», perché il termine di scienza implica l'esistenza di un certo numero di leggi che, applicate a degli eventi o fatti che si verificano in circostanze analoghe, provocherebbero sempre rigorosamente i medesimi risultati: di qui l'espressione scientifico/a. L'arte, al contrario, ha anch'essa la sua teoria che è basata su alcuni principi più o meno immutabili, ma che, in ogni caso, -applicati nelle medesime circostanze possono produrre effetti molto differenti. 111
Parlando di Jomini, il Mordacq ne riconosce i meriti ma ammette anche che «come capo dei dottrinari, egli è caduto nella maggior parte degli errori dianzi segnalati». 112 È sintomatico il fatto che il Mordacq alla vigilia della prima guerra mondiale si occupi ancora di certi problemi, debba ribadire concetti che oggi sembrano pressoché scontati: ma come egli stesso fa notare «a malapena dieci anni fa [cioè all'inizio del secolo XX - N.d.a.] nelle conferenze fatte agli ufficiali del 3° anno della Scuola di Guerra francese si osava appena pronunciare i termini di strategia e di dottrina strategica». 113 In conclusione, nel 1912 vi è ancora chi, come lui, tenta la stessa opera di chiarificazione nel campo strategico che all'inizio del secolo XIX avrebbero voluto fare i principali teorici europei, a cominciare da
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J. Jablonski, Op. cìt., Vol. V pp. 43-44. Commandant Mordacq, Op. cii., p. 18. 112 ivi, p. 41. 111
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Jomini e da Clausewitz. E se in Italia lo studio de11a strategia nella Restaurazione è appena agli inizi, rivela seri limiti e si dibatte tra molte difficoltà, lo stesso Mordacq afferma che «in Francia è relativamente nuovo e di conseguenza le nostre biblioteche sono assai mal fornite, soprattutto in que11o che concerne le opere straniere; di qui l'imbarazzo del debuttante».114 Nemmeno l'esercito francese del 1912 ha una dottrina strategica, visto che egli aggiunge: «noi siamo tra coloro che non domandano niente di meglio che di vedere il nostro esercito - che attualmente già possiede una dottrina tattica - dotarsi ora di una dottrina strategica .... ».115
Così stando le cose, non ci pare giusto accusare l'esercito piemontese del 1848 di non avere una ben definita teoria e dottrina strategica. Forse era in migliori condizioni, sotto questo aspetto, l'esercito austriaco, i cui generali seguivano gli ammaestramenti del!' Arciduca Carlo?
113
ivi, p. 13. ivi, p. 6. 11 5 ivi, p. 5.
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CAPITOLO X
TEORICI «LAICI»: LA GUERRA ELA SUA STORIA SECONDO LA SCUOLA LOMBARDA DEL «POLITECNICO» (ANDREA ZAMBELLI E CARLO CATTANEO) E IL PUNTO DI VISTA DI UN PIEMONTESE (CESARE CANTÙ)
Generalità: ruolo e caratteri generali del pensiero «laico» L'esistenza nel periodo di scrittori militari italiani - o di letterati e politici che si occupano anche di cose militari - i quali non scrivono ad uso interno o per gli ufficiali e generalmente trascurano i parlicolari tecnici de11a tattica, de11'organica ecc., è di per sé dimostrazione di un cospicuo risveglio. L'interrogativo da sciogliere è uno solo: quando, c.;ome e in che misura gli autori «laici» che ora esamineremo si discostano dagli «scolastici»? qual'è, di conseguenza, il concetto che essi hanno della strategia, della tattica, degli ordinamenti e dell'esperienza napoleonica? che cosa ricercano, in genere, nelle guerre del passato? quali sono le peculiarità delle loro teorie, tenendo ben presente che essi non necessariamente sono sostenitori di strategie «alternative» come la guerriglia o la guerra «nazionale» o di «popolo», tale cioè da coinvolgere l'intera popolazione e da non essere solo affare di eserciti che si scontrano tra di loro? Con i loro libri che trattano della guerra e della sua storia (pubblicati rispettivamente nel 1839 e 1846), ricoprono un ruolo centrale tra i laici Andrea Zambelli e Cesare Cantù, ambedue digiuni di esperienze militari dirette (fatto da ricordare, anche se non necessariamente diminutio capitis). Accanto ad essi va ricordato Carlo Cattaneo, «maftre à penser», uomo dai molteplici interessi e dalle vedute cosmopolite che tuttavia non dedica opere di pari impegno a1 settore militare. Tutti e tre questi tipici intellettuali - tra i maggiori del loro tempo - intendono penetrare i] fenomeno guerra e inserirlo nella storia dei popoli. Non trattano specificamente, di strategia e/o di dottrina e arte militare; ma anche con titoli che - come guerra e milizia - sono semplici, tragici, vecchi e a1 tempo stesso nuovi, affrontano un problema che da sempre è all'ordine de] giorno, se non altro in contrapposizione a quello della pace; e non vi è dubbio
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che l'esame in una sede specifica di un siffatto argomento è di per sé già indicativo dei fermenti dell'epoca. Se questo tema è affine agli interessi dello Zambelli, professore di scienze politiche a Pavia, lo è assai di meno per il Cantù, clericale e conservatore lombardo di tendenze federaliste, anche poco amante del dominio austriaco in Italia (ma altrettanto poco amante del dominio piemontese). Dal canto suo, Carlo Cattaneo non si limita a recensire e commentare ampiamente il lavoro del suo amico Zambelli, ma da economista e filosofo come ama chiamarsi, non può ignorare i sottofondi militari dell'economia, della politica, del commercio e delle relazioni tra Stati. In una più vasta prospettiva, tra lo Zambelli e il Cattaneo, il Cantù e gli altri «laici» esistono profonde differenze. Con il Cattaneo, lo Zambelli rappresenta e riassume la parte di più diretto interesse militare di quella grande impresa culturale che è il Politecnico, rispetto alla quale il Cantù assume una propria autonoma posizione. I rimanenti scrittori militari «laici» - pur di varia origine - si differenziano, invece, principalmente per la loro ostilità o meno ai grossi eserciti permanenti di pace.
SEZIONE I - Il pensiero di Andrea Zambelli: tra materialismo antistorico e spiritualismo storicizzante La rivoluzione dell'artiglieria nei tre libri sulla guerra (1839)1
Questo lavoro dello Z. ha l'ambizione di ripercorrere l'intera storia dell'umanità, vista essenzialmente come storia di guerre. Si divide in tre libri, ciascuno corrispondente a diverse epoche: Libro Primo Dalle guerre antiche fino alla scoperta delle artiglierie, Libro Secondo Della invenzione delle artiglierie e dei loro effetti fino alla guerra dei sette anni [1756-1762, con protagonista Federico Il - N.d.a.J, Libro Terzo Degli effetti delle artiglierie e nelle guerre degli ultimi tempi e di alcune questioni che le riguardano. Notiamo subito, dagli stessi titoli, l'approccio tendenzialmente positivista e «materialista» dell'autore, che vede nell'evoluzione del materiale di artiglieria - non tanto della tecnologia - il motore de11e trasformazioni dall'arte della guerra, senza preoccuparsi minimamente dei fattori sociopolitici che hanno così gran parte ad esempio nel Blanch e nel Clausewitz.
1 Delle differenze politiche fra i popoli antichi ed i moderni - Parte prima la guerra - Libri tre di Andrea 'Zambelli, professore ordinario di scienze e leggi politiche nell"/.R. Università di Pavia, Milano, Presso Santo Bravetta 1839.
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Nel proemio, in polemica con un certo Melchiorre Delfico di San Marino (da lui definito «scrittore di qualche nome nella pubblica economia») egli rivendica l'utilità della storia, vera magi.stra vitae prima di tutto per il politico, perché essendo la politica «un rimedio al1' imperfetta e talor v_iziata natura dei popoli», i quali senza il freno dei governi non saprebbero costruire un ordinato vivere civile, «è appunto mestieri il conoscere questa umana razza, come ce l'offre l' esperienza del passato, con tutti i suoi vizi e prove, tende nze e torbidi umori». Infatti come al medico nulla gioverebbero le teorie senza la cognizione dei temperamenti e delle loro molteplici varietà, parimenti lo statista non verrebbe a capo di niente cò suoi principi astratti , dove gli storici non lo ammaestrassero delle varie forme che assume l'umana natura col variare delle società, dei climi, delle maniere d'industria e del vivere, e delle vicende ora liete ora tristi che si successero su questo immenso teatro del mondo, e quali frutti abbiano prodotto le passioni posta a riscontro di consimili interessi e di circostanze pari, da cui dedurre si possa una somiglianza di provvedimenti per la somiglianza dei casi.2 • Naturalmente questo approccio pratico vale anche per la storia militare, per la quale lo Z. non introduce _d ei «distinguo» rispetto alla storia politica e alla storia in generale. 11 suo obiettivo non consiste nel dimostrare l'utilità della storia - cosa che hanno già fatto in molti - bensì nel mettere in evidenza «alcuni errori dei politici nelle applicazioni storiche». A tal fine, egli respinge decisamente - in nome del progresso sociale e tecnico - il ritorno al classicismo, all'antichità greca e romana che è così frequente all'epoca anche in fatto di storia mi li tare, se non altro per ragioni morali e per esortare gli italiani ad essere degni del loro grande passato. Ne consegue una condanna indiretta, ma chiara, per coloro che - come Jomini, lo stesso Napoleone e tanti altri in Italia e altrove - sostenevano l'immutabilità e l'immanenza dei principi della guerra, da trarre dalle gesta dei grandi capitani: pochi sono infatti i trattati o di guerra o di politica o di economica, nei quali non si confondono i tempi antichi coi moderni, allegandosi del pari l'autorità di Aristotile e di Montesquieu, l'esempio di Alessandro Magno e quello di Federigo di Prussia, quantunque fra
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ivì, Voi. I Libro I, p. 8.
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gli uni e gli altri scorra l'intervallo di duemil'anni, in cui diversificaronsi le armi, le constituzioni, i modi di pensare, e la tempra degli animi. L'invenzione della polvere d' archibuso, il trovato della bussola, quello della stampa, ed alcuni altri accidenti introdussero siffatte variazioni nella provianda, nella ricchezza, nella civiltà e nei bisogni dei popoli, che in molte cose i posteri non somigliano i loro prischi maggiori, né il costoro esempio si potrebbe in parecchi casi produrre inanzi a conforto d' una moderna sentenza.3
Da questa confusione di età e di sistemi hanno origine - nota lo Z. controversie e opposte tesi su argomenti di importanza fondamentale. Akuni vorrebbero gli eserciti poco numerosi e ordinati sull'esempio della legione romana, «che promuoveva e rendeva necessaria la virtù individuale del soldato», e altri, al contrario «fanno risultare dalle masse ogni vittoria». E in campo politico vi è chi sostiene il municipalismo e chi invece, «acciò meglio si effettui l'avanzamento delle scienze e dell'industria» auspica l'unità dei popoli, in modo che «progredendo gli uomini verso la perfezione sociale scompaia dal mondo il barbaro diritto della spada e vi sottentri l'impero della ragione». Una tematica quanto mai attuale, come si vede anche da osservazioni come questa: «quale degli scrittori teme un ritorno alle barbarie o per invasione di genti rozze e strane o per una sorda Le n<lenza degli Stati alla dissoluzione del buon vivere civile; quale afferma, dover essere oramai un invariabile ordine di cose il progresso della civiltà».4 In tutti i casi, gli autori basano tesi così diverse non tanto sul ragionamento e sulla speculazione filosofica., ma principalmente sugli esempi storici, «dove trovano materie per ogni contraria dimostrazione». Dopo questo duro colpo all ' universale uso, e anzi abuso, dell' exemplum historicum, lo Z. affronta il problema del confine tra età antica e moderna, tra le quali bisog na eliminare la confusione. Per il politico, tale confine va collocato tra la fine del secolo XV e l'inizio del secolo XVI, «giacché in quel tempo cominciarono a produrre gli effetti loro le armi da fuoco, la bussola, la stampa; in quel tempo Vasco de Gama scoperse le Indie Orientali, Colombo l'America; allora sulla rovina dé piccoli Stati vennero a costituirsi le grandi, ricche e potenti monarchie». Ma la rivoluzione iniziata allora non poteva compiersi in breve tempo, «onde ci verrà fatto di vedere, com' essa giungesse a maturarsi soltanto nel secolo XVTTT, quando in effetti nacque la strategia, fu ridotta a principii la poli-
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ivi, pp. 9-10. ivi, p. 11.
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tica e l'economica, e si fecero i codici degli Stati più civili d'Europa; e come poi codesta rivoluzione nel nostro secolo [cioè nel secolo XIX N.d.a] affatto si compiesse».5 Con queste premesse generali che già la caratterizzano, l' impostazione dell'opera dello Z. mostra parecchie affinità con l'accentuato evoluzionismo dei Nove Discorsi del Blanch (che lo precedono di c irca sette anni e che sono da lui spesso citati), ma da essi si discosta per il ruolo sempre centrale che nei mutamenti dell'arte della guerra lo Z. assegna alle armi da fuoco e all'artiglieria in particolare, a scapito delle altre trasformazioni politico-sociali e dei progressi della scienza in altri campi: io qui intraprendo a considerare la guerra soltanto dal lato dei cangiamenti che produssero in essa le armi da fuoco. Ne tratto la parte puramente militare, perché appunto in questa si effettuò la rivoluzione di cose, operata dalle artiglierie. E questo dico, perché alcuno non mi tacci dall'aver omessa la politica e la filosofia della guerra, che per vero non concernono il nùo assunto. Le variazioni intru<lullt: nella milizia dall' invenzione e dal perfezionamento delle moderne arrrù; tali e non altro è il tema della prima parte del mio lavoro.6
In contraddizione con quanto affermato prima a proposito de i limiti e abusi dell'e.xemplum historicum, lo Z. vi fa un ricorso massiccio e più frequente di quanto avvenga nei testi di molti autori del tempo, perché «la natura dell'argomento, quale io lo espongo, dovrà indurmi per sé medesima a qualche ripetizione e talor anco a diffondermi nell 'allegare esempj e testi, perché in una materia contrastata un solo esempio, un solo testo potrebbe divenire un appicco a i contradditori».7 I contenuti del Libro Primo, nel quale si analizzano le guerre antiche fino alla scoperta delle ar.tiglierie, non sono che una dotta raccolta di e.xempla historica (pro e contro le tesi dell' autore) tratti dall 'antichità classica, i quali ruotano tutti intorno a un discutibile motivo centrale: i più celebri eserciti antichi, di Sparta, Atene, dei Romani ecc. erano poco numerosi, non perché non fosse possibile anche allora il reclutamento in massa, ma perché erano formazioni d'élite, nelle quali la scelta accurata del combattente era resa indispensabile dal fatto che le armi bianche diversamente da quelle da fuoco - richiedevano spiccate doti di robustezza, di coraggio e di abilità individuale, doti accoppiate all'amor pa5 6 7
ivi, p. 12. ivi, p. 14. ivi.
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trio che è stato una delle ragioni principali delle vittorie romane contro le milizie mercenarie cartaginesi, spesso numerose proprio per supplire alla loro debolezza morale. Come dice Vegezio, in certanime bellorum exercitata paucitas ad victoriam promptior est. La natura di quelle guerre era tale che dove le principali armi nostre, dico le artiglierie, prendono la forza loro da una causa estranea all'uomo, cioè dalla virtù espansiva della polvere accesa, ond' è atto a ben maneggiare il debole e il forte, per lo contrario le principali anni degli antichi, quali erano le manesche, ricevevano le loro energie dal braccio che le trattava [...] Il valor personale doveva dunque ottenervi la maggioranza: da esso principalmente dipendeva il buon esito delle guerre, quello che ora dipende principalmente dalle masse, pel cui aumento viene ad aumentarsi la ricordata potenza chimica [... ] Oltre a ciò [... ] se modernamente per cagione delle artiglierie, di cui sono fatali i colpi, richiedesi nelle battaglie un coraggio di rassegnazione, il quale confondendosi con la disciplina può essere creato e mantenuto dovunque, perché ogni nazione, ogni persona è disciplinabile, anticamente in quella lotta contro il pericolo, che il valore potea stornare o diminuire, ricercavasi invece un coraggio d'impeto o eroico che vogliam dirlo, ad avere il quale facea di mestieri una singolare disposizione di corpo e d'animo [...] ne consegue necessariamente che nel tempo antico i piccoli eserciti erano più acconci a riportare la vittoria, ammettendo di lor natura i grandi un gran numero d'uomini, privi di vocazione militare e di qualità eroiche e atletiche [ ...] consistendo al dì d'oggi la principal forza d'un esercito nelle armi da getto, le battaglie sono conseguentemente sparse e strategiche e vinte dalle maggiori masse.8
Mente nella storia moderna - prosegue lo Z. - «sarebbe difficile il trovare [... ] un esempio di giornata non compiuta e decisa per mezzo delle artiglierie», nell'antichità a poco servivano le macchine da guerra e le armi da fuoco. Un'altra discutibile tesi dello Z. - che discende sempre dalle caratteristiche della guerra degli antichi - è che quest'ultimi non avevano bisogno del1a moderna strategia e non la conoscevano, limitandosi alla tattica perché: «il combattimento [era] e capo e termine di ogni loro operazione»: 9 questo vale anche per i più celebri capitani, come Alessandro, Cesare, Annibale, Scipione [pur citati come esempi da Napoleone - N.d.a.]. In particolare i Romani
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9
ivi, pp. 18-19. ivi, p. 83.
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ignoravano la nostra strategia, non già perché non vi avessero attitudine, ché anzi a tutto mostraronsi atti quei dominatori del mondo antico, ma perché non ve li stringeva il bisogno, questa gran molla per far muovere gli uomini a chicchessia, senza la quale essi ordinariamente non si danno alcun lavoro d' importanza. Il modo di accamparsi tenea loro luogo dei concetti strategici, in cui quasi tutta si fonda la guerra moderna. 10
Come dimostrano le ultime guerre, Napoleone (da lui definito «il perfetto italiano») tagliando fuori dalle sue basi il nemico con una serie di movimenti preventivi lo ha costretto ad affrontare la battaglia in condizioni sfavorevoli, e magari ad arrendersi senza combattere, ma nelle guerre antiche come poteano essere occupati a qué preventivi movimenti i greci, che al dire di Carrion - Nisas, riponeano ogni merito militare nella sola tattica? Come venir separati dalla loro base i romani che l'aveano sempre appresso mediante i loro accampamenti? Poiché per la introduzione delle artiglierie dominò nella guerra il principio fondamentale delle masse [Nostra sottolineatura - N .d.a.] divennero argomenti di vittoria tutti quei militari concetti, per cui la più gran copia di quelle venga a trovarsi e ad esser posta in atto sul punto decisivo [Nostra sottolineatura - N.d.a.) 11
A sostegno di questa tesi lo Z. cita nomi illustri come Federico II, Guibert, Lloyd, il Blanch, il Grassi; citazioni non sempre a proposito, perché in questa occasione li Nostro dimentica la differenza fonda mentale tra strategia istintiva, praticata e reale e strategia parlata, teorizzata e scritta: quest'ultima effettivamente nasce a fine secolo XVIll. In particolare, la frase del Colletta «gli antichi non conobbero le teoriche della strategia» non esclude affatto che essi non conoscessero - almeno in parte - la pratica della strategia, figlia immancabile della politica e della politica militare (che sono sempre esistite). Se nell'età classica esistevano la politica e la politica estera, come poteva non esistere la strategia? Con questa interpretazione lo Z. - forse senza rendersi conto - entra in forte collisione con le idee di Napoleone e Jomini, perché presenta il principio della massa non quale prodotto dell'esperienza storica valido in ogni tempo, ma quale conseguenza de]]' introduzione de11e artiglierie: primo caso, questo, nel quale si fanno dipendere i mutamenti nei principi
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ivi, p. 80.
I I ÌVÌ,
p. 83.
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fondamentali deI1'arte della guerra esclusivamente dalla scoperta di un nuovo sistema d'arma. Un altro caposaldo dell'arte militare federiciana e poi napoleonica, fortemente ripreso da Clausewitz, è l'importanza determinante del Capo: ebbene, anche in questo caso lo Z. ritiene che, senza voler mettere in discussione le doti di Alessandro, di Cesare e di tanti illustri comandanti, «la fama, se non di tutti, per lo meno di parecchi di quei condottieri [è stata] soverchiamente ingrandita da chi ne scrisse dapprima, e quindi con troppa fiducia in altri posteriori ritratta». Perciò tenendo la via cli mezzo fra chi nulla crede e chi tutto crede io non dubito di affermare, essere stati i capitani antichi esperti e valenti per quanto il consentiva e il ricercava l'età, ed aver essi contribuito alla vittoria, sebbene non così principalmente, come il valore dei combattenti INostra sottolineatura - N.d.a.]. 12 Né lo Z. condivide la tesi che fin dall'età classica l'arte deI1a guerra sia piuttosto una scienza fondata su massime certe, e non sfugge alla sua critica un «mostro sacro» dell ' arte militare del XVIII secolo, tanto lodato da Jomini, come il maresciallo Puységur: non piace al maresciallo Puységur, che Vegezio nella prefazione del libro terzo faccia consistere l'arte della guerra nella sola esperienza, e si studia di provare, esser quella non già un affare di mera pratica, non un mestier materiale, bensì una scienza fondata non meno di ogn'altra sopra massime certe: ma il buon maresciallo, parecchi errori del quale furono già notati dal conte di Sassonia e dal Guibert, non avvertiva, che Yegezio scrisse non altrimenti che avrebbe scritto egli pure, se avesse vissuto in qué secoli, e che il volerlo far parlare differentemente era quasi un volerlo trasportare a forza fuori del tempo suo. 13 Un ultimo corollario della tesi che nelle guerre dell' antichità il valore individuale aveva la meglio sul numero, è la risposta che lo Z. dà al quesito «se i denari fossero anticamente il nervo della guerra». Anche qui, una cesura netta tra l'età antica e la moderna: «le ricchezze, precipua causa oggidì della buona riuscita delle guerre, non l'erano prima del secolo di Carlo V Imperatore, anzi per poco stava che non vi riuscisse dannosa, come i fatti ne dettero chiara prova». 14 Infatti il valore indivi12
ivi, pp. 65-66. ivi, p. 93. 14 ivi, pp. 102-103.
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duale indispensabile per vincere si trovava molto più facilmente tra i popoli poveri, che non avevano nulla da perdere, piuttosto che tra i popoli ricchi e rammolliti dal lusso e dagli agi. Lo Z. conclude con il famoso detto di Machiavelli nei suoi Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio: «Non l'oro ma i buoni soldati sono il nervo della guerra, perché l'oro non è sufficiente a trovare i buoni soldati, ma i buoni soldati sono bene sufficienti a trovar l'oro. Ai romani, s'elli avessero voluto fare la guerra più coi denari che con il ferro, non sarebbe bastato avere tutto il tesoro del mondo, considerato le grandi imprese che fecero e le difficoltà che vi ebbero dentro: ma facendo le loro guerre col ferro non patirono mai carestia dell'oro, perché da quellj che li temevano era portato loro fino nei campi». 15 Le considerazioni di fondo che ispirano il libro primo valgono per tutti e tre i tipi di guerra che lo Z. considera (di campagna, cioè hasata su scontri in campo aperto; d'assedio e marittima). Ci riserviamo di trattare quest'ultima nel capitolo ad essa dedicato; in .q uanto alla guerra d'assedio (cioè all'attacco e alla difesa di fortezze e città fortificate), an-
che in questo caso per lo Z. il suo vero progresso è iniziato con l'introduzione delle artiglierie. L' interpretazione riduttiva degli ammaestramenti delle guerre dell'età classica e del ruolo dei condottieri più famosi dell'antichità farebbe pensare che lo Z. ha un concetto dell'arte della guerra e delle sue parti componenti meno dogmatico e «scientifico» di quello degli scrittori coevi italiani e stranieri, tutti più o meno portati a non creare cesure e steccati nell'esperienza storica, accostando Annibale e Cesare a Napoleone e sostenendo l'immanenza di principi e regole. Invece, dopo aver minato le matrici originarie del loro pensiero lo Z. - ed è una vera delusione - aderisce come tutti con piena convinzione, senza porsi problemi di coerenza con quanto afferma in altre parti dell'opera, alle teorie «storicistiche» di Jomini e dell'Arciduca Carlo e, in particolare, al concetto tendenzialmente scientifico di arte della guerra e della sua ripartizione che troviamo nel Grassi (e nel suo amico Colletta). Rimandiamo pertanto a questi autori, con la sola avvertenza che lo Z. ha almeno il merito di non indicare la castramentazione - così importante per i romani - come parte dell'arte della guerra, 16 e di invitare il lettore a non confondere la strategia con gli stratagemmi. A suo giudizio, le battaglie dell'antichità più facilmente potevano
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ivi, p. 125.
16
ivi, pp. 75-76; 83-85; 90-91.
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essere date e ricevute, perché in esse non vi era «quella infinita varietà di posizioni e di circostanze, di cui sono cagione in moderno le batterie, le marce, e le masse multiplicate per la celerità delle mosse». 17 Certi stratagemmi che nell'antichità riuscivano tanto efficaci, ora non hanno più effetto o hanno effetto minore, mentre anche la tattica nei combattimenti antichi non aveva la stessa importanza del valore delle truppe. Il Libro Secondo - traboccante di exempla e di richiami ad autori europei, soprattutto francesi, del secolo XVIII - non è che ulteriore dimostrazione e approfondimento del concetto - base che «armi, ordinanze, evoluzioni e strategia, tutto ciò procedette di pari dopo il trovato della polvere; col migliorare delle bocche da fuoco migliorarono le altre cose; vennero queste in eccellenza poiché furon quelle condotte alla perfezione; ché sempre al1e cause corrispondono gli effetti, e i secondi in bene avanzano sempre ché progrediscono le prime. Verso la metà del secolo passato fu compiuta questa grande rivoluzione della milizia in rispetto alle guerre di campagna, come era assunto mio di dirnostrare». 18 Dove si vede che secondo lo Z. ormai tutto è fatto_ All'inizio del sec. XIX a suo giudizio si è raggiunta la perfezione, sia nelle armi da fuoco nella strategia: quindi l'evoluzione - chissà perché- tutt'a un tratto si ferma e in fatto di tecnologia c'è ormai ben poco da dire, anche se siamo solo all' inizio della rivoluzione industriale (ma questo, Io Z. non lo avverte). La nascita della strategia, e i progressi della strategia e della tattica dipendono sempre e unicamente dai progressi dell'artiglieria. Quando l'artiglieria ern poco mobile, e all'atto pratico una volta presa posizione non era più in grado di muoversi, le fanterie non sapevano eseguire rapide evoluzioni né mutare rapidamente gli ordini di battaglia: ma «quando l'artiglieria acquistò la richiesta efficacia o mobilità e quand'essa divenne perciò l'arma principale, detenninaronsi gli ordini e quindi le evoluzioni, dimostrandosi quindi e in pratica e in teoria e stabilendosi sopra ferme basi la gran massima di portare sul punto decisivo le forza maggiori, massima, che in moderno è il principio fondamentale della guerra». 19 II suo smodato amore per le artiglierie non induce, peraltro, lo Z. alla preveggenza, quando sostiene ad esempio che, nonostante i vantaggi che assicurano nella guerra marittima e terrestre, i razzi Congréve non hanno un avvenire, perché «qualunque siano i miglioramenti di quest' arme novella, è difficile immaginare, che la possa esser mai cosl utilmente 17 18 19
ivi, pp. 91-92. ivi, Voi. I Libro II, p. 212. ivi, p. 204.
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impiegata, come il cannone, l'obice ed il mortajo».20 E in base all'erronea convinzione che quando si impiegano le armi da fuoco non è pjù questione di valore personale, arriva a concludere che «non mi parrebbe da approvarsi la rinnovazione degli esercizi ginnastici, che utilissimi agli antichi per quella prevalenza del valor personale nelle battaglie, sarebbono a noi, non che inutiJi per cangiati elementi della guerra, nocivi, perché distrarrebbono i cittadini dalle arti e dalla mercatura, due delle odierne necessità sociali ....21 Inutili? Come se la capacità di compiere rapide evoluzioni, delle quali lo Z. riconosce l'importanza nella tattica moderna, fosse acquistata dagli eserciti solo per virtù propria, senza bisogno di addestramento; e come se le marce, che lo Z. afferma essere ormai ben più rapide e ben più importanti rispetto al passato e riconosce come componenti essenziali della strategia, non richiedessero accurata preparazione fisica e morale, oltre che accurato addestramento d' insieme ... Si potrà constatare in seguito che queste strane idee dello Z. non preludono alla formula dell' esercito di milizia. Ben tre capitoli del Libro Secondo (il V, il VI e il VII) sono dedicati alla guerra marittima. Li prenderemo in esame più nel dettaglio nel prosieguo dell'opera, e qui ci Hmitiamo solo a rimarcare che secondo lo Z. - non può essere una sorpresa - anche in questo caso l'artiglieria è la matrice unica e vera delle trasformazioni, a prescindere dai progressi dell'arte nautica, della metallurgia (corazze) e della propulsione a vapore. Nonostante il suo «modernismo» spinto all'eccesso, lo Z. ha almeno il merito di sgomberare il campo dalla contrapposta e ugualmente eccessiva tendenza - assai frequente negli autori militari coevi - a cercare «modelli» ormai superati nell'arte militare degli antichi: coloro che vogliono attingere la filosofia della guerra da quell'antica fonte, perché, siccome dicono, il popolo romano col terrore delle armi e colla forza dell'ingegno seppe trascinare dietro à suoi carri trionfali tutte le nazioni, dovrebbero insieme provarci, che adesso avrebbe tenuto gli stessi ordini e gli stessi sistemi ancor quando avessero conosciute le artiglierie. Io per me credo, che noll'avrebbe fatto, tanto è il concetto, in cui sempre ne tenni la civile e militare prudenza [... ] Per le quali considerazioni [ ... ] si fa ancor più manifesto, quanto importi allo studio delle scienze politiche e mili-
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ivi, p. 174. ivi, p. 230.
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tari il notare le differenze dei tempi: imperciocchè non può fare che non cada in gravi errori chiunque pigli per norma di guerra gli antichi, senza por mente alla diversa condizione delle loro anni e quindi dei sistemi loro[ ... ] La prima virtù di chi voglia farsi grande e potente sulla terra deve consistere nel conoscere l'indole del suo secolo, e, nell' essere tale qual esso richiede e così giungere a dominarlo.22
In questo modo, lo Z. non fa alcuna distinzione tra strategia (e grandi direttrici della guerra) e ordinamenti, modalità tattiche e criteri d'impiego delle forze ai minori livelli e nel combattimento. Più condivisibile il fiero colpo da lui inferto al culto della castramentazione, ancora ben vivo ai suoi tempi: come osserva il classico Bousmard, «la generazione delle armi moderne e l'ordine di battaglia che ne risultò non ci lascian più scampo né ad ammonticchiare le truppe in un sito di forma quadra, ove poln:bbero essere faci lmente bloccate, né a chiuderle dai quattro lati con un trinceramento che riuscirebbe debolissimo [per effetto dei tiri d'artiglieria - N .d.a. I, tanto sotto l'aspetto della forma quanto sotto quello del lavoro». 23
Ben delineata la nascita della strategia moderna, da lui attribuita a Federico li sia pure con poco opportuni richiami ai soliti concetti «scientifici » di inconfondibile de rivazione jorniniana: «la strategia, che fu dapprima un istituto di quakhe ingegno straordinario [ma allora, sia pure nei grandi uomini c'era - N.d.a.] e che poi venne sottomessa ad alcune regole (sic), prese in questo periodo di tempo un tale aspetto di certezza e di verità, che poteasi dire fondata sopra basi invariabili. Nasceva essa nell'alta mente di Federigo di Prussia [ ... ] Federi go [... I mostrò, che i movimenti di centomila uomini vanno soggetti a calcoli così semplici, così certi, come quelli di diecimila [...] Tutto ciò bastava certamente a fondare sovra basi sicure la scienza della guerra». 24 I requisiti delle fortificazioni moderne, molto diversi e molto più complessi rispetto a que lli delle fortificazioni antiche, risultano ben chiari dalle sue pagine. Di rilievo la molto discutibile svalutazione, anche in questo caso, del valore individuale, dell' animus dei difensori: «se in antico il valore era il principale propugnacolo delle assediate città, in 22
ivi, pp. 241-242. ivi, p. 205. 24 ivi, pp. 2 10-2 11. 23
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moderno la loro precipua difesa si ha da riporre nell'arte di fortificarle».25 Inoltre per difendere le città e le piazze occorrono più forze rispetto all'antichità, sia per la diversa conformazione delle fortificazioni, sia soprattutto perché, tranne qualche eccezione (Saragozza, Missolungi) non essendo oggidl guerriera nazione alcuna né pé suoi costumi, né per le sue costituzioni, e quindi non avendo gli odierni popoli che un certo numero di soldatesche fuori di cui lutto il resto dé cittadini è una moltitudine ignara della guerra e della militare disciplina e, fatte poche eccezioni, pronta a sottomettersi al vincitore, dove anticamente per le ragioni accennate nel primo libro il presidio di una città potea far fondamento a un bisogno sopra il concorso degli abitanti, in moderno non è quasi da farvi disegno. 26
Eppure, nel XX secolo i popoli avrebbero combattuto due lunghe e devastanti guerre ... Cattivo profeta in fatto di spirito combattivo dei popoli, lo Z . dimostra però un 'esatta comprensione tecnico-militare del ruolo delle fortezze: quando una fortezza situata in un punto strategico mi trattenga a tanto l'esercito nemico nella sua marcia, ch'esso non sia in tempo di separarmi dalla mia base d'operazioni; quand' essa riesca di tale efficacia che, assediata, impedisca perciò l'avversario dell'oppormi una forza numerica superiore o uguale della mia e dell' invadermi un 'estensione considerevole di paese; non assediata, gli interrompa le comunicazioni ed in caso non pure ch'egli sia battuto ma sì che riporti o un mezzo o dubbio successo lo molesti alle spalle, mi aiuti a tagliarlo fuori , a circuirlo, a distruggerlo; quand'essa finalmente nell'emergenza d ' una mia sconfitta possa tanto sostenersi da lasciarmi l'agio di ristaurare le mie forze e di essere soccorso, in somma di riavermi, sicché non dipenda dall'esito d ' una battaglia la sorte di un regno, o alla più trista mi faccia in qualche modo facoltà di cedere con patti onorevoli, io credo che sia conseguito quanto si può aspettare da una piazza d'armi. 27
Il Libro Secondo si chiude con una polemica dello Z. con il Blanch, il quale nel Secondo Discorso aveva scritto che gli uomini degli eserciti antichi erano superiori a quelli degli eserciti moderni, ma avevano armi 25
ivi, p. 2 16. ivi, p. 217. 21 ivi, p. 243.
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meno efficaci; tuttavia secondo il Blanch la superiorità delle armi moderne non andava attribuita solo alla scoperta della polvere, perché essa poteva essere fatta anche ne11' antichità, ma «questa scoperta stessa non ha dato tutti i suoi risultamenti, se non quando il progresso di tutte le scienze esatte e naturali l'ha secondata ne] suo crescere e perfezionarsi».28 Fatto sta - replica lo Z. - che gli antichi la polvere non la conoscevano; e se non si può mettere in dubbio che ogni scoperta abbisogna del progresso delle altre scienze affini per perfezionarsi, «l'impulso ai cangiamenti successivi è dato esclusivamente dalla scoperta stessa, non già dalle scienze, le quali soJtanto aiutano codesto impulso». Senza Ja scoperta della polvere d'archibugio, perciò, tutte le scienze del mondo non sarebbero bastate a «produrre _i miracolosi effetti de11e artiglierie».29 Inoltre l'invenzione della polvere non si è limitata a dare la spinta alle altre scienze per il suo perfezionamento~ ma dato che interessava un problema preminente come la sicurezza dello Stato, essa ha indotto i Principi a promuovere in tutti i modi gli studi che interessano l'arte militare anche a scapito delle altre discipline. Infatti «la fisica, la matematica, l'architettura militare e la marineria cominciarono a fiorire assai prima che non le scienze metafisiche e le economiche, queste nel secolo decimottavo, quelle nel diciassettesimo, alcune anzi nel decimosesto ... ».30 Due i motivi salienti del Libro Terzo, tutto sommato il meno interessante e originale, benché rif~rito ai tempi più recenti e alle guerre di Federico II e Napoleone: la convinta e totale adesione al]e teorie di Jomini («che non mi stancherò mai di citare», soprattutto per la sua interpretazione de11e guerre federiciane e napo1eoniche) e in questo quadro non può sorprendere - l'ormai consueto tentativo di dimostrare che l'artiglieria è stato il motore principale de11e trasformazioni. Non manca nemmeno l'omaggio di prammatica all'Arciduca Carlo, più volte citato e definito «maestro sovrano» senza ricordarne sconfitte e errori. Ma lo Z. è pur sempre professore in un'Imperia} Regia Università! Poco convincenti i tentativi dello Z. di dimostrare che gli ordini tattici della fanteria del momento - e in particolare i] passaggio da11'ordine profondo tipico dell'antichità classica all'ordine sottile - sono principalmente dovuti a11e nuove esigenze create da11'impiego de11'artiglieria, quando invece essi sono stati adottati prima di tutto per favorire l'impiego delle armi da fuoco individuali proprie, e rendere meno efficace quello delle armi da fuoco individuali del nemico. Né è sempre vero che «non da altro che 28
ivi, Voi. Il, Libro U, p. 91. ivi, p. 93. 30 ivi, p. 94. 29
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dalla natura delle armi prende regola e misura la composizione degli eserciti e gli ordini di battaglia».31 Le armi sono un fattore fondamentale: ma sugli ordinamenti influiscono anche fattori relativi al carattere, ai costumi, alle tradizioni, alla geografia e alla situazione politico-sociale dei popoli. Lo stesso Z., in proposito, mette in giusto rilievo il differente carattere degli inglesi e dei francesi, al quale corrispondono diversi ordini della fanteria in battaglia. Non molto preveggente anche la sua tesi che, ormai, «raro è che se ne venga alle bajonette o a simil battaglia manesca»: basteranno a smentirlo, di lì a pochi anni, le cariche alla baionetta di Garibaldi e della stessa fanteria piemontese. Ugualmente poco centrata è la previsione che «tutte le voci degli utopisti non ravviseranno la morta usanza delle tende»,32 perché il perfezionamento delle artiglierie ormai richiede che le truppe siano senza posa pronte a impugnare le armi, mobili e leste (ma è stata piuttosto la strategia di Napoleone, le cui tesi - a loro volta «datate» e ad hoc - a favore dell'addiaccio e contro le tende, che tra l'altro secondo lo stesso Napoleone «nun sunu sane», sono riportate dallo Z. a piè pagina). Lo Z. si chiede che cosa ha reso possibile la maggiore rapidità delle marce napoleoniche rispetto a quelle di Federico: su questo punto, egli si discosta - senza farlo notare - sia da Jomini che dall'Arciduca Carlo e da molti altri autori, sostenendo che le cause della rapidità delle manovre napoleoniche non vanno ricercate nella mancanza - voluta o meno di magazzini e organi logistici al seguito delle truppe francesi e nel loro sistema di vivere sul Paese. A tal fine, egli elenca tutti gli svantaggi del vivere sul Paese e dimostra che comunque «non si può far senza i magazzini e le salmerie degli abbondanzieri». 33 Questo perché un esercito moderno non ha bisogno solo di vettovaglie, e «il grande aumento degli eserciti e delle artiglierie, seguito dai tempi di Federico ai nostri, ha necessariamente prodotta una considerabile moltiplicazione di traini e carriaggi per le tante bocche da fuoco, e per vestire, corredare e armare tanta gente, onde la mancanza di tende viene compensata da altri cresciuti bagagli, che ricercano oggidì maggiori trasporti che non fossero per l' adietro, se pure non v'è qualcosa più di un compenso». 34 Lo Z. attribuisce invece la maggiore rapidità delle manovre in questione a due cause: la capacità di riunire le truppe sul punto decisivo o 3 1 ivi, 32
Voi. II, Libro ill, p. 105.
ivi, p. 134. 33 ivi, p. 120. 34 ivi, p. 121.
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di dividerle a seconda della situazione tipica di un condottiero che pensava in modo mirabilmente strategico, e il fatto che prima della rivoluzione francese l'artiglieria era scarsa, poco mobile e pesante. Ne conseguiva «l'impossibilità di ripartire le batterie in giuste proporzioni fra molti corpi divisi e di ottenere né traini una prestezza uguale a quelle delle truppe in marcia». 35 Inconvenienti eliminati nelle guerre di fine secolo XVUT, anche perché la mobilità dell'artiglieria e degli eserciti in genere è stata favorita dallo sviluppo delle vie di comunicazione: «sono esse, come ben dice il Carrion - Nisas, la maggiore e la più rilevante modificazione militare, che la civiltà odierna abbia introdotta nella topografia naturale». 36 Non può essere messa in dubbio la chiara tendenza di Napoleone a ignorare al bisogno le esigenze logistiche, in nome della rapidità delle mosse: la visione dello Z. pare dunque eccessivamente unilaterale, anche se meritano attenzione i suoi accenni alla maggiore mobilità dell'artiglieria napoleonica e al crescente peso logistico degli eserciti. Le masse di cittadini - soldati animati da entusiasmo patriottico, il genio napoleonico, le nuove condizioni spirituali e socio-politiche messe in rilievo da Clausewitz, per lo Z. hanno tutto sommato un ruolo assai limitato nelle trasformazioni della guerra a fine secolo: «il divario delle guerre di Federigo a quelle dé tempi napoleonic.:i [... ] non dipendeva soltanto dalle straordinarie virtù guerriere del gran capitano, bensì dall' avanzamento della strategia e dell'artiglieria, d'ond'ebbe quella l'origine. Nel qual progresso di cose la detta artiglieria ebbe principal parte non tanto per la influenza originaria, già più volte accennata, quanto perché sì vasti disegni di guerra, quali furono qué di Bonaparte e dé suoi nemici, richiedendo di lor natura enormi masse, grande efficacia, grande celerità di movimenti strategici, non poteano mandarsi ad esecuzione fuorché nel perfezionamento di essa artiglieria[ ... ] La strategia r...l rendendo più facili, più adatte alle capacità di parecchi, e quindi meglio anuninistrate e più corte le guerre, giovò alla milizia, giovò ai grandi interessi delle nazioni, giovò a11a umanità [... ] Le artiglierie pertanto, le quali creando la strategia (sic) fecero prevalere l'intelligenza alla forza fisica e al cieco coraggio, quelle stesse promuovendo poi il predominio di essa strategia sopra la tattica compirono la salutare opera nel modo testè accennato». 37
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ivi, p. J23. ivi, p. 132. ivi, pp. 164- 165 e 208.
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L'ultima parte del Libro Terzo e la conclusione sono l'elemento caratterizzante dell'intera opera, perché in esse l'autore si distacca dalla maggior parte degli autori «scolastici» e «laici» del tempo e dallo stesso Jominj su quattro argomenti-chiave: a) lo scopo della strategia, che deve riassumersi nella debellatio dell'avversario con una «guerra breve e grossa» così come indicavano Machiavelli e Montecuccoli, quindi più economka delle guerre lunghe; b) la necessità di mettere in campo, in guerra, il maggior numero possibile di forze, quindi non piccoli eserciti ma grandi eserciti aJla maniera napoleonica; c) la necessità di mantenere anche in pace buoni eserciti permanenti, al di là dei costi e degli inconvenienti che essi provocano; d) il carattere diverso delle guerre moderne, non più dissipatrici di ricchezze ma tendenzialmente più economiche e meno sanguinose delle antiche. Lo Z. marca troppo le differenze tra le guerre di Federico 11 e quelle di Napoleone. ln ogni caso, egli non concorda con il giudi zio negativo sulle guerre napoleoniche frequente ai suoi tempi: «Fcdcrigo e i suoi avversari, dice qualche utopista, volevano guadagnar vittorie colla minore strage possibile, dove né di uomini né di stragi si dava pensiero Napoleone, purch'ei vincesse; e questo chiamanlo perciò Attila moderno, quelli civili e prudenti capitani f... I il combattere e l'animazione non per altro fine che per tornare una altra volta a wsì fiero gioco e via dicendo, non è forse una maggiore offesa all'umanità che una grande uccisione ma di breve durata?». 38 La capacità di decidere la guerra in breve tempo arreca ai popoli un maggior beneficio che il protrarle nel tempo, e risparmia vite umane. E poiché è stato il progresso dell'artiglieria a consentire i progressi della strategia, «questo procedere risoluto e energico, infallibile indizio di sicuro consiglio e di potenza, furono altrettanti frutti anch'essi delle odierne anni, frutti ben degni di questa nostra già matura civiltà».39 Il ricorso a eserciti di massa anziché di élite, l'improponibilità nell'età moderna dei piccoli eserciti degli antichl secondo lo Z. è dovuto al fatto che, ormai, la potenza delle armi moderne fa consistere la forza degli eserciti nel peso delle masse e nella capacità strategica del capitano anziché nel valore individuale. Grazie alla prevalenza della strategia sulla tattica, le guerre moderne sono dominate dall'intelligenza e non più del valore: perciò sono divenute «più facili, meno incerte e più corte». 11 «coraggio della rassegnazione» che i soldati di oggi devono avere di
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ivi, p. 2} 2. ivi. p. 216.
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fronte alle anni da fuoco, è qualcosa che tutti possono acquistare con idoneo addestramento e idonea leadership. Quindi non è più necessario al tempo nostro in un'armata che tutti i soldati ne siano valorosi, bastando bene, che v'abbiano di provati uffiziali e sottouffiziali e un buon nodo di anziani agguerriti che vi creino e vi mantengano la disciplina e lo spirito di corpo.40 Ne deriva - anche qui - un'ennesima contraddizione rispetto aprecedenti posizioni tendenti a svalutare il valore del capo: «dove anticamente vinceva il valore contro capitani migliori, [... ] modernamente per l'opposto vincono i migliori capitani contro il valore».41 L'utilità di eserciti stanziali permanenti anche in tempo di pace, sostenuta dallo Z. contro i fautori degli eserciti di milizia, di cittadini - soldati, è sempre basata su quest'ultimi concetti. In merito lo Z. polemizza con il Filangieri, il quale nella sua Scienza della legislazione (vds. capitolo VI) dimostra con dovizia di exempla - peraltro esclusivamente tratti dalle gesta di molti condottieri celebri dell'antichità - che «niuno di questi conquistatori celebri ebbe mai l'idea di conservare in tempo di pace quell'esercito, ch'egli avea condotto innanzi all'inimico, durante la guerra. Il cittadino diveniva soldato allorché il bisogno lo richiedeva; e lasciava di esserlo allorché il bisogno finiva. Questa economia militare fu adottata in tutte le età e presso tutte le nazioni dopo il fatale esempio dei tiranni di Roma, e fu per la prima volta alterata nella Francia sotto il governo di Carlo settimo». 42 Lo Z. dirige i suoi strali sulla tesi del Filangieri che a maggior ragione nell'età moderna non c'è bisogno di mantenere costosi eserciti del tempo di pace, perché «oggi che la comunicazione dei popoli è universale; oggi che i principi hanno mille occhi stranieri che gli guardano; oggi che una nazione non può armare uno bastimento da guerra senza che l'Europa dopo pochi giorni ne sia informata; oggi, io dico, le incursioni istantanee, le guerre non prevedute sono mali che non ci sovrastano, e dai quali è inutile il garantirsi. Questo panico spavento non può dunque oggi autorizzare l'uso delle truppe perpetue».43 Lo Z. cerca invece di mettere in evidenza il rovescio della medaglia, le pesanti ricadute sociali, politiche ed economiche del sistema antico di
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ivi, p. 278. ivi, p. 230. ivi, p. 286. ivi, p. 293.
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fare di ogni cittadino un soldato, che ha sempre origine dal valore personale, dal coraggio eroico che richiedevano le armi antiche. Così i governi antichi «furono necessitati di educare i cittadini ad un genio armigero; il che si otteneva mediante i continui esercizj ginnici e militari, mediante gli spettacoli e le frequenti guerre». 44 E quando «non si curarono di informare la nazione a uno spirito militare» (così avvenne per i governi di Atene e Cartagine), si videro costretti ad assoldare milizie mercenarie, con tutti gli inconvenienti ben messi in luce da Machiavelli. L'educazione guerriera della popolazione - che era una necessità dei tempi - causava tumulti interni però da una parte era garanzia di libertà interna, e dall'altra veniva temperata dalla religione e soprattutto «riceveva un utile sfogo nelle molteplici guerre». Queste ultime non danneggiavano l'industria, l'agricoltura e le normali attività economiche, affidate quasi interamente agli schiavi. In tal modo «a ragione si può dire, che la schiavitù vi fosse ed effetto e causa di _guerra, siccome quella, che per una parte derivava dal fiero diritto del vincitore, per l'altra stimolava essa medesima a continue guerre i cittadini, i quali vi scorgevano un mezzo di aumentare il numero dei propri servi e perciò delle dovizie loro, e soprappiù oziosi, com'erano pel disdegno di far quello che faceano gli schiavi, trovavano inoltre nella guerra un'occupazione gradita».45 Più i popoli erano poveri, più erano aggressivi: la ricchezza nazionale veniva perciò considerata quasi ragione di decadenza, anziché di potenza. Con l'introduzione delle armi da fuoco, sono prevalse esigenze diametralmente opposte. La ricchezza e l'istruzione sono diventate «precipui elementi del vincere»; non serve più «rendere armigero tutto un popolo», sia perché il tipo di coraggio che richiedono le moderne guerre è differente da quello che richiedevano le antiche, sia perché «codesto genio bellicoso distoglierebbe le popolazioni dal far progredire mediante l'industria e i liberali studj le nazionali ricchezze e le scienze, nervi precipui ambedue del guerreggiar d'oggigiorno, e perché gli spessi tumulti di genti armigere troppo nuocerebbero a quella sicura quiete, cui ricercano naturalmente così l'industria come gli studj a volere che vadano prosperando».46 Per lo Z. gli eserciti stanziali e permanenti sono la formula anche economicamente più conveniente per far fronte al mutato quadro politico, sociale ed economico. Essi rispondono, in sostanza, al moderno princi-
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ivi, p. 268. ivi, p. 288. 46 ivi, p. 290. 45
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pio della divisione del lavoro, derivato dall'esigenza di «trovare un mezzo efficace, per cui la necessità d'una forza armata non venisse ad urtare con l'altra necessità di promuovere quelle cose che sono un elemento di essa forza, in breve un mezzo, per cagione del quale le abitudini soldatesche fra i soldati si contenessero, e il resto della nazione potesse alienare 1' animo dai costumi barbari e pensare tranquillamente a farsi ricco e ammaestrato».47 Il «coraggio della rassegnazione» oggi necessario in sostituzione del valore individuale può essere creato - in tutti - solo dalla disciplina; ma per creare e mantenere questa disciplina «ci vuole un buono e provato nodo di anziani. Tra questa e per l'antecedente ragione una milizia permanente si rende ormai indispensabile».48 Il Governo che impiega eserciti permanenti si trova un vantaggio su quello che impiega soldati improvvisati, perché «le qualità del soldato sono stabili quando sono prodotte da cause stabili». Segue un'appropriata elencazione dei vantaggi che assicurano forze permanenti: a tal fine si richiede lo spirito di corpo; l'abitudine della guerra per formare truppe agguerrite; soldati veterani da cui traggansi gli uffiziali; soldati avvezzi al fuoco che conservino perciò in battaglia la libera disposizione dé proprii sensi; la confidenza in ciascuno dé suoi compagni d' acme, onde nasce l'operare accordato, in cui sta veramente la forza e la vittoria; le quali cose non si ottengono che nelle genti stanziali: ed anche la guerra è un mestiere.49
Ciò non significa che lo z_ sia fautore di un esercito volontario e/o a lunga ferma: e al Filangieri che, come tanti altri, lamenta «le ingiuste leve e il perpetuo celibato delle milizie permanenti», egli obietta citando Foscolo e ricordando il savio modo che si tiene odiernamente, di far concorrere tutti i cittadini d'uno Stato alla difesa di esso mediante la descrizione [cioè l'iscrizione nelle liste di leva e l'arruolamento - N.d.a] di quelli che sono abili alle armi e in età militare; il qual modo rinnova la soldatesca in un certo numero di anni, lasciando però ad un tempo il nodo degli anziani e gli uffiziali che mantengono lo spirito di corpo, talchè si viene a conciliare la giustizia e il convenevole incremento della popolazione coi vantaggi d'un esercito stanziale».50
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ivi. ivi, p. 291. 49 ivi. 48
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Di conseguenza lo Z. boccia «il progetto delle guardie urbane o na-
zionali mobilitate» del Filangieri, il quale vorrebbe che tutti i cittadini atti alle armi dopo essere stati istruiti fossero iscritti in appositi ruoli, «con l'obbligo di difendere la patria in tempo di guerra e di tornarsene in tempo di pace all'aratro, ai mestieri, alle proprie case».5 1 A parte le ragioni prima esposte e quel1e politiche che impongono di mantenere truppe permanenti, il Filangieri - egli osserva - è in contraddizione con altra parte della sua opera, dove sostiene - come lo stesso Z. - che le nazioni moderne non amano più «i ginnastici e guerreschi esercizi»: amano invece la cultura e la ricchezza, «senza di cui oggi mai non si vince, né queste possono prosperare, anzi verrebber meno notabilmente, qualora i cittadini dovessero in tempo di guerra abbandonare le arti, l'agricoltura e il commercio, vere e sole fonti di stabili dovizie in uno Stato» [ma, allora, come si costituiscono e alimentano gli eserciti di massa? - N.d.a.). La soluzione proposta dal Filangieri, perciò, pregiudica sia la sicurezza interna che quella esterna: «e questa, pel difetto degli elementi accennati finora, e quella, perché da un canto non sarebbe senza grave pericolo il lasciare armata una sì gran moltitudine di cittadini, daH' altra la mancanza di eserciti stanziali potrebbe divenir funesta nel caso di turbolenza». 52 Per lo Z. vi sono anche molte altre ragioni per mantenere eserciti in tempo di pace: anzitutto, dal punto di vista politico «la reputazione del potere militare d'un monarca ne assegna il grado politico, procura un maggior carattere di onore à suoi ambasciatori, allontana dal suo Stato le guerre, ne rende efficaci le mediazioni, ambite e sicure le alleanze, e giova non meno alla sua che alla pace dell'Europa pel noto principio, che più ad un principe interessa di evitare la guerra e più dee porsi nell'attitudine di farla». 53 Per le stesse ragioni lo Z. non ritiene accettabili le tesi del Filangieri sull'inutilità di garantirsi da improvvisi attacchi di sorpresa da parte di nazioni vicine: il nemico verrà trattenuto più dalla certezza che lo Stato da attaccare è armato, che dalla previsione che potrà armarsi. E, in caso di sorpresa, in caso di mutamenti improvvisi dalla pace alla guerra, «come potrebbe il sovrano di una nazione moderna, che per le cose dette non può essere armigera, così in tempo educarla al mestiere delle armi, che prima non gli venga addosso la nemica piena?». È dubbio, per lo Z., che due o tre mesi di addestramento possano assicurare a un esercito la
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ivi, p. 295. ivi, p. 296. 52 ivi. 53 ivi, pp. 292-293. 51
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disciplina e lo spirito di corpo di cui tanto ha bisogno; e certo gli mancherebbero «l'assuefazione al fuoco, l'abitudine guerriera, la continuità del mestiere dell'armi, senza di cui indarno si spererebbe addestrare ed agguerrire i soldati».54 Non manca nemmeno chi -come il Say nel Cours complet d'economie politique et pratique - sostiene una via di mezzo, e dopo aver riconosciuto che l'arte militare richiede lungo studio e lunga pratica, vorrebbe che in tempo di pace siano mantenuti in piedi solo alcuni corpi scelti: ma lo Z. gli contrappone Beniamino Constant e il Montesquieu, ribadendo che non sta la forza degli eserciti in poche compagnie scelte, bensì nelle masse, le quali a volere che facciano effetto non basta che siano bene indirizzate, ma conviene che abbiano inoltre le soprascritte qualità stabili, create e mantenute dalle stabili cause, accennate anch'esse di sopra, e come ciò possa ottenersi nel progetto dell'economista francese, io noi so veramente. Gran caso, che sianvi di sommi ingegni, i quali vanno mulinando cotali progetti senza esaminarli minutamente da ogni lor lato pratico; un solo che ad essi ne sfugga è bastante a mandare in nulla ogni elaborato disegno.55
Carlo VII Re di Francia, criticato dal Filangieri perché per il primo in Europa ha introdotto gli eserciti permanenti, per lo Z. deve invece essere lodato, perché ha trovato il modo di rimediare sia «all'inettitudine guerresca della cavalleria feudale» che «ai disordini delle bande mercenarie, ad arruolar le quali costringeva i Re la imperfezione di essa feudale cavalleria». E con il nuovo strumento, oltre a liberare la Francia dal dominio inglese ha creato le premesse perché essa fosse «temuta e formidabile all'esterno» e ha preparato ai suoi successori la via per abbassare il potere dei feudatari, «molesto non meno ai popoli che ai monarchi».56 Un prevedibile corollario di questa interpretazione dello Z. è il suo giudizio sulle guerra tra Stati Uniti e Inghilterra 1775-1783 e sulla guerra nazionale spagnola 1808-1813, giudizio che ha molte analogie con quello di Cesare Balbo. Nella guerra d'indipendenza americana da una parte l'Inghilterra, nemica degli eserciti permanenti per non dare troppo 54
ivi., p. 194. ivi, p. 298. 56 ivi, p. 291. Carlo VII Re di Francia (1403-1461), detto anche il Vittorioso, incoronato a Reims nel 1429, entrò a Parigi nel 1437. Riprese agli inglesi le fortezze che questi avevano in Francia e creò un esercito permanente e la Gendarmeria. 55
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potere al Re, ha pagata le conseguenze della indisponibilità di una sufficiente quantità di forze terrestri di pronto impiego in grado di «porre il piè su quelle prime faville», faville che così si sono tramutate in un incendio che non è più riuscita a spegnere, come afferma anche i] Botta. E gli Stati Uniti, che per lo stesso timore di· rendere troppo forte il potere esecutivo non amavano gli eserciti stanziali, «se ne pentirono poi e loro amaramente ne colse nel 1815, ché appunto dal difetto di quelli procedette l'occupazione e l'incendio di Washington per opera degl'inglesi, come confessa l'imparziale Brakenridge». 57 E qui lo Z. riporta un passo della Storia della Guerra fra gli Stati Uniti d'America e l 'Inghilterra negli anni 1812-1813-14-15 (capitolo XVII) dello stesso autore: le milizie, acciò riescano utili, debbono già essere accostumate alle fatiche e ai pericoli della guerra; è mestieri che regni un sentimento di fratellanza tra i varj corpi, di cui si com1x.mgono; bisogna che i soldati conoscano i proprj capi e confidino in essi, perché loro ciecamente obbediscano; sul campo di battaglia la novità di quelle scene sanguinose, la mancanza di unione, la lentezza o anche la non esecuzione delle mosse ordinale dal generale, tutto tende a rendere le milizie cittadine, quand'anche fossero superiori di numero, poco atte a lottare contro antiche soldatesche, avvezze alle battaglie, le quali strette e ferme nelle lor file non maneggiano che per l'impulso di una sola volontà.58
La prospettiva del Brakenridge, così come quella dello stesso Z., è quella dello scontro tra eserciti in battaglie campali o «giuste», dove cioè sono pienamente app1icabili i principi napoleonici e jominiani della teoria della guerra: ma anche se le milizie improvvisate combattessero con i procedimenti tipici della piccola guerra o guerriglia, esse da sole non potrebbero aver ragione di eserciti regolari. In Spagna - egli ricorda - hanno fortemente contribuito alla sconfitta delle truppe francesi e potenziato la resistenza del popolo spagnolo una serie di fattori contigenti: a) l'impossibilità per Napoleone di concentrarvi tutte le sue forze, a causa de11a situazione europea, proprio quando siffatte guerre richiedevano e richiedono gran numero di unità regolari; b) la mancanza di una condotta unitaria della guerra da parte francese, perché Napoleone una volta lasciata la Spagna non ha nominato un unico comandante e ha lasciato che i suoi generali operassero ognuno per proprio conto; c) il genio
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A. Zambelli, Delle differenze ... (Cit.), p. 300.
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ivi.
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guerriero e l'energia di Wellington, il cui esercito sostenuto dalla flotta è stato «la causa principale del trionfo spagnolo». Nella guerra di Spagna Napoleone non ha dunque applicato - o non ha potuto applicare - il principio della massa, che invece è chiaramente prevalso sul fronte opposto, nel quale si vorrebbe che avesse prevalso solo il coraggio eroico delle popolazioni. La conclusione dello Z. ricorda quella del Blanch sullo stesso argomento: leviamoci dalla testa questa fantasia, che possa modernamente vincere una guerra il coraggio eroico di un popolo qualsiasi: vincerà quello in una mischia cittadina; ma in una campagna regolare rimarranno sempre al di sopra la tattica e la strategia; e le guerre, anziché in giudizio solenne e decisivo dei gran litigi politici, saranno sempre e in Tspagna e altrove una serie di inutili scempj, una fonte perenne di sdegni ognora rinascenti e di pubbliche e private sventure, finché una volta non vi si comprenda, che il coraggio d'impeto oggi mai non dee trovar luogo che fra i romanzi, e che la fiducia del guerriero e del politico deve porsi principalmente in qnel prin-
cipio fondamentale di ogni guerra, che sì di frequente io ricordo, e che risolvendola in poco tempo tronca il corso delle parziali zuffe di miseri capiparte, e cò suoi colpi mortali mena bensì grande strage e rovina nell'agitato paese, dove si ha da praticarlo, ma ben presto ancora vi riconduce la calma.59 Il motivo dei grandi costi morali, materiali e umani delle guerre nazionali e di popolo è ricorrente nei pensatori dell'epoca; assai di meno quello delle guerre brevi, chirurgiche e decisive, delle quali lo Z. è convinto assertore. Viene solo un dubbio: perché la guerra assuma la forma auspicata dallo Z. occorre un tacito accordo dei contendenti, nel senso che ciascuno deve mirare ad atterrare l'altro con pochi colpi rapidi e decisi vi. Ebbene, in Spagna Wellington contro le truppe francesi non ha cercato affatto il colpo decisivo, il suo scopo non è stata la battaglia dove si decideva il tutto per tutto, ma ha mirato a logorare i francesi con una strategia difensiva - controffensiva che si è rivelata la più produttiva per il suo Paese e la più nociva per la Francia, strategia nella quale si inquadrava l'unica guerra che gli spagnoli potevano ormai condurre con efficacia. Il punto è proprio questo: e se uno dei due contendenti non ritiene possibile o conveniente affrontare l'avversario in battaglie campali? se cerca di compensare l'inferiorità del suo esercito, o anche la mancanza di quelle artiglierie che premono tanto allo Z., ricorrendo alla
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ivi, p. 263.
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guerra di popolo? se ha convenienza a condurre una guerra lunga anziché breve? Le guerre moderne costano molto di più di quelle antiche: questo per lo Z. non è un limite o un vantaggio a favore degli antichi, ma al contrario è un fatto positivo, perché contribuisce a renderle più rare e più brevi. Mentre nell'antichità popoli e governi non si curavano più di tanto di accrescere la ricchezza nazionale, oggi Principi e nazioni anche per ragioni di sicurezza sono interessati ad accrescere le ricchezze e a sviluppare le scienze, base della guerra moderna; e se oggi spendiamo molto di più nelle guerre di quanto spendevano greci e romani, siamo anche molto più ricchi di loro. Sono inoltre venute meno le ragioni sociali ed economiche che spingevano gli antichi alla guerra, come unico rimedfo per trovare sfogo e lavoro alla popolazione esuberante, procurarsi schiavi e bottino ecc.. Invece i popoli moderni . che dalla qualità del loro guereggiare sono trattati ad amare e a promuovere l'industria e la cultura, le quali ricercano e attività e sicura pace, tra per questa ragione e perché mediante il soccorso di tutte e tre le industrie [sta per attività principali: agricoltura, industria e commercio - N.d.a.] non hanno quella sproporzione fra la popolazione e i mezzi di nutrimento, procacciano di ottenere di buon grado quanto gli antichi ottenevano colla violenza, c di impegnare l'interesse degli altri popoli a consentire ciò che conviene al loro proprio. Il commercio prese quindi il luogo della guerra; e questa non fu più il mezzo ordinario di acquistar territori e ricchezze, bensì quello di far valere i diritti delle nazioni e di proteggerne gli interessi; i quali, perciocché di tempo in tempo verranno pur sempre in collisione, sospingeranno conseguentemente ancora gli uomini alla guerra, ma non guerra d'invasione e di rapine, bensì guera giusta e ragionata, quale la richiede il vero diritto delle genti. Pertanto lo spirito di conquista, da qualche straordinario esempio in fuori, non è più proprio degli Stati moderni I ... j. Per la medesima ragione, siccome adesso la guerra è protettrice anziché distruggitrice, essa non è più cagione d'ignoranza e di miseria, come era anticamente, ma sì bene di sicura ricchezza, ed avendo, giusta ciò che sopra si disse, bisogno delle scienze, si lega strettamente al progresso di queste e le promuove.60
Un'altra conseguenza fondamentale di questo nuovo ruolo della guerra è che in antico - quando contava molto il valore personale - le
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ivi, pp. 302-304.
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nazioni più rozze, barbare e povere prevalevano su quelle ricche e colte; piccoli gruppi di facinorosi erano in grado di scatenare qua e là disordini e di resistere a lungo alla forza dei governi. Ma di fronte al prevalere del numero dei soldati, delle artiglierie, dell'arte strategica e dell'usanza degli eserciti stanziali poco possono fare anche le potenze di second' ordine, e ormai la forza militare, dalla quale ogni altra forza dipende, sta in mano di quelle, che gli statisti chiamano grandi potenze; e quindi oltre i vantaggi delle menomate sedizioni e del non poter più rinascere l'esempio di Roma, ne proviene un altro notabilissimo che pur non avevan gli antichi: esse grandi potenze, qualor siano e rimangano d'accordo in un comune interesse, possono in virtù della lor congiunta e irresistibile potestà far stare a segno i minori Stati, sicché con lor gare ed inimicizie non faccian noja e danno agli altri, possono comporne le interne ed esterne differenze, e così mantenere in pace il mondo, già troppo per lo addietro travagliato e sconvolto. 61
Parole che sembrano riferite alla realtà internazionale dell'ultimo decennio del secolo XX, quando invece sono state scritte oltre un secolo e mezzo prima. Si pone già chiaramente, in esse, il problema della pace perpetua e di un organismo sovranazionale che la assicuri. Problema che nemmeno all'inizio del secolo XIX è nuovo, e questo lo dice lo stesso Z., riconoscendo che «da oltre due secoli se ne ragiona» e citando in proposito l'Abate di Saint-Pierre (1713), Rousseau, Kant, Tracy.... Dopo le ottimistiche considerazioni sulla tendenza delle grandi potenze economiche a limitare le guerre e a controllare di comune accordo i punti di crisi, ci si aspetterebbe che lo Z. si schieri tra i sostenitori di questo o quel progetto di pace, visto che essa - a quanto egli sostiene - è un obiettivo possibile, ancorché non facile. Invece, in contraddizione imp1icita con quanto afferma solo qualche pagina prima lo Z. boccia tutte e tre le possibili soluzioni - di allora e di oggi - per assicurare la pace in Europa: una confederazione di Stati, un'alleanza delle grandi potenze (critica al Congresso di Vienna del 1815? giustificato scetticismo sulla durata e convenienza dei suoi obiettivi?), una monarchia universale. A suo giudizio, non potrebbe durare a lungo una Confederazione che abbia un congresso, forze armate, un tribunale e una finanza comuni, ai quali ciascun Stato contribuirebbe in proporzione alfe sue forze, capace di garantire i diritti di ognuno, di reprimere se necessario le sedi-
61 ivi,
p. 305.
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zioni, di giudicare le controversie e prevenire o stroncare azioni tendenti a turbare la pace. Infatti la guerra verrebbe temuta dagli Stati centro-europei, ma non daJla Russia, né dalla Gran Bretagna. La prima - già garantita da eventuali invasioni dal clima e dalla conformazione geografica - dall'adesione a una Confederazione europea non avrebbe che da perdere, perché per sfuggire a un pericolo che in casa non corre e non correrà mai, dovrebbe rinunciare alla propria indipendenza cara a tutti i Principi ma a maggior ragione a chi è più potente degli altri. La seconda, oltre che sulla sua grande potenza, può contare per la propria sicurezza anche sul mare che ne circonda le coste, e che - come ctimostra la recente esperienza storica - non può essere superato per effettuare sbarchi sulle sue coste. Inoltre una guerra sul continente ne favorirebbe gli interessi, perché rallentando l'attività economica dei contendenti, favorirebbe l'esportazione dei prodotti inglesi. Accanto all'omogeneità degli interessi che è il più essenziale dei requisiti, mancherebbe anche l'altro dell'omogeneità degli ordinamenti politici interni.con una mescolanza di repubbliche e monarchie, nella quale le repubbliche non tendono a ingrandirsi perché ingrandendosi aumentano i germi del loro disfacimento, e le monarchie al contrario tendono a ingrandirsi. Infine, perché una Confederazione duri occorrerebbe che gli Stati membri avessero più o meno la stessa potenza: ciò non avviene per l'Europa, dove Russia e Gran Bretagna hanno vasti interessi extra-europei, con notevoli possibilità d'ingrandimento. E il potere giudiziario, politico e militare comune non potrebbe non essere influenzato dagli Stati più forti ... Tant'è vero - prosegue lo Z. - che lo stesso Tocqueville, che pure ama tanto le Confederazioni, mette in evidenza gli inconvenienti che già si verificano nena Confederazione americana (tra i quali le discordie a proposito della schiavitù dei negri e della banca centrale), Confederazione che pure dovrebbe trovare mgioni di unione nella necessità di combattere il comune nemico e in una maggiore omogeneità dell'indole deHa popolazione, de11a lingua ecc. nei vari Stati. Un tribunale destinato ad arbitrare le controversie non potrebbe che decidere in favore de1le potenze maggiori; «senzaché, e questa è l' obbiezione che vale per tutte, se a quel fine il tribunale richiedesse d'un esercito le potenze, si può egli credere, domanderò col Say, che queste fossero per mandare le proprie genti e per fare le gran spese d' una guerra altrimenti che per l'interesse della politica loro? E se così è, chi prevarrebbe alla fine: l'utile particolare o il generale, la forza o la giustizia?».62 Le alleanze sono ancor di meno in grado di garantire la pace perpe62
ivi, pp. 312-313.
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tua: «come sarebbe strana utopia l'immaginare, che in una società, sia pure essa delle più civili e sagge, non fossero mai per sorgere controversie e litigi fra la molteplice complicazione degli interessi, dé contingibili accidenti e delle passioni, così i1 sarebbe non meno lo sperare codesta perpetua concordia fra gli Stati; i qua1i, per quanto cauti e prudenti gli abbian resi le passate esperienze, non ponno prevedere, non che prevenire, tutti i possibili casi di mutazioni di Principi e popoli e quindi del variare delle volontà e delle necessità politiche, né tampoco spogliarsi del natura1e desiderio di progredire ne11a potenza Joro».63 E siccome non si può impedire agli altri Stati di opporsi ag1i ingradimenti di uno o alcuni di essi, «non v'ha sapienza al mondo che valga a prevenire in ogni futuro tempo le guerre». Va scartata, infine, l'ipotesi di una monarchia universale, che è «la più chimerica di tutte, anzi una stoltezza, benché un grande conquistatore [Napo1eone - N.d.a.] 1a facesse nascere in mente a qualcuno ne] principio di questo secolo, e benché ai timori di qualche altro ne porga occasione la smisurata grandezza d'una odierna potenza» [l'Inghilterra N.d.a.]. Una monarchia unica non potrebbe essere imposta né con 1a forza delle armi, perché quella delle altre potenze collegate insieme da] comune timore sarebbe pur sempre superiore, né con guerre di sorpresa, rese impossibili dai moderni mezzi di comunicazione, dal commercio e da11a perfezionata strategia: né si potrebbe ricorrere a mezzi o procedimenti nuovi, perché oggi ]e nazioni europee civi1izzate sono in grado di imitarsi ben presto a vicenda. Lo Z. arriva a sostenere erroneamente che ormai c'è ben poco da scoprire nel campo strategico e dei materiali di artiglieria, perché «la strategia oggi mai perfetta e che tiene il luogo del1a tattica non è suscettiva de11e varietà di questa e a pochi conosciuti principii riducesi , talché si può variare nell' applicarli, ma non nel crearne». Anche la guerra è ormai giunta a un grado di eccellenza che esclude innovazioni importanti, giacché «i razzi Congréve e i cannoni alla Perkins [a vapore - N.d.a.] e quelli al1a Paixhans [con granate scoppianti - N.d.a.], tutti di secondario e non principale momento, hanno perciò appunto da loro medesimi dimostrato, non potersi ormai più effettuare nelle artiglierie un divario essenziale da ciò che le sono odiernamente».64 Dalle premesse sbagliate Jo Z. passa alle conclusioni giuste e quasi profetiche, se si pensa alla prima guerra mondiale: «Non potendo adunque alcun potentato avere mezzi esclusivi,
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ivi, pp. 3 15-316. ivi, p. 318.
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la resistenza o presto o tardi pareggerebbe lo sforzo; e qual' ora anche da prima ne avvenisse qualche brusco accidente, il tempo ristabilirebbe bentosto le cose, se non per ciascuno Stato in particolare, certo per la costituzione generale».65 Concludendo la sua opera, lo Z. definisce «una mera utopia» una organizzazione internazionale che assicuri la pace perpetua, ma al tempo stesso mostra di avere nelle magnifiche sorti, e progressive della causa della pace - e dell'evoluzione della guerra verso forme meno violente e più civili - una fede che la storia non ha mai giustificato, dimostrando invece che solo calcoli di convenienza o timori di ritorsione possono porre un freno al ricorso indiscriminato alla violenza: noi dobbiamo star contenti a quanto han fatto in pro delle odierne generazioni e le perfezionate artiglierie e la matura civiltà: la guerra fattasi oggimai una difesa piuttostoché un'offesa, protettrice anziché distruggitrice, amica delle ricchezze e delle scienze, cui prima era nemica; governi atti più assai che negli antichi tempi ad impedire le interne sommosse; governi, che in virtù dei progressi dell'economia politica sono intimamente persuasi dell'interesse che aver debbono tutte le nazioni ad amicarsi e ad affratel tarsi pcl fine della comune prosperità; governi mediante l'eccellenza, in cui è venuta la diplomazia, capaci, se non di annullarle, almeno di scemare non poco le guerre: sono vantaggi questi che bastano a sollevare l'età nostra sopra quante più fiorirono di civile prudenza e di politiche sorti. Ci sian essi assai;e del resto, facciam voti, perché la saggezza dé gran potentati, cui deve l'Europa una sì lunga parte, sortisca ancora per molti e molti anni il medesimo fine; ma non innalziamo le nostre presunzioni insino a ciò che si può ben desiderare, ma per la trista condizione delle umane cose non mai presumere di conseguire.66
Riassumendo, nella voluminosa opera sulla guerra risulta evidente l'eccessivo schematismo dello Z., che ricercando le differenze tra i popoli antichi e moderni individua delle cesure, delle soluzioni di continuità, diciamo pure dei progressi che spesso - lo constatiamo senza gioia - non ci sono. Parlare, proprio all'inizio delle grandi imprese e delle guerre coloniali europee del secolo XIX, di scomparsa dello spirito di conquista, della tendenza delle nazioni alla pace e a limitare i conflitti, a dimenticare lo spirito guerriero che nell'antichità permeava popoli interi,
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ivi. ivi, p. 319.
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esprime una speranza, un'utopia, dei tentativi o delle teorie, non la realtà della vita nazionale e internazionale. Forse che si possono giudicare come un buon affare, come «guerre protettrici» per tutti i popoli partecipanti, le due guerre mondiali del secolo XX? si può vederle solo come un'eccezione, un intermezzo? si può vedere in esse l'applicazione del principio della divisione del lavoro tra combattenti e non combattenti, o deUa tendenza a rendere brevi - quindi economiche anche dal punto di vista dei costi umani - le guerre? si può unicamente attribuirle a qualche genio del male, o a pochi uomini o popoli diversi? Tuttavia nella misura in cui anche oggi tanti terni da lui toccati sono sul tappeto, compreso quello della (sperata) limitazione delle guerre grazie alla prevalenza delle grandi potenze economiche e industriali, lo Z. è autore modermo, anzi del XX secolo. Egli pone il problema del rapporto tra il progresso della causa della pace e il progresso sociale, civile, economico e tecnologico, dando indirettamente delle risposte inquietanti. A distanza di tanto tempo, la sua tesi sulla progressiva limitazione di guerre o disordini in rapporto al progredire della ricchezza e delle scienze non risulta confermata, e anzi smentisce continuamente le differenze che egli vorrebbe accreditare - tra le guerre degli antichi e quelle dei moderni. Differenze che, del resto, egli stesso si incarica di smentire, quando dopo aver parlato a lungo dei vantaggi e delle limitazioni che arreca alla guerra il progresso economico e delle scienze, conclude (e qui non si può, finora, dargli torto) che tutti i progetti di assicurare la pace perpetua, tutti i rimedi escogitati dai politologi sono illusori e utopistici con questi puntini si può terminare una riga, non si può mirare (e fruire subito) l'ultima riga del capoverso. La tesi sulla prevalenza degli eserciti di massa e sulla insufficienza di quelli di élite. che vorrebbe essere moderna. risulta «datata» nella realtà sociopolitica di fine secolo XX, proprio perché si allontana sempre di più daJle società industriali avanzate - come egli stesso aveva previsto - lo spirito guerriero, e comunque prevale il rifiuto di accettare scontri sanguinosi di masse come quelli dei due conflitti mondiali. Teorizzare la guerra di masse, e al tempo stesso la scomparsa dello spirito guerriero nei popoli civilizzati, è una delle maggiori contraddizioni dello Z., perché quello che lui chiama «coraggio della rassegnazione» è pur sempre coraggio, derivante o da uno spirito guerriero latente, o da profonde convinzioni di ciascun soldato. Senza contare che le masse devono almeno mettere la divisa.... Stupisce anche che proprio un civile, un laico come lo Z. intenda interpretare la complessa realtà della guerra e della strategia moderna in chiave puramente tecnica e militare. Sotto questo profilo, non è del tutto vero che la strategia sia nata solo quando
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]o ha consentito i1 progresso della geografia e topografia, ché i Romani si veda la voce Topografia nel dizionario del Grassi - conoscevano la topografia e la cartografia (itineraria picta), e ne11'antichità non mancano illustri geografi. Né è vero che i Greci e i Romani non coltivavano la teoria militare, non la studiavano, non le davano importanza anche sotto l'aspetto teorico. Per ultimo, l'unilateralismo artiglieresco dello Z. lo rende un precursore delle tante teorie «materialistiche» del XX secolo che hanno visto di volta in volta nell'aeroplano, nel gas, neJl'arma nucleare, ne11e flotte di grandi corazzate o di carri armati la chiave per risolvere rapidamente e in maniera economica i conflitti, in tal modo sostanzialmente accreditando un dogmatismo de] quale Jomini è i1 capostipite e Clausewitz il principale avversario. Rimane peraltro merito non trascurabile dello Z. l'aver contribuito a svecchiare l'arte mi1itare, liberando1a da] ciarpame c1assico del quale sono vittime inconsapevoli molti autori del periodo. E la sua fede unilaterale nelle artiglierie potenti e mobili, madri di tutte le battaglie, e negli eserciti permanenti quali insostituibile strumento di sicurezza anche in pace, induce a riflettere su un ' altra e forse ancor più grave unilateralità concettuale: quella di coloro, che cadendo nell'eccesso opposto vorrebbero riferirsi esclusivamente a chiavi sociopolitiche nell ' interpretazione di strategie e ordinamenti, nelJa fattispecie facendo de11a preferenza per il cannone e dell'avversione per le varie forme di esercito di milizia, un riflesso della posizione politica e dello status (militare o civile) di ciascun autore. Ebbene, nessun mi1itare di carriera - né prima, né dopo lo Z. - ha mostrato di condividere la sua smodata esaltazione delle artiglierie come facitrici di storia.
Armi nazionali e dei cittadini: le considerazioni attualizzanti e contraddittorie sul «Principe» di Machiavelli ( 1840) L'opera sulla guerra fin qui descritta manca di un qualsivoglia ancoraggio nazionale: le considerazioni dello Z. valgono per tutti e si mantengono ne] campo puramente tecnico e scientifico. Ben altra è la sua prospettiva nelle considerazioni sul Principe del Machiavelli, che compaiono in due puntate sul Politecnico del 1840.67 Ci si trova di fronte a
67 Alcune considerazioni sul Libro del Principe di Machiavelli. del dott. Andrea 'Zambelli professore di scienze politiche de/l'l.R. Università di Pavia, «Il Politecnico» Vol. m - 1840, pp. 431-461 e 509-534.
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un'accorta difesa del Machiavelli contro i suoi denigratori stranieri (come Federico II di Prussia, il suo amico Voltaire e D. Stewart), nella quale lo Z. sposa senza incertezze sia l'essenza politica che quella militare della visione del Machiavelli: «La sua Arte della guerra, in cui non meno che nel Principe e nei Discorsi egli esorta i Governi ad avere armi proprie e buone fanterie, non rivela forse in lui la speranza di suscitare un futuro conquistatore italiano che soggiogasse tutti gli Stati d'Italia e la liberasse dalle invasioni straniere?». Già con queste parole lo Z. mostra di essere piuttosto lontano dal federalismo e di essere per contro assai vicino alle tesi militari del Filangieri, che pure - come si è visto - contesta nell'opera precedente. Chiosando Machiavelli, egli coglie l'occa'iione anche per condurre un'intransigente difesa dell' «immagine» politica e militare dell'Italia contro chi allora come oggi - vorrebbe accreditare degli abusati clichés. Del modello di Principe lo Z. ben coglie le dimensioni nazionali e unitarie: non si tratta di rinsaldare il trono per un tiranno ma di formare, come è avvenuto da tempo in Francia, un forte potere centrale, capace di debellare con tutti i mezzi i poteri feudali, locali e regionali in quanto fonte di disordini, soprusi, miseria, divisioni, guerre e rivalità senza fine, con il risultato di aprire le porte d'Italia allo straniero improvvisamente chiamato da una parte politica per aver ragione dell'altra. E dall'eliminazione dei poteri dei principi locali e delle nefaste influenze straniere il primo a trarre beneficio sarà il popolo, del quale il nuovo Principe italiano dovrà sapersi conquistare la benevolenza e l'appoggio, riuscendo «solo per certe Case potenti uno sterrn1n10». Deve essere bandita la rovinosa abitudine storica dei Principi italiani di ricorrere ad armi mercenarie e straniere, perché un principe il quale, seguendo i consigli di Machiavelli, preferisca le armi nazionali alle straniere, e venga con ciò a manifestare una nobile confidenza nè propri sudditi, un principe che, secondo quei consigli, onori gli uomini eccellenti, rimuova dai cittadini le discordie, ne incoraggi l'industria[ ...] codesto principe, anziché procurare la povertà, la reciproca diffidenza, la debolezza e l'avvilimento del popolo, ne procura la ricchezza, la concordia e la potenza.
Ma dove lo Z. rivela ancor più l'anima e l'orgoglio nazionale che è sullo sfondo dei suoi scritti, è nel controbattere i giudizi negativi sul carattere degli italiani dell'inglese Macaulay. In un articolo dal titolo Machiavelli e il suo secolo comparso sulla Rivista d'Edimburgo nel 1830,
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quest'ultimo scriveva che nell'Italia del Medioevo e del Rinascimento il potere della nobiltà feudale si era ben presto - troppo presto - ridotto a ben poca cosa, aprendo la via al commercio e alle arti assai prima che altrove. Ma (sempre secondo il Macaulay) le sedentarie abitudini mercantili, che riechieggono un intervento continuo, resero insopportabili le fatiche della guerra; quindi l'uso dell'arruolare soldati mercenarj divenne generale in Italia quando era sconosciuto nelle altre contrade. Di che procedettero parecchie conseguenze: l'una, che combattendo fra loro mercenarj con mercenarj, i quali non aveano né interessi né sentimenti opposti, anzi uniformi per la comune professione, si guerreggiava quasi senza far sangue; la seconda che, a differenza degli altri popoli, fra cui, come bellicosi che erano, faceasi indispensabile il valore, presso gl'italiani questo avea cessato d'appartenere al numero deÌle virtù, come avvenne in Grecia al tempo dei romani, onde le terre loro rimasero senza difesa contro i francesi, gli svizzeri e gli aragonesi; la terza, che perciò appunto si originarono fra le nazioni due moralità diversissime: nella maggior parte d'Europa, un'indole violenta ed altera che aveva in discredito la frode e l'ipocrisia; in Italia, la dissimulazione, l'inganno, le vie coperte, le crudeltà -provocate da fredde e profonde meditazioni, avute in onore non meno che l' elevatezza dell' ingegno, l'amor di patria, ed un ragionato coraggio.
Z. non aveva forse sostenuto che ormai l'artiglieria aveva reso - se non inutile - almeno superfluo o poco importante il coraggio? Eppure, nella replica al Macaulay egli si guarda bene dal ricorrere a siffatti argomenti. L'Italia - egli afferma - nell'epoca alla quale si riferisce il Macaulay era ben lungi dall'avere una fisionomia politico-sociale uniforme. 11 potere della feudalità era spesso forte come, anzi più che altrove e estremamente deleterio, né l'inurbamento dei feudatari ha posto fine - come dimostrano le vicende interne di Firenze - alle lotte intestine. Non è vero che il ricorso a soldati mercenari è diventato generale in Italia quando ancora era sconosciuto negli altri Stati: Robertson osserva che i Re di Francia, considerato che nelle guerre contro gli inglesi gli eserciti feudali mostraronsi inetti all'attacco e alla difesa delle città e dei castelli, tra per questo motivo e per ottenere la for.t.a permanente ed effettiva che occorreva in quelle prolungate contese, assoldarono numerose bande mercenarie, levate talvolta tra i propri sudditi, tale altra in stranieri paesi, il quale esempio fu poi imitato dagli altri regni europei. Lo stesso Carlo VIII, quando passò in Italia, aveva nel proprio esercito un buon numero di mercenarj svizzeri e italiani [...]. Furono codeste armi un
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intermedio tra la feudalità e la centralità dei poteri; perché, come si disse e come avverte anche Hallam, chi aveva denaro era certo d'avere guerrieri più sicuri e fermi che non fossero i nazionali, e perché, conforme soggiunge il medesimo scrittore, se pur talora riuscivano licenziosi o di manchevol bravura, l'illimitata devozione, ancor più che il coraggio e la disciplina, gli rendeva accetti ai principi, i quali d'altra parte potean temere a ragione l'indipendente spirito d'un esercito feudale. Né queste osservazioni erano sfuggite ai contemporanei di Machiavelli; assai prima di Hallam e Robertson aveale fatte Guicciardini; il quale soprappiù osservava: «che perciò appunto molti re aveano atteso a disarmare ed alienare i popoli dagli esercizj nùlitari, onde i francesi, non confidando più della virtù dei fanti proprj, si conducevano timidamente alla guerra, se nell'esercito loro non c'era qualche banda di svizzeri».
L'abitudine al commercio - prosegue lo Z. - non diminuisce le virtù militari: lo dimostrano i veneziani, «gli inglesi del Medioevo», i genovesi e i pisani con le loro guerre e conquiste mediterranee. D'altro canto, l'ordinamento feudale non garantisce affatto un'efficiente difesa: «il Piemonte, lo Stato Pontificio, il Regno di Napoli aveano anch'essi i loro mercenarj, quantunque fossero feudali; feudalissimo era il terzo di qué dominj, che pure rimase senza difesa contro le armi francesi e aragonesi». Né gli italiani hanno dimostrato mancanza di coraggio e un modo di vivere molle e codardo: le imprese di Lorenzo dé Medici e Giulio II, l'audacia di Pier Capponi, la disfida di Barletta, le gesta delle compagnie di ventura italiane, dimostrano che, se in Italia le virtù militari non erano molto diffuse, nemmeno erano spente. Le compagnie di ventura italiane «formarono una nuova scuola militare che, al dire dell'inglese Hallam, tolse il lume ad ogni altra al di fuori». D'altra parte il mercimonio della milizia, generalizzato in Italia, era un peccato non di popoli, ma di principi e di repubbliche. I primi lo introdussero per gelosia del popolo, di cui volevano soffocare la libertà, e dei nobili che ricusavano di piegare il collo a un loro eguale; le seconde o pel timore di far sorgere un tiranno, siccome appar chiaro in Firenze, o per la politica di non accordar comandi di terra ad un patrizio, in un governo, nel quale il nome collettivo doveva essere tutto ed ogni nome individuale esser nulla; il che accadeva in Venezia. Ma senz'armi proprie, senz'armi cittadine non può sussistere una sicura indipendenza; e quindi procedettero i mali enormi della passata di Carlo vm, e gli altri che poi avvennero in così lunga serie [...] E nell'ultimo capitolo del Principe [Machiavelli] più chiaramente il dimostra con queste parole: «In Italia non manca mate-
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ria da introdurvi ogni forma. Qui è virtù grande nelle membra, quando la non mancasse nei capi. Specchiatevi nei duelli e nei congressi dei pochi, quanto gli Italiani siano superiori con le forze; ma, come si viene agli eserciti, non compariscono, e tutto procede dalla debolezza dei capi». Né differentemente pensava il gran Consalvo, quando poco prima della disfida di Barletta fu udito dire «Che se l'Italia era da pochi anni in qua stata corsa da eserciti forestieri, [di questo] era stata cagione non altro che la imprudenza dé suoi Principi, i quali, per battere l'un l'altro, l'armi straniere chiamato aveano». In conclusione, la pace, l'ignavia, la debolezza italiana di quell' età erano soltanto un'apparenza, che nascondeva una ben diversa realtà, come dimostravano le occasioni ...
È pur vero - ammette lo Z. - che negli italiani alle non rare qualità miHtari e al coraggio individuale si accompagnavano purtroppo l'astuzia, l'ipocrisia e la frode, e in questo il Macaulay ha ragione: «ma egli poi era soprammodo quando afferma, che codesta moralità fosse propria esclusivamente degli italiani [... ] ché anzi. non che gli Italiani fossero altrui maestri del mancar di fede, poteano apprenderlo dagli stranieri, siccome fece alla Corte d'Aragona il Guicciardini, traditi essi furono ben più che traditori». E, come dice il Sismondi, <<troppo cuoceva agli stranieri di dover confessare negli italiani la superiorità dell'intelligenza e della dottrina: quindi la rappresentarono come un vantaggio necessariamente congiunto a1la dissimulazione e alla perfidia, ed arrogandosi la palma del valore e della lealtà lasciarono a quelli con diprezzo il merito dell'accortezza e dell'astuzia». Nena visione dello Z. il Principe di Machiavelli è come Luigi XI o Papa Alessandro VI Borgia, che pur agendo per fini egoistici, con l'indebolire i grandi del loro Stato e con lo spegnerli o deprimerli, crearono le premesse per l'ingrandimento delJa nazione francese e dello Stato della Chiesa: E là dove pure nel libro stesso Machiavelli esorta il principe a fondare la sua potenza in su l'armi proprie, impossibili ad aversi senza una centralità di poteri e senza formare, collo spegnere la prepotenza dei Grandi o feudali o condottieri di milizie, una fanteria cittadina, ch'è la nazione dei campi; là dove lo consiglia a farsi amare dai popoli anziché a mantenere fazioni e fortezze, a combattere i pochi e aver dalla sua l'universale; e quando propone l'esempio di Ferdinando il Cattolico, tanto nemico ai Baroni, sopra i quali, come dice, acquistò riputazione ed imperio; quando biasima il Re di Napoli e il Duca di Milano, perché non procacciarono di aver amici i popoli ed assicurarsi dei grandi, non manifesta egli i medesimi prin-
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cipj? In conclusione, il contesto del libro del Principe ci fa palese il pensiero di ridurre in atto il disegno dei principi di quella età coll'abbassare la fortuna dei grandi, col rendere docile, unito e soddisfatto il popolo, e col promuovere allo Stato una potenza centrale.
Farsi amare dai popoli anziché mantenere fazioni e fortezze; formare una fanteria di cittadini, «ch'è la nazione dei campi»; abbattere i privilegi feudali e por fine agli arbitri della nobiltà_ Non si riesce proprio a vedere in che cosa questo programma del Machiavelli, che lo Z. mostra di approvare senza riserve, clifferisca dai contenuti politico-militari della Scienza della Legislazione del Filangieri: si può solo dire che allo Z. interessa una forza militare nazionale quale contraltare di un forte potere centrale. Come poi debba essere questa forza militare, e quali ne siano le modalità di reclutamento, è cosa per lui secondaria, che in questa sede non affronta in profondità, pur lasciando capire che gli va bene proprio l'esercito di cittadini. Le armi proprie sono impossibili da avere senza una centralità di poteri: ma vale anche l'inverso, e in questo lo Z. rimane mollo lontano dal federalismo. Va inoltre sottolineato, in questa occasione, il palese ancoraggio dei caratteri della forza militare a fattori politico-sociali, anziché limitatamente tecnici e scientifici come avviene nella precedente opera sulla guerra. E se in quest'ultima le armi da fuoco segnano una cesura rispetto alla precedente esperienza storica, trattando del Machiavelli lo Z. - al contrario - riconosce al passato tutto il suo peso anche sul presente ... Sorge perciò spontanea una domanda: qual'è il vero Z.? quello del libro sulla guerra o quello del commento a Machiavelli? Una risposta semplice potrebbe essere questa: quello di tutti e due. Z. non è un militare; le sue conoscenze specifiche nel settore - e ancor più la sua esperienza - hanno un chiaro limite. Le sue intenzioni e considerazioni, pur apprezzabili sotto molti aspetti, rimangono perciò lungi dal lasciar trasparire una sicura base organica e sistematica, né possono tutte essere ricondotte a un quadro unitario e coerente. Così la componente «materialistica», quella «spiritualistica» e politico-sociale e quella nazionale, io storicismo e l'antistoricismo della sua visione della guerra rimangono separati e a volte in contrasto tra di loro, senza trovare un approfondimento e una sintesi. Più che risolverli, Z. pone dei problemi; più che configurare compiutamente e in tutta la sua complessità il fenomeno guerra e il suo rapporto con le condizioni politico-sociali, l'economia e la tecnologia, egli fornisce dei materiali di studio e di lavoro. Il messaggio più chiaro e autentico della sua opera è perciò questo: che intorno alla prima metà del secolo XIX la guerra non viene più con-
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siderata affare solo dei Principi e dei militari e va ripensata secondo nuovi parametri, anche a prescindere dall'esperienza storica. Le contraddizioni frequenti in questi due scritti sono - più che altro - iJ segno della complessità e delle variabili influenze dei fattori in gioco, che nessuno era ed è in grado di ricondurre a una teoria compiuta.
SEZIONE II - L'approccio economicistico, regionalistico e cosmopolita al problema militare di Carlo Cattaneo
Della milizia antica e moderna (1839) Gli scritti di interesse militare di Carlo Cattaneo hanno carattere frammentario, e non sono pubblicati solo nel periodo della Restaurazione. Di essi magna pars - ma non l'unica e forse nemmeno la più importante manifestazione - è il saggio Della Milizia antica e moderna (1839), 68 che resta il più autorevole commento critico (coevo e non) all'opera dello Zambelli sulla guerra, dunque va contestualmente esaminato con quest'ultima e non isolatamente. Così come le teorie dello Zarnbelli non sono mai state ritenute meritevoli di un'analisi organica, anche la componente militare della ponderosa produzione letteraria del Cattaneo ha finora ricevuto scarsa attenzione da parte dei più apprezzati studiosi e biografi; nemmeno la letteratura militare, del resto, ha finora dato spazio alle sue idee. Non lo citano né il d' Ayala né lo Sticca né il Bastico, e l'Enciclopedia Militare del 1933 accenna solo alla sua ostilità a Carlo Alberto e alle sue idee federaliste.69 Carlo Argan nel 1935 ricorda alcuni passi della Milizia anLica e moderna, salvo a prendere le distanze dalle tesi del C. quando esse contrastano con il concetto di nazione armata basata su un grosso esercito permanente di leva tipico dell' establishment degli ultimi anni Trenta. Infine, nel dopoguerra il Pieri. è il solo a dedicare una certa attenzione ali' opera dello Zambelli sulla guerra e a quella del C. sulla milizia, ma la sua analisi - pur corretta - appare troppo affrettata ed eccessivamente sintetica, trascurando aspetti non secondari, diversità e contraddizioni del loro pensiero.70 68
«Il Politecnico», Voi. I 1839. Cfr. anche Opere edite e inedite di Carlo Cattaneo (a cura di A. Bertani), Firenze, Le Monnier 1883, Voi. III, pp. 304-33 1. 69 «Enciclopedia Militare», Milano, Ed. Il Popolo d' Italia 1933, Voi. Il, p. 808. 7 C. Argan, Un precursore: Carlo Cattaneo, «Nazione Militare» giugno 1935, pp. 12-14 e P. Pieri, Storia militare del Risorgimento (Cit.), p. 162- 164.
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Ciò premesso, il saggio Della Milizia antica e moderna ha un duplice volto: da una parte esso è - in larga misura - un'indovinata parafrasi o sintesi dei contenuti del libro sulla guerra dello Zambelli, dall'altro è specchio delle idee del C. e premessa delle tesi da lui più compiutamente sviluppate in altre sedi a favore della nazione armata, delle milizie di cittadini - soldati, e contro gli eserciti permanenti. In sostanza l'analisi storica - affine a quella dello Zambelli - lo porta a conclusioni sovente opposte sulla via da seguire per il futuro. Non è nostra intenzione occuparci della vexata quaestio, se sia o meno un anticipatore della filosofia positivista, come lo giudica il Gentile e come invece non lo ritiene il Croce. Sta di fatto che trattando di cose militari il C. accredita il giudizio del Sestan, secondo il quale «due pensieri sembrano dominare la mente del C.: il rifiuto di ogni metafisica; l' idea e la fede nel progresso» (più o meno lo stesso si potrebbe dire del Blanch).71 La sua avversione per ogni impostazione idealistica e astratta dei problemi non gli impedisce di valutare l'importanza dei fattori morali nella milizia; per contro, l'adesione a «un sistema progressivo fondato su studi di economia e statistica» (Sestan) lo spinge a un approccio tendenzialmente evoluzionista e materialistico al problema militare, dando credito a volte eccessivo - come lo Zambelli - al materiale e alle armi da fuoco. Il C. si pone anzitutto la domanda retorica se convenga o meno tornare alle armi degli antichi. visto che «l'uso della polvere e le altre mutazioni delJ' arte della guerra, hanno reso più sanguinosa e sterminatrice questa terribile necessità per le nazioni». L'unico modo per rispondere a questa domanda, a suo giudizio, è quello di procedere a un minuto confronto tra l'ordine militare degli antichi e quello dei moderni. E qui una chiara presa di posizione contro le «chiusure» reciproche tra cultura militare e civile, e anche una chiara indicazione metodologica tuttora trascurata, visto che oggi non sono infrequenti trattati e studi, i quali pretendono di ignorare gli aspetti militari delle questioni politiche (magari in nome di un malinteso concetto di pace, che porta a esorcizzare anche oltre l'evidenza qualsivoglia sottofondo militare): a un tale esame non si potrebbe dire idoneo se non chi dalla parte pratica militare avesse saputo stendere uno sguardo indagatore anche su le scienze civili; o viceversa chi allo studio di queste avesse saputo aggiungere una diligente notizia di ciò che scrissero dell'arte loro i più assennati capitani. Bisogna che o l'uno o l'altro ardi-
71 C. Sestan, Carlo Cattaneo, in «Dizionario Biografico degli Italiani», Roma, 1st. Enc. It. 1979, Vol. 22°, p. 424.
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sca spingersi fuori alquanto del suo proprio terreno, per regolare una materia ch'è tutta di rapporti e di confini. Perloché a giusta ragione nei trattati moderni di guerra si comprende anche una sezione di politica militare, come nei buoni libri di scienza sociale non si può negare [come si usa fare spesso anche oggi - N.d.a.) un capitolo alle relazioni della politica colla guerra. Se l'uomo d'armi fa studio dell'arte sua per prepararsi ad esercitarla razionalmente in campo, il politico non può rimanersi straniero alle grandi innovazioni militari; poiché ogni potenza nazionale non si svolge né si conserva, né cade, se non sotto l'azione della forza armata. Con questo esordio il C. premette molto: si deve però constatare che mantiene poco, o comunque molto di meno di quello che a prima vista ci si aspetterebbe. La ragione principale sta forse nell'insufficiente approfondimento di talune tematiche militari specifiche, alle quali non può supplire la semplice intuizione, e che invece lo Zambelli mostra di affrontare con ben altro impegno e ben altra ricchezza di riferimenti. Così, diversamente dallo Zambelli, egli più che l'artiglieria esalta le armi da fuoco in genere e in particolare il fucile, citando il detto di Napoleone che «con questo terribile strumento un soldato può in un quarto d 'ora ferire sessanta nemici. La palla colpisce a mille metri di distanza, è pericolosa a 240 metri, mortalissima a I 80». Molto probabilmente l'esaltazione del fucile al posto del cannone non è casuale. Egli bensì concorda con il succo delle teorie dello Zambelli, che cioè «la prima conseguenza, apportata nelle guerre dall'uso della polvere da foco, fu il predominio del numero sul valore». Ma dimostrandosi in questo caso positiyista ad oltranza e molto più dello Zambelli, trascura completamente i molteplici fattori che anche per quest'ultimo influiscono sull'efficienza di _una compagine militare (la coesione, l'addestramento d'insieme, l'affiatamento, la disciplina, la reciproca fiducia fra capi e gregari ...), quasi riducendo tutto a una questione puramente meccanica. Di fronte alle palle da cannone bastò il coraggio di stare al posto e l'abitudine di compire con ordine e agilità una facile operazione meccanica che non richiede forza. E i colpi essendo irresistibili e fatali, la vittoria è di chi può gettarne sul nemico un numero maggiore: la vittoria è della massa del foco. Evidentemente, secondo il C. per creare la massa del fuoco sono molto importanti anche i fucili. Né egli concorda con lo Zambelli nel «porre la rassegnazione delli eserciti meccanici tanto al disopra dell' impeto e, diciam pure, dello ze]o, il quale accompagna sempre 1'intel1igen-
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za svegliata e l'animo del cittadino». Il coraggio della rassegnazione non basta, occorre una partecipazione attiva: chi è rassegnato sotto la pioggia del foco, non ha sempre il vigore elettrico di riannodarsi e risorgere dalla sconfitta, di raddoppiare le marce, di volgere in facezia le più dure privazioni, di reggere al tragitto dei deserti e delle montagne gelate. Nel disastro di Russia i soldati meridionali serbarono mente più serena e contegno più militare, e ressero al gelo più d'altri, ch'erano figli di più rigido clima. Poteva parere un coraggio di rassegnazione quello ch'egli [cioè lo Zambelli - N.d.a.] cita dell'esercito inglese a Waterloo; ma non era possibile che non vi si fosse infusa per esempio e per contatto l'esaltazione morale dclii officiali, in cui bollivano tutte le ambizioni d'un patriziato il quale doveva mostrare ad una superba e poderosa nazione d'esser degno di governarla, e di dominar seco lei tanta parte della terra e del mare. E codesto dominio marittimo non fu acquistato col coraggio di rassegnazione; poiché ad Aboukir e Trafalgar si vide risplendere bensì nei vinti, ma non nei vincitori; i quali solo nell'ardimento e nello slancio dell'assalto ritrovarono la vittoria. Onoriamo dunque la rassegnazione che more al suo posto; ma non neghi amo l'efficacia di quell'impeto generoso, che scaturisce da11e intime condizioni civili, e solo sa compiere sul campo e sull'oceano i più sublimi ardimenti.
Dopo questa stroncatura - in chiave inaspettatamente spiritualistica di uno dei capisaldi delle teorie dello Zambelli, il C. si dimostra assai tiepido sul valore delle fortezze, che lo Z. invece esalta come uno dei tanti aspetti della guerra il cui progresso era stato favorito dalle artiglierie, enumerandone i vantaggi e attenuandone gli svantaggi. 11 contrario fa C.: si richiede dunque gran numero di uomini a difenderle, immense munizioni da foco e da bocca, grandi arsenali, enormi spese. Vauban, applicando la fortificazione alla geografia, imaginò per il primo una cintura compiuta di piazze e di campi trincerati che, prendendo tutti i vantaggi dei terreni e delle acque, accerchiasse un regno intero. Eppure, per quanto meditasse, non potè trovar modo di pareggiar colle difese l'irresistibile potenza dell'attacco. Anche l'avversario imparò l'arte di celarsi 1---1 Ed ebbe il vantaggio infallibile d'applicare all'attacco il principio fondamentale della maggiore massa di foco, ossia di far convergere contro qualsiasi delle avverse batterie un numero superiore di palle e bombe, soffocarne il foco, diroccarle, sgombrare il campo a ulteriori progressi, e infine sboccare in faccia alla muraglia già nuda d'ogni difesa.
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Lo Zambe11i non parla mai di «irresistibile potenza dell'attacco», di «principio fondamentale de11a maggior massa di foco» e di «vantaggio infallibile» dell'attacco suHa difesa. Il C. si sofferma piuttosto sui riflessi sociali del1'introduzione delle armi da fuoco, che rendono inutili i castelli e le fortezze medioevali. Il cannone è stato fattore di profonde trasformazioni socio-politiche, perché «umiliò le superbe moli dalle quali una piccola casta di invasori, quando avesse in un infausto giorno sorpreso un regno, poteva tenerlo schiavo e angariato per secoli»; così la feudaUtà non potè più ripararsi né dietro le armature né dietro merli e trabocchetti dei castelli. Fu l'ora delle armi popolari fautrici della nazione: la milizia plebea, armata di questa polvere magica, e assoldata dai mercanti delle città e dai secretarii dei principi, liberava a poco a poco l'Europa, e per essa i territori dissociati dal medio evo si congiungevano in poderose masse nazionali, guidate da governi calcolatori. l quali per irresistibile istinto d' interesse a poco a poco abolirono tutte le rocche e le armi e le giurisdizioni dei privati, soppressero i privilegi, disciolsero le colleganze, e adeguarono col diritto civile dell'antico popolo romano le ragioni dei deboli e dei
potenti. Siamo di fronte al clou delrinterpretazione del C., che rimprovera allo Zambelli di non aver toccato - con il suo esame in chiave volutamente ed esclusivamente militare e tecnico - il tema basilare del «nesso tra il servigio militare e le emancipazioni civili» (già approfondito dal Blanch, che peraltro il C. si guarda bene dal citare in questa occasione). Lo Zambelli - nota C. - riconosce la prevalenza del numero come «un principio progressivo e benefico» nella età moderna, ma «lo chiama corruzione e decadimento nei tempi antichi». Atteggiamento solo apparentemente contraddittorio, notiamo noi: perché secondo lo Zambelli fino a quando c'erano solo armi bianche, un esercito più diventava di massa, più perdeva le indispensabili doti di valore individuale del combattente che erano prerogative solo delle formazioni d'élite. Ma il C. in questa occasione dimentica le armi da fuoco e i loro influssi e si mostra i mprovvi samente interessato non tanto dall'elemento tecnico, quanto da quello politico-sociale. 11 trapasso degli eserciti di élite a quelli di massa e su più larga base sociale per il C. già si delinea nel1'età classica, molti secoli prima della scoperta della polvere. Il principio della prevalenza del numero prima da Mario, e poi da Cesare e dà suoi successori venne applicato a demolire il patriziato romano, il quale aveva fatto della mili-
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zia un privilegio dei censiti. Da Mario a Probo ci sembra vedere in proporzione crescente il trapasso della forza militare dall'ordine privilegiato al popolo; e fu età di progresso; e questo si perpetuò nel nostro diritto civile, trovato allora per uso di tutti i secoli. Da Probo a Diocleziano ai Goti vediamo in serie opposta passare le armi dalla nazione alli stranieri, e quindi fondarsi una nuova classe privilegiata t... l Dal mille in poi, cominciò una nuova serie di fatti, in cui questa aristocrazia d'armi si vede discendere, perdere il monopolio dell'armi cavalleresche, passare al mero comando delle armi popolari, infine, coll'ultimo stadio del progresso europeo, andar confusa nel vortice dell'uniforme cultura.
Per Ja verità a quest'ultimo stadio ci dobbiamo ancora arrivare, e vi è tutta l'anima del «gran lombardo» nelJ ' invito allo Zambelli a non di-
menticare «i primi rudimenti della fanteria moderna, adunati intorno ai carrocci delJe città lombarde, parecchie generazioni prima delli Svizzeri e degli Ussiti». Anche Je bande di soldati di ventura «furono la prima forma de/li eserciti pennanenti, il primo tentativo dei governi a disbrigarsi dai servigi delle fazioni armate, e sostituire Ja bandiera dello Stato ai pennoni feudali e ai gonfaloni delle città». In questa interpretazione tendenzialmente vichiana della storia, che giustifica il giudizio del Croce sull'avversione solo superficiale di C. per il Vico, non c'è più nulla della tesi dello Z. sulle armi da fuoco come motore centrale della storia e sul1a scoperta del1a polvere come netta cesura tra l'età antica e moderna. Anche in questo caso, dunque, senza alcuna preoccupazione di coerenza il C. passa dal materialismo allo spiritualismo, da una concezione lineare del progresso civiJe e militare a una concezione vichiana dei corsi e ricorsi storici. La quale, però, se vale per la guerra e per 1'ordinamento degli eserciti non vale per la strategia e la tattica, dove il C. sposa in pieno le idee del1o Z., a cominciare dal fatto che gli antichi non conoscevano la strategia e dal legame di quest'ultima con la geografia, fino ad affermare - cosa che non aveva fatto nemmeno lo Zambelli - che al momento, ormai «le più lontane radici deHe più grandi vittorie stanno nella perfezione dei rilievi topografici e nella perizia dei comandanti a leggerli e calcolarli; così se la vittoria una volta pareva opera del braccio, ora è più manifesta figlia della mente». Le affermazioni in altra parte de] saggio sulla importanza del coraggio e dell' entusiasmo anche nella guerra di masse perdono così smalto, anche perché «presso i moderni abbiamo eserciti di materia men prode, d'uomini che chiamiamo soldati e non chiamiamo guerrieri, la cui massa è maggiore, e contiene una porzione assai maggiore di cavalli e macchine da guerra» [ma questi cavalli, questo aspetto scientifico della guerra non pongono
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problemi tecnici e dj qualità? non richiedono anche speciahsti e lungo addestramento? - N.d.a.]. Non basta: il concetto scientifico della guerra è in C. ancor più forte che in Jomini, visto che egli arriva ad affermare che, con l'introduzione del «passo uguale, usato primieramente aJla battaglia di Hochstadt, e perfezionato poi nel passo celere L... ] le distanze e l'impeto possono essere misurate quasi col compasso e col pendolo; e il capitano può calcolare la velocità del1a massa, come se si trattasse d'uno sforzo mecanico o di una corrente d'acque». Viene spontanea una constatazione: allora non basta - come pretende il C. in altra parte - che il soldato abbia il coraggio di star fermo al suo posto e sappia maneggiare il fucile. Egli deve anche essere addestrato a compiere le evoluzioni, tanto più che il C. sposa in pieno il concetto jominiano e dell'Arciduca Carlo (o, se si preferisce, del Grassi e del Colletta) di strategia e tattica, definendo la prima «l'arte di muovere li eserciti, fuori della vista del nemico, per condurli ai punti decisivi; essa abbraccia nelle sue speculazioni tutto il teatro di guerra» mentre la tattica è «l'arte di operare in faccia al nemico nell'atto
delle offese». li C. ha tuttavia il merito di non sposare le tesi dello Zambelli a proposito del progresso degli armamenti e delle strategie, che avrebbero ormai raggiunto l'apice. Al contrario i periodi di pace sono una spinta per sempre nuovi progressi scientifici e nuovi perfezionamenti, e così una guerra non è mai simile alla precedente; e inganna tutte le previsioni dei torpidi; e il genere umano, sotto il flagello della sconfitta e della necessità militare, è spinto volendo e non volendo sulla via del progresso. E chi rimane ultimo, in ogni conflitto soccombe; o soccombe dapprima, perché si presenta preparato aJI' antica, a fronte dei nuovi prodigii del secolo, e getta le orde <lei Mamelucchi contro le baionette europee Lrna, allora, come è possibile ridurre la strategia a calcolo matematico? - N.d.a.l.
Né egli indulge alle sporadiche sottovalutazioni del ruolo del Capo tipiche dello Zambelli: anzi il valore delle truppe - esaltato in altra occasione - sembra contare poco, visto che «la vittoria non è del1a generazione robusta e dura che forma i valorosi squadroni; ma del giovine taciturno, che proteso boccone su la carta col compasso in mano sceglie quel crocicchio fataJe di strade che diverrà campo famoso di battaglia. E si avvera il detto scritturale, che la corsa non è del veloce, né la pugna è del forte». Il C. vede chiaramente, più di tanti altri, alcuni aspetti essenziaU del problema mmtare del momento: ma le continue contraddizioni abbinate
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a molte idee che sanno d'imparaticcio, dj poco originale, di poco meditato e soprattutto di poco approfondito, dimostrano che nel saggio Della milizia antica e moderna egli rimane lontano dal dare anche in questo settore quel contributo chiarificatore, rigorosamente razionale, originale e insostituibile, che ne ha fatto la fama sul piano della cultura e della storia in genere. Eppure, il C. avrebbe potuto e dovuto meditare sulla sorte del Regno di Napoli nel 1821,72 con la caduta manu militari - ad opera del forte esercito permanente austriaco - di quel Governo costituzionale, che confondendo l'utopia con la realtà non aveva saputo adottare concretj provvedimenti organizzativi nei vari settori per mettere un esercito di leva e di cittadini solo numericamente forte in buone condizioni di efficienza. Come se il morale, lo spirito combattivo, l'inquadramento, la coesione e la logistica fossero prerogativa automatica delle formazioni militari improvvisate e composte da non-professionisti... ... Un'altra serie lacuna del saggio del C. sulla milizia è l'assenza di qualsiasi riferimento alla problematica militare e strategica nazionale. Lacuna comune a tutta la sua opera militare e non: e di lacuna si tratta, non di semplice omissione. Parlando di cose militari italiane, il C. non esce mai dal Lombardo-Veneto e dunque esprime concetti monchi e localistici, ancorché interessanti. Vero è, però, che sostenendo la necessità di una più diffusa istruzione militare per i cittadini del Lombardo-Veneto, di richiamare in vita le scuole militari che Napoleone aveva creato in Lombardia e di dare un giusto rilievo all'arte militare, come il Blanch il C. fa indirettamente opera nazionale e d'italianità. Ne è dimostrazione la parte di interesse militare di un suo rapporto sulle istituzioni militari del Lombardo-Veneto all'Istituto de1le Scienze di Milano (1845) che qui riportiamo integralmente: ciò che concerne la facoltà matematica non potrebbe dirsi compiuto, se oltrepassassimo in silenzio una importantissima delle matematiche applicazioni, l'arte militare; quella che presso molte genti è la principale, e presso altre è l'unica parte della pubblica educazione. Avevamo nel 1814 un Collegio del genio (a Modena); una Scola d'artiglieria (a Pavia); una Scola militare (a Pavia); una Scola equestre (a Lodi); e un Istituto tepografico (a Milano), il quale lasciò prova della sua scientifica attività colla carta del Regno Lombardo- Veneto in 42 fogli, con quella in pari scala degli Stati
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I. Raulich, Storia del Risorgimento politico in Italia, Bologna, Zanichelli 1920, Voi. I (1815-1830), pp. 213-220.
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estensi e pannensi, e con quella del Mar Adriatico. Tutte queste istituzioni militari furono successivamente abolite. Tolta del pari è la pratica istruzione che gli operai ricevevano nelle fabbriche d'armi e nelle fonderie. Mentre altri Stati finitimi, e soprattutto la Prussia e la Sardegna, si vantano di fare ogni opera per educare i popoli ai doveri militari e alla difesa dello Stato, quasi nessuna cura vi si consacra in questo Regno. Il quale, nell'indifesa sua ricchema, sarebbe preda di ogni assalto, se ad ogni minimo moto non occorressero, con immenso dispendio alla sua difesa, i soldati d'aJtre più lontane provincie. Qualora, come avvenne cinquant'anni addietro (1796), Pavia fosse chiamata un'altra volta a levarsi in pro della casa regnante, un'altra volta soggiacerebbe a tutti i disastri d'uno zelo non agguerrito. Solo una centesima parte della nostra popolazione è ascritta alla milizia, educata all'ordine, alla disciplina, all'obbedienza. Gli esercizi sono anche limitati al tempo del servizio, non continuati come in Prussia e in alcuni Stati della nostra medesima monarchia, mediante la istruzione di riserve (landwehr), che li protraggono anche oltre gli anni della gioventù. Essi poi nemmeno abbracciano tutti i rami dell'arte militare. Mentre le provincie austro-boeme hanno 20 reggimenti di cavalli e 22 di fanti, e l'Ungheria ne ha 10 di cavalli e 13 di fanti, il Lombardo-Veneto, con 8 reggimenti di fanteria, ne ha uno solo di cavalleria. Stanno nell'esercito imperiale i cavalli ai fanti come uno a cinque o sci, e gli artiglieri come uno a dodici. Laonde i 50.000 soldati incirca, che si levano da 6.000.000 di sudditi italiani (compreso il Tirolo e il litorale illirico), dovrebbero contare in un equo riparto d'insegnamento mj}itare, più di 8.000 cavalli e 4.000 cannonieri. Ora l'istruzione dell'artiglieria terrestre ci manca affatto, come quella di tutte le armi speciali, eccetto la marina. Ben è ragione che alle provincie montuose e povere del Tirolo e della Croazia si assegni quel modo di milizia ch'è il men dispendioso. Ma è pur ragione che alle provincie italiane, come le più doviziose dell' impero, si assegni apreferenza un più largo servizio della cavalleria e delle armi speciali, appunto perché più costose. Ora sin qui è avvenuto il contrario. Gli italiani, colle maggiori contribuzioni, mantengono i cavalli agli altri sudditi del loro sovrano, e militano a piedi. il prezioso materiale di guerra del Regno d ' Italia, ch'era costato a questi popoli più di cento milioni, passò in dote ad altre provincie dell'impero. Essendo per tal modo discesa ad un basso grado la milizia nostra, è naturale che le famiglie illustri non siano allettate ad arrolarsi. Pertanto l'istruzione militare, imperfetta nel popolo, è nulla affatto nei signori. Epperò, mentre nella rimanente Europa la gioventù facoltosa si raccoglie armata intorno al trono dei suoi principi, ella si vede presso di noi dispersa negli ozi d'una vita inutile e ingloriosa. È questa adunque la parte di pubblica educazione che vuol essere
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più fervidamente raccomandata al sovrano consiglio. Avvedutosi di questa lacuna chi regge i nostri destini, volle istituita una guardia del corpo, appunto perché «rimanesse aperta, sotto forme più favorevoli, alla gioventù del Regno Lombardo-Veneto, dietro previa istruzione scientifica, una militare carriera». Così si esprime la sovrana patente 19 agosto 1840. Ma questa istituzione, limitata alle sole famiglie nobili e a soli 60 giovani, in una popolazione complessiva di circa 6.000.000, constata bensì il bisogno, ma non vi provvede adeguatamente. Siccome poi all'istruzione scientifica militare si aggiunse il gratuito mantenimento degli allievi, le famiglie più facoltose non reputarono onorevole il collocare i loro figli a carico delle provincie, che a tal uopo vennero gravate di particolare imposta. Il beneficio trapassò dunque in breve tempo alla parte più povera della nobiltà; e rimase incurata quella che abbiamo detto massima piaga dello stato, l'ozio della più ricca gioventù. Le stesse famiglie nobili e povere non ebbero poi quel vantaggio che ne speravano; poiché i loro figli, anziché prepararsi con militare frugalità a ristorare a maturo tempo le domestiche angustie, si trovarono avvolti in tutte le splendidezze d'una gran corte e in tutte le seduzioni d' una gran città, per ricadere, dopo un breve sogno di vita signorile, nell'austerità d'un reggimento o negli stenti d'una famiglia. Hanno i 60 giovani in quel collegio, veramente principesco, oltre a una ventina d'ufficiali e direttori e molti maestri, un centinaio quasi di palafrenieri, cocchieri, camerieri ed altri servi. Perloché, senza che l'istruzione loro possa dirsi veramente compiuta, mancando essa affatto di quegli alti studi che preparano i grandi uomini di guerra, vengono a costare allo Stato 9.000 lire all'anno per ciascuno allievo, ossia in complesso lire 540.000. Intorno a ciò osserveremo che le ottanta donzelle che si allevano in questo real collegio di San Filippo, e che appartengono a un di presso al medesimo ordine di famiglie, costano allo stato sole lire 15.600, ossia meno di due soli allievi della guardia; e ciò quantunque 24 di esse abbiano gratuito servizio ed alimento. Il collegio delle 60 guardie costa precisamente il doppio della grande università di Pavia, che in dotazione e stipendi costa solo lire 285.000. E se si pon mente al numero degli studenti della università, si vede che il Regno Lombardia-Veneto, ad allevare nel collegio di Vienna un mediocre ufficiale reggimentario, spende quanto ad ammaestrare in Pavia 40 medici o ingegneri. Senza inoltrarci in premature particolarità, noi ci limitiamo a invocare rispettosamente su questi fatti la superiore considerazione. Aggiungiamo solo, che quell' immensa somma potrebbe dividersi in due parti. L'una potrebbe bastare all'istruzione, non di soli 60, ma di TU1TI gli ufficiali del Regno, in una o due scuole politecniche, qualora si lasciasse alle famiglie la cura del mantenimento.
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L'altra basterebbe a dotare, e tutte le da noi proposte scuole di perfezionamento scientifico, e tutti i ginnasi agrari e industriali da aggiungersi alle scuole elementari maggiori d'ogni provincia. E una porzione ancora resterebbe, con cui soccorrere l'istruzione rurale ove è più derelitta, nonché quella dei sordo-muti, dei ciechi e dei giovani prigionieri. 73
Anche queste condivisibili considerazioni mostrano i limjti del C.. Egli pretende di rappresentare in termini razionali, finanziari, matematici e demografici un problema politico-militare che ha ben altre radici: quale interesse poteva avere la monarchia absburgica a innalzare le virtù mflitari degli italiani dei suoi domini, cioè a metterli in condizione di presentare il conto dell'ingente sostegno finanziario da essi già dato all'Impero? Anche a questo proposito l'lmpero absburgico applicava il principio della divisione del lavoro, tanto lodato dal C. e dallo Zambelli ....
Le riflessioni politico-militari sui tre grandi Stati-guida: Inghilterra, Stati Uniti e Francia (1842)
Da una prospettiva militare regionale il C. passa direttamente a una prospettiva europea e anzi intercontinentale, dando il meglio di sé stesso proprio in questa occasione, con riflessioni politico-militari sui tre grandi Stati-guida del momento (Inghilterra, Francia e Stati Uniti) comparse sul Politecnico del 1942, a proposito di un libro del dott. Cristoforo Negri.74 Riflessioni che potrebbero essere definite geopolitiche, geostrategiche e geoeconomiche; in esse hanno gran peso fattori di carattere macrogeografico e macroeconomico, che dunque non possono essere angustamente «terrestri» né ammettere dicotomie, ma legano insieme politica, economia, stato sociale dei popoli, fattori geografici, potere marittimo (nelle sue due componenti militare e mercantile) e potere militare terrestre. 73 C. Cattaneo, Delle Istituzioni militari nel Regno Lombardo-Veneto (in Scritti politici e Epistolario 1836-1848 - a cura di G. Rosa e J.W. Mario, Firenze, Tip. G. Barbera 1892, pp. 99-103). 74 Cfr. l'ampia recensione ad opera di C.C. del libro del Dott. Cristoforo Negri Del vario grado d 'imponanza degli Stati odierni (Milano, Bernardoni 1841) in « li Politecnico» 1842, Voi. V, p. 353-389. Cfr. anche C.C., Di alcuni Stati Moderni (in Opere edite e inedite ... Cit., Voi. ID, pp. 263-301). Nella recensione spesso non si distingue bene tra il pensiero del C. e quello dell ' autore recensito, che evidentemente coincidono.
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Individuando l'onda lunga nella storia dei popoli e dei loro rapporti e il peso crescente dello sviluppo industriale, il C. va molto al di là della prima metà del secolo XIX e mostra - come sempre - un solo limite: quello di ignorare l'Italia. Ciò non significa, però, che egli rifiuti, in questa occasione, di misurarsi con il concetto generale di nazione. Anzi: sembra presentire ciò che sarebbe avvenuto in Europa nel secolo XIX, quando constata che per naturale tendenza del suo pensiero, il sig. Negri ha preso di mira piuttosto gli Stati che le nazioni: differenza di sommo momento nella scelta dei fatti, e perché una nazione è spesso in più Stati divisa, e questo smembramento elide per lo più in gran parte della sua potenza naturale; e perché uno Stato grande è quasi sempre un artificiale accozzamento di più -nazioni, che tende ad esaltare alcune di esse in modo che assorbe ed esprime in sé la potenza delle altre; delle quali, se si prendessero isolatamente, non si saprebbe spiegare l'apparente impotenza.
Dunque, anche dal punto di vista economico, una nazione smembrata in più Stati perde la sua potenza naturale [riferimento all'Italia? N.d.a.]; d 'altro canto, anche uno Stato che tiene insieme «artificialmente» più nazioni ha in sé elementi di debolezza [riferimento all'Impero Austro-Ungarico? - N.d.a.] I legami tra politica, economia e strategia militare e navale si manifestano soprattutto nella magistrale ricerca delle matrici autentiche della potenza ingkse, destinate a rimanere tali e conservare il loro peso anche nel secolo XX. Tutto il sistema economico inglese - egli osserva - è basato sulla marina mercantile, rispetto alla quale la marina militare - e in genere la componente militare della politica estera, con il relativo sistema di basi, porti e colonie - una volta tanto non rappresentano l'eternamente temuta (e nociva o superflua) sottrazione di risorse o un imperialismo puramente militare e fine a se stesso, ma un indispensabile fattore di incremento e di sicurezza per l'economia e l'industria nazionale: a quest'ora le relazioni interne di questa Inghilterra disseminata, in fortezze e colonfo su tutto il globo, alimentano un'infinita marineria: 27 mila vele, e mille vaporiere, alle quali ba<;tarono talora dieci giorni a varcare l'Atlantico. Ogni milione d'abitanti che il rapido incremento delle tante colonie vi farà surgere, manderà nei porti inglesi un nuovo stuolo di vele, darà nuove ali alla prodigiosa produzione della sua industria, trarrà dall'inesauribile terra nuove masse di ferro e di carbone, svilupperà nuove legioni di macchine a vapore, le quali già sommano in Inghilterra alla forza di quattrocentomila cavalli. Qual'è la nazione,
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le cui manifatture siano provocate da 250 milioni di diretti o indiretti consumatori di tutte le nazioni e di tutti i climi? E tale immensità di consumi ancora non basta a tener dietro al mostruoso sviluppo dell' industria britannica 1•.. ] A qualunque parte del globo si rivolga l'occhio, si incontrano le navi, le fortezze, li emporii, le colonie dell 'Inghilterra. Dalle appartate sue isole codesta nazione seppe spargere in tutti i mari le sue vele. Nelle grandi lotte della politica europea poté bloccare i porti, sforzare li stretti, ferir nel cuore quegli Stati che avevano la capitale sul mare; colle sue crociere lungo le correnti delle acque e dei venti appostare le navi nemiche, vietar loro di attelarsi in flotte, e d'addestrarsi a quelle grandi evoluzioni, che danno o tolgono in un giorno il dominio dell'Oceano e il commercio nel mondo [... ]. Una voce di guerra arresta i naviganti d'ogni altra nazione; la nave inglese, protetta né più remoti angoli del globo, sola e senz'armi, all'ombra sola del suo vessillo è più sicura che non le navi a greve costo armate. Il navigatore che ritorna da lontane spedizioni ignaro delli eventi, non teme di rinvenire nei porti dell'Inghilterra eserciti invasori, come ad o.gni moto di guerra poté trovarli in Danzica, in Amburgo, in Anversa, in Lisbona, in Genova, in Livorno, in Trieste. Poche batterie di porto bastano ad assicurnre gli arsenali dalle navi nemiche, che sfuggissero a una crociera, o sgominassero una flotta. Muniti copiosamente i porti, le colonie, le navi, rimangono ancora accumulati sui moli dell ' Inghilterra 25 mila cannoni. 75 Ben chiaro al C. - fin da allora - è anche il preponderante ruolo politico, sociale e militare dell'aristocrazia inglese, al quale però corrispondono la miseria e lo scarso o nessun peso delle altre classi: mentre le dovizie, la nobiltà, la gloria, l'esperienza, l'ingegno si stringono fra loro in poderoso nodo intorno agli eloquenti che governano il Parlamento, la moltitudine si vede ad ogni tratto rapiti in quel vortice gli sperati suoi capi, e rimane senza consiglio, senza forza, senza beni, inetta a giovarsi dé suoi diritti elettorali e della teatrale sua libertà. Il pariato domina gli agrieultori [...] domina sugli industriosi [...] domina sugli eserciti e sulle flotte colla compera dei gradi e colla munificenza degli stipendj e delle pensioni; domina sulle classi povere 1•.• ]; perfino sugli oppositori suoi, per la potenza e la gloria che seppe dare cò suoi consigli e col suo sangue alla nazione; poiché, per quanto accese siano le opinioni civili, sempre uguale in tutti i cittadini è l'orgoglio del nome comune. 75
Nelle Opere edite e inedite a cura di A. Bertani (Cit) si parla (p. 273) di «migliaia di cannoni»: 25000 cannoni sono probabilmente un'esagerazione corretta in tempi successivi, forse dallo stesso C..
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I giudizi sull'Inghilterra del C. collimano del resto, con quelli dell'economista tedesco List (da lui peraltro avversato perché nazionalista - e quindi protezionista - anche in economia). Gli ordinamenti militari dell'Inghilterra sono strettamente legati da una parte alla sua economia, dall'altra alla sua struttura sociale e al ben diverso ruolo della nobiltà, la quale - anziché tendere a sottrarsi alla legge e conservare privilegi feudali come sul continente - preferisce influenzarla, acquisendo ugualmente il contro1lo delle risorse industriali e intellettuali della Nazione. È così avvenuto che i potenti stretti in lega coi migliori, in un modo che altrove non si vide mai, si valsero di tutti i naturali vantaggi per assicurar l'isola loro da ogni forza straniera, senza doverla perciò sottoporre all'intollerando aggravio e al pericolo degli eserciti stanziali. La industria nazionale non è turbata mai dalle armi nemiche, mentre sul Continente ad ogni nuova generazione le guerre guerreggiate arrestano i trasporti, recidono i ponti, sperperano le navi, minano gli opificj, smuovono i confini, sconvolgono le leggi e le aspettative, impoveriscono e disperdono i lavoratori, invertono i consumi provveduti e le concorrenze, sottraggono le materie prime, e respingono i capitali, che ora vengono deviati ad alimentare la guerra, ora a ripararne i danni, e a ristorare l'afflitta agricoltura. Al contrario gli armamenti straordinarj svolsero in Inghilterra i prodigi della fabbricazione, e trassero fuori grandi forze produttive, che sopravissero anche alla guerra. E per la soverchiante potenza marittima della nazione, la guerra, che abbatteva il traffico degli altri popoli e ne abbatteva le industrie, le fu quasi sempre occasione a dilatare il commercio, e preparargli sicure sedi nelle più remote parti del globo; perloché se l'industria inglese è salita a tanta grandezza, ciò provenne principalmente dalla vasta ricerca, che la sua potenza marittima procura alle sue manifatture.76
Si potrebbe avere un' immagine più efficace de1la politica estera e militare inglese nel sec. XIX e XX, e insieme del rapporto tra economia, industria e potere marittimo? Eppure, ne] 1843 Mahan non era ancora nato .... Ritorneremo sugli specifici aspetti marittimi del pensiero del C. - non meno interessanti di quelli terrestri - nel capitolo ad essi dedicato.
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C. Cattaneo, recensione al Sistema nazionale d'economia politica del dott. Federico List., Voi., I - edizione seconda, Stuttgarda e Tubinga, Presso Cotta, 1842 (in «Il Politecnico» 1843, Vol. VI, pp. 285-340).
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Intanto, si deve constatare che con gli impliciti e espliciti elogi al «modello» inglese il C. interpreta la realtà di quella che allora è l'unica superpotenza (militare ed economica insieme) in modo opposto a queJlo di Melchiorre Gioia, senza vedervi - come quest'ultimo - la massima espressione di un egoistico monopolio economico e anche la sentina di molti ma1i della democrazia e delle nascente rivoluzione industriale. Eppure, il C. è spregiatore di tutte le dottrine protezionistiche e di tutti i monopoli. .. Una visione unilaterale o almeno parziale che si ritrova nella stessa impostazione politica federalista del C., della quale - forse perché modellata sulle specifiche e loca1istiche aspirazioni lombarde all' autonomia - gli sfuggono gli incentivi alla creazione di nocive barriere commerciali e i sottofondi militari, che compaiono con tutta evidenza se ci si riferisce a una più ampia rea1tà nazionale e italiana. La stessa unilateralità si ritrova nella fin troppo scoperta ammirazione del C. per la soluzione federalista degli Stati Uniti. Nonostante la sua lontananza dall'Europa e ancor più daJl'ltalia, la sua enorme estensione tra due oceani, le sue specificità geografiche, la sua bassa densità abitativa, la naturale sicurezza dei suoi confini terrestri, egli sembra vedere nel giovane Stato americano - senza averlo mai visitato - un modello anche militare per le cose italiane. Così egli annota, con quasi ingenuo entusiasmo: la moderazione del pubblico debito e delle imposte è una conseguenza della savia norma posta dai fondatori di quella repubblica e seguita fino a questi ultimi tempi, d'astenersi affatto da ogni intervento nelle cose delle altre nazioni, e riservar la guerra alla slrellissima difesa [... ] Quindi si vede il prodigio d'uno Stato, al quale con diecisette milioni di abitanti bastano in pace diecimila soldati, sparsi per la più parte lungo le frontiere dei popoli selvaggi. La milizia però conta un milione e trecentomila uomini. Veramente è smembrata sotto tanti Comandi quanti sono gli Stati; e ha poco esercizio e debole disciplina, come quella che dimora nelle proprie case, ed elegge a libero voto li officiali.
Che farebbe, in Italia, queste milizie regionali in caso d'invac;ione? sarebbero tutte e subito d'accordo nel respingerla? il C. non risponde e non risponderà mai a queste domande. Lo scarso addestramento e la scarsa disciplina non sono un handicap: per lui sono cose da poco, visto che a tutto rimedierebbe l'entusiasmo popolare: l'impeto d ' una difesa popolare in breve riparerebbe ad ogni sorpresa; e mentre le vaporiere e le locomotive adunerebbero avolo i cittadini, ogni forza nemica in tanta vastità di paese rimar-
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rebbe lenta e dispersa [sarebbe lo stesso in Italia? - N,d_a_J. Intanto il possesso d'una forza stanziale non alletta gli amministratori ad abusarne, sia contro i cittadini, sia contro li stranieri. E a rispondere alle improvvise ostilità vale la flotta [che, in questo caso, non è frazionata tra i singoli Stati - N_d.a.], la quale potè riescir terribile al nemico, senza poter essere per sé strumento d'oppressione interna e d'esterna conquista [... ] Mentre in ogni altro Paese incivilito l'esercito trattiene in vita inoperosa e celibe il fiore della gioventù, nelli Stati Uniti tutti possono rimanere intenti alle cure della famiglia [i loro confini sono - militarmente e politicamente - come quelli della Francia o della Germania? - N.d.a.]. Il C. non si chiede quanto contino - nel modello americano - la disponibilità di una forte flotta sempre pronta a intervenire e le correlate condizioni geografiche, che rendono quel modello assai poco esportabile nell'Europa continentale e se mai affine all'inglese. Le sue parole dimostrano, comunque, quante e quali radici profonde abbia la politica estera e di sicurezza americana. Ma la sua esagerata ammirazione di federalista g]i gioca un brutto scherzo, ché mentre lo Zambelli vedeva nell'esperienza americana anche i limiti del federalismo, i1 suo ottinùsmo non gli fa vedere i germi della futura guerra civile 1861-1865, già vivi e operanti anche quando egli scrive: duemila giornali liberissimi lavorano ad uniformare le opinioni, e sfogare e rompere con assidua discussione la violenza delle parti politiche e religiose. Alle loro esagerate invettive lo straniero inesperto crede sempre imminente l'eruzione di una guerra civile tra le innumerevoli sette, tra i federali e gli unitari, tra i fautori delle dogane e quelli del libero commercio, tra gli Stati che conservano anche la schiavitù e li ardenti emancipatori. Nella sua visione angustamente economicìstka, il C. poco o nulla considera il profondo sentimento nazionale - se non nazionalistico - che è fondamento e anima de11a politica interna e estera degli Stati Uniti e dell' Inghilterra, ne pervade anche le Istituzioni militari e si trasforma talvolta in egoismo. Eppure un aspetto non marginale della sua visione economica e politica - quindi anche militare - è la sicura avversione ad ogni nazionalismo, accompagnata da un patriottismo che c'è, ma non va al di là dei confini del Lombardo-Veneto. Di qui la veemente difesa del modello economico e sociale lombardo, proteso verso il progresso e già ricco di concrete realizzazioni, contro un certo Filarete Chasles che nei Débats del 27 ottobre 1942 presenta il Lombardo-Veneto come una re-
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gione in piena decadenza demografica, con un'economia in crisi, afflitta dalla miseria.77 Il «modello» francese è perciò giudicato dal C. con molta, anzi, troppa severità e visto in contrapposizione a quello inglese, pur altrettanto nazionalistico. Ragioni geopolitiche, geoeconomiche e geostrategiche abbinate a un pernicioso centralismo e statalismo e a un protezionismo economico che favorisce solo i monopoli locali, impediscono ali' economia e al commercio francese di raggiungere uno spontaneo sviluppo pari a quello dell'Inghilterra, e di competere con i prodotti manjfatturieri inglesi sul mercato mondiale. È così avvenuto che la «Compagnia privilegiata delle Indie Occidentali diede così poco aJla Francia, mentre la Compagnia britannica delle Indie Orientali apportò a quel governo un potente esercito e una prodigiosa conquista». Il Governo inglese fa solamente ciò che i privati e le loro associazioni non possono fare da sé, e ovunque gli interessi dei privati lo richiedano porta la minaccia deJle sue formidabili forze militari. Al contrario, in Francia il principe de Richelieu, applicato all'industria e alla navigazione dal pedagogo Colbert, rivestito d' una sfarzosa grandezza da Luigi XIV, ritemprato dalla tremenda vigoria della Convenzione e dal genio architettonico di Bonaparte, associato a tutte le glorie dell' ingegno e del valore, sopravvisse a tutte le rivoluzioni; e mentre formò il nodo dell'unità e potenza francese, le tolse sempre il potere d'estendersi vastamente, e riprodursi in terre lontane, con libere propagiru viventi di propria vita. I rami d' un tronco solo non possono mandar ombra su tutta la terra.78
Il centralismo francese non favorisce lo sviluppo di «robuste colonie e stabili conquiste». Anche le sue imprese marittime sono dovute più a rivalità «generosa» con altre nazioni che a «intima necessità e spontanea esuberanza di forze navali»: tuttavia è certo che la Francia anche perdendo tutte le sue navi e le sue colonie, non perderebbe quello che è sempre stato il nerbo della sua vera potenza, che è continentale e terrestre: anzi, appunto dopo Trafalgar, quando le sue colonie furono occupate, chiusi i suoi porti, e assediate di lido in lido le sue navi, appunto allora sembrò irresistibile e fatale la sua potenza; fu allora che le caddero innanzi tutte le capitali d'Europa, e tutte le nazioni
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«Il Politecnico» 1842, Voi. V, pp. 590-598. C. Cattaneo, Di alcuni Stati moderni (Cit.), p. 289.
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amiche o nemiche vennero travolte nel torrente della conquista. A pari massa, nessuna nazione oserebbe invadere la Francia; a pari massa, la Francia assalirebbe con alacrità qualsiasi altra nazione.
Il C. nota anche «l'indole flessibile e seducente della nazione che forma il fondamento della potenza francese, benché non supplisca all'intima debolezza di quel principio amministrativo che sacrifica ad un artificiale accentramento ogni spontaneo e locale movimento». Memorabili e profetiche le due pagine dedicate alla conquista dell'Algeria, nella quale la Francia più per rivalità coloniale che per disegno fermo, volle risuscitare il principio della conquista antica; disse che tutta la terra d'un altro popolo, non corsaro e non marino, era sua. Ma questo popolo ha una lingua e una religione che si stendono da un'estremo all'altro del continente africano; ha costanza e valore; ha capitani indomiti che combattono per la fede dei loro padri; fu temuto e obbedito altre volte in Sicilia, in Tspagna, nella Francia stessa».79
Dal punto di vista militare «fu sprezzato il lungo esempio della Spagna, che si limitò sempre a tenere forti piazze marittime per reprimere i pirati. Alla Francia parve poco occupare d'un tratto settecento miglia di littorale, concatenare i porti e le fortezze colle vaporiere ... ». E le difficoltà dell'occupazione militare integrale del territorio messe in luce dal C. sono - già allora - le stesse che, a distanza di oltre cento anni, porteranno al ritiro delle truppe francesi: in paese vasto (quasi come la Francia), senza strade, montuoso, con micidiali vicende di clima, ove le popolazioni delle città si ritirano, o nembi di cavalleria involgono le colonne in marcia, e intercedono le comunicazioni, i vantaggi dell'arte europea sono perduti; non città ricche, pegno di futura tranquillità. L'esercito deve presidiare quaranta luoghi, portar con colonne mobili i viveri alle piazze interne, e perirebbe se fossero bloccati i porti di Francia. 80
In nome dell'econonùa, il C. si dichiara contro le colonie, e ciò che dice della conquista francese dell'Algeria vale anche in tanti altri casi:
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ivi, p. 292. ivi, p. 293.
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questo sanguinoso acquisto [dell'Algeria - N.d.a.] costò già seicento e più milioni, i quali lasciati alle emunte famiglie, o spesi nelle squallide provincie, in porti, in vie communali, in canali irrigatori, e strade ferrate, avrebbe alleviato la scarsa e povera popolazione [... ]. Quale economista adunque suggerirà di profondere sangue e oro, per togliere ai barbari d'oltre mare un lembo di deserto ove la civiltà, fin da tremila anni più volte trapiantata non tenne mai radice? [... ] Una vasta colonia agricola in Algeria, già resa difficile dalla gelosa e lenta centralità, divien più difficile sotto l'amministrazione militare di una guerra perpetua, contro un popolo errante, che occupa mezzo il continente africano. Alcuni dissero ch'è una scuola di guerra. Scuola di beduini; scuola d'imboscate, di rapina, di omicidio; da cui poca esperienza può portare il soldato nelle dense linee di battaglia del Reno e del Po [...] Ben al contrario l'Algeria fu piuttosto un pegno di pace: poiché la conservazione di quella colonia sarebbe il più arduo pensiero di quell'uomo di Stato che avventasse all'Europa una dichiarazione di guerra. Ma noi crediamo che la forza delle cose e l'azione inesorabile dell'esperienza e del tempo ridurrà bellamente l'Algeria ad una catena di stazioni marittime. 81
TI C. è in geniale controtendenza, o se si preferisce troppo in anticipo: ché in tutta Europa, e non solo nella Francia di allora, nel XX secolo le colonie sarebbero diventate un affare spesso poco conveniente, almeno da un punto di vista strettamente economico. Ciononostante, egli è troppo severo nei riguardi delle colonie francesi e/o di altri Stati, ma fin troppo indulgente nei riguardi deHe colonie inglesi, viste esclusivamente come positivi fattori di sviluppo economico della madrepatria, il che equivale a dire - in termini più diretti - territori di spietato sfruttamento monopolistico. E così, non compare mai nelle sue valutazioni il fatto che il «sano egoismo» inglese, che già aveva provocato - per ragioni economiche - la ribellione e la vittoriosa guerra d'indipendenza degli Stati Uniti d'America, storicamente parlando era solo un fattore di momentaneo benessere che presto o tardi si sarebbe trasformato in fattore di debolezza, fino a provocare la perdita dell'Impero anche per l'Inghilterra. Eppure, per il C. solo le colonie francesi sembrano portare in sé i genni della dissoluzione, e sono gravide di inconvenienti.
Ferrovie e non fortezze Sempre trattando della politica militare francese , il C. salta definitivamente il fosso anche a proposito di uno dei mostri sacri del tempo, SI
ivi, pp. 294-295.
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perno della potenza terrestre francese da Vauban (sec. XVII) in poi: le fortificazioni, nei riguardi delle quali si era già dimostrato assai tiepido in Della milizia antica e moderna. In questo caso l'impostazione è manichea: alla visione del militare, che le riterrebbe sempre utili e necessarie, il C. contrappone quella de11 'economista, per il quale sono sempre e solo un inutile dispendio di risorse. Il riferimento è naturalmente la Francia, che a] momento dispone di ben 170 fortezze e 15 piazze d'armi e nella quale di recente vi è stato «l'enorme dispendio di 150 milioni per cingere Parigi». Le considerazioni del C., non del tutto originali perché riprese da un autore francese, vanno molto al di là degli aspetti puramente economici, e investono il rapporto tra offensiva e difensiva e il ruolo strategico del movimento: i militari ricantano le lezioni imparate in collegio sui grandi vantaggi delle grandi linee di fortezze - «Come la nave lacera cerca il porto, l'esercito rotto domanda il riparo delle piazze ... Il trascurarle sarebbe errore, perché sempre possibile è un disastro, e il ripararvi richiede tempo, e posizioni, e la soppressione d'una ritirata, altrimenti indefinita e dissolutrice». Ma i finanzieri possono rispondere che queste sono imaginazioni, perché dopo un naufragio [come quello] di Marengo, d' Jena, di Lipsia, di Waterloo, la nave s'affonda, e non trova porto; e dopo quei tremendi disastri le fortezze, un fatto vero e reale, nulla giovarono. E non solo esse «non danno la vittoria, nella quale essenzialmente si trova la sicurezza»; ma inoltre ingoiano soldati e materiale; tolgono alle truppe la più necessaria loro proprietà, quella di moversi; disperdono le forze su cento punti che il nemico non assale, mentre sul campo di battaglia manca talora quel pugno di riserve che potrebbe afferrar la vittoria e salvare lo Stato.82
Le grandi nazioni, che decidono la loro sorte in battagUe campali, hanno soprattutto bisogno di concentrare velocemente le forze: di qui l'importanza dei «grandi e sapienti complessi di strade ferrate», che servono appunto a rendere mobili e far applicare in un sol punto nel minor tempo possibile tutte le forze di una grande nazione. Ci troviamo di fronte, per la prima volta, a una magistrale sintesi dell'importanza strategica de1le ferrovie: e quindi se fortificazione significa costruzione qualunque per rendere più agevole ed efficace la difesa, nessuno negherà che la più mili-
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ivi, p. 296.
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tare di tutte le costruzioni sia quella che può render mobili e concentrare in un punto e nel minimo tempo tutte le forre d'una gran nazione, e quindi sollevarla dal peso dei grossi presidii in pace e dal pericolo delle sorprese in guerra; con che ognuno vede che s'intendono i grandi e sapienti complessi di strade ferrate. E sono una tanto miglior difesa in quanto sono sempre in mano della popolazione, e non possono venir ritorte a tutto loro danno, come le fortezze; e l'invasore ingiusto, che sforzasse una frontiera, se la vedrebbe dileguare inanzi; e mentre i difensori si addenserebbero dalle opposte estremità del paese colla velocità di trenta miglia all'ora, le sue colonne sarebbero costrette ad inoltrarsi a lentissime giornate lungo le scomposte rotaie e li argini sfasciati. Nè gli vale il ristabilirle se non giunge a impadronirsi anche d'un'enorme massa di rotanti; il minimo divario di dimensioni basta a impedirgli di sostituirvi i proprii; nè oserebbe farlo, perché troppo facile è intercettarne il ritorno. Con questo genere di difesa cessa la discordia dei militari e delli economisti, perché se le strade ferrate servono nella guerra, non sono inutile ingombro e flagello delle finanze nella pace. I vantaggi indiretti che ne derivano alle finanze, uniti al frutto qualsiasi dell'esercizio, compensano il fitto del capitale, senza bisogno di novelle gravezze.83
Giuste intuizioni, tutt'altro che pacifiche e scontate all'epoca (1842) in cui sono scritte. Peccato che il C. non ne tragga tutte le conseguenze nei riguardi della difesa dei confini: costruire meno fortezze e più ferrovie significa anche che - nella misura in cui i confini dello Stato sono lasciati sguarniti - essi devono essere facilmente raggiungibili con buone e numerose ferrovie atte a consentire all'occorrenza il rapido concentramento di forze mobili. Eppure in un lavoro Sui progetti delle strade ferrate in Piemonte,84 pur mettendo in giusta evidenza l'importanza militare di una ferrovia Genova-Alessandria-Torino il C., in base a criteri di mero profitto, vede (ma solo per il Piemonte?) le frontiere doganali o le linee militari di difesa solo come un nocivo elemento di separazione che nuoce ali' economicità delle strade ferrate, che dunque devono essere costruite facendo passare in second'ordine le esigenze di difesa militare. Esse «quando vedono una frontiera, devono rassegnarsi in faccia ai tanti interessi che vi stanno ancora connessi e vincolati, e tenersi alla maggior distanza possibile, e compiere frattanto ciò che è già maturo e opportuno; ed aspettare tranquil1amente il frutto ulteriore de11e ]oro intraprese, poiché cosa vien
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ivi, p. 297.
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«Il Politecnico» 1841. Voi. IV, pp. 143-158.
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da cosa». (se ne deduce che, nel caso dell'Italia, le ferrovie non devono
certo essere fattore di unificazione nazionale ... ) Si ha, a volte, l'impressione che il C. maneggi la chiave economica con troppa disinvoltura, in eccesso o in difetto, come e quando gli fa comodo. Ad esempio, nonostante il suo interesse per l'economia, le scienze, l'industria, l'agricoltura e in genere per quella che definiremmo scienza dell'organizzazione, egli trascura completamente di trattare - almeno nel periodo considerato - i sottofondi economici, industriali e logistici della guerra di masse, e mostra di credere che la mobilitazione consista solo nel trovare degli uomini entusiasti e animati da amor patrio, che bene o male poi qualche fucile riescono a trovarlo. E l'artiglieria, i costosi cavalli e carriaggi e tutto ciò che serve a un esercito? La manovra d'insieme delle unità sul campo di battaglia e le esigenze di preparazione che essa comporta, è completamente fuori dal suo interesse: e anziché ritenere che le arnù da fuoco complichino l'addestramento, sembra superficialmente portato a credere - come lo Zambelli - che lo semplifichino. Eppure molti anni prima il Machiavelli, pur sostenitore delle milizie cittadine e spregiatore dei mercenari rovina anche morale dell'Italia, richiamava la necessità di un duro e continuo esercizio preparatorio e metteva in guardia contro le masse raffazzonate prive di addestramento. Scriveva infatti il segretario fiorentino che perché l'esercito animoso non lo fa per essere in quello uomini animosi, ma esservi ordini bene ordinati. Questi esercizi sono necessarissimi, dove si faccia un esercito nuovo; e dove sia l'esercito vecchio, sono necessarii, perché si vede come ancora i Romani sapessero da fanciulli l'ordine degli eserciti loro, nondimeno quelli capitani, avanti che venissero al nimico, continuamente gli esercitavano in quelli. E Gioseffo [Flavio Giuseppe - N.d.a.] nella sua Istoria dice che i continui esercizi degli eserciti romani facevano sì che tutta quella turba, che segue il campo per guadagni, era nelle giornate [cioè nelle battaglie N.d.a.] utile, perché tutti sapevano stare negli ordini, e combattere, servendo quelli. Ma negli eserciti d'uomini nuovi, o che tu abbia messi insieme per combattere allora, o che tu ne faccia ordinanza per combattere col tempo, senza questi esercizi, così delle battaglie di per sé, come di tutto l'esercito, è fatto nulla: perché sendo necessarii gli ordini, conviene con doppia industria e fatica mostrarli a chi non li sa, e mantenerli a chi li sa; come si vede che per mantenerli e per insegnarli molti capitani eccellenti si sono senza alcuno rispetto affaticati.
Chissà perché molti ardenti sostenitori - coevi e non - delle milizie cittadine sul modello del Machiavelli, dimenticano queste parole peraltro attinenti in gran parte al comune buon senso_ Perché è proprio i I co-
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mune buon senso che porta a respingere la strana idea - del resto ampiamente contraddetta anche dai suoi propugnatori - che le armi da fuoco dispensino da un duro e non breve addestramento d'insieme.
Il Cattaneo è veramente contrario agli eserciti permanenti? Contrario alle fortezze, il C. si è finora dimostrato contestualmente favorevole a un esercito di massa e di cittadini costituito solo al bisogno, per quanto il modello militare inglese, da lui tanto lodato, sia basato su un esercito volontario: senza contare che confini senza fortezze in linea di larga massima richiederebbero pur sempre un sia pur ridotto numero di forze permanenti. All'interrogativo che ci siamo posti bisognerebbe quindi dare una risposta positiva; la risposta è, invece, a-;sai sfumata: potrebbe essere «si e no». Certo, il C. non si preoccupa molto di particolari tecnici come la difesa delle frontiere, e loda assai l'esercito permanente di soli 10000 uomini degli Stati Uniti con un milione di cittadini pronti a trasformarsi al bisogno in soldati: ma sia pur affrontando il problema della difesa terrestre da un punto di vista strettamente economico, egli sembra inaspettatamente subire il fascino del modello «lancia e scudo», rivalutando la fin troppo criticata figura del volontario: se si mira sotto l'aspetto dell'economia la pubblica difesa, si vede che il soldato volontario, a pari numero e pari armamento, e perciò a pari spesa [ma bisogna pagarlo di più! - N.d.a.], presta un servigio più efficace che l'uomo costretto, il quale è privo sovente d'istinto belligero e sostenuto solamente dalle stringhe della disciplina. Laonde il più economico sistema di difesa se non per un governo, certo per una nazione, sarebbe quello che accoppiando il principio della milizia volontaria dei Romani col principio della milizia universale degli Svizzeri, tenesse ammaestrati, ordinati, armati e moralmente esaltati gli abili tutti quanti, serbandosi ad ogni caso di guerra a fare un appello alla volontà; e l'esperienza dimostra che le volontà rispondono con una vivacità proporzionata al pericolo. Codesto slancio della volontà non si può fomentare se non con modi attinti nella sfera dell'affetto. E sarebbe una nuova applicazione della psicologia all'economia pubblica; poiché il più grave quesito economico è oggidì quello d'istituire una pubblica difesa che non sia d'altra parte una pubblica ruina. 85
85 C. Cattaneo, Del pensiero come principio d 'economia pubblica (in Opere edite e inedite ... - Cit., Voi. V, p. 391).
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Dunque il soldato volontario può essere anche un vantaggio per l'economia del Paese, e rappresentare rispetto al soldato improvvisato una più efficace difesa; dunque anche il reclutamento di massa non è un toccasana, e lungi dal fornire sempre degli esemplari cittadini - soldati ansiosi di battersi per la Patria, può anche mettere a disposizione «uomini costretti, privi sovente d'istinto belligero e sostenuti solamente dalle stringhe della disciplina». Dunque anche «l'istinto belligero», nonostante le armi da fuoco, conserva la sua importanza ... Ve n'è quanto basta per far giustizia delle diffuse tesi coeve avverse agli eserciti di mestiere (presentati come antieconomici investimenti e fonte di grave piaghe sociali), e al tempo stesso fin troppo entusiaste delle possibilità offerte da torme di cittadini improvvisatisi (per amore, ma anche per forza) soldati ... Ancora una volta, come nel caso dello Zambelli dobbiamo chiederci: insomma, come la pensa C.? Una cosa è certa: che a questo punto presentarlo sic et simpliciter come sostenitore della nazione armata, dell'esercito di cittadini sarebbe riduttivo e ingiusto. Tutto in lui è subordinato a calcoli di congruità economica: è questo il vero e unico filone unitario del suo pensiero in campo militare. L'approccio economicistico lo porta a non condividere affatto il vecchio, usato e abusato motto latino - sempre di attualità - si vispacem, parabellum. «Parare bellum» sì, ma non al prezzo della rovina economica per lo Stato, anzi per tutti i contendenti: nelle guerre ambiziose e aggressive, nella sfrenata emulazione degli armamenti, delle flotte, delle fortezze, li eccessi a cui s'abbandona un governo divengono una necessità per gli altri tutti. Sotto la forma del debito pubblico, s'ingoia la rendita netta delle terre; s'ingoia tutto ciò che l'agricultore deve ai favori di natura e al cumulo di capitali; la moltitudine dei possidenti si lascia stupidamente ridurre alla condizione di meri affittuari; si trasferisce in fatto vero nel governo ogni proprietà come nelle conquiste degli Arabi e dei
Normanni. 86 Di qui la sua simpatia persino eccessiva per il modello militare anglosassone, da lui visto come quello più economico non solo e non tanto mera spesa militare, ma perché l'unico nel quale lo struin termini mento militare - visto nelle sue componenti terrestre e navale - riesce ad essere un fattor propulsivo dell'economia anziché un fattore ritardante e passivo.
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ivi. p. 393.
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Concludendo, negli scritti del C. fino al 1848 - ai quali per il momento ci riferiamo - la riflessione sul federalismo e sulle trasformazioni dell'arte della guerra unite all'esame del «caso concreto» dei principali Stati moderni non portano ad alcuna acquisizione definitiva e organica di valenza nazionale: ciò è tanto più vero per la parte militare. Inesistente l'analisi del rapporto tra federalismo e difesa militare, che pure fa bocciare da molti il federalismo per questa sola ragione. 11 C. nota - en passant e come se si trattasse di cosa di poco conto - che il tanto ammirato esercito di cittadini degli Stati Unili deve fare i wnli con dipendenze da poteri locali: ma quanto può valere «una milizia smembrata sotto tanti Comandi quanto sono gli Stati, con poco esercizio e debole disciplina?» Evidentemente, egli trascura quanto scriveva Clausewitz qualche anno prima, pur riferendosi a una Nazione - come quella tedesca - già dimostratasi assai più compatta di quella italiana, con due poli militari di prim'ordine (Austria e Prussia) e di grandi tradizioni, che erano stati punti di coagulo di una riuscita mobilitazione nazionale antinapoleonica e antifrancese, del tutto mancata in Italia. Secondo Clausewitz in guerra uno Stato federale forma un nucleo assai poco consisten-
te: non si può presumere in esso né unità né energia, né scelta razionale del condottiero, né sua autorevolezza e responsabilità. 87 Se anche per Clausewitz Stato federale significa nazione debole e quindi esercito debole, non si trovano argomentazioni di C. che facciano ritenere infondata questa tesi. Se ne trovano altre, invece, che trasformano il suo approccio alieno da ogni metafisica in superficiale materialismo e in culto del numero come fattore di potenza. Sul «Politecnico» del 1839 egli scrive: «le braccia dei lavoratori e le braccia dei combattenti: ecco il primo e più materiale elemento della potenza».88 Come debbano essere armati, ordinati, addestrati e comandati questi combattenti, non ce lo dice mai. n numero è forse potenza? Senza dubbio il C. - come già aveva fatto lo Zambelli e prima di ambedue il Blanch - pone (sia pur senza approfondirlo) il fondamentale problema del rapporto tra progresso delle scienze e dell'industria, economia e arte della guerra. Ma lo pone senza risolverlo in modo organico e coerente, lasciando dei dubbi su ciò che egli veramente vuole e pensa.
87 88
K. Von Clausewitz, Op. cit., Voi. Il, p. 862. «Il Politecnico», 1839, Vol. I, p. 29.
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La ripartizione della «scienza» della guerra per A.M. (1839)
Andrea Zambelli e Carlo Cattaneo riassumono in sé l'orientamento militare del «Politecnico», che con riferimento alla teoria strategica può essere definiti anch'esso jominiano, scientifico, materialista, e tendente a fare della guerra una scienza esatta o quasi. Sullo stesso «Politecnico» del 1839, tuttavia, si leva una voce che in misura consistente diverge dal dogmatismo imperante nel pensiero militare italiano del tempo, e da certe concezioni jominiane. Trattando delle Divisioni fondamentali della scienza della guerra, un certo A.M. (non meglio identificato) di fatto rimane assai lontano dal concepirla come scienza, ne sottolinea la dipendenza dalla politica ed è lungi dal presentarla come sottomessa a principi e regole fisse, dando una definizione di strategia senz' altro più accettabile di quelle fornite da tanti altri luminari (coevi e non) dell'arte militare, persino senza fare della battaglia decisiva - come Clausewitz - un topos, una meta.89 La scienza militare - afferma A.M . - può essere considerala dal lalu geografico (geografia militare); dal lato politico (politica militare) o dal lato delle grandi operazioni difensive o offensive, il che rientra nel campo della strategia e della tattica. Pienamente valida anche oggi la definizione di geografia militare: «è la scienza che insegna la conformazione della terra in rapporto a11e applicazioni che se ne possono fare alle operazioni militari. È questa una scienza vasta che esige un trattato a parte». Le catene dei monti e in particolare i fiumi (sic) formano le linee strategiche che deve considerare un buon capitano. Accanto alla geografia militare, bisogna considerare la politica militare: «che gioverebbe infatti conoscere perfettamente il campo sul quale dovesse agire, a chi non fosse sicuro degli Stati che potrebbero importunarlo sui fianchi o alle spalle?». Perciò si deve conoscere bene l'atteggiamento degli altri Stati, tenendo presente che i nemici di uno Stato possono essere prima di tutto i nemici che indica la geografia, cioè i suoi nemici naturali. Anche gli ordinamenti politici interni dei vari Stati hanno un loro peso: io linea di massima - osserva A.M. - al momento 1' Europa ha una sola forma di governo, e se uno degli Stati la cambiasse radicalmente si metterebbe in guerra con tutti i suoi vicini (come la Francia della Rivoluzione). In questa constatazione è già insito il concetto di guerra ideologica
89 A.M., Divisioni fmulamentali della scienza della guerra, «Il Politecnico» 1839, Voi. I, pp. 132-135.
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tipico del XX secolo: infatti per A.M. la guerra che si fanno due sistemi politici uguali deve essere condotta in modo ben diverso - e con altro spirito - dalla guerra che si fanno Stati con diversi sistemi di reggimento politico. Sulle modalità di condotta della guerra influiscono, poi, le diverse condizioni geografiche, che possono rendere conveniente o meno a ciascuna delle due parti la battaglia decisiva. L'esercito che ha le proprie fonti di alimentazione e la propria base di operazioni vicine deve sempre ricercare «battaglie sanguinose, ostinate e distruttive», in modo da esaurire le risorse del nemico (battaglie di Pirro). In questa ottica combattere sul suolo amico non è uno svantaggio, ma un vantaggio: si può infatti suscitare contro il nemico anche l'odio popolare . Dopo aver conosciuto il campo su cui si deve agire (geografia militare) e dopo aver prese le necessarie precauzioni contro quelle potenze che possono intervenire (politica militare), occorre trovare il modo di vincere il nemico: è questo il compito della strategia. Essa - una volta tanto - non è solo preparazione, studio, pianificazione: è anche azione e condotta (non solo militare) delle operazioni: «forma i piani, esamina le opinioni dei popoli e dei gabinetti, indica fra le varie strade la più sicura e la più diretta da prendersi per giungere a uno scopo prefisso, conduce le schiere sul campo di battaglia, per poi consegnarle alla tattica». Tra strategia e politica deve essere mantenuto uno stretto raccordo, fino a far respingere ad A.M. la prospettiva della corretta divisione del lavoro tra uomo di Stato e Capo militare: «il grande stratega deve essere anche uomo di Stato, tanto per ben condurre gli affari, quanto per non essere inutile flagello per l'umanità [riferimento a Napoleone? - N.d.a.]. I grandi Capi militari, perciò, sono stati anche sommi politici». Se si eccettua il consueto uso improprio del termine scienza, la conclusione è clausewitziana: quelle attinenti alla guerra «sono piuttosto scienze intuitive, che quegli esseri che la natura ha formato alle cose grandi imparano meditando, e di cui difficilmente si possono assegnare le regole». In due o tre pagine, almeno a proposito de11e grandi linee di politica militare e strategia A.M. dice cose molto più sensate di tanti altri agguerriti teorici, del tempo, non esclusi Zambelli e Cattaneo: v'è solo da deplorare che non abbia - a quanto risulta - approfondito concetti così flessibili e realistici.
La situazione degli studi geografici Dagli scritti militari dello Zambelli, e ancor di più del Cattaneo, emerge l'importanza militare della geografia. Lo stratega lavora sulla car-
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ta geografica e sui dati statistici del Paese nemico, e si vorrebbe che dagli studi di carattere geografico egli traesse elementi dj base certi e immutabili per H piano dj campagna. Si tratta. del resto, del comune orientamento dei dottrinari capitanati da Jomini: politica e strategia diventano - di fatto - geopolitica e geostrategia nella moderna accezione di questi termini. Non c'è, dunque, da stupirsi se nel «Politecnico» 1843 e 1844 compare, a puntate, una lunga ed esauriente panoramica degli studi geografici e cartografici in Europa dovuta al Graberg, dalla quale emerge anche la situazione italiana, ivi compresa la cartografia militare nei vari Stati.90 L'argomento meriterebbe di essere meglio approfondito; in questa sede, ci limitiamo a indicare una fonte preziosa quanto dimenticata, e a far notare ancora una volta il nesso esistente tra progresso della geografia e progresso degli studi militari (ivi compresa l'arte militare marittima), politici ed economici. Questa volta hanno più ragione che torto i dottrinari: l'importanza della geografia e il suo nesso con la strategia sono piuttosto trascurati dallo spiritualista Clausewitz, ma l'eccessiva enfasi che il C. (e ancor più lo Zambelli) pongono sui riflessi strategici, tattici e ordinativi della introduzione delle armi da fuoco non appare giustificata. Ricordiamo che autori classici francesi del sec. XVIII di grande fama come il Guibert e il Maizeroy sono di avviso totalmente opposto, fino a esagerare in senso contrario favorendo immancabili atteggiamenti conservatori. Secondo Guibert (1770) la scoperta della polvere non ha affatto perfezionato l'arte militare. Essa non ha fatto che fornire nuovi mezzi di distruzione e portare l'ultimo colpo alla cavalleria: istituzione che i nostri secoli di luce devono invidiare a quei tempi d'ignoranza! Le armi da fuoco hanno persino ritardato il progresso della tattica: perché dopo la loro comparsa gli eserciti contrapposti si sono avvicinati di meno e nelle battaglie è entrato ancor più il caso che le ragionate combinazioni_91
Più articolato il giudizio del Maizeroy (1766), anch'egli dell'avviso che non si tratti né di una rivoluzione, né di un'evoluzione nel campo strategico: 90 Si vedano, in particolare, le memorie Degli utili progressi della geografia presentate periodicamente a vari Congressi scientifici in Italia dal 1839 al 1844 dal don. Jacopo Graberg da Hemso, membro onorario di varie Società geognrl'iche europee e bibliotecario palatino del Granduca di Toscana, in «II Politecnico» Voi. U ( 1844), pp. 121 -139 (citiamo solo le più importanti). 91 J. De Guibert, Op. cit., Voi. I, p. 28.
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quantunque l'invenzione della polvere e delle nuove armi abbia causato diversi cambiamenti nel meccanismo della guerra, non bisogna credere che abbia avuto molta influenza nei fondamenti della tattica. né sulle grandi manovre. L'arte di dirigere le operazioni è sempre la stessa. Essa ha avuto più influenza sulla fortificazione che su qualunque altra branca; malgrado questo, se si riflette con attenzione si vedrà che l'attacco e la difesa delle piazze non hanno variato che nella forma e niente affatto nella sostanza. 92
Ragione di più per definire lo Zambelli e il Cattaneo non solo dei teorici materialisti, ma dei precursori della schiera di quei teorici militari del XX secolo e post - 1918, che sono portati ad attribuire a questo o quel sistema d'arma effetti strategici decisivi, rivoluzionari, miracolistici che poi la realtà della guerra - realtà complessa - si incarica si smentire.
SEZIONE III - La riflessione teorica sulla guerra di Cesare Cantù (1846): solo un «collage»? Cesare Cantù, intelJettuale, storico e scrittore politico piemontese di tendenze moderate finora poco o nulla studiato come scrittore militare, riunisce le sue riflessioni sulla guerra in un libro assai poco noto (Sulla guerra - dottrine e fatti relativi alla storia universale) pubblicato nel 1846, cioè alla vigilia della prima guerra d'indipendenza. 93 Esso fa parte della ben nota Storia Universale, ed è pieno di riferimenti ad autori militari - europei, più che italiani - anche dei secoli antecedenti il XIX; gli autori italiani più citati sono il Blanch e lo Zambelli. Anche se mancano nell'opera riferimenti diretti alla situzione politico-militare italiana, alla nostra storia militare e al suo rapporto con il problema dell'unità e indipendenza nazionale, essa non merita di essere ignorata sia dal d' Ayala che dallo Sticca, e così poco citata. Se non altro, anche questo è uno dei numerosi segni della vitalità del pensiero militare del periodo e della rilevanza del problema della guerra e del1a pace nell'intellettualità italiana del momento. Il riferimento al Blanch e allo Zambelli (ambedue definiti - nonostante la diversità degli accenti - «venerati amici»), l'assenza di polemiche dirette con questi due autori e le lodi ai loro scritti non impediscono al C. di discostarsi su molti fondamentali aspetti dal pensiero di ambe-
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J. De Maizeroy, Op. cit., Tomo I, pp. 10-l l. Torino, Pomba e C. 1846.
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due, a cominciare dal rapporto tra la guerra antica e moderna, per il quale il C. non ammette cesure. Diversamente dallo Zambelli, egli accanto agli aspetti strettamenti tecnico-militari vuol considerare que1li morali, spirituali, etici, politici del fenomeno guerra. Questo lo si vede subito all'inizio, con lunghe citazioni letterali del De Maistre a proposito della natura «divina» del fenomeno guerra, riflesso di quanto avviene in natura, dei suoi aspetti morali ecc .. E lo si vede anche quando - trattando delle fonti - dà del Blanch e dello Zambelli questo giudizio complessivo: due italiani, che godiamo contare per venerati amici, tolsero a trattare in generale della scienza della guerra, l'uno dopo averla esercitata e quindi potendo recarvi idee proprie, l'altro estranio ad essa ma giovandosi deI1'erudizione estesissima e d'uno stile che fa nascere fiori sulle più ispide lande. Uno pertanto lascia all'opera sua l'aspetto d'un'arida dimostrazione geometrica, l'altro vi semina tutte le veneri d' un libro di amena lettura. Entrambi si giovano di quanto era stato scritto precedentemente, ma osservandolo sotto aspetto nuovo. E il Napoletano vuole vedere la guerra come fatto sociale e come scienza in relazione colla civiltà, onde nelle varie epoche accenna le condizioni sociali, e in conformità con esse i procedimenti delle varie parti della scienza e della pratica militare, ponendovi a confronto quelli delle arti, delle lettere, delle scienze. Vasto quadro, ove gli accessori han talora più importanza che il soggetto principale, del che non gli vorrà far colpa nessuno il quale conosca l'importanza di osservare sotto tutti gli aspetti i procedimenti della civiltà. L'aJtro si impose confini per avventura troppo angusti, che fortunatamente egli stesso violò per dar alla sua materia ampiezza maggiore che non fosse ad aspettarsi dal titolo. Perocché l'illustre professore non assumeva che di esaminar la guerra nelle sue differenze tra i popoli antichi e i moderni; ma con ciò si condusse ad accompagnare passo passo questa scienza, osservandone in ciascuna età le condizioni. Confessa il Blanch aver avuto impulso all'opera sua e tolto esempio da Ugo Foscolo, che illustrando le opere del Montecuccoli, unì le condizioni d'uomo di lettere, di pensatore forte se non profondo, e di soldato. Il quale delineando la concordanza dell'arte della guerra colle altre, e gli uffizi dello storico di quella, così diceva: «La tattica e le artiglierie sono elementi della guerra, ma sono connessi alla istituzione militare che dipende dalla politica, alla strategica che dipende dalle situazioni geografiche, e ali' amministrazione militare che dipende dalle sorgenti e dalle leggi della pubblica economia». 94 94
ivi, pp. 25-27.
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Delle guerre il C. riconosce tutti gli orrori e i guasti, ma nega che il compito dello statista debba limitarsi ad impedirle, e che sia follia «l' applicarvi o lo studio o le leggi». Un siffatto approccio «repugna alla storia è allo scopo morale degli studi scientifici, attesoché considera come fatale ciò che per lo contrario procede di conserva con altri elementi sociali».95 La guerra per il C. è fenomeno estremamente complesso, e su questo punto la sua ottica ricorda il De Maistre ed è abbastanza vicina a quella del Blanch, facendo così apparire ancor più grossolana, inutile e superficiale quella dello Zambelli che ne fa una questione solo militare, di polveri e bocche da fuoco: legasi la guerra colla politica per le ragioni del farla; coll'economia pubblica per l'arte d'amministrarla; colla legislazione per le pene e le ricompense militari; colla medicina per la scelta dei combattenti e per la loro conservazione; colla geografia per l'indispensabile conoscenza dei luoghi; colle matematiche, la meccanica, la fisica, per l' uso e il perfezionamento dé materiali; colle istituzioni civili pel modo di organizzar gli eserciti; colla filosofia per quei del reclutare, per gli avanzamenti, per mantenere la disciplina senza scemare l' impeto, e misurar i gradi di volontà che conviene mettere in movimento. Si cambi la costituzione di un popolo, e cambierà i modi della guerra; riesca la Russia ad affigger alla terra i Cosacchi, e tutta Europa ne risentirà ....96
La guerra è fenomeno inevitabile, perché legato alle passioni dell'uomo: si deve solo distinguere tra guerra giusta e ingiusta. E poiché le ragioni che legittimano la guerra sono ancora troppe e mal determinate, «sottentra la legge suppletaria, che vuol risparmiato tutto il sangue e i patimenti non necessari; vendette, rappresaglie son colpe davanti al tribunale della giustizia, superiore a quello dei re». In Europa si fa sentire ancora, per quanto mitigato, il feroce diritto che nell'antichità proclamava Guai ai vinti,«esecrato avanzo» dei tempi in cui al politica pagana dominava ancora Governi che pur si proclamavano cristiani: «ma i tempi nostri proclamano esser sante le nazionalità; e in caso di ingiuria, unico scopo della guerra essere il raddrizzar il torto; unico vantaggio della vittoria il guadagnar la causa disputata, essere compensati dalla spesa, e guarentiti contro l'eventualità d'una nuova ingiuria».97
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ivi, p. 1. ivi, p. 2. 'TI ivi, p. 700. 96
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Dopo questa visione idealistica e anzi utopistica del rapporto tra politica e guerra di nazioni e non più di Re, il C. probabilmente riferendosi a Napoleone leva altre grida contro «quegli uomini grandi e funesti, esaltati e maledetti che chiamansi eroi, e che strascinano il mondo alla guerra», che si appassionano alla guerra e vi si immergono, e dimenticando le sofferenze e le morti che provocano non la vorrebbero più finire: «la guerra è una passione fin negli ordini della milizia; ma per quei che comandano, è la più imperiosa, la più inebbriante» [è sempre vero? N.d.a.]. Tutto ciò non impedisce al C. una visione equilibrata della guerra, che è stata «cattiva» solo quando «chiamò troppi cittadini o troppopochi alle armi; onorò soverchiamente i combattenti o li svilì; ne sfrenò la disciplina, o li sottopose ad una avvilente; quando l'esercito non proporzionò alla nazione». Più la guerra progredisce, minori mali essa cagiona alla società e più diventa breve e decisiva, diminuendo la durata sua e quindi i disagi dei popoli. In questo quadro l'esercito è manifestamento della vita di una nazione; né nazione si chiama quella che non n'abbia, essendo questo l'estremo argomento per risolvere i litigi fra nazioni che non abbiano verun superiore. Cruda necessità; ma finché durino la prepotenza e l'ambizione, questa sarà sempre la guarentigia che l'individualità non rimanga abolita, né calpestati gli interessi di un popolo.
Continuo e puntuale il richiamo alle forze morali che muovono la guerra: il C. non crede affatto - come lo Zambelli - che le artiglierie abbiano reso il coraggio e l'eroismo meno necessari: «elementi di essa [cioè della guerra - N.d.a.] sono le armi, gli ordini, ma soprattutto gli uomini: ché di fatto più che mai vi campeggiano la potenza dell'umana volontà, la robustezza delle privazioni, della obbedienza, dé sagrifizi. Una battaglia, questo supremo impiego de]]'intelligenza e della volontà munite della forza; questa potente mescolanza di azione umana e di casualità, rapisce e trasporta le anime più elevate come le più semplici. L'eroismo delle masse dove si mostra egli quanto in guerra, allorché una gioventù, che ha davanti intere le illusioni e le speranze della vita, si precipita lieta a quella morte che fa sgomento all'uomo sul letto dei lunghi e irrimediabili dolori?».98 Considerazioni del genere bilanciano i consueti riferimenti agli aspetti scientifici e tecnico-strategici della guerra, e in definitiva preval-
98
ivi, p. 5.
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gono su di essi: ché il C. esalta, con Bossuet, gli effetti altamente positivi che ha sul morale dei combattenti la consapevolezza di battersi per una buona causa. E gli aspetti ed effetti morali sono riassunti da questa frase ripresa da De Maistre: «un giorno io domandavo a un generale, Che cos'è una battaglia vinta? ed egli dopo un istante di silenzio rispose: io nol so; poi taciuto ancora alquanto, È una battaglia che il nemico crede aver perduta». 99 Riceve un duro colpo anche un altro topos della storiografia d'ogni tempo, cioè i ricordi con pretesa di attendibilità dei protagonisti: «È l'immaginazione che perde le battaglie. Né il giorno stesso in cui si diedero, si sa se furono perdute o guadagnate; ma il domani, o due tre giorni di poi. Molto si parla di battaglie nel mondo, senza sapere che ne sia [ ... ]. Vi dicono sul serio E che, non sapete come andò quel fatto, e ci eravate! e bisognerebbe dire il contrario. Chi sta alla dritta sa che cosa avvenga alla sinistra? sa che cosa avvenga neppur a due passi?». Questo scetticismo sulla difficoltà di dire chi ha perso o ha vinto, e di ricostruire esattamente l'intelaiatura dei fatti, si traduce in scarso entusiasmo per l' histoire bataille e contrasta anch'esso con il concetto scientifico della guerra: ché una scienza è tale nella misura in cui i suoi fenomeni possono essere non solo previsti e matematicamente calcolati, ma anche descritti e studiati senza troppe difficoltà, in tutta la loro dinamica. Molto chiara la divergenza dallo Zambelli anche quando il C. prende posizione a proposito dell'utilità di studiare l'arte militare degli antichi: chi lasciasse da banda la parte antica dell'arte di cui trattiamo, si priverebbe d'una infinità di raffronti e di osservazioni, tanto più che nella storia dei popoli ogni cosa si collega. E per quanto possa parere superfluo studiare la tattica degli antichi dopo che l'invenzione della polvere mutò dal fondo le guise del combattere, pure i principi rimangono costanti; se la tattica loro era più semplice e men dotta che né moderni, i loro eserciti più scarsi, più angusto il circolo di loro azione, pure ciò che fu vero una volta, tal rimane sempre, purché si sappia il fondo suo sceverar degli accessorii di tempo e di luogo. I grandi generali d'allora meritano attenzione per l'abilità che mostrarono coi mezzi che possedevano; talché si può argomentare che, se vinsero con quelli, altrettanto avrebbero ottenuto qualora conosciuto avessero le nostre batterie. 100
9'J ivi, pp. 19-20. 100 ivi, p . 30.
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Foscolo e Napoleone, opportunamente citati, puntellano lo storicismo a sfondo spiritualista del C., che si contrappone al sostanziale antistoricismo e materialismo dello ZambeJli. Dove, invece, il C. con lui concorda, è nel ritenere utopistico il sogno de11a pace perpetua. Su questo punto il C. è ancor meno ottimista dello Zambelli, secondo il quale il progresso tecnico ed economico rende almeno le guerre più rare: «le strade ferrate, i palloni diretti [cioè, fin da alJora, i dirigibili: è questo tuno dei primi accenni che conosciamo all'Arma aerea - N.d.a.], il vapore applicato a difesa delle fortezze [al tempo, si pensa persino ad artiglierie a propulsione a vapore - N.d.a.], stan per mutare aspetto a quest'arte. Un illustre pubblicista napoletano [Gaetano Filangieri - Vds. capitolo VI N.d.a.] pose per iscopo della legislazione il procurare a tutti sicurezza e tranqui11ità. Sebbene sia vero che più alto debbe levar la mira l'ordinatore di un popolo, sta però di fatto che della sicurezza sentesi maggiore il bisogno quanto più crescono la civiltà, l'industria, la ricchezza d'un paese, e che del progresso medesimo ella è condizione e assodamento. Ora la protezione della guerra è necessaria per coltivar le altre. La giustizia stessa non vale se non appoggiata dalle armi; colle quali si pronunziano i decreti più decisivi». 101 Più oltre, il C. accenna a «due scuole notevolissime dei nostri giorni» (ma quali? non riusciamo oggi a identificarle), le quali hanno proclamato la fine degli eserciti, perché la riconosciuta utilità del commercio e il prevalere degli interessi materiali di per sé dovrebbero convincere gli uomini e i governi che la pace è necessaria. In tal modo, secondo queste due scuole «eserciti saranno bande d'industriali che andranno a lontani paesi per eseguire immensi lavori, tagliar gl'istmi di Suez e Panama, raddrizzar fiumi, mettere in comunicazione laghi, scavar miniere, disseccare paludi, acciocché tutta la faccia della terra sia messa a frutto nel miglior vantaggio di tutta l'umana generazione». Senza alcuna gioia noi dobbiamo constatare - dopo 150 anni - che gli istmi sono stati tagliati e gli immensi lavori sono stati compiuti, con l'unico risultato di sconvolgere l'equilibrio ecologico del pianeta, moltiplicare le occasioni di guerra nel mondo e coinvolgere l'intero pianeta nelle guerre europee. Ben a ragione dunque, il C. definisce già allora queste idee «liete fantasie come di chi indovinasse il tempo quando più non saran necessarie tante vele alle navi, perché più non spireranno che ad ore fisse zefiro e noto!». E, in attesa che venga la pace perpetua e che «l'Europa trasformi l'esercito permanente, aggressivo per sua natura, in
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ivi, p. 2.
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esercito nazionale e a tempo, milizia di pura difesa» il C. si ripromette di descrivere la guerra almeno «come una malattia inevitabile», facendo però in modo che «anche in mezzo a queste storie di dotta distinzione ci sia sempre di faro l'idea morale». 102 Segue una particolareggiata e ben documentata storia dell'arte militare, a cominciare da quella dei Greci e romani. Nulla di nuovo riguardo al concetto di strategia e tattica: su questo punto il C., pur accentuando l'importanza dei valori morali e spirituali, aderisce senza riserve ai concetti di Jomini e dell'Arciduca Carlo, acriticamente accomunati come «classici», e degli italiani cita solo la definizione di strategia dello Sponzilli. 103 Almeno egli ha il merito di risparmiare al lettore le solite, superficiali disquisizioni sul carattere matematico e infallibile (o quasi) delle combinazioni strategiche, sulla strategia «quasi scienza» ecc .. Ammette anzi che vi sono in essa elementi importanti che sfuggono al compasso, e - come del resto fa anche Jomini - ammonisce: «nessuno inferisca da tali considerazioni geometriche, che in strategia ogni cosa vada con rigor matematico. Nell'applicazione un buon generale, tenendo pur occhio alle sue regole, non se ne lascia però incatenare [... ]. Non è gran capitano che non siasi all'occasione riso della prudenza teorica, e non n'abbia avuto premio quando il fece con abilità. Nell'audac ia appunto, cioè nell'invenzione di regole affatto particolari, specialmente applicabili alla circostanza presente, si manifesta con maggior grandezza il talento della guerra». 104 Certo, siamo lontani dal (napoleonico e clausewitziano) concetto di regole vere e nascoste all'occhio dei profani e della massa, che il genio guerriero è il solo a scoprire e rispettare. A tal proposito, nel C. si trova un accenno (non del tutto chiaro) a «una scuola moderna [quale?] adoratrice dell'esito, [che] ha voluto mostrare che, infine, la vittoria tocca sempre alla parte migliore». Ci si riferisce, forse, all'idealismo o all'invito del Clausewitz a dare credito ~ successo, perché chi lo ottiene scopre per ciò stesso - e applica - le regole vere della guerra? Il suo discorde commento a questo culto del risultato privilegia la dimensione spirituale - e quindi non quantificabile - rispetto a quella materiale: mal ci acconciamo noi a questa sentenza noi italiani: eppure crediamo che in questa forma, la più evidente della lotta fra spirito e materia, veggasi quanto a questa possa quello soprastare, tanto che
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ivi, p. 8. ivi, pp. 24-25 e 627-628. 104 ivi, pp. 193-194.
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i progressi delle armi nuove ci fan sicuri dalle invasioni, che mutarono faccia all'Europa. 105
Il peso dell'artiglieria sulle operazioni belliche e il suo rapporto con l'arte militare viene da lui liquidato con poche parole: Napoleone, soldato d' artiglieria, fé il maggior uso dé cannoni; ciò che rende micidialissime le battaglie, né però più decisive. Avea 50 o 60 pezzi negli immortali suoi trionfi d'Italia; 1200 quando soccombette in Russia. La pace succeduta lasciò meditar sulla scienza · bellica, in modo da fame veramente lo stillato di tutte le scienze, e il trionfo dell'intelligenza sovra la mutabile fortuna. Il genio privilegiato più non basta per concepire ed effettuare il pensiero strategico; ma si richiede una scienza di guerra, stesa ben anche agli uffiziali, che debbono sopravvedere l'esecuzione e modificare ove il caso sia necessario [segue l'elencazione del «principio fondamentale» e delle «combinazioni generali» dell'arte della guerra, enunciate da Jomini - N.d.a.J . 106
Nonostante una visione molto più equilibrata del ruolo d' artiglieria, il C. meglio dello Zambdli sa descriverne e valutarne i progressi, insieme a quelli - non meno importanti - del sistema di trasporti connesso. 107 La conclusione è che Napoleone manteneva generalmente nei suoi eserciti la proporzione di 3 pezzi per I000 uomini, ma - contrariamente a quanto comunemente si crede anche oggi - «le altre potenze ne erano meglio fomite: a pena i Prussiani aveano 4 pezzi e mezzo ogni 1000 uomini, i Russi quasi sempre 5, e talora fin 8. Ma con soli cannoni non si vincon le battaglie». Come meglio vedremo in seguito, il C. valuta positivamente il che non è poco e non è di tutti - anche i riflessi dell'introduzione del vapore nella guerra marittima, ma non chiude la porta nemmeno al suo sfruttamento nella guerra terrestre: «si propose anche d'appJicar il vapore [par di capire: quale propellente nelle artiglierie - N.d.a.], e qualche tentativo mal riuscito non dee togliere speranze dell'introduzione d'un nuovo agente che cambierebbe faccia all'arte della guerra. Ma ci vorranno perfezionamenti essenziali alla meccanica; prima dei quali, chi sa che le nazioni non abbiano imparato a decidere i loro litigi senza questi che empiamente si chiamano ultima ragione dei Re?».
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ivi, p. 3.
106 ivi, 107
p. 697.
ivi, pp. 604-606.
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L' accresciuta importanza della geografia, de11 ' Anna del genio, del telegrafo e degli Stati Maggiori riceve dal C. la dovuta attenzione. Riguardo alla geografia, ritiene che «gli antichi poterono negUgere la geografia e la topografia, perché le armi loro non ne portavano la necessità» (E gli itineraria picta? e il sistema stradale romano?). Ma a questa idea inesatta, forse ripresa dallo Zambelli, ne seguono altre più puntuali e interessanti: colle guerre moderne è d'uopo che ogni giorno l'esercito sappia la via da seguire, la posizione da occupare, gli ostacoli da evitare o sormontare. Già Vegezio aveva detto che «le località contribuiscono all'esito più che la prodezza e il numero»; eppure lo studio della geografia militare può dirsi nato ai dì nostri con Mtiller e col generale Maurizio di Gomez. Quando Napoleone diceva che la decisione delle battaglie dipende dai piedi della fanteria, esprimeva in termini diversi quell'altra sua massima che Il secreto più importante della guerra è l'impadronirsi delle comunicazioni. A ciò non si arriva che con la puntualità delle informazioni, comunicate d~ùlo Stato Maggiore, intorno alla conformazione del teatro della guerra. Ciò fu principalmente necessario quando un comitato da Parigi dirigeva gli eserciti lontani. 108
Sotto il consolato il deposito della guerra - fondato da Luigi XTV come semplice archivio - viene potenziato; sono tradotte le migliori opere militari straniere e viene pubblicato, appunto, il Memoriale topografico. Il Comitato di salute pubblico crea un ufficio topografico. Dal canto suo il primo console [cioè lo stesso Napoleone - N.d.a.] sentendo l'importanza del terreno, migliorò la sorte dcgl'ingegneri geografi militari, che allora solo ebbero uffiziale esistenza, e portarono a supremo grado l'arte di levare e disegnar mappe, agevolarono l' applicazione della grande tattica ai diversi terreni, ridussero ad arte nuova le esplorazioni militari, e furono vedute le bellissime carte di Francia e dei Paesi con cui essa e bbe a che fare. 109
L'accresciuta importanza del rapido movimento e del terreno hanno imposto di potenziare il genio e militarizzare i Servizi logistici. Non sfugge al C. l'opera riformatrice di Napoleone anche in questo campo:
108 109
ivi, pp. 619-620. ivi, p . 587.
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il genio divenne parte primaria negli eserciti, con truppe a proprio servizio, quali erano gli zappatori, disposti prima in compagnie, poi in battaglioni, adempiendo così al voto d'una truppa speciale del genio, che il Vauban aveva fatto un secolo innanzi, e gli equipaggi militari [cioè i trasporti - N.d.a.] furono sottomessi alla disciplina comune e con tutti i vantaggi della milizia regolare; persino gli infermieri furono ordinati militarmente (già nell' Enciclopédie Méthodique, art. Armée, leggesi un buon articolo di Doublet sulle malattie degli eserciti), e un carattere scientifico fu impresso a tutte le istituzioni. 110
Sempre riguardo alla logistica (parola che peraltro ignora), il C. scrive che le tende negli eserciti della rivoluzione furono abolite non per deliberata scelta tattica, ma per l'impossibilità di darle in dotazione a eserciti così numerosi, «e tosto gli stranieri dovettero far altrettanto per non essere vinti di prestezza nelle marce». Anche le requisizioni in natura tipiche di quegli eserciti furono «una novità dovuta alle circostanze». Questo sistema è da lui diverse volte condannato, almeno quando le requisizioni sono indiscriminate: «è modo il migliore quando non diventi ladroneccio, ma espone gli eserciti ad eventualità di patimenti, onde bisogna usarne con grande cautela». Tanto più che «l ' amministrazione nei primi tempi della Rivoluzione fu un gran latrocinio, ove i ribaldi profittavano della necessità di subitanei provvedimenti». 111 Il ricorso alle requisizioni è comunque soggetto a una quantità di limitazioni derivanti dall'abbondanza dei raccolti, dalla natura del paese, dalle vittorie o sconfitte ecc .. Un metodo alternativo, che però richiede provvedimenti su vasta scala e ingenti forze, è quello di impadronirsi di un paese e amministrarlo, in modo che il generale diventi al tempo stesso Capo e rappresentante civile e militare, venendo così indotto a cercare di nutrire l'esercito, senza rovinare il Paese. In tutti i casi - aurea massima sempre valida, ma difficile da realizzare - «il valente generale dee saper combinare i vari sistemi secondo le circostanze, per soddisfare ai bisogni senza troppo incatenare le guerresche opera alla amministrazione».112 11 C. fa breve ma sufficiente menzione anche di due mezzi tecnici di grande avvenire, introdotti nelle guerre della Rivoluzione e napoleoniche, nell'intento di applicare le scoperte scientifiche alla guerra:
110
lii 112
ivi, p. 62. ivi, pp. 588,621,622, 681 . ivi, p. 498.
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crearonsi anche due compagnie d' aerostatiari, lusingandosi che i palloni potessero offrir un mezzo di esplorar le forze nemiche. nella battaglia di Fleurus un pallone fissato in alto mandava continui Viglietti d'avviso sulle disposizioni del nemico. Furono abbandonati: ma chi sa che i perfezionamenti di quell'arte non tornino a servigio della guerra? 113
L'altro aspetto tecnico di rilievo è il telegrafo. Napoleone si avvale del sistema ottico di Claudio Chiappe, applicato a partire dal 1793; ma fin dal 1790 parlassi di telegrafo elettrico per annunziar più rapidamente i numeri del lotto; poi nel 1796 il dottor Francesco Salva lesse ali' Accademia di Barcellona una memoria sull'elettricità applicata alla telegrafia. Testè rinnovaronsi gli esperimenti, ed ora non solo i fili metallici trasmettono il segnale, ma scrivono e stampano la novità, recata colla prestanza del pensiero [eppure, nessun esercito italiano dell'epoca - 1846- aveva in dotazione il telegrafo - N.d.a.l.
Sulla guerra di Spagna 1808-1813 il giudizio del C. rimane piuttosto lontano dalle usuali tesi secondo le quali si è trattato sostanzialmente di una vittoria inglese e degli eserciti regolari sussidiati da bande di insorti spagnoli, che dunque non sono state protagoniste ma comprimarie. Egli invece pensa che i nemici di Napoleone in questo caso hanno adottato una strategia per cos1 dire alternativa, di accorta combinazione «della guerra popolare con l'ordinata, in modo che non potesser le forze venir ridotte in un chiuso, e obbligate a cedere. Ciò fecero gli Spagnoli, e perciò mille volte battuti mai non funno vinti». 114 In tal modo si è riusciti a neutralizzare, a rendere inutili la superiorità delle truppe francesi per massa e per celerità. E la guerra di Spagna è stata qualcosa di più di un episodio locale, che confermerebbe semp1icemente il ruolo centrale degli eserciti regolari e della fortificazione: per ben meditar quell'impresa non basta esser militare: vuolsi lo storico e il politico che sappia scoprire e osi dire perché colà primamente restassero bilanciate le forze e la fortuna; perché gl'Inglesi, respinti ogni qualvolta s'avventurarono sul continente, dopo la battaglia di Virniero frà Abrantes e Wellesley ripigliano la fiducia di buon successo; e tosto i potentati d'Europa si riscuotono dalla rassegnazione; ai trionfi più splendidi dell'aquila imperiale in Ger113 114
ivi, p. 586. ivi, p. 6 I3.
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mania fan contra<;to le contemporanee rotte di Madrid, di Talavera, di Salamanca, di Vittoria; e il mondo impara che anche il vincitor di tutti i re è fiaccato dalla resistenza nazionale. Sei tengano detto i principi; e la insurrezione popolare in Russia e in Germania son il frutto di quella lezione [nostra sottolineatura - N.d.a.]; e Wellington, per quanto gli si neghi di merito guerresco, resterà immortale per aver saputo, a malgrado del suo governo, intendere la potenza e i modi di combinar le forze morali colle materiali, il popolo col soldato. 115
Il complesso rapporto tra leadership, guerra di masse, valore e coraggio del soldato e/o dei Quadri inferiori, coscrizione, eserciti permanenti e nazione armata è un altro punto dove il C. da una parte assegna un ruolo maggiore di quanto fa lo Zambelli ai fattori spirituali, e dall'altra non eleva - come fa lo ZambeHi - uno scontato peana al valore della leadership tradizionale e degli eserciti permanenti, ma lascia persino la porta aperta alla nazione armata. Dopo alcune contraddizioni, conclude infatti che l'arte or può moltissimo; ma non per questo vuolsi contar per nulla l'uomo[ ... ] L' efficace volontà o l' abilità particolare degli esecutivi padroneggiò più volte i non calcolati eventi, e quella tanta parte d'ignoto e di vago che accompagna il concetto d'una strategia in grande. Certo da tutte le guerre del secolo appare che il numero e il valor personale non sempre compensano la mancanza di cognizioni scientifiche dalle quali s'impara a giovarsi dell'uno e dell'altro. 116
Austria e Prussia avevano gli eserciti meglio ordinati, eppure furono battute dai Francesi rivoluzionari. Ma quando ebbero imparato la lezione, e a servirsi della loro forza numerica, «la Francia soccombette per mancanza di materiale: così una cosa dà mano all'altra». Affermazioni dubbie, perché non fu solo la mancanza di materiale nel suo esercito ad abbattere Napoleone: ma tra questo dire e non dire, risulta chiaro che per il C. il coraggio e le doti personali contano molto anche nelle guerre moderne. Forse per qualche ragione non puramente teorica egli non se la sente di smentire apertamente lo Zambelli: ma chi vuol capire, capisce. In caso diverso si dovrebbe cogliere il C. in palmare contraddizione, quando parlando delle guerre della rivoluzione scrive che poco importava raffinare la tattica, perché «i figli della patria avventavansi d'impeto
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ivi, p. 631.
116 ivi,
p. 625.
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sovra le batterie nemiche, e scompigliavano le salde file dei Tedeschi, mentre le distruggeano a minuto combattendo da bersaglieri». 117 Altro che coraggio passivo! Né si capisce fino a che punto c'entri il valore del Capo o l'arte, quando egli afferma che «sull'ordinamento divisionario dato agli eserciti influivano ragioni politiche ancor più che le tattiche, come sui trionfi loro, più che la disciplina, l'impeto e le simpatie>>. 118 Con queste idee, il C. non può che essere convinto fautore della coscrizione obbligatoria, in questo distinguendosi da molti scrittori coevi. Loda l'apposita legge introdotta dalla Rivoluzione Francese come «equa ed universale, atta ad assicurare e la pace e la vittoria, qualora non fosse stromento al despotismo», pur riconoscendo che «se credessimo ai calcoli d'alcuni, 1.500.000 uomini sariano periti nella g uerra delle opinioni armale (come Pitt la chiamava) prima del Consolato». Con la Rivoluzione Francese il servizio militare è diventato un dovere temporaneo e per tutti, in armonia con l'uguaglianza introdotta negli altri settori. Di conseguenza revidente l'influsso di Blanch - N.d.a.], la coscrizione quale oggi s'intende va considerata come la lcrza trasformazione dopo il rinascimento della civiltà; contando per prima le milizie feudali e comunali, per seconda gli eserciti permanenti. Qui il servizio è universale, di durata limitata, sicché è un continuo rifluire d'uomini dalla società annata nella civile, e l'importanza sugli ordini sociali dovrà necessariamente sentirsi. Quanto ai militari, potè estendersi il numero degli eserciti, e averne migliore e l'intelletto e la moralità, trovandosi nelle file uomini d'ogni condizione e sapere; cessò d'esser disonorevole la sorte del soldato, considerato come uomo che per danaro vende il sangue, ma si potè in qualche luogo in esso compiangere la vittima dell'oppressione, e in qualche altro ammirar il martire dell'onore e del patriottismo. E ben può considerarsi la coscrizione come una scuola (e dove non è, la colpa sta né superiori che non sanno o non vogliono giovarsene): scuola non solo di coraggio e di destrezza, ma di portamenti, di vigilanza, di politezza, d'economia di tempo, d'ordine, d' obbedienza, di fraternità; scuola d'amor della patria e della nazione; scuola anche di lingue, di scrittura, di conti. 119
Egli non trascura di rilevare gli inconvenienti del sistema di reclutamento della Restaurazione, che in parecchi Paesi (ad eccezione della
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ivi, p. 583. ivi, p. 585. 119 ivi, p. 602. 11 8
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Prussia) di fatto tradisce i principi di alto valore morale introdotti dalla Rivoluzione Francese, e riproduce vecchi difetti e abitudini, facendo dell'arruolamento solo un mestiere per i più poveri: vero è che, essendo permesso di farsi supplire, i soldati gregarii son ancora prestati dalle classi meno agiate; e solo si cerca di render regolare il servizio militare, facendone un'imposta, dove il ricco paga un tanto pel servigio; il povero lo considera come una occupazione, dove riceve soldo e vitto, oltre l'eventualità di quel fantasma che chiamasi gloria, e di quegli avanzamenti che son aperti a tutti senza differenza. 120
L'estensione del reclutamento a tutto il popolo non è la sola innovazione di rilievo di fine secolo XVIII: anche se «da per tutto la giurisdizione militare si tien ancora separata dalla civile, e dove (massima in Germania) si tentò di identificarle, non si uscì a bene», il diritto penale militare e il terrore della disciplina hanno subìto profonde modifiche e attenuazioni: le pene atroci scompaiono, come era la Latten/Cammer dei Prussiani; le bastonate riconosconsi come umilianti, pure l'Inghilterra, l'Austria, I' Annover, la Danimarca e altri le conservano per difficoltà di una opportuna sostituzione; ma si procurò escludere gli arbitrii e gli eccessi. Tempo fa il punito sventolava la bandiera per ripristinarsi nell'onore, e prometteva non vendicarsi del castigo sostenuto; or questa garanzia cercasi nella forza delle istituzioni militari. 121
Da quanto scrive il C. si può dunque dedurre che tra la conservazione - o meno - di pene umilianti e di punizioni corporali e il sistema politico-sociale interno di una nazione non esiste sempre un rapporto diretto, visto che l'Inghilterra, modeJlo allora ancor più di oggi di democrazia, conservava le punizioni corporali nell'esercito e manteneva nella flotta una disciplina ancor più rigida. Lo stesso avviene per il sistema di reclutamento, per i livelli di forza degli eserciti europei in pace e per la consistenza delle flotte, ché altro è il principio della coscrizione, altro è il problema del1a sua applicazione pratica, sul quale influiscono fattori geografici ed esigenze economiche e di politica estera, pur tenendo presente che - come sottolinea lo stesso C. - «la scelta degli uomini che compon-
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ivi, pp. 602-603. ivi, p. 623.
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gono gli eserciti è determinata dallo stato sociale fondato sopra le condizioni provenienti dallo stato delle persone e delle proprietà». 122 11 che è vero: ma dalla interessante rassegna che lo stesso C. compie dei sistemi militari dei principali paesi europei, risulta chiaramente che il modello militare francese e quello prussiano del tempo sono agli antipodi. La pur liberaleggiante monarchia francese di Luigi Filippo, erede delle glorie della Rivoluzione e della tradizione napoleonica, mantiene anche in tempo di pace un grande esercito permanente, il maggiore d'Europa (344.000 uomini e 83.000 cavalli) con ferma lunga (8 anni) e potenti fortificazioni di frontiera, oltre tutto affiancato da una grande flotta. Il «modello» prussiano è invece basato su ferma breve, servizio militare generalizzato, intenso addestramento, grande sviluppo delle scuole militari e dell'addestramento dei Quadri, perfetta organizzazione di un sistema di rapida mobilitazione di uomini e quadrupedi, assenza di una flotta. Dal canto suo l'Inghilterra ha solo 129.000 soldati volontari, ma in compenso «gli arsenali inglesi mostrano 25 o 30.000 pezzi di artiglieria (sic), dopo averne abbondantemente provvisti i porti, le isole, le colonie, le navi».123 Naturalmente, ha gli arsenali e porti più grandi del mondo e la sua marina militare è maggiore di quelle di Francia e Russia insieme. L'Inghilterra è così diventata una potenza mondiale: fortezze ha l'Inghilterra in tutti i mari, e stupenda è quella di Gilbiterra [... ] Essa si dà mano a Malta e Corfù per signoreggiare il Mediterraneo; come il Capo di Buona Speranza domina l'Atlantico, Aden il Mar Rosso, Seilon l'Oceano Indiano, dove poi è impareggiabile il Forte William di Calcutta. Le fortezze dell'Inghilterra sono su tutti i mari, su ogni stretto, ogni corrente, dove possa minacciar le navi nemiche o impedirne la riunione; sono fortezze sue il rispetto che incute la sua bandiera anche sopra una nave isolata. 124
Oltre a conservare le pene corporali, l'esercito inglese mantiene la pratica dell'acquisto dei gradi fino a colonnello escluso, in tal modo precludendone l'accesso al merito e favorendo il censo e i ceti nobiliari. Tuttavia «il soldato in generale è robusto, perché dalla prima età esercitato; è confidente, perché sempre gl'inculcarono le superiorità degl'Inglesi su tutti gli altri; presentasi alla battaglia con ardore; vi resiste con
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ivi, p. 598. ivi, pp. 668-669. ivi, p. 670.
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ostinatezza. 11 soldato inglese è anche il meglio pagato e alimentato e vestito, visto che un soldato di fanteria costa in Inghilterra 538 lire annue, contro le 340 in Francia, 219 in Austria, 240 in Prussia, 120 in Russia».125 Dobbiamo, dunque, osservare che a fronte dei caratteri dominanti degli altri eserciti europei, quello degli Jii.nkers prussiani - spesso presentato come prototipo del più odioso militarismo - sembra un modello non solo di efficienza, ma di democrazia, ed è fuori d'ogni dubbio quello che al momento più si avvicina al concetto democratico di nazione armata, l'unico e vero erede insomma degli eserciti della Rivoluzione Francese e delle tradizioni napoleoniche. A fronte delle lunghe ferrne (58 anni o più) degli altri eserciti, «in Prussia il soldato di linea serve solo quanto basta per imparare i suoi doveri; cioè per la fanteria un anno e mezzo, tre per la cavalleria, l'artiglieria e i reggimenti della guardia. Dopo di che torna a casa sua, disponibile come landwehr di prima leva, per cinque anni; spirati i quali entra nella landwehr di seconda leva [... ] Questa è la riserva, anzi in fatto il vero esercito; giacché la linea è piuttosto a considerarsi una immensa scuola». 126 La Prussia in tempo di pace ha alle armi solo 131.000 uomini e 28.000 cavalli, che in guerra diventano rispettivamente 429.000 e 77.000. Si tiene nota in apposito registro dei quadrupedi idonei all'impiego militare; al bisogno, in pace il Governo li noleggia e in caso di guerra li acquista a prezzi stabiliti. In tal modo, contando su un'estesa e ben organizzata mobilitazione si riesce con poca spesa ad avere un forte esercito in grado di mantener l'indipendenza: potrebbe da ciò argomentarsi che debban essere sempre soldati principianti, ma tutt'al contrario passano per eccellenti alla parata, come alla battaglia, con superba cavalleria e coll' ardore di giovani, temperato dall'istruzione di abili e zelanti ufficiali. Severissimo dovette rendersi il metodo, per poter istruire il soldato sl perfettamente in 18 mesi; ma l'istruttore è sempre un uffiziale, il che allontana la severità inutile e irragionevole, con cui spesso i suttuffuffiziali fanno scontare la propria inettitudine coll'insegnare. Nell'esercito non si ammettono supplenze [cioè surrogazioni dietro compenso dei giovani chiamati alla leva, come si usa anche in Francia - N.d.a.]: ognuno cerca meritarvi un grado, giacché non può esimersene, e così si diffonde lo spunto di disciplina e d'onore. L'istruzione è combinata in modo, da far sì che tutti gli ufficiali
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ivi, p. 666. ivi. p. 650.
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conoscano perfettamente la loro professione; e gli esami danno al Governo il modo di promuovere secondo il merito. Gli uffiziali sono istruiti meglio che in qualsiasi altra nazione; l'economia è la più esemplare. 127
Si tratta, insomma, dell'applicazione dei principi de] de Schom (vds. capitolo IX). Ma ci sembra persino ovvio rilevare che questo «modello» va1e per la Prussia e non è esportabile, o almeno non esportabile in toto. Da queste e altre osservazioni del C., si può dedurre quanto persistano nel tempo - fino ai nostri giorni - i caratteri fondamentali delle forze armate di ciascun Paese, ivi compresi il diverso ruolo dell'esercito e i ]oro rapporti: dato il legame tra politica estera, politica di sicurezza ed economia e geografia, ciò non può sorprendere. Risulta ben visibile anche il legarne tra teorie strategiche dominanti in ciascun paese, e i relativi ordinamenti militari: c'è ben poco da scavare, nell'esercito prussiano, per trovarvi parti importanti di C1ausewitz, così come in quello francese troviamo ben presto Jomini: due mode11i caratteriali , prima ancor che teorici. Un'altra deduzione da trarre da11'opera del C. - collegata alle precedenti - è l'esistenza fin da allora di rapporti almeno potenzialmente ostili tra le potenze europee, che non può non avere riflessi sia sulla politica di sicurezza di ciascun Paese europeo sia sul problema della guerra o della pace. In merito, il C. spera - ma spera solo - che le guerre napoleoniche «saranno le ultime in grande fra nazioni civili». Ma poi deve constatare che «due principii, due sistemi dividono oggi l'Europa, e dove più, dove meno palesemente si combattono». E si pone questi interrogativi, di attualità piena almeno fino al 1989: «riuscirà la prudenza o il reciproco timore a conciliarli? o l'uno prevarrà per forza di cose? o dovranno prima venire a un conflitto, che non potrà essere se non universale? In quest' ultimo caso, può egli, dal paragone delle grandi potenze, argomentarsi quale sarà l'esito del conllitto?». 128 L'ottica del C. è sempre europea e rivolta alle grandi potenze: ciò consente di constatare che la Restaurazione, o1tre che un periodo estremamente vivo sotto il profilo del pensiero militare, è anche un periodo dove gli armamenti terrestri e navali delle maggiori potenze europee e i relativi bilanci - le statistiche del Cattaneo e dello stesso C. lo dimostrano - sono tutt' altro che contenuti entro 1ivelli modesti, «di pace». In questo periodo, ad esempio la Francia sconfitta nel 1815 interviene ben
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ivi, p. 651. ivi, p. 603.
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presto in Grecia e Spagna e inizia la guerra d'Algeria, e la Prussia getta le basi della sua forza: ciò che comunemente si legge dell'inefficienza degli eserciti della Restaurazione e dei molti mali che li affliggono va principalmente riferito alla situazione italiana, dove per motivi persino ovvi non c'è - nei vari Stati - nessun interesse, nessun incentivo, né interno né tanto meno esterno a prendersi cura del problema dell'efficienza militare. Gli eserciti pre-unitari italiani del tempo corrispondono poco o nulla a quello che vorrebbe il C., per il quale la cosa più importante per raggiungere l'efficienza, è l'armonia e l'equilibrio delle parti. Quindi «i migliori eserciti non hanno corpi scelti distinti» e l'arte militare consiste nel «fare un uso ragionevole» di tre tipi di forze vive (d'uomini, la prevalente; d'animali; di macchine). La fanteria, nerbo degli eserciti, è «forza essenzialmente democratica», mentre l'artiglieria per l'ennesima ·volta viene svalutata, visto che «l'eccesso di macchine e anche d'artiglieria, per quanto oggi sia resa di facile trasporto, scema la mobilità e in conseguenza agli uomini il sentimento della lor forza». 129 Il C. conclude richiamando i requisiti che deve avere un buon esercito, palesemente tratti - anche se non lo dice - da Jomini (buon sistema di reclutamento, buona formazione e istruzione, disciplina forte anche se non umiliante, Armi speciali - artiglieria e genio - ben curate, armamento possibilmente superiore in qualità a quello del nemico, da Stato Maggiore Generale ben istruito e preparato, con buona documentazione geografica, storica, statistica ecc.). L'esercito dovrà essere energico, mobile, agile, ma dovrà anche costare il meno possibile Luno dei primi tentativi di quadratura del cerchio - N.d.a.]: «l'economia sociale si dà dunque la mano colla scienza militare; e l'una e l'altra sono coronate dall'umanità. Questa insegna a risparmiare ogni patimento inutile, e impone per suprema cura la conservazione del soldato». 130 Un esercito così come lo vuole il C. comporta inevitabilmente costi elevati, a meno di rinunciare a qualcuno dei molti requisiti da lui indicati. Di questo egli non sembra rendersi ben conto, quando afferma che tutti sono d'accordo nel ritenere «esorbitanti» gli eserciti [ma quali? non certo quelli degli Stati italiani - N.d.a.], anche se ammettono che «le spese della pace armata, gravosissime agli Stati, non pregiudicano ai particolari quanto una guerra guerreggiata». E allora, qual'è la soluzione? Niente «pace armata» e niente eserciti permanenti? Ecco che, inaspetta-
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ivi, p. 695. ivi, pp. 699-700.
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tamente, compare nel C. il «modello» americano, peraltro non accompagnato - more solito - da considerazioni che ne rilevino l'effettiva rispondenza anche alle specifiche esigenze e alla politica estera delle grandi nazioni europee (come farebbero l'Austria e la Francia - visti gli obblighi militari della santa Alleanza - a non mantenere un forte esercito anche in pace?): l'esercito federale degli Stati Uniti, cioè d'un paese vasto quanto l'Europa Occidentale, non oltrepassa in numero la guarnigione della città secondaria, mediterranea e infortificata dov'io scrivo. Il momento in cui le armi diventano cittadine, sarà quello per avventura del maggior progresso che la civiltà possa nelle presenti condizioni aspettarsi. 131
Questa lode alla nazione armata come traguardo di civiltà e ipotetico modello futuro per l'intera Europa è buttata Iì solo all'ultimo, senza trovare nel resto dell'opera un'effettiva rispondenza e un terreno preparatorio. Peraltro nella Geografia politica per corredo alla storia universale (1845), 132 il C. sembra ammettere indirettamente che l'esercito di milizia è una soluzione derivante da specifiche condizioni geopolitiche e geostrategiche degli Stati Uniti: la posizione fa che non siano colà necessarie le molte truppe stanziali, peste d 'Europa [nostre sottolineature - N.d.a.]. I quadri uffiziali del 1841 portano tutto l'esercito a 12.559; talché un'estensione eguale a tutta l'Europa ha tanti soldati, quanto una città secondaria qual è Milano [ma nel 1846 non c'erano forse molte buone ragioni, dal punto di vista austriaco almeno, per presidiare fortemente Milano? come si possono fare paragoni del genere? N.d.a.]. La milizia si compone di 1.505.592 uomini. Hanno 65 legni di marina militare onde sono la seconda potenza marittima del mondo. Altrettanto dicasi della marina mercantile. 133
La presenza di una forte marina mercantile e militare non ha nessun riflesso sugli ordinamenti militari in genere, e sul ruolo delle forze terrestri? Se - come fa rilevare lo stesso C. - le condizioni geostrategiche e geoeconomiche degli Stati Uniti hanno carattere così specifico, esse non sono certo esportabili: non si capisce, perciò come possa esserlo il mo-
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ivi, p. 702. Torino, Pomba e C. 1845. 133 ivi, p. 653. 132
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dello militare corrispondente (corrispondente - aggiungiamo - anche al particolare carattere e ai particolari ordinamenti politici di un popolo). Nel citato testo di Geografia politica facente anch'esso parte della Storia Universale, il C. esalta l'importanza generale della geografia, sì che «per essa perfezionasi la architettura navale e giganteggia la potenza del vapore; l'arte lungamente tentata di dirigere i palloni, gioverà per riconoscere gli arcani interni dell'Africa e della Nuova Zelanda». 134 Ma che cosa sono - si può osservare - la geografia e la statistica specie a quei tempi, se non la presa di coscienza di diversità, peculiarità e dati di fatto che caratterizzano le varie regioni geografiche e i popoli che le abitano, con evidenti, importanti e immancabili peculiarità e diversità anche in campo militare? Nel complesso, anche il volume del C. sulla guerra rivela tutti i limiti della formula editoriale, indicata dallo stesso Pomba, di «collage tra i testi e le opere italiane e straniere più accreditate», opere che dovrebbero essere «compendiate e riassunte». Il Berengo, che è il più aspro critico della Storia universale, vi nota «la frequenza dei plagi»: 135 in effetti, anche in questo caso non mancano parti e concetti ripresi alla lettera - o quasi - da altri autori senza citarli (come avviene ad esempio per talune idee del De Maistre e di Jomini, oppure per i dati sui principali Stati moderni spesso ripresi, alla lettera dal Politecnico e/o dal Cattaneo, mai citato). Ma, più che altro, trattandosi di un collage viene a galla nelle riflessioni sulla guerra ciò che il Berengo osserva per tutta la Storia Universale: la continua oscillazione tra un'antologia di opere storiche e l'elaborazione originale, con quest' ultima che tende a «coprire o dissimulare la prima» (o almeno, osserviamo noi, risulta tutt'altro che ben distinta da citazioni e idee di altri). A questo è principalmente dovuta la non completa armonizzazione dei vari «pezzi» del testo, che di frequente - anche a distanza di poche righe - si contraddicono e si elidono a vicenda, con concetti che non ricevono adeguato approfondimento. Ciononostante, le idee prevalenti nel C. sono assai più equilibrate di quelle che espone lo Zambelli. Equilibrate e anche - si passi il termine - meno conservatrici. A dispetto della sua collocazione politica filo-guelfa e moderata, il C. dedica pagine pur sempre magistrali alle guerre della Rivoluzione e di Napoleone e non ha nessuna simpatia per i grandi eserciti permanenti, pur riconoscendo contraddittoriamente alla coscrizione il suo carattere positivo e democratico. 134
ivi, p. XXI. Cfr. la biografia critica di M. Berengo in Dizionario Biografico degli Italiani, Voi. l 8°, pp. 336-344. 135
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La stessa sua simpatia per l'ordinamento politico e militare degli Stati Uniti - che condivide con Cattaneo e forse da lui tacitamente riprende dimostra che, in campo militare, al personale orientamento politico di un autore non sempre corrispondono idee schematiche, obbligate, prevedibili. Dal punto di vista militare non definiremmo perciò la sua storia «fondata sopra principi retrogradi», come fa il Bianchi - Giovini. E nemmeno essa è «antitaliana», anche se più che italiana può essere definita europea, nel senso che non vi compare mai quell'aspirazione all'unità italiana, che pure le vicende storiche ultime avrebbero dovuto di per sé e naturalmente proporre. Né ci sentiamo di condividere appieno l' opinione del Berengo, secondo il quale la negazione del C. come storico fatta dal Croce è fondata. Storico militare il C. lo è certamente, perché con molto maggiore profondità di concetti e di argomenti dello Zambelli ci fornisce un'immagine, una sintesi storica s ufficientemente attendibile dell'arte della guerra e del pensiero militare europeo. Sintes i che forse pecca d'originalità ma almeno richiama l'attenzione del lettore su aspetti, particolari, connessioni ancor oggi interessanti o poco noti, evitando - anche questo è un pregio - le interpretazioni e omissioni unilaterali , il pretenzioso determinismo storico, il localismo privo di respiro e le mal fondate pretese pseudoscientifiche e sistematiche di parecchi celebrati autori coevi e success1v1.
PARTE QUARTA
PROGETTI GEO-STRATEGICI E SOLUZIONI ORDINATIVE PER LA CONQUISTA DELL'INDIPENDENZA NAZIONALE «Mi domandate delle assicurazioni per la vostra indipendenza avvenire: queste assicurazioni non sono forse neJle vittorie, che l'Armata francese d'Italia riporta tutti i giorni? Ogni vittoria che noi abbiamo è una riga della vostra carta costituzionale [... ]. Occupatevi a illuminare, a contentare il popolo, a completare la vostra Legione e quella polacca, e approfittate del momento, in cui l'Armata francese è in Italia per assicurarvi uno Stato militare, senza il quale non esiste né libertà, né indipendenza».
NAPOLEONE (Messaggio agli italiani)
CAPITOLO XI
LA VIA GEO-STRATEGICA PIEMONTESE E NEO-GUELFA PER LA CONQUISTA DELL'UNITÀ NAZIONALE: VINCENZO GIOBERTI E CESARE BALBO
Premessa Sarebbe errato sopravvalutare l'influsso dello Zambelli, del Cattaneo e dei tanti altri teorici «scolastici» e «laici» prima citati, sulla concreta prassi strategica con la quale - nel 1848 - viene affrontata la guerra nazionale contro l'Austria, storicamente la prima guerra nazionale da secoli. Confennando la visione di Clausewitz, sono state le contingenze, gli uomini, i loro sentimenti e le loro passioni - non tutte nobili, sincere e disinteressate a dettare ciò che gli italiani hanno fatto (o non hanno fatto) - nel 1848 - 1849. Gli unici scrittori che concretamente si pongono il problema della guerra all'Austria in un dato contesto nazionale ed europeo lasciando il minor spazio possibile alle teorie, sono Vincenzo Gioberti, Cesare Balbo e Giacomo Durando. Tre piemontesi che giungono a conclusioni assai diverse, peraltro uniti nell'assegnare al Piemonte e al suo esercito un ruolo centrale, nel considerare - sia pur con discordi accenti - il peso politico del Papato e nel dare un respiro geopolitico e geostrategico alla conquista dell'indipendenza nazionale, inserendola non solo nel contesto dell'Europa Continentale, ma anche nel problema mediterraneo - per il quale non bisogna aspettare il 1861 - e nella questione d'Oriente. Uniti anche nelle grandi linee della loro vicenda politica e umana: tutti e tre dopo un periodo di contestazione della monarchia piemontese che li costringe all'esilio, rientrano in Patria a cavallo del 1848 e ricoprono cariche politiche di altissimo rilievo, collaborando con la monarchia prima avversata e diventandone i pilastri moderati. I numerosi legami esistenti tra le opere dei neo-guelfi Gioberti e Balbo suggeriscono di esaminarle contestualmente nello stesso capitolo.
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Rispetto ad essi il Durando si pone in una posizione antagonista e neoghibellina, oltre che assai più attenta a fattori geo-politici e geostrategici interni; il suo pensiero verrà pertanto esaminato a parte.
Sezione I - «Il Primato morale e civile degli Italiani~ di Vincenzo Gioberti (1843): aspetti militari I caratteri prettamente politici delJe tesi sviluppate da Vincenzo Gioberti nel Primato morale e civile degli italiani' sono noti: assai meno noti, invece, gli aspetti geopolitici e geostrategici dell'opera - che pure ne sono il fondamento - e quelli di interesse militare. Il Gioberti non usa mai - è bene chiarirlo subito - termini come geopolitica e geostrategia; ma di queste due discipline discorre quasi per forza di cose, aprendo originali prospettive specie sul rapporto tra Italia e Europa e sulla posizione delJ'Italia nel Mediterraneo e nel mondo. Sostenitore di una Confederazione degli Stati italiani presieduta dal Pontefice, il suo federalismo neo-guelfo diversamente da quello del Cattaneo non nega l'unità italiana ma ne è il primo passo, ha caratteri spiccatamente nazionali , non esalta le divisioni ma le attenua per quanto possibile, ed è vivificalo da un vivo senso delJa nazionalità italiana e dalla necessità di difenderla e ribadirla specie contro l'influsso culturale francese. In certo senso, egli - con un bisticcio di parole solo apparente - può essere definito un federalista unitario, al quale non sfugge l'importanza dello strumento militare per conquistare e mantenere l'unità nazionale. Dai suoi scritti - com'è inevitabile - traspaiono il carattere, le origini, le matrici culturali dell'uomo: è italiano, uomo di cultura e spirito libero, storico e geografo profondo, filosofo, ma anche sacerdote ~ piemontese. Alle sue concezioni di carattere o interesse militare arriva per la strada maestra della geopolitica, accompagnata da uno storicismo che ne rafforza e completa le acquisizioni, e da un forte sentimento - prima ancor che religioso - cattolico, nel quale non si riscontra alcuna dicotomia tra ciò che attiene al ruolo spirituale della Chiesa di Roma e ciò che rientra invece nella sfera militare, della cultura o della politica. Nemico giurato dei gesuiti, è un neo-guelfo liberale. Il suo approccio rimane sempre lontano da tentazioni teocratiche e assolutiste e vuol mantenere aperto anche il confronto con il pensiero laico. Se gli anticle-
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Noi ci riferiamo alla 2• Ed. 1846 (Capolago, Tip. Elvetica), in due Tonù.
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ricali - egli afferma - amano la loro patria e desiderano sinceramente ogni suo bene, «debbono confessare che un'emulazione di virtù e scienza fra i ministri della religione e i laici non può nuocere né dar gelosia a nessuno, e dee necessariamente giovare alla civiltà»;2 in tal modo nazionalità italiana, religione cattolica e ragioni di contiguità con lo spirito laico in lui convivono e anzi trovano reciprocamente occasione per rafforzarsi e completarsi. Il cosmopolitismo di derivazione cattolica diventa un'idea-forza per realizzare l'unità nazionale e anzi una fondamentale ragione di superiorità culturale e politica dell'Italia, mentre la presenza del Papato al centro della penisola non è - come pensano altri scrittori coevi - causa primaria della nostra divisione e del nostro servaggio, ma la ragione prima della primato storico-culturale della Italia e il possibile fulcro dell'unità nazionale: «tale è il vostro debito, o figliuoli d'Italia: la prima cognizione che dovete procacciarvi, dopo quella di Dio, è la scienza della vostra patria. Voi dovete essere la nazione cosmopolitica, non già accettando le idee forestiere, ma travasando le vostre negli altri Paesi, perché perdereste l'esser proprio, imitando l'alieno, laddove gli altri migliorano le loro condizioni native, ritraendo dal genio italico». Tra Roma pagana e Roma cattolica esiste per il G. un legame di continuità e contiguità storica, culturale, geopolitica, che ha sempre visto in tedeschi e francesi i primi nemici dell'Italia: l'antica Roma presentiva per una spezie d'istinto profetico i mali che le si apparecchiavano dalla doppia schiatta[ .. ;] Ma come i Tedeschi e i Francesi si mostrarono sempre infesti alla stirpe pelasgica, di cui l'Italia fu il seggio più insigne; così Roma, la cui vera origine si nasconde nelle tenebre dei secoli più remoti, è la città eterna, devastata più fiate da quelli e rinascente ogni volta dalle ceneri come fenice. 3 Il «Primato» dell'Italia è essenzialmente culturale, e non consiste in programmi di espansione economica, politico-militare o commerciale: «l'Italia, in virtù della sua universalità ideale, è la sintesi e lo specchio di Europa, e riepiloga in sè stessa sotto breve misura tutte quelle varietà etnografiche che nel resto di quella largamente risplendono». Questa varietà non solo non nuoce, ma accresce il carattere unitario del genio italiano, «il quale è uno nella moltitudine delle sue specie, come uno è il
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ivi, Tomo I p. 36. ivi, p. 99.
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genio giapetico e indopelasgico degli Europei nei quattro rami degl'Italo greci, dei Germani, dei Celti e degli Schiavoni, benché ciascuno di essi in più ramicelli si parta e diffonda. La varietà non pregiudica all'unità nelle cose create, anzi concorre a produrla ... ». 4 La Confederazione di Stati italiani presieduta dal Pontefice deve realizzare l'unità nazionale non sotto la protezione dello straniero ma contro lo straniero. Tutte le volte che eserciti stranieri sono stati chiamati in Italia - egli ricorda - si sono poi impossessati, quale compenso per le loro fatiche, di qualche porzione del territorio nazionale. Unità e accentuazione senza debolezze delle ragioni morali e culturali dell'identità nazionale vanno dunque di pari passo: una nazione non può tenere nel mondo quel grado che le conviene, se non in quanto si crede degna di occuparlo; onde la modestia eccessiva, lodevole talvolta nei privati uomini, è sempre biasimevole nel pubblico, come quella che tronca i nervi richiesti alla virtù e ai fatti magnanimi [... ]. Così, stando nell'esempio dei nostri vicini di ponente [i francesi - N.d.a.l, chi rammentasse loro esser dessi il braccio della Cristianità europea, delegati dal cielo e propagare e difendere il pensiero cattolico e italiano. fonte di ogni loro passata grandezza, invece di usurparne i titoli, e tentarne le veci, farebbe opera egregia per sollevare la Francia dalla bassezza morale e intellettuale in cui è caduta, e renderle l'antico lustro [...]. Siccome l'Italia da qualche secolo in qua s'inginocchia dinanzi ai forestieri, e non si reputa avventurosa se non è calcata dal loro piede; onde, se accade che costoro, benché pregati e ripregati con le braccia in croce di ripassare le Alpi, non si degnino di acconsentire, ella, per supplire alle persone, ricorre umilmente ai loro libri, e si ristora della perdita servitù civile con quella della lingua e dell'intelletto ....5
Il federalismo per il G. è solo la via - al momento migliore, perché graduale - verso l'unità nazionale, e in nessun caso e in nessuna manjera è in contrasto con il ruolo europeo e mondiale della Chiesa, la sua politica e la sua missione spirituale. Egli ragiona sempre basandosi sulle antiche nazionalità europee, dalle quali trae le ragioni anche dell'unità italiana; quest'ultima è resa necessaria e per così dire naturale da ben precise premesse geopol itìche e geostrategiche. Manca completamente, nei suo scritti, qualsiasi idea di una «Europa delle regioni», nella quale l'identità nazionale diventa un ostacolo sia per più vaste aggregazioni sovranazio-
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ivi, Tomo Il p. 415. ivi, Tomo T pp. 39-40.
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nali, sia per la libera autoaffermazione di etnie, localismi e poteri alternativi. Ma se nella sua visione l'Europa e la sua identità sovranazionale è lungi dall'avere quell'ingenuo potere salvifico che oggi taluni le riconoscono, il G. non sdegna il confronto tra la sua idea dell'Italia unita e la realtà europea e internazionale: da quest'ultima anzi muove, per meglio caratterizzare il più acconcio assetto politico-militare dell'Italia. A tal fine egli si richiama al ruolo trainante della geografia nel determinare l'identità dei popoli e le loro condizioni materiali, mentre le condizioni morali dipendono dalla religione, «fonte, base, apice e somma di ogni sociale perfezionamento». 6 Prevale sempre - egli afferma - il popolo che nella propagazione delle sue idee per tutte le regioni abitate della terra è più favorito. dall'ambiente naturale: per questo rispetto, le considerazioni della geografia fisica s'intrecciano con quelle della civiltà umana, e il sito adempie negli ordini di questa un ufficio ancor più importante di quello del clima; il quale, operando sulle complessioni, ma non sulle reciproche comunicazioni dei popoli, è tanto meno efficace del sito, quanto più la mistura delle schiatte è atta a vincere e ad annullare il genio speciale di cia,:;cuna di esse, nato dal loro vivere stregato e foresto. 7
Pur essendo la più piccola delle cinque parti della terra e pur essendo meno favorita dalla natura rispetto ad altre grandi regioni, l'Europa deve la sua prevalenza geopolitica alla sua posizione centrale, «se per centro s'intende non già la postura materiale rispetto all'equatore e alla linea meridiana dei due emisferi continentali, ma il sito più acconcio a comunicare per mare o per terra con tutte le parti del mondo, in proporzione alla loro importanza verso gli ordini attuali dell'incivilimento». Rispetto al contesto geopolitico europeo, l'Italia sta nello stesso rapporto dell'Europa con il resto del mondo: laonde, benché campata su l'orlo meridionale, essa è, tuttavia, politicamente parlando, la più centrale delle sue province. I Francesi sogliono assegnare questo privilegio alla loro patria, e hanno tanto ragione quanto i Cinesi, che chiamano il loro reame l'Imperio del mezzo [... ]. Il vero si è che questa partecipa alla centralità civile di Europa, solo per via della Provenza, perché il Mediterraneo, lambendo i margini dell'Africa e dell'Asia, guardando per Io stretto Gaditano all'America, essendo diviso pel solo istmo di Suez dalle
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ivi, p. 62. ivi, p . 55.
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porte marittime dell'India e dell'Oceania, e attenendosi mediante l'Adriatico, il mar Nero e i suoi affluenti al lembo della Germania, della Russia e dell'Oriente, è il vero mezzo, e per così dire la piazza dei popoli civili. Ora il punto centrale del Mediterraneo è occupato dall'Italia; perché se tiri una linea dal Capo San Vincenzo ad Alessandretta, la nostra penisola, che corre obliquamente da maestro a scirocco, ne sega il mezzo; e si affaccia quasi donna sul mare, corteggiata innanzi, a destra, a sinistra da molte isole, e fiancheggiata a ponente e a levante, quasi da doppio baluardo, dai due vasti semicircoli della Turchia europea e dell'Iberia ....8
G. ha una visione geopolitica e geostrategica dell'Italia prettamente mediterranea, che dunque si contrappone a quella continenta1ista di altri. La conformazione della penisola, che anche per Napoleone è il più forte ostacolo all'unità e quindi al peso politico-militare dell'Italia in Europa, è per il G. un vantaggio, e «contribuisce ad agevolare il suo dominio sull'ampio mare che la circonda». L'ostacolo all'unità che per Napoleone è costituito dalla «forma bislunga e smilza della penisola>> è stato vinto dai Romani, dagli Etruschi e forse dagli antichissimi Pelasghi. Se l'Italia fosse meno lunga e più larga fino ad assomigliare alla Spagna, e fosse divisa non «dall'umile e esile Appennino», ma da aspre, alte e spesse catene montuose, potrebbe comunicare meno facilmente con i due mari circostanti e con il Mediterraneo. Quindi la natura «dando alla nostra patria la forma di un bidente, attraversò all'unione di essa un impedimento facile a superarsi, le rese con tal postura più spedito il commercio e il dominio e il dominio esteriore, e mostrò di antiporre le sue sorti cosmopolitiche a ogni altra considerazione».9 Gli «agevoli passi» tra la catena nord-est delle Alpi e le valli del Danubio con i suoi affluenti «paiono praticati da11a Providenza acciò le stirpi sorelle degli Slavi, dei Germani e dei Pelasgi [cioè della più antica popolazione mediterranea - N.d.a.] accomunino fra loro i doni di natura e gli acquisti de11'arte». E qui il G. accenna persino a1 futuro ruolo commerciale e politico dell'aviazione e alla futura rinascita dell'Oriente: che se nei tempi andati queste aperture [cioè i passi tra la pianura padana e la conca del Danubio - N.d.a.] riuscirono spesso funeste all'Italia, dando accesso alle alluvioni dei Barbari, esse serviranno un giorno a permutare i frutti dell'industria speditamente, dappoichè l'ingegno umano, emulando la velocità favolosa d'Abariz e d'J-
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ivi, pp. 55-56. ivi, p. 57.
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caro, trovò il modo di volar per terra con quell'impeto che si corre sul mare. Se non che il predominio dell'incivilimento aquilonare essendo uno sforzo dell'arte e un accidente poco naturale, la sede prima e duratura dei progressi civili aspetta ai climi di Mezzogiorno e alle regioni orientali, dove gentilezza ebbe la sua culla, e nel prossimo millennio farà ritorno. Or chi non vede che l'Italia, pel sito che tiene, è la potenza più acconcia ad aver le chiavi dell'Egitto e del'Asia, e a sorvegliare nello stesso tempo l'Oriente e l'Occidente?. io
Dopo aver tratteggiato la fisionomia geopolitica dell'Italia e il suo rapporto generale con l'Europa, il G. accenna alla «teleologia ideale» delle principali nazioni europee, la quale è determinata «da tutte le specialità loro, ma sovrattutto dalla qualità della loro stirpe e daJla natura del loro Paese». 11 Poiché per teleologia (dal greco telos, teleos, «fine», e logia) si intende «la proprietà di un essere di essere predisposto a un determinato fine» (Garzanti), il significato che il G. attribuisce a tale termine (solo da lui usato) è assai vicino a quello dell'odierna geopolitica. Per l'indole della razza celtica e per la forma del loro territorio «che conglobato mirabilmente e senza annotabili divisioni interne, agevola la comunicazione degli uomini, la concentrazione delle forze e la celerità del comando», i francesi fin dall'epoca dei Galli sono «ordinati naturalmente ad essere un popolo annigero, e quasi il braccio della Cristianità europea». E vengono in mente i pregi e i limiti - del tutto francesi - delle teorie di Jornini, quando il G. afferma che «l'abitudine a generaleggiare, propria dei Francesi, la facilità, la chiarezza e le altre doti pregevoli della loro lingua» non possono conferir loro quel primato intellettuale che si attribuiscono, anche se è indiscutibile che queste qualità della loro cultura «li rendono abilissimi a propagare le idee, ad agevolare il commercio degl'intelletti, e a far la permuta e il traffico dei loro proventi>>. Ma affinché quest'opera sia utile (anziché nuocere come spesso avviene al momento), uopo è che la Francia non trascorra oltre la sua natural vocazione, e senza voler con Cartesio inventare il vero, ond'è promulgatrice, stia contenta a riceverlo ed esprimerlo acconciamente. L'ingegno gallico è attissimo a procreare la forma estrinseca della scienza, ma non a procacciarne da sè solo la materia, il che si vede da ciò che anche nella linea eterodossa esso non fu autore di un solo sistema che a-
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ÌVÌ, pp. 57-58, ivi, Tomo Il p. 375.
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vesse del peregrino, del nuovo, e gittasse profondo le sue radi. 12 Cl. .. .
Ogni popolo ha un suo genio nazionale, di cui le opere letterarie sono lo specchio e che dà loro un carattere specifico e originale; quest'ultimo dipende «dall'immaginativa, non dall'intelletto; consiste negli affetti e nei fantasmi, non nelle idee». Sotto questo aspetto la meno originale fra le letterature europee è proprio quella francese, «atteso che la stirpe di cui è opera, quanto abbonda dì sagacità, di spirito, di quella mobile e leggera fantasia, di quella vivezza e volubilità di affetto che sfiorano gli oggetti, tanto manca di quella robusta e profonda immaginazione, e di quel fervido sentire, onde rampollano i grandiosi concetti della poesia e dell'arte». 13 Come ricordare, dopo questi giudizi del G., il grande successo delle idee di Jomini fuori della Francia, la sua pretesa di aver scoperto il segreto (razionale) delle vittorie dei grandi condottieri, e infine il continuum di molte parti della sua opera rispetto agli scrittori militari francesi della seconda metà del secolo XVIII? TI G. non è certo amico della Francia, e questi richiami ancora una volta lo dimostrano; ma più che opporsi alla Francia in sè, si oppone ai suoi soprusi, a11e sue ingerenze, ai nefasti effetti che ha avuto la sua politica sulle cose italiane. In nota alla seconda edizione del Prùnato riporta le invettive antifrancesi del Leopardi, e constata che l'opera delle principali personalità francesi degli ultimi secoli - da Luigi XIV a Napoleone -- ha avuto un'impronta anticattolica, quindi antitaliana. Ma sente anche il bisogno di chiarire che, combattendo certe pretese della Francia e la sua influenza in Italia, io sono lontanissimo dal riprovare la concordia politica o una stabile e particolare alleanza tra le due nazioni, come quella che potrebbe essere utilissima ad entrambe, e si conforma alle loro attinenze di sito e di religione, per non parlare di altre opportunità possibili a sorger coll'andar del tempo, e col variare delle condizioni politiche dell'Europa. Ma accioché l'Italia trovar possa nella sua vicina un'amica e un'alleata utile e fedele, deve guardarsi dall'averla per protettrice, o dal preterire [trascurare - N.d.a.] comunicando con essa, quelle clausole che alla perfetta eguaglianza e indipendenza degli Stati richieggonsi. So che da mezzo secolo in qua molti italiani, che si vantavano di amare la patria loro, vorrebbono, per facilitarla,
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ivi, p. 379. ivi, p. 383.
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renderla ligia e vassalla à suoi confinanti; e quali frutti abbia partorito questa politica, la storia ce lo insegna. 14 Dalla patria (culturale) di Jomini a quella di Clausewitz: perché, parlando della Germania, il G. senza volerlo tratteggia con pari maestria la matrice culturale dell'autore del Vom Kriege. Così come la Francia con la sua lingua largamente diffusa esercita il ruolo di «sensale e turcimanno tra i popoli civili», la Germania, alla quale si attribuisce il primato della scienza, pare ordinata dalla Providenza ad apparecchiare e lavorare i materiali eruditi [...] e, dato loro il pulimento e la brunatura della critica, a porgerli belli e acconci alla mano architettonica che· innalza la scienza. Quantunque l'ingegno germanico sia altamente ideale, ontologico, e per molti rispetti mirabilissimo, io lo credo fatto assai meno per la speculazione schietta, che per la mista; cioè per quella che si mesce coi fatti e s'intreccia con la storia; perché dove manca questo appoggio, l'idealità tedesca sfuma agevolmente, e si perde nelle astrattaggini, nelle astruserie e nei vapori. Il .che è un effetto della sua virtù speculativa e uno di quei vizi che nascono, non da debolezza, ma da un eccesso di forza 1•..J E benché la ricc.1 suppellettile radicale del tedesco e il suo sintetico andamento giovino non poco alla facoltà speculatrice e poetica, .questi pregi sono controbilanciati da quella misticità che è il tarlo principale della Virtù contemplatrice e immaginativa degli Alemanni. 15 Non ricodano forse, questi giudizi, l'oscillazione tipica di Clausewitz tra un realismo senza illusioni illuministiche e uno spiritualismo così spinto da poter diventare astatto, ad esempio dimenticando o trascurando l'ancoraggio al materiale? L'altra grande nazionalità dell'Europa occidentale, quella inglese, è dipinta dal G. con tinte assai forti e sicure, che risultano particolarmente efficaci quando danno rilievo alle ragioni della grandezza di quella nazione e a ciò che le manca. La «signoria del mare universale» della Spagna e dal Portogallo, dopo essere stata «assaggiata», dall'Olanda, è passata alla Gran Bretagna, la quale coglie il retaggio e riepiloga in sè stessa la storia della navigazione del mondo, dallo schifo informe di Usoo ed al primo va-
14
ivi,
p: 349.
15
ivi,
pp. 383-384 e 386.
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scello dei Cabiri sino alle navi incastellate e alle colossali flotte, quasi ville natanti, della nautica moderna. Come dunque la Francia dovrebbe essere il braccio terrestre, così la sua rivale è il braccio marittimo della civiltà cristiana, recandone i semi in tutte le parti del mondo abitato, per mezzo del traffico e delle industrie. 16
La grandezza dell'Inghilterra è dovuta sia alla posizione geografica del Paese sia all'indole del suo popolo_ Gli inglesi sono stati «invitati e sospinti dalla postura del loro paese, dalla povertà del suolo e dalla malignità del cielo a tentare la signoria dell'Oceano». Il loro carattere coraggioso, tenace e leale, la struttura e la forza delle loro istituzioni, «l'audacia nel disegnar e e imprendere cose grandi, e (ciò che più importa) la tenacia nell'eseguirle», sono qualità tipiche delle popolazioni isolane e costiere e derivano dalla vita sul mare, che rende l'uomo «ad ogni istante sfidator della morte» e rafforza in lui la consapevolezza «delle sue sorti dominatrici e cosmopolitiche». In tal modo come la Germania spazia nei campi dell'antichità e della storia, così la Gran Bretagna domina in quelli dell'Oceano, congiungendo e solcando con le sue flotte, quasi con ponti mobili, con foderi e zattere immense, i lidi dei due continenti e i flutti dei due mari, e preludendo colla unità commerciale all'unità ideale del mondo». 17
Non tutto va bene nell'imperialismo inglese: affinché i miglioramenti morali accompagnino il progresso materiale, è necessario che le iniziative commerciali siano «corrette e ingentilite da un apostolato di civiltà e di religione». Ma di questo finora gli inglesi si sono preoccupati assai poco, perciò «l'opera loro non ha recato alcun morale vantaggio a parecchi popoli barbari o di poca cultura da loro vinti e frequentati ». Ben diversamente hanno agito gli antichi Romani: ma gl'inglesi, più fortunati e meno accorti, ricorrere ai mezzi romani non vogliono, e ai cattolici non possono, finché vivono ribelli alla società procreatrice di tutta la civiltà loro [cioè al cattolicesimo N.d.a.]: cosicchè la celebre compagnia delle Indie ha fatto in più di due secoli assai di meno per la cultura di questo paese, che non facesse in pochi lustri un'altra compagnia di natura assai diversa, ma non meno famosa, colle industrie generose e pacifiche della virtù e della religione. 18
16
ivi, p. 389. ivi, p. 386. 18 ivi, p. 390. 17
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Per rimediare «all'Irlanda discorde e alla poveraglia, che sono le due ulcere interne della società britannica», secondo il G. non c'è altro rimedio che una conversione alla religione cattolica, «unico espediente che occorra a quel nobile regno per scansare una rivoluzione, I.a quale riuscirebbe funesta e mortale all'aristocrazia inglese». Infatti «sebbene non sia imminente o vicina, non è pur lontanissima l'ora in cui [gli Inglesi] dovranno scegliere fra una democrazia tumultuaria e una riforma cattolica». E il pericolo più grave che corre 'llnghilterra, così come tutte lenazioni abituate a determinate Istituzioni e ragionevolmente convinte della loro sostanziale validità, «si è il non temere che una cosa possa accadere solo perché dianzi non è accaduta; quasi che iJ tempo non portasse male come bene, e l'avvenire fosse una mera copia del passato nella vita dei popoli». 19 Sotto taluni aspetti, la Russia - e il paragone è assai originale - pare al G. simile all'Inghilterra: per quanto ancora mezzo barbara e inferiore sotto tutti gli aspetti all'Inghilterra salvo che per la popolazione, questa Nazione farà forse un giorno rispetto all'Asia del centro e di tramontana ciò c he verrà effettuato dall'altra nelle parti australi della medesima [... ). Laonde, se alla marittima Inghilterra incombe l'ufficio di portare la civiltà verso i tropici e l'antartico, fra le schiatte aduste e traligne degli Ottentotti e degli Australiesi, la sua emula continentale dovrà rompere le gelide zolle soggette al cerchio del nostro polo. 20
Alla Russia, come all'Inghilterra, manca però «la viva e schietta coscenza del suo ministero incivilitivo e cosmopolitico, perché il senso teologico dei popoli e degl'individui deriva dalla religione, fuori della quale ogni ragion finale è impossibile». Ambedue queste nazioni si rassomigliano negli ordinamenti politici e religiosi, perché in ambedue i casi un'aristocrazia «ereditaria, opulenta, corrotta e superba» pesa sul resto della nazione; mentre in Gran Bretagna essa è temperata «dall'aristocrazia fattizia delle industrie, del traffico e dalla naturale del merito», in Russia lo è daJl'autocrazia. Ambedue le nazioni, che si sono staccate dalla religione cattolica, professano «un Cristianesimo inerte, privo di fecondità, di spiriti, di vita, spogliato del suo vero principio organico, e timoneggiato dal braccio regio, non dal senno sacerdotale».21
19
ivi, pp. 392-393. ivi, pp. 393-394. 21 ivi, p. 395. 20
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Le Chiese di ambedue le nazioni hanno conservato un'ossatura gerarchica somigliante a un corpo senz'anima, che potrebbe agevolmente rivivere se «fosse di nuovo informato dal soffio cattolico». E ambedue le nazioni hanno ai loro fianchi dei pungoli che le richiamano a un ritorno alla fede cattolica: «imperrocché, come una ha a ponente l'Irlanda, così l'altra ha la Polonia; due province cattoliche e eroiche, ma implacabili nemiche delle loro dominatrici, finché fra loro non corra egualità di guise e comunanza di religione, la qual comuna~za non potrà mai stabilirsi, se il nuovo non cede all'antico e il vincitore non si risolve a ricevere la legge ideale e la salute dai vinti». I Polacchi e gli Irlandesi - aggiunge il G. - devono aver fede, e non cedere all'errore; perché «essi saranno lo strumento onde si varrà la Provedenza per ritirare la grande stirpe anglogermanica e la slava verso l'unità pelasgica ed europea. E che forza incredibile non ritrarrebbe la Russia da questa unione, per istabilire il suo dominio nell'Asia centrale e boreale, e ridurre a civiltà casereccia le popolazioni vaganti tra il Cuenlùn e l'Oceano gelato?». 22 La conversione alla fede romana è per la Russia il solo mezzo capace di guadagnarle il favore della Polonia e delle altre popolazioni slave e cattoliche dell'ovest, stringendo le varie nazionalità dell'Impero russo in un solo corpo omogeneo al resto dell'Europa, e capace di resistere alle armi britanniche, nella gran lotta che seguirà un giorno sulle ampie lande o lungo le spiagge dell'Asia. Imperrocché, senza omogeneità non v'ha unione, e senza unione non v'ha forza fra le diverse aggregazioni d'uomini; e quando manca il vincolo della schiatta, dei costumi degli istituti, della favella, uopo è che la religione supplisca.23
In questo contesto dove la religione diventa un fattore della geopolitica e, in mancanza d'altro, una ragione di unità e coesione, come la rigenerazione e la salute dell'Oriente dipende dalla Europa, e come l'unità e l'instaurazione di Europa debbono muovere dall'Italia, così il risorgimento di questa dee procedere da Roma; nella quale perciò si racchiuggono i fati universali del globo. L'umanità e Roma, cioè la specie tutta quanta e una città individua, rappresentano la circonferenza e il centro di questo circolo molteplice ed amplissimo, e i due estremi del raggio che li riunisce attraverso gli altri cerchi interposti e concentrici, come le ellissi sideree del fir-
22
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ivi, p. 396. ivi, p. 397.
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mamento [ ...]. lmperrocché, se rispetto all'esistenza esteriore e allo spazio che occupano, Roma è membro dell'Italia, e l'Italia è porzione di Europa, e l'Europa per la sua piccolezza si può avere per l'appendice dell'Asia, e l'Asia in fine è parte del mondo; in ordine all'esistenza interiore e alle idee ha luogo il contrario, perché ivi la contenenza accompagna il grado d'idealità più notabile. Quindi è che Roma essendo più ideale d'Italia, e l'Italia di Europa, e l'Europa dell'Oriente, e l'Oriente del mondo, ciascuno di questi aggregati viene ad essere il contenente ideale dell'altro, come l'anima del corpo [ ...]. E quello che accade ontologicamente riguardo all'Idea si verifica pure psicologicamente rispetto all'esistenza interiore, cioè alla coscienza.... 24
In questo schema Roma, l'Italia e l'Europa hanno ciascuna un preciso ruolo, quindi una specifica identità spirituale e geopolitica: ma le ragioni più profonde e immediate dell'unità de1l'Italia e dell'Europa vengono, per il G., dalla necessità di far fronte comune contro l'espansionismo russo, che vorrebbe da un lato ridurre sotto lo scettro dello zar tutte le popolazioni slave, e dall'altro rendere la Russia «arbitra dei mari e del continente, onde, affievolite le altre nazioni , che ora la vincono in civiltà o seco gareggiano di potenza, possa procacciarsi una dittatura europea». La Francia e gli altri paesi civili devono perciò considerare la Russia semibarbara come il loro nemico capitale, mentre l'Austria e la Prussia, che al confine con la Russia possiedono province in tutto o in parte abitate da popolazioni slave, hanno ragione di temerne l'espansione. Anche la signoria marittima de1l'Inghilterra tramonterebbe senza rimedio, «se le chiavi di Costantinopoli, del Golfo Persico e dell'India cadessero in mano alla sua rivale, già padrona in gran parte del Baltico, del Danubio, del Caspio, dell'Eussino e di tutta l'Asia Boreale, e ponta a saltar nena Persia e ne1l'Asia dal Centro, come prin1a avrà superati gli ostacoli del Caucaso e della Transossiana». 25 Se l'Europa non si decide ad unirsi e ad armarsi contro il comune nemico, gli Slavi terranno presto o tardi in pugno le sorti dell'Europa. Una lega dei popoli meridionali e occidentali contro il Settentrione e l'Est sarebbe favorita dalla religione cattolica, che «potrebbe servire a stringere insieme le nazioni civili contro i nuovi Barbari».26 Sebbene l'unità di fede al momento manchi tra le principali nazioni europee, i loro stessi interessi le spingono a «rinnovare quei sacri vincoli
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ivi, pp. 408-409. ivi, p. 147. 26 ivi, p. 148. 25
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che dianzi le affratellavano». Questo accentuato ottimismo sul futuro del cattolicesimo in Europa contrasta, però, con un contradditorio pessimismo sulla capacità di «tenuta» dell'Europa e della Francia: Napoleone vo]]e fare della Francia la nazione grande per eccellenza, e non ottenne l'intento suo, perché i Celti sono una stirpe vecchi a: il Russo vuole investire di questo titolo i suoi Slavi, e vincerà la prova, perché questi sono una stirpe giovane [... ]. E già ora si veggono i princìpi non dubbi del gran conflitto, che occuperà forse i secoli futuri, fra Roma e Pietroburgo, fra il pacifico pastore dell'austro e l'autocrato armato del settentrione. Il giorno non è lontano in cui i popoli dovranno scegliere fra queste due potenze.... 27
Se lo slavo vincerà la prova, che cosa rimane da scegliere, da fare? Eppure l'Italia unita potrebbe avere un essenziale ruolo di antemurale contro l'espansionismo russo: allora si conoscerebbe di quanto rilievo per la salute universale sia la potenza e l'unità d'Italia; la quale, fiancheggiata dalla Spagna e dalla Grecia, colJa Francia e colla Germania alle spalle, concerterebbe [unirebbe - N.d.a.] le sue forze marittime con quelle dell'Inghilterra per tutelare a comun vantaggio le porte di Oriente.28
Dopo aver tracciato i lineamenti generali del rapporto tra Italia e Europa, il G. esamina più da vicino la realtà geopolitica interna dell'Italia, dalla quale trae le sue tesi sulJ'assetto politico e sugli aspetti militari dell'unità italiana, tenendo presente che l'Italia «viene ad essere una piccola Europa, miniata con mirabile vivacità di colori, nella quale per la vicinità dei luoghi, per la copia delle differenze e delle opposizioni, tanto più spiccano i contorni e i contrasti risaltano».29 Quindi la sua unità deve essere «effettiva, organica, armonica, concreta, non astratta e informe» e per realizzarla bisogna «accordare le contrarietà, le discrepanze, non aumentarle; poiché con esse verrebbero meno la varietà e l'armonia del mondo». Farebbe perciò cosa assai utile ai futuri destini della patria chl studiasse «una Geografia morale d'Italia, in cui le idee fossero avvalorate da fatti presenti e preteriti, maestrevo]mente raccolti e discussi». Nasce da queste constatazioni la polemica del G. contro i sostenitori di uno Stato fortemente centralizzato, che «vorrebbero cancellare tali svari e contrapposti, riducendo tutti gli Stati italiani al medesimo sesto, e
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28
ivi, Tomo I pp. 149-150. ivi, p. 148.
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dando alle diverse province un volto ed abito uniforme». Sostenendo questo, essi dimostrano di «essere così savi come quegli altri, che aspirano a introdurre la stessa monotonia e similitudine nell'Europa tutta e nel mondo». A questo punto l'analisi del G. si accosta notevolmente a quella del Durando, che poi esamineremo: L'Italia, come penisola separata dal resto del continente, mediante la giogaia più alta d'Europa, ha una individualità più risentita degli altri Stati, e non è vinta per questo rispetto che dalle isole e dai paesi condizionati quasi a modo degl'insulari, come sono l'Olanda e la Gran Bretagna. Ma questa personalità nazionale si parte in molte individualità minori, secondo le diverse province, come il corpo umano si divide in più organi e membri, ciascuno dei quali, oltre al suo concerto colla vita comune, ha altresì una sussistenza e una vita propria. 30
Come per il Durando, anche per il G. «l'Appennino, che traendo da ponente a scirocco, e facendo un gomito, parte la Penisola italiana propriamente detta in due lunghe e strette zone simiJi e parallele fra loro, la divide altresì dall'Italia continentale, che per le qualità interne, per la conformazione esteriore del terreno, per la sua fertilità e per le attinenze che ha col mare, si distingue essenzialmente dall'altra regione».31 A sua volta l'Italia continentale - i cui caratteri geografici, determinati dalla valle del Po, sono pur abbastanza uniformi - comprende quattro distinte subnazionalità (piemontesi, lombardi, veneti e liguri). II G. ricorre alla geografia politica per spiegare la diversa storia, quindi le diverse caratteristiche di queste popolazioni, incominciando dai piemontesi. La terra abitata da quest'ultimi, racchiusa da tre lati dalle montagne più alte d'Europa e comprendente l'alto corso del Po, gode assai di meno della Lombardia dei vantaggi che la pianura padana assicura al commercio e all'industria. La sua collocazione geografica, per contro, rende il Piemonte «quasi presidio, scolta e vanguardia della patria comune contro la Francia, posto in mezzo fra la antica Liguria, i popoli alpini e la Lombardia». I suoi abitanti hanno un'indole che assomiglia a quella degli abitanti di tutte e tre queste regioni: e se per l'indole men viva che forte, più stabile che concitata, somigliano agli Allobrogi e ai Valesian.i, che stanno loro agli omeri, per
29 30 31
ivi, romo Il, p. 416. ivi, p. 417. ivi, p. 41 8.
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l'attività si accostano di vantaggio ai Liguri, e si avvicinano ai lombardi per le condizioni proprie dell'ingegno pelasgico. Il quale fu in essi meno precoce che nelle altre parti d'Italia, perché accompagnato da più lenta natura e implicato di semi eterogenei. 32
Il «genio territoriale e feudale» dei piemontesi non ne ha favorito la propensione «ai commerci, alle arti utili, agli esercizi dell'ingegno e alla libertà civile», ma «esso giovò a plasmare quella loro forte e tenace indole, quell'amore della stabilità e dell'ordine, e quella moderazione che fa di essi il popolo meglio fazionato a governo, come dice il Botta». Nei piemontesi «l'animo suole sovrastare all'ingegno», e il loro difetto principale consiste «nell'esser pensando, scrivendo, operando, più piemontesi che italiani». I lombardi hanno indole e storia opposte a quella dei piemontesi: «La Lombardia del Medio Evo fu quasi il contraposto del Piemonte, e la terra prediletta del traffico, delle industrie, dei municipi e delle repubbliche; onde i suoi abitanti sono descritti da un filosofo di quei tempi, come gli uomini più fieri e più liberi della Penisola». In Lombardia è sorta nel Medioevo, sotto la guida del Papa, ((quella famosa Lega che fu il primo atto nazionale dell'Italia cristiana e neonata, schiusa appena dal guscio della barbarie».33 Ma il giudizio del G. sulle cause della repentina caduta della libertà e dei valori nazionali difesi dalla Lega diverge da quelJo del Durando: «se la Lega Lombarda fu passeggiera e abbracciò solo una parte d'Italia, la colpa certo non fu dei papi, ma dei loro nemici». 34 E fu anche colpa degli stessi lombardi, perché «l'opulenza partorì le delizie, queste ammollirono e contaminarono i costumi, onde gli austeri collegati di Pontida e i vincitori di Legnano piegarono il collo ai tiranni municipali, e la funesta dominazione venne aiutata dalle vicine influenze nemiche, che indebolirono ma non cessarono, dopo i tempi del secondo Federico».35 Ma nonostante queste traversie, l'indole lombarda «ancorché civilmente infievolita» si mantenne ed è tuttora schiettamente italiana, a un punto tale che se i Piemontesi pigliassero dai loro vicini la larghezza d'idee e la squisitezza di gusto che in essi risplende, e i Lombardi della forza e tenacità subalpina alquanto ritraessero, io credo che questi dati insieme mischiati farebbero un ottimo temperamento, e rinnoverebbero di pianta l'effigie dell'antico uomo italiano. 36 32
Ibidem. ivi, p. 420. 34 ivi, Tomo I p. 128. 35 ivi, Tomo II p. 421 . 36 ivi, p. 422. 33
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Venezia, pur dando un grande contributo a11e arti e alla lingua italiane, ha commesso l'errore di «restringere la sua politica fra i limiti del territorio, credendo che la salute di uno Stato italiano potesse consistere senza quella dell'Italia». Se quella repubblica allo spirito che l'animava avesse unito il sentimento nazionale e la coscienza della patria comune, «l'effigie dell'Italia sarebbe stata perfetta in Venezia repubblicana». La sua rovina è proprio nata dalla mancanza di queste doti: perché essa è caduta a causa di una neutralità poco accorta, e non ha potuto durare come veneziana, semplicemente perché non ha voluto essere italiana. In quanto ai liguri, le condizioni geografiche della Lerra che abitano li hanno costretti a proiettarsi sul mare e li hanno separati dal resto deH'JtaJia. Così come Venezia ha una collocazione geografica adatta a dominare l'Adriatico, Genova è in posizione naturale tale da dominare il Tirreno, e la razza ligure è «dura, rigida, svelta, gagliarda, indomita, arrischiata, vaga di risse, d'imprese e di guadagni». Diversamente da Venezia che è dominata da un'aristocrazia stabile e reditaria, Genova ha sempre avuto «un'aristocrazia mobile e trafficante, che è quanto dire una oclorazia politica [cioè una situazione politica in cui è la moltitudine a imporre le sue decisioni - N.d.a.l, agitata, anziché temprata, da un elemento oligarchico». Ma questa vita interna inquieta valse a serbare ed alimentare l'antico genio rubesto e marziale della ligure schiatta, simile a questa parte alla piemontese (che ne deriva in parte), e piantata com'essa sul sogliare d'Italia dalla Providenza; la quale non a caso affidò la porta marittima e la porta terrestre del bel paese a due popoli armigeri, forti e alpestri, come le rupi che li fiancheggiano. 37
Queste considerazioni da un lato portano il G. a esaltare il ruolo militare del Piemonte, e dall'altro a ritenere necessaria la soluzione federalista, anche perché Roma e Firenze sono i due fochi dell'ellisse italiana, come la Magna Grecia e l'lonia, e in appresso l'Attica e il Lazio furono quelli dell'ellisse pelasgica, che si stendeva probabilmente dal Monte Argeo alla Penisola Iberica. La forma stretta e bislunga della Penisola basterebbe a spiegare l'esistenza di un doppio centro invece di un solo, e si riscontra colla naturalità del reggimento federativo in Italia r... ]. Né questa dualità metropolitana contrasta all'unità d'Italia, tra perché molti, stretti e intimi sono i legami che uniscono insieme
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ivi, p. 425.
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Firenze e Roma, e perché non essendovi fra questi due capi una parità perfetta e prevalendo la città latina, in lei risiede il principio unitario atto a imprimere la propria forma in tutta l'ampiezza della Penisola.38 Come, nel concreto, realizzare l'unità dal punto di vista militare? Il G. ritiene che «una rivoluzione per noi non è legittima né santa, se non con questa condizione, ch'ella si faccia a pro del popolo, e sia letteralmente e rigorosamente un'opera di misericordia». 39 Più in generale, il problema dell'unità italiana non può essere risolto per mezzo di rivoluzioni: «quando per via di rivoluzione si riuscisse a cessare la presente divisione d'Italia, non perciò si acquisterebbe l'unione desiderata, ma si aprirebbe invece la porta a nuovi disordini». 40 Di conseguenza egli non approva né le insurrezioni popolari, né le invasioni dei fuorusciti caldeggiate dai mazziniani. Quest'ultime «salvo casi rarissimi e non applicabili all'odierna Italia» non potrebbero avere successo, e avrebbero per giunta funeste conseguenze: stando da un lato i despoti collegati e intenti a tenerci la mani alla gola per impedirci ogni respiro, e dall'altro due principi [quello del Piemonte e il Papa - N.d.a.], civili sì, ma tolleranti di ogni insulto barbarico per serbare una pace ignominiosa, quei tentativi di mutazione, se bene momentaneamente riuscissero, non avrebbero altro fine che i passati, e al più i tedeschi passerebbero il Ticino, gli uni per insignorirsi di Alessandria, gli altri per invigilare i primi, mettendo piede in Liguria, se già i francesi occupassero la Savoia. Presupporre un tal nervo civile e militare negli italiani, capace di resistere all'urto, non mi è possibile, anche supponendo che fossimo un popolo d'eroi, e pari agli stupendi nostri antenati; perché i pochi forti furono sempre superati da' molti forti, e gli esempi che si possono assegnare in contrario non fanno al proposito....4 1 Escluse le insurrezioni popolari e le invasioni di fuorusciti, il G . confida in due fattori militari tradizionali e non nuovi: l'esercito permanente piemontese e le favorevoli contingenze internazionali (in questo avvicinandosi al Balbo, non senza qualche contraddizione con la sua propensione a sdegnare l'aiuto straniero e a far leva su tutto il popolo). In particolare, egli afferma che
38
ivi, p. 431. Cit. in A. Bujoni, Il pensiero politico del Risorgimento, Torino, Loescher 1966, p. 35. 40 ivi, p. 39. 41 ivi, pp. 35-36.
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la mia speranza è risposta in due cose sole ugualmente essenziali e inseparabili, cioè il popolo e la guerra. Dico la guerra universale la quale, o debba nascere da una nuova rivoluzione qui in Francia, o essere occasionata da altro, quanto per ora è inverosimile [ ... ] da qui a qualche anno sarà inevitabile. E finché le nazioni che timoneggiano l'Europa vogliono ostinatamente la pace, giudico che il popolo non basti, tanto più cosl languido, diviso, inerte come il vediamo. Né lo aspettare la guerra altrui ci pare cosa che ci disonori, aspirando a quella, non come sussidio diretto e mezzo principale, ma a fine di diversione, che impedisca ai barbari settentrionali, quasi a nuovi cimbri dieci volte più poderosi degli antichi, di piombare tutti assieme addosso a noi e opprimerci al primo nostro urto. Voi dite inoltre, che le mosse ancorché sventurate, sono utili per istruire il popolo, il quale non potendosi ormai con le parole e i libri, si deve addottrinare con le azioni. Né vi nego affatto questo genere di utilità....42 Oltre ad avere in comune buoni ordinamenti amministrativi e buone leggi che assicurino loro il consenso dei popoli, è necessario che i sovrani italiani si uniscano anche militannente, perché «le invasioni forestiere nascono dalla debole milizia d'Italia sulla terra e sul mare».43 I tre punti di forza del momento sono Napoli e il Piemonte, che «hanno armi proprie», e Roma, che ha l'autorità della religione. In particolare come Roma è il seggio privilegiato della cristiana sapienza, il Piemonte è ai giorni nostri la stanza principale della milizia italiana. Posto alle falde delle Alpi, e bilicato tra l'Austria e la Francia, quasi a guardia della Penisola, di cui è il vestibolo e il peristilio, egli par destinato a velettar da' suoi monti, e a schiacciare tra le sue forze ogni estraneo aggressore, facendo riverire dai suoi potenti vicini l'indipendenza d'Italia. Ma, oltre all'essere il campo e il presidio comune, le idee rigeneratrici debbono genninare principalmente nel suo terreno per due ragioni particolari, l'una delle quali concerne la stirpe che l'abita, e l'altra s'attiene alla famiglia che lo governa. Per ambedue questi Capi si può credere che quella redenzione italiana a cui tre secoli or sono Niccolò Machavelli invitava e confortava indarno i prìncipi signoreggianti alle radici dell'appennino debba, quando che sia, uscir dal Piemonte.44 Gli abitanti del Piemonte in campo civile sono «i più freschi e novi42
Ibidem. V. Gioberti, Op. cit., Tomo I, p. 141. 44 ivi, pp. 163-164. 43
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zii» degli italiani, e fino a tempi recenti sono stati solamente dei soldati. Ma proprio la storia insegna che le imprese più illustri sono riservate ai popoli nuovi, e l'aumento del benessere ai popoli guerrieri: «onde in tutti i luoghi dove le lettere, le scienze e le arti belle furono in fiore, i tempi aurei di queste discipline vennero preceduti da molti secoli di fiera e marziale rozzezza». Il Piemonte al momento rappresenta anche quella regione speciale, che nelle varie fasi della vita di un popolo «contiene, come dire, il principio dinamico de' suoi progressi e del suo risorgere, secondo ciò che essa nazione è sul fiorire o scadente». Dato che le parti del territorio con queste funzioni non sono sempre le stesse ma mutano con il tempo, «siccome la civiltà nostra fu in origine appennina, quindi circonfluviale, in appresso littorana [cioè costiera, estendentesi lungo le cose - N.d.a.], per ch'ella debba essere per ultimo subalpina, e come incominciò il suo corso in Sicilia, sembra destinata a compierlo in Piemonte, dove il genio italico tiene ancor del macigno, ma è forte e bene aspirante, secondo l'indole de1l'età fervida». 45 Una siffatta esaltazione e giustificazione geopolitica e storica del primato piemontese è un caso unico nella letteratura di interesse militare del periodo: nemmeno Cesare Balbo, altro piemontese che perciò confida soprattutto nelle armi piemontesi, giunge a tanto. Il G., tuttavia, accenna anche all'importanza delle forze militari degli altri Stati, e soprattutto alla necessità che risorga la potenza delle armi italiane sul mare: le forze militari di Napoli e del Piemonte- egli afferma- se prese ciascuna a sè stante sono insufficienti per difendere la penisola contro una sola potenza europea ragguardevole, ma se unite e incrementate grazie al concorso degli altri Stati ftaliani, non ternerebbero più alcun nemico: né alcuno dei nostri governi si confidi a tal effetto nell'aiuto degli esterni; perché si può bene con l'aiuto del forte vincere un altro forte, ma non si può evitare di essere preda del vincitore. E un amico potente è per qualche verso ancor più formidabile alla libertà degli Stati, che un vittorioso nemico.46
Al momento la Marina militare napoletana era assai curata e ragguardevole, tanto che il Durando più o meno nello stesso periodo riteneva le forze navali italiane riunite già assai superiori a quelle dell'Austria. La visione del G. è invece meno ottimista, anche perché egli non guarda all'Adriatico ma a tutto il Mediterraneo:
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ivi, p. 166. ivi, p. 142.
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quanto alle forze marittime, è doloroso il vedere che la regina del Mediterraneo ne sia sprovveduta; e che, mentre le porte terrestri sono presidiate dalle Alpi, quasi da argini e baluardi naturali, atti almeno a rallentare chi da quella parte ci assalta, le porte del mare siano aperte e spalancate ad ogni barbaro invasore. Ma se la disgregazione degli Stati Italiani rende loro impossibile l'esser padroni delle acque che li circondano, questo impedimento cesseranne quando, recate in comune le loro forze, mettessero in piedi una flotta nazionale e italiana, che solcassero di nuovo le onde, già avvezze a portar le classi [cioè le flotte - N.d.a.] confederate dei Pelasghi, dei Tirreni, dei Romani, dei Veneti e dei Liguri, ma non segate [cioè solcate - N.d.a.l per tanti secoli apresso che da carene straniere.47
La prospettiva del Durando è continentale e domestica, ma quella del G. si pone anche il problema dell'espansione dell'Italia fuori dall'Europa. Oltre a consentire ai Prìncipi di «allestir di concerto un comune navilio per difendere le porte marittime e tutelare la libertà del Mediterranneo contro le prepotenze straniere», una lega italiana fornirebbe loro anche i mezzi per riprendere le spedizioni e le conquiste coloniali nelle varie parti del mondo: giacché l'uso delle colonie, sommamente civile e cristiano e, non che utile, necessario ad un perfetto vivere comune, è il solo modo pacifico con cui si possa propagare la civiltà, spianando la via alle conquiste spirituali della fede e alla riunione successiva dell'umana stirpe. Per opera delle colonie l'Europa può allargare la sua signoria sulle altre parti del globo, e comunicare loro le linee della sua coltura, ricevendone in compenso molti beni, fra cui non ultimo è la scienza; parecchi rami della quale f ... l della completa notizia di ogni plaga del mondo abbisognano. Or l'Italia, sì ricca un tempo di peregrina progenie, vorrà oggi esserne affatto priva e non possedere un palmo di terra fuori de' suoi termini, quando non solo la Inghilterra, la Russia, la Francia, la Spagna, ma il Portogallo, l'Olanda, la Danimarca, la Svezia e il Belgio hanno le loro colonie?48
Sono, queste del G., concezioni superate e ottocentesche, sulle quali grava l'ombra di un anacronistico imperialismo? Niente affatto: si tratta, più che altro, della presa di coscienza di una precisa e non favorevole condizione geopolitica dell'Europa, che la spinge a trovare respiro oltre-
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Ibidem. ivi. p. 129.
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mare. Nella sua Geografia politica dell'Europa comunitaria (1983), G. Parker ha di recente osservato che «la Comunità[...] non può contare su quei vasti hinterland spopolati che hanno un ruolo tanto importante nello sviluppo delle due superpotenze, e che per l'Europa erano un tempo le colonie[...]. privata dei suoi possessi imperiali, l'Europa è ormai una regione vitale senza hinterland, e ciò è fonte di problemi di natura sia psicologica che pratica [... ]. Il pensiero post-imperiale [... ] ha suggerito alcune soluzioni per giungere a nuovi legami con le ex-colonie. Una, squisitamente geopolitica, sarebbe la creazione di una «Eurafrica», una specie di panregione che potrebbe tornare a comune vantaggio dei due continenti implicati, uno dei quali è fortemente industrializzato e l'altro ricco di risorse naturali».49 Infine, per il G. bisogna considerare che le sole armi straniere non sono mai bastate contro l'Italia: «la via d'impadronirsene fu sempre spianata agli stranieri (debbo dirlo?) dagl'ltaliani». Ciò è avvenuto, perché i Prìncipi italiani non hanno mai posto a base del loro governo l'amore e la gratitudine dei sudditi, creando così un gran numero di malcontenti che speravano in una sorte migliore. D'altro canto non si può reagire a invasioni straniere con allanze temporanee e improvvise, che poi non reggono: le leghe offensive e difensive possono essere utili in certi casi: ma non bastano da sè sole a puntellare una fortuna pericolante, e sono sempre men valide e fruttuose delle leghe politiche e perpetue. Il che nasce dalla difficoltà con cui si fanno, dalla facilità con cui si rompono, dal poco zelo con cui se ne osservano i patti ....50
La conclusione del Tomo I del Primato richiama ancora una volta, con parole veementi e appassionate, i due motivi salienti dell'intera riflessione del G.: il riscatto nazionale e la necessità - derivante dall'ecumenismo e dal cosmopolitismo cattolico - di inserire l'Italia, resa militarmente forte sulla terra e sul mare, nel grande circuito della politica mondiale, anche al di là del Mediterraneo. In questo prevale il modello marittimo più di quello continentale, quindi lo sguardo del G. più che alla Francia o alla Germania, è rivolto all'Inghilterra: qual'è la nazione moderna che per efficacia di opere ed energia di spiriti non vinca l'Italia? Dio buono! Mentre a Borea v'ha un popo-
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Milano, Franco Angeli (5° Ed. 1992), pp. 148-149. V. Gioberti, Op. cit., Tomo I p. 143.
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lo di soli ventiquattro milioni d'uomini [cioè la Gran Bretagna N.d.a.] che domina i mari, fa tremare l'Europa, possiede l'India, vince la Cina e occupa le migliori spiagge portuose dell'Asia, dell'Africa, dell'America e dell'Oceania, che cosa di belJo e di grande facciamo noi italiani? Quali sono le nostre flotte, le nostre colonie? Che grado tengono, che influenza posseggono di autorità e di consiglio i nostri legati alle corti forestiere? Qual peso si aggiunge al nome italiano nella bilancia europea? Forse gli stranieri conoscono e visitano ancora la nostra penisola ad altro effetto, che per godere la bellezza inimitabile del suo cielo, e contemplare le sue ruine? Ma che parlo di gloria, di ricchezze e di potenza? L'Italia può ella dire di essere al mondo? può ella attribuirsi una vita propria e un'autonomia politica quando è in balia del primo insolente e ambizioso il calpestarla e metterla al giogo? Chi non freme pensando che, disuniti come ci troviamo, siam preda di chiunque ci assalta, e che quella misera ombra di indipendenza che si concede nei diplomi, e nei protocolli, è dovuta alla misericordia dei nostri vicini? E che ciò succede solo per nostra colpa, quando con un po' di valore e di vigore potremmo, senza scosse, senza rivoluzioni, senza ingiustizie essere ancora uno dei primi popoli dell'universo?51
La sua insistenza sulla necessità primordiale che l'Italia riacquisti una capacità militare terrestre e marittima, che come tutti i grandi Stati conquisti delle colonie, che si unisca sotto l'usbergo della Chiesa, potrebbe far ritenere il G. un conservatore autoritario e militarista, ma così non è: polemizza con il De Maistre rammaricandosi che «il lodatore del Papa sia pure l'apologista dei feudi, del dispotismo, deJla guerra, dei roghi e del carnefice», e aggiunge: «parlando della guerra, il Maistre non teme persino di giustificare e lodare ciò che chiama l' enthousiasme du camage [... ] Che mansuetudine cristiana!».52 E oltre a insistere, come si è visto, sulla necessità che i principi governino con il consenso dei popoli, afferma anche che «nessun pubblico consorzio è perfettamente ordinato, se non è unito, se non va esente dal giogo straniero, o non si trova abbastanza forte da non spaventarlo, e se, infine, non gode a compimento la libertà civile; la quale è la sola essenziale e desiderata da tutti, giacché la libertà politica viene appetita unicamente dalle nazioni che mancano dell'altra e disperano di ottenerla stando nei termini antichi».53 Come negli spiriti migliori del Risorgimento, per il G. libertà civili,
ivi, pp. 433-434. ivi, p. 466. Sl ivi, p. 430.
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unità, indipendenza nazionale e sua conquista e difesa con lo strumento militare sono un tutto uno e inscidibile. Mai come in questo periodo lo strumento militare ha avuto una legittimazione cosl profonda e sentita negli spiriti migliori, in quanto non espressione di rapina, di conquista, di oppressione o dell'ambizione e della sete di gloria di pochi, ma, al contrario, mezzo inevitabile e - nelle condizioni del momento - non sostituibile per impedire che l'Italia sia vittima della prepotenza, dell'avventurismo e dei soprusi altrui. Le divergenze, anche profonde, riguardano dunque solamente il modo di essere - in pace e in guerra - dello strumento, non la sua funzione: né la partecipazione popolare - anche dal G. ritenuta indispensabile - sfocia obbligatoriamente nel volontarismo tumultuario o nella «guerra per bande», perché vi è anche il modo di riempire, rafforzare più o meno gradualmente l'intelaiatura degli eserciti per· manenti. Un altro aspetto che indire~ente affiora dalla visione tipica del G., che pure è uomo di Chiesa, è la marginalità del problema della pace. Al momento, la pace equivale alla conservazione dello assetto sancito dal Congresso di Vienna, quindi delle condizioni di servaggio dell'Italia: per questo il G. addirittura spera - e non è il solo - in una grande guerra europea. Su queste tematiche di carattere generale, si può solo condividere l'impostazione del G.: le cose cambiano, invece, quando si scende più nei dettagli. Anzitutto non c'è traccia, nell'Italia del G., del Lombardo-Veneto e dell'Austria: che unione di principi italiani è quella che ha sul fianco una spina del genere e non si pone il problema fondamentale di come levarla o integrarla? E dopo aver tanto parlato delle naturali differenze tra le popolazioni - e quindi tra gli Stati - dell'Italia, e aver notato che in buona sostanza solo il Piemonte è uno Stato ordinato e militare, egli progetta una Lega dove differenze, gelosie, diffidenze, debolezze, contrasti dovrebbero sparire all'improvviso. Una Lega con sei o sette eserciti, che come per incanto - dopo secoli di divisioni e guerre intestine - darebbe vita a un solo esercito unito e forte, nonostante lo scarso spirito militare degli italiani e l'ordinamento politico federale che non lo favorisce. Una Lega in evidente funzione antiaustriaca, che però non dovrebbe allarmare l'Austria, né indurla ad ostacolarla o intervenire con l'esercito che mantiene in Italia con le armi al piede - come ha fatto tante volte - ma addirittura intimorirla. Una Lega che, in pratica, chiederebbe ad un Papa guerriero, di fare guerra alla cattolica Austria. E che aspetterebbe la guerra europea, in tal modo diventando oggettiva alleata delle potenze nemiche del1a Austria, le quali - secondo quanto teme lo stesso G. - non mancherebbero di strumentalizzare gli obiettivi della causa italiana ren-
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derla succube, imporle delle condizioni. Che direbbero, infatti, la Francia e l'Inghilterra, grandi potenze militari e marittime che da secoli hanno una politica nazionale, mediterranea e coloniale, delle aspirazioni egemoniche dell'Italia sul Mediterraneo e delle sue mire coloniali, vagheggiate dal G.? Domanda che egli non si pone. Questi limiti, venuti allo scoperto a brevissima scadenza del 1848 in poi, risultano ancor più evidenti a distanza di tanti anni, ma essi non intaccano la validità - e in certo senso anche l'attualità e la freschezza dell'opera del G .. Con il suo vasto impianto e il tentativo non di rado riuscito di superare antiche e neppure oggi scomparse dicotomie tra Stato e Chiesa, politica e morale, cosmopolitismo e nazionalità, spirito religioso e spirito laico, quest'utirna assume la veste di un'esercitazione, un invito alla riflessione, un utile tentativo capace di far toccare con mano il rapporto geopolitico tra Italia, Europa e Mediterraneo. Al tempo stesso, essa fa emergere le difficoltà, i complessi accidenti, gli ostacoli di vario ordine disseminati sul percorso verso la unità, la concordia e quindi l'indipendenza nazionale, cosa persino oggi complessa e non scontata e allora ancor di più. Non si può chiedere al G. di diffondersi in particolari strategie, in dettagli ordinativi e tecnici: ma i contenuti del Primato come tali, danno al loro autore pieno diritto di avere un giusto rilievo nella storia del pensiero militare italiano. Anche se più che un progetto militare o strategico compiuto, egli mette a nudo dei problemi e formuli delle speranze e degli auspici per risolverli, almeno qualche riga del Pieri - che invece ignora il Gioberti scrittore militare - l'avrebbe meritata.
SEZIONE II - Cesare Balbo e i concreti aspetti strategici e ordinativi deUa conquista dell'indipendenza nazionale Le opere di interesse militare: loro collocazione
Nobile piemontese, liberale moderato di tendenze neo-guelfe peraltro meno nette di quelle del Gioberti, ufficiale di Stato Maggiore e cultore in gioventù di studi matematici, Cesare Balbo può essere definito scrittore militare autenticamente italiano e tra i più completi della Restaurazione, il primo a definire in termini concreti, coerenti e sufficientemente organici le implicazioni militari del problema dell'indipendenza nazionale: ciononostante non ha finora ricevuto alcuna attenzione. È ancor vero oggi quanto ha osservato nel 1979 il suo più attento e recente biografo, il Passerin d'Entrèves, constatando nel Dizionario Biografico degli Italiani che «manca uno studio delle sue teorie in campo militare»
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e rimandando sic et simpliciter, come se si trattasse di cosa di poco conto, alla riedizione degli Scritti Militari curati da Eugenio Passamonti. 54 Il d'Ayala e lo Sticca ne citano le opere senza alcuna valutazione critica; e su questo come su altri autori italiani della Restaurazione, nessun assegnamento si può fare sull'opera del Bastico, il quale passa da qualche accenno al pur importante commento di Ugo Foscolo all'opera del Montecuccoli, al pensiero del Blanch e direttamente al De Cristoforis, con un'analisi di sole dieci pagine che calza gli stivali delle sette leghe. 55 L'unico a dedicare un minimo di attenzione al B. è il Pieri, che tuttavia lo cita soprattutto a proposito dei due sistemi di reclutamento allora da tempo prevalenti in Europa (quello francese e quello prussiano), attribuendogli - con un giudizio non esatto, sul quale ritorneremo - una concezione della guerra popolare «imperniata assai più sull'insurrezione cittadina e sulla strenua difesa delle città murate (come gli Spagnoli a Saragozza, a Gerona e simili) che sulla guerra di bande». 56 Dal canto suo, Benedetto Croce non dà grande importanza al B. storico e non dedica alcuna attenzione al B. scrittore militare. Il riferimento di gran lunga prevalente delle riflessioni militari del B. è la vittoriosa guerra nazionale di Spagna 1808-1813 contro le truppe napoleoniche, che egli ha tempo e modo di studiare con metodo e sul posto, consultando anche 1a documentazione inglese disponibile. Nel 1917-1818 si dedica agli Studi sulla guerra d'indipendenza di Spagna e Portogallo scritti da un ujjiziale italiano, nei quali, sullo sfondo dell'implacabile e concorde lotta condotta dal popolo spagnolo contro l'invasore, nitidamente si intravedono i lineamenti di un possibile «modello di riferimento», soprattutto spirituale, per mobilitare gli Italiani contro l'Austria. Ma a distanza di tre anni da Waterloo i tempi non sono ancora maturi: non può perciò stupire che il libro venga pubblicato solo nel 1847,57 quando B. occupa in Piemonte una posizione di grande rilievo politico e ormai la guerra contro l'Austria è alle porte. Egli può corredare il testo del libro da note - scritte nel 1846 - che lo completano e aggiornano ma non ne stravolgono il significato e le tesi di fondo, contribuendo anzi a chiarirne meglio i contenuti fino a fame una sorta di breviario per la guerra poi combattuta nel 1848-1849. Ci riferiremo in prevalenza a questo lavoro, integralmente riportato nei citati Scritti militari del Passamonti. Non è necessario, né opportuno, distin-
54
Roma, Ed. Roma 1936.
ss E. Bastico, Op. cit, Voi. II pp. 165-175. 56 P. Pieri, Guerra e politica... (Cit), pp. 185-186; Id. Storia militare del Risorgimento... (Cit.), pp. 153-154. 57 Torino, Stamperia Sociale degli Artisti Tipografi 1847.
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guere tra le note del 1846 e il testo del I 818, oppure tra le varie opere del B., che costituiscono un unicum da non frammentare con criteri cronologici. Gli studi sulla guerra spagnola non esauriscono il pensiero militare del B., e vanno opportunamente integrati con parecchie pagine - non riportate dal Passamonti- delle Speranze e tiItalia (1844)58 e delle Lettere di politica e letteratura edite e inedite ( 1855).59 Due opere non da trascurare, se non altro perché contengono considerazioni e analisi - in parte ancora attuali - di carattere geopolitico e geostrategico sull'Europa, l'Oriente e il Mediterraneo, contribuendo in tal modo a inquadrare il problema politico-militare dell'indipendenza italiana nel contesto della politica estera e militare delle principali potenz.e europee, a cominciare dalla Francia e dall'Inghilterra. Tra le opere militari del B. il d'Ayala nella sua Bibliografia militare italiana del 185460 cita anche La gue"a difensiva della nazionalità italiana (pubblicata a Firenze nel 1827 quale estratto del giornale La Patria) e il Panorama militare delle Alpi piemontesi visto da Superga (1851).61 Forse ritenendole- a torto - non di stretto interesse militare, il d'Ayala non cita le Speranze d'Italia, delle quali invece lo Sticca non si dimentica.62 B. non è un teorico, e nemmeno uno storico militare vero e proprio: i suoi scritti militari hanno finalità pratiche e didascaliche, sono rivolti agli ufficiali e ai giovani, sono incentrati sulla azione, sul da farsi, cercano di farsi carico del possibile e non dell'ideale astratto, non dimostrano alcun reale interesse per la teoria pura. Guardano al presente, più che al passato: al passato si richiamano, solo per avvalorare tesi del presente, per sostenere la necessità di un riscatto morale, quindi anche militare degli italiani. Per questo il B. cerca l'ispirazione, la ragione del riscatto non nell'antichità classica, in una guerra italiana o in glorie militari passate, ma in una guerra straniera del presente.
L'opuscolo sulla gue"a difensiva nella penisola ( 1827) È bene richiamare anzitutto i contenuti del breve opuscolo su La guerra difensiva della nazionalità italiana (1827),63 interessante perché
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C. Balbo, Le Speranze d'Italia (con appendici), Capolago 1844. C. Balbo, Lettere di politica e letteratura edite e inedite, Firenze, Le Monnier
1855. M. d'Ayala, Bibliografia ... (Cit.), p. 233. Torino, Ferrero e Franco l 851. 62 G. Sticca, Op. cit., p. 186. 63 La guerra difensiva della nazionalità italiana - note di C. B. (suppi. al n. 27 della Pallade (La Patria), Firenre 1827. <,()
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- al di là dell'exemplum spagnolo - precocemente rivela tutte le matrici del pensiero del B., dominato dalle peculiarità prima di tutto geografiche del caso italiano dove - come in Spagna - vi sono numerose città e regioni impervie, ma manca un forte esercito capace di affrontare in campo aperto con ragionevoli prospettive di successo le prestigiose formazioni dell'armeé, nella fattispecie rappresentata da un saldo esercito con consolidate tradizioni di valore come quello austriaco. Si può subito constatare che non appartiene certo alla sterminata schiera dei laudatori e ammiratori incondizionati di Napoleone e degli imitatori della sua stralegia chi , come il B., esalta la guerra difensiva e la strategia di Wellington scrivendo, in questa occasione: la guerra offensiva era quasi sola in onore, in quell'età (napoleonica) di conquiste; la difensiva, quantunque magnificamente concepita e fatta, pareva quasi qualità secondaria dell'arte. All'incontro ora, in un'età dove le conquiste e le invasioni sono, felicemente e a ragione, cadute in discredito, anzi in detestazione universale; ora che si pregiano sopra ogni cosa la nazionalità e l'indipendenza, quella qualità della guerra che le serba o le acquista o le sancisce, la guerra difensiva, è divenuta primaria senza contrasto. E se sieno nazioni, le quali abbiano a prevedere qualche siffatta guerra; se il migliore, o forse il solo modo di evitarla, sia l'apparecchiarla, certo uno de' principali apparecchi dev'essere lo studio del terreno dov'ella savrà ad adempiere. E a ciò può giovare il grand'esempio di Wellington in Portogallo; esempio della più bella campagna difensiva che fosse stata mai, esempio del resto che, come tutti gli altri, non sarà mai da copiar servilmente, ma da imitare alacremente, e, se si possa, superare. Ma studi ogni altra nazione il terreno suo; studiamo noi il nostro. Se non ci fosse bisognerebbe dire, che non abbiamo principio né d'indipendenza, né di milizia. Ogni milizia ha diritto e dovere di studiare il proprio terreno.
Ciò premesso, il B. prende in esame una ipotetica guerra che l'Italia potrebbe condurre contro gli eserciti dei tre Stati confinanti (Svizzera, Francia e Austria). G1i svizzeri non sono più quelli del XVI secolo; l'esercito francese scenderebbe in Italia «solo per una di quelle soperchierie, più diplomatiche che militari, le quali si celano sotto il nome d'intervenzioni». Rimane da temere veramente solo un'invasione da parte dell'Austria, il cui esercito è peraltro già insediato in Italia, non deve nemmeno passare le Alpi ma ha già in suo possesso i passaggi di Ferrara, Piacenza e Comacchio. La possibile offensiva austriaca verso ovest (Ticino) è già stata studiata a lungo; rimane però da esaminare l'ipotesi di un'offensiva dell'esercito austriaco verso sud, varcando il Po. In questo
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caso, la difesa è facile e l'invasione è difficile, tenendo tuttavia presente che ci si potrà difendere con successo «solo col concorso delle intiere popolazioni, e così della dissuasione e persuasione pubblica». L'esame delle condizioni strategiche nelle quali avverrebbe un intervento militare austriaco nel sud della penisola poggia su due presupposti. Il primo è che in nessun caso l'Austria potrà impiegare in questa campagna tutte le sue forze riunite, ma dovrà lasciarne una consistente aliquota fuori d'Italia, per controllare le popolazioni, e inoltre guardarsi le spalle ne111talia del nord con due eserciti, uno per guarnire il confine con il Piemonte a ovest e l'altro per tenere sotto controllo le popolazioni lombarde. Il secondo presupposto è che gli abitanti del Centro-Sud dell'Italia in qualunque modo, con qualsiasi ordinamento, pur sicno realmente, seriamente risoluti a combattere; chè senza ciò non v'è tattica, non strategica, non arte di guerra, che regga, che non sia risibile a discorrerne. lo non so d'altrui; ma quando io lessi nel Colletta tante dissertazioni strategiche su quelle difese del 1799, del J 815 e I 821, dove non fu un esercito, non una divisione, non un corpo grosso che si difendesse realmente, quel dissertare mi parve una derisione.
AHa base della ricerca delle modalità per una difesa redditizia della penisola, vi è la constatazione che, in passato, se i nostri maggiori, se i contemporanei dell'ultime invasioni non le seppero impedire; non sia pur colpa loro, sia dei tempi, sia della fortuna, sia della corruzione, sia di qualunque altra cosa; ma certo non fu, non poté essere de' luoghi, che sono anzi i più meravigliosamente disposti a difesa, fra quanti ne porge l'intero globo.
Il solo problema da risolvere consiste quindi nella scelta del migliore modo di sfruttare questo vantaggio naturale, «secondo i varii gradi degli apparecchi nazionali, cioè degli armamenti fatti»: cosa abbastanza facile - aggiunge B. - «a veri combattenti». Anche se l'esercito italiano fosse sconfitto in campo aperto, rimarrebbero le numerose città disseminate sul cammino che l'esercito austriaco dovrebbe obbligatoriamente percorrere procedendo verso sud. La resistenza di una sola di esse avrebbe un grande significato morale: nelle guerre contro Napoleone «la Spagna dovette la sua salvezza alle rovine di Saragozza; la Russia dovette la sua a quelle di Mosca». Le campagne, le città e l'esercito regolare costituiscono quindi sull'esempio spagnolo - i tre fattori sui quali deve impennarsi una di fesa
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vittoriosa. E qui B. anticipa e sintetizza, in poche parole, l'equilibrata visione strategica che - sia pur con qualche contraddizione - è alla base di tutta la sua opera letteraria e politico-militare, anche dopo il 1827: immaginare (come temo si faccia da taluni) una vera, efficace, compiuta difesa, senza esercito, e con sole guardie civiche e gueriglie, questo mi parrebbe fra' pregiudizi, il più pericoloso, il più certamente dannoso. Ai pregiudizi letterari, o anche civili, o politici, v'è rimedio per lo più; le lettere, la politica, la diplomazia e la civiltà hanno gran pazienza; esse anno tempo alle correzioni. Ma la guerra non ha gran pazienza, non tolleranza; non dà tempo ai rimedi, se non per gli errori piccoli, e fa irrimediabile i grossi, onde si rovinano poi e si disperdono le più virtuose intenzioni, le più liete speranze, i migliori apparecchi. Il fatto sta che, come sarebbe grande errore l'apparecchiare solamente un esercito difensivo, senza l'aiuto delle città e delle campagne; così sarebbe error peggiore non apparecchiare che queste difese, senza l'esercito. Questo non può far ciò che varranno a far quelle, ma quelle possono ancor meno far ciò che solo può far questo. Qual'è più necessario di tali apparecchi? Nessuno dei tre. Sono necessari i tre egualmente; l'esercito a far la guerra vera; la città e le campagne a prolungarla, rinnovarla, sancirla e santificarla come cosa patria; le campagne ad aiutarla con inquietare, tagliare, affermare, e diminuire a poco a poco l'invasore. Spagna non fece la sua bella indipendenza se non adoperando i tre mezzi; ebbe Saragozza, e guerriglie; e molti eserciti sconfitti dapprima, vincitori all'ultimo; sotto a quel Wellington, che per quanto gran capitano fosse dinatura sua, non sarebbe diventato tale mai in realtà, senza i tre apparecchi, i tre sacrifizii spagnoli.
Così il B. pensa nel 1827; e non smentisce mai, nelle Speranze d'Italia del 1843 e nelle note alla sua opera pubblicata nel 1847, gli orientamenti che esprime in questa occasione. Fin d'ora, perciò, si deve constatare che il Pieri affermando che egli preferisce l'insurrezione e la difesa delle città, dimostra di avere una visione frammentaria e inesatta dei suoi scritti: in realtà, le città sono solo una delle tre pedine della guerra difensiva da lui privilegiata. E se non si ispira a Napoleone ma a Wellington, prendendo come modello una guerra nazionale dove l'esercito di Napoleone è stato sconfitto, allora non può certo essere definito clausewitziano. È perciò fuori strada anche Eugenio Passamonti, che nell'introduzione ai suoi scritti militari scrive che «anche al conoscitore superficiale della disciplina militare [perché «disciplina»? qui ha forse il senso di «branca», «materia» - N.d.a.] appare evidente che egli ha tenuto di
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fronte a sè, nena composizione del suo libro, due classici d'indiscutibile valore, il Clausewitz e Napoleone; e che dal Corso più che dal prussiano ha tratto le proprie concezioni».
Il modello strategico della guerra di Spagna I 808 - 1813 e delle guerre inglesi contro Napoleone: riflessi teorici e ammaestramenti specifici per il caso italiano
L'esame degli Studi sulla guerra d'indipendenza di Spagna e Purto·gallo (d'ora in poi Studi), che condurremo contestualmente alle Speranze d'Italia e alle lettere di B., dimostra con_ancor maggiore dovizia di particolari che il Passamonti incorre in un triplice errore: a) perché Ja fonte d'ispirazione di B. è ancora e sempre Wellington e la sua guerra difensiva-controffensiva con l'aiuto della popolazione, non Napoleone che - oltre a usare sempre e solo gli eserciti regolari - Ja popolazione dei paesi invasi l'ha sempre avuta contro (non solo in Spagna, ma anche in Germania, in Russia, e sporadicamente persino in Italia); b) perché Clausewitz è stato (vds. capitolo lll) il più autentico interprete di Napoleone, quindi tra la visione teorica di Clausewitz e il modello napoleonico non v'è alcun contrasto; c) perché B., pur dando la dovuta importanza ai fattori morali e spirituali, è lutto meno che uno spiritualista puro come Clausewitz; quest'ultimo sicuramente non è da lui conosciuto, mentre nella sua opera si trovano i consueti riferimenti diretti ai due principali avversari di Clausewitz, Jomini e l'Arciduca Carlo. B. si ispira alle ger' 1j Napoleone, ma più in negativo che in positisuoi esegeti, oltre che sul tipo di guerra da convo. E diverge da lui durre su un'altra qm. .>ne essenziale: la validità di principi e regole nell'arte rrùlitare. Napoleone più volte indica in Cesare, Alessandro ecc. gli interpreti maggiori dei principì e delle regole naturali, immutabili e immanenti deIJ'arte, che sono ancora pienamente validi. B., invece ritiene come lo Zambelli - che «ancor meno nell'arte militare che nella politica, non possono adattarsi ai tempi nuovi gli esempi antichi. Perrocché niuna arte, per niuna invenzione nuova, ebbe tanto a cambiar mai come la militare per l'invenzione della polvere». A suo giudizio, solo con Federico II la tattica ha preso completamente atto delle nuove esigenze connesse con l'impiego delle armi da fuoco, mentre la Rivoluzione Francese (e Napoleone) non hanno fatto che «volgarizzare» i principi e le ordinanze di Federico. Di conseguenza si vede che, esclusi primamente dagli studi militari i libri di tutti i tempi che su sistemi di teorica s'aggirano, in quelli poi, che parlano
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delle pratiche, si girano, vuol attendere con somma cura alle differenze de' tempi; e non prendere dagli antichi molto più, che i modi arditi e pronti di condurre la guerra; nulla se non gli esempi d'individuai valore dai tempi bassi, ove si combatteva con la cavalleria; poco più da quelli che seguirono l'invenzione della polvere; e via via - dalla metà del secolo XVI in qua - più come progressi che come esempi dell'arte, il nascere e sistemarsi le fortificazioni nuove, il perfezionarsi e moltiplicarsi le armi da fuoco e d'assalto, l'assottigliarsi gli ordini e l'agevolarsi le loro mutazioni. Né, veramente, tante distinzioni e tanti studi sono necessari a farsi da un capitano: al quale, se capitano vero egli sia, l'occasione suggerita più che non i precetti od anco gli esempi.64
L'ultima frase, è vero, ha sapore clausewitziano: ma in tutto il periodo, nell'intonazione del testo, non c'è nessuna traccia del peso dell'exemplum historicum che Napoleone richiama nei suoi scritti, e che grava sulle teorie non solo di Jomini, ma anche di Clausewitz; molte tracce vi sono, invece, del peso del progresso dei materiali e delle armi sui paralleli mutamenti de11'arte della guerra. Non basta: B. - la politica non c'entra - è sostanziamente e apertamente antinapoleonico (e quindi anticlausewitziano) anche quando negli Studi loda l'opera in dodici volumi dell'inglese Gurwood sulle gesta di Wellington, nelle quali intravede un vero modello generale per le guerre del futuro: i Francesi stessi, ingiusti quasi tutti verso di lui, riconobbero l'importanza di tal pubblicazione; ed arrivarono a dire molto bene, che lo studio delle guerre del duca di Wellington è forse più necessario che non quello delle napoleoniche, per le guerre avvenire; perché queste saranno, secondo ogni probabilità, più somiglianti alle prime che non alle seconde, si faranno da qualsiasi capitano futuro più sotto l'autorità d'un Principe o d'un parlamento, che non colla suprema potenza d'un Napoleone, più coi magazzini e condotte di viveri che col principio di nutrir la guerra colla guerra, più insomma co' riguardi della civiltà presente e futura, che colla illimitata, retrograda e quasi barbarica violenza degli eserciti francesi repubblicani ed imperiali.65
Riepilogando, nell'analisi che B. compie nel 1818 e rivisita nel 1847 confluisce una serie di istanze, che possiamo così riassumere: a) il sostanziale antistoricismo militare, eh~ gli fa trascurare - diversamente dal
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C. B., Scritti militari, p. 29. ivi, p. 31.
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Foscolo, dal Grassi e da tanti altri - l'antichità classica, per volgersi a esperienze e ammaestramenti di guerre e fatti solo recenti; b) l'istanza nazionale, latente e un po' velata nel 1818 ma già salda, come si è visto, nel 1827 e aperta e veemente nel 1847; c) il peso e il ruolo non eludibile degli eserciti regolari, delle artiglierie e fortezze, della tecnica militare e dell'organizzazione, con le quali si riesce a supplire anche a carenze individuali: d) il rapporto tra economia e guerra; e) il venir meno, di fronte alle istanze nazionali e a realistiche esigenze tecnico-militari, di qualsivoglia istanza interna, ivi compresa quella delle libertà. Prima di quest'ultima deve venire l'indipendenza dallo straniero, e di fronte alla causa dell'indipendenza nazionale devono tacere tutti gli interessi settoriali e le aspirazioni di parte, anche quelli dei principi e della casta militare. A fronte di questi topoi poco o nessun risalto assumono gli aspetti teorici e epistemologici relativi all'arte della guerra, alla sua ripartizione ecc., che invece in Jomini e Clausewitz e tanti altri autori sono preminenti: la sua ottica è eminentemente pratica e didattica, t! rivolta «agli ufficiali italiani». Sul piano generale, della guerra egli si limita a indicare - oltre che la necessità morale - l'utilità economica: «l'Inghilterra accrebbe, più che mai non avesse fatto, l'industria, il commercio, l'agricoltura e la popolazione, in quella lunga, ostinata, e fino all'ultimo dubbiosa guerra contro la Francia[...]. Ed io vidi Francia lussureggiante nel 1814, dopo venti e più anni di guerra ed una gran'invasione; e vidi Francia rovinata e avvilita dopo la soggezione del 1815». Anche le guerre condotte da tutto un popolo contro un invasore sono meno funeste di quanto possa sembrare: «io vidi Spagna men rovinata dopo sette anni di guerre, di sacchi e di aldronecci, che non fossero Italia e Germania dopo alcuni anni di dominazione estera, e forse che non fosse alla stessa prima della guerra [... ]. 66 Solo le guerre fatte con armi straniere rovinano gli Stati, specialmente se lunghe: perché, oltre a tutto ciò che gi_à si soffre nelle invasioni, «si dà a poco a poco, ognid), per lusso e soverchio del vincitore, il necessario e il pane delle mogli e de' figli, e talora questi ancora si danno, dopo il pane». Le guerre giuste sono anche le più utili; quindi ne11e guerre dove è in gioco la libertà dallo straniero chi non prende le armi per sentimento o per dovere, le deve prendere per puro interesse materiale: «una cosa sola, a dire il vero, non si può risparmiare mai combattendo, la vita dei cittadini. Dunque non si combatte per cose da poco, o vanità che non la valgano: ma la metà di tutto un popolo non sarebbe troppo a sacrificare, per salvare la vita e l'onore ai rimanenti, la libertà e il nome della patria». Nel 1846 B. aggiunge a queste parole «qui non
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concordiamo compiutamente col giovane scrittore». La guerra che immagina in quel momento non è certo la guerra totale e di popolo sul modello spagnolo, tale da coinvolgere pesantemente tutti i cittadini: ma a prescindere dalle loro forme rimane il nocciolo fondamentale, cioè le giuste ragioni e l'utilità delle guerre che tutelino l'indipendenza e la dignità nazionale. Sulla natura e sulle modalità di condotta della guerra, B. fa due considerazioni importanti. La prima, di sapore clausewitziano (ma deriva da Clausewitz o è frutto di un'elaborazione autonoma?) rifiuta ogni schematismo, perché «le dottrine, che sulle cose umane s'aggirano, non possono se non per esperienza procedere; perché le combinazioni di queste son tante, che chi le vuol tutte indovinare e per tutte dar regole, vi perde sè e altrui [ ...] quelli che discendendo dai principi generali han voluto a tutti i casi particolari con sistemi provvedere, quasi tutti son caduti in errori, che hanno poi screditati i loro buoni precetti». 67 La seconda deriva dall'accorto utilizzo che in Spagna Wellington ha fatto del concorso della flotta, ed è tale da indicare in quella di B. la prima voce che si leva sulla necessità di superare le rivalità tra Armi e forze armate: «E veramente, siccome sorelle si chiamano le arti belle, pittura, scultura e architettura; così sorelle vorrei che si chiamassero anche le fonti, tattica e strategica, artiglieria,- ingegneria e marineria, e le rivalità ed emulazioni si riducessero». B. è però lungi dal trarre tutte le conseguenze da queste promettenti premesse teoriche. Si limita a constatare che la cosa più importante in guerra, è dividere (per marciare) o riunire (per combattere) le forze a seconda della situazione e delle occasioni: perciò la strategia è «arte delle mosse di tutta la guerra», e la tattica è «arte delle mosse d'una battaglia». Defunizioni teoriche assai generiche, che tuttavia sono le uniche che si ritrovano (anche se bastano a distaccarlo almeno un poco dalla visione assai più schematica di Jomini). Diversamente da Jomini, B. pensa che, per ragioni essenzialmente geografiche («gli accidenti e le comunicazioni di tutto un paese sono più difficili a conoscere, a comprendere e a superare che quelle d'un campo») la strategia è assai più difficile e importante della tattica. E siccome all'inizio delle guerre il problema strategico essenziale consiste nel tenere nascosti i propri disegni al nemico, costringendolo invece a svelare i suoi, e regolandosi di conseguenza, B. ritiene «vani» i piani di guerra, e in campo tattico ritiene assai difficili i
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ivi, pp. 120-121. ivi, p. 27.
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movimenti aggiranti e l'ordine obliquo caro a Federico, preferendo l'attacco frontale alimentato dalle riserve. Per Jomini la strategia si riassumeva sostanzialmente nel piano di guerra, al quale anche Clausewitz attribuiva grande importanza; B. più o meno inconsciamente si distacca da ambedue questi autori classici, e ancor più dal concetto geometrico della guerra che ha l'Arciduca Carlo; non si capisce bene, di conseguenza, la ragione degli elogi eccessivi che egli tributa a quest'ultimo. In quanto a Jomini, egli esalta il suo ben noto principio-base di combattere le poche forze con le molte, accorgimento la cui importanza, del resto attinente al comune buon senso, non viene negata neppure dallo stesso Clausewitz, sia pure senza farne una ricetta. Ma dissente apertamente da lui solo una volta, a proposito del «modello» di comandante da preferire: come Clausewitz, B. preferisce il buon comandante sul campo, mentre Jomini dovendo scegliere tra un buon generale a tavolino e un buon comandante sul campo preferisce il primo.68 In definitiva. B. pensa che «le scienze di governo e di guerra hanno pochi principii, e ognuno quasi direttamente derivante dalla natura. La pratica poi di queste scienze, come quella de' giochi, è mista di principt e di casi: onde ne son maestri quelli soli, che intendono i principii generali, ma non apparecchiano le applicazioni, e le trovano e adattano all'occorrenza».69 Come mai, allora, mostra di non accorgersi che i contenuti globali delle opere di Jomini, e ancor più di quelle dell'Arciduca Carlo, vanno in direzione totalmente opposta? Anzi: nell'insistenza di Jomini sui principi generali indipendenti dei tempi egli non vede qualcosa in marcato contrasto con il suo approccio antistoricista. ma, al contrario, la dimostrazione che «la scienza militare non doversi assomigliare alle esatte». Secondo B. i principi della strategia sono applicati meglio da condottieri giovani. Non necessariamente, per diventare buoni Capi militari, bisogna aver compiuto severi studi militari o avere lunga esperienza militare: la nuova guerra moderna richiede nuovi Capi. Ne deriva una preveggente attenzione per l'economia e l'industria, rara a quei tempi: se l'industria aiuta la guerra, la guerra aiuta la industria. L'esempio è ancora una volta l'Inghilterra, che nel1e guerre napoleoniche avvalendosi della flotta rifornisce ovunque con materiali e merci inglesi gli eserciti, siano essi inglesi che spagnoli o portoghesi, e in tal modo sviluppa la propria economia:
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ivi, p. 72. ivi, p. 35.
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la grande industria poi, che è in quel regno, fa sl che tutte le mercanzie fabbricate da essi all'ingrosso costino meno assai, che in ogni altro Paese; e ancora, che provando e facendo, si trovino là molte nuove invenzioni, come furono quelle dei razzi alla Congréve ed altri miglioramenti dell'artiglieria; onde si vede che l'industria aiuta la guerra.70
La guerra è un fatto economico e industriale: «in niun tempo passato non furono, in niuno avvenire non saranno, se non due strumenti a vincere davvero le grandi imprese nazionali : uomini e denari: i due grandi, ma indispensabili sacrifici». Ne consegue anche che «una riserva d'armi è più necessaria che una riserva d'eserciti, e ha molta importanza, per vincere una guerra, la preparazione del tempo di pace». Gli spagnoli non avevano fortezze né eserciti né artiglierie, però avevano ciascuno il suo schioppo; se dopo aver perduto o logorato quel primo schioppo hanno potuto costituire nuovi eserciti, è stato perché l'Inghilterra ha loro fornito le armi: «senza schioppi non si fa guerra, nemmeno tumultuaria ormai; onde gli Stati grandi e piccoli ritornino all'usanza antica, d'averne in serbo nei luoghi sicuri, quanti più possano; e lo facevano tanto più i piccoJi, per aver questa dipendenza da meno de' grandi». Molto importanti sono anche le buone artiglierie, se impiegate a massa. Ne hanno fatto grande e buon uso Napoleone, quando ha avuto poche o cattive truppe, e i cattivi generali, che non sanno accrescere la forza delle loro truppe con le buone combinazioni. B. cita nuove invenzioni (i razzi alla Congrève, usati dalle navi inglesi nell'assedio di Copenhagen del 1807; i cannoni con granate tipo Paixhans). Anche in questo caso, egli commenta, «trattandosi d'armi, che abbiano variato di forma o di forza, conviene scostarsi da' migliori autori antichi».71 Le robuste accentuazioni dell'importanza del materiale sono accompagnate dal riconoscimento del peso - tanto più sentito per gli italiani dei fattori morali e spirituali: dal punto di vista militare, «la virtù d'una causa contò sempre molto, ed ora conta forse tutto; e se non su un campo di battaglia, certo su un campo di guerra, fa all'ultimo valere per dieci ogni defensor della causa virtuosa». Ma il punto, e la difficoltà, stanno proprio nella necessità di «unire in campo quelle poche centinaia, migliaia di combattenti, unire alla impresa la nazione intera». 72 Procede da quest'ultime convinzioni ben salde - e in lui presenti fin
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ivi, p. 122. ivi, p. 104. 72 C. B.. Le speranze d'Italia... (Cit.). pp. 74-75. 71
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dal 1817-1818 - la centralità del modello spirituale spagnolo, accompagnato dal modello strategico difensivo - controffensivo inglese. L'uno completa l'altro; errato sarebbe parlare solo di uno dei due. Rispetto ad essi, i richiami teorici a Jomini e all'Arciduca Carlo sono qualcosa di avulso dal contesto, di non ben assimilato, che almeno indirettamente viene anzi respinto. Lo dimostra il fatto che, in nome di quell'approccio tipicamente nazionale e pratico alle questioni strategiche che è il motivo ispiratore degli Studi sulla guerra d'indipendenza, egli critica duramente l'ottica troppo centro-europea della scuola francese al momento dominante, la quale tende a trascurare e sottovalutare ciò che è avvenuto dal 1808 al 1813 al di là dei Pirenei. E poiché nessun scrittore imparziale [incominciando da Jomini, l'Arciduca Carlo e Clausewitz - N.d.a.] ha trattato la guerra di Spagna paragonandolo con le altre del tempo, «ho pensato che, chi avesse vaghezza di discorrer di cose militari, n'avrebbe più nuove ad annotare, studiando questa gue1Ta, che 11011 11iun'altra».73 Nel 1847 egli rafforza ancora questa affermazione: «fra le grandi guerre di quei 24 anni ( 1792-1815) che sono come l'età eroica della milizia moderna, niuna per certo merita gli studi de' giovani militari italiani , come quella dell'indipendenza spagnola». Egli perciò persiste nel suggerire un «modello» alternativo e un esempio dove un grande esercito, la cui mobilità e superiorità in campo aperto era indiscussa, è fiaccato più che altro dall'aiuto straniero proveniente dal mare e dalla concorde unione di tutto un popolo. Con questa idea fissa, B. pecca di ottimismo; certo, sarebbe stato oggettivamente difficile veder ripetersi Jena e Austerlitz, né il terreno si prestava alle manovre su grandi spazi tipiche delle guerre centro-europee gravitanti sull'asse Parigi-Berlino. Ma vedere nelle città italiane altrettante Saragozze, e nei contadini italiani la base della guerrilla, era irrealistico: era appunto una speranza, e nulla più. Lo stesso B. non si nasconde i limiti della prima stesura degli Studi, ai quali le «Note» migliorative e attualizzanti del 1847 e le stesse Speranze d'Italia rimediano solo in minima parte. Manca - egli dice - il paragone tra la guerra d'indipendenza spagnola, quella americana di fine secolo XVIII, quella tirolese del 1809 e quella di tutta la Germania nel 1813. Non è stato dedicato un capitolo specifico alla guerriglia, a causa della mancanza di conoscenze e di pratica - mai colmate - del «giovane Autore». Deficienza più grave di tutte, non vi sono trattate «le relazioni
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C. B., Scritti militari... (r.it.), p. 30.
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che furono continue, tra le due imprese di indipendenza e libertà, contemporaneamente fatte dagli Spagnoli tra gli anni 1808 e 1814».74 Di conseguenza, ciò che il giovane Balbo vede e studia nel 1818, è soprattutto la guerra tra eserciti. Più che considerare gli aspetti meramente tecnici e le ricadute (o gli inconvenienti) politico-sociali della guerriglia, Balbo vede nel valore che dimostra il popolo spagnolo un esempio di carattere, di impegno concorde a favore dell'indipendenza nazionale e di amor patrio se non addirittura di salutare nazionalismo, perché il disprezzo e l'odio per lo straniero ha sempre contraddistinto le nazioni dove è alto l'amor di patria. E l'esempio della Spagna e della Russia (che pur rette da regimi dispotici e corrotti - anche se nazionali - hanno combattuto con indomito valore contro le truppe francesi portatrici di valori di libertà e uguaglianza) lo spinge a divergere dalle tesi di molti esponenti liberali del tempo (come ad esempio il Durando e il Gioberti), negando che l'amor di patria possa esistere - o almeno produrre grandi effetti - solo negli Stati dove è garantita la libertà dei cittadini, in quelli dove vi sono buone leggi e regna la virtù, oppure dove vi è unione tra le province. Anche la Germania nel 1812 e 1813 - scrive nel 1818 - ha seguìto l'esempio della Spagna e della Russia, richiamando in vita in funzione antifrancese la cultura e le tradizioni nazionali: «piccole arti veramente e imitative, perché altro è il serbar per secoli i costumi nazionali, altro il richiamar quelli obliati: e tuttavia è meglio il poter fare questo che nulla; e per non aver fatto questo nemmeno, andarono vuoti i disegni di chiunque, in quegli anni, gridò il nome d'Italia». Giudizio, questo, ribadito in forma ancor più dura nel 1847, quando, pur ammettendo che le truppe delle varie regioni italiani si sono onorevolmente battute sotto Napoleone, un fatto che le nostre anni italiane erano aggiunte alle francesi per forza, dopo essersi, vinte o non vinte, abbassate alle armi francesi, ed è un fatto che l'armi italiane non si sollevarono contro le tirannie comuni, come si sollevarono le armi portoghesi, spagnuole, tedesche, russe, svedesi, di tutta Europa; onçieché anche questo fatto, e tutti gli altri sopra accennati in complesso, provano incontrastabilmente pur troppo, che da tre secoli e mezzo, dal 1494 per lo meno fino a noi, le armi italiane s'abbassarono sempre dinnanzi a quelle straniere: il coraggio militare italiano fu da meno di tutti gli stranieri. 75 è
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ivi, p. 157. C. B., Lettere... (Cit.). p. 437.
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In relazione ai dati specifici della sitauzione italiana, nelle Speranze d'Italia del 1843 e nelle note agli Studi del 1847 B. ritorna spesso sul trinomio nel quale le armi italiane si identificano (forze regolari - guerriglia nelle campagne - forte difesa delle città sul modello spagnolo), pervenendo a conclusioni che a volte sembrano anche attenuare il ruolo preminente dell'esercito da lui sostenuto nel 1827 e dopo: fra le fazioni di guerra degli Spagnoli, le difese delle città furono quelle che più acquistarono lode l ... ]. Di battaglie campali gli Spagnoli non vinsero quasi mai se non quella di Baylen [...]. Quanto alle guerriglie, certo ch'elle fecero meno che non si crede; e certo meno che le difese delle città, le quali occuparono, per parecchie campagne, parecchi marescialli e corpi d'annata francesi [... ]. Ad ogni modo, non è dubbio che le difese di città e le guerriglie furono i due modi di guerra, con che gli Spagnoli si acquistarono allora quella gloria militare, che è il primo capitale indispensabile che è il presente e l'avvenire di qualunque nazione [...J. Ora poi, se un caso simile si rinnovasse, non è dubbio che la simpatia dell'Europa, acquistata che fosse a una nazione coi bei fatti militari, le frutterebbe tanto più che l'Europa è ora militarmente oziosa. Ma qui starebbe il punto principale e primo; qui tutta l'opera; qui l'appanxchiu più necessario di tutti, e che servirebbe a tutto: acquistarsi queJla simpatia con alcuni primi e belli fatti militari. Non ci lusinghiamo, non chiudiamo gli occhi e gli orecchi a nulla di ciò che c'importa vedere o udire, quantunque ingrato; vera o falsa, calunniatrice o no, bisogna torci d'addosso tutti questa brutta taccia, alla prima occasione.76
Nel caso dell'Italia, lasciando da parte l'esercito piemontese e quello napoletano, gli eserciti dell'Italia centrale sono insignificanti, «né l'accrescerli può essere fattura di pochi giorni e mesi. Ci vogliono anni, a far buoni e grossi gli eserciti piccoli, e non molto addestrati»: tutt'all'incontro le guerriglie e le difese delle città si possono improvvisare sempre; se non tanto da respingere una invasione, tanto almeno da morire con gloria contro di essa. Del resto si badi bene: non si disputi, per amor di Dio, qui come in altre cose, quale sia il mezzo migliore. A combattere e a morir con gloria sono buoni, ottimi tutti e due i mezzi; tanto più che, dove il primo si possa adoperare bene, non si potrebbe il secondo; e dove il secondo, non si potrebbe il primo. Certo che sarebbe stolto parlar di difese di città, tra
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C.. R., Sr.ritti militari... (Cit.), p. 41.
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i pochi e sparsi abituri degli Appennini o delle Maremme; questi son campi di guerriglie. Ma certo pure sarebbe stoltezza sperar guerriglie tra gli ubertosi campi e le frequenti città delle pianure o delle marine italiane; questi son campi da difese di città, da difese delle lor mura, lor vie, lor case. Guerriglie e difese di città saranno i due modi, le due operazioni di guerra che, se venga il caso ci renderanno, per prime, il nostro nome, tutto il resto poì.77
Affermazioni, queste, un po' contradditorie rispetto alle tesi sostenute nel 1827, in altre parti degli Studi e nelle Speranze d'Italia, dove si sottolinea l'insostituibilità degli eserciti regolari e si osserva che gli Eserciti piemontese e napoletano riuniti rappresentano una forza non disprezzabile. Se il successo della guerra contro l'Austria dipende da tre fattori, che cosa avverrebbe se venisse meno la pedina più sicura? Forse B. vede nella guerriglia e nella difesa delle città il solo elemento unificante tra gli eserciti piemontese e napoletano e il resto dell'Italia. Forse, accentua questa forma delJa guerra perché ritiene che è quella più difficile da realizzare in Italia e al tempo stesso più necessaria, perché l'esercito invasore anche e soprattutto dovendo combattere la guerriglia, avrebbe bisogno di perni di manovra fortificati che con l'insurrezione delle città gli verrebbero tolti. Sulla controguerriglia B. non è del1o stesso parere di Jornini, il quale riteneva che, in quest'unico caso, non vale più il principio di impiegare molte forze contro poche e occorre formare due eserciti, dei quali uno atto a condurre operazioni dinamiche e l'altro per presidiare e controllare il territorio_ Per B., invece, se alla nazione invasa rimane comunque un esercito nazionale ausiliario, si tratta di prendere qualche precauzione in più per la sicurezza delle retrovie e dei convogli ecc., ma per il resto se si vuol combattere l'invasore valgono i normali procedimenti e il principio della massa, «e quanti meno eserciti avrà egli e quanti più contra, tanto più gli sarà facile il vincere». E anche quando si tratta di combattere solo la guerriglia o «adunamenti tumultuari», vale il principio generale della massa, cioè di impiegare molte forze contro poche: adunque, perché sia necessario recar riparo a molte sollevazioni, nascenti, non perciò l'invasore dividerà in niun caso le forze sue in corpi i quali, computata l'arte e il numero d'ambe le parti, siano meno forti di quello, ch'ei supponga in ognuno degli adunamenti; e procurerà, che ogni corpo possa anche resistere a due de' solleva-
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ivi. p. 42.
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menti, ed unirsi con altri corpi suoi se è soverchiato; e sceglierà, anzi, disperdere prima con molte forze un adunamento, e rivolgersi poi ad un altro; e ciò fecero talora i francesi con quelle, che chiamavano colonne mobili, ed erano corpi piccoli, governati da' modi dei _grandi. 78
Interpretazione alquanto semplicistica del principio della massa, ben diverso da quello di Jomini che lo vuole applicato solo a bàttaglie campali tra eserciti; e, al tempo stesso, ennesima dimostrazione che è poco più che un'ovvietà quel «principio fondamentale» nel quale Jomini vuol vedere addirittura l'ambito e prezioso segreto della vittoria, perché non vi è dubbio che in qualsivoglia caso o situazione, si vince nella misura in cui si è più forti del nemico. Altre tesi di B. a proposito della guerriglia confermano le sue non rare contraddizioni, ma al tempo stesso indicano che il «nocciolo duro» del suo pensiero tende - sempre in riferimento al caso italiano - a considerare preminente il ruolo degli eserciti regolari. Quando si tratta di far fronte a un'invasione - egli afferma contraddicendosi - l'escn :ito regolare non può essere sostituito da una sqllevazione popolare, perché in Italia essa non potrebbe mai essere umanime, spontanea e concorde «da Susa a Reggio Calabria». Le sollevazioni parziali non servirebbero a nulla; molto nocivi sarebbero anche eventuali moti suscitati dalle società segrete. Le sollevazioni popolari spontanee, del resto, non si sono vedute guari in alcuna grande nazione, ma solamente in qualche gran città, o tutt'aJ più in conseguenza di qualche atto immane di° tirannide che unisse tutti gli animi in uno sdegno [... ]. Tale fu il caso della sollevazione degli Spagnuoli contro Napoleone, nel I 808: l'invasione perfida e nuova sollevò gli animi di tutti. Ma sarebbe stoltezza sperare che un'invasione antichissimamente adempiuta, e lungamente tollerata, producesse a un tratto il medesimo scandalo, le medesime ire, il medesimo accordo.
Quest'ultimo è evidentemente il caso dell'Italia. La compatta sollevazione popolare della Germania nel 1813 contro Napoleone per C. B. è solo un'eccezione e non sarebbe possibile nella concreta situazione italiana.79 Per tre ragioni: 1°) prima ancor che della libertà interna, i tedeschi si sono preoccupati della libertà esterna, dell'indipendenza nazionale. Gli italiani hanno sempre fatto il contrario, abbandonando quest'ulti78 79
ivi, p. 43. C. B., Le speranze d'Italia ... (Cit.), pp. 79-81. .
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ma per la prima; 2°) la nazione tedesca è la più adatta a far congiure, in quanto «grave, soda, pensierosa d'ingegno più profondo che vario, più tenace che pronto, più operatore che imaginoso; è operosa, ma lentissimamente segreta, confidente». Al confronto, la nazione italiana è la meno adatta, e quella che le ha sempre fatte meno bene: «gl'ingegni vi son pronti e mutabili [... ]. E tuttavia l'ingengo v'è men pronto che la fantasia, e la fantasia men che le passioni [... ]. Molto si parlò di ciò che possono e fanno gli odii e le vendette, ma non forse abbastanza di ciò che può e fa e non lascia fare l'amore in Italia [... ]. Il segreto ci è antipatico; la confidenza nostra suol essere abbandono; e i tradimenti ci vengono a ciascuno, più sovente da sè stesso, che non da altri»; 3°) finalmente - e questa per B. è la circostanza di maggior peso - la congiura per l'indipendenza tedesca è riuscita bene, perché quel1a napoleonica colà era una tirannìa dura e vera, e come dice il Gioberti, «a far buone rivoluzioni ci vuol buona tirannìa; ma a far congiure ci vuole tirannìa buonissima». In Italia è tutto l'opposto: non vi è vera e propria tirannia straniera ma solo preponderanza, «grado infimo di oppressione; la quale si fa sentir più a' governanti che ai governati; più nell'impedir il bene che in procacciar mali [... ]. Si traggon ricchezze, ma ne restano. V'è poca coltura alta; ma v'è la bassa. Non si provvede all'operosità, si promuove l'ozio, forse il vizio; ma l'ozio e anche il vizio sono piacevoli ai più, e chi pur cadendovi se ne sdegna, n'è tuttavia fatto incapace di sdegnarsene efficacemente. Pochi sono, dappertutto, gli uomini che si serbin vergin dagli effetti di una qualunque servitù; ma più pochi, di una mitissima. Tant'è l'un basto quanto l'altro, dicono con parole degne del senso». In questo contesto un esercito regolare ben preparato e addestrato fin dal tempo di pace che sia il più numeroso possibile in guerra è, per B., l'unica soluzione valida anche in Italia. Un esercito convinto della giustizia della causa e della necessità di combattere: e la civiltà dà appunto ai principi, ai capitani, o meglio ai principicapitani, nuovi mezzi di far sentire a tutti queste necessità morali; dà loro il mezzo eroico della pubblicità. Capacitate, persuadete la vostra nazione, curatela, onoratevi della fiducia reciproca; e, se la ragione stia per voi nella guerra che conducete, assicuratevi che sarà sentita dai vostri soldati, e che, sentita, li farà combattere bene e volontariamente con voi e per voi e per sè, senza ridurli a niuna necessità materiale.80
~° C. B., Scritti militari... (Cit.), pp. 62-63.
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Sul piano generale, per il B. gli eserciti nazionali numerosi rappresentano il solo modo corretto per risolvere la questione delle truppe o forze ausiliarie, che non dovrebbero mai avere la preponderanza. Riguardo al reclutamento, il B. non ha preferenze assolute tra il sistema prussiano, che a suo dire consiste nell'incorporare gradualmente il massimo numero di cittadini nell'esercito, addestrando e mantenendo addestrate metodicamente in tempo di pace la massa dei cittadini (soggetti tutti indistintamente all'obbligo militare) e il sistema francese e inglese (costituzione al bisogno e solo in caso di emergenza di una Guardia Nazionale, dalla quale vengono poi tratti i rinforzi per l'esercito). Il primo sistema secondo B. fornisce truppe ben addestrate, ma ha lo svantaggio di richiedere parecchi anni di preparazione prima di poter essere pienamente utilizzato; l'altro, al contrario, fornisce truppe meno addestrate ma ha il grande vantaggio dell'immediata entrata in funzione in caso di pericolo (il che è dubbio; e a cosa servono soldati non addestrati?). In tutti i casi, si tratterà «o di far uscire l'esercito dalla nazione armata, o di far uscire la nazione annata dall'esercito». E in qualunque modo si proceda all'armamento generale della nazione, l'importante è che essa si armi tutta, e si armi seriamente: non isprechiamo il tempo, le voci, gli spiriti, le forze, i denari in nulla che non sia meno agli scopi serii, seriissimi: I dell'armarsi; 2° dell'esercitarsi; 3°) del vincere o morire per la patria. La milizia è la più oziosa della vite, la più vana delle occupazioni, la più improficua delle spese, il più stolto dei trastulli, se rimanga trastullo, se non sia spesa, occupazione, vita seria .... 81 0
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Il Pieri contesta che l'esercito francese sia sorto dalle guardie nazionali, istituzione di origine borghese creata come prima espressione di un concetto democratico e nazionale della difesa, e nata per esigenze di ordine interno. 82 A parer nostro, ha più torto che ragione: fino a quando non viene decretata la coscrizione obbligatoria, è la Guardia Nazionale che alimenta l'esercito e incrementa le sue dimensioni (così scrive anche il Blanch).83 E B. a sua volta è impreciso, quando - senza riferirsi al mutamento avvenuto nel sistema di reclutamento e alla successiva esclusione della Guardia Nazionale - loda la dubbia razionalità del sistema dei depositi dei corpi introdotto in Francia con l'avvento del1a coscrizione e
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ivi, p. 71. P. Pieri, Op. cit., pp. 185-186. 83 L. Blanch, Della scienza militare... (Cit.). p. 205. 82
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rimasto in uso anche in Italia fino alla seconda guerra mondiale. I depositi all'interno del Paese accoglievano le reclute e fungevano da centro di addestramento, amministrativo e logistico per i reggimenti in operazioni, che si rifornivano di uomini, denaro e materiali. Comunque sia, noi osserviamo che l'ampliamento degli eserciti francese e inglese nelle guerre napoleoniche non è stato frutto - come quello dell'esercito prussiano - di un metodico meccanismo predisposto e funzionante fin dal tempo di pace per incorporare la massa dei cittadini validi dell'esercito, ma piuttosto di provvedimenti d'emergenza adottati guerra durante. Né il B., né tanto meno il Pieri traggono tutte le conseguenze da un fatto: che la chiave dei due sistemi contrapposti era la durata della ferma di pace (breve con il sistema prussiano; lunga o volontaria con que1la francese), con diverse ricadute economiche e sociali e diversi presupposti spirituali. Le più economiche ferme brevi, i periodici richiami, l'addestramento «part time» dei Quadri ecc., e l'ordinato, rapido afflusso alle armi solo al bisogno erano prerogativa non esportabile di un popolo - come il prussiano - con territorio limitato, geopoliticamente continentale, elevatissima coesione sociale e alto spirito nazionale e militare, naturalmente disciplinato. Il sistema prussiano, le esigenze strategiche alle quali rispondeva e lo spirito che lo animava, erano esportabili in altri Paesi? Nella misura in cui essi non lo erano, prevalevano gli eserciti permanenti. Era questo il punto: non quello della prontezza di intervento, perché un esercito a ferma lunga non necessariamente era pronto per l'impiego. Né B. ha ragione, presentando il sistema piemontese - rivelatosi nel 1848 incapace di garantire la prontezza operativa come analogo a quello prussiano._.,84 Nemmeno sarebbe esatto presentare B. come un sostenitore di grossi eserciti permanenti a lunga ferma: egli afferma che in guerra sono ne. cessaci grandi eserciti, però da costituire solo quando è necessario, limitandosi ad addestrare convenientemente il personale in tempo di pace. 85 In tal modo si evitano «i due danni che vi vedono i miei contrarii, che lo Stato n'è impoverito, e i cittadini distolti dall'arti buone». A suo giudizio si deve disporre di molto denaro e molto materiale per mettere grandi eserciti sul piede di guerra; il loro approntamento in pace non comporta invece molta spesa [e il materiale? - N.d.a.]. Non sono più richiesti degli anni per formare delle buone fanterie, e tutti gli Stati stanno adottando più o meno il sistema prussiano «d'aver dei soldati che s'addestrano e si
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C. B., Scritti militari... (Cit)., p. 70. ivi, pp. 68-70.
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mandano a casa poi, sia per tornarne tanti giorni all'anno, sia per rimanerci fino al bisogno». Si è anzi migliorato - egli aggiunge - questo sistema, sia riducendo la forza di pace dell'esercito, sia reclutando la truppa permanente - così come quella di leva - tra i cittadini e non tra «gli stranieri e i vagabondi». In tal modo, gli eserciti non sono più ricettacolo della feccia, ma «adunanza de' migliori d'ogni Paese». Più aumenterà la forza degli eserciti in guerra, più diminuirà quella in tempo di pace, e più ne saranno alleggerite le finanze. Di qui il giudizio positivo sul sistema americano: Dio volesse che si giungesse al segno, che sono gli Stati Uniti d'America, i quali hanno il più grande e il più piccolo esercito che abbia rispettivamente niuno Stato, perché, pagando al solito non più di cinque o sei mila uomini per guarnire i forti delle coste, più d'un milione cred'io corsero alle armi nel 1814, quando fu presa Washington, tutti ordinati e pronti a combattere [se è così , perché Washington fu distruttura dagli inglesi? N.d.a.].
Questo sistema sarebbe applicabile in qualunque Stato, nel quale chi governa abbia il popolo amico: è, questo, un vantaggio in più che si ottiene facendo di ogni cittadino un soldato. In quanto alla tesi che «si distruggono le arti buone, togliendo loro le braccia», posto che gli ardinamenti debbono essere adeguati alle specifiche esigenze di ogni Paese, se non fiori Sparta per l'industria, io non vedo che il rimanente della Grecia o Roma n'andassero povere per essere ricche d'armi proprie: né che vi migliorasse l'industria quando vi si perdetter d'armi; né che l'Inghilterra si impoverisse cogli sforzi che fece, dal 1808 al 1815.
Nelle Speranze d'Italia B. applica questi ammaestramenti alla situazione italiana, polemizzando con i «gretti economisti» che ritengono le spese militari improduttive. Oggi in Italia - egli afferma - non vi sono spese così ben fatte, come quelle destinate a mantenere gli eserciti piemontese e napoletano. Per due ragioni: la prima è che essi potrebbero servire, «ragione sufficientissima quantunque lontana» [qui B. si sbaglia - siamo nel 1843 - N.d.a.]. Infatti dei 200.000 uomini complessivi i 100.000 che si troverebbero naturalmente in prima linea in qualunque guerra d'indipendenza [cioè i piemontesi - N.d.a.] sono appunto quelli del cui valore non dubitò la storia mai, né dubita l'opinione presente; che della seconda linea [cioè i napoletani - N.d.a.] dubitò, per vero dire, ma i quali appunto perciò sono forse i più ar-
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denti, e che dopo queste due prime linee, ne sarebbe pure una terza ed una quarta de' principati minori, e de' provinciali dello straniero_86
La seconda ragione è di carattere morale: gli eserciti sono il miglior modo di «conservare e accrescere l'operosità, d'impedire l'ozio italiano, di salvarci da un nuovo Seicento»_ Di tutte le altre professioni, quella militare è forse la più sana sia per il corpo che per l'animo: «la sola professione militare può tenere operosi i molti e d'ingegno comune_ Mirate i paesi dov'ella non è; e senza uscir d'Italia fate il paragone co' Paesi dov'ella è». 87 Non vale l'obiezione che gli ufficiali sogliono essere essi stessi uomini di poca moralità e di molto ozio. I progressi dell'arte militare e le esigenze addestrative fanno sì che il mestiere delle armi ormai è tutto meno che ozioso, quindi non può essere vizioso: esaminate dunque, correggete, perfezionate gli ordini della milizia, togliete le spese inutili a questa operosità ma serbate, accrescete questa; lasciate che coloro ai quali non bastano gli esercizi militari, possano prendere parte alla realità delle belle guerre di diffusione che va facendo da tutte le parti la cristianità; e in nome dell'Italia, benedite insomma que' principi nostri che ci scrban l'armi italiane, confrontate gli altri, quantunque piccoli, ad imitarli .88
L'insistenza di B. sulla concreta volontà di combattere e di fare le cose seriamente non è casuale. Nel 1847 egli sostiene che la guerra d'indipendenza italiana deve essere condotta sotto la guida piemontese, per la semplice ragione che l'esercito piemontese è da lui ritenuto l'unico valido strumento di guerra: non così quello napoletano, prché nelle regioni meridionali «non è dubbio, colà più anticamente, colà più che in nessun'altra provincia d'Italia, decadde, si disusò il coraggio militare», così gli invasori vi ebbero sempre buon gioco e non incontrarono mai resistenza. 89 Per altro verso, con notevole realismo C. B. si guarda bene dall'alimentare una cieca fiducia nella potenza militare del Piemonte. Vi sono egli affema - due categorie di sognatori: quelli che confidano in un'impossibile sollevazione generale di 23 milioni d'ltaliani contro 300 400000 austriaci, e quelli che non facendo affidamento per diverse ra-
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C. B., Le speranze d'Italia (Cit.), p. 139. ivi, p. 440. 88 ivi, p. 141. 89 C. B., Lettere... (Cit.), p. 450. 87
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gioni su Napoli, confidano, in pratica, sulla liberazione delle loro contrade da parte di un esercito piemontese di circa 130000 uomini. Di fatto questo esercito dovebbe ridursi a circa 50000 uomini effettivamente impiegabili in operazioni, che non potrebbero essere sufficienti se non con una buona occasione e aiuti strarueri o nazionali. L'occasione bisogna aspettarla, mentre gli aiuti strarueri si accettano e si procurano ogni volta che è possibile, ma non bisogna contarvi mai. Al contrario, bisogna assolutamente procurarsi gli aiuti nazionali e potervi contare, altrimenti non si potrà fare nulla. Di conseguenza la conquista dell'indipendenza nazionale è prima di tutto affare degli stessi italiani: o gli italiani vogliono davvero, o non vogliono. Se vogliono davvero, è indispensabile che davvero operino, davvero menino le mani quando venga il dl, davvero vi s'apparecchino (duro ma forse indispensabile a dire) tutti quanti, e fin d'adesso, e sin che il dì abbia a venir fra dieci o dodici, o fra cinquanta, o fra cento e più anni .90
B. non può certo essere definito un guerrafondaio ligio agli interessi delJa costa militare piemontese; ad una visione realistica del potenziale militare del Piemonte egli affianca un sano riforrrusmo militare, che non esita a intaccare interessi corporativi. 91 Le riforme liberali e l'abolizione dei privilegi della nobiltà producono - egli dice - gli stessi effetti della liberalizzazione del commercio: «gli uru vi guadagnano senza che gli altri vi perdano; tutti guadagnano insieme per queste fusioru, queste libertà». Lo stesso avviene nel campo militare e per la classe militare, «la più nobile di tutte», dove «dicono alcuru (io spero e credo, non guari ascoltati) malevolmente forse, nocivamente per certo: la nostra monarchia era militare; ora si farà avvocatesca, o industriale, o commerciale, ecc.». Pur ammettendo che le recenti riforme di Carlo Alberto compÒrtano l'abolizione di qualche Comando di piazza e di qualche sinecura militare e richiedono a qualcuno decurtazioru di stipendio, rivolgendosi ai militari egli esclama: io non credo, che voi facciate il nobil mestiere a modo di quegli operai alla giornata, i quali riducono la politica, lo Stato, la patria a far crescere le paghe della giornata[... ]. No, no! niuno è di voi certamente che esiti al paragone, tra quei pochi posti od avanzamenti di pace che vi si chiudono, e tutte quelle eventualità di guerra che
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ivi, p. 447. C. R., ! P. speranze d'ltalia ... (Cit.), pp. 484-486.
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vi si aprono. La milizia di pace non è che l'esercizio, il preparativo alla milizia di guerra; questo, è il fine mirato da ogni vero militare; senza questo, la milizia di pace non sarebbe che un trastullo, una comparsa teatrale. Avremo noi guerra? Ella non può oramai essere altra che la nazionale; e allora voi avrete la vostra vera attività, allora l'operosità finale a cui vi esercitaste tant'anni con tanta fatica: il nobil mestiero avrà tutta la sua valuta, la sua importanza evidente a tutti.92
Il problema generale della guerra e della pace e l'utilità o meno di mantenere grossi eserciti fin dal tempo di pace sono altri due capisaldi della riflessione di B .. Giudica utopie quelle della pace perpetua e del disarmo, già allora in voga; ma ciò non significa che sia bellicista e militarista per partito preso. Nel 1844 polemizza con lo scrittore francese Quinet, il quale aveva diretto a tutti gli italiani queste parole: «Né il cielo né la terra possono salvarvi, se non vi riscattate da soli, nell'avvenire, con un battesimo del fuoco. Diffidate delle parole: a questo punto occorre del ferro». I libri, le parole (oggi diremmo i mass media) - dice B. - servono appunto a far preparare, riunire e alzare le spade: ma i bei colpi di spada sono una bella cosa solo per una bella causa, cioè «per la patria, per l'indipendenza, per la religione vera». Colpi di spada e di pugnale, mannaie e corde e rivoluzioni, senza vantaggio e miglioramento per la Patria non hanno senso: «tutto ciò può valere, val certo meglio che l'ozio e il sonno di una nazione, ma non vale il mutar lento e progressivo di alcune nazioni incivilite modeme».93
Il ruolo del Piemonte, di Napoli e del Papa nel conseguimento dell'unità nazionale Negli scritti dì B. la preminenza militare del Piemonte - il cui Esercito, peraltro, non può fare tutto da sè - è basata su considerazioni di carattere geopolitico e geostrategico spesso analoghe a quelle del Gioberti, perché ruotano attorno al rapporto tra la potenza mi1itare piemontese e napoletana e al diverso ruolo dei due Regni predominanti in Italia. Secondo B., la geografia e la storia hanno diviso l'Italia in due parti «irrimediabilmente» distinte: l'Italia settentrionale fino agli Appennini, e il resto della penisola. La parte più importante è diventata l'Italia setten-
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Ibidem. ivi, p. 470.
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trionale, e in particolare il Piemonte. Finché l'indipendenza non è compiuta, non possono essere tolti alla monarchia piemontese due primati: quello dei pericoli e quello poi degli accrescimenti. Perciò egli scrive, nelle Speranze d'Italia: quando e come sieno per servire le occasioni dell'impresa [della conquista dell'indipendenza nazionale mediante la guerra all'Austria - N.d.a.], questa si farà senza dubbio dalla e nella Italia settentrionale principalmente; e il risultato necessario sarà una riunione di essa, un inorientarsi, un accrescersi la monarchia di casa Savoia. Ella sola ha i compensi occidentali da dare; ella sola si trova vicina alle provincie italo-straniere; ella sola può farle diventare italiane, che è la somma dell'impresa. Tanto chè è quasi dir lo stesso impresa di indipendenza italiana, o fondazione di un gran regno ligure-lombardo. 94
Vi è senza dubbio, in questo, una contraddizione rispetto alla citata lettera sulla nazionalità italiana del 1827, basata sulla capacità di resistenza che, a guisa della Spagna, le città e le campagne del Centro-Sud della penisola avrebbero dovuto dimostrare contro l'Austria: in questo caso, così come per ragioni geopo1itiche il centro di gravità dell'intera vita italiana si è spostato verso il nord, anche il centro di gravità geostrategico non può essere che colà. La contraddizione rimane, anche quando sempre nelle Speranze d'Italia - il B. cerca di dimostrare, con argomentazioni se non altro originali, che è interesse anche degli Stati del CentroSud che il Piemonte si accresca al nord combattendo contro l'Austria. Il pericolo, l'ostacolo maggiore all'unione dei Principi italiani - egli afferma - è proprio quello che essi, non essendo interessati come il Piemonte a ingrandimenti territoriali, non prendano parte all'impresa, e "dimentichino che è impresa non d'acquisti, ma di indipendenza». 95 Napoli è così lontana dal nord da non dover nemmeno temere invasioni: ma la storia dimostra che Napoli e la Sicilia sono state molto più soggette del Piemonte a occupazioni straniere. Questa non è colpa, come ritengono alcuni, «del molle clima, o delle molli schiatte»: il clima del Sud è pur sempre quello dei Romani, è quello nel quale sono diventati famosi per le loro quaJità militari i Siculi, i Sanniti, i Normanni. Se la degenerazione del Centro Sud è stata molto più frequente e più profonda del Nord, ciò è dovuto «meno al clima, che a quell'inganno della situazione estre-
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ivi, p. 132. ivi, p. 132.
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ma, il quale le fa parer lontani i pericoli, e inutili le preparazioni a difesa; onde poi le facili, le frequenti invasioni, onde le mutazioni, onde le corruzioni, effetti prima, e nuove cause poi».96 Rientra nell'interesse di Napoli partecipare alla guerra d'indipendenza promossa dal Piemonte e favorire gli ingrandimenti di questo Regno: se avrà saputo far bene l'ufficio di potenza secondo nella impresa di indipendenza, sarà chiamata all'ufficio di potenza prima nell'impresa di estensione. Sarà a Tunisi, a Tripoli, o in qualche isola o parte di continente orientale? Non importa; sarebbe puerilità cercarne ora. Per qualunque scalo, in qualunque modo, Napoli è destinata a diventar l'anello di congiunzione dell'Italia con la Cristianità orientale, ed aver quindi i maggiori profitti ultimi; a condizione d'essere stata disinteressata né primi, generosamente operosa nell'acquisto fondamentale. 97
Secondo B. al disinteresse di Napoli e degli Stati della Italia Centrale per accrescimenti territoriali è legata la soluzione del problema del potere temporale dei Papi, e di conseguenza anche la tutela del ruolo della Chiesa in Italia e nel mondo e il modo di intendere il primato dell'Italia. Su questi punti egli dissente dalle idee del Gioberti, e si chiede se non valga la pena di assicurare compensi anche a Napoli e alla Toscana togliendo al Papa le province adriatiche, che in quanto appendici «quasi innaturalmente» congiunte con Roma, pur nel rispetto del principio del potere temporale potrebbero essere ritenute inutili per il futuro Stato della Chiesa. In ogni caso, se si vuole evitare che il Papa ostacoli l'indipendenza e il futuro ordinamento dell'Italia, bisogna cointeressarlo all'impresa, facendo sì che «egli pure vi trovi il vantaggio massimo cd universale della indipendenza, e non vi trovi lo svantaggio particolare, materiale e per così dire palpabile della diminuzione di Stato».98 Sempre per ragioni geopolitiche e storiche, B. ammette - come il Gioberti - che la Confederazione è la forma di reggimento politico al momento più conforme alla storia d'Italia e alle sue tradizioni localistiche, perché storicamente l'Italia non è mai stata unita, se non per un breve periodo di 13-14 anni sotto Odoacre. Ma l'accordo tra i Principi, pur auspicabile, in realtà non sarebbe possibile: nessuno vorrebbe rinunciare
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ivi, p. 133.
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Ibidem.
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ivi, p. 134.
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a niente in nome dell'unità nazionale. In quanto alla designazione del Papa alla presidenza della Confederazione, il B. afferma che non la vuole nessuno, e lo giudica «prematura», «difficile» «fuori dai tempi». La soluzione migliore è quindi quella di accettare l'idea, il principio della Confederazione, lasciando alle contingenze di indicarne le modalità di costituzione e chi deve esserne a capo. B. giudica «esagerata» l'idea del Gioberti, di un primato dell'Italia «così quasi assoluto, così quasi universale», e ritiene piuttosto che l'unico primato presente e futuro che per l'Italia è possibile mantenere, è quello che le verrebbe dall'essere «albergatrice, circondatrice e difenditrice della sedia pontificale». Per il resto, lo sviluppo della civiltà è ormai tale che - diversamente da quanto avveniva nell'antichità, ove i primati erano assoluti, universali e passavano da una nazionale all'altra - oggi i primati si fanno via via meno assoluti, meno universali, perciò «ogni Nazione serba un brano del primato universale, serba un brano particolare suo». 99
Il valore geopolitico e militare delle ferrovie L'importanza che il B. attribuisce al matriale e alla geoecononiia lo portano a dedicare una certa attenzione alle ferrovie, anche se esse - pur facilitando in misura senza precedenti quel rapido movimento delle forze terrestri che era stato la quintessenza della strategia napoleonica non lo portano a mutare la sua convinzione che quest'ultima ha spiccato carattere centro-europeo e non è sempre l'optimum, specie nel terreno difficile dell'Italia peninsulare. Da un punto di vista strettamente militare egli ritiene che possono essere interrotte assai più facilmente della viabilità ordinaria, quindi potrebbero favorire la difensiva rispetto all'offensiva: ma guardando bene, si arriva a concludere che ne potrebbe essere avvantaggiata almeno nella stessa misura anche l'offensiva, «e che insomma ella gioverà più a chi vi saprà meglio applicare la grande arte della guerra [... ] Delle strade ferrate, come di tutte le altre invenzioni nuove, si dovrà dir sempre ciò che fu detto di quell'altra invenzione antichissima, le mura delle città: la più salda, la sola sicura delle difese, sono i petti forti dei cittadini». Una volta costruite da uno dei popoli del continente, esse sono ormai diventate necessità di guerra per tutti gli altri:
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ivi, p. 136.
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quindi risulta un altro principio, pur evidente, e forse opportuno a notare ora: che le strade ferrate d'un paese debbono tenersi non solamente come grande strumento di commercio, di unione, di nazionalità in pace, ma come vero e grande strumento ed apparecchio di guerra, e perciò d'indipendenza: che dunque elle sono de' pochi affari di pace che non dovrebbon far cedere agli affari di guerra, non forse allo stesso armamento. 100
Ma è soprattutto nelle Speranze d'Italia e relative appendici che le ferrovie ricevono ampio spazio, in una prospettiva non agustamente militare e operativa ma geopolitica, geoeconomica e geostrategica. Tutti ormai sono d'accordo in «lodare, desiderare e promuovere quel mezzo, sommo de' materiali, del progresso universale». 101 Il fatto che l'opinione pubblica e i Governi italiani abbiano sentito tardi l'esigenza di costruire ferrovie, è un gran danno; e un danno ancor maggiore, è che la spinta sia venuta dall'estero. Si tratta di un progresso immenso, perché prima di tutto egli torrà di mezzo, probabilissimamente (io mi avventuro forse, ma più penso, più confido) i tentativi di rivoluzioni. Quali potranno riuscire, quando potranno i principi in poche ore mandar milizie, portarsi di lor persona sul punto sollevato o minacciante? quando si potranno aiutare essi a vicenda, senza chiamata di stranieri? Od anzi, qual tentativo di minaccia seria si farà, quando le popolazioni non sieno più inoperose, oziose, tormentate da quel non saper che fare del proprio ingegno ed animo, il quale nella condizione presente della società, è il gran motore delle rivoluzioni? 102
A queste ingenue, ottimistiche e infondate previsioni C. B. ne aggiunge altre assai più centrate: «le strade ferrate, cioè le comunicazioni agevolate, accelerate, moltiplicate, non possono non conferir molto, tutto, alJa formazione della po1itica internazionale, dico la po1itica dei prìncipi e popo1i, popolo grande e piccolo insieme, tutta la nazione. Relazioni frequenti , opinione universale, politica nazionale: sinonimi». 103 Se lo straniero ostacolerà la loro costruzione in Italia, non farà che rinfocolare il desiderio d'indipendenza degli italiani; se la incoraggerà, «saranno aiuti a comunanze, e le comunanze aiuti a indipendenza».
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C. B., Scritti militari... (CiL), p. 155. C. B., Le speranze d'Italia... (Cil), 5" appendice, p. 385. 102 ivi, 2• appendice p. 293. 101
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Dovrebbero essere congiunte con ferrovie anzitutto le capitali dei vari Stati italiani, e poi i porti con il loro retroterra e con l'estero. La ferrovia più importante di tutte sarebbe però quella che metterebbe in comunicazione la Francia, attraverso le Alpi, con l'estremità della penisola. Se il Re del Piemonte e quelJo di Napoli si accordassero per costruire il primo il tratto che da Torino attraverso le Alpi porta in Francia, e il secondo il tratto da Napoli a Otranto, queste due strade sarebbero i due sommi capi di quella che riunendo tutte le capitali italiane percorrerebbe tutta la longitudine della longitudinale penisola nostra; e tutta questa strada insieme libererebbe i principati italiani d'ogni loro dipendenza commerciale germanica, e farebbe poi dell'Italia la via più lunga in terra, più breve in tutto, tra l'Occidente d'Europa e l'Asia intera [...]. Le comunicazioni per terra, per istrade ferrate, si preferiscono già, e perfezionandosi, si perfezioneranno sempre di più alle comunicazioni per mare; le quali, per quanto si perfezionino mai, rimarranno sempre soggette ad alcune fortune di mare. Guardate la carta: la via diritta tra Londra e Suez attraversa la penisola nostra da Susa ad Otranto. Questa via farebbe guadagnare su quella di Marsiglia una giornata forse, la sicurezza certo. Chi può dubitare che il commercio e i due governi di Francia e Inghilterra, i quali pagano così cara la sicurezza e il tempo, ne approfitteranno? 104
Ne verrà incrementato enormemente anche il turismo, e ne saranno valorizzate le nostre bellezze naturali. In tutti i casi, «le comunicazioni a vapore, strade e navi combinate insieme» stanno per far mutare aspetto al mondo incivilito e a queJlo non incivilito. Ne sorgeranno nuove relazioni tra le nazioni, e «alla fine del secolo, od anche prima, i gradi di civiltà delle nazioni diverse si segneranno probabilmenle, sulla scala di propor.1.ione delle popolazioni, a' miriametri di strade accelerate che esse possederanno». Dunque per B. le ferrovie favoriscono sia sotto l'aspetto militare sia sotto l'aspetto politico e economico la prospettiva della riunificazione nazionale, senza dicotomie tra i vari fattori. Esse dal punto di vista geostrategico e geo-economico fanno dell'Italia la via più breve e più sicura per l'Oriente: suo dunque è il merito di aver intravisto per primo la «valigia delle Indie», che identifica, rende obbligato anche un comune ruolo delle varie regioni italiane ne] loro rapporto con l'estero. Sia la causa
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Ibidem. ivi, p . 295.
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dell'indipendenza nazionale che l'economia italiana riceverebbero, secondo B., grande impulso dai co11egamenti ferroviari con la Francia; ma nel campo della cultura militare l'aumento delle relazioni e delle interdipendenze che ne conseguirebbe non lo porta a privilegiare - come molti altri autori italiani coevi fanno fin troppo - l'approccio tipicamente francese - e se vogliamo jominiano - che nella Restaurazione dà origine in Francia a una vasta letteratura militare. Per altro verso, lo scarso approfondimento da parte di B. degli specifici vantaggi tecnico-militari e dei dettagli d'impiego delle ferrovie lo porta a non cogliere gli eloquenti accenni che pur compaiono in Italia nella letteratura militare coeva su questo argomento. Ad esempio il Progresso di Napoli (Voi. IV-1833, p. 129) recensisce ampiamente un articolo dei Signori Lamé e Clapeyron sul numero di ottobre 1832 del Journal des sciences militaires di Parigi, nel quale gli autori trattano proprio deJl'utilità delle strade ferrate per la difesa del territorio, mettendole a confronto con il .r uolo di que1Je piazzeforti, che negli scritti di C. B. hanno sempre una funzione di grande rilievo.
Il Lamé e il Clapeyron sostengono addirittura - come il Cattaneo l'inutilità delle fortificazioni permanenti nella strategia moderna a fronte della superiorità che ormai assicurano il numero, la mobiJità e il coraggio, e fanno dipendere i vantaggi che la Francia riporterà in una futura guerra difensiva dalla costruzione di numerose ferrovie, per congiungere celermente Parigi con i principali centri abitati del Regno. Secondo i predetti autori, infatti, con le ferrovie si raggiunge finalmente un'estrema rapidità dei movimenti di truppe e materiali, e diventa relativamente facile concentrare sul luogo dei combattimenti o su un punto minacciato «guardie nazionali o truppe fresche e ancora sotto l'influenza di una esaltazione morale che provoca un ingiusto assalto». Essi fanno anche un esempio di spostamento per ferrovia di 20000 uomini, 5000 cavalli e 60 cannoni, che non peserebbero che 4590 tonnellate e occuperebbero solo 9270 m di ferrovia. Cento locomotives assicurerebbero a questo esercito la velocità di 6 leghe/ora, a un costo totale di 72480 franchi. Nonostante la sua ragguardevole esperienza militare, C. B. non sviluppa questa tematica più di tanto: eppure la difesa della penisola ne sarebbe stata avvantaggiata ancor più che l'aggressore, perché le strade ferrate avrebbero favorito que1Ja condotta unitaria de1Je operazioni, che l'Austria già di per sè poteva agevolmente raggiungere, mentre da parte italiana era ostacolata sia da divisioni politiche interne sia dalla conformazione geografica del territorio.
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Il problema dell'indipendenza italiana, l'Europa e il Mediterraneo Per B. tutti gli italiani - e in particolare Napoli e il Piemonte - devono impegnarsi a fondo per ottenere il riscatto nazionale, conquistando l'indipendenza: ma non potranno mai fare tutto da sè e l'aiuto straniero è indispensabile. È questa la divergenza di fondo con il Gioberti, che risalta maggiormente dall'esame del quadro internazionale e dalle possibilità che fornisce. Non si può, pertanto, ben valutare la proposta strategica e militare della lettera del 1827 e degli Studii, se non si inserisce l'ottica nazionale che li caratterizza nel più vasto panorama geopolitico tracciato nelle Speranze d'Italia, con una visione mondiale che ha come perni la Cristianità (cioè l'Europa Occidentale compresa l'Inghilterra), la Russia, la questione d'Oriente e il Mediterraneo. Per prima cosa, nelle Speranze d'Italia il B. esc1ude la prospettiva neo-ghibellina di quegli italiani che sperano nella riunificazione dell'Italia ad opera degli stranieri, lasciandone loro una parte «colla speranza che, così riunita, ella fosse per liberarsi poi tutta da st::, ovvero (non avendo io verificato qual dei due si speri di più) che ella s ia liberata spontaneamente dagli stessi stranieri)». Si tratta di un'illusione, perché in passato il «sogno ghibellino» non si è realizzato nemme no quando l'Italia era stata abbandonata dalle altre potenze ne11e mani della Germania, che pure aveva a suo favore buona parte degli Stati italiani di allora; è quindi improbabile che questa prospettiva si realizzi ora, che ha contrari tutti i principi italiani e le grandi potenze europee. Le altre possibilità di unificazione - ciascuna tale da implicare diverse valutazioni anche di carattere geopolitico e geostrategico - sono: «1 °) spontaneamente per opera di principi italiani; 2°) spontaneamente in seguito a una sollevazione nazionale; 3°) per m ezzo di una chiamata di nuovi stranieri; 4°) ovvero finalmente per qualche occasione che si afferrasse meglio che non fu fallo finora». 105 La prima ipotesi viene dal B. subito scartata, perché, «già difficile per sè, come dicemmo, sarebbe impossibile poi a rivolgere a scopo d'indipendenza». Improbabile anche che essa nasca all'improvviso, perché «la confederazione per l'indipendenza non si può fare, o almeno non si può sperare che si faccia, se non coll'indipendenza». Anche la seconda ipotesi - una compatta sollevazione nazionale per le ragioni già prima esposte è da scartare; d'altro canto una sollevazione parziale sarebbe nociva. In quanto alle sollevazioni generali pro-
IOS ivi,
p. 75.
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mosse da quelle società segrete «che sono tutt'uno comunque si chiamino, e qual che sia il vessillo essi innalzino», esse sono il mezzo meno utile e di meno probabile riuscita, perché «l'essenza loro, il segreto accettato prima di conoscerlo, l'obbedienza a un capo ignoto, la tendenza ad un ignoto scopo, sono servitù di gran lunga moralmente peggiori che non qualunque servitù anche allo straniero». A loro volta, le chiamate di stranieri in Italia per mettervi quell'accordo impossibile da ottenere spontaneamente non sono più un rimedio conveniente e praticabile: «dal 1815 in poi, già son parecchie le chiamate italiane, a cui non fu dato retta. Ondeché, se elle si dovean già fuggire per due buone ragioni, che elle furon sempre inutili e sovente nocive, or s'è aggiunta una terza e più vergognosa, che elle si son fatte molto più difficili ad esser esaudite».106 Le «chiamate» del passato - aggiunte il B. - riguardavano soprattutto la Francia, in funzione antitedesca. Ma al momento «niuna provincia italiana di qua dall'Alpi non è a Francia continuazione di territorio per arrivare a un limite che sia o si pretenda naturale, non a sponde, non a foci di fiumi francesi; non è scalo a ninna colonia francese presente né prevedibile; e se tale è a quel Levante che Francia pretese testè, è scalo così vicino alla partenza, che non ha pregio di vero scalo ... ». 107 Di conseguenza i governi francesi faranno per il futuro ciò che hanno sempre fatto, cioè si limiteranno a cercar d'impedire che l'Austria aumenti la sua influenza in Italia; «e ciò stesso faranno con rispetti infiniti all'Austria, già emula e nemica, or l'alleata più naturale che s'abbian essi sul continente». Né vale opporre a queste previsioni l'esempio dell'Inghilterra, che pur con un governo democratico ha fatto grandissime conquiste: «ma queste non che infirmare, confermano anzi la proposizione mia. Le conquiste inglesi si fanno tutte per l'interesse del commercio nazionale, computato, spiluccato a lire, soldi e denari; e qual non presenta vantaggio, o non si fa, ovvero è riprovata, od anche, come vedemmo ultimamente, abbandonata». 108 Ritenere ormai improponibili le «chiamate» non significa non ammettere le alleanze «che si facessero da' nostri principi con qualunque di quelle potenze straniere, o per iscemar la preponderanza della potenza straniero-italica [cioè l'Austria - N.d.a.], od anche meglio per aiutarci in qualunque occasione d'indipendenza».109 Diversamente dal Gioberti che le riteneva contrarie all'interesse e alla dignità nazionale, B. ritiene che
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ivi, p. 82. ivi, p. 84. 108 ivi, p. 83. 109 ivi, p. 85. 107
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escluderle sarebbe «stoltezza, esagerazione di Principi, esaltazione puerile di vanità nazionale». Queste alleanze rientrano anche nell'unica possibilità che rimane all'Italia, dopo aver escluso le altre tre: quella di cogliere le occasioni che fornisce il quadro internazionale, perché (questo - notiamo noi - è un ottimo argomento anche contro le teorie di Jomini) «una delJe maggiori vanità nelle quali sogliamo cadere noi scrittori, è quella di attribuire ai disegni degli uomini più potenza, alle occasioni men potenza che non avviene in realtà». In particolare, le occasioni che si potrebbero presentare sono: « I qualche conflagrazione democratica [cioè: rivolta dei ceti popolari N.d.a.]; 2° qualche tentativo di monarchia universale; 3° qualche partizione di Stati, più o meno simile a quelle che diedero le occasioni del secolo scorso». 110 Anche queste tre possibilità sono da scartare. La prima, perché le differenze sociali tendono piuttosto ad attenuarsi, «e insomma non si tratta più per ciascuno di essere o no gentiluomo, ma uomo gentile, persona educata». Le democrazie antiche sono ben presto diventate quasi tutte aristocrazie, e non sono più un modello: «quanto alle democrazie che sopravvivono in qualche angolo d'Europa, o nelle vastità americane le loro condizioni già tanto vantate, sono ora troppo note anch'esse per invaghire gl'imitatori. In alcune la democrazia è tirannica e sconforta quindi ogni altro ceto; in alcune s'assoggetta elJa stessa all'aristocrazia; nelle più scomparisce nel gran ceto delle persone educate». 111 Per quanto sia stato sogno recente, non è nemmeno probabile che si rinnovi il tentativo di monarchia universale: «chi oserebbe tentar ciò in che fallì Napoleone? Certo, Francia ne fu troppo ammonita per ritentarlo. Inghilterra non ne sognò, né per sua situazione ne potrà sognar mai . Prussia, quantunque grande, è troppo piccola per ciò, ed Austria, non che avere spiriti a tale impresa, non ne ha nemmeno a quelle più facili che le si parano innanzi». Non rimane che la Russia: ma sulle sue effettive possibilità militari e sulle sue aspirazioni ancora una volta B. diverge radicamente dal Gioberti, che vi vede l'unico pericolo militare, contro il quale la cristianità doveva unirsi per non soccombere. Gli Zar - sostiene B. - sanno bene di avere ad ovest quattro grandi potenze (Francia, Germania, Francia, Inghilterra, Spagna), più una quinta, l'Italia, «che desidera quest'indipendenza, tanto più quant'è più sola nella vergogna di non averla». 11 2 Quindi una loro invasione «a modo dei Finni o dei Mongoli» non riuscirebbe, anche perché «quei loro eserciti 0
ivi. p. 86. ivi, p. 87. 112 ivi, p. 88. I IO
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che sono così sterminati sui prospetti, o forse anche realmente tra le loro steppe, nelle loro colonie militari, o nei campi d'esercizi, li abbiam veduti noi, a che fossero ridotti quando giungevano sul Po e su la Senna!»_ Il vero obiettivo russo non è 1a monarchia universale, ma la preponderanza europea: ]a Russia si prefigge uno scopo lontano, e aspetta l'occasione propizia, che è ]a caduta dell'Impero Ottomano. Insomma, «la preponderanza che [i russi] sperano è dell'occupare quelJe bocche del Danubio dove metterà capo un dì o l'altro il commercio europeo, dell'occupar quel Bosforo o quell'E11esponto onde il dominerebbero. Questa è la preponderanza che sarà sogno o realtà, secondo che saprà ordinarsi a resistenza l'Europa incivilita». 113 La caduta dell'Impero Ottomano provocherà in Europa grandi mutamenti, che saranno ]'unica, sospirata occasione per realizzare l'unità italiana. Essa provocherà una marcia ad Oriente della Cristianità, destinata ad avere effetti assai positivi: «questa gran diffusione, questo quasi trasporto a Oriente è que1lo che occupa ed occuperà per molti anni e forse secoli quelle che altrimenti sarehhero paci oziose; che sazia e sazierà l'operosità; che contenta e contenterà gli interessi, anche materiali, di tutte le nazioni europee». 114 Ma non è interesse del1a Cristianità che su11e rovine dell'Impero Ottomano nasca un nuovo Impero cristiano: «ciò sarebbe porre uno Stato debole per novità in luogo d'uno debole per vecchiezza; sarebbe impacciarsi della tutela di quello Stato cristiano; come s'è impacciato ora di que1la del mussulmano; sarebbe un'altra mutazione transitoria. Lo sparimento del1o Stato greco è conchiudente». 115 L'unica spartizione diretta dell'Impero Ottomano possibile rimane quella tra 1e due potenze cristiane limitrofe, cioè l'Austria e la Russia. Ma un ingrandimento verso l'Europa della Russia, che occupando le province europee dell'Impero Ottomano potrebbe soddisfare le sue secolari aspirazioni, non è nell'interesse dell'Occidente: quale può essere l'interesse cristiano maggiore? Che s'accresca la Russia? ovvero l'Austria? Che s'accresca di tanto, e si porti a mezzodì ed occidente quell'imperio così oltrepotente già, così ambizioso, così affettante preponderanza universale, come è Russia? Ovvero che s'accresca un imperio tanto meno potente, tanto meno (salvo in Italia) prepotente, così poco ambizioso di conquistare, che indugia quelle stesse che le sono inevitabili, come l'Austria? - Che si
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ivi, p. 89. ivi, p. 94. I JS ivi, p. JOJ. 114
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lascino le bocche del Danubio a chi non ne ha né può aver mai il corso germanico, a chi non v'ha né può avere interesse se non di chiuderlo? che si sottomettano al capriccio russo tutti i progressi commerciali della Germania? Ovvero, che si diano quelle bocche, e il corso inferiore di quella gran comunicazione germanica ed europea, a chi ha già tutto il corso superiore, a chi ha interesse a trarne tutto il profitto possibile per sè, e per altrui? - Che si aggiungano per contrafforto alle chiuse del Danubio le chiuse del Mar Nero, e si faccia di questo un lago, una darsena, un dick russo, dove s'esercitino e progrediscano tranquille le armate navali di quella potenza, per iscendere in poco più d'un dì nel Mediterraneo, e cadere in tre sul gran passaggio orientato di Alessandria e di Suez, e in dodici o quindi giorni su qualunque altra stazione navale greca, austriaca, italiana, inglese, francese o spagnuola? Ovvero, che sottoposti Bosforo e Dardanelli insieme colla costa occidentale ad Austria, non solo si confermi l'utile che verrebbe alla Cristianità dell'apertura del Danubio, ma si divida così il Mar Nero tra due grandi potenze, non si lasci esser lago di nessuna esclusivamente, non occasione ed aiuto ad affettar niun imperio nel Mediterraneo? - E, che si lascino poi tutti questi accrescimenti ad una potenza, la quale non avrebbe se non un compenso occidentale da dare, ma che non vuole e dichiara non volerlo dare? Ovvero che si concedano ad una, la quale ha compensi numerosi da dare ad Ovest, a Nord-Ovest; e la quale per esempi antichi e moderazione presenti si deve credere disposta a que' cambiamenti di territori a che ella s'adattò sempre?' 16
È senza dubbio preciso interesse dell'Austria trasportare la propria potenza principalmente sul Danubio: ma questo è anche l'interesse italiano e, più in generale, dell'intera Cristianità. L'espansione dell'Austria verso Oriente non sarebbe che la continuazione di un processo storico, nel quale l'Austria tende ad abbandonare le province occidentali per cercare compensi all'Est. Così facendo il movimento slavo, quel movime nto che s'annuncia e minaccia o fa sperare da ogni parte, può riuscire a pro d'Austria più facilmente forse che a pro di Russia. E lo Stato che ne risulterebbe sarebbe uno de' più omogenei de' più naturali, de' più conformati a difesa, a commerci, a conservazione ed a progressi, che sieno in Europa o sulla terra; sarebbe non solo l'antemurale presente in Europa, ma, se non ingannino tutte le modalità cristiane, sarebbe un giorno o l'altro·il nodo della cristianità europea colla asiatica.
116 ivi,
p. 103.
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Se non lo farà da sola, l'Austria sarà spinta verso Oriente dalla Germania, che non può prendere parte all'espansione verso Oriente se non spingendo avanti l'Austria sulle province turche, e la Prussia sulle polacche. Infatti l'Austria non può avanzarsi orientalmente senza che s'avanzi Prussia; la nazione germanica spinge a spalle l'una, a spalle l'altra. E la nazione germanica è ab antico invincibile nelle sue spinte. Barbara, invase il mezzodì. Incivilita, invaderà quell'Oriente d'Europa che dal Baltico all'Adriatico scarseggia di popolazioni [... ]. Non è utopia questa, che Germania abbia a popolare l'Oriente d'Europa; è utopia all'incontro il pensare che si possa popolare l'Oriente di Europa fuorché da' Germani vicini; utopia il credere di poter fondare Stati nuovi e rari di popolazioni, là così appresso a Stati vecchi e rari di popolazioni, là così appresso a Stati vecchi che ne sovrabbondano; utopia massima il credere che basti niuna potenza umana a fermare il gran movimento orientale e peggio che mai a farne uno di direzione opposta. 11 7
Lasciando Ja Polonia all'influenza prussiana, la Russia abbandonerebbe l'obiettivo del1a preponderanza ad Occidente. Quest'ultimo non può essere da essa perseguito contemporaneamente all'espansione verso Oriente, perché l'Oriente e l'Occidente della Russia sono così distanti, «da non potervisi fare que' trasporti di eserciti, di navi, di forze e di attenzione stessa, i quali son vantaggi della posizione centrale né paesi più piccoli». La diffusione del1a civiltà russa verso Oriente, rimpiazzando l'Impero turco, seguirebbe la via naturale e sarebbe impresa «legittima, santa, applaudita, aiutata da tutti »; ìl contrario avverrebbe se la Russia guardasse a Occidente. I confini naturali della Russia sono «a Nord-Ovest, là dove più o meno incomincia Polonia; a Sud-Ovest, là dove incomincia Ungheria, la sorella di Polonia, là dove estendendosi Russia abbraccerebbe Ungheria ed Austria, che non possono lasciarsi così abbracciare ed irretire». m Le province europee abbandonate sarebbero più che compensate da quelle asiatiche che la Russia potrebbe facilmente acquistare, «da Sinope od anche Scutari fino ad Erivan od all'angolo occidentale od anche all'orientale del Caspio». E mentre le province occidentali non sarebbero mai strumento di vero progresso per la Russia,
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ivi, pp. 109-110. ivi, pp. 122- 123.
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all'incontro, le sponde meridionali del Mar Nero aggiunte alle settentrionali ed orientali, facendo della metà orientale di questo un vero lago russo possibile, chiuso da Sinope e Sebastopol, aprirebbero le bocche di tutti i fiumi russi ad un commercio orientale perpetuo, ed indipendente dal Bosforo. E il grande istmo del Caucaso, già russo di nome, ma che non sarà tale di fatto fin che non sien russe le sponde del Mar Nero e del Caspio, accrescerebbe ancora questo commercio russo - asiatico. Le sponde meridionali del Caspio per sè stesse poi, aprirebbero nuova via, nuove comunicazioni alla Russia europea e all'asiatica insieme. E questo sl che può e debbe un giorno o l'altro esser tutto intiero lago russo, senza chè nessuno lo possa impedire né disfare mai più. 119
Il destino della Polonia viene a dipendere dalla marcia della Russia verso Oriente, così come quello dell'Italia dipende dall'espansione austriaca lungo la stessa direttrice. Nella visione di B ., Polonia e Italia sono due nazioni a1 momento sofferenti e divise, con un destino e un ruolo comune. Esse devono essere unificate nell'interesse della cristianità, e «si voglion quindi costituire, anziché non niun Stato nuovo, niun imperio greco o slavo o che fosse; se pur si voglia dar costituzione, ordinamento, stanziamento, pace durevofe, conservazione e progresso alla Cristianità». Ambedue queste nazioni per l'Europa Occidentale hanno un ruolo di antemurale: la Polonia accanto all'Austria sarà, sul continente, 1'«a1tra potenza intermediaria tra l'Europa e l'Asia della futura cristianità>>, l'Italia è destinata a svolgere la stessa funzione nel Mediterraneo e nei riguardi del Medio Oriente. Ma la Polonia ba una storia e un destino diversi da quelli dell'Italia: il suo futuro sta nelJ'affratellamento «colla sua nobil vicina Germania». Poiché le nazioni slave in passato hanno «invaso barbaramente le germaniche, e si incastrarono, si frammischiarono l'une col1'altre», sarebbe ormai difficile, anzi impossibile, separarle: «fu già un regno polacco-prussiano; forza è che sia un regno prussianopolacco. Le congiunzioni innaturali non durano; ma le naturali si rinnovellano». 120 In seguito all'incontro e allo scontro del movimento slavo con il contrapposto movimento della cristianità verso Oriente, gran parte della nazione slava è destinata a unirsi a quella tedesca: diverso e opposto il caso dell'Italia, che invece è destinata a separarsene. Per l'Austria «non si tratta dell'alternativa di tenere Po o prender Danubio, ma di prendere o non
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ivi, p. 125. ivi, p. 108.
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prendere il Danubio come compenso al Po, da perdersi un dl o l'altro ad ogni modo». 121 Come già detto, se le grandi potenze cristiane lasceranno cadere l'Impero turco e ne raccoglieranno le spoglie secondo gli interessi universali, «la questione così sciolta porterà naturalmente da sè l'inorientarsi d'Austria, l'abbandonar essa l'Italia, il farci quasi dono dell'indipendenza, cioè la più bella e più facile delle occasioni per noi». 122 Vi possono anche essere - secondo B. - altri due casi, che ciò le grandi potenze occidentali pur lasciando cadere l'Impero turco lo spartiscano in vario modo senza riguardo agli interessi comuni della cristianità, oppure che si continui a tenere in piedi come si può un Impero in rovina, raccogliendone qua e là qualche frantume quando capita. Comunque vada, per l'Italia si presenteranno sempre delle occasioni, tenendo presente che una pace buona satisferà anche a noi; una cattiva non durerà; e qualunque guerra grande darà occasioni, non importa quali, quante o quando sien per essere; l'interesse, il dovere di valercene per acquistar l'indipendenza riman lo stesso. Nel primo caso del buono ordinamento della Cristianità, non solamente sarebbe vergogna a noi l'accettare, ma è improbabile che ci si faccia il dono dell'indipendenza, intieramente gratuito ed immeritato. Nel secondo e nel terzo caso delle moltiplici occasioni, niuna di queste rimarebbe occasione ad oziosi. 123
A ciò si aggiunga che l'Italia, pur pesando di meno che la Francia o la Germania, potrebbe dare all'Austria la spinta di gran lunga maggiore per la sua marcia verso Oriente: «alcuni di noi siamo la piaga maggiore che ella abbia in corpo; alcuni altri siamo i più pericolosi vicini di lei. A noi sta facile farle sentire l'acerbità della piaga, affinché ella pensi ai rimedi; farle sentir crescente il pericolo della vicinanza, affinché ella pensi al proprio trasporto». 124 L'esame della politica e degli interessi della Francia e della Inghilterra, cioè delle due grandi potenze che dominano il Mediterraneo, aggiunge nuovi argomenti non solo alla necessità di un'unificazione italiana, ma anche alla futura, insoppimibile e naturale vocazione marinara del nuovo Stato. Al di là delle diffuse ostilità del momento contro la
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p. 128.
122
p. 127. p . 127-128. p. 128.
ivi, ivi, 123 ivi, 124 ivi,
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Francia (alle quali, come si è visto, partecipa in prima Jinea anche i] Gioberti), B. ritiene che per ragioni di carattere essenzia1mente geopolitico e geostrategico Ja Francia «non è né sarà più mai signora nostra; ha interesse a scemar Ja signoria straniera, e ad accrescere le signorie italiane in Italia, è ]'alleata nostra più naturale, l'auditrice principa le all'occasione, e tal sarà quanto più s'assoderà». Oltre ad avere un ben definito confine naturale con l'Italia sulle AJpi, nella questione orientale la Francia ha interesse ad allearsi con l'Austria e l'lnghi]terra, per diverse ragioni: a) la Francia è più interessata di tutti ad evitare un accrescimento della Russ ia - sua naturale rivale su] continente - verso Occidente; b) Ja Russia non si deciderà mai a cedere province in Occidente, se non con la forza; so1o l'Austria potrà indurla a fare questo; c) i compensi in Occidente li accorderà più facilmente l'Austria, che vi è abituata, e ne ha da dare a parecchie potenze intermedie, che poi li cedere bbero alla Francia; d) la Francia sarebbe interessata alla nascita di una potenza navale austriaca nel Mar Nero, «la quale sarebbe seconda in quel mare, e quarta nel Mediterraneo, e farebbe tanto più diffici]e che quello o questo diventino mai tutto d'una». Finalmente, anche la Francia ha interesse a che l'Italia sia indipendente: essa «è e sarà sempre la gran potenza che raccorrà intorno a sè le minori occidentali, e che non potendo]e temere emule, ha interesse a farle forti alleate». 125 La spinta comune dell'Italia, dell'Austria e della Prussia verso Oriente oltre che per l'Europa, va bene anche per la Francia, che ha già avuto la sua parte dell'Impero ottomano e alla quale l'Algeria basta e avanza: ma - si chiede il B. - tutto questo non susciterà l'oppos izione dell'Inghilterra? «non sorgerà ella, la tiranna dei mari, la ambiziosa, la avara. la perfida Albione, ad impedir secondo il solito il ben di lutti, per far monopolio di tutto ella stessa?». 126 Non v'è ragione di aver timori: premesso che Inghilterra e Russia «sono le due sole potenze che possono operare in grande la diffusione orientale della civiltà cristiana», 127 all'Inghilterra interessano soprattutto i mercati d'Oriente, dove si trovano oltre cento milioni di suoi sudditi. Perciò l'obiettivo di gran lunga maggiore dell'Impero britannico nella questione turca è «aprirsi la via tanto più corta d'Egitto, e la certezza che egli serberà a qualunque costa quella via, e la probabilità che egli se l'assicurerà ed aprirà ancora di più». 128 125
ivi, p. 115. ivi, p. 116. 127 ivi, p. 122. 128 ivi, p. 11 8.
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AI di fuori dell'Egitto o di qualche base ad esso vicina, l'Inghilterra non ha, né può avere o desiderare altre conquiste territoriali, in Europa o in Oriente. Anzi, essa incomincia a sentir il peso dell'imperio suo. Ha più regioni vacue che non ne può popolare; ha più colonie che non profitti da esse; ha forse più posti navali che non le sono necessari a mantenere la sua prepotenza (sic) marittima; e se alcuno le ne manca, ella il prenderà probabilmente senza scrupolo, ma lo prenderà quanto più ristretto, affinché le costi quanto meno, come si vede aver fatto in Aden e in vari altri ultimi acquisti. 129 È interesse inglese che il Mar Nero non diventi un lago russo, e che quindi l'Austria controlli la parte maggiore possibile delle sue coste. È interesse inglese che una sola potenza controlli le bocche e il corso del Danubio, e che a tale potenza appartengano anche gli accessi del Mar Nero. È del pari interesse britannico che la Francia trovi compensi sul continente, «affinché essa non ne pretenda de' marittimi in Levante, in Siria, nell'isole imminenti all'Egitto, dove Britannia ha diritto, dovere e volere di signoreggiare». 130 Infine, è sempre interesse britannico che l'Italia diventi indipendente, perché l'Inghilterra, essendo la nazione più progredita in campo industriale e commerciale, è sempre la prima a trarre vantaggio dal sorgere di nuovi Stati nazionali. E se è interesse francese che nel Mediterraneo nascano altre potenze navali oltre ~l'Inghilterra, quest'ultima a sua volta ha interesse che in questo mare vi siano altre potenze navali oltre quella francese. Per B. il Mediterraneo non dovrebbe essere un lago inglese, né francese, né di nessun'altra potenza: «il Mediterraneo non fu mai lago di nessuno, se non d'Italia due volte; una volta nell'antichità e una nel Medioevo, quando le civiltà e le colture universali furono italiane. Ma dacché la civiltà non può più essere dell'una o della altra sola fra le nazioni cristiane, quando ella non può aver nome né realtà - se non di civiltà cristiana, non è più possibile che quel Mediterraneo, su cui mettono tante di quelle nazioni, diventi mai lago esclusivo di nessuna». 131 Già padrona di Malta e Gibelterra e in procinto di diventarlo dell'Egitto, l'Inghilterra non sembra al B. dominatrice del Mediterraneo, ma solamente sincera alleata contemporaneamente dell'Austria, della Francia e dell'I-
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130 13 1
Ibidem. ivi, p. 119.
Ibidem.
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talia. Nella questione d'Oriente, essa si è schierata a difesa dello status quo solo quando ha previsto che i mutamenti sarebbero andati ad e-
sclusivo vantaggio della Russia; e in futuro non mancherà di aiutare le predette nazioni a trar profitto dalla caduta dell'Impero ottomano, se non altro per non correre il rischio che essi diventino profitti russi. In questo mare non ci saranno contese tra Francia e Inghilterra, perché la conquista definitiva dell'Algeria ottenuta dalla Francia senza opposizione dell'Inghilterra significa «divisione irrimediabile dell'Imperio del mediterraneo tra Francia e Inghilterra; e limite anche qui posto al primato dell'ultima». 132 Lungi dall'essere un danno per noi, l'azione concorde di Francia e Inghilterra nel Mediterraneo rientra soprattutto negli interessi dell'Italia. Se la Francia controllerà - come già sta facendo - la parte occidentale, e l'Inghilterra la parte orientale nella quale vi è il passaggio verso il suo grande Impero, ambedue si opporranno al1'avanzata della Russia, cioè «della sola potenza che può far pericolare tutti i destini del Mediterraneo, dirigendo e determinando tulle le mutazioni inevitabili de' popoli ripuarii orientali, da cui que' destini dipendono in somma». 133 Vi è anche un'altra speranza per l'Italia: quella che dell'alleanza tra Francia e Inghilterra entri a far parte anche l'Austria, formando così una «triplice alleanza» che ci farebbe diventare alleati commerciali o anche politici della stessa Austria: ma intanto, a difetto della alleanza principe, perché non accostarci alla duplice? Commercialmente e politicamente, per adesso subito, e massime per l'avvenire, qualunque alleanza nostra con quelle due potenze ci vorrebbe tanto e più, che non qualunque lega doganale tra di noi. Mentre approfitteremmo di quell'unione, noi la stringeremmo con l'addervi. E notate i.:ome i.:iò concordi con ciò che accennammo dell'avvenire possibile delle strade ferrate. 134 Nel Mediterraneo vi è dunque spazio anche per la futura Italia indipendente. La visione del ruolo marittimo dell'Italia che ha B. è come poche equilibrata, sia perché attribuisce pari importanza alla marina mercantile e militare, sia perché è lungi dal prospettare obiettivi sporporzionati, come il dominio del Mediterraneo da parte nostra.
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ivi, p. 305. ivi, p. 306 (2• appendice). 134 ivi, p. 307 (2" appendice). 133
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Tutto ciò che egli dice sulla professione militare in genere si applica anche al servizio nella Marina, e quindi io non mi fermerò ad essa, se non per far osservare, che è gran danno ch'ella non sia promossa al paro della milizia nei due grandi e militari principati italiani [cioè Napoli e il Piemonte N.d.a.], ed anche meno negli altri. Forse, la non buona direzione che fu data alle nostre marinerie fin da' primi anni dopo le restaurazioni, è quella che, avendole fatte quasi inutili in così poco tempo, le fa ora trascurate. Fin da quegli anni uno de' primi uomini di mare inglesi, che era pure uno de' più pratici del Mediterraneo, dava consiglio che le nostre marinerie si componessero principalmente od unicamente di navi piccole atte a costeggiare e correre in tutti gli angoli de' nostri mari. E nota che non erano allora quasi usate ancora quelle navi a vapore, e non inventate quelle lunghe e grosse artiglierie, che hanno ultimamente dato tanto vantaggio alla marineria numerosa e piccola sulla grossa e rara, per la maggior parte delle operazioni navali nel Mediterraneo; s'era lontani dagli esempi di Beyruth e di San Giovanni d'Acri; ondeché se il consiglio era buono allora, ei sarebbe ottimo adesso. E tuttavia ei non fu seguito né allora né adesso; non allora, per isfiducia, vanità, trascuranza ed amor degli usi vecchi; non adesso, perché i nostri erarii non sono tali da .p oter rifare una marineria nuova, oltre l'antica, come van facendo Inghilterra e Francia. Ma, non potrebbesi almeno trarre tutta a noi ed ampliare quella navigazione tra una parte e l'altra della nostra penisola, la quale si fa in parte su navi e da compagnie straniere? Non potrebbero sorgere più compagnie nazionali? O a lor difetto, i governi? Certo questa è di quelle industrie le quali si dovrebbon tenere e dire governative o politiche, perché è interesse non solamente economico, ma politico de' governi, che s'esercitino da' nazionali; ondeché è il caso di promuoverle ed esercitarle i governi a difetto delle compagnie. Ei non si dovrebbe perder d'occhio mai quell'avvenir piuttosto certo che probabile, quando le operosità del commercio, della guerra, delle diffusioni d'ogni sorta, quasi tutte le operosità cristiane, ripasseranno per il Mediterraneo, a modo del Medio evo. Nel Medio evo l'Italia n'aveva il primato, quasi il monopolio. E, poeti camente, oratoriamente, sarebbe più bello dire: riconquistiamolo; ed altri forse il direbbe. Ma io non dico nemmeno: facciamoci eguali a Francia od Inghilterra. Questa egaglianza potrebbe si ottenersi un dì; ma ora ne siamo così lontani, che io dirò solamente; prendiamo pure una parte minore, ma notevole e proporzionale. La gran vergogna è non averne quasi nessuna; veder passare e ripassare nuvoli di navi straniere intorno alle nostre marine, noi collocati così favorevolmente in mezzo al mare che fu giù tutto nostro, ed or sembra di tutti, fuorché di noi. Pochi anni or so-
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no, quando le navi austriache aiutavano le inglesi sulle coste di Siria a decidere uno degli episodi più importanti della questione orientale, italiane erano per la maggior parte quelle navi, ed italiani que' marinai. Ma non fu egli vergogna e danno, che non fossero se non sotto bandiera straniera? E senza dubbio, in uno o in altro modo, o tosto o tardi, risorgeranno guerre non dissimili. Non risorgeranno allora navi e marinai italiani a prendervi parte sotto bandiera italiana? Certo, se Napoli e Piemonte, emulando sè stessi, apparecchiassero marinerie come eserciti, e gli altri principi italiani emulassero quei due nell'una e l'altra di quelle forze materiali, il complesso di queste sarebbe tale da pesar gravemente nella decisione di quella gran questione cristiana; e da preponderar poi nella speciale italiana, che ne sarà dipendenza necessaria. 135
Dal punto di vista commerciale l'Italia dovrebbe sfruttare appieno «la nostra mirabile posizione attraverso a quel Mediterraneo, attraverso a cui s'è ricondotta, senza fatica né merito nostro, la via del commercio universale». Posizione, quella dell'Italia, ancor più invidiabile, visto che il B. già prevede l'apertura dei canali di Suez e Panama, che «sarebbe gran rivoluzione, gran progresso» per il cornmercio 136• In particolare, già l'istmo di Suez è un incomodo. Chi può prevedere che rimarrà gran tempo, mal aperto com'è? Che quando siano moltiplicate, agevolate le comunicazioni in tutta Europa e tutto il Mediterraneo di qua, nelJ'lndie, e tra l'India e la Cina, e tra l'India e Suez al di là, l'istmo di Suez rimanga a lungo, quasi un'interruzione, abbandonato alle comunicazioni patriarcali sui cammelli? Ma mentre io scrivo, sarà forse incamminato il progresso primo; e in breve le locomotive accresceranno il tragitto, e il tragitto accresciuto domanderà un canale, e il canale sforzerà a guarentigie, e le guarentigie a nuovi gradi di preponderanze, dominazioni e domini cristiani. 137
I vantaggi della nostra posizione ci possono venire solo dalla vicinanza con l'Oriente, che può rendere i nostri prodotti più facili da smerciare in Oriente e al tempo stesso i prodotti dell'Oriente più facili da smerciare in Italia. Bisogna però rendere i nostri porti anche scalo e deposito; ma al momento, «niun porto nostro non è mercato né scalo necessario, non è se non facoltativo, e non sarà adoprato se non sarà mercato grosso e approdo facile». Questo non potrà avvenire se non con l'u135 136
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ivi, p. 143. ivi, p. 220. ivi, p. 299 (2• appendice).
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nità nazionale, grazie alla quale i porti che ora servono solo le ristrette economie locali diventeranno «mercato, deposito, transito di tutta o molta Italia», incoraggiando così l'approdo di navi straniere e sviluppando di riflesso l'industria e il commercio. Occorre incrementare la navigazione - specie di piccolo cabotaggio - attraverso l'eliminazione delle barriere doganali dei singoli Stati. La situazione del momento è penosa: or, mentre scriviamo, non è forse gran porto italiano dove non sia qua1che navigazione straniera più privilegiata, in qualche rispetto, che non qualche altra navigazione italiana. È vergogna, è danno grave. Ma, vergogna e danno maggiore, il governo di Roma propose già di equiparare alla propria le navigazioni di tutti quegli altri Stati italiani che volessero corrispondere con simile liberalità: ed a tal liberale proposizione non corrispose finora niuno Stato italia-
no! t 38 Il B. giudica gli anni intorno alla metà del secolo XIX addirittura «climaterici dell'economia pubblica di tutte le nazioni europee», 139 e prevede che in essi si deciderà il nostro avvenire commerciale, industriale e agricolo forse per secoli. Se noi - egli aggiunge - sapremo approfittare della nostra vantaggiosa posizione nel Mediterraneo e sulla via riaperta per l'Oriente, se ne sapremo approfittare meglio delle altre nazioni rivierasche e se sapremo rendere i nostri approdi più facili degli altri, allora le nazioni che non hanno scali nel Mediterraneo se ne serviranno molto, e li utilizzeranno anche quelle che già vi hanno scali. E una volta prese queste abitudini, continueranno ad avvalersene anche quando Francia e Spagna seguiranno il nostro esempio. Questa esigenza rende ancor più indispensabile fare subito una lega doganale italiana, perché altre nazioni hanno più navi, più industrie, più mercati , e noi non possiamo batterle se non liberalizzando il commercio. Sempre in relazione alla situazione del Mediterraneo, C. B. invita al realismo e - diversamente da altri - giudica inopportuno avanzare pretese sulla Corsica, oppure rivendicare il possesso delle coste orientali dell'Adriatico che al momento fanno parte dell'Austria. Certo, la Corsica è una terra italiana, così come italiane sono Malta, Fiume, Spalato, Ragusa. Ma noi, che ora non possiamo se non da lontano ambire Venezia e Milano, rivendicando queste terre non solo ci ren-
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ivi, p. 277 (I" appendice). ivi, p. 218 (l" appendice).
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deremmo nemiche la Francia e l'Inghilterra (il che non è poco), ma anche renderemmo impossibile l'accettazione da parte dell'Austria di compensi ad Oriente. Anche per questo, l'unico accrescimento per l'Italia può avvenire con la cessione da parte dell'Austria delle sue province italiane.
Conclusione
Sarebbe semplicistico, ingiusto e superficiale tacciare B., politico moderato, di essere portatore di un concetto di guerra a sua volta «moderato» e conservatore, e di sistemi di ordinamento e reclutamento che escludono aprioristicamente l'apporto popolare. Nella misura in cui egli vede l'importanza delle ferrovie, delle artiglierie (cioè del fuoco), dei moderni ritrovati bellici, dell'economia e della industria, degli apprestamenti bellici, della logistica di campagna e di produzione, egli è moderno e - diciamolo pure - concreto e pratico. Diversamente gli armamenti navali, i grossi cannoni, le fortezze, le ferrovie ecc. dovrebbero essere considerati solo come manifestazioni di guerra «conservatrice» e non come il nuovo volto della guerra industriale che traspare dalle pagine del B.. Né ci.sembrano privi di fondamento i suoi richiami alle diverse condizioni geografiche, alla diversa indole delle popolazioni della Germania e Spagna e dell'Italia: per riuscire e per durare, le insurrezioni popolari hanno bisogno prima di tutto i un forte collante nazionale e unitario, di qualcosa che proietti la violenza incontrollata e assoluta che esse scatenano, contro lo straniero e non contro i nemici della propria fazione. li concetto di guerra di B. è dunque un'efficace dimostrazione che - come già diceva Napoleone - sono buone solo le truppe che vincono, e che, rispetto alla politica, la guerra è pur sempre una grammatica con le sue autonome regole tecniche da rispettare, così come voleva Clausewitz. Fin da adesso possiamo dire che lo studio dell a logistica delle campagne del Risorgimento ha dato ragione a B., perché ha dimostrato che la razionale organizzazione di comando, la logistica e i trasporti, sono premesse indispensabili per il buon rendimento di una qualsivoglia compagine militare, e inoltre hanno effetti primari sul morale. La stessa mobilitazione di volontari - magari carenti di addestramento ma animati da entusiasmo e amor di Patria - per dare tutto ciò che può dare aveva bisogna di un contesto organizzativo minimo, nel quale fossero assicurati dalla struttura permanente preesistente almeno l'organizzazione di comando, i Servizi logistici fondamentali, un buon inquadramento almeno
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ai livelli più alti e una condotta strategica razionalmente unitaria delle operazioni. B. è certamente influenzato, nelle sue vedute militari, dalle particolari opinioni politiche, cosa che peraltro avviene per qualsivoglia autore: ma più che espressione di un uomo d'apparato, di un intellettuale «organico», di un gretto e miope conservatorismo anche militare, la sua opera è la voce forse un po' disincantata, ma generalmente realista di un tecnico, di uno che - diversamente dal Gioberti - ha vissuto i problemi, oltre che per scienza, per esperienza diretta. Realistica anche la sua visione dell'importanza del morale specie per un popolo - come l'italiano - da secoli disavvezzo alla milizia: non vi poteva, non vi può essere dubbio che senza reale, decisa e unanime volontà di combattere non vi sonoricette strategiche che tengano, quindi gli italiani avrebbero dovuto prima di tutto essere decisi e fermi nel combattere loro stessi - uniti - per la loro indipendenza. Questo però - lo dice lui stesso - era il difficile; e questo è anche il punto di maggior caduta dell'intera sua opera. Perché, pur essendo più realista del Gioberti, anche B. finisce con il prospettare soluzioni ntilitari che non sono in accordo con quelle politiche (peraltro anch'esse vaghe e precarie) e implicano improbabili e improvvise metamorfosi degli italiani, i quali dovrebbero perdere all'improvviso i loro difetti storici e remare tutti insieme nella direzione e fino in fondo. Se sarebbe stato sempre difficile - anzi praticamente impossibile - mettere d'accordo i Principi, non si vede come avrebbero potuto meglio operare insieme e sotto comando unico i loro eserciti, né si vede, concretamente, come città e campagne avrebbero potuto improvvisamente acquistare - tutte - quello spirito combattivo ineguagliabile nel quale si erano distinte città e campagne spagnole. Per questo la sua insistenza sull'esempio spagnolo può esser condivisa solo a metà; essa vale solo come pretesto per interessanti e anche condivisibili riflessioni, come dimostrazione che in Italia difficilmente si potevano prevedere operazioni sul modello napoleonico. Ma per quanto da lui stesso osservato sul carattere degli italiani - una siffatta guerra poteva essere fatta solo dagli spagnoli, con l'aiuto degli inglesi. Non c'era nessun Piemonte, nessun regno di Napoli, nessun Stato della Chiesa né tanto meno nessuna esterofilia in Spagna; e in tutto quanto osserva B., anche se non nelle deduzioni che ne trae, compare distintamente lo scenario della guerra del 1848, con l'incerta unione degli italiani e la sostanziale solitudine piemontese, la cui leadership militare (non poteva essere altrimenti) aveva - e avrebbe dimostrato di avere anche dopo - tutti i difetti della «schiatta» messi in luce dallo stesso B.. La parte più significativa e apprezzabile della sua opera va invece
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ricercata nelle riflessioni di carattere geostrategico e geopolitico specie a proposito del Mediterraneo, finora ingiustamente ignorate dalla critica storica. Anche tra di esse vi sono punti non condivisibili, come l'auspicata ma improbabile aJleanza tra Francia, Inghilterra e Austria nel Mediterraneo, che soffocherebbe certamente quella ltaJia marinara da lui pur auspicata: d'altro canto non vi è dubbio che i destini dell'Italia dipendevano da favorevoli contingenze e buone alleanze, e che solo Austria e Prussia avrebbero potuto fermare l'avanzata russa verso Occidente. Un'Italia forte anche sul mare e percorsa da buone vie di comunicazione con buoni porti ed empori era ed è un naturale anello di congiunzione tra Europa e Oriente, oltre che un utile antemurale anche nei riguardi delle pretese russe da questa parte. Purtroppo ciò avrebbe richiesto quel concorde operare degli italiani, che la stessa analisi geopolitiche del B. portavano ad auspicare, ma a'isai di meno a ritenere concretamente possibile. Chiudiamo la nostra analisi constatando che la pubblicazione degli Scritti militari a cura del Passamonti riempie un vuoto, ma a parte le non sempre centrate considerazioni del curatore e l'assenza di un'analisi critica organica, potrebbe essere fuorviante: perché scritti militari debbono anche essere considerate anche non poche sue lettere e non poche (e non trascurabili) pagine de Le Speranze d'Italia. Solo l'esame organico di tutte le sue opere può restituire a B. scrittore militare tutta la sua impronta, anche rispetto al Gioberti. Da quanto abbiamo detto, già emergono a sufficienza i punti di contrasto: i due piemontesi sono comunque concordi nell'assegnare un ruolo predominante al loro Stato, nel voler fare del Papa un protagonista attivo dell'unità nazionale, nella presa di coscienza dei problemi del Mediterraneo e della questione d'Oriente. È quanti basta per dare alla loro opera quel carattere moderato, neo-guelfo e piemontese che la contraddistingue, e al tempo stesso per farla uscire dalle angustie di prospettive locaJistiche.
CAPITOLO XII
IL MODELLO «ANTI-GUELFO» DI GIACOMO DURANDO NELLA «NAZIONALITÀ ITALIANA» (1846): NASCITA DELLA «GEOSTRATEGIA» E SUOI RAPPORTI CON LA GEOPOLITICA NELLA CONQUISTA DELL'UNITÀ NAZIONALE
SEZIONE I - La «geostrategia»: genesi delle nazionalità
Motivi ispiratori della «Nazionalità italiana» (1846) e dell'opera del Durondo · Sotto diversi aspetti il generale piemontese Giacomo Durando (da non confondere con il fratello Giovanni) è una figura a parte nel panorama politico e culturale del Risorgimento: ]a sua opera merita pertanto il dovuto rilievo. Dottore in legge ed esule per motivi politici, si guadagna i gradi sul campo combattendo sotto bandiere straniere. Nel 1846 pubbHca in Svizzera la sua opera più importante, Della nazionalità italiana - saggio politico - militare, alla quale principalmente ci riferiremo. 1 Rientrato in Piemonte nel 1844, vi ricopre importanti incarichi militari e di governo. Nella sua vita e nella sua opera si distinguono, dunque, due momenti: la contestazione alla politica piemontese fino al 1844 e l'adesione alla monarchia sabauda dopo il 1844. Come quelle dei suoi conterranei Cesare Balbo e Vincenzo Gioberti, la sua opera letteraria è incentrata sul concreto problema politico-militare e strategico dell'indipendenza nazionale, ma la sua visione è assai diversa. Vede nella Chiesa un fattore ritar-
1
Giacomo Durando, Della nazionalità italiana - saggio politico-militare, Losanna, S. Bonamici e compagni 1846. Sulla vita e l'opera giovanile si vede anche D. Di Sambuy, Un episodio della giovinezza di G. D., «Nuova Antologia» Fase. 1013 - 1• marzo 1914, pp. 128-132. Il libro Della nazionalità italiana viene pubblicato nello stesso anno 1846 anche a Parigi (Ed. A. Franck).
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dante del processo di unificazione nazionale e ritiene che la realizzazione dell'unità nazionale non debba aspettare il maturarsi di favorevoli condizioni internazionali: suo è il motto l'Italia deve fare da sé. Di molto maggior spessore, e assai originale, l'intelaiatura teorica alla quale riferisce il suo programma politico-militare di liberazione della penisola dal giogo austriaco_ Pur tributando i consueti, ormai obbligati elogi aUa scuola di Jomini e dell'Arciduca Carlo e subendone in parte l'influsso, egli spesso se ne discosta dimostrando una visione dei contenuti della strategia più realistica e flessibile di quella del Balbo e del Blanch. L'aspetto più originaJe - e centrale - della sua elaborazione teorica è la constatazione che le diverse condizioni geografiche sono state storicamente la matrice primaria delle nazionalità e subnazionalità, quindi anche della politica e strategia di ciascun popolo, che nelle grandi linee rimangono inalterate al mutare delle contingenze storiche. Il D., perciò, può ben dirsi il primo - in Italia e fors'anche in Europa - a basare il succo delle sue teorie militari su considerazioni tipicamente geopolitiche e non aridamente tecniche, e a usare quel termine geostrategia comunemente attribuito, oggi, a autori stranieri molto più recenti. Il significato di geopolitica e geostrategia 2 è tuttora assai incerto e controverso. Basti per il momento dire che per il D. non si tratta tanto di esaminare l'influsso - già alJora ampiamente scontato e (almeno per la strategia) ritenuto spesso determinante - della geografia sulla politica e sulla strategia, ma di fare della geopolitica e geostrategia l'inverso di quello che molto tempo dopo avrebbe voluto Karl Haushofer_ Dunque non uno strumento al servizio di un progetto politico, ma il riferimento primario e storicamente verificabile - secondo linee costanti - di qualsivoglia progetto politico e strategico. Non sono ambizioni, passioni, sentimenti, prevenzioni, esigenze del momento, ma la geografia a definire i confini naturali, i punti-chiave, gli obiettivi e le ragioni di contrasto tra i vari popoli o tra le singole etnie, la cui prima origine va ricercata negli ostacoli e nelle linee di facilitazione per la progressiva espansione dei vari nuclei, creati dall'ambiente naturale. Essa diventa, dunque, anche l'unica fonte di legittimazione dei confini e delle aspirazioni delle varie nazionalità_ Da questi concetti generali il D_ deriva la parte applicativa, che si riassume nella ricerca del miglior modo di creare in Italia le condizioni
2
Sui significati attuali di geopolitica e geostrategia Cfr. la voce Geopolitica compi-
lata da Carlo Jean in Enciclopedia delle Scienze sociali.
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geopolitiche e geostrategiche necessarie perché l'Austria si ritiri di sua volontà al di là dei confini naturali della nazione italiana. L'opera «La nazionalità italiana» va dunque divisa in tre parti ben distinte, da esaminare in stretta successione logica: una parte teorica; una prima parte applicativa concernente l'Italia e il suo rapporto con l'Austria; una seconda parte applicativa concernente il contesto internazionale nel quale potrà maturare la lotta per l'indipendenza nazionale. Questo è, nelle grandi linee, il pensiero del D.; ma sarebbe errato restringere i suoi meriti al campo puramente politico-militare e geo-strategico. Per capire il movente morale che ispira un'opera tutt'altro che aridamente scientifica, occorre andare al periodo della contestazione giovanile delle istituzioni piemontesi. Nel messaggio che egli nel 1831, cioè a 24 anni, indirizza al Re e che - a quanto egli dice - «fu sparso per tutto il Piemonte, producendo sugli spiriti esterrefatti un'incredibile pressione», si trova un concetto di piena attualità: il controllo popolare e democratico è la unica via percorribile se si vuol veramente migliorare l'efficienza delle istituzioni e farle aderire all'interesse generale. Al centro del messaggio (che - non può sorprendere - costringe il D. a prendere definitivamente la via dell'esilio) è il concetto di Nazione, la quale «ha ricevuto l'impulso della civiltà generale e chiede di essere a parte della cosa pubblica, perché sente il bisogno di sapere, di ragionare, di conoscere sè stessa, e d'illuminare V.M. sui mezzi maggiori di governarla». Sul piano generale, per il D. l'amministrazione del Regno di Sardegna conserva tutti gli antichi difetti già duramente condannati dal Filangieri a fine secolo XVIII (vds. capitolo VT): il pubblico erario è esausto. Le contribuzioni dirette già soverchiano le risorse territoriali; le indirette sono oppressive, intollerabili; [...) perché? Perché il denaro che esce dalla fronte sudata del vostro popolo è prodigato ad impinguare le più alte e più inutili persone dello Stato... Una siffatta situazione di ingiustizia e di degrado coinvolge direttamente anche l'istituzione militare, numericamente consistente, costosa ma inefficiente prima di tutto dal punto di vista morale: con animo di adunare tutto il potere in un sol ceto, avete fatto d'un imbecille un economista, d'un bacchettone un uomo di guerra, d'un ignorante un magistrato, d'uno stupido un amministratore. Le finanze non possono pareggiare le spese di un'armata così numerosa, che i raggiri dell'Austria vi fanno credere necessaria; gli uffici amministrativi intralciati e non ben collegati tra di loro sono privi di
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unità nelle operazioni e d'intelligenza fra i Capi [ ... ]. Una classe di favoriti ha occupato il monopolio dei diritti e dei privilegi, e fa pesare la sua mano di ferro sulla classe industriosa della società[ ... ]. L'armata non ha forza morale perché composta d'elementi fra sè contrari, di corpi privilegiati, di brigate varie frn loro di dottrine, di lingua (sic), di diritti, comandate da Capi inabili, e promossi non già per merito, ma per favore. Dè militari una parte è avvilita perché si vede preclusa la strada ai gradi maggiori, e tutti sono indignati dai. maneggi del vostro governo, il quale medita di trafficare la loro vita col gabinetto d'Austria. Che sono mai divenuti gli uomini che vi difesero all'Assietta, a Guastalla, a Cosseria? Sono tutti schiavi del Machiavellismo Austriaco, hanno a loro capo un emi·ssario del nord [chi? N.d.a.], che sotto colore di riordinare le milizie cerca nelle truppe un appoggio per vender voi e la vostra nazione al comune oppressore. Ma che spera egli dai soldati piemontesi? Il loro nome non si confonderà mai col nome tedesco: essi sono e morranno italiani.
Sarà nostra cura verificare se questo giudizio assai critico sull'Esercito piemontese sar~ confermato o meno dalla prova delle armi: intanto si deve constatare che, per il D., senza rinnovare in senso democratico le istituzioni l'esercito non potrà mai essere moralmente saldo ed efficiente, né diventare nazionale e italiano: questo lo avvicina al Gioberti, e lo distacca dal Balbo.
Teoria della formazione delle nazionalità: geopolitica e geostrategia Gli aspetti teorici meno contingenti e di più diretto interesse militare sono trattati dal D. prevalentemente in appendice e nel capitolo IV sulla formazione delle nazionalità. Si tratta di un controsenso per due ragioni: percqé è questa la parte meno caduca e di maggiore interesse dell'opera, e perché le tesi applicative riguardanti il caso italiano non possono essere ben comprese e valutate senza aver prima penetrato la parte teorica, che dunque costituisce l'intelaiatura dell'opera e dovrebbe precedere tutto il resto. Lo riconosce lo stesso D., il quale ammette di aver commesso un errore nell'ordinare la materia.3 Al centro dell'elaborazione del D. è il concetto di nazionalità: intendo per nazionalità l'unione politica di varie popolazioni associate naturalmente per situazione geografica e artificialmente per
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G. Durando, Op. cit., p. 405.
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lingua, costumi, tradizioni, legislazione, interessi materiali e morali. Queste ultime condizioni artificiali delle nazionalità non sono altro a mio modo di vedere che la conseguenza necessaria del vincolo di sociabilità maggiore o minore prodotto dalla differente ossatura del terreno ove esse vennero a stanziarsi. La situazione o postura geografica determina di un modo inalterabile il carattere geostrategico di un paese, e tanto meglio si assodano le nazionalità quanto più questo stesso carattere del suolo armonizza colle condizioni sociali e politiche di esse [... ]. La nazionalità di un popolo è determinata dal suolo ove egli si svolge e fissa le sue stanze perrnanenti, dagli interessi che lo legano a quel suolo stesso, dai costumi, dalle leggi e dalla lingua che, via via e più o meno lentamente, si foggiano su quelle de' primitivi abitatori. 4
La formazione delle nazioni è un fatto naturale risalente agli albori della civiltà. L'uomo primitivo dapprima si è lasciato spingere solo dalle forze della natura, dirigendosi verso quei luoghi dove era più facile sopravvivere: successivamente - una volta socializzato e incivilito - ha lottato e si è di nuovo diretto verso quelle zone di ostacolo, dalle quali si era in origine allontanato. Ma prima che egli fosse in grado di domare gli ostacoli della natura erano trascorsi molti secoli, «durante i quali il clima, il vitto e molte altre circostanze impressero nelle sue forme sociali un colorito, direi quasi, locale, il quale poi determinò quell'impronta caratteristica di ogni aggregazione sociale che ora viene qualificata col nome generale di nazionalità, e speciale di subnazionaJità».5 Gli ostacoli spesso invalicabili costituiti dalle grandi catene montuose e le vie di facilitazione formate dai solchi dei fiumi, cioè dalle valli, sono stati i due elementi geografici che favorendo o ostacolando le migrazioni e le comunicazioni tra i popoli, hanno determinato la formazione delle nazionalità: «le grandi nazionalità, e tutte le loro derivazioni procedono dal modo con cui venne propagato il primo nocciolo delle schiatte che popolarono il mondo». 6 Le «massime geostrategiche» servono perciò a determinare «il maggiore o minor grado di una nazionalità, le tinte, semitinte e ondeggiamenti che si scorgono in alcune di esse». In tal modo svelano quali sono stati i punti, in cui due popoli sono venuti a contrasto e le linee di divisione tra di essi. Di qui il concetto di confine naturale, che è il limite ben preciso per le migrazioni e per l'espansione di ciascun popolo:
4
5 6
ivi, pp. 58-59 e 135. ivi, p. 422. ivi, p. 59.
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è regola generale che allorquando una grande nazionalità ha raggiunto l'ultimo limite naturale assegnato alla sua espansibilità, e si è costituita a tennini delle leggi geostrategiche e di quelle che reggono la sua potenza di dilatazione etnografica, il complesso di tutti questi limiti che la circoscrivono e la rinchiudono nella propria individualità, forma una serie continua di punti strategici, i quali volgarmente si denominano frontiere naturali di una nazione o di uno Stato.7
Per meglio chiarire le sue tesi, il D. prospetta l'ipotesi che il massiccio del San Gottardo nell'attuale Svizzera, dal quale si dipartono verso mari diversi tre grandi fiumi (il Ticino verso l'Adriatico attraverso l'Italia de] Nord, il Rodano al Mediterraneo occidentale attraverso la Francia e il Reno al Mare de] Nord attraverso la Germania) sia «il centro protostrategico dell'Europa» perché da esso traggono origine le nazionalità italiana, tedesca e francese, nate da un'unica famiglia primitiva che divisa in tre grandi rami ha percorso in direzione del mare i tre sokhi del Ticino, del Rodano e del Reno e ha dato origine a tre distinte nazionalità con diversi caratteri. Non vi è differenza tra espansione demografica e militare. Ciascuna delle tre piccole tribù può essere considerata come un esercito nomade, che vaga alla ricerca di una patria, con un movimento che ricorda quello della lava e delJ'acqua e tende sempre ad aggirare gli ostacoli, mai a superarli: il solo divario consiste in che un esercito ha per sè strade, ponti, armi, e gli strumenti di una civiltà più o meno potente contro un altro esercito posto in eguali o quasi eguali condizioni, mentre quella non ha che le difficoltà della natura contro sè, né s'inoltra se non dissodando il terreno, o spronandolo, intralciata ad ogni passo da un fiume, da una frana, da un rialzo di terreno l---1- La diversità de' climi e del metodo di vita domestica e sociale, generano a principio piccole differenze d'abitudini, ma più tardi gravissime alterazioni e mutazioni ne' costumi, nelle credenze, né riti religiosi e nella Iegislazione. 8
Su una scala più vasta, al San Gottardo corrisponde il Caucaso. Infatti «prendendo a studiare il mappamondo senza preoccupazioni di veruna classe», il Mar Caspio è la via naturale che conduce al centro del-
7 8
ivi, p. 436. ivi, pp. 59-60.
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l'Asia, il Mar Nero è quella dell'Europa, e l'Eufrate è il cammino più facile che conduce all'Africa. Questo è avvenuto perché affinché la terra venisse facilmente popolata, era mestieri che il primo nocciolo produttore o riproduttore della famiglia umana fosse situato in tali condizioni di terreno le quali in certo modo gli spianassero la via alla conquista del mondo; in altri termini, bisognava che la sua prima base d'operazioni comprendesse un teatro di diffusione sommamente strategico [ ... ]. Tale è l'andamento che io chiamo geostrategico delle prime schiatte, genti o nazionalità; cioè questo è il sistema istintivo di guerra, o se meglio piace di occupazione, con cui quelle si schiusero il varco alla conquista del mondo non già combattendo eserciti, o cannoneggiando fortezze, ma battagliando contro gli ostacoli della natura, e quelli delle fiere, come si osserva tuttora nelle Americhe.9 Alla «strategia istintiva», suggerita esclusivamente dalla conformazione del terreno, è subentrata più tardi la «strategia scientifica»: di conseguenza alcune delle prime nazionalità si sono perfezionate, altre si sono confuse, molte sono state distrutte o profondamente alterate. Quando «due genti o razze» si scontrano «nello stesso punto obbiettivo d'operazioni, ossia di diffusione», prevarrà quella che dal punto di vista geostrategico è superiore. Successivamente, con l'apertura di strade e ponti e con la costruzione di fortezze, la razza predominante cercherà di accrescere con mezzi artificiali i vantaggi naturali della sua posizione. E se la razza già vinta tenterà di assalirla, soccomberà nuovamente sotto i colpi di una strategia «non più istintiva ma corroborata dall'arte»: finché, ripetutamente sconfitta, finirà con il confondersi con la rivale, dando luogo a una sola nazionalità: questo cozzare della natura e della civiltà per fondare le differenti nazionalità si modifica incessantemente a seconda delle alterazioni sociali, politiche, morali e religiose di ciascun popolo, ma è sempre subordinato alle prime e quasi inalterabili condizioni geo-strategiche di ciascun Paese. 10 A proposito delle «inalterabili condizioni geostrategiche», il D. precisa che oltre ai rilievi montani possono essere elementi di separazione le paludi e i deserti, ma non i laghi e i fiumi, «fuorché nel caso in cui per
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ivi, pp. 63-64. ivi, p. 68.
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la loro ampiezza, o situazione oppongano un ostacolo talmente insuperabile alla primitiva e rozza navigazione, che ne vengano gravemente incagliate le comunicazioni nazionalizzanti».11 È intuitivo che l'ambiente naturale avesse grande importanza per l'uomo primitivo: ma dopo? Secondo il D., sugli elementi di separazione - e quindi di diversità e di contrasto - creati dall'ambiente naturale, l'impatto dei moderni mezzi di comunicazione (strade ferrate, piroscafi) e del progresso tecnico va ritenuto assai minore di quanto possa apparire: «i risultati sociali e morali non s'improvvisano colla stessa facilità con cui la mina schianta un macigno, o si stabilisce una rotaia di ferro». 12 In conclusione O
I le nazionalità si svolgono generalmente in un senso strategico. 2° Il nocciolo d'una nazionalità stanziato primitivamente in un punto favorevole all'offesa e alla difesa, trionferà sempre, in parità di circostanze morali, di tutte le altre schiatte limitrofe poste in condizioni geostrategiche inferiori_ 3° Dove una gente si sia impossessata del punto di un paese più ac1.:um:iu a promuovere il concentramento nazionale di vari popoli a lei circostanti, e ciò non di meno, per fini religiosi o politici, rinuncia a farlo, riesce impossibile o almeno difficilissima la fusione di questi tentata contro la volontà di quella sola. 13
In prima istanza, da questa intelaiatura teorica si possono trarre due deduzioni di segno discorde. La prima è che il D. fornisce argomenti abbastanza convincenti - e tuttora in buona parte validi - per superare qualsiasi dicotomia o artificioso contrasto tra politica interna o politica estera, e tra politica estera, politica e strategia: tutte riferibili - con qualche semplificazione - a un principio di nazionalità, che è l'unico a giustificare la forma - Stato e quindi anche la sua forma militare, ed a giustificare anche l'esistenza di obiettivi e confini, i quali non possono che coincidere con le barriere naturali. Un'acquisizione «derivata», secondaria ma non meno importante è che il carattere, l'indole delle nazionalità e le loro naturali tendenze si modificano assai lentamente, perché l'impatto su di essi del progresso tecnico è ridotto e ubbidisce a ritmi lunghi. La seconda deduzione è che il D. trascura l'influsso dei mari, fin da allora fattore geopolitico e geostrategico primario e veicolo di espansione, di separazione o di difesa a seconda dei casi e delle epoche. Una geopolitica e geostrategia angustamente terrestri e continentaliste insom-
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ivi, p. 424. ivi, p. 85. 13 ivi, p. 69. 12
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ma, che tolgono respiro alla valenza complessiva della sua opera e la differenziano in senso negativo da quelle del Gioberti e del Balbo, nelle quali il mare - e i1 Mediterraneo - è elemento-cardine. Probabilmente, egli elabora la parte teorica mantenendo fissa l'attenzione alle baionette di una grande potenza terrestre come l'Austria, prima nemica delJ'unità nazionale. E la sua geostrategia assume una netta fisionomia continentalista, là ove afferma che 1e popolazioni marittime finiscono sempre col soccombere rispetto a quelle continentali. Quest'ultime trovano nel dominio della terra, e non del mare, le ragioni della ]oro preminenza: è massima quasi costante in geologia o geostrategia, che le conche e le valli mediterranee, o terrestri formano un altipiano rispetto alle conche e valli marittime, per tal guisa che un popolo il quale abita i lidi del mare è sempre materialmente signoreggiato, se non in fatto almeno potenzialmente, da quello che vive nella conca mediterranea a cui si attiene la conca marittima[ ...] quindi per una schiatta, o per un esercito, ciò che viene ad esser lo stesso, movente dall'alto - piano di una conca mediterranea per invadere e gettarsi in una conca laterale marittima, o che della conca più vicina alle sorgenti de' fiumi discende a quella che sta verso le foci di essi, sono molto minori le difficoltà della dilatazione e della conquista, che noi sarebbero nel senso opposto .... 14
Rimane ora da stabilire con maggiore accuratezza che cosa il D. intende per geostragia e per strategia, e qual'è il loro rapporto con l'attuale geopolitica (o meglio il loro elemento separatore, sempre che ci sia). Chiarendo i diversi significati dei due termini, egli usa persino quello di geotattica, oggi sconosciuto: la strategia è lo studio delle condizioni esteriori del terreno combinato e adattato all'azione differente delle armi. Essa per lo più esamina tutte le parti del suolo in un modo distinto dalla geologia, geognosia, geodesia e geografia, ma si vale di tutte queste scienze in più di una occasione, e ne è, propriamente parlando, il compimento. Onde mi sono servito del vocabolo, credo finora inusitato [nostra sottolineatura - N.d.a.] di geostrategia, ogni qual volta mi occorse di considerare il terreno in astratto e fuori dall'applicazione delle forze organizzate, ma naturalmente sempre in relazione ad esse. Dico perciò: le condizioni geostrategiche, geotattiche d'Italia o di Spagna, quando studio astrattamente l'ossatura e la contestura
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ivi. p. 431.
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del suolo; e dico: mosse o direzioni strategiche, o tattiche, volendo inclicare un'operazione militare eseguita su certi punti determinati di terreno. Separo quindi mentalmente, e per maggior chiarezza, due cose che nel fatto e nelJ'applicazione non vanno mai disgiunte. Non so se nell'uso comune sia conveniente l'adottar questa distinzione; ma trattando specialmente, come feci, della formazione delle nazionalità mi è parso opportuno il valermene, particolarmente rispetto ai lettori estranei o poco addentrati in questa classe di cognizioni.15 Il D. non usa mai il vocabolo geopolitica, anche se inconsapevolmente ne indica in modo organico i contenuti. Ma affermando che «le nazionalità si svolgono generalmente in senso strategico» e facendo della distinzione tra politica e geostrategia solo una questione di mezzi diversi (con la geostrategia o strategia che impiega secondo le stesse esigenze politiche lo strumento nù]itare, e la politica interna e estera gli strumenti non strettamente militari), egli fa della geostrategia solo la patte armata di una politica, che è di per sè geopolitica. Se «eserciti e schiatte» si muovono e interagiscono con gli altri nello stesso modo, allora la politica ubbidisce alle stesse linee di tendenza della geostrategia, e ammette gli stessi obiettivi, gli stessi vincoli e vie di facilitazione nell'ambiente naturale. Quest'ultimo suggerisce il progetto politico/strategico, non si limita a condizionarlo ma è l'ordito costante individuato dalla geopolitica/geostrategia, rispetto alle quali la strategia non è che variazione contingente sul tema. In certo senso, il rapporto clausewitziano o jominiano di dipendenza de11a strategia rispetto alla politica - che ne postula però la separazione - non esiste più: 1a strategia è semplicemente la faccia militare della politica. Anzi: è la politica che dipende dalla strategia, visto che solo quest'ultima porta a buon fine le lotte che creano le nazionalità. E ancora, se ne può dedurre che la politica non ha alcun primato sulla strategia (come voleva Clausewitz) ma con essa si identifica e si fonde, dando origine alla geostrategia:
le conseguenze che derivano dall'intimo rapporto estinte tra i principi strategici e tattici e la genesi delle nazionalità sono immense sotto tutti gli aspetti politici e sociali. Noi ci atterremo a discorrere rapidamente su quelle che si collegano specialmente col nostro intendimento, non uscendo dai limiti dei risultati politico-militari. Primo e principale di tutti essi è la delimitazione delle frontiere 15 ivi, p. 444.
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proprie di ciascuna nazionalità. Quell'eterno dissanguarsi dei popoli per insignorirsi di quei punti che si chiamano frontiere naturali di un paese, aJtro non è se non il conato di una razza, onde riprendere i limiti, che toccò primitivamente quando nella sua dilatazione incontrò ostacoli invincibili pel suo grado di civiltà, i quali per cause estranee vennero occupati da una altra schiatta, a cui geo-strategicamente non dovevano appartenere. E le guerre cessano soltanto allorché se ne toglie di mezzo la causa che le fomenta. Le frontiere politiche detenninate dalla linea de' pioventi [cioè delle displuviali - N .d.a.] principali sono le sole che fanno rientrare le nazionalità che straripano, o quelle che s'impaludarono per cause accidentali, dentro il circolo primitivo in cui si svolsero originariamente; e dal quel momento in poi ciascun popolo se condotto né termini che gli assegnò la natura, non cerca di oltrepassare la propria sfera di dilatazione, o se lo tenta, tardi o tosto soccombe. 16
Militarizzazione della po.litica o de-militarizzazione della strategia? Tutt'e due. Quel che è certo è che il D. non mette sicuramente la geostrategia al servizio di una politica di dissennata e prevaricatrice espansione di una nazionalità o di una «schiatta» - cioè di una razza - a scapito di altre, né intende asservirla a un qualsivoglia disegno politico. La geostrategia serve semplicemente a individuare - per poi perseguirli e difenderli - i confini naturali di ciascuna nazionalità. L'unico elemento perturbatore in questo quadro, è che sia pur nei tempi lunghi le nazionalità sono soggette a modifiche, trasformazioni e fusioni, e può darsi anche il caso che una nazionalità, sconfitta, sia fagocitata dalla vincitrice ... I principi della strategia e quelli della genesi della nazionalità non sono identici in ogni tempo e in ogni luogo: cionostante sussistono delle analogie, perché il teatro loro, le vie che rincorsero nello svolgersi primitivamente, l'istinto che le condusse e i modi con cui iniziarono il loro procedimento sono gli stessi, i punti medesimi di terreno che servirono alle genti primitive onde regolare la partenza, la fermata, il raggruppamento, o lo sgruppamento delle loro società sono gli stessi che ricorre ora la strategia onde tutelarne l'integrità, o riacquistarla se perdutaP
Vero fino a un certo punto: più che strategia, questa è geostrategia. Se si tratta - come dice lo stesso D . - di considerare come svolgentesi in
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ivi, pp. 434-345. ivi, p. 436.
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sede strategica un'operazione militare eseguita su determinati punti del terreno, allora l'ambito è molto più ristretto e specifico e si può chiedere alla strategia solo di fornire indicazioni particolari non in contrasto con il più vasto quadro della geostrategia, atte al miglior impiego delle forze in campo in uno specifico quadro politico-militare. La non sempre chiara e lineare differenza tra geostrategia e strategia - peraltro anche oggi tale - risulta anche da altre affermazioni del D., nelle quali egli ammette - in contraddizione con le sue precedenti affermazioni - che le frontiere di uno Stato devono tenere conto anche di esigenze di pura difesa militare; dunque quest'ultime inducono ad andare ben oltre il concetto - base di confine naturale, verso il quale dovrebbe esclusivamente mirare la strategia. Le frontiere politiche «non possono essere definite a capriccio, ma solo dalle convenienze immutabili della difesa nazionale», mentre l'andamento delle frontiere di uno Stato deve essere definito: «l O in ragione della distanza del perimetro del paese dal suo centro; 2° in quella del maggiore o minor numero e densità della sua popolazione». 18 La prima di queste due regole - precisa il D. - deriva dalla necessità di concentrare o ripartire con facilità le forze armate destinate alla difesa di uno Stato; la seconda, dalla constatazione che uno Stato poco popolato ma con un grande sviluppo lineare delle frontiere non è in grado di difenderle. Benissimo: ma in questo modo si ammette che le frontiere naturali possono essere modificate anche in relazione a esigenze puramente militari, dunque che tra ragioni geopolitiche e ragioni puramente strategiche e militari vi può essere un contrac;to, che in pratica va sempre risolto a favore di queste ultime. Se il parallelismo e la perfetta armonia fra geopolitica, geostrategia e strategia possono non essere tali. allora il contrasto tra politica e strategia, cacciato dalla porta, rientra dalla finestra. Da quest'ultime affermazioni del D. si può legittimamente dedurre che per ragioni militari si possono rendere necessari degli aggiustamenti e adattamenti ai confini naturali. Cosa che non può non essere causa di eccessi, di infinite contese e di opposti interessi, perché pare ovvio che i risultati del rapporto tra condizioni poste dell'ambiente naturale e forze disponibili sono sempre opposti nell'ottica di due Stati confinanti: ciò che è vantaggioso per l'uno risulta svantaggioso per l'altro, e su questa base è difficile trovare un accordo.
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ivi, p. 438.
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Il concetto teorico di strategia, tattica e gran tattica: divergenza o convergenza con ]omini? Le contraddizioni prima indicate non sono affatto risolte nelle definizioni che il D. dà di «scienza» de11a guerra, strategia, tattica ecc., dove è inaspettatamente influenzato più da Jomini e dall'Arciduca Carlo, che da proprie, originali riflessioni sulla geopolitica e geostrategia. Si afferma l'ipse dixit: e così quando egli incomincia a discorrere degli aspetti teorici dell'arte de1la guerra, della sua ripartizione, dei contenuti della strategia, l'analisi perde quota e scivola in continue incoerenze e contraddizioni. Il filo logico quasi diventa invisibile in un mare magnum di dissertazioni, di diverse angolature e definizioni dove si accozzano poco felicemente componenti di varia origine, sia pure non senza spunti interessanti che rimangono rare perle in un peitrisco uniforme. D. pare quasi scusarsi (ma perché?) avvertendo il lettore che le sue idee «si dilungano alquanto» da quelle dei due «massimi scrittori di strategia, ma a ben guardare sono in armonia con le loro massime essenziali». 19 Contemporaneamente il D. sposa - senza nominarlo - le tesi evoluzioniste del Blanch, con ciò stesso divergendo da Jomini , quando presenta il concetto moderno di strategia come frutto del principio della divisione del lavoro imposta dal progresso scientifico e dalle trasformazioni del materiale. Nell'antichità - egli afferma - strategia significava direzione della guerra. Dalla strategia e tattica primitive, consistenti nel tener lontano il nemico e nel procurarsi uno scampo quando non si era più in grado di reggere ai suoi colpi, si è passati allo sfruttamento integrale dell'ambiente naturale ai fini dell'attacco e della difesa. E poiché con il progresso della civiltà gli uomini hanno alterato la natura con strade, opere d'arte, città ecc., ne seguì che la strategia e la tattica, sino ad allora istintive, dovettero modificarsi, combinarsi ed acconciarsi alle nuove condizioni prodotte dall'incivilimento: cosicché queste scienze sono di loro natura variabili, e seguono il corso e la fluttuazione dell'incivilimento [... ] quanto più la società si allontanò dallo stato primitivo di barbarie [... J tanto più si complicarono le scienze strategiche e tattiche, tal che divennero molto ardue e intricate anche considerandole soltanto rispetto al terreno a cui vengono applicate [... l L'uomo macchina si complicò a mano a mano che s'incivilì; e allora la strategia dovette piegarsi alle nuove molle sociali, adoperandosi per
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ivi, pp. 4 I 5-416.
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mantenere la dovuta armonia fra i principali elementi della possanza dell'uomo, cioè la natura del terreno, le forze corporee di lui e l'impulsione morale che viene dalle condizioni della socialità. Di là quell'intimo rapporto che regna tra le scienze della guerra e quelle della legislazione e delle credenze religiose. 20
La strategia è così diventata solo una parte della scienza della guerra, e si è riconosciuto [come fa Jomini - N.d.a.] che «la scienza della guerra, siccome tutte le scienze d'applicazione, consta essenzialmente di due parti distinte, cioè di principi generali puramente scientifici, e d'elementi secondari e materiali d'esecuzione». 21 Lo scopo principale della guerra, cioè la vittoria, può essere raggiunto solo se vi è armonia fra queste due parti, e in particolare tra «l'amministrazione, l'organizzamento e la moralità delle truppe» e le massime teoriche della strategia. Un solo uomo non basta «non dico a conoscere a fondo, ma neanche a sfiorare tutti i singoli rami che formano tutto il viluppo e le attinenze morali delle scienze militari». È stato necessario suddividerle, «di tal guisa però che tutte le frazioni venissero concentrate in un principio, o massima generale su tutte le altre prevalente, come tutte le radici di una pianta, si rannodano al suo ceppo comune».22 Dopo quest'ultime parole che denotano una piena adesione a Jomini, il D. sembra discostarsi alquanto dalle teorie dello stesso Jomini, distinguendo tra scienza generale della guerra, strategia e amministrazione. La prima è l'attuale politica militare, in quanto «propria del Ministro che ne ha la suprema direzione, il quale è lo stipite di tutte le ramificazioni che appartengono ad essa, tenuto quindi a conoscere non solo la parte tecnologica della stessa, ma tutte le altre scienze sociali che vi attengono strettamente, sieno esse civili, politiche e religiose». La strategia è «la scienza del generale (stratego diceano i greci), il quale riceve dal ceppo primitivo e governativo un certo numero di forze ordinate, e le guida al combattimento». Per ultima viene la scienza dell'amministratore «che diciamo Intendente degli eserciti», al quale «incombe il carico di armare, vestire e provvedere a tutti i bisogni del soldato».23 Volendo usare termini più moderni, secondo il D. la scienza militare è suddivisa in politica militare, strategia e logistica (nel senso attuale del termine). Il generale che combatte in un Paese straniero - egli chiari-
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ivi, pp. 420-421. ivi, p. 406. ivi, p. 407. ivi, pp. 407 -408.
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sce - realizza il massimo grado di superiorità, perché è costretto dalle circostanze a fondere insieme nella sua persona questi tre differenti rami della scienza militare: al di fuori di questo caso, sono «le arti strategiche» a prevalere sulle altre. Un esercito ben diretto ma scarsamente preparato dal punto di vista morale e rriateria]e può anche conseguire la vittoria, ma anche l'esercito più efficiente se mal diretto può essere sconfitto: «la possanza della strategia può supplire e correggere gli errori della direzione governativa e amministrativa, ma la azione di queste ultime non mai, o rarissimamente quelli deJla strategia». TI D. indica due principi fondamentali della scienza della guerra, che sono « I portarsi in guisa da poter sempre dominare i] nemico tenendolo lontano o soggetto; 2°) aver spedite le comunicazioni sui fianchi, sulle fronte e sul di dietro, onde poter evoluzionare liberamente e mutar di postura». L'applicazione dei predetti principi comprende, a sua volta, tre momenti distinti: «1°) l'elezione dei luoghi dove la vittoria deve tornare più vantaggiosa, e la rotta meno pregiudiziale; 2°) il sistema da adoperarsi affinché i risultati dello scontro generale col nemico rispondano pienamente al principio capitale che dettò il piano di campagna [cioè allo scopo strategico della guerra - N.d.a.]; 3°) la disposizione, e l'andatura delle differenti forze organizzate, il modo e la forma per cui riesca il combattimento più efficace e decisivo» Icioè: le modalità tattiche per debellare il nemico in battaglia - N.d.a.].24 Di qui l'altra distinzione - che non pare ben armonizzata con la prima - in strategia, gran tattica e tattica propriamente detta o tattica elementare, ciascuna corrispondente a uno dei tre diversi momenti prima indicati. In particolare la tattica elementare è «la grammatica di quest'ultima [cioè della gran tattica - N.d.a.]», mentre le due prime «possono in certo modo chiamarsi la filosofia pratica delle scienze militari ». Tn altra occasione, il D. chiarisce che la tattica elementare «insegna la formatura e la disposizione individuale, o complessiva delle truppe e dell'uso delle armi [.. ,] è una cosa a parte; è un meccanismo invariabile quasi sempre; mentre le altre si diversificano all'infinito secondo l'infinita varietà dei casi del terreno». 25 Le differenze tra le tre branche - aggiunge il D. - risultano più chiare qualora si stabilisca, con metodo sintetico e non analitico, un principio generale basato sulla constatazione che « I ogni operazione di guerra si diversifica dall'altra, e assume un carattere distinto secondo il O
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ivi, p. 410. ivi, pp. 441-442.
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tempo impiegato e lo spazio percorso nella sua esecuzione; 2°) le difficoltà da vincersi in un'operazione militare si aumentano in ragione composta del tempo che s'impiega, e dello spazio che si percorre dal moto iniziale fino al finale compimento della stessa operazione». 26 Nonostante questo approccio geometrico che ancor più di Jornini ricorda l'Arciduca Carlo, il D. si discosta da ambedue qualche riga più sotto, chiamando strategia e gran tattica «la filosofia pratica delle scienze militari», mentre per i dottrinari la differenza fra le branche era proprio quella tra teoria e pratica, scienza e sua applicazione, scienza e arte. E chiarisce anche che cosa intende per gran tattica, introducendo persino un termine ibrido e ambiguo come tattico-strategia: la strategia definita dal primo, cioè «l'arte di dirigere le masse sui punti decisivi» e la tattica «l'arte di far combattere le stesse masse sui punti determinati dalla strategia», o la più concisa ancora, per cui la prima stabilisce il dove, e la seconda il come deve combattere un esercito, sono bastevoli bensì a separare il dominio e la sfera dell'una da quella dell'altra, ma non valgono a parlit.:ularizzare quelle operazioni che tengono d'entrambe, e clie pure riesce molto vantaggioso distinguere col nome di gran tattica o come io direi di tattico-strategia.27
Sta di fatto che il D. non parla mai- come Jornini - della concentrazione delle forze nel punto decisivo come unico principio fondamentale della guerra, né usa il termine logistica. Tra le varie definizioni di strategia ammette che è l'arte di dirigere le masse sui punti più favorevoli per decidere l'esito della guerra, ma della gran tattica (chiamandola anche tattico-strategia e mostrando di attribuirla a Jomini o all'Arciduca Carlo) fornisce un'ennesima definizione poco chiara, indicandola come «l'arte di discernere tra tutti i punti segnalati dalla strategia quelli che devono essere più favorevoli all'esito di una battaglia», 28 cosa che per gli altri due rientra, come si è visto, nel campo della strategia. Lo ammette contradditoriamente egli stesso, affermando che «allorché due eserciti contrari dopo aver ricorso le rispettive loro orbite strategiche si trovano in presenza l'uno dell'altro e si dispongono alla battaglia, cessa in quel momento la sfera delle operazioni strategiche, e comincia la sfera della gran tattica».29
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ivi, p. 410. ivi, p. 416. 28 ivi, p. 418. 29 ivi, p. 414. 27
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Se si stabilisce una siffatta differenza, non è la gran tattica, ma la strategia che sceglie il punto decisivo dove venire a battaglia: e sceglie un solo punto, altrimenti come farebbe a concentrarvi la massa delle forze? Forse i possibili equivoci nascono da una cattiva lettura che il D. fa di Jomini: anche Jomini parla di punti, e in particolare di «portare, con de]]e combinazioni strategiche, il grosso delle forze di un esercito, sucessivamente sui punti decisivi di un teatro di guerra» 30 [nostra sottolineatura - N.d.a.]. Più sotto, a proposito della battaglia Jornini indica la necessità di concentrare le forze sul punto decisivo, e infine - a fattor comune - ritiene necessario che le masse non siano solamente presenti sul punto decisivo, ma anche attive e in grado di garantire il massimo di energia. Solo per Ja strategia Jomini parla di punti decisivi, sui quali fare successivi concentramenti: quindi in una data fase il punto decisivo anche a livello strategico è sempre uno solo, tenendo comunque presente che il termine punto (point) nena fattispecie, a livello strategico è soprattutto una zona, quindi un insieme di punti. Insomma: è difficile seguire il D. e individuare un filo conduttore nella sua visione teorica, perché non riesce mai a dare una indicazione univoca e chiara della ripartizione del1'arte della guerra e una definizione unica e esaustiva di strategia, gran tattica e tattica. Egli afferma - tra l'altro - che i confini della strategia, della gran tattica e della tattica vengono determinati dal differente spazio percorso e dalla differente quantità di forze, tenendo però presente che in tutti e tre i casi si applica lo stesso «principio generale» della guerra, cioè «causare al1e forze dell'avversario maggior danno possibile col minor rischio possibile delle proprie».31 Questo principio generale, che si aggiunge all'altro prima enunciato, non ci sembra tale: più che altro è una norma di buon senso a carattere elementare che regola qualsivoglia azione umana, non può dunque essere un vero legarne e un elemento di coesione tra le varie parti dell'arte della guerra. In mancanza di un reale principio unificante, il D. tenta invano di trovare de]]e identità e differenze. E così fornisce altre definizioni: in relazione a queste differenze, la strategia è «l'arte di dirigere una campagna», la gran tattica «quena che dà le norme di una battaglia» mentre e la tattica propriamente detta è «quella che regola il modo del combattimento». Non è finita: in altra occasione, il D. afferma anche - riavvicinando-
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A. J. Jomini, Précis, (Cit.) Voi. I, pp. 157- 158. G. Durando, Op. cit., p. 412.
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si a Jomini - che «la gran tattica non è altro che l'interpretazione e l'applicazione del concetto di strategia all'azione campale». 32 Essa si potrebbe chiamare meglio tattico-strategia, perché «veramente è lo stesso principio che regola entrambe, e perché la gran tattica s'attiene intimamente tanto alla strategia, quanto al1a tattica propriamente detta». 33 In mezzo a tanti concetti che si riavvitano su sè stessi e a volte si elidono e contraddicono a vicenda, il D. dice anche cose più pregevoli, o almeno più chiare. La strategia - egli dice - non ha né luogo né tempo determinati. Per la gran tattica, è possibile fissare dei limiti orientativi di spazio (la zona d'interesse della battaglia campale) e di tempo (due e tre giorni). Lo spazio da considerare è quello che deve percorrere un corpo per intraprendere o subire l'azione campale. Poco importa se questo spazio è oppure no sotto il tiro dell'artiglieria: «la norma di limitare le mosse della gran tattica a una grande gittata di cannone, come vogliono taluni è troppo incerta, anzi falsissima». Ricorrono nel D. anche concetti non nuovi - e almeno in parte condivisibili - sull'arte militare napoleonica. Anche per lui la guerra ha come scopo la vittoria e la battaglia campale è quella che decide della sorte dei popoli e degli Imperi, quindi la calamita e il culmine dell'arte militare: quest'ultima si riduce allo studio del modo per rendere la battaglia più efficace e decisiva. Inoltre diverge dai nemici della guerra napoleonica, affermando che la strategia e la grande tattica sovrapponendosi alla tattica propriamente detta furono un grande progresso di civiltà, il maggiore che si sia mai fatto da un secolo in qua. Furono esse una scienza umanitaria, tuttaché somigliante qualificazione possa sembrar singolare ai sognatori della pace perpetua e della fratellanza del genere umano. Napoleone colle due battaglie eminentemente strategiche di Marengo e di Jena, risparmiò migliaia di vittime e torrenti di sangue; e chi s'avvisa di dare a que' grandi fatti d'armi il nome di macelli napoleonici, come sogliono i nostri pietisti politici, mostra non conoscere l'influenza che la civiltà va esercitando sulla scienza militare, destinata d'ora in poi non a distruggere l'umanità, ma a domarla. 34
Noi osserviamo, in proposito, che la battaglia decisiva può essere un mezzo per abbreviare la guerra, rendendola quindi meno dispendiosa:
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ivi, p. 477. ivi, p. 415. 34 ivi, p. 409.
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ma la speranza del D. che il progresso porti a versare meno sangue in guerra si è dimostrata infondata. Essa sembra dovuta alla sua fede - forse sotto l'influsso del Blanch - nelle inesistenti «magnifiche sorti, e progressive» della strategia. Secondo il D., con l'evolversi della civiltà e la ripartizione in branche dell'arte della guerra, oltre a deternùnare con criteri scientifici i caratteri delle operazioni «non si domandò più solamente quanti nemici fossero caduti sul campo, ma sibbene quanto spazio di terreno si fosse acquistato dopo la sua disfatta; non si pensò tanto asternùnare il nemico, quanto a inutilizzarne le forze». Par di sentire Racchia! Il D. vorrebbe dire che ormai lo scopo delle operazioni non è di infliggere perdite al nemico, ma di renderne inutilizzabili le forze abbattendolo anche moralmente. Questo argomento l'aveva già affrontato Clausewitz, constatando però che, senza infliggergli il massimo di perdite possibile, era difficile imporre la propria volontà all'avversario ... In accordo con le teorie di Clausewitz, invece, è l'immagine de)]e difficoltà crescenti dell'offensiva: il generale che conduce un esercito dal centro di uno Stato o Impero a quello di un altro, operando su uno spazio di terreno che può anche andare oltre le duecento leghe, «ha contro di sè le difficoltà tutte del terreno, poi quelle più spinose ancora dene vettovaglie, e finalmente la disciplina e il morale del soldato a suo carico: i quali ostacoli crescono realmente, e per lo più in ragione composta e progressiva del quadrato della distanza, e di quello del tempo impiegato a superarla».35 Tipicamente jominiana la valutazione dell'effettiva valenza dei principi strategici e tattici. Per il D. essi sono esatti e alla portata di tutti, ma solo in teoria: nena loro applicazione sfuggono anche ana mente più vasta e perspicace, se non è fornita di cognizioni pratiche e se non ha dana sua parte la fortuna. Ne consegue che l'applicazione dei principi strategici è la più facile e la difficile a un tempo; poiché versa intorno precetti semplicissimi, modificati all'infinito delle svariatissime e non sempre conoscibili condizioni esteriori del suolo, dalla fluttuazione morale a cui vanno soggette le grandi masse d'uomini riunite, e da una molteplicità d'imprevedibili circostanze. Su questo riguardo può dirsi ch'ella sovrasta a tutte le altre scienze sociali. 36
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ivi, p. 413.
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ivi, p. 445.
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Gli elementi geostrategici: definizioni I concetti prima esposti portano a D. a fornire definizioni di carattere fondamentalmente geostrategico, che in Jomini non compaiono o da lui si discostano.37 Per Linea strategica, linea tattica, linea gran tattica si intende «la concatenazione di tutti i punti [favorevoli al buon esito della campagna, della battaglia e del combattimento - N.d.a.] armonizzati tra di loro, conforme al pensiero che dettò il piano della campagna, della battaglia e del combattimento». Il punto proto-strategico, proto - gran-tattico, proto-tattico [termine sconosciuto a Jomini - N.d.a.] è il classico pivot della geopolitica/geostrategia, cioè «il punto dominante ossia la chiave di tutti i punti che formano una linea strategica, gran-tattica e tattica. L'arte di discernere questa chiave decisiva d'ogni posizione è molto difficile, impossibile a chi non ha l'esperienza della guerra e un colpo d'occhio sicuro». Per determinare questo punto, bisogna applicare i due principi fondamentali della scienza della guerra, fondati - come si è visto - esclusivamente sulla geografia. In particolare, «chiamiamo punto o linea strategico-naturale di un paese quello in cui l'arte dell'uomo nul1a alterò nella condizione primitiva e selvaggia del suolo, e per c ui egli istintivamente occupando tutti i rialti del terreno, o situandosi dietro ogni qualunque ostacolo naturale, un fiume, una laguna, un deserto, s'industria di tener lontano, o soggetto l'assalitore». Vi sono poi i «punti strategico-artificiali», derivanti dalle graduali modifiche subite dall'ambiente naturale a causa della costruzione di opere d'arte, strade, fortezze, città ecc .. Ogni paese ha i suoi punti strategici naturali e artificiali: in alcuni Paesi, questi possono anche non esserci. Il sistema strategico-orografico ossia montagnoso, è «queJlo in cui per l'ossatura del suolo si può dominare il nemico e tenerlo in condizione inferiore per mezzo delle distanze, delle difficoltà della salita e quelle delle vettovaglie». Sistema strategico-idrografico «ossia tluviatile e marittimo, è quello che si vale del corso dei fiumi, de' laghi, o del mare siccome di ostacoli naturalmente insormontabili». Premesso che la base d'operazioni è in generale «quel punto [non è un punto, ma un'area, una zona assai vasta- N.d.a.] che serve ad alimentare il personale e il materiale degli eserciti», il D. ne distingue due tipi: basi politico-militari, cioè le città capitali di uno Stato «da cui s'informa tutto il sistema generale della guerra, e muovono le impulsioni morali, le
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ivi, pp. 441 -444.
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quali contribuiscono al suo buon esito, quanto le armi, le vettovaglie e le munizioni d'ogni genere». Le basi militari sono invece «quegli altri punti che si eleggono a poca distanza dalle armate d'operazione, mutabili per conseguenza, dovendo esse coordinarsi all'andatura, al progresso o retrocesso delle medesime».
SEZIONE II - Ragioni geopolitiche e geostrategiche della mancata unità dell'Italia: come essa si può ottenere
Errori e vizi passati: la polemica con gli scrittori coevi La specifica situazione italiana diventa, per il D., il banco di prova delle teorie a sfondo eminentemente geografico alle quali prima si è fatto cenno, fino a far pensare che quando formula i suoi postulali geo-strategici egli ha davanti agli occhi soprattutto il caso italiano, non rinunciando - quando occorre - a qualche perdonabile stiracchiamento o adattamento di concetti generali per giustificare talune sue tesi, portate a ricercare nella geografia dell'Italia le cause principali della sua divisione e del predominio straniero, le ragioni delle sue peculiarità politico-sociali rispetto a quelle delle altre nazionj europei e persino le soluzioni politiche più opportune per il futuro; in questo senso egli sviluppa e porta al limite estremo considerazioni geopolitiche che già troviamo nel Gioberti (capitolo Xl). Nell'introduzione al libro Della nazionalità italiana il D. esprime subito il suo giudizio su uomini e avvenimenti politico-militari dal 1815 in poi. Pensando alla serie di avvenimenti : «per cui l'Italfa venne condotta a quel grado di abiezione politica e sociale» in cui si trova, non è il caso - egli afferma - di prendersela troppo con i nostri antenati, perché ci hanno lasciato un'eredità così difficile e pesante. Vi sono state anche cause oggettive, le quali hanno fatto sì che, nonostante gli sforzi degli uomini migliori «noi siamo discreditati, come società politica; noi principali fondatori di tanti progressi sociali non abbiamo conseguito quello che vantano le più barbare genti, una personalità nazionale». Una delle principali cause di questo stato cli cose «è appunto quell'esagerato culto dell'antico a cui trascorrono incautamente pressoché tutti gli s1,;rilluri delle cose nostre. Noi abbiamo divisato cli rigenerare l'Italia come si trattasse di ristorare una statua di Prassitele, un libro d'Aristotele o di Cicerone ...». Anche l'arte italiana, pur tanto celebrata, ha avuto una funzione antinazionale. Negli omaggi pur dovuti all'arte e al genfo este-
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tico degli italiani «io cerco invano un pensiero di nazionalità, di socialità e di patria. L'arte ci uccide». Nonostante tutto, con il periodo napoleonico e la nascita di un effimero Regno d'Italia, «impalliditi molto gl'idoli dell'antichità, la nazionalità e l'unificazione italiana progredirono più che nei tre secoli anteriori della nostra intera nullità e né quattro precedenti de11e nostre splendide miserie». Nei moti del 1821 «non si fiatò più di Cisalpina o di Partenopea, e fu senno: se non che i prlncipi italiani non seppero o non vollero vedere in quei tentativi i propri loro interessi: talché la sfiducia sottentrò alla concordia necessaria; quindi le ostilità segrete e le potenti, l'indisciplina civile e militare, lo sfasciamento della macchina sociale, seguita, come sempre dalla maggiore fra le sventure nazionali, la debolezza sul campo di battaglia» [nostra sottolineatura - N.d.a.]. Unica ricaduta positiva è stata la nascita di un rapporto e di una dialettica tra esuli italiani di varie tendenze: «ne nacque una patria errante, la quale se non era vera, ne avea però tutti gli istinti, i vizi e le virtù». Anche i moti del 1830-1831 sono stati una delusione: «colla rivoluzione francese del 1830 venne bandito il diritto, principio o che so altro, di non intervento. Ecco la grande occasione, si gridò; e andava a fuoco l'Italia centrale. Ma Napoli e Piemonte non si mossero, l'Austria intervenne e mandò a vuoto il tentativo. Le accuse reciproche, le polemiche non hanno senso: per sostenersi a vicenda era prima necessario intendersi, «e io domando: v'era in Italia una potente e concorde opinione, un simbolo nazionale che servisse di bandiera a tutte le volontà?». Anche gli avvenimenti del 1840 hanno prodotto solo «le solite sequele d'incarceramenti e di supplizi, e per colmo di mali, tacciati di viltà e di follia». In tutte queste agitazioni - prosegue il D. - non si trova mai un «pensiero rigeneratore», un'«idea salvatrice», e si trova sempre «qualche avanzo d'idolatria verso l1antico, misto ai sogni dorati di un lontanissimo avvenire: l'attualità, il presente non mai». Si tratta invece di prendere dagli antichi - senza idolatrie e senza chiusure aprioristiche - ciò che ci serve, rigettando i loro errori: vogliamo esempi di forme governative, di civiltà, di nazionalità, di grandezza? Perché rivangare l'antico, e smarrirci in un labirinto? Non siamo noi stipati e compressi da tre o quattro grandi nazionalità che prosperano ai fianchi ·nostri? So che minori ostacoli ebbero a superare, so che il loro problema era meglio solubile perché più semplice del nostro. Or bene, io mi accingo a dimostrare che il nodo si può sciogliere, che nel presente, tal quale è, per quanto paia vinto e contraddittorio, vi sono gli elementi bastevoli per innalzarci a un grado di nazionalità durevole e potente.
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Nasce da questo atteggiamento fondamentalmente antistoricistico la polemica del D. con Carlo Botta e con i neo-guelfi Vincenzo Gioberti e Cesare Balbo (capitolo Xl), oltre che il rimprovero agli storici italiani in genere di fare storie fiorentine, veneziane, lombarde ecc., ma mai una storia veramente italiana intesa a rialzare la nostra nazionalità. A Carlo Botta rimprovera di aver presentato la Repubblica oligarchica di Venezia come forma migliore di governo, «invocando le tenebre in mezzo a tanta luce», e cli essersi contraddetto affermando che «non convengono le pubbliche assemblee ai Paesi meridionali, e specialmente all'Italia», indicando nel ripristino dell'antica potestà tribunizia la sola garanzia delle libere istituzioni. Vincenzo Gioberti e Nicolò Tommaseo hanno voluto fare della Chiesa e del Papato il fulcro della nuova unità nazionale, e «frugando nell'immensa farragine del Medio Evo tolsero ad emblema ed elemento della nostra rigenerazione la potenza più prodigiosa che mai fosse». Ma così facendo non si sono accorti che la Roma dei Papi «non è veramente in Italia, ma fuori» e che chiedevano <<di farsi promotore dell'unità na-
zionale a chi appunto [come il Papa - N.d.a.] né poteva né voleva ricomporne le molle, sventuratamente persuaso già, ora e forse sempre, che l'Italia resa al suo primo splendore potrebbe forse un dì minacciare J'indipendenza della Chiesa». Dal canto suo Cesare Balbo è caduto nell'eccesso opposto: non ha frugato nel passato per cercarvi «modelli» che poi risultano poco idonei al presente, ma è stato dominato dal timore che nel presente possano riemergere gli errori del passato. In tal modo il conoscimento pratico degli uomini e delle cose, gli fece discernere negli ordini attuali più d'un mezzo di risorgimento, senza né rovesciare, né risuscitare tutto l'antico. Ma ciò che su lui non valse la cieca adorazione de' vecchi idoli, poté forse troppo la paura. Benché debba temersi con qualche fondamento che dalla commozione del presente sieno per rinascere gli errori de' nostri antenati, come accadde fino ai giorni nostri, crederei che a tale inconveniente osterebbero le condizioni dell'opinione, la quale va pesantemente svolgendosi frn noi. L'esperienza certo non ha disingannato tutti gl'italiani, ma molti, forse i più. Ogni sole che tramonta porta via un idoletto [... ]. Quindi mi par tanto inopportuno l'eccessivo timore dell'antichità, come funesta l'idolatria.
L'Italia potrebbe essere ricostruita su basi in parte nuove e in parte antiche, «investigando nella natura delle cose ove stieno i limiti della nostra nazionalità». Sembra al D. cli vedere nonostante tutto «un vicino
riaccostamento di opinioni e tendenze» che rede possibile «promuovere una lega morale tra di noi». E - nonostante le premesse - egli dimentica del tutto la nostra storia, quando pensa a un cittadino italiano che improvvisamente diventerebbe nuovo e dimentico dei vecchi difetti, illudendosi che «sotto la grande ombra della nostra nazionalità riedificata a seconda delle nostre circostanze politiche, morali e religiose possono raccogliersi e fruttare la monarchia e le istituzioni libere, la Chiesa e lo Stato, i federalisti e gli unitari, il patriziato e la borghesia, il popolo tutto italiano».
Fisionomia geostrategica e geopolitica dell'Italia: influsso del Papato sulla sua divisione Con l'obiettivo lontano indicato nell'Introduzione, il D. ricorre alle risorse della geopolitica e geostrategia per dimostrare che: a) il trattato di Vienna del 1815 ha sancito per l'Italia un ordinamento innaturale e transitorio, che può quindi essere modificato sulla base delle esigenze dei tempi nuovi e delle indicazioni della geostrategia; b) non è vero quanto sostiene la diplomazia austriaca, secondo la quale le antiche dinastie della penisola restaurate «mal si reggerebbero contro lo spirito riottoso e napoleonico degl'Italiani, dove non venissero spalleggiate da un grande potentato capace di tutelar la quiete de' loro ordini interiori; né ciò potrebbesi altrimenti conseguire se non con l'addentrarsi dell'Austria nel cuore dell'Italia». Il D. muove da una constatazione fondamentale: nel caso della Francia e della Spagna il processo di unificazione - al momento già da tempo compiuto o quasi - è stato favorito, reso naturale e inevitabile dalla presenza di un ben definito punto proto-strategico centrale, partendo dal quale la popolazione dominante ha gradualmente assoggettato le altre; al contrario, l'unità italiana è stata sempre ostacolata dalla sua conformazione naturale, nella quale questo pivot manca. Gli ostacoli all'unità italiana e le cause principali delle «nostre miserie presenti» sono due. Uno di carattere più propriamente geostrategico, la presenza dell'Appennino, l'altro di carattere geopolitico, la presenza del Papato a Roma, per la quale il D. parla addirittura di una «teo-stralegia» o «strategia soprannaturale» (vocabolo allora inedito e oggi dimenticato), con ruolo storicamente antinazionale e antiunitario. ll sistema orografico e fluviale che costituisce la doppia ossatura della nostra penisola dà luogo a tre «grandi basi strategiche» (le Alpi, l'Appennino e il Po), le quali «sgraziatamente per noi, si separano a un
terzo di cammino della loro direzione comune, e diventano da buoni amici, se può dirsi così, quasi nemici o rivali». 38 La grande giogaia delle Alpi disposta a semicerchio costituisce un confine naturale quasi perfetto, ma di essa noi ne possediamo solo un versante; i due sistemi rimanenti, gli Appennini e il Po, sono invece esclusivamente italiani e da essi viene determinata la configurazione geostrategica della penisola. La regione eridania o continentale, compresa tra la parte italiana delle Alpi e una parte dell'Appennino e divisa a metà dal corso del Po dà origine a una sola grande conca, a un «sistema strategico-fluviatile» con circa quaranta fiumi o torrenti che scorrono verso il Po. Ben diverse le condizioni geostrategiche dell'Italia penisulare, dove gli Appennini dal Monte Falterona in poi corrono da nord a sud senza quasi deviare da11a loro direzione iniziale, dando origine a11a vera spina dorsale dell'Italia. Da essa sgorgano quattro o cinque fiumi di una certa importanza e innumerevoli corsi d'acqua, che hanno la caratteristica comune di non indirizzarsi - come nel caso precedente verso un unico elemento raccoglitore de11e acque, e per di più di dirigersi verso tre diverse e opposte direzioni (il Mar Adriatico, il Mar Tirreno e il Mar Ionio). Questa seconda region.e, che il D. chiama appenninica o penisolare, ha caratteristiche opposte rispetto alla prima, e forma «una conca rovesciata». Da questa peculiarità geografica il D. trae una deduzione fondamentale, che è alla base delle soluzioni da lui proposte e che differenzia alla radice il caso italiano da quello francese e spagnolo: in tale doppia ossatura del nostro suolo non è possibile rinvenire un vero centro strategico naturale, su cui stanziatosi il nocciolo della nostra nazionalità, e di quivi signoreggiando le genti circostanti, fosse in grado di attrarli a sè e compiere l'unificazione italiana. 39
Affinché tale unificazione si realizzi, sarebbe necessario - prosegue il D. - che tutti i corsi d'acqua nascessero da una regione centrale che pertanto diventerebbe quella dominante, oppure che - al contrario - essi confluissero in un solo grande fiume, così come si verifica nella regione eridania: ora, il contrario avendo luogo, ne seguono due sistemi a parte, ognun de' quali conserva la propria condizione strategica, il proprio
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ivi, p. 71. ibidem.
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centro, le proprie basi di offesa o difesa, e perciò distinte proprietà nazionalizzanti e diversa potenza di unificazione di schiatte.40
In realtà il Monte Falterona avrebbe potuto essere considerato come il «punto proto-strategico de11a penisola», perché in esso si toccano le due regioni eridania e appenninica: ciò non è avvenuto per due ragioni fondamentali. La prima è di carattere geostrategico: «questo punto non ha realmente tutte le condizioni di un centro strategico naturale, in quanto che la sua sfera d'azione immediata non domina tutte le valli e conche principali della penisola, ma soltanto quelle de1l'Amo, del Tevere, riva destra del Po e le Romagne». La seconda - che ha avuto un peso ancor maggiore - è stata l'opposizione costante del Papato all'unità italiana, quindi ha carattere geopolitico: uno dei pioventi di quella parte degli Appennini che si congiunge colla regione eridania, l'Esarcato cioè di Ravenna, appunto quello, dove mostrammo trovarsi il solo centro geostrategico che poteva essere il nocciolo generatore della nostra unificazione, cadde in potere de' Papi: vale a dire, in mano di una sovranità, che in virtù delle sue viste cosmopolitiche né potea, né volea trame profitto facendosi capo della nostra nazionalità politica. Per la stessa ragione ella dovette adoperarsi, affinché nessuna delle popolazioni circostanti conseguisse mai tal grado di concentrazione nazionale, da venirne sopraffatta essa stessa.41
Alleandosi con Firenze, a sua volta diventata padrona di un versante appenninico e a poche leghe dalle sorgenti del Santemo e dal Monte Falterona, il Papato ha costituito proprio al centro dell'Italia «quella potentissima lega tosco-romana, la quale inforcando la fortezza naturale d'Italia, e congegnando assieme l'efficacia dell'oro con quella del talento e degli anatemi, valse a imbrigliare ogni nostro sforzo inteso a ordinarci a stabile nazionalità».42 Di qui le simpatie neo-ghibelline del D .. Se la spinta all'unità d'Italia veniva da settentrione, allora il Papato faceva lega con gli italiani del mezzogiorno contro quelli del settentrione; il contrario avveniva se la spinta veniva da sud. E se «disperati in tanti nostri guai cercavamo fuori d'Italia a un punto di appoggio capace di unificarci senza tirannide immediata» [come facevano i ghibellini - N.d.a.], a11ora Roma faceva suo-
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ivi, p. 72. ivi, p. 77. 42 ivi, p. 78. 41
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nare le campane a stormo chiamando tutti gli italiani a difesa della libertà e dell'indipendenza nazionale. La Lega lombarda, nella visione del D. diventa solamente un semplice e temporaneo strumento nelle mani del Papa, un puntello della tradizionale politica della Chiesa, perché una volta che lo straniero fu vinto «ben si guardò Roma dal conservare ben ordinata la prima lega lombarda e le seguenti che furono strumento della vittoria. Dallo scioglimento di esse sorsero le mille repubbliche, o Comuni, che diedero in vero prove di operosità politica interna, ma lasciarono spegnersi lo spirito pubblico italiano, e quindi la nostra nazionalità».43 In tal modo, proprio la vittoria della Lega ha favorito quel localismo e quelle divisioni che sono state la fortuna del Papato ma la sventura d'Italia. In definitiva la vera causa delle nostre calamità va ricercata nella decisione di Pipino Re dei Franchi d'incorporare nel dominio della Chiesa «quella parte appunto d'Italia che avrebbe dovuto servir di scala e di ponte alla fusione delle nostre due nazionalità geostrategiche» 44 [ cioè il punto protostrategico centrale del Monte Falterona e la regione circostante - N.d.a.]. Ogni volta che gJi Italiani tentavano di eliminare la barriera che al centro dell'Italia si opponeva alla loro unità, l'Europa diplomatica e politica vi ravvisava un attentato contro la religione, quando invece non era che «la conseguenza di quell'istinto comune a molti popoli omogenei di ridursi ad unica famiglia nazionale».45 In tal modo i Papi sono stati spesso «cagione e principio delle invasioni, qualche volta pretesto». E noi italiani, che per la configurazione peninsulare ed eccentrica dell'Italia «avremmo dovuto patire meno frequenti invasioni straniere, tante ne abbiam tollerate da perdere perfino la vergogna».46 Il «guelfismo tosco-romano» ha così acquistato un elevatissimo potere dissolvente, e ora che si è rotta l'alleanza tra Roma e Firenze «gli interessi, se non i Principi, fecero sì che la iega tosco-romana si trasformasse in austriaco-romana; e fu peggio ancora». È un fatto certo - prosegue il D. - che se l'Italia avesse avuto una struttura morfologica ideale, quadrangolare o rotonda (e con forte nucleo centrale) analoga a quella della Francia e della Spagna, la sua unità sarebbe già compiuta: aveva ragione Napoleone, indicando nella configurazione longitudinale dell'Italia un ostacolo alla sua nazionalità. Però gli inconvenienti di questa sfavorevole situazione geostrategica - essenzialmente riconducibili all'Appennino - possono essere 43
ivi, p. 79. ivi, p. 80. 45 ivi, p. 81. 46 ivi. p. !n. 44
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corretti almeno in parte con l'opera dell'uomo e il progresso della civiltà: se Napoleone avesse a' tempi suoi conosciuta o prevista J'incakolabile efficacia delle strade ferrate, del vapore e de' nuovi ritrovati, i quali distruggono in pochi giorni gli ostacoli che molti secoli di barbarie lasciarono intatti, io credo ch'egli avrebbe modificato il suo concetto, sentenziando che la unità italiana, malgrado gli ostacoli che a essa oppone la figura longin1dinale della penisola, potrebbe solamente allora attuarsi, quando, vinta dall'arte, la natura, tutte le disseminate sue parti si fossero materialmente e moralmente ravvicinate. 47
Sia pur gradualmente e con molta fatica l'Appennino potrà essere vinto, magari in una decina d'anni: rimane sempre, però, da superare l'altro ostacolo ancor più difficile, il Papato. A tal proposito, pur riconoscendo in linea di principio necessaria l'indipendenza temporale del Papato, il D. ritiene che: a) la piena e reale libertà de11a Santa Sede e lo svolgimento della sua alta missione spirituale non possono essere assicurati che da una nuova politica che la renda promotrice dell'unità nazionale anziché sua nemica; b) alla Santa Sede conviene fare a meno delle contraddittorie e interessate influenze dei vari Stati d'oltralpe, per trovare solamente in Italia il miglior soddisfacimento delle sue esigenze di piena indipendenza; c) per raggiungere questo obiettivo, è necessario un nuovo assetto politico e geostrategico degli Stati della Chiesa, la cui eccessiva estensione al momento è un inconveniente - e non un vantaggio - per la Chiesa stessa.
Il nuovo ordinamento politico dell'Italia
L'eliminazione delle ingerenze straniere storicamente provocate dalla Chiesa e la riduzione del potere temporale dei Papi al minif!lO necessario rendono possibile - secondo il D. - un ordinamento politico dell'Italia conforme a quello che detta la geostrategia, tenendo presente che «noi siamo sette nazioni, o se meglio piace sette sub-nazionalità provinciali. Concentrarci in una sola non è ancora possibile. Di vent'anni ho bisogno per creare un'Italia, diceva Napoleone. Vi sono tre Italie, una continentale (eridania), una peninsulare (appenninica) e una insulare (Sarde-
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ivi, p . 75.
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gna, Sicilia, Corsica, Elba e Malta). Tra queste tre regioni italiane le differenze non sono di poco conto e non sono solo di carattere geostrategico, ma anche nell'indole delle popolazioni: «l'italiano insolare non è esattamente lo stesso che l'eridanio o l'appennino; il Siciliano, il Corso e il Sardo, sono, se così posso esprimermi, di una pasta differente da quella di un Lombardo, e l'Italiano appennino è un carattere di transizione, fra l'insolare e il continentale, ossia eridanio».48 Ne deriva che «il raccozzamento» improvvi so di popolazioni così diverse sotto un solo ordinamento politico sarebbe «cosa non che ardua ad effettuarsi, difficilissima a sostenersi». Quindi è meglio «avvicinarci prima senza confonderci», in modo da evitare che l'attrito troppo violento diventi causa di una nuova e - questa volta, irreparabile - disunione. La ricostruzione politica della nazionalità italiana deve essere attuata tenendo conto di queste suddivisioni geostrategiche fondamentali. Per prima cosa, non conviene aprire contenziosi con altri Stati, oltre a quello con l'Austria. Bisogna perciò lasciare la Corsica alla Francia, Malta al l'Inghilterra e il Canton Ticino alla Svizzera; il conflitto inevitabile con l'Austria «basta e soverchia». Così facendo sarebbe possibile costituire due grandi Stati, il Regno dell'Alta Italia e il Regno della Bassa Italia, retti dalle due dinastie al momento preponderanti, cioè la piemontese e la napoletana. Verrebbero poi le tre isole (Sicilia, Sardegna e Elba), Savoia e Nizza (che sono «nostre indfaputabilmente, ma non indispensabili alla nostra difesa»), l'Istria c parte del Tirolo (che sono <<nostri dispulabilmente, ma neppure essi assolutamente necessari al nostro sistema fronterizio»). L'Italia insulare e queste province potrebbero prestarsi a varie combinazioni, intese a compensare delle perdite di territorio il Pontefice e i principi spodestati dell'Italia Centrale. La soluzione preferita dal D. è la costituzione di uno Stato indipendente della Sicilia, di uno Stato della Chiesa (con le sole città di Roma e Civitavecchia, la Sardegna e l'Elba) e degli Stati di Savoia e Nizza e d'Istria (che oltre all'Istria propriamente detta comprenderebbe Gorizia e Trieste). Circa la formula di ordinamento politico interno dei nuovi Stati, il D; è fautore delle monarchie costituzionali, e vede nel sistema monarchico l'unico modo per realizzare quel principio «ordinatore» e «unificatore» del quale abbisogna un Paese tendenzialmente diviso come l'Italia: «rizzare la insegna repubblicana e tirarci la guerra civile in casa è tutt'uno, e dietro la guerra civile centomila austriaci; talché lungi dal ricacciar
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ivi, p. 88.
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lo straniero oltre le Alpi, noi saremmo da lui per la terza o quarta volta incalzati fino a Parigi, o Londra».49 Accanto alla monarchia, la libertà non va vista come un ostacolo alla conquista dell'indipendenza nazionale (e su questo punto il D. polemizza con il Balbo) ma, al contrario, come il solo principio «rigeneratore» de1Ja nazionalità italiana. Infatti l'egoismo del patriziato che temeva di perdere i suoi privilegi di fronte ad altre famiglie nobili, ha ostacolato la tendenza a espandersi verso l'Italia delle Repubbliche di Genova e Venezia. E se libere potevano dirsi Venezia, Genova, Firenze e Milano, le altre città italiane facenti parte dei loro domini erano loro serve; senza contare che Je libertà del Medioevo erano cosa assai diversa da quelle attuali. L'esempio è dato da Milano e Firenze, città dove - a detrimento della causa nazionale e dello spirito militare - tutte le energie sono state rivolte a difendere la libertà contro i tiranni interni. Ma non appena cacciato il tiranno, prevalevano i timori nei riguardi di quelle categorie o fazioni che all'interno della città disponevano della forza delle armi: bisognava tremare del patrizio, del cittadino e del popolano. Allora pareano mille anni di gettar la grave soma delle anni; gli eserciti, questa grande molla nazionaliu.ante con cui si mantiene la virilità e la dignità di un popolo [nostra sottolineatura - N.d.a.], erano sciolti e sbandati. E per vero, se si considera a qual razza di genle venisse per lo più commessa la forza pubblica, e come quella turpe genìa de' condottieri dovesse naturalmente diventar scala a qualunque più scapestrata tirannia, non è meraviglia se quelle repubbliche anteponessero una sovranità modesta e disarmata a un gran potere militare, per cui esse si vedeano a ogni momento pendente sul capo la mannaia di quelle sozze masnade. Quindi, rivolgendo tutte le loro forze a tutelar sè stesse, non ebbero pensiero, né mezzi di attuare l'unità d'ltalia. 50
Per troppo desiderio di libertà, nei secoli passati abbiamo dunque perduto di vista l'interesse supremo dell'indipendenza nazionale; ma sarebbe un gravissimo errore pensare che questo possa avvenire anche oggi. Nel caso italiano le odierne istituzioni rappresentative - specie se temperate dalla monarchia - rafforzano e non indeboliscono la nazione e lo Stato, perché «sono le sole capaci di confondere in una nazionalità comune le sub-nazionalità disseminate, reluttanti e anche nemiche». Perciò
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ivi, p. 149. ivi, p. 171.
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un riordinamento da cui ne risultassero sapientemente contemperati gl'interessi della monarchia e delle credenze religiose con quelJi della nazione e della civiltà, sarebbe l'unico punto di concentramento morale, e l'unica bandiera della nostra redenzione. Laddove non c'erano, né poteano divenirlo mai quelle incoerenti e vaghe libertà fiorentine e milanesi, né quelle troppo irrequiete di Genova, né quelle troppo quiete di Venezia, alle quali tutte io desidero la terra leggera sì, ma ben salda e irremovibile. 51
Il D. non si nasconde che la concessione delle libertà costituzionali da parte dei prìncipi italiani scatenerebbe certamente l'intervento dell'esercito austriaco: ma questo è un vantaggio e non uno svantaggio per la causa dell'indipendenza italiana, perché anche per lui, come per il Balbo, la guerra difensiva è per noi la più conveniente, politicamente e militarmente. La concessione delle libertà politiche, infine, è premessa necessaria per ottenere quella larga partecipazione p opolare alla guerra, che è indispensabile per aver ragione del forte esercito austriaco. Alla luce di queste premesse generali, il D. propone come unica soluzione politico-militare l'alleanza tra Napoli e il Piemonte. Altre soluzioni non sono da lui ritenute praticabili, dal momento che «una lega di tutti i sette principi e Stati d'Italia contro l'Austria è in1possibile, e innecessaria; il tentativo di uno, di due," o anche di tutti gli Stati centrali insufficiente; quello di Napoli isolato, o di Piemonte pure isolato, esposto a pericolose eventualità, anche data un'occasione più o meno propizia».52 L'alleanza tra i due Stati dovrebbero essere stipulata sulle seguenti basi politico-militari: fede ai trattati generali che dan norma al diritto pubblico d'Europa; ma pieno uso delle facoltà che ci vennero da esse conferite [come la piena indipendenza e la facoltà di erigere senza restrinzioni anche fortezze, riconosciute nel trattato di Vienna del 181 5 - N.d.a.]; statuto di governo rappresentativo quale che li sia, purché incompatibile con gl'interessi dell'Austria [proprio per indurla a intervenire - N.d.a.]; guerra difensiva, quindi offensiva [cioè: difensiva controffensiva - N.d.a.] contro di lei, per assicurarci una piena indipendenza non solo di diritto ma di fatto; conquista in comune; riordinamento di tutte le provincie appartenenti geograficamente all'Italia, preventivamente e segretamente pattuito sulla base dei due regni di alta e bassa ltalia.53
5 1 ivi,
p. 176. ivi, p. 56. 53 ivi. pp. 56-57. 52
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Aspetti strategici e ordinativi della conquista dell'indipendenza nazionale: il ruolo delle «milizie cittadine» Gli aspetti più propriamente strategici, tecnico-militari e ordinativi che derivano dal quadro prima tracciato ne hanno anche i limiti, a cominciare da quello di ritenere indispensabile, quindi - ottimisticamente - anche possibile, la piena adesione a un progetto politico che castiga tanti inveterati egoismi e localismi, presuppone la scomparsa improvvisa di antiche rivalità, diffidenze, invidie e divisioni, richiede la nascita come per incanto di una forte fede nazionale comune. Il D. come nessun'altra ha messo in luce le cause profonde delle divisioni italiane: ma proprio lui, sostenitore delle differenze insopprimibili derivanti dalla geografia e acerrimo nemico del mercato di popoli e di territori avvenuto al Congresso di Vienna nel 1815, sembra voler riprodurre qualcosa di simile nel caso italiano, con popoli e dinastie che con troppa disinvoltura cambiano dipendenze e confini e/o perdono peso senza lamentarsi, lieti anzi - sembra - di accelerare l'unità nazionale ... in nome di un sentimento che non c'è mai stato in misura sufficiente. Scritte nel 1846 in esilio, le pagine del D. indicano tuttavia con chiarezza quanto sarebbe stato necessario fare nel 1848 - 1849. Poiché questo non è stato fatto, e sono prevalsi i soliti difetti e le solite diffidenze «interne» ai vari Stati che egli avrebbe voluto far scomparire, le sue idee indicano indirettamente anche le ragioni politiche fondamentali del fallimento della guerra contro l'Austria e del principio che l'Italia avrebbe dovuto fare da sola. Dal punto di vista ordinativo il D. intende dimostrare che in caso di guerra contro l'Austria, e nell'ipotesi che l'Europa rimanga neutrale, sono necessari: - per la prima campagna difensiva, 130/150000 uomini più altri 50000 per i presidi interni e i corpi di riserva; - altri 100000 uomini di riserva, che servirebbero per la prosecuzione delle operazioni contro una potenza come l'Austria, «la cui principale virtù è quella di riprodursi incessantemente nelle guerre, e di trarre vigore dalle proprie rotte». La prima aliquota di forze - egli dice - è disponibile: ma i 100000 combattenti di riserva possono essere approntati solo ricorrendo in misura massima - come mai si è fatto - alle «milizie cittadine», e tenendo presente che queste «non s'avran mai senza l'energia e la devozione che lo spirito pubblico del paese trova solo nelle ottenute guarentigie politiche». Alla fine del secolo XVlll, Napoli e il Piemonte combattendo contro Napoleone non si sono curati abbastanza di «questa inesauribile vena delle forze na-
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zionali». Se nel 1796 i francesi hanno potuto facilmente impadronirsi dell'Italia, la principale ragione è stata di carattere ordinativo: l'ignoranza propria de' tempi e le consuete ragioni di una politica paurosa spiegano, se non giustificano quel modo strano di voler sostenere una guerra d'indipendenza nazionale, lasciando inerte nelle città e nelle campagne il nerbo virile degli abitanti; mentreché opportunamente adoperato in servizi di seconda linea, o di presidi, si rendeva disponjbile la totalità delle truppe ordinarie, ed era per tal modo facile salvar lo Stato o almeno stipular migliori condizioni di pace, che non si fece. 54 Non basta -prosegue il D . - ricorrere aH'armamento del popolo «alla rinfusa e quando il nemico sta alle porte»: la cosa più importante è «predisporre con arte gli animi di essa, perché corra spontaneamente alla difesa del Principe e della nazione». Se il Piemonte nel 1792 ha fornito per la difesa nazionale una così scarsa aliquota di milizie volontarie (solo 2000 nella sola Torino), la ragione è chiarissima: si trasandò di dissodare il terreno prima di seminare, cioè di preparare con opportune providenze lo spirito pubblico del paese a quel grande movimento. Solita pecca: per essere in grado di governare i popoli con agio e senza travaglio di sorta, si lasciano impecorire i medesimi nella ignavia e nella infingardaggine, lontani più che si possa dalla patria (e chi avrebbe ardito nominarla nel 1793?); e poi, quando s'abbuia l'orizzonte, e Bonaparte e Championnet picchiano alle porte di Napoli e di Torino, i governi si lagnano della mancanza di leoni e d'eroi per puntellare la dinastia che cade. È naturale: il letargo fu così profondo, lungo, e con arte sì squisita mantenuto, che i chiamati non rispondono, o mal desti, appena valgono a reggere sbadigliando ancora il fucile e lo zaino. Allora succedono le rotte, le ignominie, e il frettoloso e turpe imbarcarsi per oltremare. 55 Per impiegare i rispettivi eserciti permanenti interamente contro l'Austria, Napoli e il Piemonte devono perciò predisporre le rispettive guardie nazionali, che formeranno la nostra «seconda riserva» e avranno il ruolo di forze territoriali. In tal modo si riuscirà a mettere in campo forze numericamente pari a quelle dell'esercito austriaco, tra l'altro co-
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ivi, p. 182. ivi, pp. 183-184.
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stretto a guardarsi le spalle mantenendo il controllo dei vari popoli dell'Impero. Ma affinché la lotta abbia esito favorevole, bisogna superare gli austriaci anche in fatto di coraggio e di mezzi finanziari. E noi potremo ottenere sul nemico una grande preponderanza morale, visto che le truppe austriache non hanno mai bri11ato per entusiasmo nazionale, per forti passioni, per ardore politico. Noi dobbiamo perciò infondere nei nostri eserciti quanto all'Austria è sempre mancato e sémpre mancherà: agli eserciti suoi lenti, compassati, metodici opponiamo i nostri audaci, impetuosi, concitati da un grande pensiero nazionale; facciamoci della nostra politica e artistica natura un'arme contro la forza meccanica e passiva de' suoi battaglioni. Non è perciò dire, aversi a trasandare quelle discipline e quelle ordinanze secondo cui quasi sempre soccombono in campo aperto l'entusiasmo e il patriottismo; ma intendo, che bisogna disciplinarci senza pedanteria, stringer le fila senza incatenarle, obbedire senza servilità e codardia; risultati tutti che è vano sperare da altra parte, se non dalla vita pubblica, da quell'agitazione sociale della libertà, la quale sostiene le virtù militari e civili, centuplicando le forze di un popolo novellamente rigenerato. Che se alla tattica alemanna noi contrasteremo solo colla tattica italiana; se all'ingenita disciplina austriaca contrapponiamo solo il nostro carattere un po' discolo, senza gli stimoli e il freno della libertà, cautamente adoperati, noi allora sosterremo una fredda guerra di cancellerie, dove la nazione che ha più braccia, quasi sempre soprafà quella che ne conta meno. Ora per popolazione rispetto alla Austria noi non siamo che venti quattro milioni contro trentasei; non si dimcntichi.56
Se si tiene conto della differenza di popolazione e si mette sulla bilancia anche la differenza tra l'indole dei due popoli, il vantaggio sembra tutto a favore dell'Austria. Il popolo italiano, numericamente inferiore, «tralignato, ammollito e nena maggior parte disavvezzo alla discip1ina de11e milizie», si trova di fronte a un altro «di forte tempera, paziente, disciplinato, educato virilmente e militarmente», un esercito con pochissimo prestigio e scarse tradizioni deve combattere contro un altro che ne ha piena la storia. Il D. si impegna perciò a dimostrare che questi svantaggi sono più apparenti che reali, e che anche alle esigenze finanziarie di una lunga guerra contro l'Austria si può provvedere. La chiave da lui suggerita per risolvere il problema è sempre una e una sola, e date le circostanze, sem-
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ivi, pp. 185-186.
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bra decisamente semplicistica: rinvigorire lo spirito pubblico e lo spirito mi1itare con la concessione delle libertà costituzionali, che tra l'altro dovrebbe ipso fatto incrementare l'economia: «per fare che i1 Piemonte agguagliasse la proprietà economica del1a Francia, gli sarebbe forza di ricorrere alla stessa miniera, agli stessi elementi politici, alla possanza delJ'opinione pubblica; ed è ciò appunto che ben si conosce, ma non si osa volere». 57 Promuovendo una sincera alleanza tra popoli e Prìncipi in vista di una guerra d'indipendenza, «sarà cosa agevole ottenere prestiti, o nuove tasse coll'appoggio degli amministrati medesimi chiamati a intervenire nel maneggio delle faccende loro e più che mai interessati a saldare la nuova situazione». Con queste ottimistiche ricette, il D. sembra dimenticare che non si tratta tanto di indicare degli obiettivi condivisibili ma nell'Italia del tempo utopistici, bensì di ca1colare se e in che misura è concretamente possibile raggiungerli ... Eppure, diversamente dallo Zambelli e da] Cattaneo il D. realisticamente ritiene che le forze militari di uno Stato non devono essere calcolate basandosi eclusivamente sulle cifre della popolazione, ma considerando quella parte di essa che è effettivamente disponibile, moralmente e materialmente, per respingere un'aggressione o per intraprenderla. La maggiore o minore disponibilità di forze m~Jitari dipende da svariate cause sociali, locali, politiche e economiche: vi sono nazioni che hanno in sè tutte le forze necessarie per respingere un'aggressione, senza però essere in grado di operare nel territorio di un'altra. E poiché tutti i segreti della strategia consistono nel concentrare le masse operanti anziché dividerle, la superiorità relativa che noi possiamo sperare riguardo all'Austria, l'otterremo appunto da questa circostanza, la quale sta tutta a favor nostro: I noi avremo facoltà di disporre e di muovere maggiori forze di lei; 2°) noi potremo concentrarle dove e come più ci torna utile, mentre ella sarà costretta a disseminarle su di otto o nove punti differenti. 0
)
Secondo il D. le forze che l'Austria potrebbe mettere in campo non oltrepasserebbero in totale i 400.000 uomini di fanteria e i 60.000 cavalieri . Supponendo che si riproducano interamente le favorevoli condizioni interne e internazionali della guerra «nazionale» austriaca contro la Francia napoleonica, tale cifra già si ridurrebbe a circa 275000 uomini, per la necessità di destinare una consistente aliquota della forza totale a servizi
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ivi, p. 187.
e presidi interni. Ma in caso di guerra contro l'Italia, l'Austria si troverebbe a fronteggiare specifiche circostanze sfavorevoli, che le impedirebbero di mettere in campo le stesse forze a suo tempo riunite per la guerra contro la Francia. Infatti essa dovrebbe fare i conti con: a) l'irrequietezza dei vari popoli dell'Impero, poco entusiasti di una costosa guerra esterna. Perciò, «non solamente andrà l'Austria a rilento ne11'armare le popolazioni, ma le converrà anche vigilare con truppe d'ordinanza»; b) i 35000- 40000 italiani che fanno parte del suo esercito, dei quali non potrebbe avvalersi contro l'Italia e che dovrebbero anzi essere controllati, costituendo quindi un danno e non un apporto positivo; c) la necessità di mantenere al1e frontiere un'aliquota di truppe, per garantirsi in ogni caso da possibili atteggiamenti ostili del1a Russia, della Prussia e della Germania. Detratte le truppe non impiegabili contro l'Italia per queste esigenze rimane una forza di non più di 135000 uomini di fanteria e di 15000 di cavalleria, sui quali il D. si basa per i suoi calcoli. A queste forze austriache il Piemonte potrebbe opporre in totale circa 150000 uomini, e lo Stato di Napoli - pur avendo una popolazione quasi doppia - solo 80000 uomini (in proporzione alla popolazione, assai di meno della Toscana). Considerando anche le forze militari degli Stati minori, si arriva a una forza complessiva di 261000 uomini. Detratti per esigenze interne e varie 111000, l'esercito italiano potrebbe mettere in campo 150000 uomini, di cui 14000 di cavalleria. Se Napoli adottasse un sistema di reclutamento analogo a quello - su base più ampia - del Piemonte, questi uomini potrebbero diventare circa 200000; se poi sia il Piemonte che Napoli e gli altri Slali nazionali cosliluissero Guardie Nazionali liberando dai servizi territoriali l'esercito attivo, questa cifra potrebbe aumentare ancora fino a un massimo di 250 - 300000 combattenti. Di conseguenza «siamo superiori in forze numeriche all'Austria, e su lei pesa la necessità di dividerle, mentre a noi è fatta quasi un'intera libertà di concentrarle». Non basta: le Marine sarda e napoletana riunite realizzerebbero su quel la austriaca una superiorità incontrovertibile e assoluta: Napoli e Piemonte possono ordinare una flotta combinata, superiore a quella dell'Austria, contando solo sulla propria marina militare, e molto più se vi aggiungono gli aiuti della mercantile piroscafa fcioè a vapore - N.d.a.] o a vela, di cui è importantissimo il concorso per imbarcare e sbarcar truppe rapidamente, e cooperare con grande efficacia alle operazioni degli eserciti collegati di terra. Benché la nostra contesa sia veramente definibile principalmente dalle giornate [cioè per mezzo delle battaglie campali terrestri - N.d.a.] e secondariamente solo dagli scontri di mare, nullameno quelle verranno mira-
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bi/mente da questi favoreggiate, quando noi ollenessimo di signoreggiare l'Adriatico !nostra sottolineatura - N.d.a.]. 58
Accanto a questo raro accenno agli aspetti ma rittimi della guerra contro l'Austria e alla preminente fisionomia terrestre della guerra, si trovano nel D. - tra le righe e non tra le righe - diverse critiche al sistema militare napoletano, che a suo giudizio fa ben poco per preparare valide risorse, anche se potrebbe benissimo applicare il siste ma piemontese: «non mi dilungo su questo tema, e confido che quegli svegliatissimi ingegni de' nostri connazionali appenninici, i quali con tanto fervore da qualche anno in qua si sono dati a restaurare la milizia, sapranno quanto noi eridanici, valutare l'importanza politica, sociale e morale di militarizzare il loro paese».59 Denotano scarsa fiducia nelle soluzioni napoletane osservazioni come questa: «non basta certamente a costituire un buon esercito il gittare sulle spalle del primo giunto una divisa più o meno sfolgorante; ciò che importa in quel regno, è avvezzare il popolo tutto al peso della milizia». Aperta invece la disapprovazione per il ricorso a mercenari svizzeri: mi cuoce l'animo di vedere in un esercito italiano figurar tullavia nulla meno che 63 64 svizzeri. Napoli e Roma sono le sole potenze che s'appoggiano ancora a cotesta classe di truppe: ma di Roma almeno s'intende il perché, di Napoli veramente no. Ricordisi questa, che tuue quante le dinastie che se ne valsero perirono tutte. Se essa non vuol privarsi di quell'elemento boreale, che può essere utile per neutrali zzare gli effetti antimilitari, prodotti dalle delizie capuane e sibaritiche del clima del mezzodì, perché non ordinarle a compagnie scelte, e ripartirle nei corpi nazionali, o anche disseminarle tutte nell'esercito? [... ]. Se è una necessità imprescindibile, ciò che peno a credere, la conservazione di quelle truppe in corpi separati, i quali succhiano allo Stato doppia e tripla spesa, che non gli indigeni, nessuno negherà essere questa una tristissima e poco bene augurosa necessità.6() ·
Coerentemente con la sua idea che il numero di per sè non è potenza, il D. prende in esame anche la possibile efficienza morale delle truppe piemontesi e napoletane, a proposito della quale si dimostra fin troppo ottimista, dimenticando quasi tutto quello che era stato da lui stesso os-
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ivi, p . 233. ivi, p. 218. 60 ivi, p. 219. 59
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servato a proposito dei difetti degli italiani e dei loro ordinamenti militari (non escluso quello del Piemonte, che farebbe leva sulle milizie cittadine più di Napoli, ma non abbastanza). La sua impresa è ardua: deve dimostrare che in una prossima guerra contro l'Austria il successo è possibile, perché non si verificheranno più i cedimenti, le divisioni, le viltà del passato, non ci saranno più italiani imbelli o assenti. Ma un popolo può mutare così all'improvviso la sua indole? In merito, il D. dà una poco convincente risposta positiva, sostenendo che «non v'è individuo, né popolo, per quanto sia sfibrato e affondato nella propria nullità, il quale non possa venir rinsanguato e rinvigorito dallo stimolo di una potente idea, per cui ne risulti in certo modo trasformata la sua natura».61 Gli exempla stranieri da lui citati sono alquanto impropri: l'insurrezione degli Spagnoli e Portoghesi - che pure avevano in precedenza tollerato inetti e corrotti principi locali - contro Napoleone nel 1808-1813, quella della Grecia contro i Turchi e l'aspirazione degli israeliti a recuperare la loro patria antica. Notevole solo la profetica osservazione su quest'ultimi: «raggranellate in un sol colpo il fiore della gioventù israelitica, per quanto ella si trovi ora dal nostro egoismo ridotta all'ultima abbiezione, datele un capo di sua fiducia, qualche battaglione disciplinato, e conducete il tutto nella Palestina: o io deliro, o questa gente avrà tra non molto recuperata la sua patria antica». 62 Gli israeliti avevano forse, come gli italiani, ragioni di carattere geografico che li rendevano diversi tra di loro? Evidentemente gli exempla del D. sono poco calzanti, perché riferiti a popoli che per varie ragioni storiche, a cominciare da quelle geostrategiche indicate dallo stesso D., avevano già da molto tempo acquisito - se non altro di fronte all'oppressione, ai soprusi altrui - un forte spirito unitario e un forte senso della propria identità, fino a sconfinare nello sciovinismo: cose che secondo lo stesso D. sono frutto di un lungo processo storico, e che invece nel caso italiano dovrebbero maturare all'improvviso ... Pur di accreditare le sue tesi salvifiche, il D. corregge in senso ottimistico i suoi stessi giudizi prima citati: in Piemonte esistono «vigorose istituzioni» notevolmente rafforzate in questi ultimi anni; <<Napoli s'è data anch'ella a rinvigorire il popolo col militarizzarlo, e deve persistere nella santa opera senza punto lasciarsene stornare da1la procacità di quegli ingegni pericolosi, i quali non pensando che Achille nacque prima d'Omero, stimano potersi l'Austria sfondare con altri mezzi che con quelli delle artiglierie». 63
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ivi, p. 227. ibidem.
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Su questo punto, egli polemizza con i pacifisti del suo tempo e si mostra - a ragione - certo che la questione italiana non ammette altra soluzione che quella militare. Sul piano generale le lunghe e ostinate guerre soltanto hanno virtù di dar nuova e forte tempra a un popolo infingardito, e piantare le redente nazionalità su durevoli fondamenta. Querele e piagnistei, per lo meno intempestivi, sono quelli degli uomini artistici e anacreontici allorché si fanno a declamare contro la milizia e la guerra, chiamando l'una il semenzaio della gente oziosa e improduttiva, e l'altra il flagello dell'umanità. Non intendo come essi vogliano rinvigorire il carattere italiano, ora tanto rilassato, e infondergli il sentimento della propria dignità, vedendoli proscrivere il mezzo più spedito per ottenerlo. Una sola battaglia vinta può rovesciare, o rilevare [cioè rialzare - N.d.a.] in un'era, ciò che non valsero ad effettuare secoli e secoli d'idee mirabilmente scritte o predicate. Gli uomini speculativi , i poeti, gli storici, i filosofi, gli artisti stessi gettano le prime sementi delle nazionalità, creano anche, o aiutano il valore campale; ma chi loro dà la consistenza necessaria, chi le assoda, chi le protegge e le fa prosperare, sono le guerre e i soldati. Quand'anche perisse nella nostra impresa metà degli italiani, la metà sopravvissuta ricostituirebbe in pochi anni una nuova razza, ribattezzata e ringiovanita, col sangue della generazione immonda. 64
Quando si fa beffa delle istituzioni, sulle quali sono in gran parte riposte le nostre speranze, la letteratura - prosegue il D. - non corrisponde ai nostri bisogni e non svolge la sua missione. Ma nel campo della cultura militare egli vede anche dei segnali positivi, come la pubblicazione Giornale Militare Italiano a Firenze (vds capitolo IX), che così commenta: sarebbe mai vero che la Toscana, dopo trecento anni di oblìo, mettesse a profitto i consigli di Macchiavelli? Giova sperarlo dalla patria di Farinata degli Uberti e del Ferrucci. Napoli ha la sua Antologia Militare [nel 1846, non l'ha più - N.d.a.]; è presumibile che il Piemonte adontatosi al fine del suo lungo, incredibile o vergognoso mutismo, non tarderà a imitarne l'esempio, pubblicando anch'egli qualche rivista, o foglio periodico militare. In tal caso, col nuovo Giornale militare italiano di Firenze, avremo una trilogia guerresca compiuta. Faccia Dio che frutti! 65
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G. Durando, Op. cit., p. 232. ivi, pp. 233-234.
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Noi osserviamo che il Piemonte tarderà altri dieci anni ad avere una sua rivista militare, che poi diventerà poco dopo quella italiana; la «trilogia guerresca compiuta» non ci sarà mai, perché le altre due riviste pre-unitarie avranno vita breve e stentata. Cattivo profeta - per eccesso di ottimismo - sulla cultura militare e sulla rinascita delle virtù guerriere in Italia (binomio indissolubile). il D. lo è anche a proposito dell'efficienza morale e quindi della capacità combattiva della marina austriaca: a suo giudizio l'Austria potrà fare «nessuno o pochissimo capitale» suHe proprie navi, con equipaggi per la maggior parte composti di ufficiali e marinai veneti o dalmati che rivolgeranno con apatia o ripugnanza le artiglierie «contro uomini a cui sono legati per vincoli di lingua, usi, speranze e comune odio verso l'oppressione straniera» _66 Ahùnè! vent'anni dopo, quando queste ragioni avrebbero dovuto prevalere ancor più, sarà Lissa_
Il piano di campagna per la guerra italiana contro l'Austria.· effettive possibilità dell'apporto popolare e guerra per bande TI D. - diversamente dal Balbo e dal Gioberti - si preoccupa anche di indicare, sia pur per sommi capi, i criteri ai quali si dovrebbe ispirare un piano di campagna per la guerra contro l'Austria, premettendo che non scenderà nei particolari, sia per offrire all'Austria conoscenze che potrebbero esserle molto utili, sia perché una cosa sono le considerazioni di uno scrittore e altra cosa sono gli intendimenti di uno statista e/o di un generale d'armata: solo il governo d'accordo con il comandante militare è in grado di stendere un buon piano di guerra (che è cosa diversa dal piano di campagna) al momento della sua attuazione. Riappare anche la tradizionale, communis opinio sulla strategia come scienza esatta e quasi dettata dalla geografia: in un Paese, come l'Italia, che l'Austria «ha rovistato palmo a palmo», ben poco di nuovo ormai si può dire in fatto di piani militari:
la strategia non è un'enigma, né il retaggio di pochi iniziati, e molto meno debb'esserlo per l'Austria, che ha nell'Arciduca Carlo il primo grande scrittore di questa scienza, il quale, praticatone quasi istintivamente i principi nella guerra dell'Alemagna del 1797, li ridusse poi a teoria ragionata, dettando un libro che può dirsi il primo codice della strategia.67 [non è vero - N.d_a.]_
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ivi, p. 232 (Notal). ivi, p. 235_
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L'omaggio al1e teorie «scientifiche» dell'Arciduca è accompagnato da una proposizione tipicamente clausewitziana, anche se Clausewitz non viene nominato: «La guerra non è altro, o non deve essere altro nello stato presente del1a civiltà, che l'attuazione di un concetto politico, a cui debbono coordinarsi e sottostare tutte le operazioni di strategia».68 Di conseguenza, l'alleanza tra i due principali Stati italiani deve anzitutto far apparire la conquista dell'indipendenza nazionale come un «litigio politico» 69 tra noi e l'Austria, che NON riguarda le altre potenze europee. Ciò posto, i tre capisaldi della guerra sono: 1° guerra difensiva durante il primo periodo della campagna; 2° operazioni concertate fra gli eserciti dei due Stati capilega e le forze degli Stati centraJj d'Italia; 3° simultanietà e accordo delle operazioni degli eserciti di terra con quelle delle nostre marine. 70
Secondo il D. l'atteggiamento inizialmente difensivo è il più conveniente per tre ragioni: a) consente di dimostrare all'Europa «non esser noi discoli avventurieri, né primi perturbatori della pace del mondo, ma solo pronti a respingere l'Austria», creando favorevoli premesse politiche; b) consente di giustificare e scatenare una guerra preventiva: «se chi alza primiero la mano onde percuoterti, tu più destro scarichi un colpo preventivo, la vera iniziativa sta in chi alzò prima la mano»; c) «prima delle artiglierie, devono tuonare le tribune». Se invadiamo la Lombardia prima di adottare il nuovo sistema politico, «noi non crederemo a noi stessi, né quindi verremmo da altri creduti né seguiti»; d) da un punto di vista strettamente militare e strategico, lo scontro con l'esercito austriaco in Lombardia sarebbe una scelta che avvantaggia solo l'Austria. Il D. si sofferma soprattutto su quest'ultimo aspetto, che tutti li riassume. Anche ammesso che si possa arrivare in Lombardia senza sparare un colpo, il che sarebbe assurdo, così facendo si allontanerebbero le probabilità di vittoria. A parte il vantaggio morale, infatti, si deve tenere conto che la parte forte del sistema militare austriaco in Italia si trova sul Mincio e sull'Adige [cioè nel quadrilatero formato dalle fortezze di Peschiera, Verona, Mantova e Legnago - N.d.a.], dove una giorna-
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ivi, p. 237. ivi, p. 239. 69 ibidem. 70 Ibidem. 68
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ta campale sarebbe per noi molto più arrischiata che aspettando il
nemico sulla Sesia e sul Po o alla Cattolica, in una postura studiata e fortificata anteriormente, e con ritirate sicure. E lo stesso pure si dica se impegnassimo una battaglia offensiva tra Novara e Milano, inferiori come saremmo probabilmente in cavalleria, o a fronte di una posizione fortificata, o ancora meglio conosciuta dal nemico che da noi. 71 Quello che vale, secondo il D., è sempre il principio della concentrazione delle forze. Contro l'esercito della Lega Italiana penetrato in Lombardia, l'Austria potrà concentrare tutte le sue masse disponibili della riserva, e dei presidii delle provincie lombardo-venete; laddove restando noi sulla difensiva, essa dovrà dividere le sue forze, e non lanciarsi nel cuore del Piemonte, lasciando sguemito l'interno del Regno Lombardo-Veneto. Oltreché è pur chiaro, che volendo anche l'Austria ritirarsi sul Mincio, concentrerebbe naturalmente le sue forze, mentre noi dovremmo disseminarle per osservare le cittadelle di Milano, Pizzighettone, Ferrara e Comacchio, le quali in caso di offensiva per nostra parte, resterebbero al nostro retroguardo.72 Anche nel caso che la politica consigli l'invasione del LombardoVeneto, il calcolo delle forze ci sarebbe sfavorevole, quindi anche se le esigenze politiche consigliassero la guerra offensiva, si dovrebbe ugualmente propendere per la guerra difensiva. Almeno in un primo tempo, non si potrà rafforzare il nostro esercito ricorrendo alla leva nel territorio del Lombardo-Veneto occupato: «gli uomini che s'intendono di queste specialità sanno perfettamente, che quand'anche fossimo in situazione di condurre in Lombardia tutti i Quadri necessari per organizzare i 40 o 50000 uomini che essa in pochi giorni sarebbe in grado di somministrarci, non potremmo mai riordinarli a battaglioni di campo e di battaglia così su due piedi».73 Intanto l'esercito austriaco avrebbe il tempo di concentrarsi e di attaccarci con forze maggiori, ricacciandoci sulla Sesia e nella Romagna. La formula strategica riassuntiva della guerra indicata dal D. in relazione a queste considerazioni è perciò la seguente: «guerra passiva-di71 72
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ivi, p. 241. ivi, p. 242.
ibidem.
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fensiva al di qua del Ticino; guerra difensiva-attiva nell'Appennino superiore per mezzo degli eserciti d'Italia meridionale e della centrale; guerra offensiva-attiva nell'Adriatico di tutte le marine della lega riunite; guerra per bande nelle Alpi lombarde, nelle venete, e da pertutto dove possa assecondare le operazioni regolari». 74 In questi concetti vanno notate due cose. La prima è una visione interforze del problema, con la marina che ha un atteggiamento strategico opposto a quello dell'esercito, senza peraltro che il D. ne precisi meglio i compiti e ne indichi nel concreto gli apporti alla causa comune. La seconda è la guerra per bande, che compare all'improvviso in una visione finora dominata dalla necessità di contare sull'apporto popolare non per condurre azioni autonome sul tipo della guerriglia spagnola, ma per rafforzare gli eserciti regolari con nuovi arruolati alla maniera napoleonica. Il D. non specifica perché introduce quasi di sfuggita questa pedina, sia pure come supporlo all'azione delle forze regolari. Par di capire che egli intenda limitare la guerriglia specialmente alle zone alpine: ma perché non a quelle appenniniche e nell'Italia meridionale, dove già nel periodo napoleonico si erano avuti seri focolai di guerriglia? 1n tutti i casi, il ricorso alla guerriglia ha come ineludibile premessa l'apporto, la passione popolare per la causa nazionale. Su questo punto, trattando del piano di campagna il D. - in contrapposizione con alcune sue precedenti affermazioni incentrate sulla possibilità di un repentino, rapido risveglio dell'idea nazionale nel cuore degli italiani - è assai tiepido, opponendesi a coloro che sostengono non un atteggiamento passivo nella contesa con l'Austria, ma «una guerra di propaganda» e offensiva sul modello della Rivoluzione Francese, la quale risvegli e coinvolga l'intera società italiana, «comunicandole tutta la foga di una grande rivoluzione politica e sociale». A questo proposito il D. respinge l'accusa di «fondarsi di soverchio sulle forze ordinate, e troppo poco su quelle delle moltitudini, e sul mobile delle passioni politiche». Le moltitudini - egli replica - in Italia non esistono, o almeno non sono quelle che dovrebbero essere. Riemerge, ancora una volta, la specificità della situazione italiana, ben diversa da quella di altre nazioni dove da tempo si è consolidato il sentimento nazionale:
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ivi. p. 252.
1a possanza delle masse è innegabile; ma essa dipende da una forza recondita [che dunque non può nascere all'improvviso, come il D. sosteneva in altra parte dell'opera - N.d.a.] esistente in lor prima d'essere spinte all'azione, e alla quale altro più non manchi, se non una mano per governarla, e un'opportunità per irrompere. In un popolo che gode da molto tempo dei vantaggi di una nazionalità politica, le moltitudini serbano un certo ordine in mezzo al disordine stesso. Quindi ne sorge una potenza sociale, complessiva, irresistibile, perché aiutata dal concentramento del potere sovrano, dalla temperanza degli ordinamenti, accoppiata e ravvivata dalle passioni e dall'accordo reciproco di tutte le molle che costituiscono la macchina governativa. Siamo noi in queste condizioni? No certo. Noi siamo sette o otto province, o masse segregate, di cui poco più che la superficie è affratellata nel sentimento comune della nazionalità italiana, ma di cui gli ultimi strati poco armonizzano anche coi superiori. È mestiere convincerci del gran divario che corre tra un popolo che insorge a tutelare una nazionalità presistente da lunga mano, qual era il francese prima della rivoluzione, l'americano, il greco [ma l'insurrezione di quest'ultimo popolo viene indicata dal D., in altra parte dell'opera, quale esempio di improvviso risveglio per gli italiani - N.d.a.], e quello che tende a ricuperare la perduta indipendenza, di cui gli è assai [cioè: «è molto» - N.d.a.], se serba ancora una lontana ricordanza r...l lo veggo una società italiana, anzi otto o dieci società italiane, ma non mi viene fatto di vedere ancora un popolo italiano [... ]. Bisogna farlo questo popolo e, per farlo, è d'uopo che noi ci serviamo di lui tal qual è, ma nulla più, senza fantasticare in lui passioni, sentimenti e volontà che non ha ancora e non può avere. E non può intendere queste astrattezze di unità e concentrazione nazionale; solamente alle classi colte dobbiamo rivolgerci, a quelle cioè che sono in grado d'intenderci, e per mezzo Loro far penetrar le nostre idee nelle tarde moltitudini [Nostra sottolineatura - N.d.a.].75
Le teorie del D. sugli aspetti militari dell'indipendenza nazionale poggiano dunque su due cardini: le condizioni geostrategiche e geopolitiche dell'Italia e una concezione elitaria del problema dell'unità nazionale; quest'ultima è a sua volta dipendente da fattori geografici, che non hanno favorito la formazione di una coscienza nazionale. D'altra parte, il D. non è fautore di «una conquista soldatesca dell'Italia [da parte del Piemonte - N.d.a.], come volle qualche principe tentarla né secoli scorsi,
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ivi, pp. 243-244.
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e ultimamente [nel 1815] Murat», ma di una via di mezzo che si basi più sulla fiducia che sull'entusiasmo. «Le masse e l'ardore sbrigliato» - egli pensa - in teoria sembrano più efficaci di un esercito regolarmente ordinato, ma all'atto pratico non è così. E poiché sarebbe assurdo escludere del tutto questo grande strumento d'azione, «non vogliamo che l'Italia venga dritta dritta a noi, o noi ad essa, ma che il cammino venga corso a metà di ciascuno». 76 Si può essere d'accordo: ma nonostante la sua esperienza militare, il D. sembra trascurare che anche gli eserciti regolari non combattono bene - o non combattono affatto, o non combattono affatto tutti insieme - se Quadri e soldati di varie regioni non sono uniti, anzi affratellati, spinti e motivati da un comune sentimento nazionale e da comuni e fortemente sentite aspirazioni, che nella fattispecie dovrebbero essere tutte convergenti sulla ricerca dell'indipendenza nazionale. Queste condizioni nel 1846 non c'erano, perché nemmeno allora i soldati dell'esercito permanente erano - o potevano rapidamente diventare - dei robot, lanlo più che il D. stesso riconosce la necessità di dare al reclutamento una base popolare più larga. Non si capisce, quindi, come la sua fiducia nel sentimento patriottico e unitario delle masse italiane - divise prima di tutto dalla geografia si armonizzi con il suo modello militare, con la sua fede nell'improvvisa comparsa di alte (e a,;senti da secoli) virtù civiche e militari nelle italiche contrade, con il suo piano imperniato sulle possibilità di realizzare una compatta lega politico-militare - con forte concorso popolare - tra i due maggiori Stati italiani. Ci si trova di fronte al solito conflitto tra l'indispensabile (o il desiderabile) e il possibile, dove - nella generalità dei casi - è il possibile a prevalere (e infatti, neUa fattispecie sarebbe prevalso). Il D. passa poi ad esaminare con più attenzione il contesto internazionale, per arrivare alle seguenti conclusioni: a) per realizzare l'unità nazionale non conviene - come sostiene Balbo - aspettare contingenze internazionali favorevoli: il momento buono non è lontano, «perché sono imminenti in Europa due grandi fatti inevitabili» (che il D. non specifica). Intanto l'Italia si deve preparare, per presentarsi unita e militarmente forte al futuro congresso europeo; b) la Francia e l'Inghilterra non hanno motivo di preoccuparsi per l'unificazione italiana, perché «in ordine agl'interessi industriali e marittimi, noi troppo tardi giungiamo sul1a linea della civiltà, né atti a commerciare nel Mediterraneo e negli altri mari»;77 c) l'unico timore che può suscitare la riunificazione italiana in
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ivi, p. 245. ivi, p. 259.
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campo internazionale è quello che essa diminuisca la forza dell'Austria, «la cui mole compatta si giudica necessaria al bilancio di tutti i potentati»; d) tale timore è infondato, perché la nostra unità, spingendo l'Austria al di là del confine naturale delle Alpi, la indurrebbe a concentrarsi sul Danubio, accrescendo così il suo ruolo di Stato-cuscinetto contro l'espansione russa e in definitiva rafforzando l'Austria stessa, perché il Lombardo-Veneto per l'Austria è elemento di debolezza e non di forza; e) la riunificazione italiana contribuisce a risolvere la questione d'Oriente, inducendo l'Austria a cercare compensi nella spartizione dell'Impero Ottomano e la Francia e l'Inghilterra a non vedere più in quest'ultimo un bastione contro l'espansione russa in Oriente, assegnando piuttosto all'Austria tale ruolo. La cosa migliore che possono fare le potenze che vedono di buon occhio la riunificazione italiana è sempre di rimanere neutrali, lasciando che gl'italiani stessi compiano l'opera. E qui il D. insiste ancora sulla necessità di ravvivare le virtù morali e guerriere del popolo, alla quale dovrebbero partecipare anche gli scienziati: «io trascorro a credere che quei 1500 o più scienziati, i quali, nel momento che sto scrivendo, si trovano riuniti in Napoli, meglio aiuterebbero a sollevarci dalla nostra prostrazione, se in luogo delle forze dell'eclettismo, o delle evoluzioni de' pianeti, conoscessero e sapessero dirigere quelle di un battaglione, o di uno squadrone». 78 Anche la sconfitta accompagnata da «una mediocre resistenza» avrebbe un valore positivo, e contribuirebbe a legittimare e rafforzare moralmente la causa nazionale: se non altro perché la Lega tra Napoli e Piemonte - «non potrà mai in verun caso condurci a quelle rotte vergognose e a quello sgominamento inesplicabile che tratto tratto macchiano la nostra storia». 79 Per poco che si prolunghi la resistenza, e quale che essa sia, sarebbero pur sempre un fatto di grande e positivo rilievo morale «i pochi allori stralciati nella lotta e sul campo, dove dopo tredici secoli di separazione tutti gli Italiani della penisola convennero nell'eterno abbracciamento». 80 Questo perché «non v'è nazionalità politica né morale, dove non è giusto orgoglio, né orgoglio senza grandezza, né grandezza senza l'autorità che danno principalmente le armi, le glorie e l'eroismo delle grandi lotte nazionali, e le virtù militari e civili che ne seguono». 81
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ivi, pp. 338-339. ivi, p. 340. 80 ivi, p. 310. 81 ivi, p. 339.
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Conclusione Limiti e contraddizioni delle soluzioni politico-militari indicate dal D. per giungere all'unità nazionale sono stati da noi indicati man mano che venivano enunciati. Aggiungiamo solo che egli non prevede un forte potere centrale, limitandosi - come il Balbo - a ridurre al minimo i futuri Stati italiani che, per ciò stesso, sarebbero p\Jr sempre in contesa tra di loro, dando come sempre adito a quegli interventi stranieri che egli invano cerca di dimostrare come non più necessari e possibili. Prevedere il mantenimento in Italia di due «dinastie preponderanti» - il Piemonte e l'Austria - senza qualsivoglia potere sovraordinato, significa solo dare per scontata la loro rivalità e la alleanza di ciascuna con i nemici stranieri de1l'altra. Quale unità nazionale è questo dualismo politico e militare, che esalta le diversità invece di conciliarle e tendere a riunirle? Meno incoerente la soluzione militare, la quale per altro verso rimane generica e dimostra le sue difficoltà di attuazione. È innegabile che il Piemonte non poteva fare da solo, e aveva bisogno del concorso degli altri Stati italiani. Concorso difficile da ottenere, perché - per farlo diventare facile - sarebbe stato necessario che il Piemonte rinunciasse del tutto a concepire la guerra italiana con ottica piemontese; o che, al contrario, gli altri Stati rinunciassero a ritenere comunque piemontese - quindi contraria ai propri intressi locali - una guerra decisa solo in nome di istanze nazionali. E per quale ragione la Chiesa avrebbe dovuto appoggiare la causa dell'unità nazionale e quindi la guerra all'Austria, visto che essa era diretta contro una potenza cattolica da sempre amica, anzi massimo pilastro della Chiesa e comportava - se avesse avuto esito favorevole - una riduzione del potere temporale che avrebbe potuto essere solo il preludio alla sua eliminazione? Proprio per questo, quando il D. sostiene che gli italiani possono fare da sè e non c'è bisogno di appoggiarsi a qualche potenza straniera, è irrealista almeno nella stessa misura di coloro che troppo confidano nell'interessato aiuto altrui. Certo, gli italiani potevano fare da sé se fossero stati tutti uniti, concordi e animati da un genuino spirito nazionale capace di superare i localismi: ma questa era speranza, o realtà? Tutte le sue considerazioni sul rapporto indelebile tra geografia e diversità non spingevano forse in senso contrario? Come avviene anche per il Gioberti e il Balbo, il D. vuole probabilmente dare una frustata all'ambiente, indicare degli obiettivi auspicabili e lontani che però bisogna pur porsi, suscitare un dibattito che di per sè già aiuta a raggiungerli nei limiti del possibile. Questo gradualismo -
certamente influenzato dal credo politico moderato del D. - lo troviamo tutto intero nelle parole che chiudono la sua opera: l'unità compiuta dell'Italia non è il problema che si possa risolvere da noi contemporanei, né in tutto il secolo XIX (sic). Basti per ora la concentrazione massima, avuto riguardo alle condizioni politiche, contro cui la lotta della scienza è pur troppo spesso vana e purtroppo puerile. 82
Lo aveva già detto il Balbo: se mancano favorevoli premesse politiche, anche la più avveduta teoria strategica ben poco può concretamente ottenere. Ciò non toglie che, quando il D .. viene a parlare di questiorù concernenti l'arte della guerra, la sua ripartizione, il concetto teorico di strategia ecc., forse per mancanza di studi mililari metodici e regolari lo fa assai male e sconfina nell'imparaticcio, senza mai giungere a un'elaborazione veramente organica e originale. Tutto sommato, la parte migliore - e anche meno caduca - della sua opera Della nazionalità italiana rimane quella dedicata alla teoria della formazione del1e nazionalità (capitolo IV) e al1e caratteristiche geopolitiche e geostrategiche dell'Italia (capitoli V, VI e VII). Sotto questo aspetto, l'opera del D. è una delle pochissime del1'epoca realmente militari: perché è vera arte militare solo quella, che riesce a mettere bene a nudo le relazioni organiche (sempre esitenti e anzi preponderanti, ancorché talvolta poco visibili) che guerra e strategia mantengono non solo con la politica estera e interna, ma con la vita e lo sviluppo dei popoli, la loro indole, la loro storia e geografia. In certo senso il D. è anche sociologo militare: l'homo militaris italiano che scaturisce dalle sue pagine è a sua volta legato al1a nostra geografia, quindi alla nostra storia e poco ha in comune con altri europei. Quando sono mancate - lo sottolinea parecchie volte - le virtù militari , è stato perché più a monte sono mancate le virtù civiche. La mancanza di queste ultime con la prevalenza di divisioni e faziosità sullo spirito nazionale ha provocato l'accantonamento delle armi nazionali e la costante vittoria di quelle straniere: di qui non si scappa. Anche se non può fare a meno di proporre contradditoriamente un'alleanza militare tra i due Stati che simboleggiano le diversità dell'Italia, il D. ritiene quest'ultime non superabili per ragioni prima di tutto geografiche. La costante centralità dei fattori geografici induce quindi a riflettere sui concetti del D., mettendoli a confronto con le definizioni -
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ivi, p. 446.
aLLualrn ·11tc in auge di geopolitica (o geostrategia). Ebbene, definirle come «scic 111.;1 che studia i fatti politici [e quindi anche strategici N.d.a. I nella loro dipendenza da fattori geografici» ci sembra più o meno una tautologia: già abbiamo detto - e ripetuto - che la strategia teorica nasce, si affama e diventa strumento indispensabile di conoscenza per i] Capo militare. solo grazie ai significativi progressi della geografia e della statistica all'inizio del secolo XIV. Se si mantiene fede alla predetta definizione, si deve ammettere che la strategia contemporanea è già nata, anzi risorta come geostrategia e ha tratto dalla vaJutazione dell'ambiente naturale sulla carta e sui dati disponibiJi, l'essenza della linea d'azione da pianificare e seguire. D. si muove nel campo de]]a macrogeografia e macroeconomia, mettendole in re]azione con le scienze sociali: si può dunque dire che estende su una scaJa più vasta e secondo dimensioni storiche il ruolo de]]a geografia, già fondamentale per Jomini e la sua scuola. E si può anche dire che ciò che egli chiama geostrategia somiglia assai all'attuale geopo] itica o se vogliamo aJla strategia globa]e, mentre la sua idea di strategia ha molte anaJogie con la geostrategia nel concetto attuaJe. A parer nostro, quest'ultima non consiste tanto in un adempimento da sempre obbligato, come è quello di studiare - operazione sempre indispensabile - le condizioni poste dall'ambiente naturale aJJe grandi linee d'azione da seguire nell'impiego de]]e forze militari, ma piuttosto assume le caratteristiche dell'ambiente naturale come guida e riferimento costante, anzi prioritario nella scelta dei grandi obiettivi e del modo di rag~iungerli. E poiché questi «grandi obiettivi» sono gli stessi che vuol raggiungere la politica o sono ad essi strettamente connessi, ecco che tra geopolitica e geostrategia il confine è labile, fino a far pensare che si potrebbe fare a meno di uno dei due termini, oppure che la geostrategia non è che il lato militare della geopolitica, rimanendo in essa racchiusa più che esserne separata: Con la geostrategia e geopolitica del D. siamo ben lontani - lo vogJiamo ancora sottolineare - daJla «scienza del terreno» della quale parla Mariano d' Ayala sulJa Rivista Militare del 1859: la cognizione del terreno è l'elemento pratico, l'eleme nto indispensabile d ' ogni operazione di guerra. Senza la cognizione del terreno, il più elaborato concepimento militare, g iungendo sul campo dell' applicazione, dà il più delle volte sulle secche, un risultato negativo, epperciò dannoso. La storia militare offre una serie inesauribile e di fatti a comprovazione di questa verità ineluttabile. La strategia, la tattica, la logistica, le operazioni secondarie, la fortificazione, tutte le parti deU'arte
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IL PENSIERO MILITARE ITALIANO ( 1789- 1915) - VOL. I
militare hanno per base indispensabile la cognizione del terreno, la quaJe sola può assicurare il compimento appropriato à loro teorici consigli.83
Qui avviene esattamente il contrario: è l'arte militare ad assicurare il «compimento appropriato» dei «teorici consigli» del terreno, per di più costanti ... Viene ora da chiedersi qual' è il contesto culturale nel quale maturano le idee del D. e quali sono i possibili influssi che potrebbe aver subìto. Vi sono altre opere coeve d'oltralpe che sviluppano tesi analoghe? Vissuto esule per molti anni all'estero, egli forse subisce l'influenza del1e teorie di Filippo Buache (poi riprese da Teofilo Lavallée nel suo insegnamento alla Scuola militare di Saint-Cyr), teorie che vedevano neJI'idrografia il mezzo principale per conoscere la morfologia di una zona, e per individuare in via derivata l'andamento dei rilievi. 84 In effetti, anche per il D. sono i solchi tracciati dai corsi d'acqua (e le conche alle quali danno origine) l'e1emento determinante e positivo, che indirizza i movimenti dei popoli come degli eserciti lungo rotte obbligate e storicamente costanti, mentre i rilievi sono più che altro elementi di disturbo, di arresto e di separazione, anche interna. Non vi sono valli, o conche, con una funzione storicamente negativa, come invece hanno in Italia gli Appennini ... Taluni passi del D. ricordano anche certe affermazioni a proposito del ruolo della geografia del colonnello francese Carrion - Nisas, il quale nel 1824 scrive che «la strategia si è ingrandita pressapoco nelle stesse proporzioni del mondo conosciuto», perciò «i popoli sono, in rapporto all'influenza che possono esercitare, divisi in masse il cui territorio è un grande frammento del globo; è dunque i1 globo che bisogna prendere in esame come teatro della guerra. La superficie, vasta e irregolare, sulla quale gli uomini vivono, si muovono e combattono, si compone di montagne, di fiumi, di mari e di spazi che si estendono tra questi fiumi, questi mari e queste montagne; tutte le altre divisioni, tutte le altre distinzioni, non sono che dei dettagli e che derivano da questi elementi». In conclusione «i grandi ostacoli sono la cresta del1e montagne e il letto delle acque, quindi le frontiere naturali corrono sempre lungo i fiumi, le montagne o i mari». 85 83 M. d'Ayala, Della scienza del terreno, «Rivista Militare Italiana» 1859, Anno IV, Voi. I pp. 107-117. 84 Cfr. Le basi scientifiche dello studio della geografia militare (Senza Autore), «Esercito e Nazione» n. 1/1929, pp. 83-84. 85 Carrion-Nisas (Col.), Essai générale de l'art militaire, Paris, Chez Launay 1824, Voi. II, pp. 563-565.
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i l itlll( AN l>O · NASC ITA DELLAGEOSTRATEGIA
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C'w,111111111r "11 , rll'ssuno può contestare al D. il merito di aver coniato p1.•1 111111111 111 Italia e fors'anche in Europa - il termine geostrategia, e <.Jlll'llo 11011 111c 110 importante - di avere imperniato la sua opera su co11s idcrn110111 di t:arattere geopolitico. Anche il termine teostrategia, solo dn lt11 usato per indicare la politica estera e la geostrategia de1la Chiesa. e pionieristico e niente affatto privo di interesse anche oggi ( 1995). visto che di recente una nuova rivista ha dedicato un intero numero alla geopolitica del Vaticano. Oltre a queste aspetti specifici, non si può fare a meno di notare che o pere recentissime come il Manuale di geografia politica del Po unds (1963) e la Geografia politica dell'Europa Comunitaria del Parker (1983),86 riprendono a distanza di oltre un secolo, con risultati non discordanti, molti degli argomenti trattati dal D .. Ricordiamo, in special modo, le analisi del Pounds su aspetti di grande interesse come l'influsso della geografia nella vita dei popoli, la formazione delle na- . zionalità e dei confini, le relazioni tra forma-Stato e territorio, i rapporti tra geografia e federalismo, la persistenza delle forze centripete che per ragioni storiche e geografiche si oppongono all'unificazione ecc. Basti citare quanto egli afferma a proposito dell'importanza del Passo del San Gottardo per la formazione graduale dello Stato svizzero, il cui nucleo centrale «coincide chiaramente con i tre Cantoni della Foresta, che si affact:iavano sulle ripide strade del passo del San Gottardo, e in quell'esiguo territorio ebbe luogo la prima lotta per l'indipendenza», di modo che «la Svizzera è una creazione del Passo di San Gottardo (Gilliard)».87 Al di là di possibili ma non provate influenze e di limiti e contraddizioni, il D. ha compiuto opera tuttora interessante, oltre che - specie per i suoi tempi - originale e precorritrice di più vaste analisi: avrebbe quindi meritato maggiore attenzione da parte della letteratura militare coeva e successiva. Spiace perciò constatare che Mariano d'Ayala non cita neppure il D. nella sua Bibliografia Militare, Italiana, forse ritenendo (a torto) la sua opera non militare. Anche nell'articolo dello stesso d'Ayala Della letteratura militare in Piemonte (1859) che pure elenca molti minori, non compare il suo nome.88 Nel suo mediocre dizionario del 1870
86 Cfr. N.J.G. Pounds, Manuale di geografia politica (2 Voi.), Milano, Franco Angeli 1977 e G. Parker, Geografia politica dell'Europa Comunitaria. Milano Franco Angeli 1983. 87 N.J .G. Pounds, Op. cit., Voi. I, p. 201. 88 «Rivista Militare Italiana» 1859, Anno IV, Voi. I.
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il capitano Pio Bosi lo confonde con H frate11o Giovanni, senza dedicare alcuna attenzione al Jibro. 89 Ed è tutto per il secolo XIX: all'inizio del secolo XX lo Sticca fa menzione della Nazionalità italiana ma ignora i suoi importanti contenuti militari, peraltro mal giudicando anche quelli politici là ove afferma che il libro «impressionò assai per le sue aspirazioni alla monarchia unica con caduta del potere papale». 90 Doveroso obiettare che il D. non vuole la caduta del potere papale ma solo il ridimensionamento di quello temporale a beneficio dello spirituale, e che una monarchia unica per l'Italia rimane fuori dalle sue prospettive. La lacuna principale della sua opera è proprio quella di aver ignorato l'insegnamento principale - mai smentito dalla storia - delle guerre tra Atene e Sparta: che cioè i singoli Stati si fondono in un'unità statale superiore solo se sono costretti a farlo da qualcuno militarmente più forte di tutti loro. Negli anni Trenta, l'Enciclopedia italiana afferma che Della nazionalità Italiana è stata «a torto messa in fascio con le opere della scuola neo-guelfa, poiché il D. fu moderato e federaJista, ma anti-guelfo e per il primo pose il problema costituzionale in ltalia». 91 A parte il fatto che non compaiono nel libro vere e proprie tesi federaliste, ma si parla piuttosto di «lega» tra Napoli, Piemonte e Stati minori, questo giudizio trascura come cosa di poco conto la sua ispirazione militare. Pur essendo un militare, anche il Giacchi nel Dizionario del Risorgimento nazionale (1930) si limita ad affermare, rettamente ma troppo genericamente, che il libro «può collocarsi vicino alle opere più celebri del Gioberti e del Balbo».92 Infine, nell'Enciclopedia Biografica e Bibliografica Italiana (1941) il D. viene indicato solo tra gli uomini politici e si cita solamente, senza commenti, il libro del quale trattiamo. 93 Sia dunque lode a Piero Pieri, che è l'unico autore italiano a dedicare agli aspetti militari e geopolitici dell'opera del D. almeno una paginetta, peraltro con la fondamentale parte geostrategica toccata solo in nota e con giudizi qualche volta inesatti o non condivisibili. 94 Bontà sua (è già qualcosa), egli definisce il libro «solo in parte di carattere militare», 89
P. Bosi, Dizionario storico-biografico-topografico militare, Torino, Candeletti
1870. 90
G. Sticca, Op. cit., p. 238. «Enciclopedia Italiana», Voi. XIll p. 295. 92 T)izionario dP./ Rimrginumto Nazionale (a c ura cli M . Rosi), Milano, Vallarcli 1930, Voi. Il, pp. 966-967. 93 Enciclopedia biografica e bibliografica italiana (a cura di A. Ribera), Serie XLU - Il Risorgimento Italiano, Roma, E.B.B.I. 1941 , Voi. II, p. 68. 94 P. Pieri, Storia militare del Risorgimento, (Cit.), pp. 151-152. 91
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quando invece ]e finalità militari ne costituiscono la parte essenzia]e, preponderante e conclusiva, fino a farne - torniamo a dir1o - un libro miHtare come pochi. Non condividiamo nemmeno l'affermazione che «egli ha stabilito i rapporti tra ambiente naturale, ambiente po1itico e guerra»: che vuol dire? Ci mancherebbe: tutti gli autori che si occupano della materia politico-militare trattata dal D. lo hanno fatto (a cominciare da Balbo, Gioberti, Pepe ... ) e lo fanno. Infine, il Pieri afferma che «il Durando pensava agli eserciti di riservisti sul modello prussiano». Non è vero, perché se mai egli pensa al modello francese, da lui ben conosciuto per esperienza diretta. Non entra affatto nella sua ottica un massiccio e immediato impiego di riservisti in prima linea, né egli apprezza le ferme del tempo di pace brevi e generalizzate che caratterizzano il modello prussiano: tant'è vero che assegna alle «milizie cittadine» un ruolo importante ma pur sempre sussidiario, quale è quello di liberare l'esercito permanente da incombenze territoriali. In tal modo, nella concezione del D. queste ultime non sono lasciate ai meno atti alle armi come nel modello prussiano, ma a riservisti e guardie nazionali. Giacomo Durando, militare e politico degno ma soprattutto capostipite della geopolitica e geostrategia italiana: così vogliamo che lo si ricordi, dimenticando le numerose, affrettate, distorte e riduttive interpretazioni del suo pensiero.
CAPITOLOXID
DAL MODELLO AMERICANO DI LUIGI ANGELONI (1818) AL MODELLO STRATEGICO NAZIONALE, PENINSULARE E DIFENSIVO DI GUGLIELMO PEPE (1833-1836): VERSO LA «NAZIONE ARMATA»?
Premessa Il Gioberti, il Balbo e il Durando collocano al centro della conquista dell'unità e indipendenza nazionale due fattori essenziali: forze militari concepite secondo modelli tradizionali, con strategia ispirata alle teorie di Jomini e dell'Arciduca Carlo e ruotante intorno al «nocciolo duro» dell'esercito dinastico piemontese; uno scenario geografico padano dove detti eserciti giocano la partita decisiva contro l'Austria. Luigi Angdoni e Guglidmo Pepe - come loro esuli che ricercano la via militare migliore per risollevare l'Italia - percorrono invece strade nuove, dove né l'esercito dinastico piemontese né la pianura padana sono il baricentro teorico e geografico. Diversi per tanti aspetti, li unisce tuttavia l'importanza attribuita ai fattori spirituali e la convinzione - tale da sconfinare nell'utopia - che i protagonisti principal i sono i vari popoli italiani, e non i prìncipi e i loro eserciti regolari. SEZIONE I - Il modello americano cli «nazione armata» negli scritti di Luigi Angeloni (1818) Il frusinate Luigi Angeloni , generoso patriota come pochi malato di amore puro per il suo Paese e concretamente disposto a sacrificare per esso tutti i propri personali interessi, nella sua vita errabonda dove spesso è costretto a fare i conti con la mi seria umana, ha bisogno diremmo quasi disperato di un modello politico e militare che conforti i suoi Alti Ideali. Nella sua opera Dell'Italia uscente il settembre del 1818 1 questo
1 Dell'Italia uscente il settembre del 1818 - ragionamenti IV di Luigi Angelonifrusinate, Parigi, Appesso l'aulore 1818.
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IL PENSIERO MILITARE ITALIANO (1789-1915) -VOL. l
· modello crede di trovarlo - senza esservi mai stato e senza averne mai studiato a fondo la storia e la geografia - negli Stati Uniti e nella loro Costituzione, che proprio per questo idealizza oltre misura. Non si trova nei suoi scritti alcun accenno ai problemi che pur affliggono questa grande e giovane Nazione anche allora, né agli inconvenienti dell'ordinamento federalista: in ciò che dice degli Stati Uniti questo capopolo generoso e puro, ma privo di qualsiasi esperienza militare e politica, tutto è idealizzato. Questo si riflette anche, anzi principalmente nel campo militare, dove - al di là delle concrete soluzioni organiche adottate - l'ordinamento federale americano viene da lui illusoriamente presentato come unica garanzia per evitare guerre ingiuste, aggressioni militari e spese esorbitanti in armamenti, tutte le piaghe insomma che non casualmente . avevano afflitto - e affliggevano - l'Europa dei Re. Per l'Angeloni la politica non è fatta di uomini e di interessi, ma di idee. Nella sua visione solo gli Stati Uniti hanno una politica militare non aggressiva e non egoistica, proprio per questo corrispondente agli interessi della collettività; ma alla base di questa opinabile tesi più che fatti e comportamenti concreti, vi sono i discorsi dei Presidenti americani Madison e Monroe. Quest'ultimo, di lì a qualche anno (1823) sarà autore della famosa dottrina dell' «America agli Americani», cioè della sanzione formale della preminenza degli Stati Uniti nel nuovo continente. Atto di politica estera legittimo e corrispondente agli interessi di quella grande Repubblica, ma anche rientrante nella logica della realpolitik sempre seguita da qualsivoglia Stato europeo. Egli cita anzitutto il discorso di commiato del Presidente Madison, nel quale si afferma che la costituzione americana in sè contiene il debito temperamento della forza pubbli<.: a <.:olla li bertà personale, e del nazionale potere per la difesa dei nalurali diritti contro le guerre ingiuste, mosse dall'ambiziom.:, e dalla vanagloria; il che procede dal fondamentale ortlinmm:1110 tlcl sottomettere tutte le guerresche questioni alla volontà della nazione stessa, la quale pagar dee le spese della guerra, e sentirne la calamità. 2 Ma è soprattutto nei com.menti dell'A. a talune affermazioni del Presidente Monroe che si colgono specifici riferimenti anche di carattere militare alla situazione italiana, che peraltro egli considera in termini tutt'altro che idilliaci. Secondo il Monroc
2
ivi, ragionamento II, p . 17.
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l'onor nazionale è una proprietà del più alto valore. E la nazional forza non altrimenti si misura, che col sentimento ch'è di quello nelle menti dei cittadini. Devesi dunque aver molto caro sì fatto onore.3
Il duro commento dell'A. a queste parole è tale da dimostrare senza volerlo e indirettamente - la non applicabilità in Italia delle soluzioni politiche e militari americane, delle quali tratteremo in seguito:
I
Italiani, se è vero (e vero è senza fallo) che nel complesso delle genti d'Italia non sia almeno nazional forza, deesi certissimamente, secondo il Monroe, venir a questa conclusione, che in generale nelle italiche menti non si trova alcun sentimento di onor nazionale, e che perciò di una delle proprietà del più alto valore esser noi non possiamo i posseditori.4
Conseguenza di questa mancanza di sentimento nazionale è «quel sozzo bastardume di lingua [riferimento alla lingua francese - N.d.a.] che universalmente ancor deturpa le italiche scritture». A un punto tale, che mentre in Inghilterra, Francia e Germania anche persone di mediocre istruzione sanno scrivere correttamente nella lingua - madre, in Italia «non solamente tra le genti di mezzano sapere, ma tra più dotti uomini d'Italia non è per certo agevol cosa il poter trovare alcuni che correttamente sappiano scriver il proprio linguaggio».5 Forse l'A. pensa alla situazione italiana, quando all'affermazione di Monroe che «soltanto allora quando il popolo diviene ignorante e corrotto, quando si trasforma in popolazzo, egli non è atto a esercer l'ufficio di sovrano» affianca a mo' di commento questa di Machiavelli (riferita alle cose italiane del suo tempo): «un popolo corrotto, venuto in libertà, si può con difficoltà grandissima mantenere libero». Dopo queste premesse di carattere politico-sociale vengono le considerazioni di carattere più specificamente tecnico-militare e ordinativo del Monroe, che suscitano l'entusiasmo dell'A .. Secondo lo stesso Monroe - egli riferisce - la sicurezza nazionale deve essere il più possibile affidata a «milizie civili», destinate a intervenire nel caso che l'esercito e la marina permanenti non siano in grado di fermare un attacco:
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!bidem. Ibidem. s ivi, ragionamento II, p. 26.
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egli è perciò cosa della più grande importanza che [la gran massa del popolo, destinato a formare rapidamente le milizie in caso di bisogno - N.d.a.] sia cosl ordinata e disposta, che trovisi egli presto ad ogni evento. L'opera esser dee acconcia per siffatta guisa, che il Governo valer si possa della valorosa gioventù nostra, la quale d'amor patrio è tutta infiammata [ ...]. Tutto ciò ordinare anche si potrà in tempo di pace, acciocché la guerra ci trovi meglio apparecchiati. 6
L'A. commenta, in nota, che l'«esercer nelle cose belliche tutta la gioventù d'uno Stato, eziandio monarchico, è cosa o]tremodo profittevole, e massime per poter levarsi ad arme, e far testa altresì contro ismisurate torme di rapaci dominatori forestieri». Il modello americano, a suo dire, ha consentito nel 1817 la pronta mobilitazione di 800.000 uorrùni pronti a combattere, e fornisce grandi vantaggi: - non costa niente, e questa «è fondamentale e vital cosa»; - non può ingelosire o impensierire gli Stati confinanti, sia perché possono sempre fare altrettanto, sia perché un esercito di pacifici cittadini normalmente intenti alle loro faccende private non diventerà mai conquistatore, «né mai prenderà la vece d'una ciurma di sfaccendati stipendiari battaglieri, che velano sotto i nomi di gloria, di onore e di altre vanità, il vero fine a cui essi veramente tendono, cioè di vivere, a sconcio altrui, negli agi, nelle gozzoviglie e nelle dissolutezze»;7 - ne] caso che lo Stato sia assalito da «torme d'irrequieli aridissimi battagliatori», che peraltro sarebbero sempre inferiori di numero, le milizie combatterebbero sicuramente con grande valore per difendere famiglie, averi, libertà e Patria. Alcuni governanti europei sono contrari a questo sistema - prosegue l'A. - solo perché «volendo regger di lor testa le pubbliche faccende, e solo il nome d'ogni libera cosa stizzando e arrovellando», non si azzardano ad affidarsi al1a lealtà dei popoli. E così sperperan essi le nazioni per sostentar numerosissimi eserciti stanziali, con tutti quc' boriosi loro condottieri, tanto più dal volgo stolto tenuti per valenti, quanto fu più grande il numero d'uomini ch'essi fecer trucidare, delle popolazioni che dispogliarono, e degl'iniqui profitti che ne trassero fevidente il riferimento a Napoleone e alle sue guerre, osteggiato dall'A. anche sotto il profilo politico, come conculcatore della libertà e indipendenza dell'Italia - N.d.a.].
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ivi, pp. 28-29. ivi, p. 30.
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Ma i Governanti debbono mettersi in testa che ormai i tempi stanno cambiando, e che «il numero degli stolti va ogni dì più rappiccolando»: quindi, insieme con i tempi devono cambiare anche i sistemi. Tanto più che - sotto un profilo più strettamente militare e strategico - non è vero quello che dicono «Ministri, e ciambellani e altri così fatti solenni varvassori delle corti europee», secondo i quali occorrerebbero grandi eserciti stanziali, perché «non si vincon mica le ben ordinate battaglie, né indietro ributtansi i nimici, senza mercenari soldati, siccome quelli che sono veramente atti alle opere guerresche». 8 Che questo sia falso, oltre a «innumerevoli» prove, lo dimostra quella «schiera ragunaticcia e tumultuaria di Americani» che nell'ultima guerra tra Stati Uniti e Inghilterra, 1'8 gennaio 1815 Le l'incendio di Washington da parte degli inglesi? - N.d.a.] ruppero interamente appresso alla Novella Orleans l'esercito inglese, che pur era un fior di milizie, le quali aveano valentemente pugnato contro i soldati del Bonaparte, e fatto testa con felice successo. Di che molto aperto deesi poter conoscere quanto valga l'amor della Patria, ove quello sia dalla libertà infervorato.
Dunque, se si deve prestar fede a queste parole dell'A. l'amor di Patria - peraltro, per sua stessa ammissione, non posseduto dagli italiani è la chiave della vittoria, nella fattispecie conseguita non dai ben addestrati professionisti inglesi, ma delle «ragunaticcie e tumultuarie» milizie americane. Subito dopo egli - in contraddizione con questo asserto piuttosto semplicistico - corregge la rotta, e sembra ben valutare la necessità di un buon addestramento delle milizie, e di mantenere anche in pace un buon nucleo di istruttori e specialisti: tutto que11o ch'io qui dico de' soldati stanziali, e mercenarj, ben si dee, secondo il proverbio nostro, intender acqua, e non tempesta. E voglio io dire che gli Stati, e massime in Europa, lasciar mica non debbonsi del tutto alla sprovveduta di così fatti soldati, c speziaimente in quella parte di belliche cose nella quale è bisogno studio, lunga disciplina ed esercizio, così come sono le cose pertinenti alla cavalleria, alle artiglierie, alla fortificazione ed espugnazion di fortezze, e ad altre simiglianti opere. Una discreta quantità d'uomini d'anne, e in tutto ciò ben disciplinati, saranno anzi necessarissimi ne' più stretti bisogni, perché non pure essi formino quasi come il cuor d'un maggior esercito, ma sieno anche gl'istruttori dei loro
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ivi, pp. J2-13.
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compatrioti, che, senza eccettuazione alcuna, correr dovesse ro alla difesa della patria, laddove da ributtar fossero indietro stranie ri assalitori. Né medesimi liberi Stati americani è anche un bel gomitolo di sì fatti soldati, i quali però sono, come esser deeno, del lutto sottomessi alle potestà civili. Riprovar dunque io sol tanto intendo quelle sterminate, e permanenti masse di stipendiariji ed oziosi uomini per la cui sostentazione si premon di gravosissime imposte tante popolazioni, e fannosi languir negli stenti e nelle miserie molti milioni di Europei. Vero è però che senza questo smodato guerresco sostegno, non avrebbesi la delittuosa compiacenza né d'annodar gli uomini in duri legami di soggezione, né <li ttmere in stomacosa lautezza di spante mense, di libidini e di tripudj molti orgogliosi duci, né di poter trombare le loro militari glorie; le quali, tanto più sono esaltate e magnificate, quanto furono maggiori le stragi, le rovine, i violamenti, i ratti, le ruberie, le miserie, e le calamità che quelle generarono. E da codeste abbominevoli glorie (fuor solamente quelle di alcuni pochi verissimi eroi, fra' quali spicca, come maggior stella, l'immortale Washin,:ton), che ne risultò poi in ogni tempo a' miseri popoli? Servitù, cd oppressione. Or non sarebbe grandissima ventura pel mondo presente, se lo smanioso disio che hanno ancora alcune genti di conseguire belliche glorie, potesse essere spento e messo sotterra a Sant'Elena, insieme con quel furioso gucrreggiatore [Napoleone - N.d.a.] che solamente deliziava per mezzo il sangue degli eccidj guerreschi, e il puzzo de' morti corpi?'.!
Correzione di rotta non di poco conto, con 1a quale l'A. mostra di rendersi realisticamente conto dei problemi tecnici da risolvere, ammettendo implicitamente che l'entusiasmo e J'amor di Patria non bastano per vincere. E riconoscendo che occorre un buon nucleo di forze anche in pace (nucleo che evidentemente sarebbe soggetto a diverse variabili per ciascun Stato), di fatto egli abbandona la formula de11'esercito di milizia puro, per spostare il discorso sulla consistenza degli eserciti permanenti. Questi ultimi - noi riteniamo - non devono, certo, essere esorbitanti, né consentire ai Quadri di passare il loro tempo in gozzoviglie: ma ciò non significa che essi debbano essere trascurabili o inutili - come l'A. stesso afferma in altra parte - né che non siano riformabili. In sostanza, più che dell'esercito interamente di milizia sul modello svizzero, l'A. è il primo sostenitore dell'esercito «lancia e scudo», composto da un ristretto nucleo di forze sempre pronto a entrare in azione e disponibile in ogni momento, al quale si aggiunge una massa di combat-
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ivi, pp. 14-15.
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tenti mobilitabile solo in caso di necessità (da istruire e inquadrare anche avvalendosi dell'aliquota di forze permanenti). A tal proposito, l'A. ottimisticamente afferma che 800.000 uomini mobilitabili agli Stati Uniti non costano niente: ma i fucili, i cannoni, le provviste, i carri, i cavalli, il vestiario, gli equipaggiamenti, le munizioni ecc. per far muovere e combattere un così gran numero di uomini, potevano forse essere interamente requisiti o trovati nel Paese? Vecchio e ricorrente vizio, quello di fare della mobilitazione solo una questione di trovare degli uomini, e non delle armi e dei materiali competitivi in quantità sufficiente... Né regge il paragone geografico dell'A. tra Italia e Stati Uniti, ambedue - a suo giudizio - con forma estesa e monti e mari a tutela dei rispettivi confini. Accanto alla geografia, c'è la geostrategia: al di là di questi confini, che cosa c'era? lo stivale allungato è forse paragonabile al Far West? si può stabilire un paragone strategico tra Mediterraneo, mare chiuso, e gli Oceani Atlantico e Pacifico? Gli Stati Uniti, dominati da popolazioni di origine prevalentemente anglosassone di recente immigrazione, non erano forse una nazione più omogenea, rispetto all'estrema varietà di popolazioni, climi, etnie, tradizioni locali che caratterizzava allora l'Italia? E che dire dell'amor di patria e dello spirito combattivo così forti negli americani e allora mancante nella massa degli italiani - anche se era sempre a detta dell'A. - un requisito indispensabile per l'esercilu di milizia? Non si può dar torto all'A. quando condanna le degenerazioni degli eserciti permanenti di allora, il loro eccessivo peso sull'erario e le inutili pompe del militarismo. Ma un conto è condannare per intero e definitivamente un sistema, un conto è indicarne le degenerazioni; la formula della «nazione armata» richiede molto impegno e il sicuro possesso di molte e rare virtù da parte di un popolo e delle sue istituzioni ... Perciò la ricetta dell'A. e la sua fede nella possibilità di trapiantare il mode11o americano non sono convincenti specie per l'Italia, e hanno solo il pregio di raccogliere efficacemente tutti i topos utopistici dei sostenitori della nazione armata di allora e di oggi, ivi compresa la mancanza di un qualsiasi riferimento alle peculiarità geopolitiche e geostrategiche dell'Italia, oltre che al problema globale della sicurezza di un Paese e, in esso, al ruolo delle forze marittime. Una cosa~ certa: se le condizioni peculiari di questo o quel paese mettiamo gli Stati Uniti o anche la Spagna - sono solo «un vecchio topos» (come abbiamo sentito affermare di recente) per giustificare il rifiuto del modello di «esercito di milizia» da parte dei conservatori, prima di tutto si tratta di dimostrare che queste peculiarità americane e spagnole non esistono, e in secondo luogo di tradurre idee generali di per sè
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accettabili come la partecipazione popolare, lo spirito nazionale ecc. nella concreta situazione di un altro Paese e in concreti moduli logistici e organizzativi, con la dovuta atlezione anche ai sottofondi economici e logistici. Altrimenti non si fa che contrapporre un topos a un altro, in un dialogo tra sordi alimentato dal saccheggio da parte di ciascuna parte degli exempla che più le si confanno. In merito, il meno che si possa dire è che gli exempla relativi alle guerre delle milizie americane contro le forze permanenti inglesi sono tra i meno concordanti ....
SEZIONE II - La strategia peninsulare e difensiva di Guglielmo Pepe (1833-1836)
Caratteri generali e motivi ispiratori del 'opera Irrequieta figura di patriota e ùi cospiratore, Capo militare assai discusso ma non privo di genialità e modernità di vedute, convinto e costante fautore delle libertà costituzionali, Guglielmo Pepe è stato soprattutto uomo d'azione. La sua stessa attività letteraria è finalizzata all'azione ed è - per così dire - un ripiego forzato, visto che le sue opere più significative nascono nel forzato esilio, nell'amara inazione di Parigi, e servono a coltivare la esile pianticella della speranza, della fiducia nell'Italia e negli italiani anzitutto in lui stesso. È meridionale, anzi calabrese, come pochi, e di questa sua natura passionale risentono le sue opere: ma è anche, e soprattutto, italiano. A contatto con i principali esponenti democratici francesi, g uarda l'Europa e la Francia attraverso l'Italia: non viceversa. Di fronte alla sconfitta e all'esiJio non si rassegna mai, non cessa mai di battersi - come può e dovunque - per quelle idee di fondo che mostra fio dalla prima adolescenza, le quali si riassumono come in pochi altri neUa libertà e nella Nazione, il che vuol dire - nel caso italiano - il classico trinomio unità, libertà e indipendenza. È tutto, insomma, meno che un teorico puro, un fi1osofo della guerra e uno storico spassionato. Ricorre alla storia sç>lo per avvalorare, nutrire le sue speranze; la sua vita, il suo pensiero ne fanno l'antitesi del più illustre scrittore militare meridionale coevo, Luigi Blanch, grande teorico ma pallido italiano, che fa sparire l'Italia e il suo riscatto nelle pieghe dei suoi dotti Discorsi. Le poche considerazioni teoriche che s i trovano nei suoi scritti, scaturiscono dalla concreta problematica militare della conquista dell'indipendenza nazionale. E le finalità che ispirano il
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suo approccio sono ben testimoniate anche dai titoli delle sue tre opere principali date alle stampe fino al 1848: - Memoria sui mezz.i che menano all'Italiana indipendenza (1833); 10 - L'Italia Militare (1836); 11 - L'ltalie politique et ses rapports avec la France et l'Angleterre (1839). 12 Come i coevi. piemontesi Balbo, Gioberti e Durando - con i quali non risultano contatti o scambi di idee - dopo l'esilio e le persecuzioni diventa protagonista del 1848 e sia pur temporaneo servitore della monarchia napoletana in posizioni di grande rilievo. Come tanti altri militari di ogni parte d'Italia, dalle file degli eserciti di Napoleone e dal servizio dei Prlncipi da lui creati, passa a servire la restaurata monarchia della sua terra, però combattendola alJa prima occasione nelle file della Carboneria e dei costituzionalisti: ma qui finiscono la comune e concorde aspirazione e le comuni vicende, che potrebbero far pensare a un'eccessiva disinvoltura dei militari italiani del tempo, nel servire successivamente più cause e più poteri politici in antitesi fra loro, fino ad assomigliare ai voltagabbana fustigati dal Giusti. In fondo è coerente come pochi: fin da giovinetto dimostra di amare la libertà, e per essa - e per l'unità nazionale - si batte sia sotto Murat che sotto il Borbone. Quando si tratta di definire le modalità, gli strumenti per la conquista del1'indipendenza nazionale, poco si occupa del contesto politico da creare, ma considera il problema principalmente dal punto di vista geostrategico e militare. E lo considera in maniera anche geograficamente opposta rispetto ai Gioberti, ai Balbo e ai Durando, tutti concordi nel fare della monarchia piemontese e del suo esercito la pedina decisiva di una guerra, che si deve pur sempre decidere nella pianura padana. Al contrario, G.P. vede nell'esercito delle Due Sicilie, nelle fiere popolazioni meridionali - con particolare riguardo a quelle calabresi - e nell'Italia peninsulare a sud di Bologna, il baluardo, gli attori e il teatro della guerra contro l'Austria. Alla base della centralità militare dell'Italia peninsulare e delle popolazioni del Mezzogiorno - che è il tratto caratteristico dell'opera di G.P. - vi sono certamente riflessioni derivanti da dirette esperienze militari in posti di assoluto rilievo: oltre a partecipare al-
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Paris, Paulin 1833. Paris, Pihau de la Forest 1836. Noi ci riferiamo a L'Italia militare e la guerra di sollevazione, Venezia 1849 (ristampa in italiano). 12 Paris, Pagnerre 1839. Per una visione completa delle opere del Pepe Cfr. la Nota bibliografica in S. Moscati, Guglielmo Pepe, Roma - Vittoriano, Istituto per la Storia Ris. 1938. pp. XI - xvm. 11
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la guerra di Spagna 1808-1813 come comandante di reggimento, G.P. combatte della parte opposta l'insurrezione della sua Calabria contro i Francesi nel 1806-1807 ed è uno dei generali protagonisti della sfortunata campagna condotta da Gioacchino Murat Re di Napoli contro l'agguerrito esercito austriaco nel 1815 in nome dell'indipendenza d'Italia, sogno tramontato con la battaglia di Tolentino. E sempre contro l'Austria comanda una metà dell'esercito costituzionale napoletano che nel 1821 viene definitivamente sconfitto, ancora una volta, nella battaglia di Rieti. Ma è proprio la riflessione storica sui fatti dal 1799 al 1821, che hanno visto sfortunati protagonisti l'esercito e il popolo di Napoli e delle Due Sicilie, a fargli giudicare le sconfitte militari contro lo straniero francese o austriaco che sia - non come frutto di carenze di base immutabili, ma di contingenti improvvisazioni, di tradimenti e discordie tra generali che in futuro possono e debbono essere evitati, che non possono influire più di tanto sull'analisi complessiva e che comunque non intaccano quell'animus pugnaruli del popolo e dell'esercito meridionale, sul quale Balbo, Durando e anche alcuni scrittori francesi del tempo si mostrano dubbiosi, e che invece egli esalta con parole appassionate, pur avendo duramente combattuto nel 1799 contro le bande del cardinale Ruffo e nel 1806-1807 contro gli insorti antifrancesi. La prima esperienza che incide sull'animo di G.P., quindi sui suoi scritti è quella della guerra di Spagna. Vi trova uomini mal comandati, mal nutriti e mal vestiti e amministrati, che vedono nel superiore un nemico e non una guida sicura. Dimostrando un intuito psicologico e una modernità di vedute assai rari nei colonnelli di quei tempi dove si usava trattare il soldato con il bastone , riordina la amministrazione del corpo, si preoccupa del benessere morale e materiale dei suoi uomini, rifiuta di ammettere nel reggimento ufficiali respinti da altri corpi e si fa intransigente tutore dell'onore delle truppe napoletane. Cura l'uniforme dei soldati, perché essa contribuisce a tener desto il loro amor proprio; e sostiene che la truppa va trattata con severità, però non disgiunta da giustizia e da concreto e fattivo interessamento dei superiori diretti per il benessere e i diritti del soldato. In sostanza, con la sua avversione al puro e brutale autoritarismo anche nel governo disciplinare della truppa, G.P. intende fin da allora indicare nella pratica quotidiana i nuovi criteri disciplinari che devono contraddistinguere le truppe di un Governo costituzionale, rendendone il rendimento in guerra superiore a quelle dei regimi assoluti. Un approccio tipicamente spiritualista e clausewitziano ante litteram, basato sul prestigio della leadership e sulla giusta e moderna convinzione che il soldato apprezza di più il superiore severo, ma giusto e capace di far
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fronte a tutti i suoi doveri verso gli inferiori, che l'ufficiale assente e distratto, il quale poco si cura della disciplina e del benessere e base la sua azione di comando sul laissezfaire. Per altro verso, i] suo concetto della disciplina non è nuovo: ciò che ritiene specifica prerogativa degli eserciti costituzionali, è da gran tempo la caratteristica degli eserciti ben comandati, e già allora fa parte - come dimostra l'opera del de Schom (capitolo IX) - della migliore tradizione prussiana. Nel 1818 segue sempre la stessa via, compilando un progetto per l'organizzazione delle «milizie provinciali» che - come scrive nel 1820 da generale del nuovo esercito costituzionale - fin da allora mirava a «infervorare maggiormente nel bene le milizie del Regno e circondarle di quello splendore ch'è pur dovuto ai principali proprietari in difesa del Trono e della Costituzione». 13 Le milizie provinciali del Regno di Napoli anche doP.o la rivoluzione del 1820 servivano al mantenimento della sicurezza e dell'ordine pubblii..:o. E il progetto di G.P. - rimasto senza esito anche dopo il 1820 ma da lui applicato quando e dove possibile nei comandi territorali a lui assegnati - tende soprattutto ad esaltarne il morale e la disciplina, sviluppando l'emulazione e accrescendo la considerazione e il ruolo nella società di coloro che ne fanno parte,. Fin da allora, secondo il progetto di G.P. il servizio nella milizia provinciale diventa condizione necessaria per ottenere un impiego nella pubblica amministrazione. Gli Art. 1 e 2 recitano: veduti gli articoli 58, 60, 62 e 73 del Regolamento del 21 marzo 1818 da noi approvato per l'organizzazione e il servizio delle Milizie Provinciali, coi quali articoli gli individui componenti le Milizie Provinciali sono stati particolarmente contemplati con de' privil~gi nelle licenze di caccia, con delle preferenze negli impieghi civili, con de' diritti alle pensioni di ritiro e fin con delJe escl usioni dalla leva; volendo sempre più avvalorare l'utile istituzione delle milizie suaccennate ed esternare la nostra sovrana considerazione verso quella classe de' nostri sudditi che impiega la propria opera allo scopo salutare della repressione de' facinorosi e della salvezza della proprietà [ ... ] abbiamo risoluto di decretare e decretiamo quanto segue: Art. 1°. Nei nostri domini di qua e di là del faro, dal 1823 in poi non ]X)trà alcun pagano, senza aver prestato servizio per quattro anni continui nelle compagnie sedentarie, e per tre nelle
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S. Moscati, Op. cit., pp. 84-85.
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compagnie mobili delle Milizie Provinciali, e - nella città di Napoli - per quattro anni nella Guardia di sicurezza, essere impiegato con soldo o emulumento qualunque ne' seguenti rami e loro dipendenze di officine, di corpi armati e di emergenze correlativamente annesse: Acque e Foreste, Reali Poste, Dazi diretti e indiretti, rami annessi, forza daganale, Registratura e demani ... (segue un lungo elenco).
Nelle Memorie sui mezzi che menano all'italiana indipendenza del 1833 e nell'Italia militare e la guerra di sollevazione del 1839 G.P. riunisce e sviluppa le sue idee sulla migliore strategia che può essere condotta - in Italia e dagli italiani - in una guerra che non appena i Principi italiani concedessero la costituzione, l'Austria non esiterebbe a scatenare. Nell'Italia e i suoi rapporti con la Francia e l'Inghilterra invece G_P. esamina il contesto politico-militare internazionale e interno nel quale la guerra d'indipendenza nazionale si svilupperebbe, con specifici riferimenti agli interessi e alle aspirazioni delle grandi potenze. Noi ci riferiremo soprattutto all'Italia Militare e a quest'ultima opera, che ben riassumono e rispecchiano non solo il pensiero, ma l'esperienza umana di G.P.. Infatti l'Italia Militare - come lui stesso precisa nell'introduzione - non è che la ripetizione e l'approfondimento delle idee esposte in forma schematica qualche anno prima (1833) nei Mezzi che menano all'italiana indipendenza (scritto in francese, pubblicato a Parigi e mai tradotto in Italiano). Sempre nell'Italia Militare «non abbiamo potuto evitare di ripetere anche qui alle volte le stesse idee sotto forme diverse, poiché riprodotte in diversi casi ricevono maggior luce». Anche l1ultima parte dell'edizione 1839 dell'Italia Militare, che tratta della «guerra di sollevazione per bande sostenuta dall'esercito permanente» è a sua volta un completamento, un approfondimento, un'aggiunta. Nella prefazione all'Italia Militare il francese A.C. Thibaudeau fa notare che «l'organizzazione militare che egli propone si allontana talmente da quella adottata da tutti gli eserciti d'Europa, che potrebbe sembrare un'utopia. Ma egli non ha davanti agli occhi che l'Italia, e l'Italia restituita alla libertà, con i costumi, i bisogni, e il genio che le sono propri. Del resto, quando il gran giorno verrà, essa deciderà da sola sulla sua organizzazione... ». Ben detto; perché l'opera di G.P., pur partendo dalle specificità del terreno e del carattere nazionale, è insieme progetto, auspicio, utopia, speranza, ed è soprattutto passione per l'Italia: ma che altro può essere, nel 1833? Come lo stesso Thibaudeau ammette, al momento le prospettive non sono favorevoli: nella stessa Francia, verso la quale si rivolgono le speranze di libertà dei popoli, dopo la Rivoluzione
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del 1830 il Governo fa causa comune con le potenze dispostiche, e «cerca particolarmente l'amicizia della potenza che fa pesare il suo giogo di piombo sull'Italia, l'Austria, la cui amicizia, più che la sua inimicizia, è stata sempre funesta per la Francia ... ». Molto opportunamente il Thibaudeau conclude che «l'autore è il primo che abbia compiuto un'analisi del problema militare estesa a tutta l'Italia. Questo contributo così nuovo e così grande è essenzialmente rivolto a sviluppare nelle diverse popolazioni italiane il sentimento dell'unità nazionale. È dunque un'opera eminentemente patriottica; perché tutto è dentro questo sentimento, tutto ne deriva». Le prime righe dell'introduzione lasciano perplessi: G.P. afferma che non intende esaminare i mezzi e i modi per rendere l'Italia indipendente, ma - supponendo che l'indipendenza sia già stata conquistata - vorrebbe indicare «in qual modo si dovrebbero gl'italiani militarmente ordinare, per opporsi alle ambiziose mfre di que' d'oltremonte, e toglier loro ogni speme di rivalicar con risultamento le spesso violate Alpi». Sembra quasi che voglia vendere la pelle dell'orso prima di averlo ucciso; e come dice lo stesso Thibaudeau, gli spiriti superficiali potrebbero ritenere che «è prematuro pensare di conservare ciò che non si possiede». In realtà a G.P. - e questo è un oggettivo limite - non interessa definire lo scenario politico che deve precedere l'azione militare, ma la miglior strategia da seguire per fronteggiare sul territorio italiano l'inevitabile offensiva del temuto esercito austriaco. Non una parola sui rapporti fra i vari Stati italiani, su chi si ingrandisce, su chi rimane e su chi scompare; non un accenno alle modalità pratiche di coordinamento tra le forze militari degli Stati italiani. Indubbiamente nel 1836, quando G.P. scrive l'Italia Militare, vi sono troppe variabili e troppe incognite per disegnare un credibile scenario politico: ma il limite resta. D'altro canto non c'è dubbio che, sia l'indipendenza nazionale conquistata o meno, si tratta pur sempre di far fronte all'esercito austriaco. Era più che prevedibile, nel J833-1836, che sarebbe bastata la reazione a catena innescata dalla concessione della Costituzione da parte di uno dei Principi sotto tutela dell'Austria, per far cadere i malfermi governi locali e far aderire i loro eserciti alla causa costituzionale, aprendo una crisi che l'Austria, come già nel 1815 e nel 1821, avrebbe sanato in un solo modo: attaccando a fondo i deboli eserciti costituzionali con il meglio delle sue forze. Per questo l'ipotesi sulla quale si basa il libro è superficiale, illogica, irrealista ed evasiva solo all'apparenza: lo dice lo stesso G.P., affermando che
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se di tali ordinanze [quelle da lui proposte per l'Italia - N.d.a.] l'esecuzione malagevole non appare, se a dimostrar giungiamo che alla rigenerata Italia converrebbero meglio di quante se ne conoscono oggi in vigore presso le altre nazioni, noi alleviata sentiremo, almeno per poco, la fatale asprezza de' tempi, che soltanto di pensar ne lasciano a favor della nostra maélre terra. Tanto più che gioverà agl'ltaliani d'oggi, se intraprendenti, ciò che proporremo ad essi allorché liberi [Nostra sonolineatura - N.d.a.].
Si tratta, in sostanza, di prepararsi per tempo ad affrontare i problemi che verranno al momento dell'azione, non solo prima della conquista delle libertà costituzionali, ma anche dopo; problemi che in tutti i casi richiedono un progetto chiaro e suscettibile di immediata applicazione. Molto probabilmente G .P. ha davanti agli occhi gli avvenimenti del 1820-1821 nel Regno di Napoli . In questo periodo - ed egli tra i primi ne ha constatato e sofferto le conseguenze - le libertà costituzionali sono state facilmente conquistate dall'esercito nei confronti di una monarchia corrotta e quindi imbelle, ma il problema t: stato poi di difenderle e mantenerle nonostante le mene e gli eserciti dell'Austria, contro i quali sarebbe stato necessario proprio ciò che allora è disastrosamente mancato, e che G.P. sostanzialmente auspica ne l'Italia Militare: concorde amore per la libertà e indipendenza; disciplina c odio per lo straniero che la insidiava; preparazione militare accurata; disponibilità del popolo a combattere; riserve; unità d'intenti; chiarezza di obiettivi strategici. Quindi G .P., dopo aver ammonito che «per difetto di ben ordinate forze, e non di brama di libertà. e non d'aborrimento di straniero giogo, servi siam noi», cerca anzitutto di dimostrare che al momento in tutti gJi Stati d'Europa - non solo in quelli italiani - le istituzioni militari non danno l'affidamento che sarebbe necessario, e che le nazioni e uropee nel recente passato hanno subìto o evitato il giogo straniero «non mercè la virtù loro, ma di fortuiti avvenimenti». È così avvenuto che i Regni di Spagna e Portogallo sono stati o invasi, o soccorsi dallo straniero; che l'Italia è stata in balla di Napoleone; che lo stesso Impero francese è stato vinto due volte; che la Sviz1,era è stata «a volontà violata». Tre secoli di «militari istituzioni» non sono riusciti a dare alla stessa Austria degli eserciti in grado di proteggere la capitale Vienna «da ripetuta invasione» [di Napoleone - N.d.a.], mentre l'Imperatore di Russia non si è salvato grazie all'«encomiata disciplina» del suo esercito né con l'incendio di Mosca, «ma bensl grazie all'intrattabil clima che punisce l'impazienza di gran capitano». La stessa Gran Bretagna, minacciata da Napoleone, «riguardando mal sicuro baluardo il Vasto Canale [la Manica N.d.a.], non rinviene mai navi bastevoli a offrirle protezione non dubbia».
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Quale la causa di questa perdita di credibilità dello strumento militare? Essa non è dovuta, per G.B., alle armi da fuoco, che secondo taluni farebbero dipendere più che nel passato dalla fortuna l'esito dei combattimenti; al contrario, più l'arte militare diventa complicata a causa delle artiglierie e dei fucili, «più l'istruzione pratica e teorica prevalgono nelle battaglie, e degli azzardi l'imperio scemano» (da notare che questo è un giudizio antitetico a quello dello Zambelli - vds capitolo X). Le ragioni sono altre, di carattere essenzialmente morale: il far dipendere la disciplina dal rigore delle punizioni soltanto; il chiamarsi la gioventù alle bandiere d'ogni militare esercizio digiuni ed il riporre la fortuna della guerra nella braccia non di tutti i cittadini, ma di ben limitata parte di essi, né quali il patriottismo è riguardato delitto.
A questa diagnosi esatta e attuale dei mali che in ogni tempo hanno minato l'efficienza degli eserciti, si aggiunge un'indicazione non meno esatta e attuale - ancorché allora come oggi sconfinante nell'utopia - dei rimedi: noi crediamo nazione invincibile quella, dove ogni cittadino nella pubblica prosperità rinviene la propria; dove infamia ignota sarebbe il non accorrere alla comune difesa; e dove i legislatori riguardano la militare educazione di tutti qual base della indipendenza patria. Perché un popolo si avvenga in sì glorioso Stato, ognuno intende che goder dovrebbe d'istituzioni ampiamente libere. Quindi come sorprendersi se niuna nazione in Europa viene in appoggio al nostro dire?
L'efficienza, il rendimento in guerra dello strumento militare sono legati prima di tutto alla sua motivazione, al suo spirito. Lo dimostra l'esercito dei primi ann! della Rivoluzione Francese: in opposizione estrema nelle classi privilegiate, non perizia di mestiere, non capitani chiari da ispirar fiducia, non danari. Ma odio in tutti i popolani e nelle menti elevate per gli abusi del caduto sistema, odio per lo straniero che quegli abusi agogna riporre in fiore, e per la patria libertà entusiasmo. E questo sentir basta alla Francia perché trionfi eserciti, e sormonti la corruzione, e gli intrighi de' potenti tutti d'Europa.
Discenda da queste premesse e da questo esempio la matrice del progetto miltare di G.P.. Esso è antitetico a quello di Cesare Balbo, che
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vedeva nella concesione delle libertà costituzionali un ostacolo, o quanto meno un fattore irrilevante e secondario per la lotta contro lo straniero: presso non libera nazione ordinar non mai si possono le forze in modo da porle stabilmente al coperto delle armi straniere. Perché non solo né tutti, né grandissima parte di cittadini interessansi alla difesa dello Stato, ma dove si rinviene in Europa oggi un Governo che non abbia bisogno di truppe per sotenersi al di dentro delle frontiere proprie? Quindi Italia indipendente e libera, come noi supposta la abbiamo mercè la popolarità del nuovo patto sociale, contar potrebbe sulle braccia di tutti i cittadini nell'ordinar le sue forze. E dovrebbe invero l'italiano congresso in ciò riporre esclusivamente ogni cura, perché tra popoli giunti a fresca libertà, rimanendo noi più esposti agli attacchi, noi primeggiar dovremmo per eccellenza di difensivo sistema.
Ancora e sempre, è più facile conquistare la libertà che difenderla. Ma - e qui ci troviamo di fronte a un altro motivo centrale e continuamente ricorrente dell'opera di G .B. - nel terreno dell'Italia centro-meridionale e nel carattere, nel temperamento della sua popolazione vi sono eccellenti premesse e condizjoni che facilitano la difesa: «vi fu mai regione che più della nostra si prestasse al mestiere delle armi? Indigeni in essa sono valore, destrezza, ardire, elevazion d'animo e di mente». A questo punto - come già hanno fatto il Foscolo, il Grassi e tanti altri - G.P. getta un rapido sguardo sulla nostra storia, per dimostrare quanto gli italiani si siano distinti in passato anche per valor militare e capacità tecnica, non di rado insegnando agli stranieri; è stata proprio «l'abondanza di virtù» a provocare quelle gelosie e rivalità interne, che ci hanno poi resi servi. Certo, a G.P. la Francia e i francesi hanno dato molto, ed egli premette che «le militari francesi ordinanze che prodotto sono di consumata esperienza, e di teorie di uomini di alto sapere, serviranno di scorta al nostro lavoro». Ma dopo di ciò - bisogna dargliene subito atto - procede senza complessi e servilismi, prendendo il buono dove lo trova e percorrendo una propria strada autonoma e originale, perché- come già si è visto - la sua impostazione si discosta nettamente da quella di qualsivoglia sistema militare europeo, ivi compreso il celebrato «modello» francese.
Il terreno italiano: possibilità che esso offre a «eserciti nuovi» e qualità militari delle popolazioni meridionali La strategia che propone G.P. è tipicamente nazionale, e si basa soprattutto sulle caratteristiche geografiche dell'Italia: in tal modo, egli si
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qualifica come precursore degli studi geografici militari nazionali e come artefice della loro concreta applicazione alla guerra contro l'Austria. Discende dalla valutazione del terreno una formula geo strategica che è il solo a sostenere, sotto l'evidente influsso delle personali esperienze militari: noi mentre liberi, e né primi anni soprattutto della libertà nostra, se minacciati da guerra vitale, rammentar dovremmo che la ultima salvezza d'Italia commessa non andrebbe alla sua fronte, ma alla sua cittadella; non alle Alpi, ma alla Sicilia, e alle Calabrie, antemurale dell'isola. 14
Non è solo l'Italia peninsulare a fornire costantemente ottimi appigli per la sua difesa da parte di forze debolmente organizzate: ma anche il terreno di pianura del Veneto, della Lombardia e del Piemonte, intensamente coltivato con fossi, canali, filari di alberi ecc. ostacola l'invasore. In effetti in terre sì fatte l'artiglieria, e la cavalleria perdendo ogni insieme, offendono debolmente, né cagionar possono rotte complete. E siccome in queste due Armi più vale il perseverante nemico dell'Italia [cioè l'esercito austriaco - N.d.a.], combattendosi alla spia:iolala in terreni dove la infanteria soltanto esercitar potrebbe le sue forze, e neppure in linea od in massa, il vantaggio andrebbe affatto daJ canto delle nostre file. Allorché parleremo delle italiane fanterie, dimostreremo quanto l'indole di esse sarebbe confacevole al suolo che difender dovrebbero. 15
In queste poche parole sono condensate le ragioni principali della strategia nazionale che propone G.P., l;>en diversa da quella napoleonica, che è centro - europea e ha bisogno di grandi pianure senza ostacoli. Non conviene rischiare né tentare una difesa a cordone alle frontiere, sempre ardua per qualsiasi esercito: un esercito italiano che la tentasse «si esporrebbe per lo meno a disordini d'irregolar ritirata, più nociva alle volte di perduta battalgia. La prima campagna d1talia dovrebbe essere difensiva, in modo che nel dare esperienza, fortificasse il morale de' combattenti». 16 Sull'opera di G.P. pesa continuamente la coscienza della superiorità dell'esercito austriaco in battaglie decisive in campo aperto;
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G. Pepe, L'Italia militare (Cit.), p. 13. ivi, p. 14. 16 Thw.m.. 15
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pertanto bisogna evitarle, accettando il combattimento solo quando con l'aiuto del terreno - si presentano occasioni favorevoli. Un altro dato di fatto da tener sempre presente, è la minore saldezza morale e il minore addestramento delle truppe italiane. Di conseguenza la nostra salute riposta andrebbe in quel sistema difensivo che di scuola serve a schiere nuove, e che sfugge la azioni che menar potrebbero a perdite considerevoli, le quali sgomentano forze non use al fuoco [...]. Ripeter non possiamo mai abbastanza, che nelle contrade dove poco o nulla agir possono le Anni accessorie [cioè la cavalleria e l'artiglieria - N.d.a.], e dove la stessa fanteria perde il vantaggio delle masse compatte, le truppe nuove italiane, mercè la loro naturale sveltezza, poco si risentirebbero del difetto di abitudine di guerra. 17 L'avvento delle armi da fuoco ha aumentato il valore impeditivo del terreno: Annibale non ha potuto essere fermato dai Romani nella Italia Centrale, perché «quando combattevasi senz'arme ua fum.:u, ogni sentieruolo ad un esercito valeva quanto oggi una correggevole strada; l'elevate posizioni, e le valli, almeno alcune, come la Claudina, non davano i vantaggi che in oggi danno; ig note erano pure le attualmente indispensabili linee d'operazione [ ... ]. Né i Romani potevano trarre gran partito dal mare, perché allora noi signoreggiavano, e perché la navigazione avanzata non era come ne' i nostri tempi, soprattutto se porremo in bilancia quella a vapore». 18 Oggi le condizioni sono assai diverse; e gli Appennini, scheletro del sistema difensivo peninsulare «in pochi punti dalle artiglierie e carri scavalcar si possono, ed offrono ad ogni dove protezione a corpi per numero deboli, o ne' combattimenti respinti». La concreta strategia da seguire. dettata dal1a configurazione geografica della penisola, è così riassunta da G.P.: daH'estrema frontiera settentrionale tra l'Istria cd il Varo, fino all'angolo più remoto della Sicilia, contansi circa cinquecento leghe di marcia militare, che formano a un di presso la distanza dalla frontiera francese che bagna il Reno, alla spagnuola sulle coste andaluse. In tutta questa lunghezza, circondata l'Italia dal Mediterraneo, nella parte più larga poche giornate di cammino offre alle truppe, ed una sola dove più stretta. Intorno al vastissimo litorale rivengonsi molte piazze di guerra, capaci parte di mediocre, e parte
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ivi, pp. 14-15. ivi, p. 16.
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di numeroso presidio; varie altre agevolmente se ne potrebbero innalzare, e ricomporre [ ...]. Procedendo l'invasore dalla tromba alla punta dello stivale, rinverrebbe di continuo alla sua fronte tutte le forze peninsulari, col centro sostenuto vantaggiosamente, e sempre dà fedeli Appennini, che offrirebbero ritirala sicura. li nemico al contrario nel guadagnar terreno, più esposto andrebbe né fianchi e nelle spalle, ad attacchi imprevisti, da truppe che sbarcar potrebbero da opposti mari[ ... ]. Il nemico per proceder oltre, assolutamente astretto cli attaccare alcuni punti della penisola che a scaglioni succedonsi. forti per natura. che arte render potrebbe quasicché inespugnabili.19
La descrizione particolareggiata del terreno del1a penisola, che G.P. ben conosce per averlo più volte percorso in guerra, è accompagnata dagli ammaestramenti tratti dalla campagna del 1815 di Re Mural contro l'Austria e da11a guerra insurrezionale nelle Calabrie, e da paragoni con le guerre di Spagna (Saragozza, Valenza) e di Polonia. Ne scaturiscono considerazioni sui più convenienti luoghi da fortificare e difendere, che danno inizio a un dibattito, a un filone di pensiero destinato a protrarsi almeno fino alla prima guerra mondiale, con le inevitabili, radicali alternative navi/fortezze, fortezze/ferrovie, confini/retroterra ecc .. Dalla pianura padana fino alla Sicilia, G.P. indica una serie di città e luoghi da fortificare, di successivi ridotti, che di per sè rispondono a sani concetti non di rado confermati nei decenni successivi, ma che pongono problemi non risolti - e difficilmente risolvibili - di priorità. Prima di tutto, egli dedica grande attenzione alle piazzeforti marittime, che «se furono sempre di grande ajuto ai minacciati imperi, oggi che si hanno legni a vapore, la impotanza loro è più che raddoppiata», 20 anche se non dice mai chiaramente se esse debbono avere o meno priorità - e dove e in che misura - sulle piazze terrestri. Procedendo da nord a sud, Bologna dovrebbe essere fortificata con opere permanenti e distaccate come quelle di Lione: «senza possedere il Bolognese inutil cosa sarebbe il procedere». Un altro punto importante è Foligno: tra queste due piazze, i due mari e gli Appennini, un esercito ben condotto potrebbe sbarrare il passo a qualsivoglia forza nemica. Le fortificazioni di Mantova, Alessandria e Capua se non esistestessero non dovrebbero essere costruite: invece si dovrebbe fortificare con molta cura le piazze marittime di Ancona, Civitavecchia, Comacchio, Venezia, e
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ivi, p. 13. ivi, p. 16.
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inoltre un'altra piazza da guerra dovrebbe essere creata sul punto più favorevole della costa tra Genova e Civitavecchia (forse G.P. già pensa a La Spezia). Più a sud l'Abruzzo è la chiave del Mezzogiorno, e fungerebbe da rifiugio per forze sconfitte intorno a Foligno. Qui dovrebbero essere fortificate Città Ducale, nelle gole di Tagliacozzo, la forca di Penne, e Pescara «oggi non forte abbastanza». Bisognerebbe poi fortificare la parte centrale del Molise, con funzioni di punto di unione delle forze per l'attacco agli Abruzzi, di difesa della strada militare lungo l'Adriatico, di appoggio all'esercito operante in Terra di Lavoro ecc .. A Napoli devono essere messi in stato di difesa Castel S. Elmo e i Castelli Nuovo e dell'Uovo; soprattutto G.B. insiste sulle dimenticate prove di valore che ha sempre dato il popolo napoletano in cinque secoli della sua storia, fino alla recente rivoluzione del 1799 contro i francesi e i borghesi che li appoggiavano. Nelle province di Avellino e Salerno, Monteforte Irpino è «una seconda Foligno, poiché senza possederla non si procede altrove». 21 È estesissima, e può essere resa inattaccabile costruendovi in pochi giorni «opere passeggere». Di particolare rilievo le piazze forti marittime deI1a Puglia, dove già spicca Taranto: la prima è Taranto sul mar Ionio, notissima a que' versanti nelle guerre antiche e né mezzi tempi. Circondata dal mare essa potrebbe porsi in stato di sostener lungo assedio, che pur difficilmente a distanza tale il nemico [che viene dal nord] intraprender oserebbe. Vi rimarrebbero in salvo i legni armati a vela e a vapore per agir sulle coste joniche ed adriatiche. Viene poscia Otranto, tra le piazze marittime italiane più prossima all'isola di Corfù. La terza tra Otranto e Manfredonia è la nota Brindisi, che quando ritorneremo italiani, diverrà piazza marittima di gran momento. Conserviamo noi una lettera del re Gioacchino, dalla quale rilevasi l'importanza che poneva Napoleone in quella città. 22
Il calabrese di Squillace G.P., che pure ha combattuto a fianco delle truppe francesi contro le popolazioni insorte in Calabria dal 1806 al 1807, esalta poi oltre ogni limite sia il valore impeditivo del terreno calabrese per un invasore proveniente dal nord o dal mare, sia le virtù militari dei calabresi. Le Calabrie e la Sicilia andrebbero apprestate a difesa,
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ivi, p. 19. ivi, p. 21.
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perché - per quanto poche probabilità abbia un invasore proveniente da] nrod di raggiungerle - sono «l'ancora maggiore dell'italiana sa1vezza». Questo non solo per i vantaggi difensivi che assicura un terreno particolarmente aspro e privo di strade, ma per l'indole dei calabresi: quella della Calabria è la sola popolazione in Italia che possiede la coscienza del proprio valore. Più scendi nel popolo, con maggiore energia profferire ascolti quel «sono calabrese». lvi pur troppo si giustificò l'opinione che si ha del proprio valore nell'ultima guerra insurrezionale, di cui qualche cenno faremo. La popolazione calabrese che avvicinasi al milione, dar potrebbe agevolmente dieci battaglioni di cacciatori, di seicento ognuno, ed avrebbe così l'esercito italico le migliori truppe leggere in Europa. In esse sobrietà e sveltezza meglio che nel catalano; più esattezza assai del tirolese nel trattar lo schioppo; più stabilità e amor proprio dello svizzero.23
Combattendo sul suolo natìo, le truppe e milizie calabresi aumenterebbero il loro rendimento e non soffrirebbero la fame, sia a causa <lella loro sobrietà, sia per la ricchezza di quelle terre, sia perché «ivi quantità d'erbe comuni sono così nutritive, che cotte e condite con olio, che non vi manca, valgono come altrove legumi più consistenti». 24 G.P. fa un importante accenno - che poi svilupperà meglio - al loro modo di combattere contro di lui e i Francesi nel 1807: combattevano gl'insorti per bande, il cui numero variava al variar del suolo, dell'indole delle popolazioni, e della fiducia che ispiravano i Capi. Le più minute scendevano fino a venti, e se ne contavano anche di mille, ma poche di questo numero. Il solo appoggio che rinveni vano era verso Reggio, che Massena d'occupar non credè opportuno per non assottigliare la sua linea prolungandola. Le bande e piccole e numerose scorrevano quelle provincie in tutte le direzioni. Andavano e venivano spesso dal territorio settentrionale al Reggiano; né riuscì mai a' Francesi assistiti dalle milizie locali, l'astringerne una sola a metter basso le armi.25
Mirabile ed efficace sintesi di come si fa la guerriglia in terreni difficili sul tipo di quelli calabresi, ivi compreso il «santuario» di Reggio Calabria poco opportunamente non occupato dai Francesi ...
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ivi, p. 22. ivi, p. 23. 25 ivi. p. 24. 24
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Coloro che non conoscono bene il Mezzogiorno - afferma G.P. potrebbero chiedersi se i calabresi combatterebbero per l'indipendenza e l'unità d'Italia con lo stesso vigore che hanno dimostrato combattendo lo straniero. Ma fin dalla ribellione contro i francesi i calabresi si sono sollevati per spontaneo patriottismo, e non per bacchettoneria religiosa o politica: non religioso, dacchè que' popoli si distinsero sempre per la loro avversità alla tirannide del Vaticano, ed alla sua inquisizione. Non politica, mentre i popolani combatterono i Francesi perché invasori, e que' delle altre classi gli aiutavano per desiderio di leggi d'avanzata civiltà, ch'essi recavano, e per la memoria de' freschi errori che commessi eransi dal governo di Ferdinando, nell'anno in cui le migliaia all'esilio e le centinaia al patibolo inviavansi [cioè nel 1799 - N.d.a.). 26
Sulle coste calabresi non sarebbe necessario costuire piazzeforti; si dovrebbe semplicemente cingere di mura le città sul mare, che in caso d'invasione resisterebbero come piazzeforti, sia a causa della difficoltà per l'invasore di portare al seguito le artiglierie, sia per i pericoli e i disagi ai quali sarebbero esposti gli assediati. Dovrebbe essere invece fortificato sulle due sponde lo stretto di Messina, in modo da impedire il passaggio a ogni nave nemica. In quanto alla Sicilia, i suoi abitanti non hanno le stesse naturali doti militari dei calabresi, «ma nelle loro isola essi hanno posizioni interne di gran valore, e molte città marittime, che per cadere lunghi assedi e forse ineseguibili si richiederebbero; soprattutto se gli abitanti interessati a difenderli andassero. Hanno essi patriottismo tale da porre in oblio le discordie private ed interne all'apparir dello straniero [... ]. Ne' recenti dieci anni, allorché divisi da Napoli, militarono essi in reggimenti ausiliari degl'inglesi, in tutte le occasioni si distinsero per militari virtù. E noi portiam parere, che giunta l'epoca per la quale noi scriviamo, non attenderanno che l'italica indipendenza si rifugiasse nella loro isola, per mostrarsi italiani anche'essi». 27 In Sicilia bisognerebbe riattare le già esistenti fortificazioni delle piazze marittime, fortificare Castrogiovanni come punto d'appoggio anche logistico per un esercito, e completare le fortificazioni di Messina.
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ivi, p. 23. ivi, p. 25.
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L'ordinamento del futuro esercito costituzionale italiano: guardie nazionali, milizie e truppe di linea G.P. è l'unico autore italiano della Restaurazione a descrivere nel dettaglio l'ordinamento militare più consono ai nuovi e peculiari principì strategici e discip1inari prima indicati, tenendo presenti le soluzioni francesi ma da esse discostandosi spesso, perché la situazione italiana è assai diversa·: maggiore istruzione, e disciplina più rigida si richiede da noi, perché meno abitudine di guerra in Italia che in Francia, e perché più che i Francesi esposti andremmo, almeno per anni molti, ad attacchi stranieri. Sulle milizie che i Francesi chiamano guardie nazionali mobili, nulla abbiamo preso da essi, perché non ne hanno ordinato ancora. [ ... ] Le stesse popolazioni armigere che abbiamo in varie parti d'Italia, e più al Mezzogiorno, sono quelle che maggiormente di disciplina abbisognano, perché utilizzato anda<;sc il valor loro.28
Il sistema proposto da G.P. assomiglia molto a quello che nel secolo XX è stato chiamato lancia e scudo: una lancia composta da una aliquota di forze permanenti ad alto livello di operatività che in pace è il più ridotta possibile, e un'aliquota di forze territoriali che gli copre le spalle, la alimenta, funge da riserva e a sua volta ha al suo interno un grado di operatività differenziato. Ciò che G.P. ha il merito di mettere bene in evidenza, è l'armonia e la perfetta corrispondenza che deve esistere tra ripartizioni e organizzazioni amministrative militari e civili, nell'intesa che «la massima che i popolani diritto hanno al benessere, e non già ad ingerirsi neppure indirettamente delle leggi e dell'amministrazione dello Stato, è da noi riguardata erronea [... ]. Ove mancassero ad un popolo istituzioni favorevoli alla totalità sociale, ne riguarderemmo l'indipendenza in pericolo, se attaccato venisse da esercito al suo superiore. Ecco perché bisogno avremmo di conoscere fino a qual grado la legislazione dell'indipendente Italia si pronuncerebbe a favor de' popolani, i quali a ragion di numero e di fibra decideranno sempre della fortuna degl'Imperi». I cittadini chiamati a difendere la patria con le armi dovrebbero farlo prima di tutto per sano egoismo, per amore del proprio benessere, quindi anche coloro che vengono chiamati alle armi ma per ragioni di
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ivi, pp. 27-30.
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censo non hanno diritto ad eleggere la rappresentanza nazionale, dovrebbero avere almeno il diritto di concorrere alla scelta delle autorità locali. Ai fini militari il territorio andrebbe diviso in province, distretti, circondari, e quest'ultimi in Comuni. Le forze terrestri sarebbero ripartite in: - guardie nazionali , a loro volta divise in attive e di riserva; - milizie o guardie nazionali mobili; - truppe di linea o esercito permanente. Le guardie nazionali prestano servizio solo all'interno delle rispettive province. Sono composte dai cittadini dai I 8 ai 60 anni. Centro di reclutamento è il Comune, presso cui viene impiantato un registro di matricola dal quale sono esclusi magistrati, sacerdoti, vagabondi, delinquenti ecc .. In ogni circondario sono previsti due distinti ruoli, uno per le guardie nazionali attive e l'altro per quelle di riserva. Dal ruolo delle guardie nazionali attive sono esclusi i cittadini con più di 50 anni, i poveri e i domestici, che fanno automaticamente parte di quelle di riserva. Quest'ultime vengono chiamate a prestare servizio effettivo solo in casi di urgenza; non sono ammessi rimpiazzi (cioè surrogazioni di cittadini chiamati alle armi, da parte di cittadini poveri, dietro compenso). Le guardie nazionali attive sono suddivise in compagnie, battaglioni (al comando di un maggiore), divisioni (una per distretto, al comando di un colonnello e di un tenente colonnello). Le divisioni di una provincia sono comandate da un brigadiere generale. Per ogni battaglione è previsto un consiglio di amministrazione presieduto dal maggiore comandate, «e composto da un numero 'uffiziali, sottuffiziali, e guardie nazionali proporzionato alla forza del battaglione, e scelto nella totalità di esso nelle classi rispettive» ;29 con analoghi criteri sono istituiti il consiglio di amministrazione di divisione e quello provinciale. Negli eserciti del tempo il consiglio di amministrazione-istituzione francese di origine pre-napoleonica - era un organismo collettivo presieduto dal colonnello e composto dai più autorevoli ufficiali da lui nominati, al quale facevano capo branche fondamentali come il reclutamento, la matricola e la vita amministrativa e logistica del reggimento: 30 prevedere che ne facciano parte anche sottufficiali e soldati eletti e che l'organismo funzioni anche al livello di battaglione è dunque una riforma molto ardita. E ancor più ardito è il principio dell'elettività degli ufficiali, sottufficiali e caporali che G.P. caldeggia. Anche il maggiore comandan29
ivi, p. 29.
° Cfr., in merito, F. Botti, La logistica dell'Esercito italiano, Roma, SME -
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Storico 1991, Voi. I, capitolo Il.
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te di battaglione sarebbe eletto dagli ufficiali, mentre il consiglio di amministrazione della provincia sceglierebbe, oltre che i colonnelli comandanti di divisione, i tenenti colonnelli; «lo stesso consiglio farebbe la scelta degli aiutanti maggiore de' battaglioni, e de' capitani d'armamento, uffiziali pagatori, e chirurgi delle divisioni. Il colonnello tra i sotto uffiziali nominerebbe gli aiutanti de' battaglioni». 31 Notevoli le innovazioni da introdurre nel campo disciplinare. Le punizioni per le guardie nazionali di qualsiasi grado andrebbero fissate per legge e riguarderebbero esclusivamente mancanze commesse in servizio. Inoltre «le leggi accorderebbero una data autorità a' superiori di punire i subordinati. Si stabilirebbero consigli di disciplina né distaccamenti, nei battaglioni e nelle divisioni». In quanto ai criteri da adottare per il governo disciplinare delle unità, «i legislatori rammentar dovrebbero, che senza rigida disciplina non si educa un popolo militarmente mai. Che quando le leggi pesano su di tutti ugualmente, perdono ogni asprezza e non umiliano. E che agli uffiziali elettivi qualche autorità rammentar si dovrebbe, senza temer che ne abusassero».32 Dal punto di vista logistico, i singoli militi sarebbero tenuti ad acquistare a proprie spese solo l'uniforme, composta da una tunica di tela turchina chiamata dai francesi blouse, con cintura di cuoio bianco e fibbia d'ottone. Il governo fornirebbe solo il fucile e le giberne; «3° le spese ordinarie [gestite dal consiglio di amministrazione - N.d.a.l sarebbero per le bandiere, i tamburi, le trombette, riparazioni d'armi , registri, ed andrebbero regolarizzate e pagate come tutte le altre municipali; 4° Le municipalità sarebbero depositarie delle armi, e ne risponderebbero al governo. I consigli di amministrazione di quelle ad esse affidate ne risponderebbero alla municipalità». L'addestramento sarebbe molto curato. Ciò che G.P. propone in proposito, è la quintessenza cli quanto da allora in poi avrebbero teorizzato i fautori italiani e francesi della «nazione armata» e del modello svizzero, con un ruolo di grande rilievo assegnato anche in questo caso alle istituzioni locali e in particolare al Comune, e cure assidue dedicate alle lezioni di tiro e alla topografia: 1° ne' capi luoghi di provincie, e di distretti, e nelle città popolose, vi sarebbero scuole pubbliche militari, di topografia di tutte le province italiche, di disegno, di fortificazione di campagna, della storia militare italiana fin dà primissimi tempi. Mille vie sarebbe-
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G. Pepe, L'Italia Militare , (Cit.), p. 28. ivi, p. 29.
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ro al potere d'un Governo volente per ispingere la gioventù a frequentar le scuole indicate. 2° In ogni capoluogo di circondario, e in ogni comune che desse una compagnia, vi sarebbe un tiro al fucile, e un locale adattato alla corsa. In tutte le domeniche, le guardie nazionali per compagnia, la mattina si eserciterebbero a tirare al bersaglio, a correre, alla scherma di baionetta isolata, ed in punta di fucile. Dopo il desinare si eserciterebbero alle diverse scuole del soldato, e di compagnia [ ... ]. Una volta al mese le guardie nazionali d'ogni circondario si unirebbero nel capo luogo di esso [ ... ]. Nei comuni prossimi al mare, o pure ai grossi fiumi s'incoraggerebbero le. scuole di nuoto. 3° L'amministrazione comunale provvederebbe a' cartocci per le scuole del tiro, e per gli esercizi a fuoco. Questa spesa sarebbe più necessaria fra tutte quelle che richiede il ramo di guerra. Il ministro a richiesta del consiglio di amministrazione generale della provincia distaccherebbe uffiziali, e sottuffiziali istruttori per il tiro, dove più ve ne fosse bisogno. 4° Una volta in ogni sei mesi i battaglioni d'un distretto che comporrebbero la divisione, si unirebbero al capo luogo dove si eseguirebbero le manovre di linea. Vi sarebbe quindi in presenza di tutte le autorità distrettuali esame pel tiro, la corsa, la scherma alla baionetta, e di ciò che s'insegna nelle scuole pubbliche militari. Un giurì scelto dagli uffiziali delle guardie nazionali, e dalle autorità amministrative del distretto, distribuirebbe a' più meritevoli le ricompense stabilite dalle leggi.
È facile osservare che l'impegno militare richiesto al cittadino non sarebbe lieve né sporadico, e richiederebbe convinta, totale partecipazione ... Con questo sistema G.P. calcola di poter arruolare 2.000.000 di guardie nazionali attive e 1.000.000 di riserva, le quali fungerebbero da base di reclutamento per le milizie o guardie nazionali mobili; a loro volta, queste ultime in pace alimenterebbero le forze permanenti o di linea e in guerra ne costituirebbero la riserva da mobilitare all'occorrenza. G.P. calcola che sarebbe possibile reclutarne circa 300.000 e indica come esempio da imitare le mobilitazioni dell'esercito costituzionale napoletano contro l'Austria nel 1821, che pure è stata fortunata: bastarono in quell'epoca gli ordini telegrafici, perché marciassero alla volta della frontiera ottanta battaglioni di milizie, nel mentre che quaranta altri pronti tenevansi a seguirli ad ogni cenno [ ... ]. E tutte queste forze davansi, oltre un esercito di cinquanta mila uomini, da cinque e milioni e mezzo d'italiani, vale a dire dalla quarta parte della popolazione peninsulare; e l'ordinamento di essa fu opera di soli quattro mesi. Né l'esposto riguardar si potrebbe inesatto, dacché niuno, né come né meglio di noi, li conosce in quel regno.
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Che se tante braccia non valsero a difendere il mezzogiorno, non isparga quel tristo esempio diffidenza nel cuore degl'Italiani, poiché sotto principi ch'eccitavano al tradimento, e ch'essi stessi tradivano, gemevasi in quell'epoca inesperta. Senza tante indegnità l'invasore ricevuto avrebbe il meritato castigo pel suo ingiusto attacco, al quale si avventurò perché invocato [cioè chiamato a intervenire da traditori italiani nemici del governo costituzionale - N.d.a.].
Le milizie sarebbero ordinate in battaglioni di sei compagnie di 120 uomini, a loro volta divise in quattro sezioni, reclutati tra le guardie nazionali o attive e tra quelle di riserva, con età compresa tra i 20 e 35 anni, e durata del servizio di quattro anni. L'organizzazione, l'addestramento, il codice di disciplina e l'inquadramento (con ufficiali elettivi) delle milizie sarebbero analoghi a quelli delle guardie nazionali attive. Solo il loro impiego in tempo di guerra sarebbe diverso: 1° Nelle comuni, ove esistesse almeno una delle quattro sezioni di una compagnia di milizie, comandata da un uffiziale, e da un sotto uffiziale, si terrebbe essa riunita, ed alternerebbe con le guardie nazionali nel servizio che queste danno [... ]. In qualunque servizio fuori del circondario i militi sarebbero i primi a marciare. 2° In tempo di guerra le milizie formate in battaglione farebbero parte delle legioni di linea delle provincie rispettive.33
L'istruzione avverrebbe in comune con le guardie nazionali; inoltre le milizie per un mese aJl'anno si riunirebbero per provincia in un campo d'istruzione comandato da] generale ispettore [ ... ]. Tra gli esercizi di dettaglio, il tiro a1 fucile, la scherma alla baionetta., e la corsa meriterebbero attenzione maggiore.
I nomi di tutti coloro che si sono istruiti nella storia militare d'Italia, nelle fortificazioni di campagna, nel disegno e nella topografia dovrebbero essere pubblicati nel giornale militare ufficiale; inoltre chi si distingue nell'addestramento dovrebbe essere compensato anche in modo tangibile, con premi e un certificato che nel caso che l'interessato aspiri a «impieghi o altri vantaggi sociali dipendenti dal Governo», a parità di merito gli farebbero ottenere la preferenza. I battaglioni di milizia mobilitati per entrare a far parte delle truppe
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ivi, p. 32.
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di linea, sarebbero soggetti alle stesse nonne disciplinari e riceverebbero il trattamento economico, i vantaggi anche in caso di ferita ecc. che la legge accorda a quest'ultime. Inoltre ciascun battaglione dovrebbe costituire al suo interno formazioni speciali di truppe leggere, che in pratica assumerebbero una fisionomia assai simile a quella dei futuri bersaglieri piemontesi: 4° in tempo di guerra in ogni battaglione vi sarebbe una banda di sessanta militi scelta tra i più svelti e i più destri tiratori. Chiamerebbesi la banda scelta, e què che la comporrebbero riceverebbe un sopra soldo [ ...]. Le bande scelte di molti battaglioni riunir si potrebbero in caso di bisogno.
Una pagina più avanti G.P. estende questa formula e prevede che appena riuniti i battaglioni di milizie per entrare in campagna, la prima delle sei compagnie si comporebbe de' militi che nelle armi provato hanno di essere più esperti tiratori allo schioppo di tutto il battaglione. Essa prenderebbe il nome di compagnia cacciatori, i quali godrebbero d'un soprassoldo.
A meno che non si tratti di una banale svista o di una ripetizione, e che gli uomini della «banda» siano gli stessi della compagnia cacciatori, par di capire che secondo G.P. in ogni battaglione deve essere costituita una «banda» cioè un gruppo di uomini (mezza compagnia), destinati ad agire alla spicciolata, con compiti di avanguardia, di esplorazione ecc. e una compagnia cacciatori, composta dai migliori tiratori del battaglione. Persino la banda dovrebbe essere scelta «da un giurì di due militi per compagnia» ... Le innovazioni organiche non si fermano qui. G.P. è nemico non della cavalleria in sè ma dell'impiego a massa della cavalleria, perché «la natura del suolo italiano è tale, che in pochissimi luoghi la cavalleria sviluppar si potrebbe con vantaggio, ed essi evitar si potrebbero agevolmente. Quindi la nostra cavalleria esser dovrebbe poco numerosa, ma scelta. Secondo noi divider si potrebbe in lancieri nazionali, e lancieri di linea». 34 In ogni provincia sarebbe costituito uno squadrone di due compagnie di «lancieri nazionali» con proprio consiglio di amministrazione elettivo, che in tempo di guerra dovrebbe far parte dei lancieri di linea,
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ivi, p. 33.
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con uguale trattamento economico e uguale disciplina. Oltre che alla divisa e all'equipaggiamento, i lancieri nazionali provvederebbero a loro spese al cavano e al suo mantenimento, dietro corresponsione di un'indennità mensile corrispondente alla metà del costo della sussistenza di un cavallo per il Governo. Da quest'ultimo riceverebbero, perciò, solo la lancia, le pistole e la sciabola, e un'indennità per le spese all'entrata in campagna. Degli squadroni di lancieri nazionali potrebbe far volontariamente parte ogni cittadino chiamato per legge a servire nell'esercito o nelle mi1izie; se dovessero mancare uomini per costituire gli squadroni, si procederebbe al sorteggio tra i componenti più giovani e più agiati deHe guardie nazionali o delle milizie. Per l'addestramento tanto dei lancieri nazionali che di quelli di linea dovrebbero essere istituite almeno due scuole d'equitazione in ogni provincia, «e vi s'insegnerebbe la scherma della sciabola, il tiro alla pistola, ma soprattutto il maneggio della lancia, il quale andrebbe incoraggiato e dal governo e sull'amministrazione provinciale». In totale G.P. calcola che sia possibile costituire in Italia 60 squadroni (uno per provincia), per un totale di 9000 uomini «che poco graverebbero sul tesoro quando non attivi, che utili sarebbero in pace e in guerra, e desterebbero tra la gioventù italiana emulazione per l'arte di cavalcare». Con la cura che mostra di avere per le milizie e per le guardie nazionali (non casualmente trattate per prime), si potrebbe ritenere che G.P. è assai tiepido fautore degli eserciti permanenti. Si deve invece constatare il contrario: nel suo concetto l'esercito permanente è una tipica formazione d'élite che «quanto inferiore sarebbe a ragion di numero alle milizie, e alle guardie nazionali, altrettanto superar le dovrebbe per militari virtù, e per cittadinesche vorremmo che primeggiasse anche». Sarebbe molto inferiore di numero alle milizie e guardie nazionali, ma solo per ragioni economiche, e per poter scegliere accuratamente anche sotto il profilo morale coloro che ne fanno parte. Al momento - osserva G.P. - gli eserciti europei non servono tanto a portare vittoriosamente a termine le guerre interstatuali o a difendersi dal nemico, «ma imposto loro è prima d'ogni altro di tenere a freno i loro concittadini». E se poi tali eserciti servono a mantenere il possesso di province straniere soggiogate, occorrono per questo compito forze maggiori di quelle impiegate per aver ragione del nemico in guerra: or queste ragioni, e le gelosie tra principi, a5tretti gli hanno ad aumentare esorbitantemente il numero delle loro truppe. Questa aumenlazione è una delle cause che più si oppongono alla perfezione
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degli eserciti. Poiché come rinvenire mezzi pecuniari da farli vivere con qualche agiatezza? Come ottener tanti uomini nel vigor degli anni? Come dalle file di essi escludere quei che il nome di soldato svergognano? In secondo luogo dove reggono istituzioni, mercè le quali i cittadini chiamati alle bandiere sieno in parte avanzati al mestiere delle armi ?35
11 riferimento e il modello - ma una volta tanto in negativo - è proprio l'esercito francese del momento, nel quale per quanto l'istituzione delle guardie nazionali sia assai radicata, «cura non si ha dell'istruzione, e moltissimi de' popolani, per miseria o per colpe respinti da11e nazionali guardie, da sorteggio tra ]e truppe chiamati sono, o vi s'introducono ad agiati cittadini vendendosi». In Europa - prosegue G.P. - a] momento non si trovano combattenti, i quali possano dire di servire veramente i loro personali interessi: al contrario, si vedono truppe di nazioni - anche con Governo costituzionale - «al cui soldato si vieta il conversare col cittadino non soldato»; perciò se l'Italia libera e unita - assicura G.P - adotterà il sistema di reclutamento da lui suggerito, potrà disporre di un esercito permanente «la cui virtù sorpasserà di gran lunga quella che tanto ammirasi negli eserciti d'altri popoli» . Un esercito che con i suoi superiori ordinamenti compenserebbe l'inferiorità numerica, perché «se l'Italia seguir volesse l'esempio delle altre potenze in Europa, sostener dovrebbe un esercito di trecentomila uomini. Quello che noi proporremmo sarebbe di centocinquantamila». L'ordinamento proposto dal G.P. ha due caratteristiche salienti, e per quei tempi piuttosto insolite: reclutamento regionale nei limiti del possibile anche per gli ufficiali, e costituzione - anziché di reggimenti - di vere e proprie Grandi Unità elementari (cioè pluriarma e a composizione fissa) al livello di brigata, che egli chiama Legioni. Due Legioni formerebbero una divisione, più divisioni, un corpo d'armata. Ogni provincia fornirebbe una Legione: in totale 60 Legioni a base ternaria, ciascuna composta «di tre battaglioni di legionari, di due squadroni lancieri di linea, di una compagnia di zappatori, di bocche a fuoco indicate da11e circostanze, di brigate di muli e basti per il trasporto di cartocci [cioè munizioni - N.d.a.], ed altri materiali indispensabili».36 In caso di guerra ne farebbero parte uno o più battaglioni di milizia, e lo squadrone di lancieri nazionali della rispettiva provincia. L'organico di pace della fanteria e dell'artiglieria sarebbe quindi ridotto, e l'artiglieria e
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ivi, p. 35. ivi, p. 36.
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il genio sarebbero assegnati alla Legione solo al momento della mobilitazione. G.P. indica con molta chiarezza ed efficacia le ragioni che consigliano il reclutamento regionale e la costituzione di unità pluriarma, anziché - come ovunque si usa al tempo - di reggimenti/corpi, ragioni valide anche oggi: preferiremmo le legioni a' reggimenti, dacché la guerra facendosi in Italia sovente alla spicciolata, si avrebbero tanti corpi completi in tutte le Armi. Esse combatter dovendo insieme sarebbe non poco utile che prendessero l'abitudine di manovrare unite, ed apprendere così la via da sostenersi reciprocamente. La cavalleria istruita e disciplinata per due squadroni, in modo più agevole progredirebbe nella sua perfezione, che se andasse riunita in grandi corpi. In tempo di pace gli zappatori, e l'artiglieria una parte dell'anno rimarrebbero nei loro reggimenti, ed un'altra parte distaccati andrebbero nelle legioni. Se desideriamo che ogni provincia dia la sua legione, non è al certo per alimentare le antiche divisioni, perché le nuove piccole provincie in nulla rammenterebbero gli Stati di altra volta. Collo stabilire che i cittadini d'una stessa provincia formassero un solo corpo, s'introdurrebbe nei nostri ordinamenti una molla potentissima, che spronerebbe a belle opere i nostri militari, e dalle turpi gli svolgerebbe [... ]. Quei che vive e combatte a fianco de' concittadini suoi, altrimenti notato vedesi in tutte le sue azioni, le quali, o virtuose, o brutte, nel suo villaggio e nella sua città natale risuoneranno nel suo orecchio finché avrà vita. 37
Se si dovesse rendere necessaria una mobilitazione improvvisa, il reclutamento di una legione per provincia consentirebbe anche di far affluire con la massima rapidità presso i1 rispettivo deposito gli assenti per congedo e quelli della riserva; inoltre, faciliterebbe i legami sociali tra i legionari stessi, e le guardie nazionali mobili che in caso di guerra sarebbero chiamate a far parle delle legioni. Sotto questo aspetto - osserva G.P. - il sistema non è certamente adatto ai governi assoluti, «che perder non debbono di vista la nota massima divide et impera». E a coloro che sono contrari al reclutamento regionale, perché eventuali perdite gravi in guerra si ripercuoterebbero su11a popolazione dell'intera provincia [così è avvenuto per le nostre truppe alpine nel 1940-1943 - N.d.a.], G.P. risponde che «nelle non mai live11ate contrade italiane non sarebbe probabil cosa il vedere una legio-
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ivi, p. 37.
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ne tagliata a pezzi», e che anche se ciò dovesse avvenire a causa dell'imperizia di qualche generale, questo inconveniente sarebbe ampiamente compensato dai mille vantaggi morali e materiali che assicura il nuovo sistema da lui proposto. G.P. non si limita ai concetti di base ma si diffonde su molti altri particolari di grande interesse, che riguardano tutti i settori: dal reclutamento e inquadramento, all'armamento, alla logistica e amministrazione, alla disciplina, fino a fornire una specie di breviario del moderno esercito di un paese libero, nel quale suona un po' stonata solo la manìa del G.P. per ]'elettività delle cariche militari, quasi che a un aspirante ufficiale o sottufficiale fosse possibile - e si addicesse - condurre campagne elettorali. I legionari verrebbero sorteggiati tra gli appartenenti alle milizie, di età comprese tra i 23 e i 35 anni, in modo che ognuno di essi abbia prestato servizio prima tra le guardie nazionali, e poi nelle milizie. La ferma prevista nell'esercito permanente sarebbe quella più o meno di tutti gli eserciti del tempo: 6 anni (8 per la cavalleria). Al tennine della ferma, i legionari rientrebbero nella milizia. Non vi sarebbe gendarmeria, né l'esercito permanente verrebbe impiegato per esigenze interne: «i lancieri nazionali e le milizie appoggerebbero le guardie nazionali nel dar braccio forte in caso di bisogno alle autorità governative». Estremamente attento ai fattori spirituali, G.P. ritiene necessario escludere daU'esercito permanente i cittadini a suo tempo non ammessi per ragioni di condotta nelle guardie nazionali e nelle milizie, i quali nelle file dell'esercito «scemerebbero i sentimenti di dignità e onoratezza». Per la stessa ragione si oppone al principio della surrogazione a pagamento dei giovani sorteggiati per il servizio militare da parte di altri, perché questi ultimi «non solo appartengono alla classe più indigente, ma esser sogliono di condotta trista. E come mai la loro presenza estinguer farebbe l'entusiasmo più esaltato! Oltre a ciò, daJl'ammissione dei cambi risulterebbe, che quantità di giovani dati allo studio, i quali mercè la loro natural disposizione divenir potrebbero gran generali, umiliati si crederebbero di servire a fianco di cittadini che si vendono, onde un cambio cercherebbero anche essi. La Francia ha avuto al certo grandi uomini di guerra, ma se non si fossero ammessi cambi avrebbe avuto anche capitani sommi. In Inghilterra il soldato perché si vende non oltrepassa mai il grado di sergente, e forse questa circostanza non ha pennesso fin d'ora che si abolisse il bastone nel britannico esercito». Dovrebbero essere formati anche battaglioni e squadroni di cacciatori calabresi, capaci di sparare da cavallo con carabine lunghe. In tal modo «per agilità, forza; e destrezza degli uomini al tiro del fucile, e la
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forza, e l'agilità dei loro cavalli, si avrebbero le migliori truppe leggiere d'Europa».38 L'artiglieria e il genio dovrebbero avere appositi regolamenti. Sarebbe possibile avere una artiglieria molto scelta, perché in proporzione a quella degU altri eserciti d'Europa essa sarebbe numericamente molto inferiore, per una serie di ragioni: la natura del suolo ita]jco ne porge la prima. In secondo luogo il gran numero in tutte le cose alle perfettibilità si oppone. Finalmente abbiam per noi l'autorità di Napoleone, che divenuto Imperatore diede tutte le battaglie decisive in pianura. Diceva egli, negli ultimi tempi della sua carriera, secondo rapporta il Maresciallo Saint Cyr, che l'artiglieria numerosa era di un tale ingombro, che più male che bene cagionava.39
Anche l'artiglieria da montagna dovrebbe essere ridotta, «non per crederla utile materialmente, ma perché nei primi anni della nostra scuola bellica, influirebbe con qualche vantaggio sul morale dei combattenti; ed in guerra alle morali impressioni dar peso si direbbe più che in lutle le altre faccende della vita».40
Amministrazione e logistica
Premesso che «di tutte le virtù che nell'esercito si richieggono, l'amministrazione è la base», anche in questo campo G.P. indica un obiettivo assai ambizioso: evitare le irregolarità e gli sprechi che al momento si verificano, perché da ogni dove la gestione amministrativa trovasi tra le mani del ministro della guerra, de' suoi impiegati, de' commissari delle varie classi, e de' consigli di amministrazione de' corpi. Or questi consigli composti vanno di pochi membri non elettivi, e preseduti da' colonnelli che vi esercitano grande influenza. Intorno a' commissarii, agli ordinatori, agl'impiegati, alle compiacenze del ministro pei suoi amici, per la gente di corte, e le raccomandazioni de' principi, se ne sa da tutti. 41
La sua ricetta per evitare questi mali endemici è assai semplice, fino 38
ivi, p. 36. ivi, p. 38. 40 ivi, p. 49. 41 ivi, p. 38. 39
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ad apparire semplicistica: rendere elettivi e ruotare frequentemente i membri dei consigli di amministrazione_ Al livello centrale funzionerebbe un consiglio incaricato «dell'alta amministrazione de] materiale della guerra, sicché il Ministro dovrebbe soltanto far conoscere i bisogni dell'esercito, ed eseguire i pagamenti dal consiglio generale disposti». 11 presidente del consiglio dovrebbe essere scelto dal «supremo giurì» tra i generali o tra i più alti funzionari dello Stato. Ne farebbero parte due membri de1lo stesso giurì e sei membri nominati ogni anno da altrettante province a rotazione, i quali loro volta chiamerebbero a farne parte 10 ufficiali superiori delle varie Armi. Inoltre «i consigli di amministrazione de' corpi di tutte le Armi composti andrebbero dagli uffizia]i superiori di essi, di capitani, uffiziali subalterni e sottufficiali scelti a maggioranza di voti dà militari delle classi rispettive». Senza queste precauzioni «i meglio intenzionati principi, o ministri, non perverrebbero mai ad evitar dissipamenti nell'amministrazione dell'esercito». Inoltre sarebbe possibile trattare il nostro soldato e addestrarlo molto meglio di quello francese, ottenendo così da 150.000 uomini un rendimento maggiore di quello che potrebbero fornire 300.000 uomini peggio trattati e addestrati, e gravando sulle pubbliche finanze assai di meno che nelle altre nazioni: compare, insomma, in queste riflessioni il mito dell'esercito più efficiente e al tempo stesso più economico. In ogni divisione militare dovrebbero essere costituiti «magazzini d'armi, di vestiari, di biancheria, e calzatura, acquistate dal consiglio generale d'amministrazione, e da quelli de' corpi. Questi magazzini in caso di guerra, andrebbero stabiliti nelle piazzeforti marittime».42 Occorrerebbero ben due milioni di fucili, che sebbene «in Italia, e nel boscoso mezzogiorno, stabilir si potrebbero eccellenti fonderie - e fabbriche di ogni arma», nei primi tempi non sarebbero disponibili. Essi potrebbero essere acquistati solo in Inghilterra, dove «lo spirito di profitto, e le leggi di commercio in quella contrada non impediranno mai l'estrazione di armi, quando fosse pronto il danaro per farsene acquisto»; i fucili francesi sono migliori, ma non sarebbero disponibili in così gran numero. Sarebbe un grande errore approvvigionare fucili senza baionetta: quest'ultimi dovrebbero essere dati in dotazione solo a compagnie di ottimi cacciatori destinati a operare sotto la protezione della fanteria di linea, oppure alle truppe che difendono le fortificazioni. Comunque, coloro che governeranno l'Italia nei primi anni de11a sua indipendenza, dovranno guardarsi dall'incoraggiare insurrezioni contro il nemico di masse popolari ricche
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ivi, p. 39.
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d'entusiasmo ma armate solo di falci o accette e altre consimili armi bianche: ben presto «in presenza del nemico si accorgerebbero de11a loro debolezza, e quindi ne risulterebbe de11a demoralizzazione, che una volta introdotta non si distrugge senza grandissimo stento a favor di fortuna». La cavalleria secondo G.P. dovrebbe avere come unica arma la lancia, la quale dovrebbe essere di legno stagionato proveniente dal settentrione, in modo da unire forza e leggerezza. Le ragioni di questa preferenza sono due: quest'arma si adatta molto bene all'«elasticità» degli italiani, ed è particolarmente idonea al combattimento lungo le strade, molto frequente in Italia. Lo dimostrano le decisioni di Gioacchino Murat Re di Napoli, il quale «dopo reiterate riflessioni non volle che lance; e noi poco prima che perdesse il Regno, il sentimmo pentirsi d'aver formato un reggimento di corazzieri. È grande autorità certamente quella di un uomo, che Napoleone riguardò sempre qual primo capitano di cavalleria d'Europa».43 Infine il vestiario dovrebbe essere pregevole per semplicità, qualità di stoffa e eleganza, in tal modo contribuendo ad accrescere l'amor proprio del soldato. Mantenendo la truppa meglio vestita, nutrita e alloggiata si avrebbero soprattutto vantaggi di carattere morale e addestrativo: la nostra truppa [..] non guasta dalla presenza d'uomini abbietti per indigenza, o mestiere, che si hanno dà cambi e dal sorteggio, sarebbe più in stato di perfezionar la sua istruzione, ed ingombrerebbe assai meno spedali d'ammalati [ .. ]. Ed invero come persuadere alla lunga giovani i quali sotto la bandiera sostengono tutti gli stenti della vita, e rinunziano a quella libertà stessa per la quale combattono, che dalla patria onorati vanno que' suoi difensori, se questa permette che serie di privazioni sieno i loro giorni, che abbiano da vivere quanto basti per sostenere debolmente l'arma da combattere i di lei nemici? L'indigenza abbatte l'amor proprio, che l'agiatezza sostiene....44
Disciplina, istruzione e avanzamento Secondo G.P. in guerra come in pace il numero non è potenza, e diversamente dal Cattaneo e da tanti altri egli pensa che anche con le armi
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ivi, p. 37. ivi, p. 38.
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da fuoco «la superiorità di miglioria [cioè qualitativa - N.d.a.] gran vantaggio ha sempre sulla numerica in guerra, poiché mille difficoltà dal numero derivano. Meno rapidità nelle manovre, meno agevole i1 nasconderle al nemico, meno stento a riempir le vettovaglie, meno a riempire le sfollate righe». I nuovi e avanzati princìpi democratici ai quali si dovrebbe ispirare l'ordinamento dell'esercito non hanno dunque, per G.P., nulla a che vedere con la costituzione di eserciti di massa che vorrebbero supplire con il numero e l'entusiasmo ai difetti di addestramento, di inquadramento e di armamento. Al contrario, per G.P. i princìpi costituzionali devono tradursi in provvedimenti concreti, tali da concorrere - a cominciare dall'arruolamento delle guardie nazionali - alla costituzione di forze di élite, cioè composte dal meglio che si può ottenere da successivi fiJtraggi, dotate di elevatissimo spirito militare e liberate da incombenze, che non siano quelle di un intenso addestramento e di un'accurata preparazione a condurre operazioni contro i nemici esterni dello Stato. Questi orientamenti si riflettono anche nel campo disciplinare, dove G.P. vorrebbe «le leggi di Dr.icone da un aeropago applicate». Occorrerebbe - egli dice - una «disciplina severa»; la quale, sebbene tale, «esser dovrebbe sempre quella di severissimo padre, che per la salute di una famiglia intiera inesorabilmente ne condanna i membri». Una disciplina consapevole, che conterebbe molto sulla partecipazione dei singoli. Perciò la definizione che ne dà G.P. va benissimo anche ai nostri giorni: col nome di disciplina intendiamo la scienza non solo di far ubbidire gli uomini come automi, per timor d'inevitabile pena, o speranza di premio, ma bensl d'ispirar loro sentimenti elevati, ed entusiasmo nell'esecuzione del proprio dovere. 45 Oltre a poter essere praticata solo presso gli eserciti delle nazioni libere, una siffatta disciplina si adatterebbe molto al carattere italiano, che non è quello dei popoli del Nord. Machiavelli ha affermato che gli italiani mancano di disciplina, ma questo è vero fino a un certo punto: se volete che gl'italiani come gli automati del Nord, soffrano plaudenti le asprezze del mestiere dell'armi e le durezze della disciplina, senza ragioni che a soffrir gl'inducano, l'opinar di Machiavelli non porge dubbio. Ma se all'opposto li eccitate con molle che potere esercitano su di uomini che sentire e pensare sanno, la disciplina
45
ivi, p. 52.
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che tra di loro introdurrete, sarà di ragione; quindi a1trimenti salda di quella che vantano gli eserciti del Nord. 46
Il rigore disciplinare non dovrebbe colpire i sentimenti umani, «dacché esperienza dimostra, che a ragione diretta della severità i casi di punizione diminuiscono, e si è a misura così di aumentare il benessere dell'esercito».47 E se si è indicata la corretta amministrazione di un esercito come prima base della sua virtù, «ciò in gran parte deriva dal riguardarla noi come di grande aiuto, o meglio indispensabile al conseguimento di esatta disciplina, nella quale va riposta la forza d'ogni ordinata truppa».48 G.P. poi controbatte l'opinione - frequente non solo al suo tempo che un governo assoluto di per sè è in grado più di uno libero e democratico di mantenere la disciplina nell'esercito: certamente che se i cittadini di libera contrada sottoporsi sdegnassero a11e severe leggi di ben ordinato esercito, così come de' Fiorentini si legge, giammai aver ne potrebbero uno, ch'il nome soltanto ne meritasse. Ma se principe assoluto da un canto, e dall'altro libero governo, rivalizzassero ad ordinare disciplinato esercito, quello di libero popolo lascerebbe indietro assai il competitore. li governo libero, forte della sua origine, imporre potrebbe leggi di gran lunga più severe di quelle, che dettare oserehhe assoluto prìncipe. I cittadini tra il rigore e la patria tenerezza, darehhero falangi assai più salde, d'altre formate da servi, e sudditi, a leggi più miti sottoposti, e da niuno interesse spinti a tollerare fatiche, privazioni, e pericoli non raddolciti da amor di libertà, cara a tutti i cuori, che dal veleno di umile ambizione non sieno guasti.
Gli exempla per suffragare queste affermazioni tendono a mettere in rilievo che la disciplina è il seme della vittoria, e che un esercito senza disciplina è un esercito senza guida. E vi è anche un riferimento all'ammiraglio inglese Byng, che nonostante il suo passato glorioso è stato condannato a morte da un consiglio di guerra, per non aver accettato il combattimento con le navi francesi . Condanna ingiusta, che però è servita da allora in poi da salutare esempio: «è opinione di molti marini britannici, che il sangue di quel valente servì d'esempio tale, da fissar la data della superiorità marittima di quel popolo». 49
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ivi, p. 54. ivi, p. 40. 48 ivi, p. 39. 49 ivi, p. 40. 47
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G.P. propone perciò quattro gradi di giudizio per le mancanze e i reati. Il giudizio e la sanzione delle mancanze meno gravi spetterebbe agli ufficiali, i cui titoli per l'avanzamento verrebbero vagliati con la massima severità: ma una volta fatto questo, essi dovrebbero avere poteri disciplinari anche superiori a quelli che prevede il regolamento di disciplina francese. Per le mancanze più gravi non di competenza dei comandanti di corpo funzionerebbe un giurì di disciplina elettivo, composto da militari di tutti i gradi. I reati più gravi sarebbero invece giudicati da un consiglio di guerra di divisione non elettivo, composto dai militari più anziani di tutti i gradi ; in tempo di guerra e in presenza del nemico, sarebbero costituiti consigli di guerra speciali. Infine, al livello centrale funzionerebbe un «supremo giurì» con funzioni di consiglio di guerra di revisione, che emmetterebbe sentenze senza possibilità d'appello. Questo alto organismo non svolgerebbe solo questa funzione ma vigilerebbe con ampi poteri sull'intera disciplina dell'esercito, rendendo pubbliche sia le punizioni che le ricompense in modo da farne una molla per il morale dell'esercito: i ritiri, le riforme per incapacità fisiche, e per insufficienza, o per irregolarità di condotta, si deciderebbero da questo giurì. Vi sarebbe un giornale sorvegliato da esso, in cui s'indicherebbero all'Italia le punizioni inflitte da' consigli di guerra, le azioni lodevoli degne di pubblicità tanto degl'individui che de' corpi, e dei distaccamenti; le loro riprensibili condotte e finalmente le ricompense accordate al merito.
G.P. si sofferma molto sull'importanza che per una sana disciplina dell'esercito ha I1operato dei generali, i quali - specie in tempo di pace dovrebbero essere pochi, non dovrebbero essere nominati senza necessità, e non dovrebbero essere costretti a «combattere le gelosie e le antipatie di uomini che occupano elevate cariche, e che non hanno professato mai il mestiere delle armi».50 Al contrario il Governo dovrebbe fare di tutto per «inspirar loro sensi elevati, dignitosi, e patriottici». In guerra essi dovrebbero avere la libertà d'azione necessaria, e in caso di abusi più che punirli sarebbe meglio fare in modo che essi «ne rinvenissero il maggior castigo nell'opinione pubblica». Diventa necessariamen~e l'idolo delle truppe un generale che si dimostra severo, imparziale e al tempo stesso si occupa assiduamente dal benessere della truppa; però, un generale che per sete di popolarità «si rivolge direttamente agl'individui», va contro il suo scopo [concetto esatto della popolarità! - N.d.a.].
50
ivi, p. 52.
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Segue una serie di massime che i generali italiani dovrebbero seguire, e inculcare nei loro uomini: a) nessuna mancanza leggera o grave, nessun delitto dovrebbero rimanere impuniti, perché non punire una mancanza piuttosto che un'altra è «rivoltante dispotismo» che toglie alle punizioni il loro significato morale; b) i generali dovrebbero agire - e far agire gli altri ufficiali - in modo tale da convincere i soldati che i loro padri non avrebbero cura maggiore per i loro bisogni; c) i generali dovrebbero ripetere in ogni occasione agli ufficiali che essi hanno facoltà di punire i loro sottoposti, ma non di insultarli; d) nelle loro allocuzioni e negli ordini del giorno, spetta ai generali fare di tutto per persuadere i loro subordinati che «se per umane vicende assopita si è vista la virtù italiana, essa non si è mai estinta, perché conferita da natura al popolo italico per ragion di clima, e che quindi si perderebbe soltanto ove il sole cambiasse il suo corso». e) se un generale dopo aver comandato un esercito per un anno non riesce a infondergli disciplina e entusiasmo, la colpa è solo sua; t) «non si è stentato mai ad elettrizzare gli uomini del Mezzogiorno. La disciplina tra loro non s'introduce senza studio, ma che sieno in grado di possederla in modo eminente il provano Sparta e Roma».s ' Ma i generali non bastano: la disciplina, il benessere, l'istruzione, l'attività di ogni Legione in pace e in guerra dovrebbero essere controllati da due commissari eletti dai padri dei legionari, i quali ogni mese dovrebbero inviare al primo magistrato della provincia che fornisce la legione un rapporto, e ogni trimestre una situazione nominativa della legione, indicando per ciascun milite le variazioni nel trimestre, la sua condotta ecc.. Ambedue questi documenti dovrebbero essere preventivamente approvati dal consiglio di amministrazione della Legione. Anche l'istruzione dell'esercito va molto curata, perché «è la bilancia del suo valore». Un'istruzione accurata non può essere raggiunta in un esercito composto da «uomini menati sotto le bandiere da forza bruta, o da amor di guadagno». 52 Un esercito è bene istruito e ordinato, quando si può contare su di esso anche se non è condotto da un generale di genio. E con un esercito siffatto «la fortuna d'Italia non sarebbe oscillante, poiché le istituzioni che ordinano un esercito, rimaner possono sempre in piedi, ma generali di genio non se ne riscontrano sovente». Al contrario, un generale di genio poco potrebbe fare, con truppe «prive di solida base di militare virtù».
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ivi, p. 53. ivi, p. 41.
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L'istruzione dell'esercito andrebbe sorvegliata dal Ministro della guerra, e dal supremo giurì militare. I principi teorici per l'impiego di tutte le Armi, la cultura militare insomma, avrebbero come centro propulsore il «Collegio Italico», una vera e propria Accademia Militare centrale unica per tutte le Anni (innovazione, quest'ultima, non piccola, visto che è stata attuata in Italia solo dopo un secolo, a partire dal 1945).: ivi, affinché teoria e pratica andassero di fronte verso la perfezione, i giovani allievi rappresenterebbero completa legione, che sarebbe di modello a quelle dell'esercito. Le scuole pratiche e teoriche del collegio per tutte le Armi, andrebbero da vicino sorvegliate da comitato militare, scelto dalla commissione direttrice di esso. Il tiro allo schioppo, la scherma alla baionetta, la corsa, il nuoto, sarebbero esercizi comuni a tutti i giovani, da' quali si esigerebbe sommo grado di destrezza. 53
Tulli gli ufficiali dovrebbero inoltre essere addestrati ad eseguire fortificazioni di campagna e a maneggiare vanga e zappe, anche per meglio fortificare il loro fisico. «Le matematiche elementari, la fortificazione, e il disegno militare» dovrebbero essere materie di studio anche per gli allievi non destinati all'artiglieria e al genio. Gli ufficiali di quest'ultime Armi e gli ufficiali di Stato Maggiore dovrebbero essere tratti esclusivamente dal collegio. La storia italiana, e la «militare eloquenza» dovrebbero avere ciascuna una cattedra. In tal modo si avvezzerebbero gli allievi ad arringare in presenza de' loro compagni, ed in pubblico esame su d'improvvisato tema, come per esortare alla sofferenza, rinvigorir la disciplina, eccitare a battaglia un corpo o una legione. Eloquente ed energico dire con gli uomini del mezzogiorno giova spesso meglio di opportuna manovra.
Il «collegio italico» fungerebbe anche da centro editoriale, pubblicando un «foglio periodico militare» destinato a ufficiali, sottufficiali e allievi. Inoltre vi si pubblicherebbe un ristretto delle azioni patriottiche a noi tramandate dalle storie di tutte le nazioni, e nell'esercito da sergente in sopra sarebbero tutti obbligati di averlo. La carta d'Italia generale, e per provincia, e un trattato della guerra di montagna con la spiega delle crate parziali, si pubblicherebbe altresì nel collegio. Il
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ivi. p. 42.
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governo per tutte le vie cercherebbe di sublimarlo, far sì che caro divenisse agl'Italiani, e che la fama ne andasse oltre le Alpi, come luminosa scuola di tutte le" militari nozioni. I criteri suggeriti per condurre l'istruzione pratica della truppa e per quella teorica e pratica degli ufficiali sono molto moderni; ma la proposta di far lavorare alla costruzione di grandi strade o ad altre opere pubbliche i battaglioni di fanteria, «sia per istruzione, sia per fortificare il loro fisico» è assai discutibile. L'istruzione del soldato dovrebbe comunque trascurare minuzie e particolari poco utili, perché «il dar noia alla truppa con la carica a dodici tempi [del fucile], ed altre mosse del maneggio d'arme, non solo è superflua ma nociva cosa. Sì fatte frivolezze tolgono l'elasticità del giovane mrntare, e lo frastornano, e il disgustano da più utili esercizi». Questi ultimi sono solo quelli che «lusingano l'amor proprio, perché apprezzati nel consorzio sociale», come il tiro con il fucile, la scherma della baionetta, la corsa, il nuoto, il maneggio della sciabola e della lancia, l'equitazione. L'addestramento deve essere condotto in modo realistico~ senza badare alle forme: tanto i cavalieri che i fanti, appena avanzati nell'istruzione, bisogna ch'eseguano l'evoluzioni in terreni inuguali e non lasciarsi sedurre dal colpo d'occhio. Un vasto campo di Marte, destinato a istruire le truppe nell'evoluzioni, contener dovrebbe burroni, piccoli boschi, terreni elevati, imitar dovrebbe qanto più fosse possibile i terreni ne' quali per lo più si combatterebbe in Italia. 54 Idee assai avanzate, in un periodo in cui per «addestramento» si intendeva generalmente far compiere alla truppa esercizi ed evoluzioni in ordine chiuso su piazze d'armi e spiazzi ben livellati, curando soprattutto l'ordine geometrico. I due ufficiali di Stato Maggiore addetti al quartier generale di ciascuna Legione oltre a coadiuvare il brigadiere comandante nei dettagli del servizio dovrebbero istruire gli ufficiali subalterni e i sottufficiali proposti o prossimi alla promozione a ufficiale nella fortificazione di campagna e nel disegno militare; gli ufficiali superiori insegnerebbero nelle scuole di compagnia e di battaglione; il generale comandante della Legione e il colonnello istruirebbero i capitani sulle evoluzioni sul campo di battaglia, che dovrebbero conoscere bene prima di diventare maggiori. I problemi dell'avanzamento e le ricompense secondo G.P. hanno a
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ivi, p. 53.
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loro volta grande importanza, perché «nulla più affeziona al mestiere delle armi, e nulla più da esso rivolta, quanto la giusta o azzardosa distribuzione degli avanzamenti». Se accordati con ingiuste preferenze, quest'ultimi non solo danno un comando a chi non è in grado di esercitarlo, ma discreditano il grado agli occhi dell'esercito e della nazione; e se si lascia credere ai militari che è possibile far carriera solo per mezzo di intrighi, «si assopisce la virtù negli ottimi, e si ammollisce lo stimolo onde i mediocri abbisognano».55 Il sistema per evitare queste jatture è quello dell'istituzione di giurì ai vari livelli che evitino scelte dipendenti da uno solo, perché «le leggi a tanto non giungono, ed esperienza convince che all'imparzialità degl'individui non va posta fiducia». E per capacità di un individuo non va inteso il possesso di nozioni teoriche, «ma capacità positiva, capacità di fatto, per la quale al certo alcune date teorie indispensabili mostransi». In tutte le Armi i sottufficiali andrebbero scelti tra la truppa a cura dei consigli di amministrazione, tenendo presente che «un esercito ove si trascurasse la scelta de' sottuffiziali, aver non potrebbe mai un buon corpo d'uffiziali, vale a dire non potrebbe mai essere un buon corpo d 'esercito». L'avanzamento dei sottufficiali dovrebbe essere deciso al livello di divisione, da un giurì presieduto da un brigadiere e composto da un ufficiale superiore e 7 altri ufficiali, chiamati a turno a fame parte. Per l'avanzamento da tenente a capitano sarebbe competente un giurì ogni due divisioni, composto addirittura dalla metà degli ufficiali superiori di fanteria delle quattro Legioni. Le promozioni a comandante di compagnia dovrebbero essere attentamente vagliate, perché questo incarico «richiede istruzione, condotta, abitudine al servizio, e nozioni amministrative. Le compagnie vanno ben condotte, perché primo anello e base di un esercito».56 L'ultimo esame che dovrebbe sostenere un ufficiale sarebbe quello per la promozione da capitano a maggiore. Anche questo passaggio di grado va estremamente curato, perché «dal modo di condurre questo esame dipende la perfett.ibilità degli uffiziali superiori, e generali dell'esercito. Il grado di maggiore è importantissimo, e perché di gran momento è il comando di un battaglione, il quale decider potrebbe di una vittoria o di una sconfitta, e perché un maggiore, in assenza del tenente colonnello e del colonnello, comandar potrebbe con tre battaglioni legionari, distaccamenti d'altre Armi». Queste norme valgono per il tempo di pace; in tempo di guerra oc-
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ivi, p. 43. ivi, p. 44.
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corrono leggi speciali, perché l'unica cosa che conta - e che merita di essere premiata - è il comportamento di fronte al nemico. In questo caso i giurì dovrebbero essere composti da ufficiali che hanno partecipato all'azione o almeno banno fatto la stessa campagna, perché «i sottuffiziali di un battaglione non isbaglieranno mai nell'indicarvi quello tra di essi che abbia combattendo meglio meritato una ricompensa; Io stesso avverrebbe tra gli uffiziali subalterni e i capitani. Né gradi più elevati incontransi con maggior gelosie difficoltà maggiori; nondimeno in presenza del pericolo s'inclina a esser giusti». 57 G.P. chiude la parte dedicata agli esercili permanenli con un cenno sulla Marina, ammettendo di non aver toccato questo argomento perché gli mancano «le nozioni di quest'arma per la quale Italia un giorno primeggiar debbe, ed a cui rivolger dovrebbe le sue cure fin dà primi momenti della sua esistenza politica».58 Questo non gli impedisce di indicare le grandi linee di una strategia marittima nazionale (anche se non usa questo termine, al tempo non ancora previsto): le nostre forze navali non dovrebbero fare la loro guerra. ricercando il dominio del mare contro le forze nemiche o impedire sbarchi da ritenere poco probabili, bensì «proteggere i nostri estesi lidi f ... I dalla presenza delle nemiche armate, che cercassero di far divenire incerte le nostre operazioni strategiche, opponendosi al loro rapido passaggio da un punto all'altro della penisola». Un sistema di piazze marittime abbinato alla navigazione a vapore fornirebbe la possibilità di trasportare i nostri battaglioni da un punto all'altro della penisola, anche con una marina complessivamente inferiore a quelle nemica: quest'ultima non potrebbe opporre alla nostra un ugual numero di battelli a vapore, «dacché niuno ignora quanlo tempestoso sia il Mediterraneo, e che tali battelli azzardati andrebbero oltre il dovere, quando navigassero a grande distanza da' porti nemici». E G.P. conclude lasciando l'approfondimenlo di questa tematica «a' noslri militari di mare, i quali messo non avessero in oblìo che i Gioia, i Doria, i Colombi, i Vespucci Italiani pur furono».
Argomenti particolari
La parte conclusiva de l'Italia militare è un riepilogo e un raffittìmento di concetti già espressi nei Mezz.i che menano all'italica indipendenza o nei capitoli precedenti. Essa è completata da un'aggiunta signifi-
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ivi, p. 45. ivi, p. 46.
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cativa che si rispecchia anche nel titolo, Sulla guerra di sollevazione per bande sostenuta da esercito permanente. Quest'ultimo argomento è sostanzialmente avulso dal testo e - come l'autore ha lo scrupolo di precisare - è stato aggiunto solo al termine del lavoro, «allorché un Pesarese, che ha l'Italia fitta nel cuore, ne inculcò caldamente di trattare a minuto i primi passi che menano alla peninsulare emancipazione, o sia di discorrere della guerra spezzata».59 Lo esamineremo, pertanto, nel capitolo dedicato alla guerra di popolo e per bande. Nell'ultima parte G.P. tratta alcuni argomenti nuovi e interessanti, che valgono a far meglio comprendere le sue precedenti tesi. Il primo argomento è «se l'invenzione delle armi da fuoco sia favorevole o pure svantaggiosa alle insurrezioni». Dopo aver fatto affermazioni abbastanza ovvie e condivisibili, come quella che le forze popolari avrebbero la peggio sia in scontri in campo aperto e in «pianura rasa» (cioè scoperta e senza ostacoli) contro forze regolari, sia nell'attaccare fortificazioni da quest'ultime presidiate sia, infine, nel difendere fortificazioni da quest'ultime attaccate, G.P. sostiene che l'invenzione della polvere favorisce la popolazione di una città decisa a scacciarne il presidio militare, perché «la truppa non è assistita dal vantaggio dell'insieme, né dall'abitudine alla manovre per supplire all'inferiorità numerica, avendo contro di sè lo svantaggio di combattere in mezzo le strade, senza ben conoscere da dove partano i fuochi degli abitanti, i quali perché sparpagliati mostransi all'immaginazione molto assai più numerosi di quello che sono in fatti».60 Ma se un esercito numeroso e ben provvisto di artiglierie attaccasse una città difesa dal popolo con scarse artiglierie o nessuna, secondo G.P. avrebbe la meglio abbastanza facilmente e senza molte perdite, cagionandone invece moltissime con le proprie artiglierie. anche perché un conto è insorgere e scacciare in poche ore l'esercito nemico, un conto è sostenere un lungo assedio. Tesi assai discutibile, perché le forze militari che attaccano come quelle che presidiano una città sarebbero ugualmente esposte a attacchi alle spalle, a colpi d'arma da fuoco di incerta provenienza e agguati, né potrebbero manovrare. Un altro aspetto è il giudizio assai negativo sull'esercito inglese, del quale G.P. mette fortemente in dubbio l'efficienza perché, per quanto l'Inghilterra sia un paese libero, l'aristocrazia ha dato all'esercito un codice militare più degno di un popolo servo che di un uomo libero:
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ivi, p. 61. ivi, p. 49.
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ivi il bastone, ivi da semplice soldato non si giunge mai ad uffiziale; ivi gli uffiziali procedono più nella loro carriera per via di ciò che di merito. Si dirà, ma l'esercito inglese primeggia nondimeno per disciplina e per valore. A ciò risponder possiamo che l'esercito inglese, negli ultimi tempi, non ha combattuto a propria casa, e guerreggiando sul continente ha avuto per sè vantaggi tali, da scemare il merito delle sue vittorie; e d'altra parte l'esercito francese né in Ispagna, né a Waterloo, retto andava con la disciplina di cui intender vogliamo. L'esercito francese in tempo della repubblica ammirabile era per lo slancio e pel patriottismo, ma mancava di rigida disciplina. Né primi anni del1'lmpero il francese esercito conservava gran parte dello slancio repubblicano. Napoleone il teneva in ottima disciplina paragonato agli altri in Europa. Ma in Ispagna i Francesi poca disciplina conservarono per le dissenzioni de' Capi, e lo slancio era diminuito per la natura e l'ingiustizia della guerra. Nella campagna di Waterloo il talismano imperiale era già rotto, ed il morale non più saldo. Che se l'esercito inglese incontrato si fosse con quello di Francia né primi anni dell'Impero, subìto avrebbe il fato degli Austriaci, de' Prussiani e de' Russi.61
G.B. tuttavia loda Wellington per la prudenza e l'avvedutezza da lui dimostrata in Portogallo contro Massena; benché l'esercito inglese fosse allora superiore di numero e avesse la popolazione locale a suo favore, egli ha scelto posizioni vantaggiose vicino a Lisbona e si è ben fortificato, facendo tacere il suo orgoglio. Questo perché «non s'illudeva sulla differenza che passava tra il morale dei suoi e lo slancio delle nemiche schiere». Anche questo episodio serve a suffragare la tesi di G.P. sulla superiorità morale degli eserciti costituzionali, dalla quale discende il giudizio negativo non solo sull'esercito_inglese ma sugli «eserciti del Nord» governati dal bastone: «si ammira la disciplina del Russo, del Prussiano, dell'Austriaco: gli eserciti nondimeno vanno giudicati in circostanze difficili, in tempi di rovesci, allorché i pochi astretti sono di combattere contro i molti. Ed in quali di queste circostanze gli eserciti del Nord ragion diedero d'ammirazione?». Le considerazioni sull'esercito inglese e su Wellington fanno parte di un più vasto ordito, con il quale G.P. intende dimostrare la preminenza e mutevolezza dei fattori spirituali (che sta al condottiero di genio saper correttamente valutare di volta in volta per trarne le linee d'azione più opportune), e su un piano più ristretto dare agli Italiani coscienza
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ivi, p. 52.
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della loro forza e orgoglio per il loro glorioso passato, interpretando rettamente i fatti del 1820-1821 e del 1831. L'approccio di G.P. a uno dei più controversi problemi teorici del momento è tipicamente - e inconsciamente - clausewitziano, anche se egli non si occupa mai né di Clausewitz, né degli scrittori di strategia teorica suoi avversari: l'arte di capitano unico principia ove termina quella di generali subalterni. Il ridurla in principii non gioverebbe di più che quel che giovano le regole che menano a comporre un poema epico. Noi crediamo che le principali nozioni che richiedonsi in un capitano, e soprattutto in chi comanda esercito nuovo, sono la conoscenza dell'uomo e degli uomini che si conducono, e lo studio profondo della contrada in cui si combatte.62
Non è cosa da poco pensarla così, in tempi in cui il culto dei princìpi della guerra era generalizzato, e l'omaggio al concetto «scientifico» della guerra ùt:ll'Arciduca Carlo - specie neJ Meridione e in uomini di prim'ordine come il Blanch e lo Sponzilli - sconfinava nella piaggeria. Il miglior modo di dirigere in guerra un «esercito nuovo» (cioè un esercito improvvisato, moralmente poco saldo e con ordinamenti non ben rodati), per ovvie ragioni preme assai a G.P., e in merito egli ha fatto amare esperienze nel 1815 e nel 1820-1821. La sua visione è estremamente equilibrata: un generale di genio deve in ogni occasione tenere conto delle reali possibilità materiai i e soprattutto morali del suo esercito, cosa meno ovvia di quanto possa sembrare. Da una parte «un capitano anche sommo contar non potrà mai con certezza sul suo genio, nel condurre uomini senza una patria che abbia ben radicate militari istituzioni»,63 dall'altra «in generale i capitani di nuove schiere o di numerose milizie che combattono per causa nazionale, confidano oltre il dovere nell'entusiasmo di esse ed il credono atto a supplire agli altri svantaggi». E così illudendosi di sollevare il morale delle loro truppe promettono vittorie facili e sicure, che poi venendo meno «fanno loro perdere il meglio, la fiducia dei loro eserciti, in cui l'ardire ad un tratto in iscoraggiarnento convertesi». Perciò chi è a capo di «nuove schiere e milizie» deve affrontare il nemico sempre con somma destrezza e talmente da far che una rotta non fosse affatto probabile». Fare sì che un «esercito nuovo» - o uno ben organizzato che però
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ivi, pp. 58-59. ivi, p. 59.
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abbia subìto dei rovesci - acquistino un morale elevato è impresa estremamente ardua, che è riuscita solo ai grandi condottieri. E così G.P. ridimensiona il ruolo dei capi militari nelle ultime vittoriose guerre di popolo, attribuendo i loro successi - com'è storicamente corretto - a un concorso di vari fattori e non a uno solo: «le storie recenti narrandoci i successi de' popoli che combatterono per la loro indipendenza con eserciti nuovi, o con milizie, non attribuiscono i trionfi della loro giusta causa alle menti elevate, ed alla tattica de' loro capitani, ma bensì allo slancio nazionale, a stranieri aiuti, a posizioni locali, ed infine agli errori del nemico».64 Per G.P., la vittoria degli americani nella guerra d'indipendenza contro l'Inghilterra è dovuta alle estese superfici marittime che separano la loro terra dal1'oppressore, ed essi non hanno operato da soli ma sono stati protetti «non solo da potenti alleati [la Francia e la Spagna - N.d.a.], ma bensì da fiumi, laghi e boschi estesissimi». l primi eserciti della Rivoluzione Francese, malamente organizzati e ma guidati, devono le loro glorie all'entusiasmo e agli errori degli avversari. Spagna e Portogallo (guerra del 1808-1813) devono ben poco alla capacità dei loro generali, perché sono ben noti «gli aiuti estesissimi che riceverono dalla rivale del Francese Impero [l'Inghilterra - N.d.a.] e dalle potenze nordiche; anche l'America del Sud deve la sua libertà non ai sistemi di attacco e difesa dei suoi condottieri «ma bensì a disastri che annientata avevano la potenza castigliana». Per ultimo vengono le riflessioni teoriche sulla guerra di montagna, non fine a sè stesse perché le Alpi, gli Appennini, gli Abruzzi, l'entroterra genovese «sono contrade talmente montuose se favorite da altre circostanze, che ognuna di esse isolatamente prese salvar potrebbe l'intera Italia». Pochi - prosegue G.P. - hanno un'idea esatta delle possibilità che essa offre; e in genere si crede,. a torto, che in montagna anche forze scarse o poco agguerrite potrebbero sbarrare il passo a un esercito. Comunque i vantaggi che il terreno montano offre a difensori inferiori per numero e disciplina all'attaccante sono: a) impossibilità per l'attaccante di sfruttare appieno il fuoco di artiglieria, e di manovrare con masse compatte; b) quando combattono in montagna, anche milizie poco addestrate valgono quanto «le bene ordinate fanterie»; c) possibilità per il difensore, che ha la popolazione dalla sua parte, di conoscere i movimenti dell'attaccante senza disperdere forze per l'esplorazione e sicurezza; d) possibilità per il difensore di sostentarsi facilmente con le risorse locali e
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per contro di sorprendere e attaccare le colonne di rifornimento dell'invasore; d) possibilità di fortificare agevolmente e con poca spesa dei punti-chiave, che consentano ai pochi di combattere con successo i molti, e possano essere difesi fino all'ultimo senza che la ritirata diventi impossibile; e) i difensori non possono subire disfatte definitive; f) possibilità di agevol~ riconquista di posizioni perdute. In conclusione «si è da noi supposto che i difensori di zone montuose sieno inferiori per abitudini di guerra e per numero. Che se questi due difetti non si ammettessero, le montagne sarebbero inattaccabili».
Interesse della Francia e dell'Inghilterra per l'indipendenza italiana e loro possibile apporto politico-militare Le riflessioni di G.P. nell'Italia militare hanno grande valenza politica, ma solo in maniera indiretta; in quest'opera il suo interesse è soprattutto rivolto alla definizione delle linee d'azione militari più opportune per neutralizzare la superiorità dell'esercito austriaco, senza considerare il possibile atteggiamento delle rimanenti grandi potenze e senza curarsi delle premesse politiche della lotta per la conquista dell'indipendenza. Considerare prima la guerra, e poi la politica non è concettualmente corretto: si deve però ammettere che quando G.P. scrive l'Italia militare, i tempi non sono ancora maturi e la situazione non è ancora sufficientemente chiarificata per studiare qualsivoglia progetto politico. Scritta nel 1839 (cioè tre anni dopo l'Italia Militare), L'ltalie politique et ses rapports avec la France et l'Angleterre colma questa omissione e inserisce nel contesto europeo l'azione militare immaginata nelle prime opere; inutile dire che se inserita nella politica internazionale la strategia indicata nel l'Italia Militare risulta pienamente valida, anche sotto il profilo marittimo. Come risulta dallo stesso titolo dell'opera, G.P. in questa occasione si preoccupa principalmente dell'atteggiamento della Francia e dell'Inghilterra nei riguardi dell'indipendenza italiana, et pour cause: l'Inghilterra è padrona del Mediterraneo e prima interessata alla questione d'Oriente (disfacimento dell'Impero turco) e all'espansione russa; la Francia è l'ago della bilancia dell'equilibrio continentale, quindi senza e contro la Francia l'unità nazionale italiana non sarebbe possibile. Charles Didier, prefatore del libro, considera prima di tutto questi problemi, e abbozza una risposta che anticipa in qualche misura quelle di G.P., con in più un pizzico di anglofobia che quest'ultimo forse non si può permettere. Premesso che l'Italia è destinata presto o tardi a ripren-
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dere il suo posto tra le Nazioni, perché «è spaventoso pensare che 24 milioni di uomini intelligenti, che tanto hanno fatto, in tutte le epoche, per la civiltà del mondo, sono oggi condannati, quale ricompensa per i loro lunghi e gloriosi servigi, alla più brutale e inetta di tutte le servitù», il Didier giudica la Russia una componente essenziale della costituzione futura della società umana, oltre che rappresentante, in Oriente, della civiltà occidentale: ciononostante, la sua espansione verso Occidente deve essere contenuta e controllata. Questo compito tocca prima di tutto alla Francia, che egli vede come unica garante dell'equilibrio europeo perché l'Inghilterra non è un alleato affidabile e forte. Infatti «al contrario della Russia, che è nel periodo ascendente, l'Inghilterra è in decadenza, e ha tutto da perdere dal processo generale di emancipazione che è in atto: l'avvenire le prepara spaventose catastrofi». Secondo il Didier è sbagliato per la Francia voler fare ad ogni costo una questione marittima della questione d'Oriente e del contenimento dell'espansione russa verso ovest: «non è affatto ai Dardanelli che la Francia può risolvere questo problema immenso; è sulle Alpi e sul Reno». L'unico mezzo che essa ha per mantenere l'equilibrio sul continente europeo e al tempo stesso controllare la Russia, è di creare da una parte una sola Germania, e dall'altra una sola Italia. Anche G.P. fa leva non sul sentimento, ma sull'interesse e su considerazioni geopolitiche. L'indipendenza italiana - egli afferma - è nell'interesse di tutti i popoli liberi, perché legherebbe la Grecia ai governi costituzionali europei e stabilirebbe l'equilibrio tra paesi retti da regimi assoluti e paesi retti da governi costituzionali; inoltre favorirla rientra nell'interesse specifico sia della Francia che dell'Inghilterra. La Francia ha dei potenti nemici nei prìncipi assoluti, che non le perdonano di avere un popolo libero, di essere un paese collocato al centro d'Europa, di avere una capitale dove si incontrano le migliori intelligenze, una lingua diffusa tra tutti i popoli del continente, ... e le sue frontiere naturali - il Moncenisio e il Reno - non possono essere raggiunte che con la guerra. Essa non deve lasciare ai suoi nemici la scelta delle circostanze e del momento per attaccarla: mentre quest'ultimi hanno una politica con obiettivi costanti, linee di difesa ben salde e ben definite, forti eserciti, «la Francia non ha una politica ben consolidata, né frontiere facilmente difendibili, né cinta fortificata intorno alla capitale, e il cuore del Regno resta scoperto e vulnerabile». Ma se i 24 mmoni d'ltaliani conquistassero l'indipendenza, «essi diverrebbero per la natura delle loro istituzioni, per il loro istinto di conservazione, naturali alleati dei francesi, e allora l'alleanza del Nord non oserebbe attaccare o solamente minacciare la Francia. Per quest'ultima, la questione d'Italia è sempre
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stata una questione di guerra; dopo cinquant'anni, essa è divenuta una questione vitale».65 La situazione politica dell'Italia non può avere per l'Inghilterra la stessa importanza che ha per la Francia: ciononostante, se l'Inghilterra proteggesse l'indipendenza italiana ne trarrebbe anche essa vantaggi incalcolabili. La tradizionale politica del Governo inglese è sempre stata quella di opporsi alle ambizioni egemoniche francesi sul continente, e al tempo stesso di ostacolare l'espansione russa. Ma, al momento, il popolo inglese non desidera altro che vedere la libertà diffondersi e consolidarsi nel continente, onde poter dare basi più ampie alla propria: ebbene, l'indipendenza italiana è in armonia con gli obiettivi sia del governo sia del popolo inglese. Se l'Italia conquistasse l'indipendenza, la libertà dei popoli d'Europa non correrebbe più alcun pericolo; e la Francia, una volta arrivata alla Savoia e al Reno, non potrebbe più riprendere la politica di Napoleone, mirando a quelle conquiste che già hanno causato la fine dell'Impero. Infatti gli italiani, che si alleerebbero con la Francia se questa fosse minacciata dalle potenze del Nord, diverrebbero i suoi più grandi nemici se essa cercasse di espandersi al di là delle Alpi e del Reno; questa inimicizia sarebbe ispirata agli italiani dal più forte dei sentimenti, quello della conservazione. G.P. cerca di avvalorare queste affermazioni neutralizzando tutte le possibili obiezioni, a cominciare da quella che l'Inghilterra vedrebbe con gelosia l'unità italiana, perché ciò significherebbe la nascita di una nuova potenza marittima sua possibile rivale. Queste gelosie derivanti da vedute ristrette sono ormai cosa sorpassata tra i popoli liberi; l'Inghilterra ha tratto grandi vantaggi combattendo nel 1816 a beneficio di tutte le nazioni libere la pirateria barbaresca nel Mediterraneo, e la rivoluzione francese del 1830 «ha fatto aprire al popolo inglese gli occhi sui suoi veri interessi, e gli ha fatto constatare che la preminenza che i tory hanno cercato di stabilire sugli altri popoli a favore dell'Inghilterra, era solo vantaggiosa per questi ultimi, mentre la miseria del popolo aumentava». Nel caso che scoppi la guerra con la Russia, l'alleanza dell'Italia indipendente sarebbe non solo utile, ma indispensabile per l'Inghilterra se vuole prendere l'offensiva contro il nemico. L'Austria non è affatto un alleato utile e necessario per tenere a bada la Russia, come vogliono far credere i tory; l'alleanza con l'Austria è stata utile a11'1nghilterra nelle guerre contro la Francia della Rivoluzione,
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ma ora che i Francesi e i Russi sono assai più forti di allora; che la Porta [cioè l'Impero turco - N.d.a.] è indebolita; che l'Ungheria e la Galizia danno molti fastidi aH'Austria e che l'Italia assorbe gran parte delle sue forze anziché aiutarla, come ha fatto in altre occasioni; oggi la Austria deve ritenersi fortunata, se riesce a mantenersi sulla difensiva.66
Se l'Austria, per assecondare l'Inghilterra, dovesse prendere le armi contro la Russia, si fornirebbe un'ottima occasione sia agli italiani per prendere le armi, sia alla Francia per marciare verso il Reno e la Savoia. Gli stessi Russi fomenterebbero in tutti i modi una sollevazione dell'Ita1ia ... Né il Governo inglese, aiutando l'Italia, dovrebbe temere un'alleanza austro-russa, per due ragioni. Anzitutto essa sarebbe innaturale, perché una saggia politica dovrebbe portare l'Austria, che tiene molto ai suoi domini in Italia, a destreggiarsi ancor di più tra il pericolo di perdere il Lombardo-Veneto e il pericolo creato ad est dall'accrescimento della Russia, che minaccerebbe la sua indipendenza. Per il resto, anche se aiutata dall'Inghilterra l'Austria non potrebbe impiegare forze considerevoli contro la Russia, né potrebbe farlo a favore dello Zar, se l'Inghilterra sostenesse la causa italiana e avesse la Francia come sua alleata; perché i francesi, elettrizzati dalla conquista del Reno e della Savoia, non si lascerebbero sfuggire una così bella occasione. Né si potrebbe sostenere che la Russia, in caso di alleanza con l'Austria, potrebbe disporre de]]e forze normalmente dislocate al confine con l'Austria: perché quest'ultima potenza è talmente debole, che i Russi anche se in guerra con essa potrebbero arditamente impiegare le loro forze altrove, senza essere obbligati a inviare un esercito per controllare da vicino i movimenti dell'esercito austriaco. Infine, non vale l'obiezione che in caso di guerra dell'Inghilterra contro una coalizione austro-russa, gli italiani non potrebbe aiutarla perché totalmente impegnati a combattere l'Austria sul loro territorio. L'esercito austriaco potrebbe essere facilmente fermato sulla riva destra del Po; inoltre numerosi corpi italiani, impiegati come ausiliari delle forze inglesi, potrebbero raggiungere il Mar Nero attraverso la Puglia, Corfù e la Grecia. Le coste italiane diventerebbero così per gli inglesi una grande base di partenza, dove troverebbero, «oltre che forze di terra, dei marinai, dei battelli a vapore e dei viveri». 67 A proposito delle concrete modalità d'intervento militare in Italia da
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ivi, p. 32. ivi, p. 36.
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parte del1a Francia e dell'Inghilterra, G.P. tende a minimizzare l'impegno che verrebbe loro richiesto, ben sapendo che molti in quei due Paesi non lo vedevano troppo di buon occhio; al tempo stesso, si dimostra ottimista fino all'eccesso sugli effetti che produrrebbe tra gli italiani la semplice comparsa della loro bandiera. Perciò, cerca di dimostrare che basterebbe il loro aperto e chiaro appoggio politico con l'impiego di ridotti contingenti, sufficienti per elettrizzare gli italiani e spingerli alla riscossa. G.P. boccia decisamente, come Balbo, l'ipotesi di guerra «piemontese» e «padana» che conseguirebbe a un intervento francese in forze. Ciò significherebbe attaccare l'esercito austriaco proprio dove è più forte: senza dubbio all'arrivo di centomila francesi l'Italia intera si muoverebbe, si vedrebbe una parte, se non la totalità del Piemonte, e gli italiani al di qua del Po, pronunciarsi contro l'Austria. Le considerevoli forze del Governo sardo, accorrendo sotto la bandiera tricolore, renderebbero l'armata francese formidabile; ma gli italiani <ld m~zzogiumu nulla potrebbero fare per essa; ma i campi di battaglia di questa armata sarebbero necessariamente la Lombardia e il Veneto, dove da lungo tempo l'Austria ha preparato i suoi mezzi di difesa e concentralo l'aliquota più numerosa e meglio armata delle sue forze; questo significherebbe, per ricorrere a un'immagine volgare ma esatta, prendere il toro per le coma; questo significa rendere possibile un rovescio, che potrebbe essere fatale ai francesi, e che lo sarebbe inevitabilmente per gli italiani, gettando il terrore e il panico tra le loro file. 68
L'alternativa che G.P. propone è fin troppo ottimistica: la Francia dovrebbe dichiararsi decisamente contraria all'intervento austriaco nel1e cose d'Italia, dislocare 30000 uomini in un campo fortificato sulle Alpi e sbarcare nel1o stesso tempo 2000 uomini in una provincia del Regno delle Due Sicilie. Basterebbe questo - assicura G.P. - per far correre alle armi tutte le popolazioni italiane da Bologna a Palermo, mentre nello spazio di un mese i dodici milioni di italiani dopo il Po, fornirebbero 120000 uomini, dei quali un corpo scelto di 40000 uomini, senza cavalli, senza artiglieria, senza armi, sarebbero imbarcati per Tolone su cento grosse galere. La Francia armerebbe questo corpo e lo invierebbe sul Reno o sulle Alpi. 69
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ivi, p. 46. ivi, p. 5 I.
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Sempre gli italiani - noi osserviamo - che ricorrono al diretto e decisivo aiuto straniero, e dovrebbe combattere sotto bandiere straniere come ai tempi di Napoleone... G.P. avverte i limiti di questa impostazione, ma si giustifica osservando che dopo tutto anche gli Stati Uniti nena loro guerra d'indipendenza contro l'Inghilterra hanno invocato l'aiuto altrui; se fossero uniti e concordi gli italiani potrebbero fare da soli, ma al momento i prìncipi assoluti d'Italia sono tutti contrari alla causa nazionale, quindi è necessario combattere contemporaneamente contro di loro e contro lo straniero: necessità fa legge. Egli si sofferma, perciò, sui vantaggi strategici delJ'aiuto anglofrancese, che si aggiungerebbero a quelli già indicati nell' Italia militare per forze nazionali capaci di sfruttare al meglio il terreno della penisola. A suo giudizio, se l'esercito austriaco attaccasse le forze francesi c piemontesi sulle Alpi, questa volta sarebbe l'Austria a prendere il toro per le coma; se invece passasse il Po e puntasse verso est, sarebbe preso sul fianco dalle forze francesi. Se, al contrario, le forze austria<.:he in Italia rimanessero sulla difensiva, poiché la flotta meridionale con l'aiuto della flotta francese dominerebbe l'Adriatico, dagli italiani del Mezzogiorno potrebbero essere minacciate non solo Ravenna, Venezia e la Lombardia, ma anche Trieste e le coste dell'Istria e della Dalmazia; inoltre, gli austriaci potrebbero essere attaccati anche dalla parte di Genova... L'Inghilterra potrebbe inviare la sua flotta sulle coste della Sicilia: basterebbe questo per far insorgere la Sicilia, subito seguita dalle Calabrie, dagli Abruzzi e dalle Romagne. In questa situazione, se l'Austria decidesse alla fine di invadere il Mezzogiorno, si riprodurrebbe la situazione descritta nell'Italia Militare, e il nemico non vi troverebbe più come nel 1821 - le forze costituzionali italiane abbandonate da tutta l'Europa e anzi con l'Europa contro. Come si è visto G.P., che pur dichiara la propria incompetenza in materia di guerra marittima, assegna un grande ruolo alla flotta del meridione, e abbozza una prospettiva strategica interforze e di operazioni combinate in uno specifico capitolo, nel quale tratta i vantaggi che nella guerra per l'indipendenza nazionale potrebbe assicurare l'impiego delle navi a vapore. Esamineremo nel dettaglio le modalità della strategia marittima da lui suggerita nel capitolo dedicato al pensiero navale; per il momento ci limitiamo a constatare che il binomio vapore-piazze marittime nella visione di G.P. non serve a conquistare il dominio del mare in una guerra indipendente, ma a incrementare mobilità e rendimento delle forze terrestri, e garantire loro all'occorrenza le spalle e un rifugio sicuro.
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li contesto politico interno: ragioni della scelta unitaria e monarchicocostituzionale. Pericoli del federalismo G.P. attribuisce la triste sorte dell'ltaJia al potere temporale dei Papi, alla dominazione de11'Austria e alla mancata conquista da parte di quest'ultima dell'intera penisola, dopo il dominio spagnolo: se questo fosse avvenuto «gli italiani, trovandosi sotto il medesimo giogo, avrebbe per tutti nutrito il medesimo odio, non avrebbero avuto che un solo nemico da combattere e non avrebbero tardato a lungo a riconquistare l'indipendenza».70 Al momento il progetto di confederazione italiana proposto dall'Austria riguarda i prìncipi ma non i popoli, e il suo obiettivo è di far apparire che essa agisce di concerto con gli altri governi italiani, tutte le volte che vorrà far marciare le sue truppe verso il mezzogiorno della penisola per intervenire nelle contese che sorgeranno tra i popoli e i loro monarchi; è di far entrare nella composizione di queste pretese truppe federali. con il suo contingente tutto tedesco, non le truppe nazionali dei prìncipi italiani, ma i loro mercenari e le loro guardie del corpo, sperando, con questo insieme di forze nominalmente diverse ma in realtà simili, di far leva sulla credulità dei popoli, dando nel contempo un po' di soddisfazione alle esigenze dei Gabinetti di Londra o di Parigi.71
A fronte di questa politica, l'Austria potrebbe mettere in campo una forza militare considerevole solo nelle prime fasi della lotta, ma cederebbe immancabilmente se gli italiani facessero fronte comune al suo esercito con un minimo di perseveranza. La sua potenza è minata alla base dai sentimenti ostili dell'Ungheria, dal malcontento della Boemia e della G,ùizia contro l'Impero, al disgusto dei Tirolesi mal compensati per tutti i sacrifici che hanno fatto a pro dell'Austria nella guerra contro Napoleone. Infine, l'Impero austriaco manca di solidità a causa dello stato delle sue finanze, tant'è vero che, con l'Europa intera schierata al suo fianco, l'Austria avrebbe avuto difficoltà anche a fare la guerra al Regno di Napoli nel 1821, senza i 30 milioni che il Re di Francia le ha prestato in questa occasione. Circa l'ordinamento politico interno più conveniente per l'Italia, G.P. non ritiene - come Cesare Balbo - che questo problema debba essere affrontato solo dopo la conquista dell'indipendenza nazionale, e si preoc-
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ivi, p. 85. ivi, p. 93.
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cupa anzitutto di sfatare un pregiudizio radicato sia tra g1i italiani che all'estero: gli Italiani, si dice, non sono affatto uniti; non s'intendono affatto; essi mancano di simpatia gli uni per gli altri; non si amano; ecco quello che si sente ripetere ovunque. Ma, se tali sono le tendenze degli abitanti delle diverse parti d'Italia verso coloro che sono nati al di fuori dei confini politici della loro regione; se i cittadini di ciascun Stato sono nemici di quelli degli altri, si deve ammettere che i principi italiani si comportano in modo insensato quando, nelle discordie che sorgono tra di essi e i loro sudditi, essi domandano soccorso a degli stranieri che si fanno pagare molto caro, invece di fare appello ai loro vicini, di opporre gli abitanti del nord della penisola a quelli del mezzogiorno, e di controllare gli italiani d'una contrada servendosi degli italiani di un'altra. 72
Solo i Principi italiani non sono mai stati solidali tra di loro, e negli uJtimi avvenimenti hanno chiesto l'aiuto di eserciti stranieri contro i loro sudditi. Ciò non è avvenuto per i popoli: nella rivoluzione del 1821 i piemontesi, anziché dichiararsi nemici dei napoletani, s i sono dimostrati loro fratelli , prendendo le armi contro il nemico di una parle Jella famiglia italiana, senza aspettare l'esito di una lotta il cui fallimento non poteva che essere funesto anche per loro. E qualche giorno più tardi, traditi da Carlo Alberto, i congiurati sono stati ospitati e aiutati a prendere la via dell'esilio in Spagna proprio dai genovesi, considerati loro implacabili nemici. Nel 1831 i romagnoli, lungi dal temere le truppe napoletane, hanno preso la risoluzione di riunirsi ad esse e di marciare verso gli Abruzzi. Nel 1815 le truppe napoletane di Mural sono state accolte dai bolognesi come fratelli che vengono a sollevare degli altri fratelli del1e loro pene, e quando i napoletani durante la loro ritirata hanno difeso il passaggio del Reno a mezza lega da Bologna, si sono esposti al fuoco austriaco per curare i feriti dell'esercito napoletano. Non è dunque vero che gl'italiani sono nemici tra di loro. Non si può negare che sopravvivano ancora «certe gelosie, certe tendenze degli italiani a criticarsi, a disprezzarsi g1i uni con gli altri»: ma questo è sempre avvenuto anche in Francia, tra i provenzali, i guasconi, i borgognoni ecc .. Se con la Rivoluzione Francese queste animosità interne si sono di molto attenuate tra uomini che hanno combattuto sotto la stessa bandiera e hanno spesso fraternizzato sul campo di battaglia, esse non sono anco-
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ivi, pp. 102- 103.
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ra scomparse. Del resto, non avviene lo stesso nelle famiglie molto numerose? G.P. affronta poi i problemi cruciali: se sia meglio prendere atto delle reali diversità con una soluzione federalista, oppure combatterle o attenuarle con uno Stato unitario e centralizzato; come risolvere il problema del Papato; se la capitale naturale debba essere o meno Roma, oppure qualche città marittima. Egli premette che il centralismo non favorisce il libero sviluppo delle individualità e delle peculiarità più brillanti e preziose: se tutta la Grecia fosse stata riunita sotto un qualsivoglia Governo unitario, noi non avremmo mai inteso parlare né di Sparta, né di Atene, né dei Tebani . Se l'Italia avesse formato fin dai primi tempi un solo Stato, Roma, questa gloria del mondo, non sarebbe affatto comparsa. Le grandi gesta di Cartagine, di Venezia, di Genova e di Firenze non riguardano c he gli abitanti di queste città 1... ]. In una parola, più una società è numerosa, più gli individui e i fatti si allontanano dalla perfettibilità. Questa massima vale anche per gli eserciti: perché, in ogni tempo, non sono stati gli eserciti più numerosi a servire da modello.73
Lo dimostra anche l'Inghilterra, l'unica nazione d'Europa ad essere da lungo tempo unita, libera e governata secondo principi costituzionali. Essa ha 24 milioni di abitanti, senza contare l'immensa popolazione delle colonie: eppure, molti milioni di inglesi delle classi più povere cambierebbero volentieri le loro condizioni di vita con quelle del popolo della Toscana, e persino con quelle dei contadini lombardi. Sull'altro piatto della bilancia - prosegue G.P. - bisogna considerare a quale caro prezzo i greci e gli italiani hanno pagato le loro divisioni storiche. L'Italia del Medioevo ha sollevato l'Europa dalla barbarie, ha diffuso ovunque le scienze e le arti, ha insegnato le leggi del commercio, ha fornito ai popoli d'oltralpe la scienza della guerra e alla Francia quella delle fortificazioni, che poi quest'ultima nazione ha portato ad un alto grado di perfezione: ma perché questi medesimi doni fatti agli altri popoli dagli italiani hanno finito col ritorcersi contro di loro? Per un solo motivo, la divisione dell'Italia in parecchi piccoli Stati. Non vale osservare che grazie all'esperienza ormai acquisita nella messa a punto delle modalità per l'organizzazione e il funzionamento delle confederazioni,
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i vi, pp. 115-116.
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se ne potranno evitare gli inconvenienti. Questi inconvenienti non possono essere eliminati, perché sono congeniti e tipici delle confederazioni: voi potrete ben studiare delle leggi per promuovere l'unità al loro interno e garantirne la solidità, voi trionferete una prima, una sèconda volta, voi respingerete Serse, ma arriva Filippo il Macedone, e ben presto gli Stati più lontani dal pericolo abbandonano quelli che gli sono più vicini e la libertà della Grecia tramonta.74
L'esempio (in negativo) più recente è dato dalla Svizzera, che nelle guerre della Rivoluzione ha ceduto alle truppe francesi non a causa del genio di Napoleone o delle simpatie che ispirava la Repubblica Francese, ma a causa della sua divisione in cantoni. In generale gli inconvenienti delle confederazioni vengono alla luce soprattutto nei momenti di grande pericolo, vale a dire quando non vi è più tempo di trovarvi rimedio. Si tratti di un'alleanza o di una confederazione, queste riunioni di Stati e di contingenti militari sono sempre poco sicure. I legami più solidi in apparenza, quelli che sono alla base dell'unione, quelli più sicuri che nascono dalla consanguineità, si rilasciano e si rompono quando viene meno la fortuna[ ...). Chi oserebbe sostenere che se la Francia non fosse stata unita sotto il Governo rigidamente centralizzato di un comitato di salute pubblica, essa avrebbe avuto la meglio nella lotta contro tutta l'Europa? Nei tempi difficili, nei momenti deU'azione, l'unità è la vita, la mancanza d'unità è la morte.75
Dal punto di vista strettamente militare, anche se l'esercito di una confederazione avesse un solo comandante in campo, ciascun Stato non rinuncerebbe certo a dare ordini e istruzioni al comandante delle sue truppe. La mancanza di unità, le gelosie, l'egoismo farebbero cadere l'armata federale nel disordine; soprattutto per queste ragioni in Spagna i generali di Napoleone, divisi e discordi, sono stati sconfitti. Perciò i vantaggi che l'Italia otterrebbe dall'accentramento dei poteri in un unico Governo, in caso di guerra sarebbero grandi e incontestabili, per non parlare di quelli del tempo di pace e di carattere economico. Infatti le nostre principali città troverebbero nell'unità italiana vantaggi materiali molto maggiori di quelli che potrebbero ottenere se rimanessero capitali di piccoli Stati. Un unico Governo centrale conviene a tutti i popoli che hanno bisogno di difendersi, ma conviene ancor di più agli italiani, perché
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ivi, p. 119. ivi, pp. 119-12 1.
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i popoli d'Italia, abituati da secoli a vivere separati, non hanno oggi che un desiderio comune, quello dell'indipendenza d'Italia, che un'avversione comune, l'odio per i governi assoluti. Un piemontese è pressoché uno straniero per un siciliano; quest'ultimo lo è per un veneziano o un lombardo. Quantunque usciti dal medesimo sangue e nati sotto il medesimo cielo, questi popoli non hanno affatto vissuto sotto le stesse leggi. La loro tendenza alla separazione è ancor più accresciuta dall'intensità tipica della vita italiana, dall'attitudine individuale a compiere grandi cose che si trova sovente tra di loro. Ma è proprio per questo che bisogna a qualsiasi costo correggere questa tendenza, fatale alla loro libertà, fatale alla loro nazionalità. Ancor più fatale al giorno d'oggi, che la potenza dei nostri vicini è ancor più grande che nel passato. La Francia, che ha 34 milioni di abitanti, finirà un giorno per raggiungere il Reno e per prendere la Savoia, e~i conseguenza per aumentare in proporzione la sua popolazione. Anche l'Austria ha aumentato la sua forza militare, e la sua popolazione cresce ogni giorno. Che cosa potrebbe fare contro 4uesle due potenze compatte, l'Italia sminuzzata in piccoli Stati? L'unità italiana abituerebbe i popoli della penisola a comunicare più frequentemente che in passato gli uni con gli altri, a conoscersi meglio, a mettere in comune le risorse del Paese e il talento dei singoli, a unire le loro forze militari, a organizzarle con le medesime leggi militari, e a adottare per tutta la penisola, anziché che per la sola Sicilia, un razionale sistema di difesa. 76
I due corollari, il problema del Papato e quello della capitale, sono risolti da G.P. in poche battute: la storia insegna che il potere temporale dei Papi è stato creato, difeso e sostenuto dallo straniero. Senza l'intervento austriaco, già nel 1831 il Papato avrebbe cessato di esistere: «si vuol sapere che cosa gli italiani ne farebbero del Santo Padre? Essi ne farebbero un vero papa. Essi ricondurrebbero il Papato ai limiti primitivi de11a sua potenza. Essi farebbero cessare questo scandalo, questo assurdo senza nome di un prete-re». 77 La capitale dell'Italia unita deve essere Roma: secondo G.P. non c'è nessun paese nel quale la capitale sia così chiaramente indicata dalla storia e dall'ambiente naturale. Ma anche se essa non avesse tutti i requisiti propri di una capitale, basterebbe il grande e simbolico nome di Roma per far sparire tutte le rivali: «l'immaginazione è tutto presso gli uomini,
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ivi, pp. 124-125. ivi, p. 111.
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e particolarmente presso gli uomini del Mezzogiorno, presso gli italiani, posseduti come sono dall'idea della rinascita nazionale». 78 Attraverso il Tevere, Roma ha un fucile accesso al mare, e i battelli a vapore che risalgono il fiume le danno tutti i vantaggi di una città marittima, vantaggi che potrebbero ancora essere accresciuti con una ferrovia che la congiunga con il porto di Civitavecchia. Sotto l'aspetto militare la città eterna non potrebbe avere una posizione più felice: tra essa e le Alpi esistono due alte barriere che possono essere facilmente rese insormontabili: Bologna e Foligno. Uno sbarco nemico alle foci del Tevere sarebbe estremamente difficile, specie dopo la costruzione di una flotta italiana di battelli a vapore, e di cannoniere per la difesa delle coste. Infine fortificando Monte Mario, in caso di gravi rovesci si disporrebbe di un sicuro rifugio per tutti gli oggetti preziosi, e Governo e Parlamento avrebbero la ritirata assicurata verso Foligno, verso gli Abruzzi e verso Gaeta. Convinto sostenitore del centralismo, G.P. si rende ben conto anche dei suoi non lievi inconvenienti iniziali. E sembra quasi presagire, lui meridionale, le dolorose ribellioni verificatesi nella sua terra contro il governo centrale dopo il 1861, quando esorta i legislatori del futuro Regno d'Italia a emanare leggi tendenti a diminuire gli «inconvenienti inevitabili» della riunione dell'Italia sotto un solo governo, e a conciliare finché possibile la prosperità dello Stato centrale con quella delle province. Ma il suo tono si fa insolitamente duro, categorico, quando auspica che «la prima delle Vostre leggi colpisca con la pena dei parricidi coloro che si oppongono all'unità nazionale» e che le città che si sollevano contro il Governo siano trattate «con la medesima severità che ha usato il comitato di salute pubblica durante la Rivoluzione Francese nei riguardi della ricca e popolosa città di Lione, quando la grande nazione francese era attaccata da tutti i Re d'Europa». 79 Proprio perché l'esigenza prioritaria è l'unità di tutti gli italiani, G.P. - che pure ha combattuto per tutta la vita contro i principi assoluti e per le libertà costituzionali - si dimostra assai scettico sull'utilità della forma di governo repubblicana per l'Italia: noi siamo convinti che l'Italia ha bisogno, almeno per qualche tempo, d'una unità di volontà, d'azione, d'una direzione costante e di un complesso di misure che la mettono al riparo dal pericolo; e noi
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ivi, p. 112. ivi, p. 126.
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crediamo che un governo repubblicano non potrebbe darl~ subito quell'unità e quella forza di cui ba bisogno.80
L'unità nazionale è l'esigenza prioritaria. La sua preferenza è perciò per una monarchia costituzionale; ma se necessario accetterebbe persino una temporanea dittatura. E nel caso che un prlncipe ambizioso, italiano o straniero, dovesse dichiararsi disposto a battersi per l'indipendenza nazionale e «fornisse garanzie non di buona fede, ciò che non si deve ammettere in politica, ma di grandezza d'animo, e si compromettesse al punto di non poter più tornare indietro, l'Italia non dovrebbe esitare un momento a concedergli la corona. Un re usurpatore, in Italia, sarebbe obbligato a marciare con la nazione, a causa dei numerosi pretedenti dei quali temerebbe la concorrenza e i complotti». 81 Il suo sguardo è comunque rivolto all'Europa: nella situazione del momento del Continente, «un popolo non può essere indipendente, né libero, senza essere forte; e, in ogni tempo, non si può essere forti senza essere uniti». È all'Europa che bisogna guardare per scegliere la forma di governo più conveniente. Non esistono «modelli» sempre o ovunque validi, e anche i sistemi democratici inglesi e americani non sono esportabili. Il modello inglese, poi, denuncia limiti che G.P. ancora una volta severamente condanna: se l'autorità dei Re che sono venuti dopo gli Stuart è assai limitata, l'aristocrazia sotto il paravento della democrazia parlamentare ha acquistato un potere senza limiti. Essa ha garantito al popolo la libertà individuale per poterne godere essa stessa; ma, al tempo stesso, ha fatto tornare a suo esclusivo vantaggio l'industriosità e il coraggio che il popolo britannico ha dimostrato, sia all'interno sia al di là dei mari. Dopo aver ridotto la maggioranza di questo popolo alla miseria, essa si limita a distribuirgli giornalmente una degradante elemosina per impedirgli di morire di fame. K2
Un approccio realistico insomma, che fa dipendere la forma di governo più opportuna soprattutto dalle contingenze internazionali e interne del momento. L'Italia, in tutti i casi, ha bisogno dell'appoggio della Francia, che non ci sarebbe se la forma di governo scelta dagli italiani non fosse omogenea rispetto a quella francese. Così, se la Francia fosse retta da una monarchia rappresentativa, gli italiani dovrebbero scegliere
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ivi, p. 156. ivi, p. 154. 82 ivi, p. 130. 81
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questa forma di governo; se la Francia fosse repubblicana, dovrebbero invece scegliere la repubblica: «l'Italia, Stato confinante con la Francia, non potrebbe restare monarchia se la Francia fosse repubblicana. Vi sono troppi rapporti tra i due popoli e vi è troppa immaginazione tra gli italiani, perché questi decidano altrimenti». 83 Nel caso che gU Italiani decidano di unirsi con una confederazione, essa «quantunque - secondo noi - pericolosissima» dovrebbe essere in tutti i casi repubblicana, qualunque sia la forma di governo della Francia. Infatti un'unione di Prìncipi sarebbe ancor più pericolosa, perché avrebbe tutti i difetti di una lega repubblicana e sarebbe meno compatta, senza averne i pregi.
Giudizi coevi e successivi. Pregi e limiti dell'opera dell'autore italiano più clausewitziano L'Italia militare ha avuto larga e favorevole eco nella stampa francese e inglese,84 ma scarsa e non sempre favorevole attenzione da parte degli scrittori italiani coevi e dalla letteratura militare italiana fino ai nostri giorni. Lo scarso successo di G.P. tra i protagonisti del Risorgimento è sostanzialmente ingiusto, ma comprensibile: è persona1ità fiera, indipendente e libera. Da una parte con la sua azione politica e militare si espone a molte critiche, dall'altra le idee da lui propugnate nei suoi scritti lo allontanano sia dai repubblicani intransigenti e sostenitori della «nazione armata» come l'Angeloni, sia dai moderati, federalisti e neo-guelfi come il Ba1bo e il Gioberti, sia infine dai numerosi ufficiali scrittori suoi conterranei che - come lo Sponzilli, il Blanch e tanti altri raccolti intorno all'Antologia Militare - si adattano a collaborare con la monarchia borbonica, senza mai porre chiaramente il problema dell'unità nazionale e delle libertà costituzionali, e con parecchie concessioni opportunistiche a teorie d'oltra1pe. A proposito dell'Italia Militare il Moscati riporta l'opinione espressa dal Tommaseo in due lettere al Capponi. Nella prima il Tommaseo esclama: «Avete veduto il libro del Pepe? Coglione grande, ma semplice, ma onesto, ma caldo, coglione. Qui ne dicono troppo male». E nella seconda contesta l'affermazione di G.P. che nella rivoluzione delle Calabrie contro i francesi di Napoleone non ha avuto nessuna influenza «la bigotte-
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ivi, p. 15 l. S. Moscati, Op. cit., lettera del Pepe al Tommaseo.
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ria», cioè l'incitamento del clero locale alla lotta: «lo dico all'incontro, che senza il soffiare de' preti il valor calabrese si sarebbe spento ben presto; e dico che la rivoluzione del ventuno cascò come un cencio, perché quelle formule religiose erano nella mente dei capi mere formule».85 G.P. ha rapporti anche epistolari abbastanza intensi - e non facili - con l'Angeloni, al quale lo accomuna l'amore per la Italia e la libertà. L'Angeloni, ha parole molto dure contro la bassaggine dei Capi della rivoluzione napoletana del 1820-1821 (tra i quali c'era anche il Pepe), accusandoli di aver affossato volenti o nolenti la rivoluzione. E attacca direttamente G.P., affermando che dei due Capi dell'esercito napoletano sconfitto dagli austriaci nel 1821 (appunto G.P. e il Carrascosa) uno (cioè il G.P.) era «un mal atto capitano, benché non disleale alla governazione già colà iniziata», l'altro (il Carrascosa) un traditore o quasi. 86 A ragione il Moscati indica come giudizio più significativo sull'Italia Militare quello di Niccola Marselli, secondo il quale neJla sua opera, ispirata da indomito amor patrio, troviamo idee che non sono accettabili aJ presente, ma incontriamo meravigliosi presentimenti. Il costante ed ardente amore per la grande Patria italiana, l'intuito dell'avvenire di essa, lo studio intimo delle cose miHtari, sono alti pregi c he a' napoletani nessuno può negare. Lungo sarebbe il citare tutto quello che havvi di notevole in questo libro, poco noto in Italia, sebbene abbia anch'esso, aJ pari del Blanch, un passaporto francese. Ma diremo soltanto che l'idea di fare di Bologna un campo trincerato, idea intorno alla quale si è tanto scritto in Italia, fu chiaramente espressa dal Pepe fin dal 1836 (v. Parte I, sez. III) ... Se non costante i suoi pregi, pure noi non abbiamo dato al Pepe il primo posto tra gli iniziatori degli studi geografico-militari in Italia, egli è stato pe rc hé il suo libro, ignoto ai più, non esercitò una larga azione sullo svolgimento di tali studi. 87
Il conterraneo meridionale d'Ayala nella sua bibliografia lo definisce «vivente esempio della costanza e della fede alla salute della nostra patria Italia»,88 giudizio lusinghiero solo all'apparenza perché ricorda il genuino sentimento patriottico che fuor d'ogni dubbio ispira l'opera di 85
ivi, pp. XXXIX - XLI. L . Fassò, Lettere di esuli (in Miscellanea di studi storici in onore di G. Sforza. Torino, Bocca I 923, pp. J13-127). 87 N. Marselli, La guerra e la sua storia (a cura di E. Boccaccia), Torino, Bocca 1930, p. 185. 88 M. d'Ayala, Bibliografia... (Cit.), p. 317. 86
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G.P., ma non dedica una sola parola di apprezzamento ai concreti contenuti della sua proposta militare. L'altro meridionale Giuseppe Ferrarelli nelle Memorie militari del Mezzogiorno è più genoroso, giudicando l'Italia Militare «opera lodata dagli stranieri, poco nota in Italia e degna di essere conosciuta per il suo valore geografico e storico». Dopo aver confuso la rivoluzione del 1821 con quella del 1831, lo Stieca parla diffusamente della vita del Pepe e ancora una volta ne loda il profondo amore per l'Italia; dell'Italia Militare dice solo che «vi sostiene la necessità di una ben organizzata guardia nazionale», il che è troppo poco ed inesatto. E dopo aver giudicato i suoi libri «battaglie», aggiunge che gli scritti suoi, numerosi e forti, senton la fretta dell'uomo attivo, affaccendato, che corre dritto allo scopo, senza indugiarsi a rilisciare la forma, tanto che il Bersezio potè giudicarli opere di «penna rea di stile improprio, esagerato, di frasi oscure come il pensiero che avevano da esprimere»: ma contengono un'anima, son gridi, ruggiti, ribellioni e proteste; le più culminanti scene dell'epopea italica vi hanno una eco vibrante r... 1. Per questo, e quasi a titolo di rivendicazione, abbiamo voluto parlarne un po' diffusamente. Perché la sua fama di agitatore e di soldato aveva col tempo oscurato di soverchio i suoi meriti di scrittore.89
Il che è vero: ma ciò non impedisce allo Sticca, che pure è un militare, di parlare «diffusamente» solo dei sentimenti di G.P. e non delle sue idee. In tempi più recenti (1931) un po' meglio fa Carlo Morandi, il quale - come ricorda il Moscati - sottolinea la convinzione di G.P. che «il Risorgimento Italiano sia nei fatti politici prima che nelle aspirazioni ideali e si svolga, per necessità ineluttabili, dal mutare del clima storico europeo e dall'affermarsi sempre più rigoroso di un'assoluta indipendenza della Penisola come bisogno comune a parecchie grandi Potenze». 90 Nessun cenno dell'opera di G.P. dà il Bastico, così come Piero Pieri nel suo Guerra e politica negli scrittori italiani del 1955. Ma nella Storia militare del Risorgimento del 1962, lo stesso Pieri ben sintetizza i contenuti essenziali dei Mezzi che menano all'italiana indipendenza e dell'Italia Militare, con un particolare riguardo alle differenze - rettamente individuate da G.P. - tra la guerra nazionale spagnola 1808-1813 e il possibile contesto della guerra d'indipendenza italiana. 91 Dove inve-
~9 90
G. Sticca, Op. cit., pp. 203-204. S. Moscati, Op. cii., p. XLI. 91 P. Pieri, Storia militare... (Cit.), pp. 149-151.
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ce l'analisi del Pieri non è condivisibile, è nel giudizio conclusivo, là ove si afferma che il «punto debole» della strategia di G.P. era «la pretesa che un esercito potesse essere battuto successivamente molte volte senza mai sfasciarsi». E il Pieri aggiunge: nella pratica l'esercito, a meno che non avesse poi ricevuto grandi rinforzi o visto indebolire le forze del nemico perché in parte distratte da quel teatro d'operazione e mandate altrove, avrebbe finito con l'andare in rovina; sarebbe stato necessario, in realtà, che esso si fosse potuto riordinare e sostenere dopo uno o al più due insuccessi. li che non toglie che il principio di fronteggiare il nemico e di logorarlo via via che avanzava, fosse giustissimo; proprio pochi anni prima il Clausewitz avea enunciato il principio (gà adombrato del resto nel Dell'arte militare del Montecuccoli) che l'attacco si esaurisce progredendo [... ]. Ma proprio per questo erano necessarie azioni partigiane sulle retrovie del nemico, e sarebbe stato necessario che l'esercito disponesse pur sempre di notevoli forze per la controffensiva. Comunque, i libri nel Pepe esortavano gl'ltaliani a studiare le capacità difensive del proprio territorio e a mettere in valore le forze popolari, attraverso le milizie nazionali, sedentarie e mobili, e reparti di cacciatori.
Condivisibile quest'ultimo giudizio: ma per il resto il Pieri è fuori strada. Quanto abbiamo detto dimostra a sufficienza che la principale preoccupazione di G.P. è stata proprio quella di evitare che un «esercito nuovo» come quello italiano fosse battuto in campo aperto da un esercito ben addestrato e di grandi e consolidate tradizioni come quello austriaco, temendo a ragione Je ricadute morali di sconfitte come quelle che egli aveva personalmente subìte nel 1815 e nel 1821. G.P. non ha mai escluso - anzi ha sempre caldeggiato - azioni partigiane ne11e retrovie: a parte il capitolo sulla guerra di sollevazione, egli non si è mai stancato di ripetere che il terreno italiano rendeva le comunicazioni di un esercito invasore assai vulnerabili e le possibilità di sfruttare la sua superiorità di fuoco problematiche anche in pianura ecc., fornendo per contro grandi possibilità a insurrezioni popolari sul tipo di quelle delle Calabrie e a eserciti «nuovi». Da queste premesse discende una strategia prudente e fin troppo realistica: niente difesa dei confini né guerra nel quadrilatero, ma logorare e ritardare la progressione avversaria e accettare battaglia solo in condizioni molto favorevoli, riducendo il rischio di sconfitta al minimo. Secondo il Pieri le idee di G.P. avrebbero influenzato l'opera di Giacomo Durando Della nazionalità italiana (vds. capitolo XII), scritta nel 1846. Tra G.P. e Cesare Balbo vi sono certamente dei punti in comune, e
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ambedue rivolgono il loro interesse alle caratteristiche geografiche del territorio nazionale. Ciononostante, questa affermazione è più da respingere che da accettare, per una serie di ragioni: a) se mai, ambedue - e in particolare G.P.; - sono probabilmente influenzati da Cesare Balbo, il primo a mettere bene in luce nel 1827 (vds. capitolo Xl) le grandi possibilità difensive che offrono il terreno e le città dell'Italia peninsulare nei confronti di un esercito austriaco invasore che punta verso sud, tematica saliente dell'opera di G.P.; b) nella Nazionalità Italiana il piemontese Durando, pur sostenendo anch'egli che non bisogna attaccare l'esercito austriaco nel quadrilatero, assegna all'esercito sabaudo (e non a quello meridionale o agli insorti) il ruolo preminente in una guerra che dovrà essere comunque decisa in battaglie campali tra eserciti e nella pianura padana, per giunta non nascondendo la sua scarsa stima per l'effettiva efficienza bellica dell'esercito napoletano; c) il Durando è per una soluzione politico-militare federalista e gradualista, non fortemente unitaria come quella di G.P.; d) egli vuol conservare il potere temporale dei Papi, sia pur ridotto, e da buon moderato gradualista caldeggia proprio quella federazione di Principi costituzionali, ritenuta da G.P. esiziale per le sorti dell'Italia; e) l'organizzazione militare proposta dal Durando è ispirata a principi sostanzialmente tradizionali; quella di G.P. è , al tempo, estremamente avanzata, anche se non vi viene bene specificata la saldatura tra esercito permanente e forze insurrezionali. Dopo l'esame del giudizio del Pieri e di quelli provenienti da varie sponde, noi abbiamo un solo rimprovero da fare al G.P. scrittore: lo stile spesso involuto, oscuro, pieno di ripetizioni che stranamente assomiglia a quello di Donato Ricci, e che contrasta con la fede democratica dell'uomo e con il suo desiderio di coinvolgere la grande massa dei cittadini nella conquista e difesa dell'indipendenza nazionale. Si potrebbe anche dire che la sua ipotesi strategica di fondo - guerra nell'Italia peninsulare come le popolazioni meridionali nel ruolo di protagoniste, utilizzando il terreno difficile per annullare la superiorità militare austriaca - si è rivelata utopistica, per la semplice ragione che l'unico bastione militare italiano di una certa consistenza contro l'Austria dal 1848 in poi si è costantemente rivelato il Piemonte e non il Regno delle Due Sicilie, il cui Governo non ha mai fatto veramente propria la causa nazionale e non ha mai impresso alle sue schiere militari quello spirito nazionale e que11'amore per la libertà che G.P. riteneva indispensabili per vmcere. Né quelle Calabrie che il calabrese G.P. avrebbe voluto culla eridotto de11a guerra per l'indipendenza, quelle fiere e generose popolazioni così atte alla guerriglia sarebbero state protagoniste della riscossa nazio-
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nale nelle forme e nei modi da lui sperati; dopo il 1861 esse avrebbero anzi scritto una delle pagine più amare della nostra storia, in parte sollevandosi contro un Governo e un esercito ormai divenuti italiani. Senz'altro eccessiva e mal riposta anche la fiducia ostentata da G.P. nella concorde e rapida insurrezione contro lo straniero da parte di tutte le genti italiane, al primo cenno di appoggio delle potenze straniere. Anche i riferimenti alla debolezza reale dell'Austria valevano solo per i tempi lunghi, ed erano basati sulla netta sottovalutazione della saldezza di un esercito e di una marina con alle spalle una grande tradizione militare, anche se inevitabilmente influenzati dai problemi delle nazionalità. G.P., dunque, cattivo profeta e dispensatore di utopie militari a sfondo populistico? Cattivo profeta fino a un certo punto: perché a distanza di un secolo le sue considerazioni sul terreno dell'Italia peninsulare nella guerra dal 1943 al 1945 si sono dimostrate singolarmente calzanti, dimostrando - sia pure a fronte rovesciato - quanto potevano fare con un accorto sfruttamento del terreno e delle poche fortificazioni, ridotte forze molto mobili e con il morale saldo, contro un avversario molto superiore per numero e mezzi, che pur cercava di applicare quella tecnica degli sbarchi, anch'essi suggeriti da G.P... Con questo, non si vuole e non si può negare che l'ordìto generale delle tesi sotto parecchi aspetti - e anche io fatto di ordinamenti - non è realistico. Ma l'ordìto non è tutto: e il pregio maggiore dell'operar di G.P. - a parte il ben sottolineato intento di infondere fiducia nei propri mezzi e orgoglio per il proprio passato nell'animo degli italiani - va ricercato nei particolari, nei giudizi, nelle massime e nelle sentenze - penetranti e tuttora attuali - che costellano le sue pagine, e danno loro una vivacità a dispetto dello stile non felice. Anzitutto, l'interesse per le fondamenta storiche e geografiche del problema strategico: meriterebbe anche oggi di essere incorniciata la sua affermazione che «la via migliore di militarmente conoscere una contrada è il legger le guerre che vi sono avvenute».92 Per la prima volta, con G.P. lo studio della geografia militare italiana prende respiro, diventa la base di una strategia nazionale, si estende a tutta la penisola e alle isole, non riguarda solo le Alpi viste come barriera naturale ma anzi tende fin troppo a svalutarle. Un'Italia unita che non sia io grado di difendere gli accessi da nord alla pianura padana non sarebbe un'Italia: questo bisogna dirlo, anche se l'Italia sulla quale si sofferma G.P. è la Italia dei primi tempi dell'unità, con un «esercito nuovo»
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G. Pepe, L'Italia Militare ... (Cit.), p. 23.
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costretto ad affrontare un esercito consolidato da secoli e appoggiato a potenti fortificazioni. Il secondo aspetto rimarchevole dei suoi scritti è una prospettiva strategica e ordinativa strettamente nazionale e non legata a schemi teorici rigidi, sempre molto attenta ai fattori spirituali: anche se sicuramente ignora Clausewitz, G.P. è il più autenticamente clausewitziano degli scrittori italiani della Restaurazione; clausewitziano nonostante l'uso piuttosto strumentale di exempla historica scelti ad hoc per suffragare certe tesi, alle quali peraltro non attribuisce mai la possibilità di generare dei monstra teorici, dei dogmi. Associati alle caratteristiche geografiche, essi servono invece a indicare l'indole dei vari popoli italiani e le possibilità effettive offerte dal terreno. Molte sue sentenze tattiche, ordinative e disciplinari non hanno età, e sono tuttora valide. La giusta intuizione che il soldato combatte bene solo se ritiene di difendere i suoi personali interessi, e che la leadership non deve essere basata sul bastone - come normalmente avveniva ai suoi tempi - ma sul consenso e sulla partecipazione, domjna la sua opera, fino a spingerlo all'esagerazione dei gradi elettivi ecc .. E in tutte le parti del suo progetto si trova una costante ispirazione morale, che funge da grimaldello per rompere vecchi schemi e richiamare l'attenzione sui mutamenti di costume necessari. La storia non ha dato ragione alle sue critiche all'esercito inglese e agli «eserciti del nord» retti da troppo rigida disciplina, perciò di ridotta efficienza bellica: ma non vi è dubbio che costumi, indole, tradizioni, sentimenti dei popoli di quei paesi non erano i nostri, e che per gli italiani - come egli più volte ribadisce - quella disciplina non avrebbe dato alcun risultato. D'altro canto, merita una sottolineatura la tesi che le libere istituzioni danno luogo a un esercito sostanzialmente più discip1inato di quelli dei prlncipi assoluti, perché in nome del comune interesse dei cittadini i provvedimenti possono essere giustamente severi, e al tempo stesso la gerarchia è meno soggetta a vizi, degenerazioni, arbitri e favoritismi, che sono il tarlo delle istituzioni chiuse dove si esercita un potere senza controllo dal basso e dall'esterno. Dal punto di vista tecnico, la sua sfiducia nel rendimento delle masse di cavalleria sui nostri terreni è stata più confermata che smentita dagli avvenimenti. La scarsa efficacia dell'artiglieria nei terreni italiani, da lui sostenuta, potrebbe lasciare perplessi: vero è, però, che il fuoco rende assai di più in quei terreni pianeggianti, scoperti e privi di ostacoli che certo non abbondano in Italia, nemmeno nella pianura padana. Più in generale, il giudizio sull'artiglieria va letto in senso figurato, come giusta diffidenza per tutto ciò che in terreni difficili - e al momento, non di-
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mentichiamolo, ancora con scarsa viabilità ordinaria e senza ferrovie ostacola il celere movimento. Sotto questo profilo, era lecito attendersi che G.P., oltre a soffermarsi sui grandi vantaggi che avrebbe portato alla difesa della penisola l'impiego di battelli a vapore atti a spostare rapidamente le forze, accennasse anche alle grandi possibilità aperte dall'impiego de11e ferrovie in campo terrestre. Lacuna che gli si perdona volentieri, visto che ha il gran merito di inserire per la prima volta in un disegno strategico unitario l'impiego delle forze terrestri e marittime, e di indicare un modello di Grande Unità elementare assai leggera (la Legione, cioè l'attuale brigata pluriarma) senza dubbio molto adatta ai terreni italiani, della quale si è parlato spesso, per poi realizzarla solo ne] 1937 (con l'organico della divisione «binaria» ispirato a criteri di leggerezza e mobilità, che ne facevano una brigata più che una divisione) e in forme ancor più vicine nel 1975, con la brigata pluriarma ossatura delJ'esercito alle soglie de] 2000. Queste concrete indicazioni denotano un raro realismo, una sicura competenza militare e un buon senso, che vanno confrontati con i tratti utopistici che pur denuncia il progetto militare di G.P., fino a far pensare che non si tratti di una contraddizione, ma che quest'ultimi siano una forzatura voluta per ottenere effetti morali indicando l'impossibile per avere almeno il possibile, e per scuotere ai popoli d'Italia, dando loro fiducia in sè stessi e coscienza dena ]oro unità. Comunque sia, nessun scrittore militare italiano della Restaurazione ha indicato come G.P. nell'Italia Militare un progetto militare organico e completo, ne] quale armonicamente si fondono strategia marittima e terrestre, scenario geografico, indole delle popolazioni, storia antica e recente, ordinamenti, nuovi principi amministrativi e logistici, norme etiche e disciplinari. E nessun scrittore militare della Restaurazione ha indicato come lui le grandi linee di una strategia nazionale e mediterranea che - pur senza rinnegare Clausewitz e pur rimanendo ne] grande alveo de11a guerra tra eserciti - risulta alternativa rispetto alla strategia offensiva e «centro-europea» dei grandi eserciti nazionali e di Napoleone, basata sui grandi spazi e su grandi battaglie decisive affrontate - di comune accordo tra i contendenti - nelle vaste pianure tipiche del nord e centro Europa. In questo almeno, l'ottica di G.P. è assai vicina a quella di Cesare Balbo e di Giacomo Durando, anche se estremamente lontana dai megafoni militari dei Principi assoluti del tempo.
PARTE QUINTA
LE TEORIE DELLA «GUERRA PER BANDE» E DELLA GUERRA MARTTIIMA: STRATEGIE ALTERNATIVE O COMPLEMENTARI? Bonaparte ha ha detto che un popolo di dieci milioni fortemente risoluto di essere libero, non può essere sottomesso, e la Spagna inferiore a voi della metà di popolazione lo provò resistendo e mandanda al basso ben altro invasore che l'inetto Ferdinando non sarà. (Dall'appello dei Fratelli Bandiera agli italiani - 1844) Calabresi, non è epoca remota quella, in cui avete distrutto sessantamila invasori condotti da un Italiano, il più grande dei capitani di Napoleone [il generale Massena]; armatevi della energia di allora, e preparatevi all'assalto degli Austriaci, che vi riguardano loro vassalli, vi sfidano, e vi chiamano BRIGANTI. ( Dal/'appello dei Fratelli Bandiera agli italiani - 1844)
CAPITOLO XIV
DALLA «PICCOLA GUERRA» ALLA GUERRIGLIA E GUERRA DI POPOLO: TEORIE MILITARI E IDEOLOGIE A CONFRONTO
Premessa
La prospettiva fondamentale del1a problematica tracciata nelle precedenti Parti Terza e Quarta riguarda la guerra tra eserciti re1:olari: l'esercito è la punta di lancia dello Stato - o della Nazione - per ambedue i
contendenti ed è generalmente 1'unico organismo che esercita la violenza bellica secondo principi e regole, leggi tattiche, strategiche, ordinative, logistiche - e anche umanitarie - sovente analoghe o comuni, intorno al1e quali ruota il dibattito tra «dottrinari» (Jomini) e «ideologi» (Clausewitz). Alle linee portanti di questo dibattito possono essere ricondotte anche le teorie degli autori ita1iani fini qui esaminati. Il tipo di guerra che ora ci accingiamo a trattare - comunemente oggi denominata guerriglia o guerra partigiana - riserva il centro della scena non più agli eserciti regolari, ma all'intero popolo in armi, che combatte senza regole, schemi, ordinamenti prestabiliti e naturalmente, senza nessuna regola umanitaria, offendendo e danneggiando il nemico in tutti i modi possibili. Guerra, quindi, di formazioni irregolari, delle quali si potrebbe dire semplicemente che combattono come, quando e dove possono, senza nemmeno escJudere - in linea di principio - i procedimenti delle forze regolari. Per contingenti ragioni politiche - più che militari - persino ovvie, questa guerra è stata assai studiata in Italia e in Europa sia nella prima metà del secolo XIX sia dopo il 1945, e trascurata nei rimanenti periodi. Più che fornire descrizioni più o meno sintetiche delle varie teorie in merito, l'esame del vasto materiale disponibile ci induce a concentrare l'attenzione su alcuni punti: a) la confusione di termini attualmente esistente, alla quale ci sembra tuttavia possibile porre rimedio; b) la guerriglia è una strategia o una tattica? c) quali sono le analogie e le differenze che emergono da11'esame comparativo dei vari autori? d) qual'è in
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proposito il legame tra il pensiero italiano e queUo europeo? e) fino a che punto il dibattito può essere ricondotto alle differenti posizioni politiche dei vari autori, e/o al loro status militare o civile? f) fino a che punto possono essere condivisi taluni giudizi di studiosi italiani dopo il 1945? Come sempre cercheremo di guardare anzitutto oltr'alpe, per poi individuare meglio le peculiarità e i caratteri delle teorie italiane. Non ci è possibile condurre minute analisi delle varie teorie; in merito, rimandiamo soprattutto al recente volume Tecniche della guerra partigiana nel Risorgimento - Testi di autori maz.ziniani raccolti e pubblicati con uno studio introduttivo a cura di Egidio Liberti. 1
SEZIONE I - La guerra partigiana nel pensiero militare europeo
Piccola guerra, guerra di partigiani e guerriglia: lontana origine militare dei tennini L'etimo dei termini oggi più comunemente usati, partigiano e guerriglia, è assai chiaro, risale al secolo XVIII (e non dopo) e va ricercato principalmente in due opere finora totalmente ignorate dalla critica storica in materia: l' Enciclopedie Française ( 1757) e l' Encliclopedia Universai lllustrada Europeo-Americana spagnola (1925/1958). Secondo l' Enciclopedie Française il partisan (partigiano) è l'ufficiale che comanda un parti (partito), cioè un piccolo reparto (di almeno 15 uomini se di cavalleria e 20 se di fanteria) distaccato dal comandante dell'esercito per condurre la petite guerre (piccola guerra), guerra senza schemi e formazioni regolamentari avente lo scopo di imporre contribuzioni al paese nemico, spiare le mosse del generale nemico evitando così sorprese, fare prigionieri e trarne informazioni sulle sue intenzioni e sulle sue truppe, disturbare e ostacolare i suoi movimenti ecc .. L' Enciclopedie sottolinea più volte l'importanza dell'opera svolta da questi piccoli distaccamenti e fa un accurato elenco delle qualità non comuni - di carattere, di coraggio, cli spirito d'iniziativa - che deve possedere chi li comanda. Anticamente - constata l' Enciclopedie - vi venivano destinati ufficiali de fortune, che noi tradurremmo come «poco qualificati, improvvisati», perché questo incarico non era ambìto dagli ufficiali migliori o di un certo rango. Al momento però secondo l' Enciclopedie avviene l'opposto, e chiedono di comandare i partis proprio gli ufficiali più di-
1 Firenze, C/E
Giunti - G. Barbera 1972.
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stinti e quelli più giovani e ambiziosi, che vogliono acquistare esperienza e farsi un nome. L' Enciclopedie chiama partis anche i distaccamenti irregolari, distinti da quelli regolari per i loro procedimenti d'azione e i loro ordinamenti. Quest'ultimi sono que11i anche oggi tipici dei guerriglieri: i distaccamenti irregolari non osservano durante la marcia e il combattimento gli ordini e le prescrizioni regolamentari (allora estremamente rigidi); SONO COMPOSTI DA VOWNTARI scelti dai loro ufficiali; si riuniscono per formare il parti in segreto; si muovono quasi sempre di notte, si nascondono in posizioni vantaggiose, gli uomini portano al seguito solo pane, munizioni e armi, gli ufficiali hanno il loro bagaglio ridotto al minimo, devono conoscere bene il paese ecc .. L' Enciclopedie, infine, si preoccupa che i componenti dei partis non vengano confusi con comuni ladri: per non essere considerato tale, l'ufficiale loro capo deve avere un ordine scritto del comandante dell'esercito, non può disporre delle prede di guerra se prima non ha indirizzato un apposito verbale al prevosto dell'armata, deve pagare i rifornimenti che preleva dalle zone dove passa ecc.. In conclusione, secondo l' Enciclopedie la guerra dei partis «è assolutamente necessaria» per l'esercito, serve egregiamente a formare ufficiali abili e distinti, e «nulla contribuisce di più alla sicurezza dell'esercito che i partis, quando essi sono comandati da ufficiali abili e intelligenti». Secondo l'Enciclopedia Universal Illustrada la guerrilla ha due ben diversi significati. Oltre a essere «una banda di campagnoli di solito non molto numerosa (partida) che, al comando di un capo autonomo e con poca o nessuna dipendenza dall'esercito, insegue e molesta il nemico» essa è «una linea di tiratori formata da varie parti o gruppi poco numerosi, equidistanti gli uni dagli altri, che contrastano e molestano il nemico, coprendo la fronte e il fianco del corpo di battaglia [dell'esercito] per preparare l'attacco di quest'ultimo». Oppure, può anche essere l'equivalente del parti francese (Partida) cioè «una banda di truppa leggera che ha il compito dell'esplorazione e apre per prima il fuoco». L'Enciclopedia Universal aggiunge che «le guerrillas», così come sono modernamente concepite, sono nate dopo l'introduzione del fucile, che aumentando la sua precisione ha imposto la necessità di utilizzare tiratori scelti. Napoleone ha saputo trarre gran vantaggio da esse, ottenendo un'efficacia nel fuoco maggiore di quella che fornivano le pesanti masse dell'avversario; sicché dalle guerre napoleoniche a oggi la guerrilla è andata crescendo d'importanza fino a generare l'ordine sparso (ricordiamo che fino a tutto il secolo XIX le fanterie combattevano in piedi, in geometriche formazioni con ranghi serrati e con fuoco e movimento solo a comando).
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Da questa prima indagine possiamo già dedurre che: a) il sostantivo italiano guerriglia e l'aggettivo o sostantivo partigiano hanno origine prettamente militare e antecedente alla Rivoluzione Francese. Quindi non risponde a verità l' affermazione che le guerrillas spagnole del 1808-1813 hanno dato il nome alla attuale guerriglia; b) la guerrilla era in origine un reparto di fanteria leggera o di tiratori scelti che combatteva al di fuori delle rigide ordinanze di battaglia e con fuoco libero. In senso traslato il termine guerrilla ha indicato, come spesso è avvenuto in questo caso, anche lo speciale tipo di guerra autonomamente condotto dalle guerrillas, denominato in francese petite guerre e in tedesco Kleine Krieg; d) i partis erano in origine truppe regolari che però conducevano un tipo di guerra definito irregolare, nel senso che le loro formazioni, i loro procedimenti d'azione erano del tutto svincolati da quelli - assai rigidi per tutto il secolo XIX - normalmente adottati da fanteria e cavalleria, mentre il grado di autonomia operativa e logistica concesso per fona di cose ai loro comandanti non trovava alcuna rispondenza in quello dei comandanti delle minori unità normalmente inquadrate nell' esercito (che era estremamente ridotta); e) la funzione svolta dai partis era ausiliaria rispetto al grosso dell' esercito; t) la tattica delle truppe leggere (cacciatori e/o volteggiatori napoleonici; bersaglieri) e quella dei guerriglieri civili dal punto di vista tecnico hanno una matrice comune (suddivisione in piccoli reparti autonomi; capacità di svolgere fuoco libero e ben mirato; velocità degli spostamenti); g) sempre riguardo ai procedimenti d'azione in campo tattico, non vi sono e non vi erano differenze apprezzabili tra i militari inquadrati neU ' esercito regolare che conducono la piccola guerra e quelli che oggi chiamiamo guerriglieri; h) in definitiva la guerriglia condotta dal popolo spagnolo nel 1808-18 13 contro le truppe napoleoniche - rimasta un esempio classico e un riferimento costante - è la risultante di una doppia traslazione: dal reparto dell'esercito regolare (guerrilla) al tipo d'azione da esso condotto; dal tipo di azione (e reparto) in origine pienamente rientranti nelle operazioni (o battaglie campali) condotte dall'esercito regolare e aventi come protagonisti soldati regolari, si è passati ad azioni anche autonomamente condotte da civili o da reparti misti di civili e militari, che non operano più nell'ambito di un esercito regolare e non lo prendono più come riferimento per i propri canoni morali, disciplinari e tattici; quest'ultimi sono liberi e dettati solo dalla situazione, dello scopo da raggiungere e dalle personali vedute dei capi del momento. Il trattato del De Grandmaison La petite guerre on traité du service des troupes legères en campagne (1756, quindi contemporaneo alla citata Enciclopedie Française) è il primo di una lunga serie di libri sullo stesso argomento, pubblicati nei vari paesi d'Europa e specialmente in
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Francia, Germania e Russia, per i quali rimandiamo al recente saggio di Vìrgilio Ilari Riflessioni critiche sulla teoria politica della guerra di popolo. 2 Due i motivi salienti di questa letteratura: fino alla Rivoluzione francese e a Napoleone, le modalità tattiche per condurre con forze regolari la piccola guerra; durante e dopo il periodo 1789- 1815, il ruolo anche politico-strategico che inizia ad assumere - dopo l'esperienza della Vandea, della Spagna 1808-1813, della Prussia (1812) e della Germania (1813) - l'estensione (non ancora suffragata da precise teorie) dei metodi della guerra di partis alla popolazione civile. Solo la guerriglia antirepubblicana in Vandea - soffocata nel sangue dalla truppe della Rivoluzione - e alcuni sporadici, limitati e temporanei focolai d' insurrezione spontaneamente accesisi durante il periodo napoleonico in talune zone dell'Italia del Nord (nel Mezzogiorno, c'è l'appoggio inglese) operano non in concorso con forze regolari: in tutti gli altri casi (Spagna, Russia, Germania) le unità delle guerriglia operano insieme con le forze regolari, anche se in un quadro di larga autonomia richiesto dal particolare tipo di guerra e non necessariamente aJle dipen-
denze dei comandanti delle forze regolari, o in funzione ausiliaria rispetto a quest'ultime. A noi interessa chiarire anzitutto la questione terminologica: quindi prenderemo in esame ciò che ne dice il colonnello prussiano Karl Decker nel suo libro La petite guerre ou traitè des operations secondaires de guerre (1822), dove si muove in una prospettiva angustamente militare, solo con qualche cenno a quanto era accaduto in Spagna o Russia e Germania.3 Eppure il suo esordio è promettente: «Una definizione chiara e precisa di ciò che si deve intendere con l'espressione piccola guerra non è senza difficoltà, e le cUverse opinioni espresse in merito da parec2 ln «Memorie Storiche Militari 1982», Roma, SME, Uf. Storico 1983, pp. 107172. Cfr. anche, in merito, C. Jean, Guerra di popolo e guerra per bande nell'Italia del Risorgimento, «Rivista Militare» n. 6/1981 , pp. 57-66. 3 li libro del Decker è pubblicato a Berlino nel 1822 e tradotto in francese nel 1838 (Bruxelles, Sociéte De Librairie Beige). Alle varie opere citate da Ilari, oltre a quella de l Decker noi aggiungeremmo L 'art defaire la petite guerre avec succès (1779) di M. Jeney (citato dallo stesso Decker), il trattato di August La Mière de Corvey Des partisans et des corps irreguliers (1823 - importante per i suoi riflessi sul pensiero italiano e mazziniano) e L'Essai sur la guerre de partisans (1821 - tradotto in francese nel 1842) del generale russo Denis Vasilicvitch Davidoff, protagonista della g uerra nazionale russa contro Napoleone. Infine, sulla guerra anlinapoleonica del 1813 in Prussia si veda La guerre de partisans contre Napoléon - carnet de campagne d 'un officier prussien (181 3/8/4) del capitano Von Colomb (tradotto in francese nel 1914 dal comandante Minart P11ris, Rcrgcr-Lévrault).
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chi scrittori militari, provano che questo argomento può essere trattato da diversi punti di vista, dei quali nessuno può essere interamente respinto. Anzitutto, non è partendo dalle idee che normalmente vengono collegate ai termini piccolo e grande che si deve stabilire la differenza tra piccola e grande guerra, perché la prima non è affatto meno importante della seconda».4 Queste parole bastano a smentire le tesi di taluni, che vedono nell'antico termine piccola guerra un quid di dispregiativo, tipico degli ufficiali di carriera di ieri e di oggi che come tali hanno sempre amato di amore troppo esclusivo la grande guerra ... Al contrario, del gran numero di ufficiali studiosi e di libri che ne hanno trattato si deduce che la piccola guerra è stata, per più di un secolo e a cominciare da Federico Il, un chiodo fisso degli ufficiali di carriera. Sotto questo aspetto, chi voglia ben capire lo spirito della grande guerra di Clausewitz - sottratta il più possibile a principi, regole e exempla - deve ammettere che questa non è ... che una piccola guerra in grande; mentre non vale il rapporto inverso. Il Decker cerca di stabilire delle differenze assai interessanti tra piccola guerra e guerra di partigiani, differenze che, in fondo, sono le stesse oggi esistenti tra le modalità tattiche con le quali un esercito conduce le attività di esplorazione e sicurezza disturbando quelle del nemico, e il complesso di misure - rientranti anche nel campo strategico - per nuocere al nemico, senza spingere a fondo l'azione; va da sé che in tali attività rientra benissimo anche ciò che oggi intendiamo per guerriglia. 5 A suo avviso, la piccola guerra comprenderebbe essenzialmente le «operazioni secondarie di guerra» svolte da truppe regolari, che cioè a4
K. Decker, Op. cit. , pp. 13-14. Le definizioni ufficiali italiane oggi da considerare sono quelle della Pub. SME n. 5211 Nomenclatore organico-tattico-logistico (1956). Guerriglia: «forma particolare di lotta, prevalentemente offensiva, svolta, in genere, da piccole formazioni mobili e manovriere che, evitando in linea di massima azioni decisive e onerose, cercano di danneggiare l'avversario che occupa il territorio nel quale esse operano». Guerrigliero (partigiano): «Combattente che, inquadrato in formazioni regolari o meno, conduce azioni di guerriglia contro il nemico che occupa il territorio». La successiva Pub. SME n. 5895 Nomenclatore Militare - Esercito (1969) afferma che la guerriglia «è condotta da forze militari o paramilitari» e rappresenta il risvolto militare della guerra te"itoriale(particolare forma di lotta condotta da forze regolari in territorio occupato dal nemico) o della guerra rivoluzionaria o sovversiva (forma di guerra che mira al rovesciamento del regime vigente in un Paese e all'instaurazione di un nuovo governo, con l'appoggio o meno di Potenze straniere). Infine, la Pub. n. 5895 Nomenclatore militare-esercito (1984) aggiunge che la guerriglia si sviluppa con l'appoggio almeno parziale della popolazione e afferma che la guerra sovversiva «si avvale prevalentemente della guerriglia come strumento di azione militare, pur senza escludere il ricorso a vere e proprie operazioni tradizionali. Può manifestarsi in concomitanza con una guerra generale o limitata». 5
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dottano formazioni e procedimenti d'azione regolamentari (1 ° sicurezza dell'esercito; 2° ricerca e mantenimento delle comunicazioni; 3° protezione dei convogli di viveri e foraggi; 4 ° ricognizione del terreno davanti alle posizioni nemiche). Invece la guerra di partigiani - pur essendo sempre condotta da forze regolari - comprenderebbe una quinta categoria di operazioni, cioè «tutte le maniere possibili di nuocere al nemico senza venire a un combattimento decisivo; ciò che comprende gli stratagemmi militari, per mezzo dei quali si perviene spesso allo scopo che si intende perseguire, più facilmente che impiegando le forze in campo aperto». Perciò la guerra partigiana, anche se non appartiene alla «grande guerra», sarebbe «una specie particolare e distinta che potrebbe essere denominato guerra fatta in piccolo, e che non va confusa con la piccola guerra». Per il Decker, mentre i primi quattro tipi di operazioni indicati possono sempre essere compresi «in un sistema regolare», i1 quinto può esservi incluso meno di frequente. La guerra partigiana invece non vi appartiene mai: perciò «nella piccola guerra, tutto è sottoposto a regole (regulièr); nella guerra partigiana, tutto è irregolare; le operazioni della prima sono necessariamente legate alle operazioni principali della guerra, quelli della seconda ne sono interamente indipendenti»_ Affermazione strana, visto che secondo lo stesso Decker la guerra partigiana «ha lo scopo di colpire in misura sensibile il nemico nei punti dove non può portare masse considerevoli, tenerlo sul chi vive, molestarlo, affaticarlo, togliergli i viveri e tutto questo senza esporsi a grossi pericoli». 6 Forse il Decker confonde l'indipendenza in campo tattico con quella in campo strategico, che è altra cosa ... Pur movendosi sempre in una prospettiva militare e al di là di questa distinzione, il Decker descrive bene la guerra dei partigiani, osservando tra l'altro che «non si attribuisce alla guerra di partigiani tutta l'importanza che merita» e che la guerra partigiana è assai più difficile da condurre che la grande guerra, perché esige un talento particolare nei capi e qualità speciali nella truppa, mentre nella grande guerra si può trovare un impiego conveniente anche per i talenti mediocri, e c'è posto per tutte le specie di truppe. Egli lamenta inoltre che ai suoi tempi non si vedono più dei veri partigiani come que11i della guerra dei trenta anni, e che la «la maniera di condurre questa specie di guerra è sottoposta a tali regole, che si potrebbe dire che, in relazione al sistema di guerra usato oggidì, i corpi di partigiani indipendenti non trovano più posto negli eserciti». Particolare interessante e finora ignorato, il Decker accenna a espe6
K. Decker, Op. cit., pp. 15-17.
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rienze partigiane di Clausewitz: «il capitano Clausewitz (ora maggior generale) si è segnalato ugualmente [insieme con Wallenstein - N_d_a_] come partisan nella maniera più distinta vicino a Kanth in Slesia; ma sfortunatamente a questi uomini di grandissimo merito non era stata concessa una sufficiente autonomia»_7 Il Decker, infine, accenna anche - ma ·solo dal punto di vista degli eserciti regolari e del1a controguerriglia - all'esperienza di Vandea e Spagna: «la stessa guerra in grande non può essere condotta con procedimenti meccanici: ma ciò è ancor meno possibile per la guerra di partigiani. In questo caso qualsiasi principio matematico cessa di essere applicato, e solo lo spirito fornisce delle risorse_ Si è altresì spesso constatato che, nelle guerre tra popolo e popolo, quando un intero paese si trovava in possesso del nemico senza essere realmente conquistato, le sole operazioni militari decisive erano le invasioni di partigiani [cioè: di truppe agenti con i procedimenti d'azione tipici della guerra di partis - N.d_a.], mentre gli eserciti regolari riuscivano a malapena a procurarsi i viveri necessari per il loro sostentamento. Questo è accaduto, per esempio nella guerra di Vandea e in quella di Spagna dal 1809 al 1814». Fatte alcune eccezioni, le opere pubblicate al'eslero durante le guerre napoleoniche e la Restaurazione non si discostano molto, nella sostanza, dal Decker e presentano la guerriglia - oltre che come una faccenda che riguarda pur sempre gli eserciti regolari - come una variante obbligata ai loro schemi tattici e ordinativi, modellati esclusivamente sulle esigenze della battaglia in campo aperto. Una sia pur parziale eccezione riguarda - et pour cause - il russo Davidoff, che nel suo Essai theorique sur la guerre des partisans del 1821 8 non ignora il possibile peso strategico di quella che egli chiama guerra di guerriglia: «la terribile epopea del 1812, celebrata per tanti sforzi straordinari, obbligò la Russia ad apportare importanti cambiamenti al suo sistema di guerra. Essa rinunciò alle teorie di Biilow e di altri acchiappanuvole come lui, e la guerra di partigiani entrò nelle combinazioni e nei piani generali degli eserciti [quindi: divenne un fatto strategico e non fu solo una serie di operazioni «indipendenti» da quelle delle rimanenti parti dell'esercito, come voleva Decker - N.d.a.]. Ancora una volta, però, la guerra di partigiani di Davidoff è affidata principalmente alle forze dell'esercito regolare, che agiscono con procedimenti all'epoca definiti dal Decker «irregolari»: egli scrive che Kutu-
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ivi, pp. 378-379. Cfr. G- Chaliand, Op. cit., pp. 790-810.
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zov, tranquillizzato sulla sorte di un parti che aveva inviato da Borodino su Wiasma per sperimentare i vantaggi di questo genere di guerra, «si decise a ripartire in piccoli distaccamenti gran parte delle truppe cosacche, e le lanciò in tutte le direzioni sulle linee di comunicazione nemiche». Segue un'accurata descrizione dell'azione di questi piccoli distaccamenti, non senza qualche accenno al contributo della popolazione. Ad esempio: «l'armata di Napoleone era per così dire bloccata dai partis e dai contadini armati» [che dunque erano dall'autore considerati come non appartenenti ai partis - N.d.a.]. E - prosegue il Davidoff - quando le truppe_russe si avvicinavano a un villaggio, mandavano qualcuno in avanti per avvisare che erano russi e che venivano ad aiutarli a difendere la Chiesa ortodossa. Ma spesso, gli abitanti rispondevano a colpi di fucile o brandendo un'ascia, perché la loro uniforme li faceva assomigliare ai francesi e ]a loro stessa lingua non era considerata una garanzia sufficiente (i francesi avevano con sé gente d'ogni sorta ... ). Di conseguenza - egli aggiunge - «io indossai un caffetano da contadino e mi lascia crescere la barba. E invece dell'ordine di Santa Anna, mi appesi al collo l'icona di San Nicola. E mi abituai a conversare con gli abitanti dei villaggi nel loro gergo ...». Non si può rimproverare al Davidoff molto di più della sua tendenza a fare dei militari i protagonisti pressoché esclusivi anche della guerra partigiana. Dopo tutto egli indica in quest'ultima, combinata con i grandi spazi e le forze regolari, il modello strategico vincente per le guerre russe del futuro e riconosce che il concetto di guerriglia che predonùna ancora deriva da una visione settoriale o da un punto di vista manifestamente riduttivo in materia j ... l La guerra di guerriglia non consiste né in operazioni minute né in quelle di primaria importanza, perché non si tratta solo di bruciare uno o due depositi di cereali, né di annientare dei distaccamenti, né di portare dei colpi diretti al grosso delle forze nemiche. Essa abbraccia e supera l'insieme delle linee nemiche, dalle spalle dell'esercito nemico fino alla zona dove sono dislocate truppe di riserva, rifornimenti e armi. La guerra di guerriglia paralizza dunque la sorgente della forza di un esercito e la sua capacità di sopravvivenza e la mette alla mercè delle for1:e della guerriglia, perché l'esercito nemico è indebolito, affamato, disarmato e privo dei vincoli salutari della disciplina. E' la guerra di guerriglie nel senso più completo del termine .... Ancor più del Davidoff, i nuovi caratteri della guerriglia sono individuati da un generale prussiano, il barone Von Valentini, e da un uffi-
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ciale superiore francese, il citato La Miére. Il Von Valentini9 sintetizza gli ammaestramenti - anche strategici - delle guerre di Spagna e di Vandea in queste poche frasi, dalle quali appare evidente che egli si muove in un campo ben diverso, e assai più vasto, di quello della piccola guerra e della guerra partigiana del Decker: che il nemico sia stato cacciato dalla penisola iberica e spinto fin dentro il suo stesso paese è, beninteso, dovuto principalmente alle vittorie del duca di Wellington. Ma colui che ha semplicemente percorso la storia di questa guerra sa quanto la guerra dei contadini - così viene chiamata - ha contribuito a queste vittorie, e come essa ha impedito al nemico di godere tranquillamente il frutto dei suoi successi iniziali [contro l'esercito regolare spagnolo]. Le future guerre difensive nelle quali il popolo saprà a<;sicurare con determinazione il sostegno alle forze regolari conducendo una piccola guerra alle spa11e del nemico, otterranno il medesimo grande successo. Anche dopo aver vinto una battaglia, il nemico non sarà mai in grado di prendere saldo possesso del paese nemico e delle piazzeforti espugnate o da lui stesso stabilite. Ogni distaccamento delle sue truppe, ogni invio di rinforzi, di armi e di viveri sarà esposto all'attacco dei partigiani. Condotte in questo modo su larga scala, le piccole guerre si trasformano in guerre di sterminio per gli eserciti nemici. La guerra di Vandea [ma anche que11a di Spagna! - N.d.a.] non può tuttavia essere considerata come una piccola guerra. I contadini che vi combatterono così validamente per il loro paese e il loro re miravano a distruggere completamente l'avversario».
Dunque nel Von Valentini, sia pure in modo poco lineare, compare il concetto fondamentale che que11e combattute in Spagna e Vandea erano qualcosa di più di piccole guerre: guerre di contadini, guerre popolari difensive, guerre di sterminio ... L'abbinamento tra guerra di contadini e forze regolari verificatesi in Spagna, per il Von Valentini è un mode11o vincente; a sua volta, la guerra del popolo tirolese contro Napoleone ha avuto caratteristiche analoghe. Essa ha dimostrato che le popolazioni montanare, avvezze a combattere contro la natura per sopravvivere, sono dotate di altro spirito combattivo e di un naturale senso tattico; proprio per questo «far apprendere a coloro che vivono in pianura ed esercitano il loro mestiere in città, o che coltivano dei campi largamente accessibili, i1 modo di condurre la guerra come fanno questi montanari dotati di alto spirito combattivo, non sarà cosa facile». 9
ivi, pp. 811-814.
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Il La Miére presenta la guerriglia non come una modalità tattica, ma come unica, residua possibilità strategica nel caso che le forze regolari siano sconfitte e le porte del Paese restino aperte all'invasione straniera: «allorché degli eserciti stranieri invadono il suolo della patria, bisogna attendersi di essere derubati, danneggiati e maltrattati se non si ha il coraggio di difendersi. Se l'esercito nazionale è distrutto [nostra sottolineatura - N.d.a.] e non vi è più la possibilità di opporre delle forze consistenti al nemico, è il caso di costituire prontamente delle guerrillas o corpi di partigiani». 10 Quindi, nemmeno per il La Miére la formazione di unità partigiane è una reale alternativa iniziale rispetto alla costituzione e all'impiego di forze regolari: è un rimedio estremo, al quale si ricorre solo quando quest'ultime hanno fallito la loro missione essenziale di assicurare la difesa del territorio nazionale. Per la prima volta, nel concetto del La Miére i Quadri e le truppe regolari non sono l'elemento portante della guerriglia; lo dice il titolo stesso della sua opera, assai lungo come si usa al tempo: «Dei partigiani e dei corpi irregolari ossia modo d'impiegare con vantaggio le truppe leggere, qualunque sia la loro denominazione: partigiani, volteggiatori, compagnie franche, guerrillas, e più in generale tutti i tipi di forze irregolari, contro degli eserciti disciplinati. Opera utile nelle guerre regolari, e indispensabile nel caso di invasioni straniere ... ». Sempre per la prima volta, compare nel La Miére il termine bandes, bande, che non ha il prevalente senso dispregiativo di oggi ma significa piuttosto formazione irregolare, di varia consistenza numerica, agli ordini di un capo autonomo che non è - o non è quasi mai - un militare, e che combatte senza badare alle buone regole della tattica: «e chi erano questi capi delle guerrillas che [in Spagna] hanno battuto i nostri bravi capitani? Vi erano forse, tra di essi, dei vecchi e distinti ufficiali, ben a conoscenza della tattica militare? Niente affatto: i capi più famosi di queste bande, che hanno resistito con tanta audacia alle truppe francesi, erano un mugnaio, un medico, un pastore, un curato, dei frati, qualche disertore, ma non un solo uomo che prima di quel periodo avesse avuto una posizione di rilievo». L'essenza della guerra partigiana e il suo carattere di logoramento sono ben riassunti dal La Miére con queste parole: «l'obiettivo delle formazioni partigiane è di avere sempre una forza sufficiente per inquietare il nemico; di poterla portare ovunque occorra per tormentarlo senza posa, minarlo, interdire i suoi rifornimenti, distruggere i suoi convogli, catturarli, intercettare la sua corrispondenza e le sue comunicazioni, e sor-
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ivi, pp. 801-810.
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prendere tutti gli uomini isolati che s'incontrano. Questa guerra ben fatta, diretta da un capo abile, ispirerà il terrore al nemico». Lo scopo principale di questo tipo di guerra è di ottenere la distruzione lenta e insensibile del nemico, che in tal modo ne soffrirà assai di più che per una battaglia perduta. Il guerrigliero ricorre soprattutto all'imboscata, e il terreno montano e/o ricco di ostacoli è il più favorevole a questo tipo di guerra: bisogna perciò evitare scontri di masse in campo aperto, e curare che le formazioni partigiane costituite in un dato circondario non escano dalla loro zona. Infatti nel suo paese, ove è nota l'opinione di tutti, il guerrigliero ha dei testimoni per ciascuna sua azione, è aiutato da tutti, e se si comporta male, si autoemargina rispetto ai concittadini; non si può dunque trovare per questo genere di guerra un aiuto maggiore di quello che si ottiene nel paese dove normalmente si abita.
Guerre di popolo e guerre «nazionali» nel pensiero di Clausewitz e ]omini Gli esatti contenuti strategici e i caratteri della guerra partigiana vanno ricercati anzitutto nei due capistipite delle opposte correnti del pensiero militare dal secolo XIX in poi. Clausewitz e Jomini. 11 primo, che ha avuto brevi esperienze dirette di guerra partigiana nel 1806, tiene un corso di lezioni sullo stesso argomento nel 1810-1811 alla scuola militare di Berlino. Sul piano generale, per Clausewitz la guerra partigiana non è un «caso eccezionale» rispetto a quello - normale - dello scontro tra eserciti regolari in battaglie campali decisive, ma è un riflesso inevitabile del carattere assunto dalle guerre moderne, che non sono più guerre tra soli eserciti: il conto che devesi tenere del carattere delle guerre moderne esercita una grande influenza su tutti i piani e principalmente sui progetti strategici [ ... ] gli Spagnuoli hanno mostrato con la loro lotta tenace il potere delle prese d'armi nazionali e dei mezzi insurrezionali impiegati su grande scala, nonostante la loro debolezza e la loro mancanza di coesione materiale. La Russia ha dimostrato nella campagna del 1812, anzitutto, che un Impero di grandi dimensioni non si lascia conquistare (cosa che si poteva facilmente prevedere). Ha dimostrato, poi, che le probabilità di successo non decrescono sempre con le battaglie, le capitali e le province perdute l...J La Prussia ha provato nel 1813 che sfor1:i improvvisi possono sestuplicare, a mezzo di milizie, la for1:a ordinaria di un esercito, e che queste mi-
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lizie possono combattere altrettanto bene sia all'interno del paese sia al di là delle frontiere [ma ovunque? - N.d.a.]. Tutte queste cose, in sostanza, hanno mostrato quale fattore enorme costituiscano, nel prodotto delle for.r,e di uno Stato, il cuore e il sentimento della nazione; e, dopo che tutti i governi hanno appreso a conoscere queste risorse, non si può più ritenere che essi le negligeranno nelle guerre future [... ]. E' facile comprendere che le guerre condotte con tutto il peso delle forze nazionali reciproche debbono essere imbastite secondo criteri diversi da quelli in cui tutti i calcoli si basavano sui rapporti fra i rispettivi eserciti permanenti. 11 Per il momento ci limitiamo a registrare che Clausewitz scrive queste parole nel Libro Terzo di Della guerra, intitolato «Della strategia come argomento principale». Se ne può già dedurre che, secondo Clausewitz, la guerriglia è anzitutto un fatto strategico, una forma sia pur alternativa a<;sunta dalla moderna strategia. Essa non è l'unica ma si accompagna ad altre, con le quali però ha in comune il ricorso ormai inevitabile «al cuore e al sentimento della nazione», cioè a una guerra che comunque supera il tradizionale concetto dello scontro tra i soli eserciti regolari. L'argomento viene da lui ripreso nel libro sesto dedicato alla difensiva, con le pagine - assai più note - dedicate alla «guerra di popolo» (o meglio, all' «armamento del popolo» - Volksbewaffnung). 12 Con semplicità, ma finalmente con efficacia e chiarezza, Clausewitz definisce la guerra di popolo «guerra nella quale la popolazione civile [nostra sottolineatura - N.d.a.] impugna le armi». Quindi, non più gli equivoci derivanti da termini militari e tattici come piccola guerra, guerra di partis, guerra di partigiani, guerrillas, ecc .. La guerra di popolo - che, naturalmente, anche per Clausewitz adotta gli ordinamenti e i procedimenti d'azione in campo tattico della piccola guerra, già ampiamente descritti dagli altri autori - «è un fenomeno del XIX secolo» che ha i suoi fautori e i suoi avversari: questi ultimi, o per ragioni politiche, perché la considerano come un mezzo rivoluzionario altrettanto pericoloso per l'ordine sociale interno proprio quanto per il nemico; o per ragioni militari, perché ritengono che il risultato non giustifichi le energie impiegate. Il primo punto non ci riguarda perché qui consideriamo la guerra di popolo come semplice mezzo di lotta e cioè nei suoi rapporti con
11 12
K. Von Clauscwitz, Op. cit., Voi. I (Libro Terzo), pp. 239-240. ivi, Voi. li (Libro sesto), pp. 630-637.
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l'avversario. Il secondo punto c' induce invece a far notare che la guerra di popolo, di massima, è da considerarsi come conseguenza dello sfondamento che il fattore bellico, nei nostri tempi, ha effettuato attraverso la sua muraglia artificiosa, e cioè come una estensione e un rinvigorimento del processo di fermentazione che denominiamo «guerra».
Sempre com mirabile chiarezza, efficacia e freschezza, Clausewitz affronta poi tutti i nodi più controversi del problema, ieri come oggi: - l'armamento del popolo è uno dei tanti fenomeni derivanti dalla estensione della guerra, cosl come lo sono l'accrescersi degli eserciti «fino a masse enormi», il servizio militare obbligatorio, ecc.; - il popolo che saprà valersi in modo razionale di questo sistema di guerra verrà a trovarsi in relativo vantaggio rispetto a chi lo trascura; - se il ricorso alla guerra di popolo sia o no conveniente, «è una domanda seria, alla quale si dovrebbe rispondere analogamente a quella concernente la guerra in genere; e quindi lasciamo ai filosofi di rispondere ad entrambe»; - in linea di massima, le energie assorbite dalla guerra di popolo non possono essere meglio impiegate in altro modo; «anzi, una loro parte notevole, e cioè il fattore morale, si estrinseca soltanto con questa specie d'impiego»; - la guerra di popolo distrugge alle basi la saldezza dell'esercito nemico, ma ha bisogno di tempo e di molto spazio per far sentire i suoi effetti; - la possibilità che la guerra di popolo provochi da sola una decisione «presuppone o una superficie cosl estesa del territorio occupato, quale nessun Stato europeo possiede al di fuori della Russia, oppure una sproporzione fra l' esercilo invasore e la superficie del paese, quale in realtà non può verificarsi» [evidentemente, l'ottica di Clausewitz è ristretta all'Europa Occidentale- N.d.a.]; - di conseguenza, «è necessario immaginarsi la guerra di popolo in connessione con la guerra di un esercito permanente, ed un coordinamento di entrambe secondo un piano generale d'insieme». Clausewitz passa poi ad esaminare le condizioni necessarie affmché la guerra di popolo possa avere efficacia. Esse sono: 1. che la guerra sia attuata all'interno del paese; 2. che essa non possa essere decisa mediante un unico disastro; 3. che il teatro di guerra abbracci una considerevole estensione di territorio; 4. che il carattere del popolo favorisca l'attuazione del provvedi-
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mento [quindi: non tutti i popoli sono ugualmente atti alla guerriglia - N.d.a.]; 5. che il paese sia molto frastagliato e poco accessibile, o a causa di montagne o di boschi e paludi, o della coltura del suolo. La guerra di popolo non va comunque né sopravvalutata, né sottovalutata: anche se non si ha un concetto esagerato della efficacia generale di una guerra di popolo, se non la si considera come un elemento inesauribile ed insuperabile al quale l'esercito nemico, di per sé solo, non possa imporre l'arresto come l'uomo non può imporlo né al vento né alla pioggia; in poche parole, anche se non si fonda il proprio giudizio su manifestazioni di carattere oratorio, è pur d' uopo riconoscere che contadini armati non possono essere ricacciati davanti a sé come un reparto di soldati i quali normalmente si mantengono serrati come un gregge e vanno l'uno strettamente appresso all' altro, mentre i contadini armati, sparpagliati, si frazionano in tutte le direzioni, senza che a ciò sia necessario un piano arti ficioso. La guerra di popolo secondo Clausewitz non deve mai raffittirsi in masse compatte, che potrebbero essere facilmente annientate dall' avversario. Anche per ragioni morali, è necessario che essa sia appoggiata da nuclei di truppe permanenti, la cui forza complessiva deve però avere dei limiti, sia perché sarebbe molto dannoso frazionare tutto l'esercito per questo scopo sussidiario, sia perché l'esperienza dimostra che, se le truppe regolari in una zona sono troppe, per varie ragioni (anche logistiche) la guerra di popolo vi perde di energia e di efficacia. E un altro mezzo per impedire una reazione avversaria troppo efficace «consiste nell'applicare una massima che, in pari tempo, è fondamentale: e cioè che questo grande mezzo strategico di difesa non deve mai, o almeno deve molto di rado, trasformarsi in difesa tattica» . Ciò significa, semplicemente, che i procedimenti tattici d'azione della guerriglia devono sempre e ssere offensivi: la difesa di posizioni o di aree territoriali tipica di eserciti regolari avrebbe poco senso in questo tipo di guerra, e anzi sarebbe fatale a chi la conduce. Secondo Clausewitz il piano di difesa strategica può prevedere due diversi ruoli per la guerra di popolo: o quale mezzo estremo al quale ricorrere dopo una battagJia perduta, o come un sussidio naturale prima di dare una battaglia decisiva. Questo secondo caso presuppone la ritirata delle forze regolari all'interno del paese, e il ricorso alla guerra di popolo per logorare insieme con le piazzeforti le forze nemiche. In tutti i casi
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nessun Stato dovrebbe ritenere che il proprio destino, ed anzi tutte la propria esistenza, dipenda dall'esito di una battaglia, anche se di carattere estremamente decisivo. Se esso è battuto, la costituzione di nuove forze e il naturale indebolimento che è caratteristico per ogni attacco coll'andar del tempo, può produrre un rivolgimento della situazione; oppure lo Stato battuto può ricevere aiuto dall'esterno.
Non è quindi vero che Clausewitz vede la guerriglia sempre e solo come ausiliaria delle forze regolari: può essere anche l'ultima carta da giocare per una nazione che non vuole arrendersi. Anche su questo argomento, non ci potrebbe essere una differenza più radicale tra l'approccio di Clausewitz e quello di Jomini. Abbiamo già visto (capitolo II) che sullo sfondo della guerra di Spagna quest'ultimo nel Traitè chiama impropriamente le guerre di popolo guerre nazionali, e diversamente da Clausewitz le considera non una delle inevitabili ricadute dei nuovi aspetti «assoluti» assunti dal fenomeno guerra all ' inizio del secolo XIX, ma un'eccezione alle sue regole strategiche, perché non consentirebbero ali' esercito invasore che ha a che fare con la guerra di popolo di realizzare il principio fondamentale della massa. Affermazione quanto mai discutibile, perché la quintessenza del principio della massa (e dei correlati principi dell 'economia delle forze e della sorpresa) non è tanto quella di riunire e concentrare su determinati punti grosse masse compatte, ma di essere comunque più forti del nemico, là dove egli è più debole, perché se lo aspetta. Di conseguenza il guerrigliero, nonostante l'esiguità delle sue forze, spinge alla sublimazione il principio della massa: perché riesce pur sempre a essere - temporaneamente - più forte dell'avversario nei punti dove quest'ultimo è più debole e a dissolversi subito dopo, evitando lo scontro quando il vantaggio rischia di passare dalla parte dell'avversario. Le peculiarità della guerra di popolo e i vantaggi che ne derivano per il guerrigliero consistono proprio nelle diverse possibilità che i due contendenti hanno di realizzare la massa nel momento voluto: molto ardue per le truppe occupanti, assai più agevoli per le forze della guerriglia, sempre più leggere e mobili. Nel Précis queste considerazioni scompaiono, ma Jomini mantiene anche in questo caso la tendenza a considerare le «guerre nazionali» soprattutto dalla parte dell'esercito invasore, e non - come Clausewitz come un rimedio e anzi un accorgimento strategico necessario per un Paese invaso. Il suo approccio, la sua tendenza a considerarle uno spiacevole incidente, un'eccezione esecrabile possibilmente da eliminare, si rispecchiano in queste parole, che concludono l'Articolo Vil del Précis da lui dedicato a questo tipo di guerra:
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vorrei riassumere questa analisi affermando che - senza essere né un utopista - filantropo né un Condottieri (sic), ci si può augurare che le guerre di sterminio siano bandite dal codice delle nazioni, e che le difese nazionali, assicurate dagli eserciti regolari, possano d'ora innanzi bastare, con buone alleanze politiche, per assicurare l'indipendenza degli Stati. Come militare, io preferisco la guerra leale e cavalleresca all' assassinio organizzato, e se si trattasse di scegliere, io preferirei sempre i bei tempi in cui le guardie francesi e inglesi si invitavano a vicenda, gentilmente, a far fuoco per primi, come è avvenuto a Fontenoy, piuttosto che l'epoca orribile nella quale i curati, le donne e i bambini organizzavano su tutto il territorio della Spagna, l'assassinio dei soldati isolati.' 3
Al contrario, Clausewitz ritiene le guerre assolute ormai inevitabili, e anziché formulare auspici per la loro scomparsa, ritiene più saggio prepararsi ad affrontarle, tenendo presente che esse si sottraggono a regole e sentimenti di carattere umanitario: un siffatto modo di ragionare gli è quindi estraneo e, al contrario, egli vede nella guerra di popolo il rimedio estremo di chi è sconfitto in campo aperto. Rispetto a Clausewitz, Jomini ha il merito - sempre con chiaro riferimento ali' esempio spagnolo - di riconoscere che se il popolo che si solleva dispone òi coste molto estese, il dominio del mare da parte sua o dei suoi alleati facilita assai il successo di una guerra nazionale, non solo per la facilità di alimentare le forze insorte e per la possibilità di minacciare le forze nemiche in tutti i punti del paese, ma anche perché rende agevole impedire il rifornimento via mare delle forze nemiche. La manìa di suddividere e classificare di Jomini si manifesta anche nel distinguere tra i vari tipi di guerra, e in questo caso - a tutto danno della linearità del discorso - lo porta a riconoscere che le guerre «nazionali» possono avere caratteri comuni con quelle «civili» (cioè tra cittadini di uno stesso Stato), «d'opinione» (cioè ideologiche o religiose) e «d'invasione» (come quella dell'esercito napoleonico in Spagna). E così la guerra della Rivoluzione Francese (ma per chi? per ambedue gli avversari?) «fu al tempo stesso guerra d'opinione, guerra nazionale e guerra civile, mentre se la prima guerra di Spagna, nel 1808, è stata tutta nazionale, quella del 1823 [quando l'esercito francese del Duca d' Angouleme intervenne con successo in Spagna a favore dei legittimisti] è stata una lotta parziale d'opinioni senza nazionalità: di qui l'enorme differenza dei risultati».14 13 14
H.A . Jomini, Précis (Cit.), Vol. I, pp. 82-83. ivi, Voi. I, p. 69.
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Jomini confonde lo scopo politico del1a guerra con il suo mezzo: gli sfugge che una guerra «nazionale» può essere benissimo condotta da un esercito regolare, e che l'aspetto essenziale di questo tipo di guerra non va ricercato nella natura dello scopo politico (che può essere il più vario) ma nel grado di compattezza della reazione del popolo armato, nella sua persistenza e nella presenza ed efficacia degli aiuti sui quali può contare; perciò egli chiama «guerre d'opinione», sull'esempio troppo esclusivo delle guerre della Rivoluzione Francese, quel1e che non sono state che guerre tra eserciti. Infatti - rimanendo sempre e solo dalla parte di un esercito straniero invasore - egli afferma che guerre «d' opinione » e «nazionali» differiscono per un aspetto fondamentale: mentre nelle guerre nazionali si tratta di occupare e sottomettere il paese, assediare e espugnare le piazzeforti, distruggere l'esercito, assoggettare tutte le province, nelle guerre d'opinione «occorre avere mezzi sufficienti per andare dritto allo scopo, senza lasciarsi fuorviare da questioni di dettaglio, e preoccupandosi soprattutto di evitare ciò che potrebbe allarmare la nazione [invasa] sulla sua indipendenza e sull' integrità del suo tenitorio» [evidente, in queste parole, il modello dell' invasione francese della Spagna nel 1823 - N.d.a.]. Come se l'impresa del duca d' Angoulème, pur riuscita, potesse fare scuola... Un altro exemplum del quale Jomini dà un' interpretazione parziale e distorta è la guerra di Vandea, da lui considerata non una guerra di popolo o guerriglia, ma anch'essa una guerra d'opinione, terribile perché «l' esercito invasore deve far fronte non solamente alle forze militari ma a delle masse esasperate». Una guerra che, a suo giudizio, è stata vinta dalle forze della Rivoluzione Francese, semplicemente perché disponevano di tutte le risorse della forza pubblica, delle truppe, degli arsenali ecc... Insomma, tra concetti contorti e tautologie come quest'ultima, Jomini dice ben poco di nuovo e di originale sull'argomento. Riconosce tuttavia anch'egli che le zone di montagna sono le più adatte alle forze della guerriglia, e che quest'ultime senza l'appoggio del1e forze regolari, sono presto o tardi costrette a cedere (come è avvenuto in Vandea e in Tirolo). 15 D'altro canto afferma, ancor più pessimisticamente di Clausewitz, che «nessun esercito, per quanto agguerrito, potrebbe lottare con successo contro un siffatto sistema [quello della guerriglia - N.d.a.] applicato a un grande popolo, a meno che esso possa avere delle forze talmente formidabili da poter saldamente occupare le comunicazioni, e disporre ancora di una sufficiente quantità di truppe per battere il nemico ovunque esso si presenti». 15
ivi, Voi. ll, pp. 382-183.
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Ancora una volta capovolgendo l'ottica clausewitziana, egli si preoccupa non tanto de] miglior modo di utilizzare la guerra di popolo a pro deHa propria Nazione, ma del miglior modo di combatterla e del miglior modo di evitarla. Dimenticando di aver affermato poche righe prima che un esercito regolare non può vincere contro un grande popolo che ricorre alla guerriglia (dunque: l' exemplum spagnolo o russo potrebbe ripetersi), egli indica i rimedi, che - è un suo merito - sono anche politici: i mezzi per ottenere buoni risultati [rèussir: quindi, cosa diversa da vincere... - N.d.a.] in una siffatta guerra sono assai difficili: essere in grado di mettere subito in campo una massa di forze proporzionate alla resistenza e agli ostacoli che si deve incontrare; calmare le passioni popolari con tutti i mezzi possibili; usarli tempestivamente; ricorrere a una sapiente mescolanza di astuzia, di moderazione e di severità, e soprattutto a una grande giustizia; questi sono i primi elementi del successo.
Come evitare questo spettacolo che (per Jomini) «ha qualcosa di grande e generoso che merita l'ammirazione, ma che nell'interesse dell'umanità è auspicabile non vedere mai?». A tal proposito, non si può dimenticare che egli si rivela politicamente un moderato filomonarchico, e trattando delle «guerre d' opinione» scrive che senza i rovesci di Dumouriez e la minaccia di invasione della Francia non si sarebbe osato «portare una mano sacrilega sul debole ma venerabile Luigi XVI», a Parigi i Girondini non sarebbero stati mai schiacciati dai Montagnardi e «l'Assemblea Nazionale, invece di lasciare il posto alla Convenzione, avrebbe a poco a poco restaurato le buone dottrine monarchiche moderate, secondo i bisogni e i costumi immemorabili della Francia)). 16 Ma dove Jomini dice le cose più originali, che al tempo stesso dimostrano il suo errato concetto di guerra «nazionale», il suo conservatorismo e la sua sostanziale miopia strategica, è a proposito degli ordinamenti futuri, per i quali egli si chiede significativamente: « vi è il modo di fronteggiare un' aggressione senza ricorrere alla leva in massa e alla guerra di sterminio? esiste una via di mezzo tra queste lotte di popolo e le guerre del passato condotte escJusivamente dagli eserciti permanenti?». Così anche la leva in massa, come la guerra di popolo, diventa per Jomini solo un male da scongiurare, non un rinvigorimento della guerra (Clausewitz) ma il suo incrudelimento ...
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ivi, Voi. I, p. 66.
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Per rispondere a questi interrogativi, Jomini confronta anzitutto le tesi di coloro che indicano la guerra di popolo come l'unica da preparare per il futuro, in modo da rendere le guerre sempre più rare e le conquiste sempre più difficili e tali da fornire meno occasioni a generali ambizioni. Questo ragionamento, egli osserva, è più tendenzioso che giusto, perché «per ammetterne tutte le conseguenze occorrerebbe sempre essere in grado di istillare nella popolazione la volontà di correre alle armi, e inoltre bisognerebbe essere sicuri che per il futuro vi saranno solo deJle guerre di conquista, e che tutte quelle guerre legittime ma limitate (secondaires) che hanno solo lo scopo di mantenere l'equilibrio politico o di difendere degli interessi nazionali, fossero bandite per sempre». Se ad esempio - egli si chiede - 100.000 tedeschi passassero il Reno ed entrassero in Francia con l'obiettivo primario di opporsi alla conquista del Belgio da parte di quest'ultima potenza, si dovrebbe forse proclamare la leva in massa per tutta la popolazione della Alsazia, della Lorena, dello Champagne, della Borgogna, uomini, donne e bambini ? si dovrebbe forse fare di ciascuna città murata una seconda Saragozza? si dovrebbe portare l'assassinio, il saccheggio e l'incendio in tutto il paese? Interrogativi legittimi questi, ma la risposta di Jomini è estremamente riduttiva: il massimo che egli in questo caso può concedere, è la difesa del Paese da parte di 50.000 uomini dell'esercito pennanente, rafforzati dalla Guardia Nazionale dell'Est, che avrebbero buon gioco [ma chi lo può dire? - N.d.a.] contro le forze nemiche costrette a passare i Vosgi lasciando dietro di sé numerosi distaccamenti. Più in generale, per ben difendere un paese secondo Jornini è sufficiente «organizzare delle milizie o Landwher, che, rivestite dell'uniforme e chiamate dal governo a intervenire nella lotta, disciplinassero e regolassero altresì la parte che le popolazioni dovrebbero prendere nelle ostilità, senza metterle per intero al di fuori del diritto delle genti, e ponessero dei giusti limiti alla guerra di sterminio». Più che la vittoria, a Jomini interessa dunque trovare il «giusto mezzo» tra due mali estremi: per lui non vale il motto «mali estremi, rimedi estremi» al quale si ispirano Clausewitz e i suoi maestri Schamhorst e Gneisenau. E' sufficiente - egli afferma - preparare «delle buone riserve nazionali» per l'esercito: questo sistema offre il vantaggio di diminuire gli oneri militari in tempo di pace, e di assicurare la difesa del paese in caso di guerra. Esso non è cosa diversa da quello impiegato dalla Francia nel 1792, imitato dall'Austria nel 1809, e dall'intera Germania nel 1813. Dopo di questo, io non dovrei attendermi gli attacchi immotivati che ho subito ...
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1n tal modo, Jomini sembra trascurare il carattere di mobilitazione popolare, di leva militare in massa e di guerra totale già assunto dal1e guerre de11a Rivoluzione Francese, per ricondurne gli ammaestramenti entro modestissimi limiti: in caso di guerra, basta rafforzare - il meno possibile s'intende - l'esercito permanente con buone riserve, e tutto finisce ll. Con questa soluzione tanto logica, Jomini ritorna semplicemente a concezioni pre-illuministe, respingendo anche la formula della «nazione armata» e dell'«esercito di milizia», basata sulla riduzione dell'esercito permanente ai minimi termini in tempo di pace, e sull'accorrere in massa dei cittadini alle armi, solo quando sia necessario difendere il territorio nazionale. A questo punto, siamo finalmente in grado di fare un pò di chiarezza nel lessico su11a guerriglia. Con essa certamente non ha nulla a che fare né la formula di Jomini, né quella della nazione armata e dell'esercito di milizia suggerita da Filangieri. Pur non escludendo il ricorso parziale o temporaneo alla guerriglia (avvenuto, ad esempio, nella guerra d'indipendenza degli Stati Uniti), la formula della «nazione armata» tende a vestire improvvisamente le masse di una divisa e a ricondurle - anche dal punto di vista dei procedimenti d'azione o della struttura gerarchica - alla guerra classica tra eserciti, che potremmo definire anche «convenzionale». Che cosa ha fatto Giorgio Washington, se non fare di masse di combattenti improvvisati qualcosa che si avvicinava il più possibile ai moduli ordinativi e strategici europei del tempo? se non fare della sua strategia qualcosa il più possibile simile a quella di Wellington, se non di Napoleone? solo le sue formazioni tattiche non potevano essere quelle degli eserciti addestrati.. .. Anche le guerre condotte da eserciti nati dalla nazione armata - come quella d'indipendenza degli Stati Uniti o le stesse guerre della Rivoluzione Francese - sono «nazionali», anzi esse sono ancor più nazionali delle guerre condotte con il sistema della guerriglia, che potrebbero anche essere «interne», civili, ecc.: quando si vuol parlare di guerriglia va quindi usato con cautela e caso per caso il termine di Jomini «guerre nazionali», e insieme ad esso, vanno decisamente bandite le classificazioni di Jomini in guerre d'opinione, guerre civili ecc. che ai fini di questa specifica indagine confondono solo le idee. Ormai obsoleto e fuorviante anche il termine «piccola guerra», che ha sempre indicato una guerra condotta da speciali aliquote degli eserciti (partis in francese; partidas in spagnolo) a pro degli eserciti stessi, sia pure con procedimenti particolari e più liberi, personale scelto e volontario e Capi ai quali veniva concessa larga autonomia. A questo punto, si è costretti ad accettare i termini guerra partigia-
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na e guerriglia solo perché ormai entrati, specie dopo il 1945, nel1'uso comune: ma bisogna ben ricordare che essi sono termini fino al1a seconda metà del secolo XIX escl(Jsivamente militari e antecedenti alla Rivoluzione Francese e alla guerra di Spagna 1808-18 I 3. Guerra partigiana era, appunto guerra condotta dai partiti, che in sostanza erano delle parti, dei distaccamenti dell'esercito; guerrilla era, in origine, un reparto di tiratori scelti, di fanteria leggera che agiva al di fuori delle normali ordinanze della fanteria. Naturalmente, come spesso è accaduto nella storia il termine guerrilla ha poi indicato, oltre che il reparto, le sue modalità d' azione. In fondo, lo stesso concetto - traslato - di piccola guerra è stato assorbito da questi due termini: dopo tutto, non è escluso che alla guerra partigiana partecipino sotto varie forme dei militari, oltre che dei civili, e non è escluso che alla stessa guerra partigiana ricorra un esercito o quel che ne resta. In fondo può ancora valere, per essa, ciò che ha detto il generale Von Valentini della piccola guerra: «io comprendo sotto la denominazione di piccola guerra, tutte le operazioni militari [nostra sottolineatura - N.d.a.] che hanno lo scopo di favorire o assecondare quelle di un esercito o di un corpo d 'esercito, senza essere direttamente connesse con la conquista o la difesa di un paese. La sicurezza o, per così dire, la salvaguardia del corpo principale dell'esercito, e qualsiasi tipo di operazione nel quale si cerca solamente di nuocere al nemico, ecco in sostanza l'obiettivo della piccola guerra». Si potrebbe obiettare che siffatti procedimenti d'azione, oltre ad essere esclusivamente riferiti alla guerra tra due eserciti contrapposti e non tra un esercito e un popolo, presuppongono pur sempre una sudditanza delle forze della guerriglia rispetto al grosso dell'esercito. Noi rispondiamo che la traslazione è avvenuta non solo al momento in cui la guerriglia è diventata, come in Spagna, una faccenda riguardante prevalentemente o esclusivamente civili armati, ma anche quando le formazioni guerrigliere hanno acquistato non solo una larga autonomia fino a diventare forze para11ele, ma una capacità sostitutiva almeno parziale. Tutti gli autori prima esaminati, compresi Clausewitz e La Miére, riconoscono che, in linea generale, senza il concorso di forze regolari la guerriglia è destinata a spegnersi. Ma, al tempo stesso, rendendola un'altra protagonista della guerra accanto alle forze regolari, Clausewitz, La Mière e lo stesso Jomini le riconoscono un ruolo anche strategico e di sostituzione almeno parziale. Tale ruolo è particolarmente nitido in Clausewitz, la cui interpretazione splende ancora per la sua piena attualità. Lo stesso termine da lui usato - armamento del popolo o guerra di popolo - meglio di tutti gli altri rende l'idea di lotta con-
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dotta non dal solo esercito ma anche dell'intero popolo armato (senza distinzioni di classe), che quindi a fianco dell'esercito nazionale o in sua almeno parziale sostituzione esercita, senza schemi e regole fisse o remore umanitarie, la violenza bellica nei riguardi dell'avversario. Alle formazioni irregolari - è proprio questa la vera ragione de11a loro forza - non si applicano i normali canoni strategici, tattici e ordinativi adottati per la guerra tra contrapposti eserciti, che invece l'esercito nemico è costretto a mantenere almeno in parte; tuttavia, in mancanza di meglio, esse riescono ad ottenere notevoli risultati anche in campo strategico, con una azione caratterizzata da una difensiva strategica ma dal rifiuto della difensiva tattica, che sarebbe suicidio. Per ultimo, tali formazioni non sono mai state composte esclusivamente da contadini o proletari, ma hanno riprodotto l'intera struttura sociale, almeno a grandi linee. V'è peraltro da prendere atto che, oggi, il termine gue rra di popolo ha un significato distorto: esso indica più che altro «guerra totale», guerra alla quale partecipa tutta la nazione e non solo un grosso esercito, però non necessariamente ricorrendo alla guerriglia o ricorrendovi in misura varia e limitata: la nazione si limita a produrre armi e a fornire uomini, magari subendo la violenza bellica nemica. Invece a nessuna guerra, come quella di Spagna 1808-1813 o quella di Jugoslavia 1941-1945, si attaglia un termine, nel quale la violenza beJlica attiva diventa veramente capillare e riguarda, senza distinzione di sesso, età e condizione sociale, appunto tutto un popolo, coinvolto non solo come soggetto passivo della violenza ma anche come soggetto attivo. Le teorie di Jomini, rispetto alle quali quelle di Clausewitz sono di ben altro rigore logico, sono tuttavia importanti - come e più quelle del generale prussiano - per una cosa sola: esse rimangono l'esempio più luminoso non solo dei differenti parametri che ispirano Jomini rispetto a Clausewitz, ma soprattutto del modo di interpretare gli eventi militari e gli ammaestramenti che ne derivano per l'avvenire, secondo pregiudiziali politiche e ideologiche e secondo desideri e speranze utopistiche, basati non sulla necessità di ricercare la via mi1itare di volta in volta migliore per evitare che la guerra superi certi limiti per qualche ragione indesiderati. Come se la pace, la guerra e il modo di combatterla potessero essere soggette a unilaterali e aprioristici caJcoli di convenienza, a pregiudiziali politico-sociali o a regole umanitarie sulle quali trovare l'assenso perpetuo dei contendenti, senza tener conto dello scontro di opposte volontà e di passioni, e della regola elementare che ciò che va bene al nemico, non va bene per noi (e viceversa).
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SEZIONE II - La guerra partigiana e il suo ruolo nel pensiero politico-militare italiano
Piccola guerra e guerriglia nei primi studi italiani del secolo XTX e nella lessicografia Solo se ci riferiamo al quadro europeo prima tracciato, è possibile stabilire i reali caratteri e l'effettiva originalità del pensiero italiano. Franco Della Peruta indica come «il primo scritto italiano nel quale si affronta il tema della guerra per bande» un articolo sul periodico La Minerva Napoletana apparso il 10 febbraio 1821, durante la breve vita del governo costituzionale napoletano soffocato di lì a poco - con sconcertante facilità - dall'intervento militare austriaco.17 Scorrendo il lavoro, senz'altro pregevole come sintesi dei procedimenti d'azione della guerra per bande e della condotta che devono tenere i capi delle bande stesse, si nota, anzitutto, che secondo l'ignoto autore ( un ufficiale napoletano che ha combattuto in Spagna) lo sbocco della guerra per bande è pur sempre la guerra d'indipendenza nazionale, nella quale ai guerriglieri si affianca l'esercito regolare. Certo, di fronte a un'invasione straniera «invan si direbbe che dee lasciarsi alle armate tutta la cura della guerra: questo sarebbe lo stesso del dire che confidando la sicurezza individuale alle cure della polizia e della gendarmeria, si dovesse ognun guardare di respingere il ladro che, avendo ingannato e forzato gli agenti delle autorità, venisse ad attaccarlo nel suo domicilio». Certo, si ammonisce che «l'armata deve dipendere dallo Stato e non questo da quella»: ma si afferma anche chiaramente che la guerra per bande ha un ruolo, per così dire, propedeutico e corrispondente a una certa fase della lotta contro l'invasore, visto che lo scrittore [ ...] passa in seguito a discorrere la guerra d'indipendenza nazionale sostenuta da un' armata. La sollevazione in massa, egli dice, d'una intera provincia, la formazione d'un governo, e la creazione di un'armata hanno luogo facilmente quando il patriottismo reso ardito, e concitato dalle bande non è più compresso dalla parte del nemico che è arrestato e come bloccato in tutte le sue guarnigioni.
Non basta: una volta costituito un esercito «la guerra di bande prende un carattere diverso, e le operazioni saranno di un genere più elevato. 17
F. Della Peruta, A colpi di guerriglia, «Storia Illustrata» settembre 1986, pp. 7984. L'articolo sulla «Minerva» è stato riprodotto in E. Liberti, Op. cii. , pp. 375-385.
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Le guerrillas diverranno allora truppe leggere per ecce1lenza: i loro movimenti saranno da un lato più facili perché sostenuti da un'armata, e dall'altro più difficili perché debbonsi legare alle operazioni di questa». In una parola: le formazioni della guerriglia in questa fase non faranno, né più né meno, che la piccola guerra già teorizzata nel secolo XVIII. - \Jn secondo aspetto da notare è la varietà dei termini con i quali l'autore indica la guerriglia: in aggiunta al tennine guerrillas egli usa guerra di parteggiani, guerra di parte (che deve farsi a morte, cioè senza vincoli e remore umanitarie), guerra di bande. Se ne deduce che i significati traslati di partigiani, parti, guerrillas ecc., composti e comandati (almeno in parte) da volontari civili e non da militari, sono già cosa fatta all'inizio del secolo XIX. Infine, nell'articolo in questione si accenna alla rivolta antifrancese nelle Calabrie del 1806-1807 come exemplum di guerra popolare istintiva, naturale e sottratta a ogni teoria o piano, di una guerra, cioè, che come riconosce l'autore è meglio condurre «dietro i propri lumi», piuttosto che «colla scorta di opere elaborate». E aggiunge: «dalla qual cosa ne fa piena testimonianza fra le altre la opera di un militare che ha guerreggiato colà, non ha guarì stampata a Parigi». Guglielmo Pepe in quel momento si trovava a Napoli, ma nessuno come lui ha esaltato come caso esemplare (vds. capitolo Xlll) la rivolta delle Calabrie, che ha personalmente combattuto dalla parte francese; e, come carbonaro, egli aveva senz' altro contatti con Parigi ... Non pare dunque da escludere l'ipotesi che peraltro solo tale rimane - che il Pepe sia l'autore del non meglio noto studio pubblicato a Parigi, e anche l'autore de1l'articolo pubblicato sulla Minerva Napoletana ... L'articolo sulla Minerva, per altro verso, non dice nulla di nuovo né rispetto a quanto già pubblicato all'estero, né rispetto a quanto già pubblicato in Italia. Forse per ragioni opposte all'approccio di parte di Jomini, si è finora spesso ignorato o travisato quanto banno prima scritto in merito alla guerriglia Carlo Botta nella sua Storia della guerra d 'Indipendenza degli Stati Uniti (1809) e soprattutto Cesare Balbo nei suoi Studi sulla guerra d'indipendenza di Spagna e Portogallo del 18171818. E' ben noto che la guerra di indipendenza degli Stati Uniti si riassume nei tentativi non sempre riusciti di Washington, e del suo valido aiutante e consulente prussiano generale Von Steuben, di far assumere la veste di una guerra fra eserciti regolari, a una guerra che spesso - date le forme di reclutamento americane, le istituzioni politiche del nuovo Stato federale indipendente e la conformazione geografica e gli spazi enormi del paese - non era e non poteva essere che una guerra di popolo, con-
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dotta cioè con formazioni improvvisate da un ·popolo di coloni armati come nella visione clausewitziana, visto che la loro azione consisteva in un «sussidio naturale prima di dare una battaglia decisiva». Questo semplice fatto è assai ben descritto dal Botta, e poco importa se egli - come del resto l'autore dell'articolo sulla Minerva - ritiene insostituibile un forte esercito nazionale operante secondo criteri tradizionali. Ad esempio, descrive l'azione dei coloni americani esasperati contro le forze del colonnello inglese Fergusson, che a capo di un contingente misto di truppe inglesi e di «lealisti» (cioè collaborazionisti) americani, nella Carolina del Nord si era reso responsabile di assassini e ruberie. Ebbene, i montanari esasperati da tanta barbarie calavano a stormo dalle montagne, quelle armi carpendo che la elezione, il caso e il furore paravano loro davanti [ ... ] si mettevano l'un l'altro alla colletta; presi a furia i primi uffiziali di milizia, che incontrarono, questi crearono a loro capi. Ciascuno portava un'arme, uno zaino, una coperta. Coricavansi sopra la nuda terra, sotto lo stellato cielo; all'acqua dei rivi si dissetavano; sfamavansi col bestiame che si facevano trottare dietro, o colle selvaggine che ammazzavano in mezzo alle foreste [ ... ] Cercavano per ogni dove, a tutti domandavano di Fergusson. Giuravano ad ogni passo di volerlo sterminare.
Lo scovarono su una collina, lo uccisero con gran parte delle sue truppe, e poi tornarono a casa. Non è forse questa un'azione partigiana, dove ciò che prevale è l'odio e la volontà indomita di ricercare e uccidere, con ogni mezzo, il nemico nel senso schrnittiano del termine, senza preoccupazioni di carattere strategico e scientifico o utilitaristico? Ancor più significative le valutazioni che il Botta attribuisce a Lord Cavendish, nelle quali - con tutta la buona volontà - non riusciamo a cogliere la visione riduttiva dell'importanza della guerra di popolo secondo taluni tipica degli scrittori e dei politici moderati, e al tempo stesso cogliamo molto bene i fattori specifici e irripetibili che favoriscono la lotta dei valorosi e liberi coloni americani: forti eserciti e poderose armate si voglion contro gli americani mandare; ma son essi in casa loro, circondati dagli amici, abbondanti di ogni cosa; gl'Inglesi lontanissimi, scarsi di vettovaglie, han per nemici gli uomini, i venti, il cielo. E quali ricchezze, quali tesori necessarj non saranno per procurare fin là ai soldati le provvisioni? Le selve impenetrabili, le montagne inaccessibili serviran nei casi sinistri d'asilo ove si ricoverino, di nido donde sbocchino di nuovo gli Ame_ricani_ Ma agl'Inglesi converrà vincere o morire
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od incontrar la vergogna, peggiore assai della morte, del fuggir alle navi. Gli Americani useranno le opportunità de' luoghi da essi soli conosciute per tribolar le genti britanniche, per mozzar le vie, per sorprendere le munizioni, per opprimer con fazioni improvvise gli stracorridori, per instancare, per consumare, per temporeggiare, per protrarre l'esito finale della guerra. Non si metteranno al rischio delle battaglie, esclamava l'oratore, ma ci piglieranno alla stracca, noi che lontani siamo a tremila miglia. Sarà loro facil cosa il riempir le compagnie, a noi impossibile. Sapranno usar le occasioni delle temporali superiorità per riportarne qualche rilevata vittoria, sicché i tardi soccorsi per mezzo dell'Atlantico non arriveranno in tempo. Eglino impareranno alla scuola nostra l'uso dell'armi e l'arti della guerra; e tal riscontro daranno di lor medesimi ai maestri loro che a questi ne increscerà grandemente. 18
D'altro canto, nelle grandi linee l'approccio alla guerriglia dell'autore della Minerva è pienamente compatibile con le tesi di Cesare Balbo nei suoi Studi sulla guerra di Spagna e Portogallo del 1817-1818, anche senza ]e successive note de] 1846 (vds. capitolo Xl). Meglio: 1e idee di Balbo alla luce dell'analisi di Clausewitz e di fronte ali' exemplum negativo dell' approccio jominiano, acquistano nuovo smalto. Balbo non nega affatto il ruolo della guerriglia: con una visione assai equilibrata ne fa semplicemente - anche negli studi successivi - uno dei fattori di successo (insieme al terreno, alla difesa delle città e ali' azione degli eserciti permanenti) della guerra. Egli ha anche il merito di essere l'unico a introdurre un modello strategico antinapoleonico e difensivo - controffensivo nel quale la guerriglia trova maggior respiro, perché è un importante, anzi insostituibile fattore di logoramento dell'esercito invasore. Infine, propone la guerra di Spagna - a tutt'oggi massima esaltazione del ruolo che può giocare la guerriglia - come modello strategico da studiare per i giovani ufficiali italiani a preferenza delle guerre napoleoniche e centro-europee, rifiutando ogni schematismo nella predisposizione e nell' impiego dei mezzi di lotta contro l'Austria: né il peso di ciascuno dei fattori - guerriglia, forze regolari ecc. - viene da lui determinato a priori, perché saranno gli eventi a designarlo. Che si vuole di più? Certo, egli afferma - come tutti - che la guerriglia (così come l'esercito regolare) non può fare da sola: ma non gli si può disconoscere il merito di averla inquadrato per primo - assai meglio e più a fondo dell'articolista della Minerva napoletana - in una prospet18 C. Botta, Storia della guerra d 'indipendenza degli Stati Uniti, Parma, Blanchon 1819, Voi. I, pp. 444-446 e Voi. II. p. 194.
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tiva strategica. L'articolista deJla Minerva conserva invece il merito di aver ben approfondito gli aspetti tattici, ordinativi, logistici ecc. dell'azione delle bande, aspetti che peraltro, al di là dello status militare o civile dei componenti, si trovavano tutti nella vasta pubblicistica europea di fine secolo XVIII, a cominciare dall' Enciclopedie Française. Il mancato approfondimento delle modalità tattiche del1a guerriglia, riconosciuto dallo stesso Balbo nel commento del 1846, è in fondo una lacuna di non grande portata: perché - come riconosce lo stesso articolista della Minerva - si tratta di materia dove poco vale la teoria, sicché «fu naturale scrive Balbo - che il giovin scrillore saltasse di piè pari siffatto argomento militare, perché, avendo poca pratica degli altri, ma potendo supplirvi forse con gli studii, ei non aveva niuna di questo, in cui poi niuno studio può supplire. Ad ognimodo, ora meno che mai, noi potremmo noi. E farà meglio, farà tutto, se mai occorre, l'ispirazione. Non è qualità di guerra, dov'ella venga e possa, come in questa». 19 Dopo il 1848 Balbo ritornerà sull'argomento, e ci riserviamo di dame conto nel Voi. Il. In conclusione, se proprio si deve parlare di primati non si può citare ex abrupto l'articolo sulla Minerva, ma - oltre a ricordare e inquadrare opportunamente i precedenti accenni del Botta e del Balbo - meriterebbe ricordare ad esempio L'opuscolo militare riguardante i casi più particolari, a cui è soggetto un subalterno nella piccola guerra, e in cui dee porre in uso qualche opera di fortificazione passeggera, pubblicato a Napoli nel 1804, con un'introduzione nella quale già compaiono le nuove dimensioni della piccola guerra: nelle ultime guerre d'Europa - vi si afferma - «un nuovo modo di combattere vi si è osservato, in cui riducesi il forte della guerra stessa [cioè il nocciolo, i1 fondamento - N.d.a.], piuttosto ad operazioni continue di cacciatori che ad azioni generali, e a giornate campali». 20 Non è poco, visto che la guerra di Spagna, archetipo obbUgato, doveva ancora cominciare. E ancor prima dell'articolo sulla Minerva, Giuseppe Grassi nella prima edizione del suo dizionario (1817) dice molte cose della guerra partigiana, identificandola con la guerra di montagna, citando Montecuccol i e parafrasando l'interpretazione che ne dà il Foscolo. Egli la distingue dalla guerra campale, nella quale «si stabilisce la base delle operazioni, quindi si cerca di rompere quel1a dell'inimico, o di interrompergli la sua linea di comunicazione colla base; né si ottiene questo fine senza presentar battaglia». Invece, la guerra di montagna
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C. Balbo, Scritti militari (Cit.), p. 147. Nella sua Bibliografia Militare Italiana, il d' Ayala cita gli Opuscoli militari sulla piccola guerra, Napoli, De Dominicis 1804: probabilmente si riferisce alla stessa opera. 20
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differisce dalla campale in questo, che non ha per fine principale la battaglia, ma quello di sostenere l'inimico, e di stancheggiarlo. E' guerra ardua, dice Ugo Foscolo, commentatore di Montecuccoli, piena di pazienza, di consigli, e di stratagemmi, praticata felicemente dà Romani, e dà Greci con pochi armati contro migliaja di barbari. La Natura diede ali' Italia monti, gioghi, valli interrotte da fiumi, e stretti inaccessibili; diede agli Italiani corpo sofferente, anima ostinata ed ingegno acuto. Non mancano più le istituzioni, e gli studj guerrieri; e però se mancherà l'amore di patria, le nostre sciagure saranno colpa nostra, e nostra infamia.
Appare chiaro, da queste note, che ciò che il Grassi chiama eufemisticamente - forse per ragioni di censura - guerra di montagna, è il modello di guerra che egli indica per gli italiani, il più adatto al loro terreno; esso somiglia alla guerra partigiana più che alla petite guerre, termine francese che il Grassi traduce in guerricciola, definendola «guerra di scaramucce, di truppe leggere. Piccola guerra», così come il suo sinonimo guerra guerriata ( «guerra de postes, guerre de chicane») «vale guerra fatta con scaramucce, e stratagemmi». Completamente ignorate dalla pubblicistica italiana sulla guerriglia sono anche le voci partita e partitante che nell'edizione 1833 del suo dizionario il Grassi così definisce: - partita «(frane. parti). Un corpo di soldati che guerreggia in modo irregolare, e separato affatto dall'esercito reale, tentando i fianchi e le spalle del nemico, facendo scorrerie, sorprese, ruberie improvvise ecc.» [seguono citazioni di frasi del Montecuccoli e dell' Algarotti- N.d.a.); - partitante «(in francese partisan). Soldato di partita; che guerreggia nelle partite; e talvolta il condottiere o il capo della partita. E' voce d' uso in Italia fin dal secolo XVIII; alcuni scrissero anche Partigiano, ma senza sufficiente autorità.
Lo stesso Grassi cita il dizionario militare del Soliani - Raschini, (metà secolo XVill), secondo il quale «partigiano, o come più comunemente si dice partitante, è colui che è capo di partita». Da notare, infine, che più o meno come il soldato partigiano (nel senso originario del termine) agisce il cacciatore, soldato di fanteria leggera (vds. lo stesso Grassi) che in guerra imita il cacciatore e porta il fucile più corto e 1' equipaggiamento più leggero della fanteria. Fin dal secolo XVII è scelto tra gli archibugieri più agili e più abili sia nel tiro che nella corsa, «per attaccare le scaramucce, fare aguati e scoperte, spiar le mosse del nemico, stancheggiarlo e molestarlo».
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Nell'edizione 1833 del dizionario del Grassi stranamente spariscono (forse per opera degli Accademici delle scienze revisori del dizionario vds. capitolo IV) le pertinenti considerazioni sul modello della guerra di montagna per gJi italiani, ma in compenso si trovano parecchi sinonimi di piccola guerra: oltre a guerra guerriata o guerreggiata, anche guerra minuta, guerra sparsa, guerra di trattenimento. Guerra minuta: «(in frane. Petite guerre). Un combattere senza ordinanza e alla spicciolata, che si fa per lo più nei paesi di montagna, ove poca gente difesa dal sito e vantaggiata dalle eminenze, molestando da ogni banda e con tiri accertati il nemico, gli contende gran tempo il passo». Guerra guerreggiata o guerriata: «in frane. petite guerra. Guerra di scaramucce, di partite, di squadriglie, nella quale si fuggono le battaglie campali». Guerra di trattenimento: «In frane. guerre de chicane; guerre de postes. Guerra nella quale a cagione della debolezza delle forze si cerca con ogni .industria di non venir a battaglia, e si va stancheggiando e trattenendo il nemico». Guerra sparsa: «quella nella quale una della parti guerreggianti evitando di venire a battaglia giusta, allarga i suoi ordini e sparge le sue milizie tutto intorno al nemico, assaltandolo e molestandolo ad un tempo in più luoghi, senza esporsi mai al paragone delle armi ordinate». Va riconosciuto al Grassi anche il merito di aver ben definito il termine bande, usato dal La Mière per indicare le formazioni della guerriglia. Questo termine è al tempo anch'esso eminentemente militare e non ha il significato dispiegativo o illegale poi assunto a partire dalla seconda metà del secolo XIX, che continua anche oggi (ad esempio: reato di banda armata). Ancora un volta, banda in origine indica sia un reparto sia la sua insegna (di qui la bandera nazionalista spagnola 1936-1939): Banda « I. In frane. Écharpe. Striscia di drappo di colore detenninato, colla quale distinguevasi le Inilizie d'uno Stato da quelle d' un altro, prima che si adoperassero altre divise. L'origine della voce è nel teutonico Band d'onde Bandiera. 2. Dal primo significato della voce derivò poscia quello d'una Mano [cioè reparto - N.d.a.] di soldati distinti dalla stessa banda, qualunque ne fosse il numero. Di qui il verbo sbandare. In frane. Bande. 3. Una mano di soldati separata dal grosso del corpo, e che opera da sé. In frane. Détachement. 4. Chiamavasi militarmente Bande e Vecchie Bande le soldatesche scelte e agguerrite. In frane. Bandes 5. Bande chiamansi in Toscana le Milizie paesane descritte [cioè arruolate - N.d.a.] pel servigio pubblico ...
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In merito il Grassi cita anche il Botta, il quale scrive che le truppe inglesi «volevano ad ogni modo con qualche bel tratto mostrare la superiorità loro sopra le bande raunaticcie degli Americani non essere una vana credenza». Se ne deduce che quando nel citato articolo della Minerva napoletana si parla di guerra di parte e si chiamano bande le formazioni guerrigliere ( «la guerra di parte si accende con una moltitudine di piccole bande di 10 o 20 uomini delle quali si inonda il paese occupato dal nemico») si prende come riferimento il già ben noto e ben chiaro significato militare di questi vocaboli, e in particolare si intende esaltare l'autonomia, il carattere volontaristico, la composizione, il sistema gerarchico e i procedimenti d'azione estremamente variabili delle bande, che nella fattispecie differiscono dalle analoghe formazioni militari solo perché esse sono comandate e composte in prevalenza da civili. In esse si esalta, quindi, sia il significato di «milizie paesane», sia quello di «soldatesche scelte e agguerrite», sia quello di piccolo reparto separato dal grosso, che opera autonomamente. Un altro nome finora completamente ignorato in Italia è Giuseppe Ballerini, che nel suo dizionario ( 1824 - vds. capitolo V) ben riassume il meglio che fino a quel momento è stato detto anche all'estero a proposito di partita e piccola guerra (o guerra in dettaglio). Come già si è visto al capitolo IX, nel definire il significato di quest'ultimo tennine egli afferma, tra l'altro, che «la scienza della piccola guerra è necessarissima a un generale. Non v'è cosa che distrugga tanto e più facilmente un'armata, che la continua perdita di uomini, e provvisioni». Non è dunque la stessa premessa dalla quale muovono i teorici della guerriglia di ogni tempo? Da notare anche quel che dice il Ballerini su11a guerra civile: «Questa è sempre pericolosa per chi la sostiene, e distruttiva per il proprio paese: ordinariamente non sono che la fomentano, che que' che nulla posseggono, e niente hanno a rischiare, per cui desiderano essi un rovescio o un cambiamento qualunque, per migliorare la loro sorte, e la loro condizione; ma per lo più i promotori di essa rimangono sempre vittime ne' disordini della stessa». Al capitolo IX abbiamo già citato anche l'opera sulle truppe leggere (183 l) di un altro ufficiale italiano, il tenente napoletano Pompeo Quarto, il quale - come fa Olimpiade Racani nel 1847 - ben descrive i vantaggi e i pericoli della piccola guerra traendoli dalle celebri «Istruzioni» di Federico II. E altri si potrebbero aggiungere; insomma tutto si può dire, meno che negli eserciti del tempo, e anche in Italia, la problematica della piccola guerra - che in pratica coincide, in gran parte, con quella
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della guerriglia - sia stata trascurata; lo stesso Federico II se ne occupa nelle sue istruzioni ai generali ... La vera sorpresa - e il vero carattere - della guerra d'indipendenza spagnola de11808-18l3 non vanno ricercati nelle modalità tattiche e minute seguite dalle guerrillas, e nemmeno nella insurrezione popolare in sé, ché a1tri numerosi precedenti vi erano nella storia: ma piuttosto nella compattezza dell'insurrezione, nel1a sua estensione, nella sua intensità e barbarie e nel1a micidiale combinazione - anch'essa assai rara - tra insurrezione e difesa del1e città e guerriglia estesa nelle campagne. In Spagna, cioè, le dimensioni e la profondità del fenomeno raggiungono proporzioni inusitate e irripetibili, fino a mettere in ombra il fatto non trascurabile che a fianco delle guerriglia combattevano pur sempre il meglio del1'esercito inglese e la Royal Navy dominatrice di mari. Per rimanere nel campo della lessicografica, va qui ricordata un'opera immeritatamente non citata dal Del Negro,2 1 il Dizionario militare francese-italiano di Mariano d' Ayala ( 1841 - vds. capitoli IV e V). In questa occasione, l'autore da buon purista riprende largamente il Grassi indicando i1 significato italiano dei termini francesi petite guerre e partisan. Alla voce petite, in particolare, la petite guerre viene definita «guerra guerreggiata, guerriata ovvero minuta. Combattere alla spicciolala e senza ordinanza, che fassi per lo più nei paesi di montagna. E' pretto francesismo tradurre piccola guerra». Una definizione più completa si trova alla voce guerre, dove la petite guerre viene resa così: «guerra guerreggiata o guerriata. La quale maniera non pure dal Villani ma di mille altri autori militari con leggerezza si condanna, e perché? Perché è una sgraziata cacofonia. Pure i1 Grassi medesimo usa guerra di scaramucce. Ma i letterati italiani hanno approvato siffatto 1avoro ed i giovinetti tengono per fermo che seguendone rigorosamente i dettati essi saranno per iscriver bene il tecnico linguaggio militare d'Italia. Felici giovanetti che sbagliano co' letterati italiani, comechè non gustino le peregrine pretensioni». Respingendo, dunque, il termine piccola guerra che è traduzione letterale dal francese petite guerre, il d' Ayala ne accentua l' importanza: e le traduzioni etimologicamente discutibili che propone, hanno almeno il pregio di respingere la frequente tendenza a fare della piccola guerra un complesso di operazioni militari sussidiarie e secondarie rispetto a quelle dell'esercito rego1are, ampliandone invece la portata, l'autonomia e l'estensione e mettendo in evidenza il carattere di logoramento, irrego-
21 P. Del Negro, Guerra partigiana e guerra di popolo nel Risorgimento, in «Memorie Storiche Militari» 1981, Roma, SME - Uf. Storico 1982. pp. 61 -84.
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lare e capillare che hanno le operazioni di guerriglia. Di più: altro aspetto che sfugge completamente al Del Negro, il d ' Ayala nel 1854 trattando della ripartizione dell'arte della guerra è stato il primo in Italia a sostenere che la strategia va distinta in «I O strategia dell'esercito di soldati, 2° strategia dell'esercito di nazione», con ciò riconoscendo a quest'ultima forma di guerra un ruolo paritario e potenzialmente alternativo rispetto alla prima.22 Nello stesso dizionario del 1841, iJ d' Ayala indica i significati di partisan e di chef de guerrillas. Il partisan viene definito «partitante, partigiano, condottiero. La seconda voce è senza sufficiente autorità». IJ chef de guerrillas è invece «condottiero. Capo di gente armata fuori dalJ' esercito principale». Il Dizionario delle voci guaste e nuove del 1853,23 unica opera del d' Ayala citata - peraltro in modo incompleto - dal Del Negro, è anche sotto l'aspetto considerato il lavoro meno importante del d' Ayala; esso va consultato unitamente al ben più impegnativo dizionario del 1841. Comunque, anche l'opera del 1853 contiene - se ben analizzata - elementi di rilievo. Ad esempio la voce partito, ignorata dal Del Negro, oltre che come partita (antico termine militare) vi viene resa come «banda, torma» e quindi può anche non essere composta da soldati. Infine, definendo il partitante «partigiano, fazioso, fazionante, condottiero» e aggiungendo che «la guerra di Spagna fu tutta «nostra sottolineatura N.d.a.] di partitanti (partigiani)», il d' Ayala in questa occasione porta a compimento le sue precedenti definizioni, nelle quali iJ Chef de guerrillas non necessariamente era un ufficiale. E' vero che il d' Ayala definisce banda come «frotta, truppa», iJ che potrebbe far supporre che considera tale termine come riferito pur sempre a reparti rnilitàri; ma alla voce brigantaggio mostra la sua apertura alle realtà del momento, seri vendo (in polemica coi legittimisti) che «qualche volta si è dato il nome di brigantaggio, alla turbolenza, rivoltura, sedizione, moto; perché le turbolenze, massime quando sono espressioni dè bisogni de' popoli, non sono opera di masnadieri e di ladri. Evvi intanto la parola brigante un significato d'intrigatore, d'un che briga, ma non mai per assassino, masnadiere, scherano, rubatore, ladrone». Dopo quanto abbiamo finora annotato, non appare chiaro su quali elementi si basa l'affermazione del Del Negro che «i dizionari mmtari italiani, compilati in base a criteri rigidamente puristici [...) accolsero con estrema difficoltà il campo semantico guerra partigiana-guerriglia 22 23
M. d ' Ayala, Bibliog rafia ... (Cit.), p. XXIII. Torino, Stab. Tip. Fontana 1853.
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ecc.». 24 Noi riteniamo di aver dimostrato a sufficienza il contrario; in quanto al purismo, non ci sembra una colpa, e comunque non è affatto vero che tutti i dizionari italiani erano puristi (vds. capitolo . IV). Oltre tutto, sarebbe un controsenso se proprio le opere di linguaggio militare prima citate, avessero avuto difficoltà a recepire dei termini la cui origine, oltre ad essere anteriore alla Rivoluzione Francese, era prettamente militare.
La guerra nazionale e per bande nel pensiero mazziniano del periodo
L'esame prima condotto serve a introdurre e inquadrare meglio il clou dell'argomento in esame, non solo nel XIX secolo ma anche nel XX secolo: i discussi e a volte travisati interfaccia militari della mazzinianesimo. Ci riferiamo, in particolare, sia agli specifici risvolti militari del pensiero di Giuseppe Mazzini (1831-1833), sia alle teorie di Carlo Bianco di Saint Jorioz ( 1830- I 833) che ne sono il parallelo raffittimento tecnico-militare e non un'anticipazione. Bisogna dedicare molta attenzione anche al quadro strategico di riferimento e, in esso, a11a presenza o assenza di forze regolari e al loro ruolo: per il resto, le descrizioni delle modalità tattiche della guerriglia, le doti che devono possedere i suoi Capi, l'armamento, l'equipaggiamento e la logistica, i necessari rapporti amichevoli con la popolazione e col contadino, lo sfruttamento accorto delle caratteristiche del terreno ecc. sono cose ampiamente acquisite - e quasi scontate - già allora. Esse in effetti attengono al campo della guerra istintiva e naturale, che non ha bisogno di teorizzazioni perché applica criteri elementari, dettati dal buon senso e simmetrici alle vulnerabilità delle forze regolari nemiche e di coloro che le appoggiano sul territorio. Gli aspetti militare del pensiero politico di Mazzini non possono essere scissi dall'amara esperienza dei moti del 1820-1821 e del I 83 I, che per Mazzini dimostrano due cose: a) l'inaffidabilità e insufficienza ai fini delle conquista della unità, libertà e indipendenza nazionale (trinomio indissolubile) delle élites politiche e militari espressa in larga parte dalla Carboneria; b) la conseguente scarsa convenienza di contare, per raggiungere i predetti obiettivi, sugli strumenti indicati dal Gioberti e dal Balbo, dalle correnti moderate e dalla stessa massoneria e carboneria fino ai moti del 1831: le forze militari permanenti e regolari dei vari Stati,
24
P. Del Negro.Art. cit .• p. 67 Nota 12.
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e in particolare quelle piemontesi e napoletane, e degli Stati creati dal Congresso di Vienna. Basti citare, in merito al suo rapporto con l'esercito, quanto egli scrive intorno alla situazione del 1831-1833 e ai suoi progetti di insurrezione in Piemonte: tentammo l'esercito. Trovammo gli alti ufficiali renitenti, i bassi vogliosi di mutamento e arrendevoli al concetto dell'Italia Una e Repubblicana. Riuscimmo a impiantare relazioni con quasi tutti i reggimenti [... ] Taluno fra i generali, pronti sempre a seguire chi vince - Gifflenga fra gli altri - promise cooperazione a patto che ci mostreremmo forti. Acquistammo in sostanza convincimento che l'esercito osteggerebbe o no a seconda del carattere che la prima mossa assumerebbe; e sarebbe in ogni modo tiepido nel resistere.25
Un altro dei fattori coadiuvanti su cui altri patrioti coevi - come il Balbo e il Pepe - fanno gran conto, e che il Mazzini decisamente respinge anche sulla base delle amare esperienze del suo movimento, è l'aiuto straniero o l'arma della diplomazia: non v'illudete a poter evitare la guerra, guerra inesorabile, feroce, dall'Austria; fate invece, quando vi sentirete forti, di provocarla; l'offensiva è la guerra delle rivoluzioni; assalendo, ispirerete paura al nemico, fiducia e ardore agli amici. Non abbiate speranza nei Governi stranieri: se mai potrete averne un aiuto non sarà se non a patto di convincerli prima che siete forti e capaci di vincer senza essi.26
Per il Mazzini non si può nemmeno fare affidamento, come elementi nazionali e unificanti, sulle monarchie e l'aristocrazia, che sono piuttosto le punte avanzate dell'influenza straniera e di coloro che in Europa hanno interesse a mantenere l'Italia divisa: l'Italia non ha elementi di Monarchia; non aristocrazia onorata e potente che possa piantarsi fra il trono e la Nazione; non dinastia di prìncipi italiani che comandi per lunghe glorie e importanti servizi resi allo sviluppo della Nazione ....27
In questo contesto, le scelte politiche - e anche strategiche e militari - di Mazzini più che tali, sono delle vie obbligate, e si riassumono nel 25
G. Mazzini, Note autobiografiche (a cura di R. Pertici), Milano, Bur 1986, p. 194. G. Mazzini, Scritti editi e inediti, Milano, G. Daelli 1861, Voi. I, p. 393. v ivi, Voi. I, p. 108. 26
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porre il popolo e la Nazione - nella quale il popolo nella sua accezione più larga si identifica - al centro di ogni futura intrapresa militare, che deve avere come fine uno Stato repubblicano e unitario con capitale Roma, l'unico a dare corpo all'idea di Nazione. Quest'ultima è intesa come «associazione di tutti gli uomini che per lingua, per condizioni geografiche, o per la parte assegnata loro dalla storia, formano un solo gruppo, riconoscono uno stesso principio e si avviano sotto la scorta di un diritto comune al conseguimento di un medesimo fine». Nasce da queste concezioni la forte avversione al federalismo, «la peste maggiore che possa, dopo il dominio straniero, piombare sull'Italia». Perciò, pur senza «un esagerato concentramento amministrativo che cancelli a beneficio di una metropoli e di un governo la libertà delle membra[ ... ] », l'organizzazione politica - e quindi anche militare - destinata a rappresentare la Nazione Italiana in Europa deve essere una e centrale: «senza unità di credenza e di patto sociale, senza unità di legislazione politica, civile e penale, senza unità di rappresentazione e di educazione non v'è Nazione». Alla base di questo concetto unitario, che peraltro non esclude ma postula larghe autonomie ai Comuni, vi sono ragioni di carattere militare, storico e geopolitico, che costituiscono un unico intreccio e presentano larghe analogie con le argomentazioni di Melchiorre Gioia - dal Mazzini esplicitamente citato - e di altri fautori di un forte Stato centrale come il Pepe, a cominciare dalla debolezza politica e militare delle Confederazioni e dall'improponibilità del modello federale americano (del quale anche il Mazzini intravede la futura crisi della guerra di secessione) e di quello svizzero, le cui peculiarità anche geografiche li rendono inapplicabili al caso italiano, dove i reali elementi di divisione da eliminare sono sempre stati gli inefficienti principati locali e gli interessi stranieri. 28 Per il Mazzini l'unità nazionale ha anche un preciso e indispensabile riscontro territoriale e geografico: «con la geografia si insegna l'unità italiana» e «senza libere e sicure frontiere non esiste nazione». Alla base del concetto di nazione vi è dunque il concetto - geopolitico più che etnico - di confine naturale che troviamo anche nel Durando, e che - assai prima del Ratzel - è inteso come limite che si appoggia a una barriera naturale. Tale limite non è inutile, artificioso e dannoso e non ostacola come taluni pensano oggi - la pace, la fraterna convivenza tra i popoli e i loro legami, ma, al contrario, ne è la premessa indispensabile non rispettata dal Congresso di Vienna: l' Europa come escì dalle conquiste e dai trattati dinastici non è l'Europa sulla quale il dito di Dio segnava coi grandi.fiumi e colle 28
ivi, Voi. III, pp. 193-270 .
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grandi linee di montagne la divisione del lavoro alle generazioni dei suoi abitanti. E finchè nol sia, la pace che tutti cerchiamo è sogno di menti illogiche [...] Le nazioni rappresentano le diverse facoltà umane chiamate a raggiungere associate, non confuse e sommerse l'una nell'altra, il fine comune e hanno eterno il diritto di vita propria [... ] L'Associazione dei popoli deve conoscere sovrano il principio: a ciascuno secondo la propria missione. [... ] Ad accertare dapprima la missione d'ogni Popolo, poi a dargli modo di compierla, è necessario consultare non i protocolli viennesi del 1815, o i titoli di conquista di un tempo barbaro, ma le condizioni geografiche, la lingua, le tradizioni storiche, le attitudini dei vari popoli.29
Il concetto di guerra di popolo del Mazzini ha dunque il territorio e i suoi confini naturali come riferimento e meta finale. E le sue istruzioni militari, oltre che finalizzate all'azione, acquistano spesso un respiro strategico e geostrategico che è diretta conseguenza di specifiche valutazioni politiche e geopolitiche: esse dunque non hanno carattere angustamente tattico. Interessanti considerazioni di carattere geopolitico compaiono ad esempio nei progetti insurrezionali del 1832-1833, sfociati nei tentativi abortiti del 1834 dove la sua ottica «settentrionale e piemonlese» è opposta a quella del Pepe (vds. capitolo XIII) e, sia pur con diversi mezzi e obiettivi, ha qualche affinità con quelle Gioberti, del Balbo e del Durando, almeno nella misura in cui considera il Piemonte e l'Italia del Nord come centro della lotta, e l'Italia Centrale e il Meridione come riserva e periferia: base dell'azione dovevano essere le province sarde. Forti di mezzi, d'armi ordinate, d'influenza morale e d'abitudini di disciplina, che avrebbero fruttato a qualunque riuscisse a impadronirsene, gli Stati Sardi avevano due punti strategici d'alta importanza, Alessandria e Genova; ed erano appunto quelli pei quali eravamo più potenti d' affiliazioni. Un moto del Centro, più agevole forse, non offriva appoggio di for7.,e reali e non avrebbe suscitato l'entusiasmo di tutta l'Italia. D'altra parte, io era certo che al primo annunzio de] moto, l'Austria avrebbe occupato, con l'assenso di Carlo Alberto, iJ Piemonte, e resa quindi impossibile ogni azione diretta e rapida sulla Lombardia, nella quale io aveva fin d ' allora fede grandissima. D ' un moto in Napoli [ ... ] non potevamo starci mallevadori. E inoltre, il convertire ciò che deve essere riserva in centro del moto,
29 M. Baratta, Giuseppe Mazzini e il confine orientale d'Italia, Roma - Novara, De Agostini 1919, pp. 3 e 7.
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non mi sembrava, checchè dicessero i militari, buona strategia di rivoluzione [ ...]. Una insurrezione nel Mezzogiorno non scemava uno solo dei pericoli che le insurrezioni- del Centro e del Settentrione avrebbero dovuto affrontare: un moto in Piemonte salvava invece dal primo urto dell'armi straniere Mezzogiorno e Centro ad un tempo. Battuti in Piemonte, potevamo appoggiarci su quel terreno come su potente riserva. [ ... ] Per queste ed altre ragioni, determinai che l'iniziativa dell'insurrezione Nazionale si tenterebbe nelle terre Sarde, perni Genova e Alessandria; noi esuli invaderemmo, appena dato il segnale dall'interno, la Savoia, non solamente per dividere le forze ostili e per aprire un varco sino al centro del moto agli uomini che la esperienza acquistata al di fuori chiamava a capitanarla civilmente e militarmente, ma per cacciare un anello tra i nostri e i repubblicani di Francia, che allora accennavano a diventare potenti e preparavano tra gli operai, elementi di riscossa a Lione.30 In questo progetto, insurrezione popolare e azione di forze che agiscono come negli eserciti regolari si combinano opportunamente; ed è fin troppo facile osservare che questa strategia non priva di un suo rigore logico è fallita proprio perchè essa era coerente con una premessa politicosociale di base - una compatta insurrezione nazionale e popolare - per la quale non esistevano le condizioni pratiche. Se manca la volontà di combattere, nessun tipo di strategia è evidentemente in grado di fornire risultati: senza contare che, nella concreta situazione dell'Italia 1830-1840, era più praticabile un irradiamento da vari fuochi insurrezionali spontanei ma periferici verso i punti focali geostrategici, che viceversa ... La geografia e l'insurrezione nazionale e popolare estesa a tutto il territorio sono alla base anche del primo documento di specifico interesse militare del Mazzini, l'Istruzione per gli affratellati nella Giovine Italia (1831), 31 il cui paragrafo 2 recita: l'Italia comprende: 1°) l'Italia continentale e peninsulare fra il mare al sud, il cerchio superiore dell' Alpi al nord, le bocche del Varo all' Ovest, e Trieste all'est; 2°) le isole dichiarate italiane dalla favella degli abitanti nativi, e destinate ad entrare, con un'organizzazione amministrativa speciale, nell'unità politica italiana.
I mezzi dei quali la Giovane Italia si avvale per raggiungere la meta dell'indipendenza nazionale sono l'educazione e l'insurrezione. L' edu-
30 31
G. Mazzini, Note ... (Cit.), pp. 193- 194. G . Mazzini, Scritti ... (Cit.), Voi. I, pp. 107-119.
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cazione serva a preparare l'insurrezione, a indicare chiaramente a tutti i suoi scopi e i vantaggi che il popolo potrà trarne, perché «il popolo non si leva mai per combattere, quand'egli ignora il premio della vittoria». Quando potrà realizzarsi, la insurrezione «dovrà farsi in modo che ne risulti un principio di educazione nazionale [ ... ] dovrà presentare nè suoi caratteri il programma in germe della nazionalità italiana [... ] avrà bandiera italiana, scopo italiano, linguaggio italiano [ ... ]. Destinato a conquistare l'Italia intera, essa dirigerà le sue mosse dietro un principio d' invasione d'espansione, il più possibilmente vasto e attivo». L'Italia può emanciparsi solo con le sue forze; e poiché per fondare una nazionalità è necessaria la coscienza di questa nazionalità, «questa coscienza non può aversi, ogni qualvolta l'insurrezione si compia o trionfi per mani straniere[... ]. D'altra parte qualunque insurrezione s'appoggi sull'estero dipende dai casi dell'estero e non ha mai certezza di vincere - la Giovane Italia è decisa a giovarsi degli eventi stranieri, ma non a farne dipendere l'ora e il carattere dell'insurrezione_ La Giovane Italia sa che l'Europa aspetta un segnale, e, come ogni altra nazione, l'Italia può darlo». Con queste parole, oltre a rinunciare all'apporto di un esercito regolare, il Mazzini aprioristicamente non riconosce come necessario e desiderabile per l'insurrezione l' aiuto straniero. E postula un'insurrezione compatta, unitaria, estesa a tutto il territorio nazionale-·· La fase dell'insurrezione comprende «tutto i] periodo che si stenderà dall'iniziativa alla liberazione di tutto il territorio italiano continentale». Essa viene diretta «da un'autorità provvisoria, dittatoriale, concentrata in un piccol numero d'uomini». A questa fa-.e appartiene, appunto, la «guerra d'insurrezione [nostra sottolineatura - N.d.a] per bande». Non è quindi vero che secondo Mazzini «la guerra. per bande doveva seguire l'insurrezione». Al contrario - e anche questo è un punto da mettere nella massima evidenza - la guerra per bande fin dall'inizio l'accompagna, è per così dire il volto militare dell'insurrezione, ed è seguita dall'opera dell'esercito regolare. All'insurrezione, infatti, fa seguito la rivoluzione, che ne rappresenta il consolidamento. In questa fase «libero il territorio, tutti i poteri devono sparire davanti al Concilio Nazionale, unica sorgente d'autorità dello Stato». Dal punto di vista militare, «la Giovine Italia prepara gli elementi a una guerra per bande, e la provocherà appena scoppiata l'insurrezione. L'esercito regolare, raccolto e ordinato con sollecitudine, compirà l'opera preparata dalla guerra d'insurrezione». Sono molte le deduzioni che possono essere tratte da queste sommarie indicazioni. Per prima cosa, secondo Mazzini la guerra per bande non esclude l'apporto dell'esercito regolare, ma prende forzatamente atto del-
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la sua temporanea mancanza nella fase insurrezionale e ne prepara la c~ stituzione, che avviene al più presto possibile e ne11a fase della rivoluzi~ ne; quest'ultima è il consolidamento - a liberazione del territorio già avvenuta - dell'insurrezione. In secondo luogo, l'insurrezione stessa ha c~ me sua immediata espressione militare, come punta di lancia la guerra per bande, che si svolge nelle campagne e lontano dai grossi centri. In altre parole, la guerra per bande è una modalità tecnico-militare de11'insurrezione; quest'ultima ha aspetti più larghi, indefiniti e forse anche per questo non indicati - per il momento - nei particolari dal Mazzini. E' infine inesatto affermare che, in linea teorica, il Mazzini è nemico degli eserciti regolari e permanenti e/o ne riscontra l'inutilità: al contrario, egli li ritiene necessari e li indica come sbocco militare della rivoluzione. Nella fase iniziale e insurrezionale, è costretto a farne a meno e perciò il «sistema alternativo» della guerra per bande è uno e uno solo, ed è per così dire provvisorio. A liberazione compiuta, egli individua (1833) nella Nazione, che rappresenta il principio della associazione, e nel Comune, che rappresenta ]a Jihertà, le due forme fondamentali e «naturali» de11'ordinamento dello Stato, anzitutto dal punto di vista dell'educazione militare: allo Stato, dacché Lutli i ciltadini hanno debito di difendere l' indipendenza del Paese e proteggerne la missione, l'unità del sistema militare, l'ordinamento della Nazione armata [cioè esercito regolare, ma di milizia e di cittadini - N.d.a.]; ai militi di ogni Comune, trasformati in Legione, il diritto di proporre, dal grado inferiore al superiore progressivamente e sotto certe norme nazionalmente prestabilite, le liste per la scelta degli ufficiali [concezioni non particolarmente ardite, visto che il Filangieri, il Pepe e altri caldeggiavano senz'altro l'elezione diretta degli ufficiali, e non semplici proposte di nominativi - N.d.a.].32 I lineamenti generali della guerra per bande - dal Mazzini indicati già nelJa Istruzione per gli affratellati del 1831 alla quale continuiamo a riferirci - vanno inquadrati nei concetti di guerra e di guerra di popolo, che formula in altre occasioni. A commento delle Istruzioni del 18311832, lo stesso Mazzini enuncia il concetto della guerra non tanto come strumento in linea teorica e pregiudiziale da desiderare o da respingere o soggetto a valutazioni umanitarie e morali, ma unicamente come mezzo necessario, e inevitabile, per raggiungere nella concreta situazione italiana del momento l'unità e indipendenza nazionale: 32
ivi, Vol. lii, p. 263.
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il nostro è problema d'educazione nazionale innanzi tutto; l'armi e l'insurrezione non sono se non mezzi senza i quali mercé le nostre condizioni, è impossibile scioglierlo, ma noi non invochiamo le baionette se non a patto ch'esse portino sulla punta un'idea. Poco c'importerebbe distruggere, se non avessimo speranza di fondare il meglio [...] Prima armi e vittoria; poi leggi e Costituzione [... ] la guerra d'uomini liberi è guerra non d'uomini, ma di principii».33 Nella sostanza, quindi, già dal 1831 al 1833 - senza aspettare le delusioni degli eventi del 1834 e 1848-1849 - il Mazzini matura il suo concetto di guerra di popolo in contrapposizione alla guerra regia. Più che in relazione alla sua fisionomia strategica, alle modalità di condotta tattica e all'ordinamento delle forze, quest'ultima è un'espressione politica, come tale definita in base alle sue finalità e vista non tanto e non solo come guerra condotta da un esercito regolare e permanente, ma come impiego ben circoscritto di un esercito dinastico che persegue solo limitati obiettivi politici esclusivamente derivanti dagli interessi della Monan;hia :sabauda, :sema 4uindi :sposare appieno la causa nazionale e prescindendo il più possibile dall'apporto popolare. Dal canto suo, Mazzini sarebbe stato ben felice di contare sull'apporto delle forze regolari: il suo progetto di guerra all'Austria non coincide affatto con la :sola guerra per bande e presenta parecchie affinità con quello di Clauscwitz, visto che anche quest'ultimo consiste nella mobilitazione senza pregiudiziali di tutte le energie popolari (è questa che importa), sia nella forma regolare (esercito) sia in quella irregolare (guerriglia). Nella fattispecie, non si vede in che cosa ciò che Mazzini scrive a proposito dell'insurrezione. dal 1830 al 1833 differisce e non armonizza con la definizione che egli dà di guerra di popolo nel 1849-1850: per guerra di popolo noi intendiamo una guerra santificata da un intento nazionale, nella quale si ponga in moto la massima cifra possibile delle forze spettanti al paese, adoperandole a seconda della loro natura e delle loro attitudini - nella quale gli elementi regolari e gl'irregolari, distribuiti in terreno adatto alle fazioni degli uni e degli altri, avvicendino la loro azione - nella quale si dica al popolo: la causa che qui si combatte è la tua: [... ] nella quale né privilegio di nascita o di favore né anzianità senza merito presieda alla formazione dell'esercito, ma il diritto d'elezione possibilmente applicato, l'insegnamento morale alternato col militare e i premi proposti dai compagni, approvati dai capi e dati dalla nazione, faccia-
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ivi, Voi. I, pp. 391-392 e Voi. III, pp. 47 e 83.
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no sentire al soldato ch'ei non è macchina, ma parte di popolo e apostolo armato d'una causa santa - nella quale non s'avvezzino gli animi a non riporre esclusivamente salute in un esercito, in un uomo, in una capitale, ma s'educhino a creare centri di resistenza per ogni dove, a vedere tutta intera la causa della patria dovunque un nucleo di prodi innalzi una bandiera di vittoria o di morte - nella quale, maturato e tenuto in serbo un prudente disegno pel caso di gravi rovesci, le fazioni procedano audaci, rapide, imprevedute, calcolate più che non s'usa sugli elementi e sugli effetti morali, non inceppate da riguardi a diplomazie o da vecchie tradizioni regolatrici di circostanze normali - nena quale si guardi più al popolo che ai governi, più ad allargare il cerchio dell'insurrezione che a paventare i moti del nemico, e più a ferire il nemico nel core che non a risparmiare un sagrificio al paese». 34
Per il Mazzini - come per il Balbo - ciò che veramente importa è dunque mobilitare contro l'Austria tutte le potenzialità italiane esistenti, quali che esse siano: concetto in definitiva clausewitziano, nel quale ciò che egli dice dell'efficienza spirituale delle forze va benissimo anche per un esercito regolare, se si eccettua l'elezione dei Quadri. Solo se si tiene presente questo ampio quadro si può dare la giusta collocazione alla fisionomia della guerra per bande da lui indicata per sommi capi nella citata Istruzione per gli affratellati della Giovane Italia del 1831: la guerra per bande è la guerra di tutte le Nazioni che s'emancipano da un conquistatore straniero. Essa supplisce alla mancanza, inevitabile sui principii delle insurrezioni, degli eserciti regolari [nostra sottolineatura - N.d.a.] - chiama il maggior numero di elementi sull'arena - si nutre del minor numero possibile d'elementi educa militarmente tutto quanto il popolo - consacra colla memoria de' fatti ogni tratto del terreno patrio - apre un campo d'attività a tutte le capacità locali - costringe il nemico a una guerra insolita - evita le conseguenze d'una disfatta - sottrae la guerra nazionale ai casi d'un tradimento - non la confina a una base determinata d' operazioni - è invincibile, indistruttibile [e la Vandea? - N.d.a.J.
Gli scritti dell'anno successivo (1832) Della guerra d'insurrezione conveniente all'Italia e Istruzione per le bande nazionali35 non denotano 34 G. Mazzini, Cenni e documenti intorno all'insurrezione lombarda e alla guerra del 1848, in «L'Italia del popolo» 1849-1850 - Losanna (Cit. in E. Liberti, Op. cii. , pp. 212-213). 35 G. Mazzini, Scritti ... (Cit.), Voi. III, pp. 100-146.
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alcuna evoluzione e non sono che il raffittimento delle indicazioni generali del 1831. Interessanti le considerazioni del Mazzini sulla guerra tra eserciti del momento, assai affini a quelle - successi ve - dello Zambelli e del Cattaneo, fino a far pensare che abbiano oltr'alpe (o nel Blanch) una matrice, una fonte d'ispirazione comune. Dopo l'invenzione della polvere - constata Mazzini sulle tracce dello Zambelli - la guerra è diventata di masse e di artiglierie; 1' audacia e la fortuna influiscono solo per un quarto sulle sorti di un conflitto, che per tre quarti dipendono «dagli ·ordini e dai materiali»; le artiglierie sono il nervo della guerra e decidono delle battaglie; «le mil1e e trecento bocche da fuoco di Borodino insegnano il segreto d'un metodo prepotente e decisivo, ma difficile e dispendioso oltre ogni altro». Il Mazzini si chiede se i metodi e gli strumenti della guerra napoleonica classica consentano all'insurrezione italiana di reggere all'urto nemico e ricacciare l'esercito austriaco oltre le Alpi. La risposta è negativa: «foss 'anche possibile tentare quel metodo, l'affidarvisi esclusivamente sarebbe più temerità che fiducia; foss' anche possibile vincer con quello, gioverebbe forse appigliarsi simultaneamente a un altro per ragioni desunte dallo scopo a cui si tende in rivoluzione». Ma ciò che egli continua a sottoUneare è che, a11'inizio de11'insurrezione, per ragioni prima di tutto tecnico-militari, di inquadramento e addestrative e non solo politiche, non sarà possibile disporre di un esercito nazionale competitivo: certo; noi abbiamo eserciti, e sovr'essi posano le nostre più care speranze; eserciti che in oggi il serraggio e l'inerzia condannano all'obllo, ma che una bandiera di guerra e di libertà trarrebbe a emulare le virtù dei padri sul campo[... ]. Abbiamo materiale d'ogni sorta per armi e arnesi da guerra. Abbiamo elementi d'esercito quali hanno poche nazioni, forse nessuna. Ma un esercito - un esercito veramente nazionale, numeroso, munito, atto a prendere il campo, a vincere senz'altri aiuti la prova - noi non lo abbiamo; a crearlo vuolsi tempo e lavoro; e il nemico ci sta sopra; e convien provvedervi senza dimora, perché i primi fatti d'una rivoluzione decidono della rivoluzione.
Mazzini ammette senz'altro che «l'esercito piemontese e il napoletano formeranno il nucleo dell'esercito nazionale italiano», ma questo non c'è ancora: i molti si sono convinti d'aver quest'esercito, quando non v'era che il nucleo; i molti hanno detto: la gioventù si concentrerà tutta a quel nucleo, e han detto vero, perché la gioventù italiana freme
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guerra e pericoli; ma dimenticavano che gli uomini non fanno esercito - dimenticavano che gli ordini soli creano gli eserciti, e ordini non sono, se non inviscerati nel soldato dall'abitudine, nudriti dalla sommessione e dalla fiducia nei capi, consecrati dalla disciplina, senza la quale non è esercito che regga all'urto nemico - dimenticavano che la gioventù nostra non ha imparato nella servitù e nella vita cittadinesca siffatte doti; che il buon volere aiuta e dà vita, non supplisce alla scienza; che l'entusiasmo solo può fare una Sarragozza d'ogni città, non superare gli ordini militari nemici in campagna aperta, e che avventurare a una lotta regolare tutta quanta la gioventù che insorgerà alla chiamata è un voler far getto di vite, un voler mietere la messe anzi tempo, un divorare il frutto in germoglio. Gli ordini fanno gli eserciti - e tra noi dov'è l'educazione militare che dia vita agli ordini? - dov'è la cieca subordinazione, indispensabile finché almeno dura la guerra? Dov'è la fiducia che deve regnare illimitata fra i capi e i subalterni? Lo slancio rivoluzionario agevola, non crea l'arti di guerra, le abitudini dei ranghi, e quello spirito di corpo che strugge quanto è individuale nell'uomo, che vince il fremito delle passioni urtate a ogni ora dalle leggi di disciplina, che immedesima il soldato alla bandiera del corpo ov' ei milita. A una gioventù che insorge può chiedersi di combattere e di morire; ma il come e con quali ordini non dipende da un cenno, bensì dal tempo e dalla necessità. Da questa indicazione degli inevitabili limiti che, all'inizio della
guerra contro l'Austria, avrebbe uno strumento militare tradizionale, regolare, è legittimo dedurre non solo che Mazzini non crede negli eserciti dinastici, ma anche che non crede nemmeno alla possibilità di un loro subitaneo ampliamento con l'afflusso di legioni di volontari entusiasti, alla «nazione armata» nel senso attuale del termine insomma, che darebbe luogo a reparti improvvisati e poco saldi di fronte alle prove severe della guerra campale e di eserciti, perché privi dei requisiti essenziali che ieri come oggi fanno di un gruppo di uomini un'unità combattente. Su questo fondamentale argomento, qualsiasi generale piemontese non avrebbe avuto idee diverse ... La conclusione è sempre quella: la sorte della futura rivoluzione non può essere affidata a un esercito regolare, «e ai pericoli d' una giornata campale». Occorre trarre il metodo alternativo «dalle viscere della nazione, dalle condizioni d' un popolo insorto, dagli elementi topografici della contrada, dai mezzi che le circostanze ci somministrano». E qui il Mazzini - con considerazioni analoghe a quelle del Balbo e di altri - indulge a una lunga elencazione dei vantaggi che alla guerra per bande offre il terreno della penisola, e molto si sofferma non solo sull' exemplum
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classico della guerra di Spagna, ma anche sulle gesta delle bande che nel periodo napoleonico infestarono le Alpi e la penisola. Le guerre per bande ha un pregio fondamentale: «essa provvede in un tempo ai bisogni materiali e ai bisogni morali della rivoluzione». L'Italia è diversa dalla Spagna? Interrogativo di base, al quale Mazzini risponde in questo modo: gli uomini son più forti in Spagna che non fra di noi? Era più grave la servitù, più esosa e tirannica la dominazione'! - O il sentimento di libertà era più universale, più attivo, più diffuso a tutte le classi?- Abbondavan l'armi? No: la dominazione francese era dolce a fronte di quella che ci preme dovunque: I ricchi, i soldati, i grandi, le autorità, l'alta aristocrazia del clero non promossero, non aiutarono il moto. Fidarono nella costituzione promessa Napoleone[...]. L'armi mancavano, e, più mesi dopo, agli inglesi che offrivano aiuti, supplicavano armi e non altro.
Implicita, in questa interpretazione, la tesi che in Italia vi sarebbero condizioni di partenza migliori, nella quale, però, non trovano spazio sia la diversità di indole degli Italiani e le differenze notevoli tra le varie regioni, sia la constatazione che quella degli spagnoli è stata non tanto una guerra per la libertà, ma una guerra per l'indipendenza nazionale, alla quale, se mai, a detto dello stesso Mazzini non aderirono proprio i fautori della libertà e della costituzione. E l'amor di patria, lo spirito nazionale e unitario, il collante rappresentato dall'unanime, atavico odio del popolo spagnolo contro lo straniero, matrice indispensabile della guerra di popolo, erano così diffusi in Italia? potevano diffondersi ipso fa cto? Eppure Mazzini cita anche altre e più antiche guerre per l'indipendenza nazionale: il metodo della guerra per bande: «più o meno regolarizzato, più o meno energicamente adottato, ha dato vittoria ai Paesi Bassi su Filippo II, all'America sull'Inghilterra, ai Greci sui Turchi, alla Russia, alla Germania e alla Spagna sul genio e sull'armi di Napoleone». Ma gli exempla italiani mancano ... Balbo si chiede perché, diversamente dalla Spagna, dalla Russia e dalla Germania, l'Italia non si è sollevata contro Napoleone; Mazzini a questo interrogativo non dà mai una risposta esauriente, e anzi indica nelle parziali, episodiche e autonome sollevazioni italiane del periodo napoleonico e post-napoleonico - tutte abbastanza facilmente represse il segnale positivo di un forte spirito nazionale latente nel popolo, di quello che avremmo potuto fare solo se le sollevazioni fossero state dirette da uomini energici e indirizzate a un grande fine nazionale, senza fare esclusivo affidamento sugli eserciti regolari. Evidente il riferimento
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alle sconfitte dell'esercito napoletano nel 1815 e 1821 contro 1'esercito austriaco, quando afferma che, con risultati disastrosi, «il voler combattere regolarmente senza elementi di vera regolarità fu ostinazione di quei che tenevano la somma delle cose». Uomini che avevano affrontato mille volte la morte sul campo «fuggirono davanti ali' austriaco senza tentar la giornata» e generali, che pure avevano giurato di difendere fino all'ultima goccia di sangue la patria, «s'imbarcarono per l'estero, prima che il nemico avesse toccato la capitale». Dopo la sconfitta e la dissoluzione delle forze regolari, non si fece alcun tentativo di accendere la guerriglia sulle montagne; e così «l'insurrezione per bande[ ...] fu lasciata memoria di masnadieri che con intento vilissimo la insegnarono possibile e potente contro ai governi». Il Mazzini si mostra fin troppo fiducioso sulla possibilità di realizzarla, come se bastasse a pochi spiriti illuminati volerla e ordinarla: la guerra nostra sarà breve, e a convincerla basta il mostrarci; ma il mostrarci volenti e decisi, il mostrarci su tutti i punti, il mostrarci tutti, il mostrarci insomma Lè proprio questo il problema, la conditio sine qua non - N.d.a.] ; perché quando mai ci mostrammo? - [e perché e come queste ataviche remore dovrebbero improvvisamente sparire e non far sentire il loro peso proprio in un tipo di guerra dove la molla dello spirito combattivo e dello spirito nazionale è l'unica a farsi sentire? - N.d.a.].
Egli ha fiducia anche nello spirito combattivo della popolazione delle campagne, e nella sua particolare attitudine a sopportare i disegni della guerriglia: e quando io penso all' Italia - a' suoi milioni d'abitanti - alla miseria immensa che preme la popolazione delle campagne, e la tiene disposta ai tentativi i più disparati, sol che si voglia confortarla e guidarla - alla singolare attitudine di questo nostro popolo, educato in più parti ai disagi, ai lavori, alle fatiche d'ogni genere ...
La conclusione della Guerra d'insurrezione conveniente all'Italia è particolarmente importante, perché dimostra senza ombra di dubbio quanto è lontano il Mazzini da un concetto teorico troppo esclusivista della guerra per bande: quando mai abbiamo fatta prova di congiungere i due elementi d'ogni rivoluzione, guerra di esercito e guerra di popolo? quando mai abbiamo dato fede ai soldati Italiani di sorger con essi, di combatter con essi, di dar loro il nemico stanco, affamato e disperato de'
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suoi destini, di trascinarlo, di paese in paese, come una vittima, di evoluzione in evoluzione, fin dov'essi gli vibrino l'ultimo colpo?
Qual'è la differenza tra questo concetto del ruolo strategico della guerra per bande, e quello di Clausewitz? Se l'insurrezione nelle campagne prende subito la forma della guerra per bande, che avviene nelle città e nei centri abitati? Il Mazzini lo indica nel decreto del «Governo provvisorio insurrezionale» emanato nel 1834, in occasione del fallito tentativo insurrezionale in Piemonte:
2° I Cittadini sono chiamati a correre all'armi di qualunque specie esse siano; a riunirsi sulle piazze pubbliche ... 3° In ogni Città, Borgo o Villaggio sarà suonato a stormo. 4° Alcuni patriotti percorreranno le vallate e le campagne per propagare l'insurrezione. 5° Ogni paese insorto segnalerà l'insurrezione con fuochi accessi sull'alture. 8° Ogni collisione fra il Popolo e le truppe sarà quanto è possibile evitata. Si farà prova di Lutti i mezzi di fraternizzazione, prima di ricorrere alla forza. 9° Nelle città l'insurrezione s'impossesserà della Casa Comunale, delle Poste, e dei posti più importanti della città; essa vi si manterrà di concerto colla truppa se la truppa ha fraternizzato; sola in caso diverso. 36
I Sindaci e i principali funzionari pubblici rimarranno ai loro posti: i Sindaci, anzi, si renderanno garanti dell'esecuzione immediata e completa del decreto dell'insurrezione. Nel caso che nei pressi degli abitati insorti si trovino truppe «ostili o dubbiose», sulle piazze e all'estremità delle strade principali devono essere ammassati materiali per le barricate. Effettuata l'insurrezione, ogni provincia e ogni città importante dovrà inviare «una forte banda di patrioti armati verso il quartier generale dell'armata liberatrice». A questo punto, l'Istruzione per le bande nazionali dello stesso anno 1832 diventa un semplice ampliamento di quella del 1831, e riguarda modalità tecniche tutto sommato di limitato interesse ai fini della nostra indagine. In essa, assumono particolare rilievo le misure di carattere amministrativo miranti a prevenire ruberie che potrebbero inimicare alle
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ivi, Voi. III, pp. 293-294.
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bande la popolazione, visto che farsi runico il contadino «è dovere e interesse supremo a un tempo». Le bande devono rispetto ai luoghi di culto, «al prete quando si mantiene neutrale», alle donne, alla proprietà. Devono evitare di far giustizia sommaria, perché «sono i precursori della nazione e la chiamano a insorgere; non sono la nazione, non hanno diritto di sostituirsi ad essa». Devono «compromettere le grandi città» ma evitare di esporre alle facili vendette del nemico i piccoli centri. Perciò «Traversando piccoli e inermi paesi, i capitani non provocheranno, impediranno anzi ogni dimostrazione rivoluzionaria degli abitanti». Altre prescrizioni abbastanza minule riguardano, infine, la parte finanziaria e l'amministrazione del bottino, evidentemente allo scopo di evitare malversazioni che potrebbero creare malcontento e divisioni e diffamare il movimento. La prospettiva della formazione dell'esercito nazionale è sempre ben presente nelle Istruzioni, che si aprono con queste parole: «la guerra per bande rappresenta il primo stadio [e solo questo - N.d.a.] della guerra Nazionale. Le Bande devono dunque ordinarsi e operare in modo che prepari e agevoli la formazione dell'esercito Nazionale>>. E ancora: «J' organizzazione di ciascuna banda, diretta, com'è, a preparare una compagnia a/futuro esercito, [nostra sottolineatura - N.d.a.] nu11a ha di comune con l'azione pratica della banda. E anche l'azione da condurre nei riguardi del nemico, oltre ad essere affine nei procedimenti d'azione alla piccola guerra, ha come essa l'obiettivo finale di logorarlo, in modo che il giorno dello scontro finale con le forze regolari possa essere facilmente sconfitto: «scopo delle bande è danneggiare e molestare continuamente il nemico [... ] e ridurlo a condizioni che ne accertino la disfatta il giorno in cui l'esercito regolare raccolto o le Bande concentrate vorranno dargli battaglia». Infine, da un punto di visto tattico e strategico vi sono de11e analogie tra la guerra di eserciti e la guerra per bande, sia per quanto riguarda le comunicazioni, sia per quanto riguarda l'applicazione - presentandosi l'occasione - del principio della massa: 19. Il segreto di questa guerra, come della guerra regolare, sta principalmente nelle comunicazioni. La possibilità di contatto fra i distaccamenti di una Banda e fra le Bande diverse operanti in una stessa provincia deve· gelosamente serbarsi per ogni operazione decisiva che dovesse tentarsi con un concorso simultaneo di eventi.
Le Istruzioni del 1831 e 1832 sono i due unici scritti citati - nella generalità dei casi - come espressione più compiuta della posizione non solo di Mazzini ma del movimento mazziniano - a proposito della guer-
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ra per bande, e a questa regola non si sottrae il Liberti. E' stato finora piuttosto trascurato un saggio di Giuseppe Budini, «operaio compositore», sull' «Organizzazione delle bande» comparso sull'Apostolato Popolare (Londra) n. 7 del 25 settembre 1842, quindi scritto dopo i fallimenti e le delusioni che si susseguono anche dal 1832 in poi, e non avvalorano certo le teorie del 1831-1832. Noi giudichiamo questo scritto - citato dal Liberti - il più importante di tutti quelli del movimento mazziniano in materia: in esso si scende maggiormente nel concreto, si fa finalmente riferimento a un preciso contesto geografico e a precise condizioni che dovrebbero favorire la guerra per bande in Italia, non senza considerare - avvicinandosi notevolmente ai concetti del Pepe - la presenza, l' apporto della marina e dell'esercito regolare. Last not least, i contadini vi diventano il perno della guerra per bande. Le forze regolari diversamente dal 1831 e 1832 sono considerate presenti e operanti fin dall'inizio, e fin dall'inizio vi si tiene conto che le bande hanno bisogno di una prima intelaiatura intorno alla quale svilupparsi. Il clou dell'articolo, il cui titolo non a caso parla di organizzazione, già si trova nelle prime righe: i diversi governi che reggono le provincie del Mezzogiorno d'Jrnlia sono costretti, per le divisioni territoriali, d'avere una quantità di truppe di finanza, e queste dovranno formare i primi quadri, ossia lo scheletro delle bande nazionali [nostra sottolineatura - N.d.a.j. Senza precisare il numero di queste milizie, che possiamo assicurare buone ed animate dall'amor patrio il più puro, daremo solamente un'idea delle posizioni che esse occupano ... Su quali clementi concreti sia basata la fiducia nell'amor patrio e nell'interesse per l'unità nazionale dei doganieri dei vari Stati, e nella loro unanime eterna volontà di combattere i Re e gli Austriaci, l'autore non lo dice; così come in questa occasione egli non fa alcun accenno a un più vasto quadro insurrezionale e alla sua collocazione temporale. Le linee di gravitazione delle bande dovrebbe comunque coincidere con le linee di gravitazione delle dogane, che si estendono: a) sulle coste del Mediterraneo e dell'Adriatico, dove per ogni porto vi è una dogana con almeno dodici finanzieri; b) a cavallo dell'Appennino, da Perugia al Modenese, con una doppia linea che corre lungo i confini dei vari Stati; c) lungo il Po, in un ambiente geografico caratterizzato da paludi, laghi e piccoli fiurni, dove una truppa regolare poco o nulla potrebbe offendere, e dove al contrario i finanzieri che conoscono tutti i laghi, tutti gli argini
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potrebbero inquietare l'inimico e obbligarlo a perdere uomini e tempo senza poterne ottenere un risultato positivo. Quest'ultima linea di dogane, divenuta linea di bande, può inoltrarsi, partendo dalla famosa pineta di Ravenna, traversando i boschi e le valli della Mesola, del Ferrarese e del Mantovano, sino in faccia a Mantova, senza esporsi in rasa campagna e senza temere la cavalleria, e così portare la speranza e il timore nelle provincie italiane sommesse all'Austria.
Quest'ultima linea per mezzo delle valli delJa Mesola e di Comacchio corrisponde con l'Adriatico: e (come già aveva scritto il Pepe) per mezzo di questo mare il capo dell'esercito regolare [nostra sottolineatura - N.d.a.] potrà tenere relazioni per tutte le provincie che l'inimico avrà invaso, potrà inviare rinforzi facendo trasportare per la via di mare alcuni di questi corpi irregolari da una provincia all'altra se il bisogno lorichiedesse; queste comunicazioni tra la marina e le truppe diverranno pure utili allorché un corpo di quest'ultime sarà inseguito e in pericolo d'essere preso.
L'autore non dice di più sulJa presenza e sul ruolo dell 'esercito regolare: ma par di capire che lo scenario strategico è quello di un esercito regolare che a fianco delle bande contrasta un'invasione di forze straniere superiori avvalendosi di tutte le difficoltà del terreno, visto che «quanto alla linea dell'Appennino, ossia del centro, essa potrà facilmente conservare le sue comunicazioni col capo dell'esercito per la catena dei monti dell'Appennino che comunicano dalle Calabrie fino a Bologna senza interruzione». Come il Pepe, anche il Budini ha grande fiducia nella marina napoletana, «chiamata a rendere immensi servigi alla futura indipendenza italiana». Essa sarà il polo di aggregazione di tutte le forze marittime, mercantili e militari e anche egli, con il solito ottimismo, confida che allorchè la marina nazionale avrà raggiunto una cifra bastantemente forte, essa unirà a sé più che il potrà della marina genovese [...] così unite, essi si mostreranno in faccia alla marina veneta [cioè quella austriaca, composta in maggioranza da italiani - N.d.a.] che certamente afferrerà l'occasione di scuotere il giogo dell'aquila divoratrice ...
Le forze navali serviranno per soccorrere lungo le coste le bande che rischiano di essere catturate, per trasportare truppe, «correre le
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spiagge», mantenere aperte le comunicazioni lungo le coste»; inoltre «sbarchi continui e improvvisi si faranno sul Veneto per ravvisare lo spirito nazionale, e per presentare un mezzo d'evasione a coloro che volessero venire sotto le bandiere patrie». Riguardo al reclutamento del1e bande, l'autore ritiene che «il basso popolo delle campagne e delle città» è il solo che può resistere alla vita di stenti e privazioni che comporta l'appartenenza alle bande. E per basso popolo delle campagne egli intende «quello che non lavora le terre a mezzanìa, ma che lavora a giornata pel conto di altri contadini più agiati; questo popolo abbonda in Italia, ed è il più rischioso e facile a muoversi. li basso popolo delle città è più adatto a far parte delle truppe regolari che delle bande, tuttavia potrebbe fornire uomini e Capi anche per quest'ultime». Ci si rende ben conto che il «basso popolo» sul quale si conta, per sollevarsi deve avere ben salda la convinzione che combatterebbe per i suoi interessi: e così ci si riserva di spiegare «in ultimo» (ma poi, almeno in questo saggio non viene fatto) «come intendiamo d'interessare il basso popolo sia delle campagne che delle città, senza che niuna classe della nazione vi perda l'utile che ognuna di esse si mostrò tanto volenterosa di conseguire». Infine, gli appartenenti alle classi «mezzana e nobile», che non potrebbero sopportare la dura vita delle bande, «si organizzerebbero in corpi volontari o franchi e seguirebbero le truppe di linea, facendo il servigio delle truppe leggiere, e dopo essersi avvezzi alla fatica e di disagi essi potrebbero far parte delle bande secondo che il bisogno lo richiedesse». Queste sono idee del Budini, e non di Mazzini: superfluo rilevare che esse differiscono alquanto dai concetti esposti nelle Istruzioni del Mazzini, avvicinandosi piuttosto all'impostazione elitaria e militare - se non militarista - del Bianco. Eppure Mazzini fa precedere queste idee, assai diverse dalle sue, da una sua lusinghiera introduzione nella quale sottolinea che si tratta solo di un capitolo di un lavoro del Budini «che vedrà tra non molti giorni la luce per cura dell' Associazione», e che nello scritto presentato quest'ultimo «accenna a una via, quella della guerra per bande, che gli uomini letterati hanno sprezzato e negletto fin qui, che la Giovane Italia ha predicato sola fin dal suo nascere, e che sola può far trionfare l'Italia dei suoi nemici». Nessuna critica alle tesi del Budini: Mazzini avverte solo il lettore che questi «muove dall'idea che l'insurrezione italiana debba iniziarsi nel napoletano». Il Mazzini, dunque, nella sostanza le approva, forse ritenendo che la guerra per bande, per sua natura, si sottrae a ogni rigida schematizzazione e che ogni ipotesi o variazione sul tema merita considerazione.
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Si tratta di una «virata» del Mazzini, e di un suo avvicinamento definitivo alle posizioni del Pepe? Non è così. Sullo stesso Apostolato Popolare egli - pur senza fare nomi - polemizza aspramente, oltre che con i federalisti, con i sostenitori di una monarchia costituzione e con coloro che confidano nell'aiuto straniero_ E nel necrologio di Carlo Bianco di Saint Jonoz (1843) definisce le sue opere sulla guerra per bande «lavori importanti che additano la sola via per la quale l'insurrezione italiana può prepararsi una vittoria infallibile» .37 In un altro articolo finora ignorato del settembre 1843,3K il Mazzini commenta la temporanea formazione di una banda - facilmente debellata e sciolta - negli Stati della Chiesa intorno a Bologna, nell'agosto-settem bre dello stesso anno. L'episodio era stato definito dalla propaganda austriaca uno dei tanti tentativi d'insurrezione italiana falliti; per il Mazzini invece si tratta di un evento che accredita sul1'importanza vitale della guerra per bande per la liberazione d'Italia. Infatti una sola banda per oltre un mese ha sfidato le forze pontificie e indotto l'Austria a prepararsi a un intervento, e «venuta sino alle porte di BoJogntt, assalita più volte dagli Svizzeri e da' Pontificii e vittoriosa in tutti gli scontri» essa si è sciolta volontariamente. Ma l'insegnamento è rimasto: scrivevamo dieci anni or sono: la prima banda che nell'ora della chiamata sorgerà ne/l'audacia di un fatto proprizio, avrà salva l'Italia; e ripetiamo oggi più che mai fiduciosi le nostre parole d'allora. Bensì le bande, onnipotenti contro l'Austriaco, sono men opportune a un'impresa domestica. Le bande, nella nostra opinione, dovrebbero sorgere dall'insurrezione generale anziché venire adottate come mezzo di generarle. L'insurrezione negli Stati che non banno se non forze italiane, è purché si voglia, possibile. E l'insurrezione generale, l---J darebbe, smembrandosi all'apparir degli Austriaci in bande infinite, potenti di mezzi e d'unità di piano, sull'Appennino, consacrazione a un metodo di guerra infallibile nè risultati e fatto per ogni popolo che tenda a rigenerarsi.
A parere del Mazzini, l' evento ha destato nell'Italia Centrale un fermento tale, che «il primo fatto importante, il primo levarsi d'una città, avrebbe, a detta d'amici e di nemici, determinato un'insurrezione unanime, generale». Se la scintilla non è scoccata, ciò è dovuto a tentativi di asservire la causa italiana a oscuri interessi dinastici stranieri, a «un ele-
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«Apostolato Popolare» n. 11 - 31 agosto 1843.
JR
ivi, n. 12- 31 settembre 1843.
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mento russo-bonapartista» del quale è stato vittima lo stesso Ciro Menotti, e che «s'era insinuato a sviare dall'unità di proposito e dala fiducia reciproca, senza la quale non è da sperarsi efficacia di tentativi, gli uomini più puri, e più devoti alla causa nazionale». In conclusione, il Mazzini si dimostra piuttosto elastico sulle modalità di carattere militare per la conquista dell'indipendenza nazionale: ciò che per lui veramente importa è che gli italiani prendano compatti le armi e facciano da sè, più o meno come scriveva il Balbo. Ferma restando l'importanza fondamentale da lui attribuita aHa guerra per bande e al di là della sua eccessiva fiducia nella possibilità che gli italiani - doganieri o meno - insorgano compatti, egli non può essere definito nemico degli eserciti permanenti (come lo sono il Filangieri o l' Angeloni), ma solo degli eserciti permanenti che ostacolano, anziché favorire, la causa nazionale. Né è fautore della «nazione armata», chè anzi si rende ben conto che per trasformare e inquadrare masse di cittadini che affluiscono tumultuariamente nelle caserme, occorre tempo e fatica: solo la guerra per bande, egli ritiene a ragione, è congeniale, come «guerra naturale», a uomini coraggiosi ma privi dell'addestramento militare e dell'armamento necessari per affrontare in campo aperto l'agguerrito esercito austriaco. Più che di contraddizioni o di rivoluzione del suo pensiero dal 1831 al 1843, si può quindi parlare di maturazione: anche nel 1831 sarebbe stato ben lieto di vedere l'esercito marciare a fianco delle sue bande.
Le teorie «militariste» di Carlo Bianco di Saint Jorioz
Ufficiale di cavalleria piemontese anima dei moti militari del 1821 e per questo costretto all'esilio e condannato a morte, Carlo Bianco di Saint Jorioz è il maggior teorico italiano della guerra per bande. Nelle Istruzioni del 1832 il Mazzini fa aperto riferimento alla sua fondamentale opera Della guerra nazionale d'insurrezione per bande pubblicata (a Marsiglia e non a Malta) nel 1830, definendo quest'ultimo «l'unico, ch'io mi sappia, che abbia tra noi rivelato aperta.mente e maturamente quella via di salute» e il suo libro «trattato da cui è desunto lo spirito di questo scritto, e che tocca la materia in tutti i modi possibili. E' libro d'uomo che ba studiato profondamente quel metodo, e ha combattuto con esso; e noi lo raccomandiamo a quanto italiani meditano seriamente intorno ai modi d'emancipare la patria». In queste poche parole vi sono tutti i pregi, e anche i limiti del libro e la funzione che assolve. E' stato Mazzini a ispirare il Bianco, o vice-
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versa? Mazzini conosce Carlo Bianco a Lione nella primavera 1831, quindi quando quest'ultimo aveva già pubblicato il suo libro, 39 e trae dal libro stesso la parte propriamente tecnico-militare, o meglio tattica, del suo pensiero. Mazzini è l'anima poJitica e i1 Capo del1a Giovane Italia, Bianco l'anima militare. Si può quindi parlare, più che altro, di concordanza tra i due sui grandi temi politico-militari, concordanza che non viene mai meno. Ma è altrettanto vero che, dato il legarne tra politica e strategia, è Mazzini - e non Bianco - a indicare il quadro politico-sociale, strategico e storico nel quale si sviluppa la guerra per bande. TI Bianco raramente esce dal ruolo di tecnico e tattico di questo tipo di guerra e la sua opera non è molto originale, perché dipende assai - per sua stessa ammissione - dal La Mière. Sarebbe perciò grave errore metodologico studiare la sua Guerra nazionale d'insurrezione e le altre a carattere tecnico sulla guerriglia, senza aver prima attentamente considerato l'impostazione geopolitica e geostrategica mazziniana. Al tempo stesso, il pensiero militare del Mazzini non può essere considerato ristretto - come fa non solo il Liberti ali' Istruzione del 1831 e allo scritto sulla guerra d'insurrezione del 1832, ma va considerato relativamente al quadro politico e geografico che lo ispira, al concetto di nazione e confine e, per ultimo in rapporto al pensiero militare del tempo. Per ragioni analoghe, del Bianco è oggi assai più importante il citato Trattato sulla guerra nazionale d'insurrezione, che il Manuale pratico del Rivoluzionario Italiano pubblicato dal Bianco nel 1833, su invito del Mazzini che pretenderebbe anche rivederne i capitoli (ciò che sembra non abbia fatto). Nel Manuale, infatti, il Bianco tralascia la parte morale e teorica per fornire solo delle modalità a carattere tecnico-tattico e logistico destinate a farne la guida pratica per gJi insorti, una cosa divulgativa e limitata insomma. Se è così, non si capisce perché il Liberti abbia ritenuto opportuno trascrivere il Manuale del 1833 e non il Trattato del 1830, destinato a usi pratici che nel 1972 non hanno più alcun interesse, anche se sovente sono tutt'altro che sorpassati nonostante l'avvento dell'era nucleare. Sul Trattato del Bianco rimandiamo all'ampio commento e alla ristampa del Liberti: 40 ciò che più importa ora sottolineare, è il rapporto tra il pensiero del Bianco e quello del Mazzini e i caratteri ed elementi di debolezza del Trattato. Il Bianco è un militare e uomo d'azione ed è il
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G. Mazzini, Note ... (Cit.) p. 81. E. Liberti, Op. cit.• pp. 120-166 e 411 -578.
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capo della setta degli Apofasimeni («uomini pronti a tutto»), alla quale inizia anche il Mazzini. I componenti della setta si chiamano militi e giurano di prendere le armi al solo ordine del centurione, «senza indagare le cause, né il perché». Ebbene, anche le bande del Bianco - che è pur sempre un ufficiale rispondono a un'impostazione di fondo prettamente militare: si preoccupa di indicare una divisa, che devono usare almeno le bande principali; definisce i gradi; non esclude l'impiego di artiglierie. Soprattutto, le bande sono delle élites di volontari, scelti tra i più prestanti: gli altri sono destinati all'insurrezione. Diversamente dal Mazzini, il Bianco si rende conto che non tutti i componenti delle bande saranno animati da alti e puri ideali: una parte di loro si arruolerà per interesse. Bisognerà quindi trovare il modo di pagarli appena possibile, e dopo la vittoriosa conclusione della lotta, dovranno essere tangibilmente ricompensati con pensioni e assegnazioni di terre demaniali o già di proprietà dei sovrani spodestati. Come il Balbo e il Pepe, il Bianco dà grande importanza alle piazzeforti, a favore delle quali devono operare le bande circostanti e che devono essere difese secondo le regole dell'arte. E come osserva il Liberti, egli si ispira anche a storici «moderati» come il Vacani e il Botta. TI Bianco è assai esplicito, diversamente dal Mazzini, sulla necessità di non rispettare le regole umanitarie: non si fanno prigionieri, non è disonorevole l'uso di armi da taglio avvelenate, «tutte le leggi della guerra cessano all'istante che scoppia l'insurrezione, ogni opera è santa, qualunque essa siasi quando ha per solo scopo d'annichilare il nemico deJla Patria». Ma la differenza decisiva, rispetto alle teorie del Mazzini si trova è nel suo concetto di banda come avanguardia, come scintilla della rivoluzione: un numero qualunque di decisi italiani riuniti, armati, e ben determinati a cominciare, e sostenere la guerra d'insurrezione [ ... ] ecco la prima formazione della banda. L'avviso di prendere il campo sarà dato dalla congrega suprema a tutte le dipendenti suddivisioni ...
Le bande, dunque, prendono il campo su ordine, anche indipendentemente dall'insurrezione, visto che sono loro che la devono incominciare e sostenere. Esse fungono da innesco: incoraggiato iJ popolo italiano dai prosperi successi delle bande, ovunque si determinerà alla guerra più attiva, si deciderà all'impiego immediato d'ogni mezzo possibile d'attacco, e difesa, né deporrà le armi se non quando l'uguaglianza, la libertà, l' unità e l'in-
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dipendenza rimangano assicurate; da ogni lato, da ogni classe di persone, da ogni sorte d'anni verrà assalito il nemico che non troverà in alcuna parte della penisola né riparo, né salvezza.
Abbiamo già dimostrato che non è vero che, per Mazzini, la guerra per bande deve seguire J'insurrezione: ma è certamente vero che, negli scritti dal 1931 al 1934 e nel proclama che dovrebbe dare il via all'insurrezione in quest'ultimo anno, insurrezione e guerra per bande iniziano contemporaneamente. E' questa la differenza fondamentale - mai chiarita - tra le sue concezioni con quella deJ Bianco che è «militare» o meglio militarista, perché è pur sempre - come nel 1821 e 1831 - un' azione militare e d'élite, anche se svolta fuori dalle regole tradizionali e non da militari, a creare le condizioni per l'insurrezione di tutto il popolo: non viceversa. La differenza, perciò, non va ricercata nel diverso fine della guerra per bande: per ambedue, sia per il Bianco che per il Mazzini, il fine della guerra per bande non può che essere uno, e uno solo: la cacciata de11 ' Austria dal territorio nazionale. Mazzini afferma che l'educazione nazionale prepara l'insurrezione, e che la guerra per bande è sistema comunque da preferirsi rispetto alla guerra di eserciti regolari, anche perché serve a educare tutto il popolo, a infondergli quello spirito nazionale, unjtario, militare, che gli manca: tutto qui. Non è quindi fondata l'affermazione di coloro che, come il Liberti, indicano tale differenza nella diversità di fini della guerra per bande: mezzo per distruggere il nemico per il Bianco, mezzo di educazione nazionale per il Mazzini. Il Liberti, in particolare, afferma: «la guerra d'insurrezione per bande, guerra assoluta, totale, immediata per il Bianco di Saint Jorioz, mezzo di educazione nazionale del popolo, quando potrà realizzarsi, per il Mazzini». Ma anche il Mazzini vuol cacciare il nemico dall'Italia e attaccarlo coi metodi spagnoli! Se mai, la sua guerra è assai più «assoluta» di quella del Bianco, che la affida almeno inizialmente a una élite di guerriglieri: Mazzini, fin da1l'inizio, vuol coinvolgere tutto il popolo, anche se - al contrario di ciò che dice il Liberti - ritiene la guerra per bande proprio l'unico «metodo di guerra che possa condurre immediatamente all'indipendenza nazionale». Questo equivoco non chiarito sul ruolo iruziale delle bande è la ragione principale della disapprovazione del Mazziru per i numerosi - e abortiti - tentativi di gruppi armati dal 1839 al 1845, ivi compreso quello dei Fratelli Bandiera, che si risolvono in una visione «militarista» ed elitarianon adeguatamente preparata, e accompagnata, da un vasto moto insurrezionale e popolare. Comunque sia, è questo contrasto teorico la radice deJ dissidio tra il Mazzini e il Fabrizi, che con la sua «Legione Italica» costituita nel 1839 voleva subito passare all'azione, a prescindere dal con-
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testo insurrezionale e anzi sperando di provocarlo_ E con 1' affermazione che «nella Giovine Italia gli italiani divennero cittadini, nella Legione Italica si disporranno a divenir soldati», il Fabrizi, in buona sostanza, alle sue bande voleva assicurare il ruolo di braccio armato, il monopolio dell'azione m.ilitare e violenta, lasciando alla Giovane Italia solo la parte politica e ideologica ... Anche il Bianco, in fondo, non ammette nessun spontaneismo: le bande che guerreggiano senza autorizzazione devono essere distrutte, mentre le altre devono avere un carattere strettamente nazionale. Gli stranieri sono suddivisi di massima tra le varie bande, e quelle eventualmente composte di stranieri devono comunque avere ufficiali italiani, coadiuvati da volontari italiani, «per assistere gli ufficiali, e tener testa alle loro pretensioni o rebellioni»; per giunta, le bande così composte «operano sempre sotto la dipendenza di un'altra banda del Paese»_ Le bande, certo, possono essere variamente composte ma, a parte l'uso di nom.i diversi, il Bianco indica pur sempre come formazione organica di base la centuria, la quale non è altro che una compagnia dell'esercito regolare, con buona intelaiatura di subalterni e sottufficiali e accentuata autonomia logistica, che prevede aiutante chirurgo, armajuolo, vestitore-calzolaio, e persino vivandiere-lavandaio e atleta ginnastico, e deve avere al seguito anche un «molino a braccio»_ Più di così ... perché il Pieri accusa anche il Bianco di aver trascurato la logistica? Naturalmente il Bianco, come il Mazzini, parte dal principio che gli eserciti regolari dei vari Stati italiani non sono in grado per quantità e qualità di far fronte tutti insieme e validamente all'Austria, e scarta anche la. soluzione che poi almeno in parte si realizzerà - con mediocri risultati nel 1848-1849: «che venga da uno o più Stati, la bandiera della patria inalberata, e che successivamente da un paese all'altro estendendosi, la rivoluzione si renda generale»_ Nel 1848-1849 non c'è stata alcuna rivoluzione, e non c'è stata nemmeno una reale unità delle forze dei vari Stati: quindi non è condivisibile il commento del Liberti, che su questo punto osserva, riferendosi alla guerra del 1848-1849: «a giusta ragione, il Bianco non pensa che si possa rimanere inerti ad attenderla». Ma l'alternativa era solo che si trovassero volontari per coprire di bande tutto il territorio nazionale: alternativa ben presto dimostratasi irrealizzabile. Piena comunque la concordanza del Bianco con il Mazzini sul fatto che, almeno all'inizio, non si può contare sulle forze regolari. Da esperto ufficiale, il Bianco conosce bene le vulnerabilità logistiche di un esercito regolare e il modo per fiaccarlo, senza mai accettare scontri in campo aperto. Suggerisce stratagemmi e armi di circostanza, e persino rudimentali m.ine, schioppi che sparano tre colpi alla volta, cannoni fatti con
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tronchi di legno incavato. Le sue bande non sono composte solo da contadini e da abitanti dei villaggi: ma questi ne sono il punto di forza anche logistico. TI vettovagliamento delle bande è facilitato dal fatto che «la maggior parte degl'Italiani e cioè gli agricoltori, pastori, massari e gli abitanti dei borghi e villaggi, quelli specialmente situati alle falde dei monti, la parte più utile in questa guerra [nostra sottolineatura - N.d.a.] è scevra dai bisogni comuni di coloro che vivono nelle Città». Una parte dei fondi delle bande deve essere destinata dal suo capo al soccorso degli ammalati, degli orfani e vedove, dei poveri del circondario, «la qual cosa mettendolo nella fama di benevolo, e caritatevole, gli procaccerà la benevolenza dei contadini già disposti in suo favore, perché egli difende la causa del popolo». Ma è nella fase sollevazione in massa (capitolo XIX del Trattato) che il contadino e l'abitante del villaggio diventano protagonisti. In questa fase gli abitanti dei villaggi lasceranno passare pacificamente i reparti nemici, per poi assalirli alle spalle e impedire il loro ritorno sbarrando e organizzando a difesa le strade. TI contadino che lavora nei campi tiene nascosto a portata di mano lo schioppo per colpire i nemici isolati, nascondendo subito i cadaveri e il bottino e riprendendo a lavorare dopo aver ricaricato lo schioppo. E tutti i contadini, «che per la loro età o difetti corporali non faranno parte delle bande, dell'esercito, della guardia nazionale, e delle torme si agguateranno vicino alle strade maestre all'oggetto di trucidare tutti i suoi corrieri, e ordinanze ... ». E carri carichi di bevande e cibi avvelenati si lascieranno catturare dal nemico .... Per quanto riguarda le operazioni marittime, il Bianco ottimisticamente auspica che le tre Marine militari e mercantili italiane - quella piemontese, quella napoletana e anche quella austriaca, perché composta in prevalenza da equipaggi italiani - aderiscano compatte alla causa nazionale. E così non avendo nemici sul mare sarà agevole al nostro naviglio di consacrarsi del tutto in ajuto delle operazioni di terra, e per tal modo dare maggiore rapidità ai movimenti delle bande, sottrarle al pericolo di essere raggiunte dall'incalzante nemico, facilitare il loro trasporto dall'una parte e dall'altra del litorale, onde prendere il nemico di rovescio, in fianco, e alle spalle, e finalmente salvarle da imminente distruzione.
Concetto d'impiego strategico, questo, analogo a quello del Pepe (vds. successivo capitolo XVI). Il Bianco considera anche il caso «possibile benché forse non tanto probabile» che le flotte francese, inglese e russa intervengano in aiuto dell'Austria, occupino le isole italiane tra-
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sformandole in altrettanti basi della controrivoluzione e attacchino le coste del nuovo libero Stato. Per impedire che ciò avvenga, le marine militari e mercantili italiane devono passare alla guerra di corsa, seguendo il glorioso esempio dato nel 1821 e 1822 dai Greci contro gli Ottomani e iniziando sul mare «la stessa guerra da noi indicata pel continente, con quelle variazioni necessarie alla diversità dell'elemento». Le città costiere devono approntare dei «lancioni o cannoniere», lunghe barche con un cannone a prora e con un equipaggio circa 100 uomini che fungono sia da rematori che da fucilieri, con le quali di notte si attaccheranno e abborderanno di sorpresa i vascelli di alto mare. In tutti i casi non appena vedranno un vascello nemico dovranno senz'altro attaccarlo: «il loro sistema sarà di corrergli addosso; la piccolezza dei legni, l'arte di maneggiarli, e l'ardimento dei volontarj li salverà dal pericolo delle artiglierie della nave attaccata. Non presenteranno mai al fuoco del legno assalito oltreché la prora col suo cannone sporgente coronata dai moschettieri vomitando un continuo fuoco; tutti i tiri dovranno essere così bene aggiustati negli sportelli dei cannoni da sgomentare e rendere i migliori artiglieri mal'atti alla difesa». E una volta giunti ali' arrembaggio, una parte degli attaccanti rimarrà a bordo per affondare il lancione, cosa che «farà rimanere stupefatto l'equipaggio del vascello che non farà resistenza», o se la farà, data la confusione inevitabile sarà facilmente vinto. Poiché la flotta italiana dovrà comunque combattere in condizioni d'inferiorità, le sarà molto utile l' uso dei brulotti che lanciati contro le flotte ottomane le incendiavano: e, anche in questo caso, il Bianco fa un'accurata descrizione di come si prepara e si impiega un brulotto. Diversamente da quanto avviene per i moduli d'azione del Fabrizi, non si trova mai, nei copiosi scritti del Mazzini, una sola riga di dissenso da11e posizioni teoriche del Bianco o da quelle del Budini, il cui scritto Alcune idee sull'Italia pubblicato a Londra nel 1843 porta anche la prefazione del Mazzini. Questo fatto può essere interpretato in un solo modo: fermo rimanendo il principio fondamentale che la guerra per bande deve avere il consenso dei cittadini e in particolare della popolazione delle campagne, sui tempi e modi del suo inizio Mazzini ammette - oltre a quelli da lui preferiti o ipotizzati - anche altre idee.
Cenni su alcuni scritti minori Trascuriamo l'analisi dettagliata di altri scritti minori citati dal Liberti o dal Del1a Peruta, perché non sono che «variazioni sul tema» a ca-
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rattere tecnico-tattico che poco aggiungono alla tematica ben approfondita dal Bianco e alle idee-guida del Mazzini; di essi daremo solo brevi cenni. Dell'articolo anonimo del 1832 Ristrettissimi mezzi grandiosi risultamenti41 ci limitiamo a ricordare la chiusa: «quando non si hanno armate bisogna limitarsi a fare i capi di banda, ed eludere le forze nemiche come hanno fatto i contumaci di Corsica. Gl'Ttaliani siano prudenti, non si espongano infruttuosamente come hanno fatto fino adesso». Se ne deduce che la guerra per bande non è una ricetta sempre valida: va bene solo per chi non ha un esercito, o - avendo forze regolari inferiori - «si espone infruttuosamente», come hanno fatto gli italiani nel 1821 e 1831. Il lungo studio di Enrico Gentilini Guerra degli stracorridori o guerra guerriata (1848)42 accentua gli aspetti «militaristi» della guerriglia già presenti nel Bianco: dà una certa importanza all'artiglieria, insiste nella necessità di evitare soprusi e ruberie e sulla stretta disciplina, non ritiene opportuno (diversamente dal Bianco) che delle bande facciano parte individui di dubbi precedenti, ammonisce che «non dalla quantità dipende l'esito delle imprese, ma dalla qualità delle persone». E il comandante generale delle schiere avrà il nome di Duce ... Come ben ricorda il Liberti, il Gentilini è autore di diverse opere di carattere militare che non riguardano lo specifico argomento della guerriglia: e ciò che egli dice di quest'ultima nella Guerra degli stracorridori è una semplice raccolta di norme e regole tattiche e tecniche, quali si trovano in qualunque trattato sulla guerra di montagna o sulla piccola guerra condotte da forze regolari. Parla di Fanti, Cavallieri, di falangi di Fanti e Cavallieri, di falangi di Fanti e Artiglieria.falangi di Fanti, Turme e Artiglieria. Dell'artiglieria dice che «è l'anima della guerra in grande, ma nella guerra degli Stracorridori non è tale, perché non si arrende alla agilità e prestezza che questa guerra richjede. Potrebbe non di meno essere utile per rinforzare i mezzi difensivi di un immenso corpo e metterlo in istato di opporsi fortemente e resistere più a lungo tempo contro il nemico». E della guerra di montagna: «per guerreggiare utilmente nelle montagne si deve accoppiare l'audacia alla circospezione. Gli antichi conoscevano assai meglio dei moderni la guerra montana, e ne traevano infiniti vantaggi. La guerra nelle montagne vuol essere demandata a un capo che sia ben scaltro. Vi vuole da per tutto esperienza ed accortezza; ma l'astuzia
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E. Liberti, Op. cit., pp. 167- 168 e 387-393. ivi, pp. 189-199 e 580-636.
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è il nerbo principale di questa guerra». Concetti che vanno benissimo anche per l'impiego di forze regolari in «operazioni secondarie di guerra» o nella guerra di montagna; e ammettendo che l'artiglieria possa servire per megli difendere una posizione, ammette di conseguenza ciò che persino Clausewitz esclude, cioè che la guerriglia possa avere convenienza ad assumere un atteggiamento tattico difensivo. Secondo il Liberti il Gentilini «non parla mai di eserciti regolari». Ciò non è esatto perché, come fa notare il Del Negro, egli afferma che il Capo delle «piccole schiere» deve corrispondere col «capo della milizia stanziale», il quale non è altro che il capo dell'esercito regolare. Vero è, però, che egli non dà particolare enfasi alla presenza dell'esercito regolare, per la semplice ragione che i suoi «stracorridori» e la loro tattica sono bivalenti, e la loro azione può indifferentemente riguardare soldati regolari o partigiani in senso moderno, così come i loro capi. Per questo le modalità tattiche da lui indicate non richiedono differenziazioni, né egli - in questo saggio sugli stracorridori - sa elevarsi a un piano più alto, politico e strategico. E 11e1Iunenu senle il bisogno di indicare allo stracorridore, oltre allo «sterminio degli insolenti nemici del paese natìo» altri concreti obiettivi di riscatto sociale: «terminata la guerra, il premio a bramarsi dalle schiere sarà quello di tornarsene ciascuno a ricovero negli onesti abituri portando seco la gloria di aver salvato la patria». Un po' poco. Meritano un certo rilievo anche le osservazioni sulla guerra partigiana del colonnello di cavalleria Ferrero di Ponsiglione, che intitola De' partigiani una parte non trascurabile del volume IT della sua già citata opera Memorie militari estratte dalle norme del guerreggiare prescritte da Grandi e Illustri Capitani degli andati e moderni tempi (1839).43 Il Ferrero tratta sia quella che chiamiamo piccola guerra, cioè le operazioni (al tempo comunemente dette «secondarie») condotte da reparti regolari a favore della parte principale deJl'esercito, sia la guerriglia combattuta da minori unità autonome e irregolari sul modeJlo spagnolo e portoghese. Il suo contributo, immeritatamente finora trascurato da tutti, è invece da ricordare sia per il modo magistrale con cui descrive la piccola guerra, sia per ciò che dice della guerriglia spagnola. Dopo aver messo in luce le difficoltà di fronte alle qual i si trova il nemico in una guerra partigiana, il Ferrero ricorda che «così operarono i guerillas spagnoli nella guerra d'indipendenza, i partigiani russi e prussiani, come Tettenborn, Czernischef, Liitzow, Thielmann [... ] neJla cam-
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Ferrcro di Ponsiglione (Col.), Op. cit., pp. 61-70.
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pagna dell'anno 1813 e il capitano Chambure all'assedio di Danzica nelJo stesso anno». Ma accanto ai vantaggi di questo tipo di guerra, per il Ferrero vi sono anche gli svantaggi: il primo è che la guerra diventa totale e di logoramento e si protrae a lungo divorando uomini e risorse; il secondo è l'imbarbarimento dei costumi di tutto un popolo. E' facile - prosegue il Ferrero - conoscere e studiare i successi dei partigiani spagnoli e tedeschi; ma «se a vece di una codarda ferocia, il valore fosse stato il distintivo de' guerrilla.s, certamente avrebbero fatto maggior male ai Francesi; dovendo comporre corpi di tal genere quando la guerra si protrae per qualche tempo, la formazione loro è soggetta a gravissimi inconvenienti difficili da evitarsi». E a proposito del mancato rispetto del1e regole umanitarie da parte dei guerriglieri, in nota egli precisa: «ogni astuzia è buona, ma ogni perfidia è vergognosa. E' nell'interesse delle nazioni, diceva a ragione il Re Pirro, che non si diano per nulla tali esempi; e la guerra, secondo P1utarco, trova ]e sue Jeggi ne] cuore degli uomini onesti». Un altro punctum dolens è la disciplina delle formazioni irregolari. Se non sono comandati da uomini di sommo carattere, i partigiani diventano «briganti privilegiati» e non trovando più l'appoggio dei concittadini, cadono nelle mani del nemico. Anche in Spagna, se qualche volta i francesi hanno sorpreso i comandanti partigiani, ciò è avvenuto grazie alle informazioni fornite dai cittadini vessati. Comunque, i partigiani migliori sono quelli provenienti dall'esercito regolare: gli altri sono «uomini senza scelta, dei quali sovente l' unica mira è di vivere a11e spalle dei cittadini». Infine, la vita del partigiano è assai dura per chi vuol farla veramente bene: ad essa poco si adattano «g1i uomini sedentarj assuefatti al riposo». In Spagna e Portogallo, la guerriglia è stata favorita dalle condizioni di vita di quei popoli, ma il prezzo pagato - e che si continua a pagare è stato assai alto: lo stato di povertà in cui vive la massa delle nazioni spagnola e portoghese, la mancanza d'industria all'agricoltura e alle manifatture, i vizi introdotti nell'amministrazione francese, quando questa nazione vi guerreggiava, e per fine la misera fattasi generale, fecero sì che una gran parte del popolo s'unì alle guerrillas; ma gli eccessi che commisero in ogni genere, contribuirono egualmente come i Francesi alla rovina della loro patria; i costumi s'inferorono ancor più, e gli avvenimento occorsi in que' due Regni dappoi della partenza de' Francesi, servono tuttora di prova ben evidente.
In effetti le formazioni guerrigliere molto difficilmente riuscivano ad evitare sorprusi e vessazioni nei riguardi de11e popolazioni inermi, e
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inoltre non erano immuni dagli effetti dei contrasti e odi tra nazionalità diverse. Lo dimostra anche un messaggio di Andreas Hofer (celebre capo della guerriglia antinapoleonica tirolese) datato 9 settembre 1809 e indirizzato ai «tirolesi italiani» del Trentino, maltrattati dalle sue bande molto probabilmente composte, almeno in prevalenza, da tirolesi austriaci: «con dispiacere intendo che voi foste maltrattati dalle mie truppe. Il mio cuore sincero abborre bande d'assassini, e saccheggi. Abborre requisizioni, ed abborre ogni sorta di disgusti, e pretese, che si vanno facendo a quelli, che ci somntinistrano i quartieri» (da un proclama custodito nel Museo del Risorgimento di Trento diramato da Bolzano, nel quale il Hofer si autodefinisce «Comandante Superiore in Tirolo», alla maniera militare). Non risulta che Hofer abbia in seguito preso misure concrete e efficaci per evitare «disgusti e pretese» nei riguardi degli italiani.
Il ruolo e le modalità della guerriglia nella strategia «peninsulare» di
Guglielmo Pepe Ufficiale dell'esercito e uomo d'ordine, il Ferrero mette in rilievo soprattutto gli innegabili inconvenienti della guerriglia. Ben diverso, e decisamente più positivo, l'approccio alla guerriglia del generale napoletano Guglielmo Pepe (vds. capitolo XIll), che dedica alla specifica problematica della guerriglia la sesta parte del suo libro L 'Italia militare e la guerra di sollevazione per bande, scritta su espresso invito di Terenzio Marniani.44 In questa occasione, peraltro, il Pepe non dice molto di nuovo rispetto alle tesi già esposte in precedenza, ma fornisce solo degli elementi per raffittire l'ordito strategico, che è sempre lo stesso: esercito napoletano, appoggiato al ridotto calabrese, perno della guerra contro l 'Austria, e bande di insorti che avvalendosi del terreno favorevole alla guerriglia hanno il compito di logorare, ritardare e indebolire la marcia verso sud dell'esercito austriaco (che nel 1821 le forze regolari napoletane al comando dello stesso Pepe non erano riuscite a ostacolare seriamente). Prima condizione per la vittoria è, secondo il Pepe, la direzione unica della guerra: ciò non toglie che sia «falsa idea che una nazione, se priva di un agguerrito esercito, difendere non possa la sua indipendenza
44 G . Pepe, L'Italia Militare ... (Cit.), pp. 61-68. Vds. anche E. Liberti, Op. cit., pp. 171-181.
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contro esercito straniero avvezzo alla guerra» [com'era quello austriaco - N.d.a.]. Quindi, per il Pepe può riuscire vincente anche una guerra di popolo condotta senza esercito regolare, ammissione importante e rara, che peraltro il Liberti non cita e non sottolinea; ma ciò non toglie che «quando alla direzione e all'unità si aggiungessero schiere ordinate, sebbene non assuefatte a campeggiare, e di più la configurazione del suolo propizia alla difesa, la vittoria sarebbe non solo sicura, ma ben anche si otterrebbe senza esorbitanti sagrifizi». Chi lo potrebbe negare? Secondo il Pepe le «guerre di sollevazione per bande» sono le più sanguinose e onerose, affermazione anch'essa certamente non contestabile. Esse, in genere «si fanno da' popoli o contro i loro prìncipi che avessero schiere, o un partito dal canto loro, o si fanno da' popoli per opporsi all'invasione dello straniero, o per liberarsi dal suo giogo». Ma per quanto riguarda l'Italia «niuno dei Principi che hanno scettro rinverrebbe, come un Carlo Primo inglese, il favore di un partito popolano, o l'appoggio di parte dell'esercito. Quindi tratteremo solo della guerra di sollevazione italica contro gli austriaci». Perchè questa guerra abbia successo, il Pepe indica tre condizioni: a) che i capi della sollevazione siano compromessi a tal punto, da non aver più vie d' uscita e speranze di salvezza se la soJlevazione dovesse fallire (evidente il ricordo di quanto era avvenuto a Napoli nel 1820-1821 e nel 1831 ); b) che si disponga sempre di un ridotto, cioè «di un grande punto di raduno riparato dagli assalti del nemico» (le Calabrie); c) si deve sempre «impiegare la guerra difensiva per bande sostenute da schiere di linea, ne fosse anche assai mediocre il numero. Questo guerreggiare tanto confacevole al suolo e a]]'indole italica, richiede lunga esperienza di tal forma di guerra, ed il senno di non confondere ciò che i popoli potrebbero fare con ciò che probabilmente farebbero». Alla buon'ora! Ma questo avvertimento, il Pepe lo dovrebbe rivolgere anzitutto a sé stesso. Per dimostrare i suoi asserti il Pepe ricorre in misura massiccia a exempla historica recenti e alle sue personali esperienze: la sollevazione dei valorosi lazzaroni napoletani contro i francesi nel 1799, l'azione delle bande del Cardinale Ruffo, l'insurrezione delle Calabrie contro le truppe regolari francesi e napoletane (delle quali egli stesso faceva parte) nel 1806-1807, le bande antifrancesi che si sono spontaneamente formate negli Abruzzi, la guerra di Spagna alla quale egli stesso aveva partecipato distinguendosi a11a testa di un reggimento napoletano ... E cita anche - nella traduzione francese - il celebre proclama dei generali prussiani al popolo per la guerra nazionale contro i francesi nel 1813, nel quale si saltano tutte le remore sociali e umanitarie e i topoi della guerra tra eserciti.
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Il Pepe indica anche vantaggi e limiti della guerra per bande o «a1la spicciolata», più vo1te sottoHneando che il terreno della peniso]a vi si adatta mirabilmente. Il punto «di appoggio e di accentramento» sarebbe naturalmente il Mezzogiorno, sia perché ]e popolazioni della pianura pedana non sarebbero adatte alla guerra per bande, sia perché l'esercito austriaco avrebbe subito e facilmente ragione di difese organizzate nel nord. E o]tre a logorare, assottigliare, costringere a lasciare presidi alle spalle l'esercito austriaco man mano che procede verso sud, ]a guerra per bande avrebbero quel valore educativo che già adombra il Mazzini: da tre secoli in qua poche volte gl'italiani hanno da soli sostenute guerre contro lo straniero. Quindi per assuefarli di bel nuovo radicalmente al mestiere delle arme non esponendoli sulle prime a compiute disfatte, che scorano e non agguerriscano, per trarre vantaggio dalla loro attitudine individuale, in fine perché secondassero senza freno il punto generale d'appoggio, formar si dovrebbero in bande, le quali quanto meno numerose in origine acquisterebbero col tempo consistenza maggiore. Se, poi, i] governo degli insorti disponesse di forze navali a vela o vapore in grado di C(?steggiare i] litorale, «le bande acquisterebbero grandissima forza morale, ch'è tutto ne11e guerre». Sull'altro piatto della bilancia, una considerazione analoga a quella del Ferrero: il lato tristo delle bande, come vedemmo noi stessi in Spagna, e nel regno di Napoli, è il disgusto che il recar sogliono - per difetto di disciplina - alle classi agiate. Noi indicheremo le vie da tenerle quanto più fosse possibile attaccate a' loro doveri, poi~h~ la pe1fezione è lungi dalle opere umane, soprattutto in momenti ardui e d'innovazioni sebbene salutari. Ma gli inconvenienti «inevitabili e passeggeri» che comporta il ricorso a11a guerra per bande, sarebbero a lunga scadenza ben compensati dal fatto che ]e bande aprirebbero la via al merito individuale e farebbero emergere quei capi naturali dei quali è ricca l'Italia, «onde le intelligenze nazionali, i Buonaparte, i Massena, i Montecuccoli, i Farnese che facevansi strada tra schiere oltramontane, sorgerebbero di bel nuovo a favore de11a causa patria». Il Pepe non ha pregiudiziali: a seconda dei casi e delle situazioni, la gioventù dovrà arruolarsi o ne11' esercito regolare delle Due Sicilie o tra le bande. E termina il suo scritto con un invito «ai giovani che
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nell'Italia d'oggigiorno primeggiano per intelligenza ed agiatezza» a dare per primi 1'esempio di combattere tra le bande, ammonendo però che sia lungi da loro la lusinga d'ottenere risultamenti felici senza la volontà decisa de' popolani. In essi è la robustezza, l'abitudine alle fatiche, alle privazioni, e quel che val meglio, essi più piegansi all'ubbidienza, essi più ispirano simpatia e fiducia in que' della loro classe, il nerbo della nazione. Quindi la loro mente adoprar si debbe a farsi amare e stimare dal popolo. Come la mente del Governo e del Congresso italico fin da' primissimi giorni del1a loro elevazione, volger si dovrebbe a far sl che la causa del popolo divenisse eminentemente popolana.
Con queste parole, il Pepe si spinge ancor più lontano del Balbo e forse - sotto 1'aspetto sociale - dello stesso Mazzini, fino ad ammettere - fatto significativo - che, sia pure ad un prezzo maggiore, la guerra d'indipendenza nazionale contro lo straniero può essere vinta anche senza un esercito regolare. Ma certamente - come riconosceva a sua volta il Mazzini - se c'è anche l'esercito, è meglio ... Dimenticando che il Bianco proponeva addirittura di eliminare i capi - banda che non intendevano accettare l'autorità della direzione suprema della guerra, il Liberti critica alcune pretese del Pepe di disciplinare l' azione delle bande e vincolarla alle operazioni dell'esercito regolare (concessione di brevetti da parte del generalissimo dell'esercito delle Due Sicilie ai capi delle bande, che ricevono ordini e istruzioni da parte dello stesso generalissimo e di altre autorità da lui indicate); ma la necessaria direzione unitaria ha un prezzo e il Pepe chiede forse troppo, delinea il caso ottimale, proprio per ottenere almeno il possibile e il necessario. Forse che in Spagna, in Germania e in Russia i partigiani, quando possibile, non hanno cooperato con l'esercito regolare? quale sarebbe l'alternativa? che i capi delle bande avessero ai loro ordini i capi dell'esercito regolare? che ognuno facesse in piena autonomia la sua guerra? Qualsiasi insurrezione o rivoluzione ha sempre avuto bisogno di una guida e di un coordinamento almeno strategico delle forze; il Pepe, comunque, è assai elastico in proposito. Lo dimostra ciò che egli scrive in materia di autonomia delle bande, che il Liberti omette di citare: da ciò che esposto abbiamo, e dall'esperienza che a noi è ridondata dalle guerre d'insurgenti nelle Calabrie ed in Ispagna, è in noi la
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ferma opinione che le bande nell'ordinamento loro e nella condotta, non debbono molto sentire l'azione del governo o del comando militare, né devono intieramente rimanere in balìa di esse stesse. Perché o perderebbero dell'impeto, dell'ardire e del genio individuale, o cadrebbero in confusione sl fatta, da commettere ogni disordine, ogni turpitudine, a segno che i popoli alla presenza de' difensori preferirebbero quella del dianzi aborrito nemico, come vedevamo talvolta avvenire in Calabria e in Ispagna.
Il Pepe vuole semplicemente, su questo argomento, il giusto mezzo, né si sa come dargli torto; e ugualmente ingiusto ci sembra l'addebbito mossogli dal Liberti di «riesumare la tecnica delia guerra partigiana nella sua forma strettamente militare operativa: segno evidente di incapacità a superare l'atteggiamento prettamente professionale». Superare perché, e come? forse che Mazzini o Bianco «superano» - e quindi accantonano - gli aspetti tecnico-militari della guerriglia? Essi sono un tutt'uno con il problema politico e sociale; non vanno «superati» ma inseriti in un più ampio contesto. Il Pepe non è un capopopolo, un sociologo, un agitatore politico: è un militare. Ciononostante, nelle sue opere egli si occupa più che a sufficienza del quadro politico della guerra d'indipendenza, né gli sfugge che la guerra d'indipendenza deve aver una sicura base popolare; per ottenere questo, precisa che la classe dirigente e il governo degli insorti devono andare incontro al popolo, farsi carico dei suoi bisogni e interessi, guardagnarlo alla causa nazionale. È quanto basta: lo stesso Mazzini, lo stesso Bianco, non dicono, - e fanno - molto di più. Certo, il Pepe in talune sue prospettive strategiche pecca di realismo, e confida troppo nel disinteressato amore delle popolazioni meridionali per la causa nazionale e nel loro odio per lo straniero, nel quale dopo il 1860 purtroppo identificheranno ... solo il piemontese. Non è, questo, lo stesso limite del Mazzini e dei mazziniani? Piuttosto, il calabrese Pepe ignora i numerosi focolai d'insurrezione che, sia pure con non grande intensità durante l'occupazione francese si erano accesi anche nell'Italia Centrale e Settentrionale, in Toscana, in Umbria, nelie Marche, in Emilia, nel1e Langhe e nel Novarese e Canavese, e, dopo il consolidamento del dominio napoleonico, avevano piuttosto assunto il carattere di protesta contro le tasse, il carovita e la coscrizione (Appennino piacentino, 1805-1806; Polesine, Comasco, Valcamonica, Valtemna...).45
45
P. Pieri, Storia militare del Risor1:imento (Cit.) pp. 12-13.
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SEZIONE III - Le analisi storiche attualizzanti sulla guerriglia nel XX secolo.
I f?iudizi del periodo tra le due guerre mondiali: sempre riduttivi?
Nel periodo tra le due guerre mondiali, per comprensibili ragioni le molteplici voci levatesi sul ruolo della guerriglia sono del tutto dimenticate. In Italia come in Europa prevale non solo e non tanto una sua interpretazione puramente tecnico-militare, ma una sua interpretazione riduttiva, mentre i movimenti rivoluzionari di vari Paesi, a cominciare dall'URSS, guardano esclusivamente alle forze regolari. L'Enciclopedia Militare del 1933 riporta correttamente l'antico significato militare del termine partita, e afferma che partigiani «venivano chiamati nell'esercito della Repubblica di Venezia quegli uomini del contado che volontariamente, o per amore verso lo Stato, o per desiderio di fama, o per bramosia di guadagno, si mettevano alla coda dell'esercito e vi adempivano tutti i servizi de11a fanteria leggera».46 Viene correttamente definito anche il termine guerra piccola, precisando però che non è più in uso. La guerra di partigiani «fu sempre di irregolari lii che è vero - N.d.a.], né le sue operazioni erano dipendenti da quelle dell'esercito principale [ciò non è esatto; spesso invece erano dipendenti N.d.a.]. Nell'epoca nostra è resa impossibile (sic)». Dopo quest'ultima affermazione categorica quanto superficiale e infondata, ci si aspetterebbe una definizione di guerriglia dello stesso tenore: invece - checché ne dicano taluni studiosi di oggi - tutto sommato quanto l'Enciclopedia afferma in altra parte sul significato di questo termine è accettabile, fino a far supporre che si tratti di una «mano» diversa: guerra minuta, fatta di scaramucce e piccoli combattimenti, condotta da truppe di scarsa entità o da gente senza ordinanza cd alla spicciolata. In genere si fa in paesi di montagna f... I La G. largamente usata in passato e condotta a fianco della guerra grossa da reparti di volontari o irregolari, e anche da partigiani senza alcuna ordinanza levatisi in armi per difendere i propri paesi, oggi non può essere considerata che eccezionale presso le grandi nazioni [nostra sottolineatura - N.d.a.]. Può invece, trovare ancora larga applicazione presso quei popoli che non posseggono grandi eserciti
46
«Enciclopedia Militare», Voi. I, p. 842.
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o che hanno assai vasto territorio di frontiera da difendere in relazione alle forze disponibili. 47
Le critiche postume e attualizzanti a queste parole ci sembrano fuori luogo. Forse che le guerre partigiane in Italia, Francia, Jugoslavia e Russia nell'ultima guerra - peraltro mai giunte a livelli d' intensità e imbarbirnento paragonabili a quelli del modello classico de1la guerriglia spagnola del 1808-1813, finora rimasta un fenomeno irrepetibile - possono essere considerate un fenomeno normale? forse che in qualche grande nazione prima del 1940 - e anche dopo il 1945 - si è teorizzata la guerriglia al posto dell'azione delle forze regolari? forse che la stessa rivoluzione russa del 1917 ha vinto grazie alla guerriglia? tant'è vero che, nella guerra di Spagna 1936-1939, nonostante le sconfitte le forze repubblicane non hanno mai pensato di riprodurre la guerriglia del 1808-1813 ... In quanto alla guerriglia Jugoslava 1941-1945, essa rientra pienamente nel caso di quelle nazioni che non posseggono grandi eserciti e hanno vaste frontiere; comunque ha avuto come sbocco finale la costituzione di un'armata nazionale, né avrebbe potuto affermarsi senza aiuti e concorsi esterni, anche indiretti. Per di più, non va trascurato quanto l' Enciclopedia Militare aggiunge per i territori extra-europei, in questo caso abbandonando ogni visione riduttiva: la G. avviene tuttora su larga scala nelle colonie, particolarmente da parte degl'indigeni che si oppongono all'occupante, ma anche da parte di quest'ultimo, mediante bande o reparti di irregolari reclutati sul posto, cui sono in genere affidati compiti nell ' interno richiedenti celerità di movimento e conoscenza perfetta dell 'avversario e del paese [molte di queste bande hanno operato a fianco del nostro esercito in Etiopia - N.d.a.].
Come esempio di interpretazione riduttiva andrebbe, invece, pm correttamente ricordato un articolo del 1930 sulla Rivista Militare, che intende esaminare quale influsso ha avuto la guerriglia sulle operazioni degli eserciti regolari. 48 Dopo un excursus storico nel quale viene riconosciuto che, in Spagna, «il fenomeno, aiutato dagli inglesi, assunse sviluppi grandiosi» l'autore si sofferma sui risultati dell 'attività di guerriglia serba contro le truppe austro-ungariche del generale Potiorek nella prima guerra mondiale, tenendo presente che
47
ivi, Voi. IV, p. 250. A. Ravenni (Ten.Col.), Cenni sulla ,:uerri,:lia. «Rivista Militare» n. 11 - novembre 1930, pp. 1759-1782. 48
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col finire del XX secolo, il fenomeno si manifesta nella sua piena evidenza nei Balcani, che rappresentano il terreno ideale per la guerra dei partigiani; se nelle guerre combattute dalla Russia contro la Turchia esso si affermò prevalentemente sul teatro del Caucaso, non tardò ad apparire come una caratteristica spiccata a tutte le popolazioni balcaniche, non appena queste, liberate dal giogo ottomano, furono in preda alle agitazioni interne, alla rivolta dei partiti e agli ordeggiamenti austro-russi.
La conc1usione è che nei Balcani la guerriglia non ha mai esercitato grande influenza sulle operazioni deg]i eserciti regolari, e che, pur favorita dal terreno e dagli odi ancestrali tra popolazioni vicine, essa non riesce a superare la barriera che l'impiego sempre crescente di mezzi ed il perfezionamento delle anni elevano contro l'attuazione di un tal genere di lotta; perciò non è più in grado, come nei tempi passati, di disimpegnare a11'inizio delle ostilità compiti che potevano essere chiamati di copertura, e successivamente minacciare le retrovie dell'avversario. In realtà, a noi sembra che allo scoppio della prima guerra mondiale il fenomeno de11a guerriglia si trovasse già nel suo periodo di decadenza ...
A fronte di queste infondate valutazioni, risulta implicitamente dissonante l'insolito sp~io che sul Dizionario del Risorgimento nazionale del 1931 G. De Mayo dedica alle «guerriglie siciliane» che nel 1860 facilitano i successi di Garibaldi in Sicilia contro le truppe borboniche. 49 Dopo la repressione dei moti del 4 aprile 1860 in Palermo, «in cerchio alla capitale dell'isola [...] andarono rapidamente raggruppandosi bande di guerriglieri nell'intento di rompere ai regii chiusi in Palermo, le comunicazioni col paese di fuori, molestarli con lievi, ma frequenti avvisaglie senza impegnarsi a fondo, mantenere relazioni coi centri abitati ligi alle sollevazioni [ ...] I giovani contadini [... ] avevano seguito i loro signori sul campo, animati tuttavia da un ultimo avanzo di devozione feudale [ ... ]». Al termine di una minuta descrizione dell'azione delle bande, il de Mayo conc1ude che «nessun narratore coscienzioso potrà contestare all'opera e all'abnegazione di codesti arditi partigiani il merito di aver assai spianato il cammino ai trionfi meravigliosi dell'Eroe dei due mondi. Invero, a mal grado delle apparenti sconfitte sofferte dalle guerriglie nella quasi totalità degli scontri da es-
49
«Dizionario del Risorgimento Nazionale» (a cura di M. Rosi), Milano, Vallardi 1931, Voi. I, pp. 506-507.
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se avuti con le truppe borboniche, queste ultime esaurirono in gran parte le energie morali in siffatto genere di campeggiamenti e di operazioni in cui la disciplina e gli altri vincoli organici andarono irreparabilmente depauperati [... ] La superstizione avea guadagnato gli animi di quei soldati, ogni giorno costretti a marciare per nuovi assalti, ai quali erasi assicurato loro dover tenere dietro una vittoria decisiva, che alla stregua dei fatti, appariva sempre irraggiungibile. La pessima amministrazione, la nessuna cura pel benessere della truppa aggravarono i tormenti[... ] Laonde si può inferirne che allo arrivo dei piroscafi nelle acque di Marsala il nemico che i mille si apprestavano ad affrontare aveva già molto perduto». Efficace archetipo dei caratteri e effetti della guerriglia; ma un De Mayo non fa primavera. Si potrebbe dire, a questo punto, che la sottovalutazione della guerra partigiana tra le due guerre mondiali è tipica del pensiero militare ufficiale italiano e europeo, espressione di un ben determinato assetto politico-sociale che potremmo definire - con un termine risorgimentale - moderato. Ma anche nel pensiero di Lenin e Trotskjj, portatori nel secolo XX delle nuove istanze della rivoluzione sociale contro l' establishment interno e internazionale, ciò che è veramente decisivo - come avviene del resto per lo stesso Mazzini - è il coinvolgimento nella guerra contro il capitalismo interno e internazionale di tutte le energie e risorse popolari, è quello che Mazzini chiama l'educazione, cioè la capacità di istillare nelle masse la convinzione della necessità di combattere per una causa giusta. Lenin chiosa e ammira gli scritti di Clausewitz nemico di ogni schematismo, e Trotskjj concentra con successo tutti i suoi sforzi su11a costituzione di un forte esercito con i canoni tradizionali, utilizzando senza scrupoli ufficiali ex-zaristi. Lo stesso Lenin scrive sulla Pravda del 1° marzo 1918: l' «entusiasmo non basta per fare la guerra contro un avversario come l' imperialismo [... ] La guerra deve essere fatta sul serio [ ... ]. Per faTe veramente la guerra è indispensabile avere retrovie solide e organizzate [... ]. L'Annata Rossa rappresenta indubbiamente un . materiale umano di uno splendido valore combattivo. Ma è materiale allo Stato bruto, non sgrossato. Per non condannarlo a servire da carne da cannone per l'esercito tedesco deve essere addestrato e disciplinato.50
50
Lenin, Note al libro di Von Clausewitz sulla guerra, Milano, Ed. I Classici del Marxismi? n. 5/1970, p. 17.
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Soprattutto, Lenin annota e inette in evidenza un'aurea affermazione di Clausewitz, quanto mai pertinente nel nostro caso: «ogni epoca ha le sue proprie forme di guerra, le sue condizioni restrittive, i suoi pregiudizi. Per conseguenza, ogni epoca avrà la sua teoria speciale della guerra, quale che siano i princìpi filosofici sui quali si cerca sempre, presto o tardi, di appoggiare la teoria. Non si possono giudicare gli avvenimenti militari di un'epoca che tenendo conto della loro particolarità ... ». 51 Riportandoci ora al caso italiano e all'argomento in esame, anche Antonio Gramsci non dà alcuna importanza alla guerra per bande del Mazzini e del Bianco, e anzi nettamente dissente dalla pretesa mazziniana che l'Italia faccia da sé. Gramsci si rende realisticamente conto che l'Italia non era una grande nazione già da tempo egemone (come la Francia della rivoluzione e post-napoleonica), quindi il Risorgimento non poteva ignorare che l'Italia, già in partenza, mancava di «autonomia internazionale». Di qui la sua affermazione che «il peso relativamente preponderante che i fattori internazionali ebbero nello sviluppo del Risorgimento risulta da] particolare realismo di Cavour», per il quale manifesta apprezzamento, giudicando invece Mazzini un apostolo illuminato più che un politico realista. La scarsa competenza militare di Gramsci, però, lo porta a intravedere un possibile rapporto tra «rivoluzione passiva» corrispondente alla politica cavouriana e «guerra di posizione», quest'ultima contrapposta alla «guerra di movimento» di marca mazziniana, e a parlare di un periodo storico «in cui i due concetti si debbono identificare, fino al punto in cui la guerra di posizione ridiventa manovrata». In sostanza, al di là dell'uso di termini errati e anzi fuorvianti (la reale contrapposizione era tra guerra di soli eserciti e guerra di popolo nel senso clausewitziano del termine), Gramsci pare propenso a riconoscere l'opportunità di una fusione dei due tipi di guerra, che tra l'altro sarebbe andata a tutto vantaggio delle istanze dei democratici.52 Gramsci accusa anche Mazzini di essere stato «incapace di una radicalizzazione decisiva del suo programma astratto» per quanto riguarda le aspirazioni sociali dei contadini, riferimento obbligato della guerra per bande. In merito, il suo commentatore Vìvanti cita due lettere di Marx su «Mazzini e i contadini in Italia», importanti perché fanno da battistrada ad analoghi e non condivisibili giudizi di studiosi 51
52
ivi, p. 55.
A. Gramsci, IL Risorgimento Italiano (Quaderno 19) a cura di C. Vivanti, Torino, Einaudi 1977,pp.122e 152-155.
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italiani dopo il 1945. Marx lamenta «la quasi assoluta dimenticanza da parte di Mazzini delle masse contadine, la nessuna trattazione dei problemi immensi che tali masse avevano da risolvere [... ] e - per conseguenza - la nessuna considerazione da parte sua della funzione essenziale che il movimento contadino aveva nella stessa lotta per l'indipendenza italiana».53 Ebbene, sotto l'aspetto militare noi riteniamo diversamente dal Vivanti - che ciò non è vero: né al Mazzini né al Bianco sfugge l'importanza non solo logistica dei contadini nella guerra per bande; essi anzi grazie alla loro frugalità e alla loro resistenza alle fatiche, ne sono il nerbo. Mazzini ha solo il torto di non trarne tutte le conseguenze sul piano politico-sociale, e di ritenerli pronti alla sollevazione anche senza indicare loro concrete e immediate prospettive di conquiste sociali, pur sottolineando in linea generale che il popolo combatte solo se ha la consapevolezza di battersi per i suoi interessi e che va pagata ai lavoratori la giusta mercede. D'altro canto, i contenuti militari della guerra di popolo, che nulla e nessuno esclude - in quanto tale - del contributo alla vittoria finale, ne fanno dal punto di vista sociale una guerra che deve necessariamente coinvolgere tutte le classi e non solo i contadini e il proletariato, quindi una guerra interclassista e non di classe. Le questioni di classe avrebbero potuto - e dovuto - essere regolate dopo: nelle condizioni dell'Italia del tempo, quali concrete possibilità di successo avrebbe avuto un movimento insurrezionale a carattere unitario e nazionale, senza 1' appoggio almeno della parte migliore del ceto intellettuale, della nobiltà e della borghesia? L'unico risultato certo, sarebbe stato il ricompattamento di queste categorie trainanti intorno ai principati filo-austriaci e alle posizioni politiche della Chiesa ufficiale. Di più: i movimenti per l'indipendenza del popolo americano o spagnolo, le guerre nazionali prussiane o russe contro Napoleone avevano forse avuto alla base rivendicazioni sociali interne? postulavano forse nuovi assetti sociali ed economici? oppure, a premessa di qualsivoglia progetto politico, intendevano anzitutto mantenere e restaurare quei costumi, quei valori e quelle istituzioni locali e nazionali che ritenevano violati dal piede straniero? Se si considera la questione sotto questo aspetto, si deve ammettere che Mazzini sul problema dei contadini non dice di più, semplicemente perché - per mantenere la prospettiva di una guerra veramente nazionale - almeno per il momento non può e non deve dire di più.
53
ivi, pp. 169 e p. 182 (Nota 42).
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Il «revival» degli studi sulla guerriglia dopo il 1945: dubbia validità della chiave ideologica Dopo il 1945 gli studi sulla guerriglia hanno conosciuto un improvviso revival, che ha risentito oltre il dovuto e il necessario del mutato contesto politico-sociale, e in particolare della divisione del mondo in due blocchi ispirati a contrapposte ideologie e degli affrettati ammaestramenti che si è ritenuto di poter trarre dalle vittoriose guerre nazionali e di popolo in Asia e in Africa contro gli eserciti delle grandi nazioni colonialiste dell'Europa Occidentale, guerre naturalmente fomentate e sostenute in vario modo dall'URSS. Particolare risonanza hanno avuto anche rivoluzioni contro nemici interni come quella cinese e cubana; infine sensibile è stato nell'Occidente l'influsso di teorie pacifiste, internazionaliste e antimilitariste di per sè tendenti a svalutare il ruolo dei tradizionali eserciti, sminuito anche dall'avvento dell'arma nucleare che non rendeva più possibili guerre solo tra forze regolari «convenzionali». Al di là di imprecisioni, omissioni e discutibili interpretazioni su aspetti specifici, questi studi sovente risentono di tre limiti. Anzitutto il mancato esame del contesto generale del pensiero militare europeo e italiano del periodo qui trattato, che se ben studiato porta a ritenere importante non solo Clausewitz ma anche Jomini, e a far emergere in modo più chiaro e organico le numerose valutazioni coeve sulla guerra di Spagna 1808-1813, sulla strategia napoleonica e sulla guerra futura, nella quale, a seconda dei casi, la guerra totale può essere un archetipo da studiare e un modello, oppure un'ipotesi da respingere. In secondo luogo, bisogna tenere ben presente la differenza concettuale - e si direbbe quasi, epistemologica - esistente tra la metodologia, l'impostazione e le finalità dell'opera puramente teorica di studiosi che come Jomini, Clausewitz o quelli che abbiamo denominato «scolastici» e «laici» - non hanno davanti agli occhi una concreta situazione politicomilitare da valutare e un conseguente programma militare da indicare, e la metodologia, l'impostazione e le finalità dell'opera di uomini che - come il Mazzini, Bianco, Durando e lo stesso Pepe - partono invece da ben precise valutazioni della situazione geopolitica e militare italiana del momento, che di per sè già indicano l'unica strategia e tattica possibile, corrispondente - date le premesse - all'unica possibilità militare. Senza contare, in questo caso, le contingenti esigenze di propaganda... Per Mazzini e Bianco la guerra per bande non è un'opzione teorica, ma l'unica possibile linea d'azione da seguire; i loro scritti in proposito non possono essere confrontati con quelli del Blanch, del Botta, del Racchia, del Pougni, degli stessi Clausewitz e Jomini, di tutti quelli , insom-
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ma, che possono permettersi di discorrere di strategia e tattica a bocce ferme, in sede teorica e senza avere davanti agli occhi delle concrete situazioni da valutare e confrontare. Si può chiedere a Mazzini e Bianco tutto: ma non ci si può certo aspettare che, ad esempio, del modello spagnolo essi abbiano presente e discutano anche il ruolo dell'esercito e della flotta inglesi, perché ciò automaticamente sminuirebbe e renderebbe improponibile il loro modello, che è prima di tutto didascalico, divulgativo e propagandistico, così come quello di qualsivoglia dottrina militare. Né ci si può aspettare che il Bianco, combattente in Spagna tra le forze costituzionali contro il vittorioso esercito francese d'invasione del duca di Angouleme (che penetra in Spagna nel 1823 e questa volta chiude la partita a favore della monarchia legittimista), spieghi in modo esauriente perché questa volta non è scattato il meccanismo della compatta insurrezione popolare e nazionale contro lo straniero ... Tra ricerca teorica tendenzialmente pura e ricerca di strumenti contingenti per i mass media, c'è una bella differenza. In terzo luogo, si tratta di trarre tutte le conseguenze dalle considerazioni precedenti, e constatare che - proprio il caso di Jornini lo dimostra se i personali orientamenti politici di un autore hanno senza dubbio un rilevante peso in campo strategico e tecnico-militare, questo peso si fa sentire anche nel caso dei laudatori vecchi e nuovi della guerriglia (o della <<nazione armata»), e soprattutto di coloro che lodano senza riserve e in chiave attualizzante le teorie militari del Mazzini e del Bianco. In definitiva un elemento ancor più importante, che ha influsso decisivo e comunque molto superiore a quello dell'orientamento politico, è il movente dell'autore e di chi lo studia: se egli, cioè, vuol fare opera meramente teorica e perciò completamente libera da vincoli e imperativi contingenti, se vuole invece educare e istruire la gioventù, se vuole compiacere il monarca o l'illustre autore straniero come lo Sponzilli, o non urtarlo come il Blanch; se ]a sua prospettiva è regionale o nazionale, se invece egli intende indicare una concreta e chiara prassi militare e strategica - come tale valida solo per un dato momento - per la conquista dell'indipendenza nazionale, per la guerra futura insomma. Se si tiene conto degli elementi filtranti prima indicati, le critiche di Piero Pieri alle teorie del Mazzini e del Bianco sarebbero pienamente giustificate, solo se si trattasse di due teorici militari puri e non di due agitatori politici con contingenti e pressanti esigenze pratiche di propaganda, di proselitismo e psicologiche. Si potrebbe affermare che il loro messaggio militare è utopico nella misura in cui utopico è il loro messaggio politico, ma un siffatto giudizio sarebbe imperfetto; in realtà, si tratta di un messaggio militare necessariamente strumentale, che esula
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dal problema tecnico-militare e strategico in sè e va preso solo per quel che vale, che in fondo non è poco_ In un trattato di arte militare troverebbero perciò piena accoglienza i rilievi piuttosto tautologici del Pieri, che si possono così riassumere: il Bianco non considera che l'azione insurrezionale è più incisiva se a fianco degli insorti agisce l'esercito regolare; l'adesione delle masse rurali è nei suoi scritti un semplice atto di fede; infine tanto nel Mazzini che nel Bianco, come in genere in tutti i teorici delle guerre popolari, era un errore fondamentale: quello di mettere in relazione numerica dei valori d' ordini differenti e non commensurabili; eserciti annati, disciplinati, addestrati da un lato, e un potenziale umano che non poteva divenire un esercito che grazie a un miracolo di genio, d'energia, d'entusiasmo popolare_ A un dato di fatto si contrapponeva un atto di fede in tale miracolo, un desiderio profondo, una nobile speranza; a una mobilitazione regolare, una mobilitazione morale, in base a un universale imperativo patriottico_54
Ma a parte il fatto che - già lo dimostra la guerra di Spagna - hanno grande influenza sul successo della guerra partigiana anche l'aiuto esterno, le condizioni geografiche del Paese, l'indole dei suoi abitanti, il Pieri dimentica che «l'atto di fede» era la sola carta che rimaneva al Mazzini e al Bianco, visto che essi per ragioni politiche non consideravano l'aiuto straniero, e più a ragione che a torto - la guerra del 1848 1849 lo avrebbe dimostrato - ritenevano che, in tutti i casi, non era possibile mettere in campo uno strumento militare regolare in grado di avere la meglio su quello austriaco_ «Atto di fede», poi, fino a un certo punto: perché qualunque forma avessero assunto le operazioni, non si poteva prescindere dal sostegno popolare, contadini inclusi, e perché realisticamente il Mazzini riteneva che per formare un valido esercito regolare era questa la sua meta - occorreva un periodo di educazione e di addestramento non breve_ Nel frattempo, l'unica guerra istintiva, naturale per le masse italiane rimaneva quella per bande, della quale dal 1799 al 1815 si era pur visto qualche esempio in parecchie contrade d'Italia; una guerra che, dopo tutto, non richiedeva addestramento ma indomito coraggio e odio implacabile_ Sotto questo profilo, ci sembra importante l'infelice azione del generale Ramerino - del quale, significativamente, il Bianco è cassiere e
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P. Picri, Storia militare del Risorgimento (Cit.), pp. 115 e 132.
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Capo di Stato Maggiore - nel 1834 in Savoia, partendo da oltre confine. La colonna Ramorino non svolge forse le funzioni tipiche di un esercito regolare? non vorrebbe forse fungere da innesco? e, al tempo stesso, non conta forse sulla benevolenza dei governi d'oltralpe, senza la quale la sua azione non può riuscire? Se non altro, questo è un altro segno dell'elasticità della prassi mazziniana, che non esclude - al cli là delle teorie il contributo di forze che combattono con metodi tradizionali e nemmeno l'aiuto cli governi stranieri (in teoria - ma solo in teoria - non apprezzato per quel che valeva, che era molto). Se le teorie del Mazzini e del Bianco intendono introdurre fattori e princì.pi di rigidità in una guerra che più di tutte li rifiuta, e impongono alla guerra stessa vincoli politici inaccettabili, con la sua critica «militarista» il Pieri trascura elementi di contorno importanti. E mostra di non avere un'idea chiara della natura della guerriglia, visto che accusa il Bianco, e ancor più il Mazzini, di trattare in modo semplicistico il problema logistico, il che non è vero. Ambedue dicono abbastanza: pare evidente che il principale vantaggio delle formazioni guerrigliere è proprio di vivere sul Paese, di essere composte anche e soprattutto di contadini part-time e di non aver bisogno di rifornimenti e convogli come un esercito regolare. Anche la pretesa del Mazzini che l'Ttalia faccia da sé è , in fondo, una colpa molto relativa. A parte il fatto che si tratta solo di una posizione teorica e di principio dimenticala quando e se necessario e che essa è condivisa anche da molti moderati, molto probabilmente una siffatta convinzione risponde a un'esigenza psicologica e se vogliamo, propagandistica: a un popolo che da secoli usava - con le note, funeste conseguenze - chiedere allo straniero di intervenire per risolvere i suoi problemi, non era molto opportuno di re che la guerra d'indipendenza dipendeva soprattutto da contingenze internazionali e da aiuti esterni. Gli italiani dovevano autonomamente diventare padroni del loro destino, riacquistando le antiche virtù militari e civiche: da Foscolo e dal Grassi in poi, è questo il leit-motiv di tutti gli scrittori politici e militari del tempo, a prescindere dalle loro diverse e dissonanti posizioni e convinzioni. Al Pieri va comunque riconosciuto il merito di aver toccato e analizzato criticamente, con validi risultati, anche la tematica fino a quel momento ignorata della guerra per bande. Così come nei primi anni 70 il Liberti - al di là di talube discutibili interpretazioni - ha riunito, presentato e studiato un vasto materiale fino ad allora difficile da reperire e confrontare. Egli non merita, perciò, i due appunti che gli muove il Del Negro: a) aver suddiviso l'opera - tranne la prima sezione - in «blocchi cronologici privi di una qualche base unitaria, sia essa tecnico-militare o ideologica»; b) aver mescolato pensiero e azione, senza rendersi conto
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che i due piani procedono generalmente ciascuno per proprio conto, e in particolare aver «insaccato» nel periodo 1775-1813 guerre «molto diverse tra di loro» (guerra d'indipendenza americana, Vandea, guerra di Spagna, insurrezioni polacche e italiane ecc.). In tal modo - conclude il Del Negro - «episodi trono - e - altare sono affiancati a episodi rivoluzionari, vicende contrassegnate da una guerra partigiana pura (priva cioè dell'aiuto di eserciti tradizionali) - sono poste accanto a vicende, che videro le bande partigiane appoggiate da truppe regolari». Il Del Negro giudica poi «paradossale» il fatto che i rivoluzionari italiani del periodo discussero spesso di guerra partigiana, ma non riuscirono mai a tradurla nel concreto: il contrario era avvenuto per i reazionari (ma questo è sempre vero?). Egli accusa anche il Liberti di dare troppo spazio alle questioni tecnico-militari, dedicando invece «minor attenzione» ai problemi ideologici della guerra italiana e definendo «reazionaria» la guerra di Spagna. Noi osserviamo, anzitutto, che l'analisi del Liberti - nella quale trovano un certo spazio anche autori non aderenti al credo mazziniano come il Botta, il Balbo e il Pepe - se aggiunta a quanto abbiamo prima esposto, dimostri ancora una volta che non è vero che i dizionari italiani - e la letteratura militare italiana in genere - del periodo - «accolsero con estrema difficoltà il campo semantico guerra partigiana - guerriglia ecc.». In secondo luogo, notiamo che, se per il Del Negro la guerra partigiana senza eserciti regolari è «pura», allora impura (e perché?) è la guerra con l'apporto di eserciti regolari che - oltre ad essere la più vantaggiosa per la stessa causa dei guerriglieri - riguarda, vedi caso, proprio la massima parte dei casi antichi e recenti, e dovrebbe - come fa osservare anche il Pieri - rientrare nella normalità dei casi. In terzo luogo, siamo costretti a prendere atto che per il Del Negro sono «rivoluzionarie» solo quelle guerre partigiane che hanno come obiettivo il rovesciamento del trono e dell'altare e dell'establishment moderato: quindi per il Del Negro le rivoluzioni hanno un solo e ben definito segno politico, e la guerra spagnola nel 1808-1813, la guerra antinapoleonica in Prussia e Russia, le rivolte antinapoleoniche in Italia, la Vandea, l'Afghanistan ecc. non sono state guerre rivoluzionarie. Le rivoluzioni avrebbero un ben preciso marchio ideologico? quegli animosi contadini spagnoli che sono morti davanti ai plotoni d'esecuzione francesi gridando «abbasso la libertà» non sarebbero rivoluzionari? Per ultimo, non è vero che gli scrittori «reazionari» non hanno trattato e dibattuto i problemi della guerriglia: lo dimostra tutta l'analisi condotta anche nelle parti precedenti, nella quale continuamente ricorrono valutazioni sulle guerre di Spagna, di Prussia e americana. Lo stesso Cardinale Ruffo, non ha forse scritto un trattato sulla guerra per bande?
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A questo punto, non si tratta di discutere del miglior modo di ordinare la materia trattata dal Liberti, ma di condividere - o non condividere - l'aprioristico filtro ideologico al quale il Del Negro vorrebbe sottoporre le varie guerre partigiane, filtro che inevitabilmente porterebbe a distinguerle in «buone» o «cattive» e a definirle o meno rivoluzioni, a seconda che esse coincidano, o meno, con le personali vedute politiche del critico e dello storico, come se l'aspetto tecnico-militare fosse non tanto subordinato a quello politico-sociale, ma quaJcosa di trascurabile. Noi non condividiamo, perciò, un siffatto approccio, e pur non negando legittimità a classificazioni delle guerre partigiane in base al credo politico di coloro che le conducono, riteniamo un siffatto modo di procedere poco significativo. Proprio le guerre partigiane del periodo considerato ci insegnano, infatti, che a prescindere dalle varie finalità politiche che lo ispirano, il guerrigliero combatte seguendo parametri e criteri operativi e ordinativi del tutto simili e costanti nel tempo fino ai nostri giorni, applicati aI1'occorrenza sia dai sanfedisti del cardinale Ruffo che dalle bande del Mazzini e del Dianco, o dai guerriglieri vietnamiti e afgani. Se il Liberti ha trascurato le diverse matrici ideologiche, ciò è avvenuto perché - a prescindere da1le motivazioni che le ispiravano - le diverse guerre partigiane avevano caratteri tecnico-tattici comuni, con il sostegno o la non ostilità popolare come fattore decisivo e con il movente nazionale - prima ancor che sociale - frequentemente presente. Il fallimento dei tentativi di sollevazione popolare di ispirazione mazziniana e democratica è facilmente spiegabile: diversamente da taluni moti reazionari e nonostante gli scritti e gli appel1i degli apostoli, i loro obiettivi non erano ben conosciuti e ancor di meno condivisi dalle masse popolari italiane, che tra l'altro non sapevano nemmeno leggere le teorie e gli appe11i di Mazzini e del Bianco. Siamo sempre nel campo dell'autonomia del fenomeno guerra sotto l'aspetto tecnico-militare, perché nella fattispecie il sostegno popolare ha non solo valenza politico-sociale, ma anche primaria valenza militare: senza l'appoggio della popolazione le bande non possono vivere e operare. Tanto più che la fisionomia operativa della guerra - e della guerra partigiana - oltre che dallo scopo politico, come mette in rilievo lo stesso Clausewitz viene modellata da altri fattori, come la geografia del Paese, l'indole della popolazione e la sua distribuzione sul territorio, ecc .. A proposito di ideologie e scopi politici, bisogna mettere in chiaro un'altra cosa, che il Del Negro non considera affatto: secondo una larga casistica storica fino ai nostri giorni, il movente del riscatto sociale e della lotta di classe non è mai stato l'unico e il principale motore delle guerre partigiane. Gran parte vi hanno avuto motivi religiosi, odi ance-
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strali tra etnie e nazioni diverse, e soprattutto il collante nazionale, l'aspirazione comune all'indipendenza che ha attraversato tutte le classi sociali e ha spinto a seconda dei casi le classi più elevate o quel1e più povere, a ricercare non lo scontro ma la coesione sociale almeno momentanea in nome della comune lotta allo straniero, facendo assumere alle guerre partigiane la veste cli «guerre nazionali», come voleva Jomini. Sotto questo aspetto almeno, la guerra per bande di Mazzini - della quale egli continuamente sottolinea il carattere nazionale e unitario - è manifestazione di realismo, perché non potrebbe essere tale se diventasse guerra di una sola classe, con alla base non un collante nazionale ma rivendicazioni sociali. In conclusione, ripetiamo ancora che le guerre partigiane - e le rivoluzioni - possono avere segno diverso; i popoli possono sollevarsi per le ragioni più disparate, senza che muti la fisionomia essenziale della guerriglia. Quest'ultima trova la sua più compiuta espressione nella guerra di popolo, guerra che non rinuncia a nessun mezzo per colpire il nemico, sia esso uno strumento regolare u irregolare, non violento o violento, diretto o indiretto. Per questo va respinta anche la tendenza a vedere la presenza di un esercito regolare accanto alla guerri glia, quasi come segno di contaminazione alla sua purezza o del suo asservimento. Al contrario - una attenta lettura del pensiero e della prassi mazziniane ce lo conferma - per la guerriglia è un grave handicap essere costretta a fare a meno del sostegno di un esercito regolare, tant' è vero che quest'ultimo è, nella generalità dei casi, uno sbocco obbligato della guerriglia stessa e materializza il suo consolidamento. Se poi deve fare a meno anche di (sempre interessati) aiuti esterni, il suo successo diventa estremamente difficile: la vittoria ha sempre prezzi elevati, tanto più in questo caso. Per le ragioni anzidette, noi riteniamo imprecisa e poco significativa l'espressione «guerra rivoluzionaria» usata di recente da J. Sky e T.W. Collier per indicare non si sa bene che cosa, se la semplice conquista del potere politico con le armi all'interno della nazione, o la lotta condotta da un movimento politico «popolare o comunque dotato di una vasta base sociale» ecc., da non confondere con la guerriglia che ne è solo una modalità militare. 55 Abbiamo già indicato il significato etimologico di «rivoluzione », che significa muta mento profondo, radicale e irre versibile rispetto al passato. Se così fosse, dal 1808 al 1813 la guerra degli spagnoli, dei prussiani e dei russi sa-
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AA.VY., Guerra e strategia nell'età contemporanet1 (C.iL), pp. 361 -406.
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rebbe stata una guerra non rivoluzionaria e anzi controrivoluzionaria, perché mirava non tanto a instaurare un nuovo ordine, ma piuttosto a restaurare, conservare e consolidare l'antico o buona parte dell'antico, cioè le monarcrue che Napoleone voleva abbattere. Quindi, alla guerra di Spagna - o a quella afgana - non s'attaglia il termine «guerra rivoluzionaria ... ». Pare evidente che una rivoluzione può anche essere condotta e portata a termine - come è avvenuto in Russia dal 1917 - esclusivamente dall'esercito regolare, con l'appoggio di una parte della popolazione, anche se non la maggiore; il contrario può avvenire per una controrivoluzione. Coloro che parlano di guerra rivoluzionaria confondono perciò il mezzo (guerriglia o guerra di popolo) con lo scopo di queste due forme di guerra, che può anche non essere rivoluzionario, e anzi essere decisamente controrivoluzionario. Di conseguenza l'espressione più calzante e completa da usare ci sembra, a maggior ragione, la guerra di popolo nel senso classico, mazziniano e clausewitziano del termine: guerra che si estende anche alla popolazione civile e non rinuncia a priori a nessun mezzo - compreso l'armamento della popolazione civile stessa e quindi la guerriglia - per combattere il nemico. A sua volta, la guerriglia o guerra partigiana può essere definita con sicurezza solo tenendo presenti i due diversi modelli di guerra che emergono fin dai tempi di Napoleone. Da una parte la guerra solo tra eserciti regolari o campale («la più necessaria e la più onorata» - N. Tommaseo) oppure ordinata (cioè «fatta con tutte le regole» - N. Tommaseo) o anche buona guerra (cioè guerra regolata secondo i diritti e gli usi della gente civile», quindi dichiarata e soggetta al diritto internazionale). Dall'altra la guerra che tali regole o limiti o riferimenti e regolamenti non ammette, e può essere condotta nel modo più vario sia da formazioni regolari, sia da formazioni irregolari o miste. Quest'ultima è la guerriglia, caratterizzata appunto dall' assenza di lutto quel bagaglio di dottrine e regole disciplinari, gerarchiche, logistiche e umanitarie, al quale in misura variabile necessariamente ricorrono i contrapposti eserciti regolari, le cui formazioni sono anch'esse racchiuse in ben determinati schemi. Ne consegue che il contenuto più pregnante della guerra di eserciti non è l'assenza di guerriglia, che può essere presente sia pure in misura marginale e locale, ma l'osservanza da parte del grosso delle forze dei contendenti di dottrine militari, regolamenti, criteri ordinativi e logistici ben definiti e in parte comuni. Invece la guerriglia ha da sempre due caratteristiche fondamentali: non ubbidisce a regole e schemi fissi, ed è uno dei mezzi con i quali si esprime la guerra di popolo. Le rimanenti distinzioni servono solo a confondere le acque. Werner Hahlweg, compila-
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tore della voce guerriglia nell'Enciclopedia del novecento,56 ne sintetizza assai bene i caratteri, con considerazioni del tutto aderenti alle guerriglie e relative teorie del periodo in esame. In sintesi: a) ogni guerriglia si presenta con una sua prassi specifica, caratterizzata caso per caso in modo diverso; b) la guerriglia non è esportabile e l'esperienza mostra che essa raggiunge la massima efficacia nel paese di origine; c) in genere essa richiede una «potenza d'appoggio» esterna (come l'Inghilterra in Spagna nel 1808-1813); d) la sua riuscita o il suo fallimento dipendono dall'atteggiamento della popolazione civile; e) essa si svolge «su due piani interagenti, quello tattico e quello strategico, opportunamente associati tra di loro in relazione alle circostanze, secondo il principio generale dell'accentramento strategico e del decentramento tattico»; e) i vari tipi di guerriglia hanno tuttavia alcune caratteristiche tecnico-tattiche a fattor comune: azione di piccoli gruppi, sorpresa ecc.; f) la guerriglia è solo uno dei tanti mezzi della lotta rivoluzionari (Lenin) o è la quintessenza della guerra di popolo (Mao). Tuttavia «Lenin giunse ad affermare che in fondu essa nun è il mezzo più importante di lotta rivoluzionaria e che occorre anzi subordinarla ad altri mezzi più efficaci». Dunque anche Lenin era uno scrittore «reazionario» come Botta e Balbo? Se si tengono presenti queste semplici chiavi interpretative, si può apprezzare meglio la scarsa convenienza di ricorrere al filtro ideologico - o di enfatizzare la presenza o l'assenza dell'esercito regolare - per condurre l'analisi critica delle teorie sulla guerriglia di ieri come di oggi. Come tutte le teorie sulla guerra, la loro validità e efficacia va invece giudicata sulla base dell'effettiva aderenza dei modelli proposti alle condizioni politico-sociali del momento e alle chances offerte dal quadro internazionale. Si tratta, in sintesi, di usare un approccio clausewitziano, di badare ai risultati e non di giudicare idee e avvenimenti sulla base di idola e monstra teorici, dogmatici o ideologici, magari irritandoci se essi non corrispondono ai nostri desideri e modelli ideali. Ancor più che la guerra tra eserciti, la guerra partigiana si ripromette la debellatio dell'avversario: ciò che importa è per essa di raggiungere questo obiettivo, non come e perché e dove lo raggiunge. Anzi, proprio per la sua natura e il suo carattere essa, pur di raggiungere lo scopo, tende a utilizzare liberamente qualsivoglia apporto, interno o esterno che Sia.
Se si seguono questi realistici parametri, le teorie della guerriglia 56 Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Roma 1978, Voi. III p. 484-493. Cfr. anche W. Hahlwegg, Storia della guerriglia - tattica e strategia delle guerra senza fronti, Milano, Feltrinelli 1973.
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degli scrittori italiani nel periodo considerato rivelano evidenti limiti, che tuttavia condividono in larga parte con quelle che postulano essenzialmente una guerra tra eserciti regolari. L'elemento determinante, che è proprio quello che manca dal 1815 al 1848, è sempre la vis pugnandi estesa a larga parte degli italiani, e come scrive il Pieri a commento dei numerosi ma inutili conati rivoluzionari del periodo, quanto Carlo Bianco [come lo stesso Mazzini - N.d.a.] aveva scritto e citato circa il formarsi in Spagna di piccole bande, il loro rapido accrescersi, il dilagare delle rivolta, non poteva costituire una nonna d'azione rivoluzionaria in Italia e tanto meno una dottrina guerresca [ ... ]. La fiducia nella guerra popolare, nella guerra di bande, sembra dunque venir meno. Riscuote sempre maggior credito la tendenza moderata ....57
Dal punto di vista militare, anche quest'ultima si arena sul medesimo scoglio, che non è l'attitudine dei giovani italiani alle armi ma l'effettiva e concorde volontà di tutto un popolo di prendere le armi per la conquista dell'indipendenza nazionale. Nel caso specifico questo fatto rende quanto mai utili e necessarie teorie come quelle del Mazzini e del Bianco, che contribuiscono fortemente a svegliare le coscienze anche di ceti fino a quel momento spettatori inerti, elevandoli verso l'Idea nazionale. Un fatto è certo: gli innumerevoli esempi di guerriglie e guerre di popolo, dimostrano che è la carta nazionale e unitaria, e non quella del ribellismo sociale, ad essere vincente. Sotto questo profilo, appare infelice e tale da confondere le idee anche l'espressione «tendenza moderata» usata dal Pieri nel brano prima citato, perché ancora una volta semplicisticamente identifica la guerra tra eserciti, fatto tecnico-militare dipendente da una data situazione, come espressione militare di una tendenza politica, il che non è vero - o non è sempre vero - nemmeno dal 1789 al 1848. In generale, sul piano tecnico-militare le conclusioni non possono essere molto diverse da quanto afferma l'Enciclopedia Militare 1933 alla voce Insurrezione, 58 peraltro trascurando di indicarne le differenze rispetto alla guerriglia. Sul suo esito «influiscono il carattere e la coscienza del popolo oppresso, e le caratteristiche del terreno, che più sarà difficile, più agevolerà le operazioni degli insorti». Alcune insurrezioni si trasformano in «guerre vere e proprie». Le
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P. Pieri, Storia militare ... (Cit.), pp. 792-793. Voi. IV p. 358.
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difficoltà principali che devono affrontare sono dovute al problema del rifornimento viveri e munizioni, e a quello del comando e del coordinamento. «Caratteristiche delle insurrezioni sono le sorprese, i colpi di mano, gli agguati ecc. contro forze regolari che in numero non esiguo trovino di fronte a sè». 11 che è vero; ma l'abilità del capo guerrigliero si misura proprio dalla riuscita dei suoi tentativi di evitare siffatte situazioni...
CAPITOLO XV
GUERRA MARITTIMA, POTERE MARITIIMO E TATTICA NAVALE NEL PENSIERO EUROPEO
Premessa Trattando del ruolo delle forze marittime nella Rivoluzione Francese, Ezio Ferrante ha scritto: è ben noto che, ancora alla fine del Settecento, non si possa parlare di una vera e propria strategia navale ma solo e sempre di una tattica navale nei suoi diversi metodi applicativi, ed una tale asserzione rimarrà sostanzialmente invariata sino alla seconda metà del secolo XIX, (tanto che l'ammiraglio Bouet-Willaumez, il celebre autore della Tactique supplementaire à l'usage d'une flotte cuirassée (1865), era solito affermare che «sul mare, si può dire che la parola strategia non ha un senso pratico per quanto riguarda le flotte». 1
Senza spiegare perché ciò sarebbe avvenuto, il Ferrante indica come teorici della tattica navale francese solo i padri gesuiti Fournier e Hoste e il visconte de Morogues, tutti autori francesi del periodo tra la prima metà del secolo XVII e la prima metà del secolo XVIII. La recentissima Arte di vincere - antologia del pensiero strategico2 del Corneli trascura l'arte di vincere sul mare, e ovviamente non accenna al pensiero navale della Restaurazione. Come abbiamo accennato nei precedenti capitoli I, IV e V, in questo periodo manca ancora un'concetto teorico compiuto di arte militare marittima, intesa come «applicazione ai casi concreti della guerra [sul mare] dei dettami della scienza militare», il cui scopo è di «insegnare ad agire nel pratico campo astratto.della teoria». 3 1 E. Ferrante, La marina e la Rivoluzione Francese (in AA.VV., Scienze e ordinamenti militari della Rivoluzione Francese, Quaderno Istrid n. 14, Roma, Ed. Difesa 1991, pp. 126-1 27). 2 Guida, Napoli 1992. 3 Enciclopedia Militare, Milano, Ed. Il Popolo d'Italia 1933, Voi. I, p. 729.
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Specie in passato, ma talvolta anche oggi, per «letteratura militare» si intende assai di frequente la letteratura militare terrestre, e per «scrittori militari» si intendono solo quelli terrestri, definendo «navali» o «aeronautici» gli altri. Sull'Enciclopedia Militare 1933 troviamo scritto che «gli studiosi e i cultori di arte militare terrestre sono fin dalla più remota antichità in prevalenza su quelli della arte militare marittima».4 Fenomeno non solo italiano: secondo il Coutau - Bégarie tuttora, in fatto di studi sul pensiero navale europeo, «le lacune restano immense, e bisogna ancora accumulare un gran numero di monografie e di studi settoriali prima di giungere a una sintesi un po' più solida».5 Forse queste omissioni - non riferite solo al periodo dal 1815 al 1848 - dipendono dall'atavica tendenza dei popoli europei a percepire il mare come un elemento estraneo oggetto di oscuri timori, della quale ha parlato di recente Miche] Mollat;6 forse esse sono legate alla secolare tendenza all' histoire-bataille, nel caso specifico aggravata dalle maggiori difficoltà che il Jachino ha riscontrato nella descrizione delle battaglie navali e delle relative evoluzioni - tanto più nel periodo velico rispetto a quanto avviene nelle battaglie terrestri.7 Fatto sta se si collegano questi ostacoli tipici della letteratura navale all'antica, tenace e diffusa convinzione che la Restaurazione è un vuoto periodo di decadenza per l'arte militare, si potrebbe fin d'ora affermare che il pensiero navale di questo periodo ha l'encefalogramma piatto, con manifestazioni assai poco significative. A maggior ragione ciò potrebbe valere per l'Italia, dove nel periodo in esame ragioni politiche, sociali, economiche antiche e recenti, certamente incoraggiano l'interesse militare per le cose marittime ancor di meno di quanto avviene per la guerra terrestre. Noi ci ripromettiamo ora di verificare fino a che punto ciò risponde al vero; per fare questo, come già in campo terrestre ci sembra un passaggio obbligato dare in primis uno sguardo al quadro europeo e in particolare al pensiero navale francese, anche perché nella prima metà del secolo XIX è sempre l'ormai lontano periodo del massimo fulgore delle Repubbliche Marinare a costituire in Italia l'ultimo riferimento morale e tecnico. 4
ivi, p. 731. H. Coutau-Bégarie, L 'évolution de la pensée navale (a cura di), Paris, FEDN 1990, p. 9. Per una sommaria valutazione del pensiero navale europeo del periodo Cfr. anche F. Botti, Il pensiero navale europeo nella prima metà del secolo XIX - t• parte, «Rivista Marittima» novembre 1994, pp. 27-41. 6 Cfr. M. Mollat, L'Europa e il mare, Bari, Laterza 1993. 7 A. Jachino, La storia e lo studio critico delle guerre recenti, «Rivista Marittima» n. 6/1948, pp. 463-468. 5
XV - LA GUERRA MARJITIMA NEL PENSIERO EUROPEO
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SEZIONE I - Da Richelieu a Padre Hoste: cenni sul pensiero navale europeo dei secoli XVII e XVIII
Si può parlare di strategia marittima?
Nel capitolo V abbiamo già indicato le ragioni per cui nella prima metà del secolo XIX non si può parlare di strategia marittima come vocabolo e come disciplina teorizzata, parlata, dibattuta, studiata, ma solo di strategia istintiva, praticata, e magari scritta senza riconoscerla come tale. 8 Questa strategia dunque esiste, e rifacendoci a quanto ha già affermato Francesco Sponzilli nel precedente capitolo IX, di fronte a uomini come Nelson non si può certo parlare solo di tattica e di tecnica della navigazione, e verrebbe voglia di esclamare con lo Sponzilli, riferendosi allo stesso Nelson e ai grandi ammiragli venuti prima di lui: «come! la strategia, la scienza dello stratego, del generale, quella per cui furono grandi Alessandro, Annibale, Scipione [...], deve ancora nascere? Non pare di sentire un fisico vantarsi di volere inventare il sole e la luna?» Anche in questo caso la realtà non è solo quella rappresentata con un vocabolo, o con le pagine di un testo. Se fin dall'antichità con «strategia» si indica sempre, in senso lato, ciò che riguarda il Capo militare, la Leadership, anche chi ha comandato delle forze navali a parte ogni altra considerazione l'ha pensata e praticata, sia come preparazione studio e condotta di un'azione in date circostanze, sia come patrimonio di esperienze e conoscenze. E, con Jomini, si potrebbe affermare che, anche in campo navale, la strategia è sempre esistita ... Ignorare sui libri l' esistenza di una cosa, non significa che essa non esista: significa solo che i tempi non sono ancora favorevoli per studiarla dal lato teorico. Le citate affermazioni del Ferrante non sono dunque condivisibili e vanno riferite solo alla strategia marittima intesa come disciplina di studio e d'insegnamento, come termine della teoria della guerra sul mare, che nel periodo in esame viene ignorato, senza però per questo non discorrerne inconsapevolmente. Nel suo recente dizionario del 1952, Robert Grtiss definisce la strategia navale come «condotta generale della guerra sul mare». E aggiunge che «la parola tattica si usa allorché i bastimenti o una squadra sono arrivati a contatto con il nemico». 9 Ciò si8 Cfr. anche F. Botti, La «maritime strategy» degli Stati Uniti e l'esperienza delle guerre napoleoniche, «Informazioni Parlamentari Difesa» n. 5/1990, pp. 69-72. 9 Cfr. R. Grtiss, Petit dictionnaire de Marine, Paris, Société Ed. Geographiques, Maritimes et Coloniales 1952 (Challamel).
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gnifica che, fino a quel momento, le manovre di una squadra ricadono nel campo strategico, esattamente come avviene nella guerra terrestre. Anche ne11'età della vela si trattava pur sempre di portare le squadre nell'area dello scontro con l'avversario nelle migliori condizioni per averne ragione. Si doveva quindi tener conto delle forze proprie e nemiche e dell'ambiente naturale, nella fattispecie inteso non solo come tempo atmosferico ma anche come individuazione di posizioni-chiave, piazze marittime, golfi e baie ecc. e come studio dell'influsso che questi elementi geografici hanno sempre avuto sia sul teatro dello scontro che sulle vie di comunicazione marittime. Ad Aboukir l'accurato studio delle profondità e dell'andamento della costa e la perizia tecnica dei suoi equipaggi non ha forse consentito a Nelson di mettere a frutto la sua audacia, raggiungendo appunto le vette dell'arte? Non ci si può quindi meravigliare se fin dai secoli XVll e XVIII si trovano scritti che inconsapevolmente non parlano solo di tattica navale (cioè del modo di condurre i combattimenti o le battaglie contro le analoghe forze avversarie) ma anche di politica e strategia navale. Così sono ad esempio quelli - databili alla prima metà del secolo XVII - di Richel ieu (il grande Ministro francese che potenzia la flotta, con ciò stesso facendo una ben precisa scelta politica e strategica) e di Walter Raleigh, il grande ammiraglio e corsaro inglese. 10 Ne daremo un sommario cenno.
Walter Raleigh e il Cardinale Richelieu
Raleigh ritiene che nel combattimento navale l'audacia non è tutto, e che «lanciare sconsideratamente delle navi l'una contro l'altra è cosa da pazzi più che da uomini di guerra». Tl comandante in mare deve ben individuare i punti deboli dell' avversario e i suoi conseguenti vantaggi, regolandosi di conseguenza. Come tutta la tradizione inglese, Raleigh dà grande importanza alla velocità, e sostiene che «una flotta di venti buone navi, con buoni equipaggi, in alto mare ha la prevalenza su una di cento navi meno veloci». Supposto che i cento bastimenti navighino mantenendosi in formazione serrata, da qualunque parte le venti navi più veloci li attacchino, li costringeranno a ritirarsi in direzione di quelli che si trovano dalla loro stessa parte, per cui si ostacoleranno gli uni con gli
10 G. Chaliand, Anthologie mondiale de La stratégie, Paris, Laffont 1990, pp. 635636 e 663-650.
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altri e non saranno in condizione di reagire efficacemente o saranno perduti; al contrario, il fuoco dei bastimenti attaccanti sarà sempre più efficace. E nel caso che i cento bastimenti adottino una formazione più aperta e spiegata su larghi spazi, la flotta meno numerosa ma più veloce la spunterà ugualmente, sia contro le navi che sono dietro, sia contro le navi che sono avanti, sia contro quelle che, oltrepassando le navi amiche, serrano sottovento. Raleigh affronta poi una questione strategica secolare: se sia meglio difendere le coste di un Paese da offese provenienti dal mare con una forte flotta, oppure ricorrendo a forti difese costiere, o ancora lasciando sbarcare il nemico per poi attaccarlo con l'esercito. Egli polemizza con un «sapiente gentiluomo inglese» il quale nelle sue osservazioni sui Commentari di Giulio Cesare, aveva sostenuto che la via più sicura e più facile per impedire all'avversario di: sbarcare era quel1a di organizzare a difesa tutte le coste dell'Inghilterra senza bisogno di avere una flotta, piuttosto che lasciarlo sbarcare e combatterlo per terra. Anche Raleigh pensa che quest' ultima soluzione vada scartata, «ma se si pone la questione, generale e positiva, di sapere se l'Inghilterra, anche senza l'aiuto della sua flotta, sarà in grado di impedire al nemico di sbarcare, io penso che essa non avrà la possibilità di farlo e ritengo dunque pericoloso tentare una siffatta avventura». Il Cardinale Richelieu non è un esperto marinaio come Raleigh, ma nel suo «Testamento politico» affronta tutti i nodi reali del rapporto tra politica estera e politica e grande strategia navale, spesso con considerazioni a sfondo geopolitico e geostrategico. Le idee di Richelieu, infatti, hanno sempre sullo sfondo le secolari rivalità della Francia con gli altri due grandi Stati europei del momento, ambedue più «marittimi» del1a Francia stessa: l'Inghilterra che già allora domina i mari e la Spagna, i cui vasti possedimenti d'oltre oceano le impongono di mantenere una forte flotta. Secondo Richelieu (e la cosa è allora meno ovvia di quanto oggi possa apparire) il Re di Francia deve essere forte non solo in terra ma anche sul mare. E sul mare la Francia, per non soffrire gravi ingiurie come in passato di fronte alla prepotenza inglese, deve raggiungere l'equilibrio delle forze con l'Inghilterra e la Spagna. Sul piano generale il mare è quell'eredità della quale ciascun sovrano pretende la parte maggiore, e nello stesso tempo è anche quella nella quale i diritti di ciascuno sono meno definiti. Il dominio su questo elemento non è mai stato definitivamente conquistato da nessuno. Esso ha subìto diversi mutamenti dovuti all'incostanza della sua natura, e si è rivelato talmente soggetto ai venti , da cadere nelle mani di coloro
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che ha saputo meglio assecondare, e la cui forza può essere esercitata senza alcun limite, in modo da poterlo mantenere con la violenza contro chiunque possa dispulargline il dominio [evidente il riferimento all'Inghilterra - N.d.a.].
Richelieu fa poi balenare davanti agli occhi del suo Re lo spauracchio della flotta inglese e delle offese che essa può arrecare alla Francia: uno Stato non deve mai ricevere un'ingiuria senza essere in condizioni di prendersi una rivincita. Pertanto, se 1a Francia non fosse forte sul mare, l'Inghilterra col vantaggio della sua posizione potrebbe prendere a suo piacimento qualunque iniziativa, senza timore di reazioni da parte francese. Essa potrebbe impedirci l'esercizio della pesca, interrompere il nostro commercio e controllare lo sbocco in mare dei nostri grandi fiumi, facendo così pagare ai nostri mercanti i balzelli che riterrebbe più opportuni. Essa potrebbe impunemente sbarcare sulle nostre isole e sulle nostre coste. Infine, la configurazione geografica di questo paese orgoglioso, la quale fa sì che non abbia nulla da temere dalle principali potenze terrestri, impotenti sul mare, e l'antica invidia che ha sempre avuto verso il nostro Regno, le darebbero modo di tutto osare, mentre data la nostra debolezza non potremo mai intraprendere alcunché a suo danno.
Seguono accuse contro la prepotenza e tracotanza sul mare degli inglesi, «talmente accecati in questa materia da non conoscere altra equità che la forza». Per quanto riguarda i rapporti con la Spagna, se la Francia fosse potente sul mare questa nazione sarebbe in difticoltà, perché temerebbe attacchi alla sua flotta «unica fonte del suo sostentamento», e offese francesi contro le sue coste molto estese e contro le sue piazze marittime numerose quanto deboli. Questo timore le causerà molti danni anche economici, perché l'obbligherà ad essere così potente sul mare e a mantenere sue guarnigioni cosl forti, che la maggior parte dei proventi derivanti dal possesso delle Indie sarà consumata in spese militari per conservare il tutto. E se queJlo che resterà le sarà tuttavia sufficiente per conservare i suoi possedimenti, noi avremo almeno il vantaggio che la Spagna non avrà più mezzi per disturbare quelle degli altri, come ha fatto finora.
Nella communis opinio degli scrittori d'ogni tempo, per ragioni geopolitiche la Francia è sempre stata un grande paese eminentemente continentale: ma secondo Richelieu «sembra che la natura abbia voluto of-
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frire la padronanza del mare alla Francia data la vantaggiosa situazione delle sue due coste, con eccellenti porti tanto sul Mediterraneo che sull'Oceano». E siccome la parte orientale e mediterranea della Spagna è separata dal mare dai possedimenti italiani del Re spagnolo, «sembra che la Divina Provvidenza, che vuol tenere le cose in equilibrio, abbia voluto che la configurazione geografica separi gli Stati di Spagna per indebolirli mantenendoli divisi». I vari Stati spagnoli, infatti, non possono vivere ciascuno da sé, e possono essere uniti solo dalle forze marittime. Per Richelieu, con quaranta buoni vascelli pronti a partire dai porti oceanici la Francia avrà forze sufficienti per garantirsi da qualsivoglia offesa e farsi temere sull'Oceano «da coloro che, fino ad oggi, hanno tenuto in scarsa considerazione le sue forze». Nel Mediterraneo sono invece ancora necessarie le galere a remi, di grande rendimento in un mare come il Mediterraneo - più soggetto alle bonacce che altrove, e ancor di più nel Mar Tirreno e nel Golfo di Lione. Trenta galere e dieci vascelli nei porti di Marsiglia e Tolone taglieranno le comunicazioni marittime tra Spagna e Italia e inoltre consentiranno alla Francia di mantenere la sua influenza sull'Italia. Questo paese, infatti, «è considerato come il cuore del mondo e, a dire il vero, è la parte più importante dell'Impero spagnolo. E' il posto dove essi temono di più di essere attaccati e disturbati, e quello nel quale è più agevole per la Francia ottenere dei notevoli vantaggi. Di conseguenza, anche se non si ha intenzione di attaccare la Spagna, almeno è opportuno tenersi in misura di portare a questa nazione qualche colpo molto vicino al mare, se essa dovesse tentare qua1cosa contro la Francia». Queste forze marittime non serviranno solo a tenere a bada la Spagna, ma sul piano generale «faranno sì che il gran Signore e i suoi sudditi, i quali noti misurano la potenza dei Re lontani che con quella che questi ultimi mettono in mostra sul mare, saranno più ansiosi di quanto non siano stati fino ad oggi di mantenere i patti fatti con loro». Troviamo, in queste considerazioni del Richelieu, molti dei topoi della letteratura e politica navale da allora fino ai nostri giorni, senza aspettare Mahan.
Padre Hoste, massimo esponente della scuola tattica «formalista» francese A fine secolo XVII compare una delle voci più significative e influenti del pensiero navale europeo di ogni tempo: quella del gesuita e matematico francese Padre Paul Hoste, cappellano sulle navi del Re di
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Francia che è ritenuto il fondatore della scuola francese di tattica navale, e anzi è stato chiamato di recente dal suo maggior studioso e biografo, Michel Depeyre, «fondatore del pensiero navale modemo». 11 All'opera di Padre Hoste sono estranee le considerazioni di politica e strategia navale, tipiche del Richelieu e dell'Enciclopedia francese: gli interessano soprattutto le modalità di carattere nautico, i meccanismi evolutivi, le manovre perché una formazione navale affronti il nemico in condizioni di vantaggio. Riferite al periodo dei grandi vascelli a vela, le sue idee hanno successo almeno fino alla prima metà del sec. XIX, cioè fino al termine del periodo velico. Senza dubbio in lui prevale l'aspetto tecnico nautico rispetto a quello puramente tattico e se vogliamo, militare. Nelle valutazioni del Depeyre questo appare come un limite: noi lo consideriamo, invece, come una scelta obbligata per chiunque al tempo volesse occuparsi con metodo scientifico dei problemi de] combattimento e della battaglia navale, e al massimo, constatiamo che il Padre Hoste non è stato e non ha voluto essere un profeta, un precursore. Il pensiero di Padre Hoste, la cui prima opera (Traité des évolutions navales - 1691) è tuttora inedita, assume forma compiuta nel 1697 con l'Art des Armées navales ou traité des évolutions qui contient des regles utiles aux officies généraux, et particuliers d'une armée navale; avec des exemples tirés de ce qui s 'est passé de plus considérable sur la mer depuis cinquante ans. 12 In precedenza (1692) aveva pubblicato un Recueil des traités de Mathématique qui peuvent étre nécessaires à un gentilhomme pour servir par mer ou par terre. In questi due titoli si trova già buona parte dei caratteri del suo pensiero: come matematico egli intende applicare la sua disciplina alla cinematica navale, fornendo delle régles, delle regole, e non dei criteri o princìpi da applicare con una certa flessibilità. E basando il tutto su buoni exempla historica ... Un'opera, dunque, tipicamente francese, razionalizzante, diremmo cartesiana, come tutte quelle che quasi un secolo più tardi - specie in Francia - intenderanno assoggettare l'arte militare terrestre a princìpi e regole matematiche, tendendo a farne una scienza. Non casualmente l'allievo dei gesuiti René Descartes, morto nel 1650, ha scritto un libro intitolato Régles e intendeva anch'egli ricercare un metodo per interpretare la realtà, capace di riunire in sé i pregi della logica formale e delle
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Sull'apporto di Padre Hosle si veda soprallullo il fondamentale saggio dello stesso Miche] Depeyre Padre Hoste fondateur de la pensée navale (in l'évolution ... (cit.), pp. 56-77). 12 Lyon, Anisson et Posuel, 1697.
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matematiche ... La grande importanza data agli exempla completa il carattere tendenzialmente geometrico, jominiano ante litteram e dogmatico del pensiero del Hoste, peraltro applicato a una branca che - come l'arte nautica del tempo - era soggetta ai capricci del vento e all'imprevedibilità dei fattori atmosferici. Il Padre Hoste vuol naturalmente fornire una guida, un codice agli ufficiali di marina. Secondo il Depeyre, si può altresì arrischiare l'espressione di «grammatica navale» per questo manuale destinato ai professionisti. Da una parte, egli scompone le evoluzioni e descrive le manovre delle squadre, dall'altra, illustra con delle piante il testo. Queste piante sono compilate secondo la moda del tempo, decorate, ornate di giovani Eoli soffianti, di paesaggi costieri accidentati. Ma quel che conta, è l'intenzione pedagogica: ilJustrare le evoluzioni studiate. Questo approccio alJa questione ha senza dubbio indotto i successori di Roste a giudicare il suo pensiero come viziato da un eccessivo formalismo e unicamente preoccupato di fornire figure geometriche.
Il Depeyre dimostra che ciò non è sempre vero, e che - come del resto accade per tutti gli autori - i suoi seguaci ne hanno mal interpretato il pensiero. Ma l'ammiraglio Castex, massimo esponente del pensiero navale francese tra le due guerre, così sintetizza la sua opera: egli non si è affatto elevato al di sopra della tattica, e ancora di una tattica piuttosto cinematica che nùlitare. Non ha detto una parola della condotta generale della guerra, e i suoi consigli relativi all'inattività e all'offensiva, non hanno alcun contenuto di carattere strategico e nemmeno si è reso conto dell'importanza di distruggere le forze organizzate. 13
Hoste è un fervido sostenitore della linea di fila, formazione di battaglia adottata per le intere flotte in seguito all'introduzione delle artiglierie disposte solo sui fianchi dei vascelli, che quindi nel combattimento navale le rendeva vulnerabili e indifese particolarmente a prora e a poppa, dove non erano installati i pezzi. Disponendosi in fila l'una dietro l'altra in una formazione il più possibile serrata, le navi da guerra realizzavano il massimo della protezione reciproca possibile; rimaneva da proteggere solo la testa e la coda della lunga colonna, ma que-
13 Amm. Castex., Théories stratégiques, Paris, Société d' Editions Geographiques, Maritimes et Coloniales 1929, Tome I, p. 29.
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sto poteva essere fatto solo evitando che il nemico le doppiasse o le avviluppasse. Nasce da queste premesse più tattiche che tecniche o nautiche quell'autentico culto della linea di fila, al quale Hoste porta un contributo fondamentale, culto che fa del mantenimento ad ogni costo della posizione nella linea da parte di ciascun vascello il problema capitale sia delle manovre e delle evoluzioni navali sia della tattica navale propriamente detta, et pour cause. Un solo vascello che non mantenesse o non mantenesse bene la linea di fila metterebbe in pericolo - oltre che sè stesso l'intera flotta, perché creerebbe nella compatta muraglia di navi che si vuol presentare al nenµco un varco, un vuoto, del quale il nemico non mancherebbe di approfittare. Di qui il nessun spazio lasciato all'iniziativa dei comandanti delle navi, fatto che ha risvolti disciplinari e morali di grande rilievo. La tattica navale tende anzitutto ad evitare questo rischio ritenuto mortale; essa è vista come ricerca e mantenimento della miglior posizione per il combattimento, finalizzata al mantenimento del posto in squadra in ogni situazione, e quindi come attento studio della cinematica navale, fino a essere condensata in schemi e figure geometriche, dove l'idea dominante, la chiave insomma, è sempre quella del mantenimento della formazione ad ogni costo. Secondo il Depeyre la linea di fila è stata teorizzata per la prima volta in Inghilterra in istruzioni compilate da certi Blake, Deane e Monck e applicata per la prima volta in forma sistematica alla battaglia di Lowestoft (13 giugno 1665), nella quale l'ammiraglio olandese Opdam è duramente sconfitto dall'inglese Duca di York (per il Corbett, invece, la linea di fila è comparsa per la prima volta alla battaglia di Gabbard nel giugno 1653). Roste presenta lo scontro anglo-inglese di Lowestoft come un evento capitale per la storia della tattica navale, fino a giudicarlo «la più gloriosa vittoria, e la più completa che a tutt'oggi sia stata riportata sul mare», con questo sostanzialmente aderendo alle tesi dello stesso York, che nelle sue lnstructions for the better ordering his majesty's fleet in fighting del 1673 prescrive ai comandanti di mantenere in tutti i casi la flotta in linea e fissa nel dettaglio le modalità e le linee d'azione che i comandanti devono seguire. Ne deriva, per il Depeyre, «un'autentica dittatura» esercitata sul pensiero tattico navale da queste istruzioni, in molti casi assai aderenti alle effettive condizioni del combattimento ma troppo rigide. Le teorie del Padre Hoste si inseriscono in questo contesto generale, e vengono poco dopo la prima pubblicazione delle Fighting lnstructions inglesi, rimaste in vigore almeno fino a Nelson, che a loro volta prescri-
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vono la rigida osservazione della linea di fila. Come ben dimostra il Depeyre, lo spirito offensivo non manca affatto nelle sue teorie e a volte egli indulge a una certa flessibilità: ma a proposito dell'altra questione capitale - la convenienza o meno di rompere la linea di fùa dell'avversario individuandovi un punto debole - egli appare tutto sommato assai prudente, poco entusiasta e dominato da un'eccessiva preoccupazione per le conseguenze di questa manovra che descrive assai bene, però ritenendola «ardita e delicata», in definitiva non essenziale per vincere e tale da poter generare disordine e confusione anche in chi la dovrebbe attuare a proprio vantaggio. Egli preferisce non la rottura della linea di fila avversaria ma il suo aggiramento, ottenuto daJl' armata navale più numerosa che dovrebbe costringere la linea di fila avversaria ad allungarsi troppo, per poi isolare e prenderne tra due fuochi la retroguardia. Ma questa manovra diventa possibile solo per una flotta decisamente superiore aJl'avversario. Essa, dunque, non presuppone l'applicazione anche sul mare dei principi della massa e dell'economia delle forze, con la quale anche chi è più debole dell'avversario ha la possibilità di prevalere. A ragione il Depeyre fa carico a Hoste di aver trascurato gli ammaestramenti della prima battaglia di Texel (21 agosto 1673), nella quale l'ammiraglio olandese De Ruyter con 70 vascelli riesce a batterne 90 anglo-francesi, concentrando 60 dei suoi vascelli - cioè la massa delle sue forze - contro i 60 vascelli inglesi. In tal modo De Ruyter ottiene la parità delle forze con l' avversario principale, e controlla nel contempo i 30 vascelli francesi con i suoi rimanenti 10. Anche se sottovaluta o teme gli effetti della rottura della Hnea di fila, Hoste ritiene questa manovra possibile in almeno tre casi: se vi si è costretti (il che ci sembra una tautologia tattica); se la linea di fila nemica presenta un varco; se parecchi bastimenti nemici sono fumi posto, scompigliati. Rimane comunque il fatto che frazionando le evoluzioni in segmenti, ciascuno illustrato con esempi storici, egli perde senza dubbio di vista l'insieme della manovra di questo o quell'ammiraglio [...] Ruyter non avrebbe potuto elaborare le sue tattiche di concentrazione, di economia delle forze senza disporre di una squadra assai articolata e non disposta su un'unica rigida linea di fila [ ... ] Ciò sfugge a Hoste, e rappresenta senza dubbio un limite importante del suo pensiero [... ] La sclerosi esiste e aumenterà con le generazioni successive, che guarderanno a Hoste come a un riferimento e un'autorità. 14 14
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Ciò significa che i limiti di Padre Hoste sono anche i limiti deUa scuola tattica navale francese del secolo XIX, che tende a confondere la tattica navale con le evoluzioni navali, effettuate secondo formule matematiche e schemi rigidi, perché Hoste «non ha affatto superato lo stadio delle ricette descritte con precisione». 15 Sullo sfondo rimane anche il culto della linea di fila, una specie di falange rigida che non bisogna mai frazionare pena la rovina. In una simile concezione non c'è nessun spazio per l'autonomia dei comandanti dei singoli vascelli o di frazioni della squadra. Su un piano più ampio, le teorie di Hoste sono l'espressione navale (anticipata di circa un secolo) di queUa tendenza tutta illuministica, tutta razionalizzante e tutta cartesiana che contraddistingue il pensiero militare francese dei secoli XVIll e XIX e della quale, in campo terrestre, è prima espressione la scuola «dei dottrinari» di Jomini. Se si tiene conto de1 grande influsso esercitato anche in campo navale dagli scrittori francesi sul pensiero militare italiano del secolo XIX, Padre Hoste non può essere trascurato. E, come meglio vedremo in seguito, nel 1882 l'ammiraglio Fincati criticherà aspramente le sue teorie, facendone la prima causa della perdurante confusione tra tattica ed evoluzione navali che si riscontra in Italia anche nell'età del vapore, e della tendenza a ingabbiare con minute prescrizioni l'iniziativa e l'autonomia dei comandanti in mare: 6 Per ultimo, il Depeyre smentisce la pretesa di · Hoste di essere il primo scrittore a trattare di nautica e manovre, indicando tra gli autori del XVII che l'hanno preceduto anche un italiano, certo Pandoro Pandora. 17 Si tratta di una banale storpiatura del nome di Pantero Pantera da Como, autore nel 1602 di un trattato dal titolo L'armata navale divisa in doi libri, ne i quali si ragiona del modo che si ha a tenere per formare, ordinare e conservare un'armata maritima, con un vocabolario, nel quale si dichiarano i nomi e voci marinaresche. Nella sua bibliografia il d' Ayala lo definisce «una delle opere più importanti della marineria italiana» ed elenca anche parecchi altri nomi italiani tutti ancora da studiare, che precedono e seguono il Padre Hoste. Lo stesso ammiraglio Fincati più volte cita - e riporta - il pensiero tattico di Messer C. da Canale, Provveditore da Mar (Contrammiraglio) dell'armata veneta .... 15
ivi.
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L. Fincati, Studi sui combattimenti in mare, Roma, Forzani e C. 1882, pp. 38-40
e 62-63. 17
M. Depeyre, Padre Hoste ... (Cit.), p. 60.
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La guerra marittima secondo l'Enciclopedia Francese (1757)
Dopo Padre Roste la manifestazione più significativa del pensiero navale europeo è l'Enciclopedia Francese (1757), che alla voce guerra navale o marittima fa espJicito riferimento sia ai consigli del Cardinale Richelieu sia alla parte navale delle voluminose Riflessioni Militari della spagnolo Marchese di Santa Cruz (inizio secolo XVIII), e stranamente non cita il Roste. Secondo l'Enciclopedia la guerra marittima può «vantaggiosamente assecondare quella terrestre» nei paesi bagnati dal mare. Le armate navali garantiscono un'efficace difesa delle coste senza che sia necessario impiegare molte truppe, ma se non si riesce a renderle superiori a quelle dei probabili nemici, è meglio non averne per niente, «ad eccezione di qualche galea che serve sempre sia per difendere le coste contro i corsari che per i soccorsi». Con forze navali superiori un Prìncipe si impadronisce agevolmente delle isole nemiche senza impiegare molte truppe, impedendo che il nemico le soccorra dalla terraferma; inoltre rovina il commercio dei suoi nemici e facilita quello dei suoi Stati, facendo scortare le navi mercantili con vascelli da guerra. Chi prevale sul mare riesce a concludere con i priocìpi neutrali trattati di commercio che gli assicurano i vantaggi che vuole ed è in grado di tenere a bada i paesi più lontani, la cui condotta in campo internazionale è sempre condizionata dal timore o dalle minacce di uno sbarco o di un bombardamento. Dal canto suo uno Stato con forze marittime inferiori a quelle nemiche sarebbe costretto a impiegare numerose truppe per difendere le sue coste, e non sarebbe comunque in grado di impedire sbarchi o azioni di sorpresa della flotta superiore contro qualche piazza. Infatti una flotta che minaccia un dato punto della costa, non appena riesce a sfruttare i1 vento favorevole può arrivarvi molto prima dei reggimenti destinati a difenderlo, ed è impossibile che i] nemico abbia tanti punti della costa così ben fortificati e difesi, da rendere superfluo i1 tempestivo intervento di forze terrestri di soccorso. Contro una potenza navale non si può fare nulla, se non avvalendosi di forze navali; ma quando si dispone solo di una marina in via di approntamento, bisogna evitare sia di correre il rischio di uno scontro con la marina avversaria superiore, sia di tenere le navi in porti mal sicuri dove il nemico potrebbe distruggerle. Per mezzo di spie occorre mantenersi al corrente dei movimenti delle navi nemiche, e se si presenta I' occasione, bisogna concentrare in segreto le proprie navi per attaccare una squadra nemica inferiore che si sia separata dal1e altre [applicazione del principio della massa- N.d.a.]. Se poi il nemico è in mare con una gros-
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sa squadra navale, si tratta di limitarsi a effettuare i movimenti assolutamente necessari per far riparare entro porti sicuri le nostre navi maggiori e per mantenere qualche fregata in mare, affinché «la vostra nazione non cessi interamente di esercitarsi nella navigazione, ed essa possa intercettare un po' il commercio dei nemici, che è sempre considerevole in proporzione delle loro armate navali». E sono citati anche i consigli del Marchese di Santa Cruz per la guerra di corsa, la quale deve essere basata su un accurato servizio di informazioni nei porti nemici, organizzazione di punti d'incontro con gli informatori, segnali di riconoscimento ecc., allo scopo di conoscere tempestivamente quando escono dai porti i bastimenti nemici senza scorta, e i movimenti delle navi guarda-coste. Con questi orientamenti l'Enciclopedia Francese non dice niente di più rispetto a quanto già dicevano Raleigh e Richelieu; l'unica novità è l'attenzione dedicata alle misure per preservare una marina più debole dagli attacchi di una marina più forte, e alla guerra di corsa vista come arma delle forze navali più deboli: due argomenti di particolare interesse pt:r k specifiche cundiz.iurù della Francia, che ritroveremo per lutto il secolo XIX. Da ricordare anche la voce évolution, definita «i differenti movimenti che si fanno eseguire ai vascelli da guerra per disporli in formazione di battaglia, riunirli, dividerli ecc.»; essa materializza il cammino più breve [non quello più conveniente in combattimento! - N.d.a.] di una nave per raggiungere una posizione predesignata. Segue una lunga descrizione geometrica delle varie manovre, evidentemente ispirata alle teorie di Hoste. Tra le varie formazioni di marcia di un'armata navale è prevista anche quella su tre colonne con comandanti in testa; la linea viene indicata come formazione di combattimento per l'intera armata, «per far fronte al nemico senza che le navi si ostacolino a vicenda».
SEZIONE II - L'arte militare marittima nella Rivoluzione e nell'età napoleonica
Quadro generale degli avvenimenti In primo luogo grazie al potere marittimo, nelle guerre napoleoniche l'Inghilterra con soli 9 milioni di abitanti aveva avuto ragione di un Paese di 25 milioni di abitanti come la Francia, anch'esso economicamente assai forte e con un grande esercito di secolari tradizioni, per di
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più guidato dall'ultimo grande genio militare della storia. Ma sul mare la Francia, pur disponendo di ottime e numerose navi, non si era per nulla dimostrata ali' altezza delle grandi vittorie ottenute dalle sue armate terrestri. In tre anni, dal 1798 al 1801, con la battaglia di Aboukir e la presa definitiva di Malta la Royal Navy conquista il dominio del Mediterraneo che manterrà fino a11a seconda guerra mondiale, espellendone la flotta franco-spagnola che, definitivamente sconfitta a Trafalgar nel 1805, scompare dalla scena consentendo all'Inghilterra di estendere da allora in poi il suo dominio a tutti i mari del mondo. 18 Nel 1815 sono dunque già pienamente operanti tutti i princìpi che avrebbero ispirato per oltre un secolo la politica estera militare e navale britannica, in stretta simbiosi con l'economia, l'industria, il commercio, il sistema coloniale. I caratteri distintivi, i limiti e gli inconvenienti di questa politica che fonde mirabilmente insieme - a tutto beneficio dell'Inghilterra - diverse componenti militari e civili non sono certo sfuggiti ai nostri autori da Gaetano Filangieri e da Melchiorre Gioia in poi, anche prima di Aboukir e Trafalgar; e di ciò abbiamo già dato conto, con particolare riguardo all'interpretazione economicistica di Carlo Cattaneo (capitolo X). Essi si riassumono in una politica del libero scambio, nena quale però si favoriscono con ogni mezzo - anche con l'uso effettivo o in funzione dissuasiva della flotta - i prodotti inglesi, garantendo in tal modo una sorta di monopolio mascherato del più forte; nell'occupazione sistematica in tutti i mari del mondo di punti-chiave e di punti di appoggio per la flotta, per meglio controllare in esclusiva le comunicazioni marittime; in un concetto unilaterale e esclusivista di difesa del «civis britannicus» introdotto per la prima volta da Lord Palmerston ai danni del Regno E11enico, in base al quale anche il privato cittadino, se il Governo inglese lo riteneva necessario e opportuno, poteva ovunque beneficiare della protezione della bandiera inglese, fino a legittimare interventi negli affari interni di altri Paesi. 19 Una visione pragmatica ed empirica, insomma, che prescinde con spregiudicatezza da ogni mito, ideologia, istanza morale, e ha come unico fine quell'interesse nazionale al cui esclusivo servizio è lo strumento militare e navale. Riguardo a quest'ultimo, l'empirismo tipico di quel 18 Si veda in merito A. Jachino, li potere marittimo nelle guerre napoleoniche, «Rivista Marittima» n. 4/1971. 19 Sugli elementi di continuità presenti nella politica navale inglese dopo Napoleone e fino al secolo XX Cfr. anche F. Botti, La «maritime strategy» degli USA e l'esperienza ... (Cit.).
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popolo tende a respingere qualsiasi schematismo teorico che potrebbe imbrigliarne l'impiego. Non compare in Inghilterra, né nel periodo in esame né dopo, alcuna teoria totalizzante sul primato e sul ruolo decisivo dello strumento navale, sulla ricerca della debellatio della flotta avversaria ecc.: l'unico criterio che da sempre si pretende applicato dagli ammiragli fino all'estremo e ovunque, è quello della massima aggressività, anche contro forze superiori. Alla flotta inglese si chiede solo di operare con efficacia e decisione, in qualsivoglia situazione: e così la flotta che a forze riunite sbaraglia i franco-inglesi a Trafalgar è anche quella che realizza la strategia «periferica» e «marittimo-terrestre» inglese ovunque ve ne sia la possibilità e convenienza, fungendo da «force multiplier» delle scarse truppe inglesi per le vittoriose campagne terrestri di Spagna e Portogallo contro Napoleone nel 1808-1813 e mirabilmente adattandosi senza inutili pregiudiziali teoriche, a operare in simbiosi con l'Esercito ad assicurargli i rifornimenti, a trasportare e sbarcare contingenti di truppe ovunque sia necessario per gli interessi della Nazione. Con questa politica dove anche e soprattutto la componente militare e navale era finalizzata alla ricerca e al mantenimento degli sbocchi necessari ai prodotti nazionali della rivoluzione industriale, i vasti territori coloniali inglesi erano sfruttati senza riguardo, anche se abitati da popolazioni di ceppo anglosassone. Va qui ricordato che la rivoluzione americana della seconda metà del secolo XVIII ha alla base rivendicazioni di carattere fiscale e economico non accolte dalla Madrepatria, e che per questioni di rivalità coloniale, di real politic gli insorti hanno il forte appoggio della Francia e della Spagna monarchiche, dove non c'è ancora alcuna traccia delle libertà inglesi e ancor di meno di quelle americane. Alla base delle richieste iniziali dei coloni americani, vi è la constatazione che le popolazioni locali, le prime ad essere danneggiate nei loro beni e nelle loro vite da eventuali vittorie nemiche «potevano anche giudicare più fondatamente delle forze [militari] necessarie a levarsi e mantenersi, delle fortezze da alzarsi, e delle proprie abilità loro a sopportar le spese, che non il Parlamento inglese così lontano». E poiché quelle americane non erano che colonie inglesi confinanti con le terre francesi, esse andavano concepite come terre di frontiera dell'Impero britannico, per la cui difesa era quindi giusto che pagasse tutto l'Impero britannico e non solamente gli stessi americani. E se le colonie americane, le quali erano frontiere inglesi in America, dovevano sopportare da sole le spese per la loro difesa, «sarà giusto, sarà conveniente non dover avere esse voce, non poter render partito a
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concedere la pecunia, a giuclicare della necessità di essa e del modo di riscuoterla?». 20 Le guerre napoleoniche, dunque, non fanno che definitivamente consolidare una politica navale inglese già in atto da molto tempo, nella quale la flotta più che una carta militare da giocare nei rapporti internazionali, è una ragione di vita, perché su di essa riposa in gran parte la prosperità della nazione. Il «modello» navale inglese non è esportabile, perché risponde a tre principi geopolitici tipici della collocazione dell'isola e dei suoi caratteri economici e politici: a) «sacro egoismo», e «splendido isolamento» in politica estera, perché l'Inghilterra è protetta dalla Manica e dalla sua flotta contro le invasioni, quindi può permettersi cli non legarsi a nessuna nazione del continente, favorendo anzi le loro discordie; b) «two power standard» (cioè possesso di una flotta numericamente pari a quelle delle due principali potenze navali mondiali sommate insieme), perché la sua difesa militare in Europa e nel mondo si riassume nella difesa marittima (il contrario avviene più o meno per le principali potenze europee), e perché solo con una flotta dominante essa può mantenere le basi del suo benessere e della sua influenza negli affari mondiali. Le peculiarità del modello marittimo britannico meglio risaltano al confronto con quello francese e diremmo latino, che specie aJiora è assai più vicino a noi. Scrive nel 1852 un testimone francese d'eccezione, il vice-ammiraglio principe di Joinville: senza dubbio la situazione insulare della Gran Bretagna, l'indole essenzialmente commerciale e marittima della nazione, i ricordi gloriosi dei quali trabocca la sua storia navaJe, entrano per la gran parte nella superiorità della sua marina: ma, agli occhi di un osservatore attento, le tradizioni hanno anch'esse gran parte in questa superiorità. La marina francese non riunisce affatto questi vantaggi. La natura ci ba fatto, anzitutto, soldati [come se il marinaio non fosse un soldato! - N.d.a.], e noi siamo marinai contro la nostranatura, per necessità e per forza di volontà. Se ci è capitato, in altri tempi, di ottenere dei brillanti successi sul mare, questi tempi sono ormai ben lontani da noi. Le rivoluzioni del nostro secolo hanno crudelmente penalizzato la marina: per più di vent'anni la nostra storia navale è costellala da una lunga serie di rovesci, sopportati con un eroismo tanto grande quanto misconosciuto, e, bisogna ben dirlo, questi rovesci sono avvenuti soprattutto per la disgraziata decisione, provocata dalla rivoluzione, di cancellare violentemente
20 C. Botta, Storia della guerra d'indipendenza degli Stati Uniti, Parma, Tip. Blanchon 1817, Vol. I, pp. 106-109.
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tutte le tradizioni.21
AJ di là degli aspetti tecnici e tattico-strategici, è questa impasse navale a segnare la differenza tra le due marine-guida europee, tali rimaste fino al secolo XX. Per quanto riguarda lo scenario nel quale le forze navali devono agire, si sta già pensando aJJ'apertura dei Canali di Suez (fatta studiare da Napoleone) e di Panama. 22 Nel Mediterraneo non si muove foglia che l'Inghilterra non voglia; in questo mare dal punto di vista geopolitico l'Inghilterra non è entusiasta del disfacimento dell'Impero Ottomano, perché lo considera ancora un utile bastione che ostacola la temuta espansione russa verso il Mediterraneo e l'Oriente, mentre l'Impero austriaco avrebbe la stessa funzione nell'Europa continentale. Al tempo stesso, l'Inghilterra non vede molto di buon occhio un eccessivo predominio austriaco e/o francese in Italia, e questa - basta ricordare quanto scrive Guglielmo Pepe - è fin daJJa Restaurazione una delle chances internazionali più efficaci a favore dell'indipendenza italiana.
Il potere marittimo e il ruolo della flotta nella grande strategia di Napoleone
Se gli autori militari europei puramente navali generalmente ignorano la guerra terrestre, quelli «terrestri» sono concordi nel non dare gran peso alla guerra sul mare, risentendo forse in qualche misura di remore psicologiche legate alla «paura del mare» abbastanza diffusa sul continente. Federico II di Prussia, aJle prese con la psicosi dei confini terrestri, si occupa di cose di mare solo per fare delle pesanti ironie sullo spirito combattivo e sull'inaffidabilità dei comandanti navali: «Ja spedizione è venuta meno, perché i venti erano contrari: scusa banale di tutti i marinai» ( e il Duparq a proposito questo motto annota che «al campo di Boulogne Napoleone ripete sovente questo detto di Federico»).23 Il Bon mot di Federico, la sua ironia non sono però solo tali. Esse hanno un loro 21 De Joinville (Amm.), Essai sur la marine française, Bruxelles, Meline, Cans et C.ie 1852, pp. 9-10. 22 G.P., Memorie sul progetto di due canali navigabili fra l'Oceano Atlantico e il Pacifico - opera del Sig. Robinson, «Antologia» (Firenze) n. LXXVII - maggio 1827, pp. I 25-136. 23 Duparcq, Op. cit., p. 94.
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significato più profondo di quanto si possa credere, e lasciano intendere un fatto certo: che al tempo, la guerra sul mare è influenzata da fattori meteorologici in modo tale, da comprimere grandemente la libertà di decisione e di azione strategica dei comandanti delle flotte, aggiungendo ai fattori commensurabili di potenza navale un fattore imponderabile che può grandemente cambiarli in un senso o nell'altro. Si può ben capire che un comandante terrestre grande ma senza alcuna esperienza di c~se di mare, e abituato a veder dipendere molto dai suoi calcoli, dai suoi piani e dalle sue decisioni, non sopporti volentieri di vedersi sottratto da Eolo il pieno controllo delle sue forze. I problemi che si presentano per una flotta in mare, però esaltano le doti del comandante e non limitano la sua personalità, costringendolo ad operare d'istinto e sulla base della sua esperienza: è questo che Federico TI mostra di non capire bene. Il vento e il tempo non sono sempre scuse banali: ma quando lo diventano, signifièano solo che il comandante della flotta deve essere sostituito. Napoleone, a parte la nota del Duparq, affronta in maniera molto più organica e precisa il problema strategico - prima ancor che tattico della guerra sul mare: è ben noto che da lui dipende la cospicua flotta francese, che almeno dal punto di vista del numero dei vascelli e della qualità delle costruzioni navali è in grado di competere con queHa inglese e talvolta la supera, specie se affiancata da quella spagnola. In definitiva mancano agli ammiragli francesi proprio tutte quelle qualità - spirito aggressivo, colpo d'occhio, amore del rischio, insofferenza per canoni consolidati e regole - che hanno fatto grandi Federico II, lo stesso Napoleone e tutti i grandi Capi militari capaci di sconfiggere forze anche superiori in battaglie decisive. Ebbene, Napoleone non capisce affatto la grandezza del suo competitore navale, Nelson, e vorrebbe ridurre le doti del Capo navale a mera esperienza. A suo giudizio un generale comandante in capo di un'armata navale ed un generale comandante di un' armata di terra, sono uomini ai quali occorrono qualità differenti. Si nasce con le qualità proprie e necessarie per comandare un'armata di terra, mentre che le qualità per comandare un'armata navale non s' acquistano che con l'esperienza. L'arte della guerra di terra è un' arte di genio e d'ispirazione. Nell'arte del comando navale, genio e ispirazione non contano [non è vero - · N.d.a.]; tutto è positivo, tutto è esperienza [nemmeno questo è vero - N.d.a.]. Un generale di mare non ha nulla da indovinare, egli sa dove è il nemico; egli ne conosce la forza [al contrario Villeneuve e Nelson spesso non la conoscevano, e la ricerca della flotta fran-
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cese per Nelson era una vera ossessione - N.d.a.]. Un generale di terra non sa mai esattamente nulla. non vede il suo nemico e non sa positivamente dove si trova. Un generale in capo di forze marittime dipende molto più dai suoi capitani di vascello di quel che un comandante di terra dipenda dai suoi generali; quest'ultimo ha facoltà di assumere lui medesimo il comando diretto di una parte delle truppe e di accorrere ovunque ad apportare rimedio ai falsi movimenti.24
Abbiamo già dimostrato che anche per il comandante in mare - anzi, a maggior ragione - valgono le doti del capo e lo spirito dei gregari, magistralmente indicati da Clausewitz. 25 Su questo argomento Napoleone è decisamente non all'altezza del suo genio: ma per il resto? Nel Memoriale di Sant'Elena egli scrive che l'Italia, con i confini segnati dal mare o da altissime montagne, ha caratteristiche geopolitiche tali, da farla sembrare chiamata a formare una grande e potente nazione: ma la configurazione sua è forse causa dell'essere sbocconcellata in tanti principali e repubbliche indipendenti. La sua lunghezza non ha proporzione con la larghezza [ ... ] le tre grandi isole [evidentemente egli include in esse anche la Corsica - N.d.a.] hanno bisogni, posizioni, circostanze distinte; né il Regno di Napoli ha a che fare con la valle del Po per clima o per interessi.
Fin qui Napoleone sembrerebbe anticipare talune valutazioni del Durando: tuttavia ammette che «l'unità di costumi, di favella, di letteratura deve presto o tardi congiungere alfine i suoi abitanti in un governo solo», e soprattutto prevede per l'Italia un grande avvenire sul mare: nessun paese d'Europa è meglio collocato per diventare una grande potenza marittima, contando dalle foci del Varo allo stretto di Sicilia 230 leghe di coste; da quelle alla punta d'Otranto sul Mar Ionio 130; di là allo sbocco dell'Isonzo 230; 530 ne hanno le tre isole, non contando quelle della Dalmazia, dell'Istria, delle bocche di Cattaro, delle isole jonie; la Francia non ne ha che 600, la Spagna 800. La Francia ha tre porti, le cui città contano centomila anime; l'Italia possiede Genova, Napoli, Palenno, Venezia, assai più popolate; oltre che la poca distanza delle due coste del Mediterraneo e dell'Adriatico avvicina quasi tutti gli italiani alle coste.
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Napoleone, Precetti ... (Cit.), pp. 197-198. F. Botti, C/ausewitz e la strategia marittima, «Rivista Marittima» n. 2/1985, p. • 80-88, e Il Capo e la battaglia navale alla luce della teoria clausewitziana, «Rivista Marittima» n. 11/1985, pp. 83-92. 25
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Si vede, in queste parole, il colpo d'occhio del grande stratega: ecome grande stratega a capo di una grande Nazione non marinara come la Francia (ma tuttavia con estese coste, importanti colonie e buon commercio marittimo), Napoleone non può non aver avuto una politica e strategia navale, se non altro per combattere una potenza essenzialmente marittima come l'Inghilterra. Il problema, a questo punto, è quello di stabilire attraverso le sue azioni e decisioni la valenza teorica, gli effettivi contenuti di questa strategia, anche in rapporto a quella terrestre. Si potrà così constatare in che misura corrisponde al vero la communis opinio - esclusivamente basata sui risultati - che la strategia delle armate navali di Napoleone o non c'è stata o è stata poco felice non meno della loro tattica, e che comunque in campo marittimo il suo genio non ha brillato come in campo terrestre. Napoleone, sul mare, eredita una situazione estremamente difficile soprattutto sotto il profilo del personale. La Francia, a detta degli stessi francesi paese continentale che non può fare a meno di essere marittimo (il contrario avviene per l'Inghilterra), non aveva mai abbondato di Quadri ed equipaggi ben sperimentati: la Rivoluzione elimina quasi completamente il corpo degli ufficiali di Marina, dove la presenza della nobiltà è assai più estesa che nell'esercito. Date le estese conoscenze ed esperienze che richiede allora l'arte della navigazione, è difficile sostituirli.26 Fin dall'inizio del suo potere, quindi, Napoleone si trova di fronte a una difficoltà che non riesce mai a superare, e che ha un ruolo determinante nella corretta esecuzione dei suoi intendimenti strategici: la assenza sul mare di una leadership di valore almeno pari a quella - peraltro di qualità anch'essa non eccelsa - che egli aveva saputo creare in campo terrestre.27 Gli inconvenienti che derivano da questa situazione, di fronte alla quale il grande condottiero terrestre si dimostra impotente e quasi rassegnato, sono enormemente accresciuti dalla presenza, nel campo opposto, di Orazio Nelson, cioè di un uomo che nella guerra marittima rivela con sorprendenti analogie - molte delle superiori doti di carattere, di colpo d'occhio, di intuito strategico tipiche di Napoleone: non vittoria di artiglieri, non maggiore coraggio di marinai o di soldati, non superiorità numerica, spiegano da un lato la vittoria di Nelson, dall'altro la vittoria di Napoleone, ma il fatto che da una
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Cfr. Service Historique de la Marine, Marine et tecnique au XIXe siécle, Paris 1988, Parte prima. 27 A. Lumbroso, Napoleone e il Mediterraneo , Genova, Lega Navale Italiana (De Fornari) 1934, pp. 3-14.
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parte, a TrafaJgar, vi erano Ammiragli francesi e spagnoli indecisi, pretenziosi, che avevano da anni perduta di vista la realtà della guerra navale, e dalla altra Capi inglesi giovani, ardenti, desiderosi di distinguersi, forti dell'esperienza di dieci campagne, felici di eseguire ciecamente gli ordini di un uomo in cui avevano ancora e sempre una fiducia assoluta e quasi istintiva, e intanto al di sopra di loro v'era un' intelJigenza, anzi un genio [Nelson - N.d.a.], che senza attardarsi nei particolari determinava ed indicava lo scopo essenziale, con una volontà che verso questo unico scopo si tendeva con pertinacia e costanza, genio e volontà il cui accordo armonioso interviene a realizzare tanto a Trafalgar quanto a Jena, cosl nell'Atlantico come in Prussia, due dei più bei capolavori dell'arte bellica navale o terrestre. Gli stessi difetti, le stesse peculiarità che hanno in mare i vinti del 1805, hanno in Germania i vinti del 1806.28
Il secondo handicap di Napoleone è infatti che - come ben dimostra il Lumbroso - egli è pur sempre un generale terrestre che soffre il mal di mare, capisce poco e male i particolari della guerra marittima e della tattica navale, e troppo spesso crede di poter comandare a enormi distanze gli ammiragli così come comanda in battaglia dei comandanti di corpo d'armata che agiscono spesso sotto i suoi occhi, o comunque a brevi distanze. ln sostanza egli - diversamente dall' ammiraglio inglese - non tiene abbastanza conto che i comandanti navali devono entrare in azione a una distanza di molti giorni di corriere e sono legati alle condizioni meteo, quindi «a un Ammiraglio che doveva muoversi, specialmente nell'epoca velica, a tale distanza, sarebbe stato buona regola lasciare quella indispensabile libertà d'azione che gli avesse permesso di scegliere il tempo e il vento propizio nonché il momento opportuno [...] Quel che fece sempre con i suoi corpi d'armata, fece anche con le sue squadre: le considerò come pedine che dirigeva verso uno scopo ad esse sconosciuto, e noto a lui solo. Sicché anche se il piano fosse stato perfetto, imperfetta ne doveva essere sempre 1' esecuzione, essendo necessario che un ammirag1io in Capo si renda ben conto di ciò che deve fare per sostenere l'azione delle truppe di terraferma».29 Le ricadute negative di questa azione di comando, i suoi difetti sono meno ovvii di quanto possa sembrare a prima vista. Rispetto ad essa, molte analogie presenta la condotta della guerra marittima nel Mediterraneo da parte del vertice politico-militare italiano nel 1940-1943, cioè
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ivi, p. 67. ivi, p. 52.
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un secolo e mezzo dopo. Sta di fatto che, in questo modo, si crea un humus non favorevole al1'emergere di Capi con doti di carattere, iniziativa, audacia, e che nella fattispecie i danni provocati dall'anarchia e violenza rivoluzionarie risultano - a tutto danno della strategia napoleonica - ancor più ingenti. A Napoleone sarebbe servito quant'altri mai un Suffren: il massimo che riesce ad avere - e che si merita - è un Villeneuve. Come riconosciuto dai suoi stessi ammiragli ( che Napoleone - et pour cause - non ha mai trattato con troppa benevolenza) egli sapeva impadronirsi con estrema rapidità dei termini essenziali dei grandi problemi della ·Marina e correttamente decidere di conseguenza. Senza dubbio i suoi ordini agli ammiragli, nonostante tutto, «valevano meg1io delle decisioni che essi prendevano senza consultarlo». Ma la sua politica e la sua strategia globale rimangono senza una delle sue due gambe: quella navale. Di questa mancanza egli si rende ben conto, ed essa agisce su di lui sia in un senso, che nell'altro: di volta in volta lo spinge sia a tentare - di rado riuscendoci - di superarla, sia a rassegnarvisi facendo ancor più leva sullo strumento terrestre. Classici e contrapposti esempi sono la guerra di Spagna 1808-1813 e la mancata invasione dell'Inghilterra non prima ma dopo Trafalgar (1805). La guerra di Spagna poteva essere vinta solo sul mare, cioè impedendo agli insorti di ricevere via mare aiuti morali, finanziari e militari dall'Inghilterra, e togliendo alle truppe inglesi la possibilità di essere rifornite e alimentate dal mare, il che equivaleva ad accerchiarle. Napoleone cerca invece di vincere esclusivamente in campo terrestre e per di più con gregari non eccellenti in disaccordo, e da lui troppo lontani proprio come i suoi ammiragli; l'esito non è dubbio. Perché, poi, Napoleone dopo Trafalgar non ha cercato di ricostruire la flotta, ma ha puntato tutto sulJa guerra terrestre? Concordiamo, in merito, con il Lumbroso: se non lo ha fatto non è stato per miopia o per sopravvalutazione del1o strumento terrestre, ma semplicemente perché si rendeva conto che si poteva costruire dal 1806 al 1813 molte navi e fors'anche addestrare dei discreti e ben allenati equipaggi, ma non era possibile trovare ammiragli e Capi in grado di rivaleggiare con gli allievi di Nelson. 30 Se la mancanza di Capi ereditata dalla rivoluzione pesa in maniera determinante sulle sue decisioni, anche nel campo puramente strategico la sua eredità marittima è pesante e fuorviante. Il 31 gennaio 1793 la Convenzione approva una nuova strategia marittima alternativa, la guerra di corsa che ha come obiettivo le navi mercantili e il commercio in-
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ivi, pp. 270-274.
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glese, non la flotta da guerra nemica. Questa strategia era l'unica possibile, data la forte dipendenza dell'Inghilterra dal commercio marittimo (molto maggiore di quanto avviene per la Francia o l'Europa) e dato che la flotta francese non era in grado di affrontare quella inglese in battaglie réglées, cioè in battaglie decisive a flotte riunite così come avveniva in campo terrestre, in battaglie che sono il punto focale del pensiero navale d'ogni tempo. Con un approccio destinato ad aver largo seguito in futuro, questo espediente viene addirittura presentato come una nuova e rivoluzionaria strategia, da contrapporre a quella reazionaria e per così dire militarista e tradizionalista delle flotte del Re di Francia e della stessa Inghilterra: poiché questo sistema [cioè la guerra di corsa - sarebbe meglio dire strategia, parola al tempo non in uso in campo marittimo N.d.a.] risponderà molto meglio ai veri interessi della nazione che quei vani sfoggi di potenza marittima i quali non soddisfano che l'orgoglio personale e consumano inutilmente le risorse della Repubblica, il Governo inglese potrà, se lo vuole, pavoneggiarsi esibendo le sue squadre e farle incrociare negli ordini prescritti dalla tattica; il Francese si limiterà ad attaccare l'Inghilterra in ciò che essa di più ha caro, in ciò che è la ba<;e del suo benessere: nelle sue ricchezze! Tutti i noslri piani, tutte le nostre crociere, tutti i nostri movimenti nei porti e nei mari non avranno altro scopo che di rovinare il suo commercio, di distruggere, di mettere sottosopra le sue colonie, di costringerla insomma a una bancarotta vergognosa. 31
E' una vera e propria «privatizzazione» della guerra sul mare, perché la guerra di corsa viene fatta sia da navi militari, sia da navi armate da privati in possesso di apposita lettera di corsa. E' anche il primo esempio di guerra integrale sul mare, perché la guerra al commercio e quindi alle navi mercantili - alla quale già avevano fatto ricorso, con molto successo, gli americani del Nord nella loro guerra d'indipendenza - vi veniva per la prima volta giuridicamente sanzionata e riconosciuta, con radicale mutamento di rotta rispetto a quanto aveva proposto Kersaint alla stessa assemblea un anno prima. E nel 1796 il ministro della marina Truguet invia ai commissari di marina dei vari porti una circolare di questo tenore: poiché l'obiettivo delle navi da corsa è di molestare, di annientare
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Service Hislorique ... (Cit.), p. 137.
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fin che è possibile il commercio dei nostri nemici ... i Corsari devono fare tutti i loro sforzi per portargli dei colpi sicuri. Di conseguenza vi invito a far sapere a tutti i comandanti delle navi da corsa armate nel vostro circondario, che devono senz'altro distruggere durante le loro crociere tutte le navi mercantili inglesi che non saranno certi di poter far arrivare in porti francesi. Così facendo si riuscirà a impedire che avvenga la cattura da parte inglese di un'infinità di nostre navi, e nel medesimo tempo si eviterà la diminuzione degli equipaggi delle nostre navi corsare e la prigionia di un gran numero di marinai francesi. 32
Come recepisce Napoleone questa eredità? Certamente in modo equilibrato, perché è lungi dal vedere nella guerra di corsa una reale strategia alternativa. Così come crede nei grandi eserciti, crede nell'insostituibilità del ruolo delle grandi flotte comandate da sperimentati e valorosi ammiragli, tant'è vero che alla vigilia della pace di Campoformio (1797) che conclude la sua prima, folgorante campagna contro l'Austria, si rende ben conto che la partita sarà chiusa solo dopo aver eliminato dai mari la flotta inglese, già vittoriosa su quella spagnola pochi mesi prima a Capo S. Vincenzo, e su quella olandese a Camperdown. Questa flotta non è certo, per lui, un dispendioso ornamento del nemico, ma l'obiettivo principale, visto che il giorno stesso del trattato scrive al Direttorio che «ora è necessario di volgere immediatamente tutta la nostra attività verso la marina, per distruggere l'Inghilterra», e al tempo stesso si accorda con il ministro della marina per concentrare a Brest il massimo numero di navi possibile, in vista dello sbarco in Inghilterra ... Inoltre ordina di costruire una flottiglia di imbarcazioni a fondo piatto, spinte a remi, di facile costruzione in serie e poco costose ma capaci di attraversare la Manica, cercando così di supplire in qualche modo aJl'inferiorità deJla marina militare e mercantile francese. 33 L'importanza decisiva del commercio inglese e la conseguente necessità di interromperlo è, nondimeno, sullo sfondo della sua politica navale, o se si preferisce, de11a sua grande strategia e della sua politica estera. Di fronte al suo genio strategico terrestre, si potrebbe affermare che la sua visione complessiva è prettamente «continentalista», e se e quando diventa marittima, lo fa solo a denti stretti. Ciò non risponde a verità: in questo senso, egli non fa che ereditare la tradizionale politica
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ivi, p. 139. ivi, pp. 14-15.
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francese - quella dei Borboni e di Richelieu - nei riguardi dell'lnghilterra,34 con obiettivi di fondo e una visione geopolitica sostanziaJmente finalizzati alla ricerca di una parità anche marittima e commerciaJe con l'Inghilterra, parità che l'Inghilterra - in base ai princìpi tradizionali della sua politica estera, economica e navale - non poteva accettare, non aveva mai accettato e non avrebbe mai accettato. Accanto a questo obiettivo primario, Napoleone ne un aJtro del pari inaccettabile per l'Inghilterra, che si rivela fin dalla spedizione in Egitto e in particolar modo dopo Trafalgar: fare del Mediterraneo un lago francese, magari in condominio con un'Italia unificata, ma sempre sotto lo scettro francese e sostanzialmente subaJtema alla Francia. NelJa notte sull'll febbraio 1818 Napoleone detta a Sant'Elena un memoriale o testamento politico inevitabilmente autogiustificativo, ma che il Lumbroso dimostra come autentico fugando i dubbi di parecchi studiosi francesi. 35 Senza addentrarci in ricerche filologiche, non stentiamo a credere nell'autenticità del documento, per la semplice ragione che la sostanza dei suoi contenuti corrisponde pienamente alle considerazioni degli autori italiani sulla politica commerciaJe, militare e navale inglese che abbiamo già riferito, e ai ben noti, tradizionali lineamenti della politica estera e navale inglese fino al 1940. Napoleone in questa occasione protesta di «aver sempre considerato la pace generale [naturalmente, una pax napoleonica o francese e non britannica - N.d.a.] come la prima condizione per la rigenerazione dell'Europa», e non senza ragione afferma di non aver mai fatto guerre per puro spirito di conquista, ma di «aver accettato le guerre che il Ministero inglese ha suscitato contro la Rivoluzione». E aggiunge: ho sempre riconosciuto all'Inghilterra lo scettro dei mari, ma vole-
vo solamente che una nave francese fosse rispettata sul mare quanto un furgone inglese lo sarebbe stato negli Stati sottoposti al mio scettro: reciprocità intiera nelle relazioni di questi due grandi popoli fra di loro [ ...] Se un trattato di commercio è un tratto d'unione necessario per una intesa con l'Inghilterra, si dica (allo Czar) che sono sempre stato d' opinione che occorresse una reciprocità completa e che, se noi non ci siamo intesi, è colpa dell'Inghilterra...
In pratica al concetto inglese di libertà dei mari, inteso e applicato all'esclusivo servizio degli interessi economici e commerciali inglesi,
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A. Lumbroso, Op. cit., p. 332. ivi, pp. 305-317.
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Napoleone contrappone il concetto francese di libertà dei mari, anch'esso al servizio degli interessi francesi ma apparentemente meno pretenzioso, perché vorrebbe sostituire il monopolio inglese con una sorta di duopolio anglo-francese. Egli poi lamenta di non essere stato compreso dall'Inghilterra, che ha respinto più volte le sue profferte di pace; lamentela propagandistica o, altrimenti, abbastanza ingenua: perché non poteva ignorare che l'Inghilterra sui mari non avrebbe mai accettato condomini con nessuno, e in campo terrestre non avrebbe mai accettato l'unificazione dell'Europa Occidentale sotto un'unica potenza egemone. Nel suo citato testamento, Richelieu accenna all'onta subìta dal duca di Sully, inviato dal Re francese Enrico il Grande quale ambasciatore straordinario presso il Re d'Inghilterra. Sulla Manica va incontro alla nave che trasporta il Sully un vascello inglese, che le ordina di abbassare la bandiera di fronte alla bandiera di Sua Maestà britannica, e che al rifiuto del capitano francese apre senz'altro il fuoco costringendolo a ubbidire. E, dopo Napoleone, il Paixhans nel 1822 ricorda che fin dal secolo XIV gli ingksi solevano chiedere agli altri popoli che volevano pescare sul mare un pedaggio, e più tardi chiamarono Mari Britannici i mari di Spagna, di Francia, d'Olanda, di Danimarca e di Norvegia. Nel 1653, dopo una dura lotta, l'Olanda fu costretta a riconoscere che le sue navi dovevano abbassare il vessillo quando incontravano un vascello inglese. Infine, il regolamento inglese del 1° gennaio 1794 prescriveva che i vascelli stranieri, i quali incrociando un vascello di Sua Maestà nei mari britannici fino al Capo Finisterre non abbassassero la bandiera, dovevano esservi costretti, mentre i vascelli inglesi non erano tenuti ad abbassare il vessillo di fronte a nessun altro.36 Di fronte allo strano modo inglese di concepire Ja libertà dei mari, al di là delle apparenze Napoleone chiede molto di più: chiede, in pratica, che l'Inghilterra rinunci a essere sé stessa. Si possono quindi intuire chiaramente gli obiettivi de1la sua grande strategia in contrapposto a quelli inglesi, tipicamente di conservazione. Questi «grandi obiettivi» sono due, scanditi nel tempo: acquisire anzitutto il predominio nell'Europa Continentale, per poi trattare con l'Inghilterra da posizioni di forza, ponendo fine al suo monopolio commerciale e navale sui mari. Va da sé che, per fare questo, gli occorreva quella flotta competitiva della quale non aveva mai potuto disporre, e gli occorreva anzitutto essere in grado di spazzare via l'influenza inglese almeno dall'Europa Continentale e dal Mediterraneo. Fallisce ambedue gli obiettivi, nono-
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H.J. Paixhans, Nouvelle Force Maritime, Paris, Bachelier 1822, p. VI nota (3).
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stante le folgoranti vittorie terrestri; quest'ultime non gli assicurano quell'egemonia terrestre definitiva che gli è necessaria anche per coprirgli le spalle nello sbarco in Inghilterra, che anche per questo rimane solo un progetto. Infatti, già prima di Trafalgar è costretto ad abbandonare le coste della Manica per riprendere 1a guerra nel Centro Europa, suscitata contro di lui dalla magistrale strategia periferica inglese, che finisce con l'aver ragione della sua altrettanto magistrale guerra di masse terrestre. Quest'ultima tende a diventare, negli ultimi anni, non uno strumento risolutivo al servizio di una politica chiara, ma l'unico modo per «tenere il campo» e indebolire come si può l'Inghilterra, in una logica di guerra di logoramento che è già un successo per l'Inghilterra. Il decreto di blocco totale delle coste europee del 21 novembre 1806 (venuto, significativamente, un anno dopo la definitiva débacle della flotta francese a Trafalgar) risponde alla stessa logica di logoramento dell'avversario, che ispira anche la guerra terrestre dopo Trafalgar. 37 Esso «prepara metodicamente, ora per ora, l'anemia del popolo che Napoleone vuol ridurre a non più potergli resistere né in terra né in mare. Bisogna che sia commerciale una guerra ad un popolo di commercianti». 38 II che è vero; ma per far strettamente osservare il blocco, Napoleone non dispone di una flotta sufficiente, anzi non dispone più di una flotta. E perché, allora, ha aspettato la sconfitta di Trafalgar? Così il blocco stesso diventa una manifestazione della sua impotenza in campo marittimo e un chiaro segno di stallo della sua strategia. Il fatto, poi, che questo provvedimento dia risultati assai buoni, e secondo taluni porti l'Inghilterra assai vicina al collasso, è assai meno importante: perché fino a quando la flotta da guerra era intatta e invitta, l'Inghilterra non poteva morire. Né ha molta importanza il fatto che il blocco inglese delle coste del continente europeo dà alla fin fine risultati assai più modesti, anche se - come si dice nel decreto napoleonico - «questo mostruoso abuso del diritto di blocco non ha altro scopo che di impedire le comunicazioni tra i popoli, e di far prosperare il commercio e l'industria inglesi al prezzo della rovina dell'industria e del commercio del continente». In quanto al Mediterraneo, sono ben noti i vasti disegni geopolitici alla base della spedizione napoleonica in Egitto nel 1798, che guadagna al controllo francese una delle chiavi del Mediterraneo, (l'isola di Malta poi presa definitivamente dagli inglesi nel 1801), e mira a colpire al cuore l'Impero britannico, quasi ripetendo 1e gesta di Scipione che sbarca in
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38
A. Lumbroso, Op. cit., pp. 328-330. ivi, p. 297.
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Africa e insidia Cartagine, quando Annibale è ancora in Italia. Il 21 luglio 1806, dopo Trafalgar, Napoleone scrive al fratello Giuseppe Re di Napoli: «io spero che mi aiuterete potentemente ad essere padrone del Mediterraneo, scopo principale e costante della mia politica». 39 Nella visione napoleonica, la porta orientale del Mediterraneo, Costantinopoli, è «una palude che impedisce di aggirare l'ala destra francese» quindi un bastione per arginare l'espansione russa verso est nel Mediterraneo, così come in campo terrestre e nel Centro-Europa lo è la Polonia. Secondo il Lumbroso «Napoleone fa la guerra all'Inghilterra, perché questa è nemica della Francia nell'Atlantico e sopra tutto nel Mediterraneo». A parer nostro il ruolo del Mediterraneo nella politica napoleonica non va troppo enfatizzato, e noi cambieremmo la priorità: l'Inghilterra è nemica della Francia nel Mediterraneo, e soprattutto nell'Atlantico. Il Mediterraneo è mezzo e non fine, è retrovia e canale obbligato, è periferia rispetto al Centro Europa e all'Oceano, dove Napoleone gioca le carte decisive. Per questo, dopo Trafalgar - battaglia non casualmente combattuta alle porte del Mediterraneo - la politica di Napoleone da oceanica si fa definitivamente - e diremmo precariamente - mediterranea .40 Precariamente, perché con Malta e Gibilterra in mano alla Royal Navy e senza una flotta, questa politica non poteva non rivelare tutti i suoi limiti, anche se è indubbio che Napoleone considera l'Italia il fulcro di tale politica, se non altro come contrappeso geopolitico delle posizioni inglesi.41 Riassumendo, l'affermazione di Napoleone di essere un cattivo ammiraglio, e di aver pensato alla Marina solo per un capriccio,42 è una semplice battuta che poco si accorda con i reali e ben dimostrati obiettivi di un Capo di Stato che prosegue la politica di Richelieu nei riguardi dell'Inghilterra, politica che considera questa nazione marittima per eccellenza come sua principale nemica, e che dopo Trafalgar fa significativamente distribuire alla flotta francese superstite l'ultimo ordine del giorno di Nelson. Per questo non siamo d'accordo con l'amm. Vannutelli, il quale nel 1934 ha affermato che la politica marittima di Napoleone è stata «piena di buone intenzioni e di idee interessanti, ma non sempre corrispondenti alla situazione reale». Tale politica, inoltre, avrebbe costituito «un aspetto secondario e intermittente della sua attività, concentrata sulla guerra terrestre».43
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ivi, p. 68. ivi, pp. 66-67. 41 ivi, pp. 182-188. 42 ivi, p. 37. 43 ivi, p. XIV. 40
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Queste affermazioni mal si conciliano con la sua esatta - anche se non nuova - percezione della reale posta in gioco con l'Inghilterra. Il suo merito maggiore è quello di aver concepito un grande progetto geopolitico e geostrategico, nel quale il ruolo delle forze di terra e di mare era ben coordinato e definho, fino a far ritenere la sua grande strategia tutt'altro che angustamente terrestre. Egli ha cercato, in tutti i modi, di realizzare questo piano. Ha commesso certamente degli errori, sempre minori però di quelli dei suoi ammiragli in campo tattico (Aboukir c'è stata, perché Brueys non gli_ha obbedito). In definitiva, ha ben presto perso l'iniziativa e ha dovuto accettare a tutto vantaggio dell'Inghilterra una guerra di logoramento periferica per una ragione fondamentale: perché con l'endemica debolezza della Francia sul mare, di fronte alla quale anche il genio era impotente, quella contro l'Inghilterra era lo stesso tipo di guerra di quella contro la Russia: quest'ultima secondo Clausewitz semplicemente non si poteva vincere. Nemmeno la guerra marittima contro l'Inghilterra si poteva vincere, né sarebbe stata vinta da nessuno anche nel secolo seguente. Tant'è vero che nel 1918 la Francia vittoriosa conquista solo un (temporaneo) predominio continentale ma continua a rinunciare alla «parità» navale con la Gran Bretagna, e nel luglio 1940 alle sconfitte amare di Aboukir e Trafalgar aggiunge le mille vittime del cannone inglese - spietato, preciso e deciso come sempre - sulle impotenti navi di Mers-El-Kebir. Più che volere troppo, Napoleone ha pagato all'Inghilterra - e paradossalmente, avrebbe potuto evitarlo solo perdendo le sue battaglie terrestri - il pedaggio marittimo delle sue vittorie continentali.
Il rinnovamento della tattica navale a fine secolo XVIII: Clerk, Bourdé e Ramatuelle Gli ingegnosi schemi geometrici di Hoste non contribuiscono certo a formare ardimentosi ammiragli capaci, al bisogno, di ignorare i principi e le regole tradizionali, così come aveva saputo fare Napoleone: tuttavia fino alla vigilia della Rivoluzione Francese la sua opera e le sue prudenti considerazioni sembrano riscuotere un certo consenso anche in Inghilterra, cioè in un paese la cui flotta era già da tempo avvezza al1a massima aggressività e iniziativa. Tant' è vero che, nel 1762, compare a Londra una tardiva traduzione della sua Art des armées navales, dovuta al tenente di vascello O'Brien che la giu-
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dica «un capolavoro nel suo genere» e con ciò stesso ne riconosce la perdurante validità.44 La mentalità della quale è espressione la tattica di Hoste rimane tuttavia assai estranea alla Royal Navy, sempre poco portata alle teorizzazioni, fino a far scrivere all'ammiraglio Smyth nel suo Dizionario militare de] secolo XIX che la tattica navale «è scienza che nessun ammiraglio inglese ha saputo mai e che insegna il modo di attelare le navi di una squadra. Ne fu inventore Padre Hoste». Probabilmente sulla scorta delle esperienze navali deUa_guerra d'indipendenza americana (che aveva visto l'onnipotente Royal Navy per ]a prima volta in notevole difficoltà di fronte alla guerra di corsa scatenata da1le navi americane e a1la tattica aggressiva dell'ammiraglio francese Suffren), vent'anni dopo, nel 1782, viene pubblicata ad Edimburgo la prima opera su1la tattica navale del pittore scozzese John Clerk of Eldin, anch'egli un «non professionista» come Hoste, il cui pensiero è però antitetico a que1lo di quest'ultimo e rappresenta la sanzione teorica dell'aggressività e capacità d'iniziativa che almeno dai tempi de1la Grande Armada e dei celebri corsari contraddistingueva la condotta della guerra inglese su1 mare. Ciononostante, non sembra che a1l'inizio le idee di Clerk abbiano avuto molto successo ne1l' establishment navale britannico: il suo primo libro del 1782, An inquiry into naval tactis, viene pubblicato a Edimhurgo a sue spese, e solo nel 1790 - cioè a distanza di otto anni - vede la luce la sua opera più completa e famosa (An essay on naval tactis systematical and historical with explanatory plantes in four parts, London T. Cadell, 2 volumi). Quest'opera fondamentale, per inciso, non è mai stata tradotta in italiano: ne esiste invece una traduzione francese quasi immediata (1791) a cura di D. Lescallier, una traduzione spagnola (1801) e una traduzione russa (1803). È sorprendente constatare che il Clerk è anche oggi, non solo in Italia, poco e mal ricordato; la stessa Enciclopedia Britannica non ne fa cenno, così come lo ignorano le Enciclopedie francesi dal 1757 in poi e le due più recenti antologie francesi (la più volte citata Anthologie Mondiale de la Stratégie del Chaliand e il Dictionnaire d'Art et d'Histoire Militaires di Andrè Corvisier - Paris, PUF 1988). Nella Sua Storia del pensiero tattico navale il Fioravanzo cita solo Pantero Pantera e il Padre Hoste, senza nemmeno accennare a ·caratteri e aspetti specifici del loro pensiero. Per il Fioravanzo, fino all'avvento del vapore (noi diciamo anche dopo) l'arte militare marittima è stata influenzata solo da] Hoste:
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H. Coutau-Bégarie, L'évolution ... (Cit.), p. 36.
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dall'anno l614, in cui scrisse Pantero Pantera, all'anno 1697 , quando venne pubblicato il «Trattato delle evoluzioni navali» [No: il «Trattato delle evoluzioni navali» è del 1691 e non è mai stato pubblicato; nel 1697 è stata pubblicata a Lione l' «Art des Armées navales» - N.d.a.] del padre gesuita Paul Hoste, cappellano sulle squadre di Luigi XN, l'arte delle evoluzioni progredì rapidamente ed in modo che i metodi dell'autore francese si trovano press'a poco riprodotti, quantunque sempre più perfezionati, ancora negli ultimi trattati venuti in luce quando la marina da guerra a vela era vicina a sparire per sempre. Dal 1614 al 1697 non fu pubblicata alcuna opera importante sul!' arte di ordinare e muovere le armate navali: apparve qualche libro di segnali come quello del Duca di York nel 1673 [come mette in rilievo il Depeyre, non si tratta solo di un libro di segnali, ma di Istruzioni sulla miglior formazione che devono mantenere le navi di Sua Maestà in combattimento ne1le quali si prescrive di mantenere in tutti i casi la formazione in linea N.d.a.]. Il trattato di Padre Hostc è dunque il più antico che si conosca in materia [affermazione non esatta o assai discutibile N.d.a.]; ed esso compendia i progressi che nell'arte delle evoluzioni a vela avevano fatto le armate fino allo scorcio del secolo XVII. Quest'opera fu il punto di partenza di tutti gli studi, di tutti i perfezionamenti successivi, di quelli cioè del Morogues ( 1763), del Salazar, del d'Orvilliers, del de Nieuil, del d' Amblimont e del Chopart, che scrisse nel 1839, quando le prime navi a vapore solcavano i mari.45
Il Fioravanzo indica la differenza tra evoluzioni e manovre tattiche. Le prime sono «una serie di movimenti e manovre che dir si voglia, compiute dalle unità [navali] rispetto ad una unità scelta come polo regolatore dell'evoluzione». Le seconde sono invece «movimenti eseguiti prendendo per polo regolatore (o di riferimento) il nemico, compiuti collo scopo di meglio impiegare le armi contro di esso».46 Distinzione che non soddisfa completamente: una nave da sola non evoluisce? Anche le evoluzioni di più navi insieme hanno - in operazioni - come riferimento ultimo il nemico: esse comportano dei movimenti per passare dall' una all'altra formazione secondo un ordine prestabilito, e per realizzare così la convergenza degli sforzi verso un unico scopo (quintessenza della manovra), che ancor più che in campo terrestre è scelto in funzione del nemico. Inoltre se si tratta di più navi anche la manovra tattica deve essere 45
G. Fioravanzo, Storia del pensiero tattico navale, Roma, Ufficio Storico Marina Militare 1973, p. 98. 46 Ibidem.
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sempre guidata, pilotata dalla nave ammiraglia o da chi ne fa le veci .... Insomma, a parer nostro le evoluzioni sono il mezzo per realizzare la manovra, il cui fine ultimo è di adottare l'ordinamento migliore per battere il nemico. Le affermazioni del Fioravanzo a proposito dell'opera di Padre Hoste e della differenza tra manovra e evoluzione possono quindi risultare fuorvianti, e ignorando il Clerk non forniscono un quadro attendibile dello stato della tattica navale a fine secolo XVlll. Esse dimostrano tuttavia la necessità di trattare il pensiero navale italiano della prima metà del secolo XIX esanùnando in via preliminare le radici del pensiero navale europeo e in ispecie francese, così come fatto per il pensiero terrestre. Ritornando a Clerk, diversamente da quanto fa il Fioravanzo nel 1882 il Fincati - che deturpa il suo nome in Clarke - coglie assai bene l'importanza e le caratteristiche innovatrici del suo pensiero, riassumendole in quattro massime poi magistralmente applicate da Nelson - che ne studia e ne apprezza l'opera - a Trafalgar: «Prima massima»: se un ammiraglio ha ordinato le sue forze in modo che nessuna parte della sua armata possa venir assaJita senza che il rimanente, o buona porzione d'esso, possa portarle aiuto efficace, egli ha provveduto con ciò non solo al modo di impedire una disfatta, ma ha fatto altresì un primo passo verso la vittoria. «Seconda massima»: se un ammiraglio assale una divisione separata delle navi nemiche con una grande superiorità di forze e in modo che essa non possa venire soccorsa, egli con ciò ha fatto non solo un primo passo verso la vittoria, ma ha provveduto altresì alla ritirata per il caso che questa si rendesse necessaria. «Terza massima»: se un ammiraglio ha ordinato le sue forze in modo che una parte di esse possa venire assalita da un nemico superiore, senza poterla efficacemente soccorrere colle rimanenti o con parte di esse, questo ammiraglio sarà sconfitto. «Quarta massima»: se un ammiraglio assale il nemico in modo da facilitargli un concentramento delle sue forze su una porzione delle proprie, questo ammiraglio sarà inevitabilmente posto in fuga. 47
Questi criteri - che solo tali sono, e non prescrivono alcunché di rigido da osservare ma solo degli scopi da raggiungere - di per sé demoliscono il culto d~lla linea di fila tipico di Padre Hoste e dei suoi seguaci, culto che benché già smentito dall'esperienza storica continuava a ispirare gli ammiragli franco-spagnoli avversari di Nelson. Essi sono un ve-
47
L. Fincati, Op. cit., pp. 40-41.
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ro inno a quel principio della massa, dell'iniziativa e de11a concentrazione delle forze, che in campo terrestre ha già ispirato Federico Il di Prussia e ispirerà l'opera teorica di Jomini nei primi anni del secolo_ E - come mette in rilievo il Depeyre - il Clerk nel 1804, cioè un anno prima di Trafalgar, nella nuova edizione della sua opera indica chiaramente la rottura della linea nemica come la chiave autentica della vittoria: «quando si avrà l'ardimento e la risolutezza di deciderla, se ne troverà la giustificazione nella sua riuscita»_48 D'altro canto, da un punto di vista strettamente teorico anche lo stesso Clerk ha i suoi limiti. Calcando fin troppo la mano, l'ammiraglio Castex (pp. 30-31 delle Theories stratégiques) così lo giudica: il celebre inglese Clerk d ' Eldin ha lasciato una traccia nella evoluzione del pensiero militare grazie al suo notevole Saggio metodico e storico sulla tattica navale. Nella prima parte di questo trattato, scritta nel 1782, egli è stato in qualche modo il teorico simultaneo di Suffren; nella seconda, redatta nel 1797, ne è stato l'accorto studioso. Incontestabilmente, Clerk ha fortemente rinnovato la tattica, in particolar modo nella seconda parte della sua opera, dove si è liberato degli errori iniziali e del culto troppo esclusivo del metodo per elevarsi fino all'intelligenza completa dei princìpi, dei quali ha fornito quattro formule lapidarie. Ma, in fatto di strategia, egli è stato particolarmente avaro di riflessioni e di nuove prospettive [ ... ). Si vede Clerk lodare i francesi per aver tralasciato di distruggere la flotta nemica a Minorca, a Grenada e alla Martinica, allo scopo di perseguire il loro obiettivo geografico del momento. La geografia e le posizioni hanno per lui importanza eccessiva [... ) Clerk in strategia è pressoché inesistente, in quantità e in qualità.
Quest'ultima è una colpa assai relativa: ma rimane il fatto che anche per Clerk la ricerca della distruzione del nemico non è sempre la via migliore da seguire. Per il resto, si tratti di Suffren o di Rodney, la tattica di Nelson non era nuova in sé: era solo un esempio insuperato di appJicazione dei principi più idonei per distruggere le forze avversarie. Nelson aveva ben assimilato e applicato la vera novità delle teorie di Clerk, cioè quella che non vale - come per Padre Hoste - l'osservanza delle regole: importa solo vincere ... La stessa filosofia di Napoleone, che peraltro non tutti gli ammiragli e gli ammiragli inglesi - e non sempre - hanno saputo applicare da allora in poi. Va detto, a tal proposito, che la verità delle teorie di Clerk poi applicate dalla tattica
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M. Depeyre, Art. cit., p. 73.
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di Nelson a Trafalgar non consiste affatto - nella divisione dell'annata navale io due linee parallele, né l'ordine di battaglia da lui applicato equivale a dividere pericolosamente le forze (così, se mai, avrebbe detto padre Hoste oltre un secolo prima). Al contrario, l'articolazione di una squadra o dell'armata navale su due o più colonne parallele è una modalità tattica inevitabile che ne prepara la concentrazione su aliquote inferiori di forze nemiche; una volta rotta in due o più punti la linea nemica, quest'ultime rimangono isolate e senza più possibilità di prestarsi mutuo soccorso. La divisione della squadra in più linee e colonne era da tempo un procedimento ammesso e praticato sia dagli ammiragli inglesi che da quelli inglesi. Come afferma Domenico Bonarnico in una lettera al direttore sulla «Rivista Marittima» dell'ottobre 1905, «il Nel. son applicò, nella battaglia di Trafalgar, con maggiore risoluzione e successo un principio tattico già applicato nella battaglia delle Sai.ntes del 12 aprile 1782, e largamente esplicato dal Clerk d'Eldin». Il Fioravanzo trascura di mettere in evidenza questo aspetto fondamentale, e cita solo le due battaglie del Coromandel e Ceylon (1782), nelle quali l'ammiraglio francese Suffren, investendo con la squadra su due colonne parallele la linea di fi1a dell'ammiraglio inglese Hugues riesce a dividere le forze di quest'ultimo e a infliggergli gravi danni con aliquote delle sue forze che investono forze inferiori inglesi isolate, peraltro senza spingere l'azione a fondo. Anziché rimproverargli la sua condotta prudente e, per così dire «antinelsoniana», il Fioravanzo la giustifica e la presenta come positiva applicazione del discusso principio della fleet in being «non già stando in porto ma battendo il mare», perché a suo giudizio la conservazione delle forze navali francesi in un lontano scacchiere dove non potevano essere sostituite era «una necessità»: spingendo il combattimento a fondo Suffren «avrebbe inflitto senza dubbio perdite all'avversario, ma ne avrebbe anche subìte riducendo le sue forze ad un'aliquota probabilmente non più sufficiente ad assolvere il compito affidatogli».49 Il Fioravanzo avrebbe dovuto ricordare, invece, che nello stesso periodo (aprile 1782) nelle Antille l'ammiraglio inglese Rodney sempre con la squadra su due colonne rompe la linea di fila dell'ammiraglio francese De Grasse, la divide in tre tronconi isolati tra di loro e distrugge completamente le sue forze, precorrendo Nelson.50
49
G. Fioravanzo, Op. cit. , pp. 108 e 115-117. so Grande Enciclopedie Française (fiae secolo XIX), Voi. V., p. 684, voce bataille navale.
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In tal modo a fine secolo XVill viene sostanzialmente realizzato anche in campo navale il principio della massa, chiave delle vittorie terrestri di Federico Il di Prussia e Napoleone, che in estrema sintesi consiste nel manovrare per mettere comunque aliquote di forze superiori contro forze inferiori avversarie che non possono essere tempestivamente rafforzate. Come scrive Philip Masson, con questa tattica la flotta attaccante articolata in due colonne parallele deve non tanto limitarsi a rompere la linea avversaria, ma tendere a sopraffarla, a fare massa sul suo centro e sulla sua retroguardia, neutralizzandoli prima che l'avanguardia, obbligata a virare di bordo, abbia il tempo di intervenire. Questa tattica non si può applicare che quando le colonne attaccanti si trovano «al vento». Nel caso inverso, se la flotta si trova «sottovento», gli ammiragli inglesi e Nelson restano fedeli al principio d' una «linea ben serrata», come sottolinea il famoso memoriale stilato da Nelson alla vigilia di Trafalgar.51
Per la verità, il memoriale di Nelson anche in quest'ultimo caso è assai meno tassativo e rigido di quanto fa apparire il Masson. Esso è dominato dalla necessità di realizzare il principio della massa contro una sola parte della flotta nemica, e di investire il centro senza che l' avanguardia abbia il tempo <li intervenire; ma semplicemente ammette che in tutti i casi - è «quasi impossibile» pretendere di regolare i movimenti di una flotta di 40 vascelli e di mantenerne 1' ordine di battaglia in presenza di vento variabile, di burrasche e altre contingenze che richiedono decisioni istantanee. E il comandante in seconda (che è alla testa dell'altra colonna) «dovrà fare tutto il possibile per mantenere la marcia della sua linea nella formazione più compatta che la natura delle circostanze gli permetterà. I capitani devono considerare la loro linea come punto di riunione, e di riordino. Ma nel caso che i segnali non possano essere visti o ben capiti, nessun capitano avrà sbagliato molto, se porterà la sua nave fian co a fianco di una nave nemica» 52 [nostre sottolineature N.d.a.]. Nessun culto della linea di fila in nessuna occasione vi è dunque in Nelson, e nemmeno vi si trova il culto della rottura della linea di fila nemica: l'importante è adeguarsi rapidamente alle mutevoli circostanze e affrontare con decisione l'avversario, agendo sempre offensivamente. La linea di fila per Nelson non è regola o norma, ma solo utile riferimento di massima.
51
52
Cit. in P. Masson, De la mer et de sa stratégie, Paris Tallandier 1982, p. 21J. G. Chaliand, Op. cit., pp. 781-782.
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Siamo agli antipodi della filosofia adottata specialmente dagli ammiragli francesi del secolo XVIII, della quale si trovano molte tracce della condotta della guerra sul mare da parte francese anche nelle campagne della Rivoluzione e dell'Impero, e persino in quella di Supermarina nel 1940-1943. Una strategia (è questa la parola più adatta) sostanzialmente di conservazione, così come è quella in vigore negli eserciti dinastici dello stesso periodo, peraltro rotta da Federico II e dal suo allievo Napoleone. Osserva giustamente in merito il Masson che in definitiva il formalismo, all'origine d'un clima penoso, non obbedisce per nulla a ragioni tecniche. Esso è dovuto essenzialmente al carattere limitato delle guerre del XVIII secolo dove gli ammiragli, come sottolineerà il capitano di vascello Lasserre, avevano mandato «di agire con la più grande circospezione ... Gli ordini impartiti ai nostri comandanti in mare furono di tenere il mare il più a lungo possibile, senza rischiare delle azioni che potevano comportare la perdita di navi che sarebbe stato in seguito necessario rimpiazzare ... ». Un sistema eretto a principio, che impediva a un ammiraglio l'impiego effettivo delle forze a sua disposizione, che lo mandava incontro al nemico con l'ordine di subire piuttosto che di incominciare l'attacco; un sistema che sacrificava l'energia morale per salvaguardare le risorse materiali non poteva che dare funesti risultati ... Queste deplorevoli modalità d'azione sono state una delle cause della mancanza di disciplina, delle spaventose defezioni, che hanno contraddistinto sia l'epoca di Luigi XVI, che quelle della Rivoluzione e dell'Impero.53
In quest'ottica, la vittoria e la debellatio sono meno importanti deHa conservazione: se dunque, le forze navali francesi anche e soprattutto durante la Rivoluzione e J'Impero sono sconfitte, non si tratta solo di un errato approccio teorico ai problemi della tattica navale. Anche in questo campo, a fine secolo XVIII e ali' inizio del secolo XIX in Francia si compiono progressi notevoli rispetto alle norme rigide del Hoste. Ad esempio nel 1798 (Anno VII della Repubblica) il Bourdé de Villehuet, in un'opera oggi ingiustamente ignorata che, né il Massone né il Depeyre citano e mostrano di conoscere (Manuel des Marins ou Dictionnaire des Termes de Marine par le Citoyen Bourdé, officier des Vaisseaux de la Compagnie des lndes54 ), non parla di tattica né tanto meno di strategia, ma dopo aver sottolineato l'importanza del linguaggio ben definisce - in
53 54
P. Masson, Op. cit., pp. 209. Paris, Barrois. An VII de la République.
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termini pienamente compatibili con le teorie del Clerk - l'ordinamento delle armate navali, il combattimento navale e soprattutto l'importanza di couper l'ennemi, cioè di rompere la sua linea di fila (forse egli ha letto Clerk, del quale compare una traduzione francese già nel 1791).55 Negli scritti del Bourdé la suddivisione dell'armata navale e il ruolo attribuito ai comandanti in sottordine non hanno nulla di rigido. L' annata navale o di mare è composta da un certo numero di vascelli di linea agli ordini di un solo comandante, articolati in squadre di 10-12 vascelli o divisioni. Più in generale, per divisione si intende «la parte distaccata di un'armata navale» sotto il comando di un ufficiale generale o di un anziano capitano di vascello. La prima divisone forma la prima squadra ed è comandata dal generale; la seconda, la seconda squadra al comando del secondo ufficiale generale; la terza è al comando del terzo ufficiale generale. Nelle armate numerose, ciascuna squadra è suddivisa in «sottodivisioni» comandate dagli ufficiali più elevati in grado della squadra. «Sono costituite solo per facilitare l'azione di comando durante il combattimento, perché devono manovrare a seconda di circostanze che non possono essere viste e valutate dal comandante della squadra, a causa della lontananza, del nutrito fuoco e del fumo [... ]. Questo comando non può essere affidato che ad ufficiali di fiducia e ben istruiti nell'arte dei combattimenti, perché essi devono essere in grado non solamente di favorire e sostenere le aliquote di forze dell'armata che possono trovarsi in difficoltà, ma altresl di approfittare degli errori del nemico, per distruggerlo e batterlo con vantaggio, senza che né il generale né il comandante di divisione navale possano venirne a conoscenza». Nel Bourdé, dunque, compare la stessa preoccupazione per la comandabilità dell'armata in combattimento che più tardi - come si è visto - avrebbe avuto anche Nelson. È questa preoccupazione, e la necessità di approfittare di circostanze che i livelli superiori non possono ben valutare, a dettare l'ordinamento interno del1'armata, fino a farla temporaneamente articolare per il combattimento in «subdivisioni». La linea di fila può anche non essere unica, dunque! Il Bourdé si avvicina ancor di più a Clerk e a Nelson, descrivendo il taglio del1a linea di fila, che «significa attraversare il nemico, separando, per esempio, l'avanguardia dal suo corpo di battaglia, in modo che essa non possa essere sostenuta da quest'ultimo, per cui non si ha nulla da ri-
55 Cfr. Clerk (fohn) of Eldin, Essai méthodique et historique sur la tactique navale ... (traduit par D. Lescallier), Paris, Didot 1791. Ne esiste anche una traduzione portoghese (1801); manca una traduzione italiana.
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schiare nell'esecuzione di questa manovra [per Roste invece si rischiava molto - N.d.a.]. Questa evoluzione si esegue con una parte dell'armata o con l'intera armata, a seconda delle circostanze [quindi, l'armata può anche non essere articolata su un'unica fila - N.d.a.]; ma sempre quando il nemico lascia intervalli troppo grandi tra le squadre o tra fazioni della sua annata, che essendo distanti tra di loro, possono essere battute prima dell'arrivo dei soccorsi; in una parola, si tratta di separare le forze del nemico, in modo da poterne distruggere una parte prima delJ 'altra, senza rischiare molto né compromettersi; questa è sempre una manovra che richiede grande ingegno e qualifica e contraddistingue il generale, l'uomo di mare e l'ufficiale addetto alle manovre dei vascelli (Manouvrier). I richiami alla importanza di non rischiare molto, ecc. sono un lascito del passato, e forse tendono a rassicurare chi è osatile; ma per il resto, Bourdé sostanzialmente preconizza sul mare la stessa manovra preferita di Napoleone, e attuata nelle grandi linee anche da Nelson. L'unico libro del Bourdé citato dal Depeyre (Le manouvrier ou essui sur lu théorie et Lu pratique des mouvements de navire et des evolutions navales, comparso nel 176556 e ristampato nel 1804,57 cioè prima di Trafalgar), è assai meno importante e soprattutto tecnico. Nella prefazione il Bourdé cita le opere di Roste, il Bouguer, il Morogues ma osserva che «la manovra dei vascelli non è stata sufficientemente approfondita, ex professo, da un uomo di mestiere» (quale egli si ritiene). Rispetto ai tempi di Padre Roste - afferma Bourdé - la tattica e la manovra si sono molto perfezionate. Anche se il trattato sulla navigazione del Bouguer (1757) comprende la teoria generale de1la manovra, «per capirla, è necessaria molta geometria ed esperienza; da allora, molte evoluzioni non si possono che ben imparare sul mare!» E pur prendendo come base del suo lavoro le opere precedenti assicura di avervi aggiunto «le mie riflessioni, le mie vedute, e molte delle combinazioni che io ho avuto occasione di fare nell'esercizio medesimo e nella pratica della manovra dei vascelli sul mare, e nei porti». Fin qui nulla di nuovo. Si tratta di uno dei numerosi tentativi, neiquali l'autore cerca di semplificare le manovre stesse, e di dar loro un'impronta pratica: né il Bourdé approfondisce questioni di tattica o ne dà almeno una definizione. Nell'Articolo XVII della Parte IV, tuttavia, egli riporta alcune «Riflessioni sul miglior modo di combattere» che sono in controtendenza, perché - anche a prescindere dall'introduzione
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Paris, Guerin et Delatour 1765. Paris, Chez !es Librairies Associés. An XII de la République Française.
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successiva del vapore - con il progressivo aumento della potenza e giettata delle artiglierie l'abbordaggio stava diventando sempre più raro. Forse il Bourdé è indotto a sostenere i vantaggi dell'abbordaggio non in senso generale, ma per i francesi - dalla constatazione della mai completamente affossata inferiorità degli equipaggi delle navi francesi rispetto a quelli inglesi, almeno in fatto di perizia nautica e abilità artiglieresca. Comunque sia, egli nella parte seconda e terza del libro dedica un certo spazio agli «esercizi dell'equipaggio per abbordare», e nella parte quarta afferma che «in tutti i tempi, l'abbordaggio è stata la più vantaggiosa maniera di combattere per i francesi» e che perciò «le nostre armate e le nostre squadre devono adottare questa maniera di combattere, che è decisiva per noi». Questo perché «se si è più forti, l'abbordaggio è il sistema migliore per mettere fine al più presto a uno scontro; risparmia gli uomini e l'alberatura della sua squadra, quel comandante in mare che soffre di meno in una siffatta azione offensiva, che cercando di sfuggire ai colpi di cannone». Anche per questo il Bourdé è il primo autore navale francese a dare importanza alle doti dei comandanti, all'audacia, allo spirito combattivo, ali' élan gallico che appunto si manifesta nell'abbordaggio. Segue le sue tracce Audibert Ramatuelle con il suo Cours elementaire de tactique navale del 1802,58 libro di estrema importanza anche per il pensiero navale italiano e non casualmente citato dal Parrilli nel 1846 (vds. capitolo V), perché nel 1813 lo stesso Ramatuelle dedica all'allora Re di Napoli Gioachino Murat (che chiama addirittura Gioachino Napoleone) una traduzione italiana del suo libro curata da Baldassarre Romano, «Primo Professore di Matematica nel Reale Istituto di Marina». Evidentemente in quel momento il Ramatuelle è passato al servizio del Murat, visto che la traduzione si intitola Corso elementare di tattica navale di Audibert Ramatuelle, ufficiale dell'antica marina di Francia, capitan di vascello all'attuai servizio del re di Napoli, considerabilmente accresciuto dal medesimo, tradotto dal francese per ordine del governo a cura di Baldassarre Romano, Primo professore di matematica nel Reale Istituto di Marina». 59 Il R. è un ufficiale della vecchia Marina Reale Francese che - per sua stessa ammissione, con rammarico - ha lasciato il servizio dopo la Rivoluzione, scrive di cose navali e magari per ragioni economiche, accetta di entrare a far parte della Marina di Napoli. In tutti i casi il suo
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Paris, Baudoin Anneé X de la République française. Napoli, Fonderia Reale e Stamperia Segreteria di Stato 1813.
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maggiore studioso e biografo, il Depeyre, trascura questo particolare che è assai importante dal punto di vista italiano, perché l'opera del Rama-
tuelle rappresenta il primo codice tattico navale del secolo XIX comparso in ltalia.60 Più in generale si tratta della prima regolamentazione tattica navale italiana, visto che la marina di Napoli era - e sarebbe rimasta fino al 1861 - l'unica marina italiana forte e abbastanza curata. R. ha partecipato alla guerra d'indipendenza americana combattendo contro la flotta inglese e ha iniziato la sua opera nel 1789-1790, terminandola prima del1a battaglia di Aboukir (1798). Quando egli scrive, quindi, sul mare le carte tra Francia e Inghilterra sono ancora tutte da giocare. E poiché al di sopra di ogni cosa ama la sua Patria, non gli sfugge la posta in gioco. Nella dedica a Bonaparte dell' edizione 1802 ben riassume il ruolo delle forze navali in ogni tempo: nessuno dei rami della grande amministrazione è a voi ignoto. Il genio vostro ne abbraccia tutte le parti, e le vostre vedute si sono portate sul commercio, sorgente immediata delle ricchezze, della prosperità e della potenza delle Nazioni. Ma il commercio della Francia non può fiorire senza Colonie, le Colonie non possono esistere per la Francia senza la sua protezione; e questa protezione non può essere loro assicurata che con una marina militare. Il momento è arrivalo di restituire la sua utile attività a questo gran mezzo della potenza nazionale.
Subito dopo indica gli obiettivi che si prefigge, non senza una certa presunzione che è comune agli scrittori francesi di tattica navale, da padre Hoste in poi tutti convinti di «essere i primi»: il permesso che voi avete ben voluto accordarmi, per l'organo del Ministro della Marina, di far comparire, sotto i vostri auspicj , la prima Opera elementare la quale esiste sulla tattica navale, dimostra a sufficienza il desiderio grande che avete di veder propagato un genere d'istruzione, che si era per troppo tempo ristretto al solo studio delle matematiche.
Non è vero, perché - a parte il Clerk, mai citato dal R. - anche in Francia persino padre Hoste intendeva semplificare le manovre riducendo al minimo ruso delle matematiche e si rendeva conto che, dopo tutto, manovre ed evoluzioni servivano per assumere la miglior posizione per
60 M . Depeyre, Audibert Ramatuelle o degli insegnamenti perduti (in L 'évolution ... - Cit., pp. 79-88).
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vincere. E anche Bourdè aveva ben dimostrato che, nella guerra navale, accanto ali' esattezza delle manovre bisognava considerare altri fattori ... Comunque sia, nella successiva dedica (1813) a Re Gioacchino il R. precisa chiaramente la caratteristica e insieme il merito maggiore della sua opera, che una volta tanto considera in primo piano i fattori morali: la Maestà Vostra sa benissimo che, per creare una Marina Militare, non basta costruire dei vasceJli; Ella è penetrata dalla grande verità che, sopra il mare specialmente, le forze materiali sono un niente, se non sono esse sostenute dalle forze morali, e principalmente oalle forze morali, che dà l'istruzione [ ... ] Ben presto, o Sire, le forze marittime del regno di Napoli concorreranno a far traboccare la bilancia in favore degli alleati di Vostra Maestà[ ...] gli Ufficiali della Marina Vostra hanno egualmente bisogno di possedere le più grandi cognizioni nella tattica navale.
Accanto alla necessità di creare le premesse per ben istruire gli ufficiali della Marina di Napoli, il R. riconosce l'impulso dato dal Murat probabilmente, grazie anche alla sua collaborazione - alle costruzioni navali: non vi era nel Regno che un sol Cantiere in cui non poteasi costruire che un vascello alla volta. Questo Cantiere era molto esposto agli attacchi del nemico, esso avea il grande inconveniente di non permettere che tre mesi all' anno di varare i vascelli; bisognava vararli su delle cale flottanti; opera lunga a fare, dispendiosa, suscettibile di essere distrutta nel più piccolo cattivo tempo e che non lasciava senza inquietudine sulla sorte de' bastimenti. Il Re Ferdinando, il quale avea tutto sacrificato per formare una marina militare, non era pervenuto a procurarsi altri mezzi di construire de' grossi vascelli; Vostra Maestà ne ha superate tutte le difficoltà. Un nuovo stabilimento formasi a Castellamare; i bastimenti sul Cantiere saranno meno esposti agli attacchi del nemico; vi si potranno construire, al tempo stesso, tre vascelli di primo rango; si avrà il gran vantaggio di poterli varare in tutte le stagioni e su delle cale come sono quelle de' primi Cantieri d'Europa.
Il R. non è dunque solamente un teorico: come Bourdé - e diversamente da Hoste e da Clerk - è un esperto ufficiale di Marina che scrive di cose navali e che dimostra vaste conoscenze in ogni branca marittima. E come Bourdé, egli dà particolare importanza agli ammaestramenti degli scontri tra marina francese e inglese in occasione della guerra d'indipendenza americana 1775-1782, e in particolare alle gesta dell'ammira-
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glio francese Suffren, certamente non tali da suffragare il rigido mantenimento della linea di fila e la prudente condotta delle operazioni navali tipiche della scuola francese de] periodo. Tra le caratteristiche essenziali del1' opera: a) l'importanza senza precedenti data, anche nella guerra marittima, ai fattori morali, alle doti che il Capo deve possedere e all'autonomia dei comandanti in sottordine; b) la presa di coscienza dei molteplici fattori - estremamente variabili - che influenzano le posizioni reciproche delle flotte antagoniste e quindi ne devono ispirare le manovre, nell'intesa che quest'ultime - al di là di ogni schematismo - devono tenere conto soprattutto dei movimenti del nemico; c) il conseguente concetto di tattica navale, nel quale è parte essenziale il coup d'oeil dell'ammiraglio; d) l'applicazione anche alla guerra navale di parecchi stilemi fino a quel momento tipici della guerra terrestre. Egli chiama l'arte della guerra sul mare arte navale (sottinteso della guerra); è dunque i] primo a non dare troppo rilievo alla parte tecnica e scientifica, e a non parlare di arte nautica, ecc .. R. distingue traforze assolute (cioè le forze materiali, poco soggette a variazioni, che influenzano il combattimento e costituiscono i dati di base - calcolabili a priori - per qualsivog1ia decisione del comandante, come il numero e la forza degli equipaggi dei vascelli, il calibro dei pezzi ecc.) e forze relative. Quest'ultime, alla maniera clausewitziana, sono tutti i fattori non esattamente quantificabili e calcolabili a priori, e in particolare tutti gli elementi che possono influire sulla situazione, come le forze fisiche e morali [...] i moti dell'anima che producono l'audacia, la temerarietà, il coraggio [...] e soprattutto, l'intelligenza, la perspicacia, il colpo d'occhio, in una parola, il talento dei capi.61
Il Depeyre si chiede se R. può essere compreso tra coloro che propugnano una tattica più offensiva, magari sull'esempio dell'ardita azione di Nelson - contraria a tutte le regole allora vigenti anche nella flotta inglese - nella battaglia di Capo San Vincenzo de] 1797. Interrogativo inutile: perché R. - come del resto Clausewitz - non fa un dogma né del combattimento offensivo, né di quello difensivo, ma continuamente insiste sulla necessità che a prescindere da ogni schema o regola il comandante adotti decisioni tali da consentire alle sue navi di mantenere in ogni momento la posizione migliore e di trovarsi in vantaggio sul nemico. Noi osserviamo in proposito che per ottenere la distruzione dell'avversa-
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ivi, p. 85.
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rio non c'è alcun bisogno di volerla esplicitamente e di scriverla sui libri, perché è pacifico che ogni comandante la desideri; si tratta soprattutto di creare le concrete premesse teoriche e pratiche perché essa risulti il più possibile economica e il meno possibile rischiosa. L'arte della guerra - osserva R. con ciò sancendo l'esistenza di un'arte marittima - «si riduce a un principio solo: mettere dal canto suo la legge del più forte. Tocca al genio a crear le risorse, le quali possono modificarlo nei mezzi di attacco e di difesa». Quest'arte è stata portata «ad un gran grado di perfezione per la guerra di terra», ma in campo marittimo c'è ancora molta strada da percorrere. In nessun campo, come sul mare, bisogna conoscere e applicare i principi per tradurre in pratica la legge del più forte. Infatti le forze assolute non sono niente, se non si è in istato di opporsi con abilità a colui che sa creare e impiegare le forze relative. Il vascello, che ne attacca un altro, è sicuro di trionfarne, se questo non sa o non può combattere. L ' arte consiste dunque nel metterlo nell'impossibilità, se non di difendersi, almeno di impiegare tutt' i mezzi di attacco e di difesa che ha esso a sua disposizione. Ciò che io dico di un vascello vale anche per una parte di un'armata, o un'armata intera. Qualunque sia la superiorità delle sue forze, essa potrà essere battuta, se viene privata dalla facoltà di metterle! in campo coll'insieme, senza il quale non vi è affatto superiorità. Ciò dipende dalle posizioni. L'arte consiste nel prenderle, conservarle, riprenderle, allorché le fa perdere un accidente. Quest'arte è, in ultima analisi, l'oggetto della tattica navale. 62
Discende da questo appoggio empirico la sua idiosincrasia per tutte que11e regole e prescrizioni troppo rigide, le quali possono «impastoiare la marcia del genio in un'arte dove è invece necessario dargli slancio». Più che la teoria astratta, per lui vale l'esperienza; e dall'esperienza devono essere ricavati i princìpi generali che poi sta al comandante applicare di volta in volta nella realtà del combattimento. La ricerca di questi principi - egli sottolinea - «è stato il principale oggetto delle meditazioni e delle osservazioni le quali hanno dato luogo a quest'opera», perché essi non sono indicati in nessuna delle opere precedenti. L'importanza di questi princìpi è data dal fatto che il numero infinito delle cause che determinano la posizione di un'armata, di una squadra o di una singola nave, fa sì che molto raramente, o forse mai, un'armata
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A. Ramatuelle, Corso elementare ... (C.it.), p. TX.
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potrà effettivamente trovarsi nelle posizioni che aveva previsto. Di conseguenza tutte le supposizioni sui movimenti di un'armata o dei bastimenti isolati non debbono essere riguardate che sotto i loro rapporti con certi principi generali, fecondi in conseguenza, l'analogia dei quali, con tutte le posizioni eventuali, deve esercitare i genio, e fissare le idee degli ufficiali, affinché essi si assuefacciano di buon'ora alla ricerca e alla combinazione di tutt' i movimenti coi quali bisogna assolutamente ch'essi si farnigliarizzino. 63
Le teorie, le nonne tecniche servono solo quale riferimento da adattare al caso concreto e quale allenamento delle menti ed affrontare gli imprevisti. Perciò essendo io convinto che i veri principi delle arti non possono essere che il risultato d'una lunga serie di osservazioni raccolte con attenzione, intelligenza, e buona fede, io ho cercato nel gran libro degli avvenimenti tutto ciò che mi è parso adatto a riempire il vuoto rimproverato alle nostre tattiche.64
Il riferimento ultimo dell'opera del R. sono i combattimenti «che danno un termine alle grandi querele delle Nazioni e che sono l'oggetto di tutte le tattiche».65 Peraltro l'antico amore di Padre Hoste per le rigide norme in lui non è morto, visto che anch'egli vuole indicare «delle regole di condotta per i combattimenti particolari, ed in seguito per que1li in armata, secondo che le forze sono eguali, superiori o inferiori, secondo che si stia sopra vento o sotto vento». Né egli rinuncia a sostenere la necessità di predisporre dei piani, così come si fa in campo terrestre. Infatti è il primo degli scrittori navali a riconoscere che mi sembra che vi è una grande analogia tra i princìpi, i quali devono dirigere le armate di terra e le armate di mare. L'incostanza, i capricci degli elementi, i rischi del combattimento offrono senza dubbio a queste ultime una maggiore difficoltà per vincere; ma questi colpi di sorte sono eguali per tutti. Essi rendono forse più necessaria questa ampiezza di poter nei mezzi di esecuzione, il qual potere, nelle mani di un abile ufficiale, è il solo che può procurare risultati decisivi.66 63
ivi, p. XI. ivi, p. XXV. 65 ivi, p. XIX. 66 ivi, p. XX. 64
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L'ampia autonomia che in campo terrestre può essere concessa ai comandanti in sottordine - prosegue R. - è dovuta alla possibilità che in questo caso ha il generale di far conoscere loro in precedenza i suoi piani e di concertare insieme a loro le modalità esecutive, cosa che non avviene in campo marittimo, perché il comandante in mare «non ha giammai che il momento per determinare i suoi piani d'attacco e di difesa», cioè è costretto a definirli solo all' ultimo momento. Per ovviare a tale inconveniente, io credo che egli deve dare alla sua armata un certo numero di piani ai quali unirà le istruzioni necessarie per mettere i capi particolari e i capitani in grado di agire secondo le occorrenze. L'abilità consisterà allora a prendere una posizione che facilita all' armata 1' esecuzione di uno di essi piani. lo ho creduto dover proporne alcuni, sia per l'annata sopra vento, sia per l'armata sotto vento, al solo scopo, d'indicare i princìpi secondo i quali se ne potranno formar degli altri.67
Anche in campo navale, dunque, è possibile avere dei piani; l'unica differenza rispetto alla guerra terrestre è che essi sono più di uno, e al momento dell'azione occorre scegliere quello che è più adatto. Pretesa invero eccessiva: e se - come giustamente osserva il Bourdé - i segnali non si vedono? La realtà sarà sempre diversa dai piani di R., anche se ciò non significa che essi siano inutili e dannosi. Se ne può solo contestare la troppo elevata importanza che egli sembra attribuire loro, anche perché nella traduzione italiana della sua opera egli non si discosta molto dalla tendenza tipica di Hoste e di altri scrittori francesi a descrivere manovre e evoluzioni nei minimi dettagli, a fornire schemi. I piani del R. possono servire solo a creare degli automatismi con un severo allenamento, così come - ci si perdoni il paragone - fanno gli allenatori di una squadra sportiva, che allo scopo di facilitare il lavoro d' insieme e creare degli utili automatismi predispongono dei piani o meglio degli schemi: ma che quelli predisposti siano da scegliere, o da respingere in toto, è un'altra cosa ... tanto più che quelli che più a torto che a ragione chiama «princìpi generali» non vanno affatto intesi nel senso che loro attribuiscono gli scrittori terrestri coevi e in particolare Jomini, cioè come norme generali che rappresentano il fondamento di una dottrina, di una scienza e della loro concreta applicazione, ma piuttosto come regole, come schemi geometrici, come norme tecniche da osservare nei
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ivi, p. XXI.
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vari tipi di evoluzione. Eppure egli afferma che ogni ufficiale deve essere sufficientemente istruito ed esercitato per supplire all'inevitabile insufficienza delle regole generaJi da lui indicate, e che comunque si vedrà, nel capitolo delle cacce e dei combattimenti in annata, quanto io sono lontano dal restringere la tattica alle formazioni metodiche nelle quali non si può agire che in massa e in vista dei segoali .68
Ciò è vero solo in parte, anche se tiene a far notare, nella introduzione, di «aver ridotto a otto gli ordini primitivi della tattica», e che il suo scopo è stato quello di Hoste e di tanti altri, cioè di diminuire il numero delle manovre e di renderle meno complicate. A tal fine io ho ridotto a un sol principio l'esecuzione di tutte le evoluzioni. lo ne ho soppresso un gran numero, le quali non possono giammai essere utili in presenza del nemico. Esse non servivano che a stancare o ad imbrigliar la manovra, a tener l'uffiziale in uno stato di coazione il quale si oppone allo sviluppo dei talenti, ed a metter degli ostacoli ai progressi del genio in un'arte in cui egli è purtroppo necessario di dargli libero il varco per le scoperte.69
Nella traduzione italiana, inoltre, egli afferma di aver soppresso tutto ciò che nella prima edizione francese riguardava i segnali. Questo perché essendo membro di una Commissione incaricata di compilare una nuova istruzione sui segnali per la Marina di Sua Maestà [di Napoli - N.d.a.] e di unirla alla parte che riguarda la tattica, io ho dovuto fondere nel travaglio della Commissione le mie idee antiche e nuove su tutto ciò che è relativo ai segnali. Questo travaglio forma un altro libro il quale necessariamente diviene inseparabile dalla tattica [libro che non ci risulta esser mai venuto alla luce - N.d.a.]. 70
Insomma: nonostante le sue buone intenzioni, nonostante le riflessioni interessanti e nuove sulla natura della guerra sul mare e sull'importanza dei fattori morali e delle doti del Capo, troppo spesso l'importanza che il R, dà alla posizione reciproca dei vascelli lo porta a non separare
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ivi, p. XIX. ivi, pp. XV - XVI. 70 ivi, p. VII.
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nettamente 1a tattica non solo dai segnali, ma anche dal1e istruzioni e prescrizioni tecniche sulle evoluzioni. Infatti all'inizio del libro afferma che Ja tattica navale, propriamente detta, è l'arte della formazione degli ordini, del passaggio dagli uni agli altri, e delle posizioni in presenza del nemico, sia per dar caccia, sia per prendere caccia, sia per attaccare, sia per difendersi. I segnali fanno anche essi parte della tattica. Il tattico è dunque quello che non solamente conosce tutti i movimenti possibili di un' armata per formare gli ordini e passare dagli uni agli altri, ma anche colui che è dotato di quella perspicacia e di quel colpo d' occhio giusto che debbono determinare la scelta delle manovre più vantaggiose nella posizione in cui egli si trova. Una manovra vantaggiosa in un dato momento può non esserlo più un minuto dopo. Quindi scegliere con sagacia la manovra più vantaggiosa, e capire il momento più favorevole per eseguirla, ecco ciò che caratterizza il tattico. Quello che non sa che ben eseguire le manovre, non può essere chiamato che un buon manovriero.1 1
Si deve constatare che, sia pure senza volerlo, egli rimane più manovriero che tattico. A parte le sue personali esperienze, su questo approccio tradizionale pesa anche la sua mentalità matematica, così come avviene per Padre Hoste. Oltre che del citato trattato di tattica navale, egli risulta infatti autore di un Baréme général ou les comptes faites de tout ce qui concerne les nouveaux poids, mesures et monnaies de France par Boieleau et Audibert Ramatuelle (1803). E nella definizione prima citata, pur rimarcando la differenza tra tattico e manovriero non si tiene conto a sufficienza di ciò che scrive ad esempio il Colletta alla voce tattica del Grassi (vds. capitolo V): «le evoluzioni militari sono i mezzi di quest'arte, non l'arte stessa, e molti capitani prontissimi in quelle, si mostrano da meno in questa». I segnali nella definizione di R. non sono una modalità puramente tecnica, ma fanno ancora parte del1a tattica; quest'ultima rimane di fatto l'arte delle evoluzioni, e non si parla mai del loro scopo. Si parla continuamente di ricerca di posizioni vantaggiose (ma come potrebbe essere altrimenti?), ma non se ne focaUzza bene lo scopo. Non vi è dubbio che, in senso generale, la tattica è l'arte di ben condurre le operazioni di fronte al nemico per ottenere la vittoria: il tattico deve dunque compiere delle valutazioni per pervenire a un disegno o-
71 ivi,
p. 2.
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perativo complessivo e scegliere i] modo e il momento migliore per attuarlo, e non solo saper scegliere la manovra migliore. La manovra è sempre fine: non mezzo. La tattica è basata su11e manovre ed evoluzioni, ma non consiste solo in queste u]time. Si può assolvere il R. per due ragioni. La prima è che, anche negli anni 20, si trovano in Italia dizionari che, come il Vocabolario Nomenclatore Illustrato di Palmiro Premoli (1920), trascurano che la tattica prima ancor che scelta delle evoluzioni e manovre da compiere è valutazione e in generale arte de] miglior impiego degli uomini e dei mezzi, e invece la definiscono (anche in campo terrestre) come «arte, scienza dei movimenti (manovre) che si fanno eseguire[ ...] sul campo di battaglia». La seconda è che lo stesso R. si riscatta in altra parte del testo con una definizione che è in molte parti antitetica alla precedente ed è senz'altro accettabile, anche se denota che colui che la formula non ha idee del tutto chiare a proposito della differenza tra tattica, evoluzioni e manovre. Una volta tanto in coerenza con le precedenti affermazioni sull'arte della guerra, R. afferma che la tattica non è dunque che l'arte di mettere dalla propria parte e usare a proprio vantaggio la legge del più forte, attraverso la conoscenza, la combinazione e l'impiego delle forze relative. Ciò premesso[ ...] si devono riferire tutti i concetti d'azione, tutte le disposizioni, tutte le manovre a un principio universale, che è comune a tutte le tattiche morali, politiche e militari: [...] annullare la maggior quantità possibile di forze assolute e relative del nemico.72 Definizione accettabile, abbiamo detto; perché è tutto sommato migliore di quella recentissima del francese Robert Griiss, che nel suo Petit Dicionnaire de Marine (1952)73 risente ancora del tradizionale formalismo francese, trascura voci come battaglia e guerra marittima che l'Enciclopedia Francese del 1757 invece considerava, e così definisce la tattica navale: «a contatto con il nemico, arte di disporre i bastimenti da guerra riuniti in armate, squadre; di farli evoluire per arrivare in posizione di combattimento. Il successo delle operazioni tattiche dipende strettamente dal buon funzionamento dei servizi Trasmissioni e Timonerie (segnali)». A Napoleone, come si è visto, mancano soprattutto ammiragli ardimentosi. Significativamente il modello di R. è l'ammiraglio Suffren il
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Cit. in M. Depeyre, Art. cit., p. 85 . Cfr. R. Grtiss, Op. cit..
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quale, a suo giudizio, «riuniva tutte le qua1ità che contraddistinguono l'uomo superiore: ardimento, dinamismo, colpo d'occhio sicuro, sana capacità di discernimento ... ». Ma il suo modello è il combattimento non risolutivo di Goudelour (20 giugno 1783) nel quale Suffren pur disponendo di forze anche qualitativamente inferiori affronta ugualmente gli inglesi in linea di fila e concepisce - peraltro senza realizzarlo - il progetto di lanciare otto dei suoi vascelli contro i cinque in retroguardia nella linea di fila inglese. Egli ne deduce che «Suffren non era affatto estraneo alle esecuzioni metodiche, e sapeva supplire all'inferiorità di forze con le risorse dell'arte e la superiorità delle manovre». Sul piano generale, tuttavia (ed è questo l'unico, vero principio da lui enunciato) R. è dell'idea che «qualsiasi piano d'attacco è buono quando consente di neutralizzare una parte dell'armata nemica, oppure di prendere una parte più debole [dell'armata nemica] sotto il fuoco di una parte più forte [della nostra armata]». 74 Un siffatto principio dovrebbe portarlo a attenuare l'importanza della linea di fila, o almeno la sua rigidità: invece essa rappresenta pur sempre, a suo giudizio «la disposizione più vantaggiosa per una armata decisa a combattere: è la formazione che consente di spiegare meglio le proprie forze, e che permette di impiegarle il più simultaneamente possibile». E più avanti il R. aderisce alla solita idea che più una linea sarà serrata più sarà forte, rimanendo convinto che è manovrando con questo ardimento misurato che si può sperare in un pieno successo. effetti, sia quando ci si rinserra nelle formazioni metodiche, sia quando ci si accontenta di combattere massa contro massa (vale a dire di prolungare una linea, con ciascun vascello che segue da vicino quello davanti) si affida all'alea di qualche colpo di cannone l'esito del combattimento.75
In
Come vanno interpretate queste affermazioni? Secondo i] Depeyre R. vuol dimostrare a coloro che accusavano Suffren di non saper condurre quei combattimenti d'insieme, che quest'ultimo era invece in grado di effettuare evoluzioni classiche o metodiche, senza per questo rinunciare ad ardite manovre per supplire all'inferiorità di forze. Sempre secondo il Depeyre, sotto l'influenza di Suffren e forse di Clerk (anch'egli ammiratore di Suffren), «la sua concezione offensiva della tattica non lo riduce allo stretto formalismo del XVill secolo», ed egli ha fatto compiere dei
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15
Cit. M. Depeyre, Art. cit. Ibidem.
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grandi progressi al pensiero tattico, orientandolo verso l'offensiva in vista del conseguimento di risultati decisivi. E Depeyre si spinge fino a dire che egli ha saputo rintracciare in mezzo al rumore delle battaglie i gioielli della tattica: i combattimenti di Suffren o quelli di Nelson. Nel medesimo tempo, egli ha saputo distaccarsi dalle concezioni tradizionali del xvm secolo, ed è riuscito a indicare un fine per le evoluzioni e le manovre, invece di fare altre aggiunte a un semplice catalogo di dimostrazioni spesso poco utili.76 Vero, sì, ma fino a un certo punto. Noi non giungeremmo a tanto: R. non lascia affatto dietro le sue spalle la pesante eredità degli schematismi del XVIII secolo, né - all'atto pratico - da essi sa nettamente distaccarsi. Compie dei passi avanti significativi, ma lenti e spesso contraddittori, proprio perché non abbandona un pesante fardello, una mentalità che lo condiziona. Si sente nelle sue pagine il nuovo che avanza, ma in quanto dice non si riesce a vedere, né Trafalgar né tanto meno Capo S. Vincenzo ( 1797); battaglia, quest'ultima, vinta da Jervis proprio grazie allo spregiudicato abbandono della linea di fila da parte di Nelson e CoJlingwood, configurabile anche nella Royal Navy come disobbedienza di fronte a] nemico_ Altro che «ardimento misurato!». Se il tenta tivo di San Vincenzo non fosse riuscito, anche la Royal Navy già da tempo famosa per il suo spirito offensivo avrebbe tradotto Nelson davanti alla Corte marziale. L'esaltazione dei vantaggi della linea di fila non è molto compatibile con le con le giuste considerazioni di R. sui molteplici e variabili fattori che influenzano il combattimento navale, e sull'impossibilità di mantenere bene le formazioni che si vorrebbero assumere. E come si concilia l'affermazione che qualsiasi piano d'attacco è buono quando comporta l'impiego di aliquote di forza più forti contro quelle più deboli del nemico (cioè, la vera applicazione del principio de11a massa) con l'indicazione generica che la linea di fila è la formazione più vantaggiosa, senza ammettere alcuna eccezione? Dimostrano gli aspetti contraddittori del pensiero di R. anche le sue contrastanti definizioni di tattica, e i contrastanti giudizi da lui dati a proposito degli scrittori che l'hanno proceduto. Come di consueto egli è molto critico nei riguardi degli autori precedenti, accusati di non curarsi di «stabilire e sviluppare i princìpi, secondo i quali deve un comandante condursi in presenza del nemico».
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ivi, p. 88.
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Prima di lui la tattica navale «non esisteva quasi tra noi che nella tradizione», e si avevano solo dei trattati imperfetti sui segnali, a dar qualche metodo di formare gli ordini, e di passare dagli uni agli altri. Non vi si è indicato né l'oggetto, né i vantaggi, né gli inconvenienti di ciascheduno di siffatti ordini. Non vi si sono fatte conoscere le circostanze nelle quali l'uno deve essere preferito a tutti gli altri.77
Al tempo stesso R. ammette che le definizioni delle sue norme tattiche «sono quasi le medesime di quelle che sono state date dai nostri autori» e che - in contraddizione almeno parziale con quanto detto prima «i princìpi generali sulla navigazione e sui movimenti di un'armata in linea sono fondati su quelli dati dai nostri autori». In sostanza la base delle teorie è sempre quella fornita dagli autori precedenti, quindi R. al di là delle sue intenzioni non rivoluziona nulla ma modifica, aggiorna, semplifica, il che è diverso. E, riguardo alla battaglia decisiva, egli addirittura giustifica il tradizionale atteggiamento prudente e alieno dal rischio e dallo spingere a fondo la guerra di gran parte degli ammiragli francesi atteggiamento quindi perdente - con un inno in anteprima al principio della «fleet in being» e alla «strategia di conservazione della flotta»: la marina francese ha sempre preferito la gloria di assicurare o di conservare una conquista a quella, forse più brillante, ma all'atto pratico meno positiva, di prendere qualche vascello; e in questo essa si è avvicinata maggiormente allo scopo che deve avere una guerra.78
Le sconfitte di Villeneuve che cancellano per sempre la Francia dalla lotta per il dominio dei mari hanno dunque radici antiche. Depeyre definisce questa frase «infelice», non concordando con la severa censura dell'ammiraglio Castex. Noi, con Castex, la riteniamo invece espressione di un concetto pienamente compatibile con tutto il contesto dell'opera del R., e indice ultimo della sua incapacità di intravedere l'importanza e l'attualità della ricerca, anche sul mare, della debellatio dell'avversario, aspetto non accessorio ma centrale della tradizionale strategia e tattica inglese, così come lo è dell'arte militare napoleonica. Altri elementi potrebbero essere raccolti da un puntuale confronto
77 78
A. Ramatuelle, Corso Elementare ... (Cit.), p. X. M. Depeyre,Art. cit., p. 88.
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tra la traduzione italiana del 1813 e la prima edizione francese del 1802: tra le due date, infatti, c'è niente meno che Trafalgar_ Non abbiamo trovato traccia, nella traduzione italiana, di questa battaglia. Ciò dimostra che ha ragione Castex quando afferma che R. è in ritardo, perché non coglie la novità delle gesta di Napoleone e Nelson; quindi ha torto Depeyre secondo il quale il suo Cours elementaire si colloca non alla fine di una rivoluzione strategica, ma nel bel mezzo. Ciò può valere per l' edizione 1802; ma non per quella italiana del 1813. Senza contare che più di rivoluzione strategica, sarebbe meglio parlare di riscoperta. La strategia e la tattica navali già esistevano da secoli, anche se non erano scritte sui trattati e denominate tali; e la storia navale, anche prima di Lepanto, contava già battaglie decisive, fino a far pensare a Trafalgar - o se si preferisce a Austerliz, Jena, Waterloo - non come ali' inizio di una rivoluzione strategica ma come al suo culrnine.79 Dopo Trafalgar, infatti, le «armi insidiose» avrebbero sempre più condizionato i movimenti delle flotte di grandi navi ... Il fatto che uno scrittore navale come R. non dia alcun peso a una battaglia dove le flotte francese e spagnola cessano di esistere grazie a una tattica navale inglese ispirata da molte delle idee da lui sostenute nel 1802, dimostra che ha ragione il Lumbroso scrivendo che le conseguenze di quel disa,;tro furono terribili, e non solo terribili per la Francia ma per tutto il Continente, che un anno dopo subì già la prima di esse, e fu il Blocco Continentale. L'Europa non se ne accorse subito. Oserei dire che non se ne accorse neppure la Francia. Tale era il miracolo del suo Imperatore che aveva vinti due Imperatori e un Re in una sola campagna, e tale era il poco conto in cui il paese teneva la sua Flotta, che a nessun parve che fosse accaduto un fatto che orientasse in modo del tutto nuovo i destini del Continente e della Gran Bretagna. Nulla era mutato in apparenza. Dopo Trafalgar come prima di Trafalgar le coste francesi erano bloccate; dopo Trafalgar come prima di Trafalgar la Grande Armata francese dominava l'Europa.80
Non si può pretendere da R. intuizioni nel campo della grande strategia; ma nel campo della tattica navale si può pretendere di più, almeno nel 1813. Invece l'introduzione alla traduzione italiana contiene altri segni della persistenza nel suo pensiero dell'antico formalismo francese. 79
F. Botti, Da Trafalgar al Golfo Persico, «Rivista Marittima», n. 12/1991, pp. 27-
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A. Lumbroso, Op. cit., p. 62.
42.
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Ad esempio, il R. vi magnifica l'invenzione di uno strumento del quale il governo napoletano ha già ordinato la costruzione, il «compasso d'evoluzione», il quale è «uno dei cambiamenti più rimarchevoli fatto alla tattica», perché «rappresenta graficamente la figura formata da ciascheduna evoluzione»; serve a risolvere tutti i triangoli rettilinei, a «levare dei piani», a conoscere il tempo necessario per ciascuna evoluzione e la posizione formale in relazione al nemico, ecc. Insomma: altra acqua al mulino della tattica intesa come scienza matematica - delle evoluzioni. Sull'altro piatto della bilancia, egli richiama l'attenzione sull'importanza dell' «attacco dei vascelli imbozzati» (Aboukir?) e sull' importanza degli sbarchi e della scorta dei convogli, perché l' «oggetto principale della marina da guerra è quello di proteggere il commercio». Molto interessanti le sue idee sulla formazione degli ufficiali di marina, che completano quelle già prima citate sulle analogie tra operazioni terrestri e marittime. L'ufficiale di marina può trovarsi nella necessità di effettuare degli sbarchi anche senza il concorso delle forze terrestri, quindi non deve totalmente ignorare le operazioni che sono relative alla guerra di terra. Senza dubbio non si può, a questo riguardo, contare su dei successi solo perché si suppone che il nemico non opponga forti esistenze, ma l'Ufficiale di Marina deve essere in grado di valutare tali resistenze. Molti sbarchi, nei quali mi sono trovato, me ne han fatto sentire la necessità, e mi han messo in stato di azzardare a tale riguardo alcuni princìpi.8 1
Più in generale egli richiama la necessità dell'istruzione teorica degli ufficiali. Fino a quel momento, l'istruzione degli ufficiali è avvenuta anche in Inghilterra per tradizione o per imitazione, e in modo «troppo concentrato». Imparava l'arte solo chi aveva la fortuna di trovars i nell'entourage di un comandante ben istruito, esperto e di talento. Di conseguenza «questo mezzo mancava spesso a quell'ufficiale che sarebbe stato il più capace d'acquistarlo, se il caso l'avesse messo a fianco degli uomini abili e istruiti». Per inciso tra questi ultimi accanto al Suffren il R. indica il de Guichen e soprattutto il d'Orvilliers, «che ha fatto prova di talenti superiori in tutte le circostanze, e ha tolto dal caos la tattica navale». R. ricorda che agli ufficiali di marina è necessaria un' istruzione teorica matematica, così come avviene per gli ufficiali d'artiglieria e del genio. Questi ultimi sono inviati ai corpi solo dopo aver superato «rigorosi
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A. Ramatuelle, Corso elementare ... (Cil), p. XXII.
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esami sulle cognizioni relative alla loro arte». Un sistema che ha dato ottimi risultati: «perché non si farebbe per la marina ciò che si è fatto con tanto successo per il genio e l'artiglieria?». 82 Ciò non significa, però, che la teoria sia tutto, e una volta tanto su questo argomento R. è coerente con le sue giuste vedute sulla natura della guerra e della guerra marittima, fino a esprimere concetti sempre e ovunque validi: io sono ben lontano dal pensare che lo studio della teoria dell'arte navale basti per formare anche un buon capitano. Indipendentemente dallo studio pratico, vi sono anche delle qualità fisiche e morali che la natura dà, che l'educazione e l'istruzione perfezionano e sviluppano, e senza le quali un uomo non può giammai divenire atto a fare delle grandi cose, ma tutte queste qualità saranno pure insufficienti, se esse non coincidono colle cognizioni positive dell'arte, e se, ad armi eguali, si ha da lottare contro un nemico instruito.
Precursore o timido innovatore che risente più del dovuto del formalismo tipico anche delJa scuola francese terrestre? Il Depeyre propende per la prima interpretazione, il Castex per la seconda. Mai come in questo caso a noi sembra che la verità stia nel mezzo: R. è un pensatore come pochi ambivalente, con due diverse facce. Giuste intuizioni come quest'ultima citata inducono però ad essere indulgenti: R. è anzitutto un ufficiale di marina francese, al quale - per sua stessa ammissione - «le circostanze della Rivoluzione e del periodo napoleonico non hanno permesso di ritrovare in mare e tra i combattimenti i mezzi di completare [la sua opera] con le aggiunte e le correzioni che la esperienza e la meditazione mi avrebbero dettate». 83 Come tutti i contemporanei, egli non può cogliere appieno il senso storico degli avvenimenti militari che si svolgono sotto i suoi occhi; così su di lui finisce col pesare più il vecchio, che quel nuovo pur confusamente intravisto. Forse l'esperienza diretta lo avrebbe aiutato a cogliere meglio, grazie all'occhio esperto del marinaio abbinato all'acume teorico, la nuova essenza della guerra sul mare. Chissà che cosa avrebbe scritto, se si fosse trovato a Trafalgar e se fosse riuscito a sopravvivere ... Ma, anche senza essere stato a Trafalgar, egli molto prima riesce a intuire - e non è poco - l'importanza reale dei fattori che portano gli inglesi alla vittoria nelle battaglie e nella guerra
82 83
ivi, p. XXX. ivi, p. XXXI.
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marittima in genere, e i francesi alla sconfitta in quest'uJtime e alla vittoria in quelle terrestri. Come ben mette in evidenza il Lumbroso, non si tratta tanto di differenze sensibili nel campo tecnico e tattico, ma soprattutto di un divario determinante nel campo dei fattori morali e nella qualità deUa leadership: la vittoria francese di terraferma Inel 1806] e la sconfitta francese sul mare [nel 1805) provengono sempre da qualità e da difetti identici a quelli cui si debbono ascrivere le vittorie navali e le sconfitte terrestri degli inglesi [...]. 84
Sono questi, in fondo, gli ammiragli che nonostante i suoi schemi R. avrebbe voluto per la Francia e per il Regno di Napoli, e non ha avuto: non è poco, anzi è quasi tutto. Il Depeyre parla, a proposito di R., di enseignements perdus. In effetti egli, poco citato e poco noto in Francia (non siamo nemmeno riusciti a rintracciare una sua pur succinta biografia), è stato finora completamente ignorato in Italia, nonostante la sua importanza per il nostro pensiero navale. Non lo merita, se non altro per la lunga influenza che esercita sul pensiero navale francese. Basti qui ricordare che il comandante Henry Vignot, nel suo Aperçu de tactique navale del 1905 (vds. recensione del Bonamico sulla «Rivista Marittima» del novembre 1905) intotola il capitolo II «Prefazione della tattica del Ramatuelle», in quanto tale tattica contiene, a parere dello stesso Vignot, molte idee generali ancora applicabili.
SEZIONE III - Il periodo post-napoleonico: riflessi e problemi della introduzione del vapore
Nuovi orizzonti delle costruzioni navali Il periodo in esame è del massimo interesse, per una ragione essenziale: vi si delinea il tramonto del secolare primato dei grandi vascelli in legno a vela, che proprio in quegli anni raggiungono le dimensioni maggiori, e inizia il passaggio anche per le navi da guerra alle costruzioni in ferro e alla propulsione a vapore, cioè ai cosiddetti piroscafi. Come sempre avviene nei sistemi d'arma che raggiungono il culmine della matu-
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A. Lumbroso, Op. cit., pp. 60-67.
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rità, gli ultimi vascelli della Restaurazione - peraltro rimasti in servizio anche nella seconda metà del secolo XIX - raggiungono il massimo della potenza (e quindi della stazza) a spese dalla manovrabilità e della velocità. Nel 1824 nella marina francese avviene una grande riforma: i vecchi calibri da 36, 24, 18 e 12 libbre sono sostituiti da un solo calibro unificato da 30, con due soli modelli di pezzi, lunghi e corti. Una riforma che aumenta enormemente il peso della bordata e quindi la potenza di fuoco, precorrendo le soluzioni del secolo XX: ma dal punto di vista dello scafo, non si può parlare di progressi. Al contrario, i tipi della Restaurazione sono assai meno «marini», assai meno manovrieri di quelli del Primo Impero: si è sorpassato il massimo della potenza ammissibile aumentando in misura eccessiva la stazza. Il bastimento dell'epoca si presenta come una cassa dalle muraglie diritte, senza rientranze .... 85
Il Valmy, ultimo vascello francese a tre ponti da 120 cannoni varato nel 1847, è lungo 64 me largo 17,5, con una stazza di 5486 tonnellate. La prima domanda alla quale bisogna rispondere è questa: come viene giudicato il nuovo rivoluzionario sistema di propulsione a vapore? quali riflessi, quali vantaggi e quali svantaggi nella guerra sul mare gli vengono inizialmente attribuiti rispetto ai ben consolidati sistemi d'arma precedenti? Trattando dei dizionari (vds. capitolo V) abbiamo in parte già risposto; ma se ci si limitasse a esaminare l'incidenza presente e futura del vapore nella prima metà del secolo XIX, si commetterebbe un grave peccato di omissione. La rivoluzione nel campo della propulsione, infatti, va abbinata al progresso generale della metallurgia, che rende possibile e conveniente già in quel periodo la costruzione di scafi in ferro e soprattutto un decisivo progresso delle artiglierie e del relativo munizionamento. In sostanza si tratta di prendere in esame i riflessi nel campo delle costruzioni - quindi anche nel campo dell'impiego - del trinomio vapore-scafi in ferro-artiglierie perfezionate. Su questo particolare aspetto la storiografia europea e italiana del XX secolo è stata piuttosto evasiva, parziale e imprecisa. È nella Restaurazione, non dopo, che nasce il moderno concetto di nave corazzata come risultante del trinomio armamento (grosse artiglierie) - velocità (vapore) - protezione (blindatura in ferro). Non è esatto individuare le origini della nave corazzata nelle batterie gaJleggianti protette, con propulsione a vapore che assicurava loro una
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G. Clerc-Rampal, La mer, Paris, p. 159.
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velocità peraltro minima, studiate da Napoleone III e impiegate nella guerra di Crimea contro i forti russi di Kinburn.86 Questi primi tentativi non solo sono anticipati - con migliori soluzioni costruttive - nella marina americana dei primi anni del secolo XIX e nella marina francese della Restaurazione, ma hanno delle progenitrici nelle batterie galleggianti protette, con propulsione autonoma a vela, impiegate dai franco-spagnoli nell'assedio alle difese inglesi di Gibilterra nel 1782, cioè durante la guerra d'indipendenza americana. Scrive Carlo Botta che, in questa occasione, i vascelli franco-spagnoli non erano in grado di sviluppare a lungo la quantità di fuoco necessaria per aver ragione della fortezza, perché erano troppo vulnerabili rispetto al fuoco dei grossi cannoni in caverna di quest'ultima. Il d' Arcon aveva cosl pensato di costruire delle batterie galleggianti che oltre ad essere potenti erano meglio protette delle navi, sia contro le «palle fredde» sia contro le palle incendiarie: «il primo di questi fini si doveva conseguire per la straordinaria grossezza deJJe pareti di esse batterie, i1 secondo per mezzo di un invoglio che tutte le rivestisse dalle parti donde potevan venire i tiri, il quale consisteva in una coperta di grossissime travi e in una grossa lama di sughero [... ]. Oltraciò vi s'era racchiusa dentro, come quasi un grosso velo, in tutta la larghezza di essa coperta una falda di sabbia bagnata». Vi era anche un ingegnoso sistema di circolazione dell'acqua all'interno delle batterie, in modo da soffocare subito il fuoco propagato dalle palle incendiarie. E con la forma aerodinamica in anteprima, molto spiovente e sfuggente del tetto, si intendeva poi ostacolare la penetrazione delle palle normali ... Infine, nonostante la loro stazza e le loro dimensioni ragguardevoli e massicce, queste navi «erano veleggiatrici leggeri, e come se fregate fossero, veloci e maneggevoli». 87 Lo stesso Botta ricorda che nel 1780, sempre nell'assedio di Gibilterra, fanno la loro comparsa anche le barche cannoniere armate di un solo grosso cannone, che possono essere viste come la prima versione a vela de11e cannoniere o monitors costieri, destinati ad avere largo sviluppo in parecchie marine fino alla guerra 1914-1918. Esse erano così fatte, che portavano da trenta a quaranta botti, quaranta o cinquanta uomini, ed un cannone in prua che buttava ventisei libbre di palla. Avevano una larga vela e 15 remi dalle due bande. E-
86 Così fa U. Degli Uberti (La marina da guerra, Firenze, Salani 1940, pp. 32-35). Cfr. anche H. Coutau-Begarie, L'évolution (Cit.), pp. 307-308. 87 C. Botta, Op. cit., Voi. VI pp. 255-259.
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rana molto maneggevoli, ed intendevasi con esse di gettar bombe e palle nelle città e nei forti di nottetempo, ed anche quando la occasione si scoprisse, di assaltarle [ ... ] E siccome poco si alzavano sopra il pelo dell'acqua, così era cosa assai malagevole il por loro la mira e colpirle.88
A fine secolo XVIII, quindi, erano già state introdotte e sperimentate - sia pure con i mezzi e le tecnologie dell'epoca - tutte le componenti deHa nave corazzata. E come abbiamo accennato nel precedente capitolo V, già all'inizio del secolo XIX compare per merito dell'americano Fuiton un'arma che avrebbe avuto grande sviluppo fino ai nostri giorni: la torpedine o mina mobile. 89 Tale arma viene abbinata dal Fulton al primo sommergibile, il Nautilus, e viene da lui proposta a Napoleone. I vecchi ammiragli francesi giudicano la nuova arma «immorale» e «contraria agli usi di guerra»; allora Fulton si rivolge all'Inghilterra, ancora una volta con scarso successo. Scrivono in proposito lo Stevens e il Westcott: il governo britannico entrò in trattative con l'inventore e nell' ottobre 1904 utilizzò le sue torpedini in uno sfortunato attacco contro la flotta francese d'invasione di Boulogne. Solo una pinazza fu affondata; tuttavia Fulton in una lettera al primo Ministro inglese Pitt del 6 gennaio 1806 pretendeva con la sua anna di «cancellare tutte le flotte da guerra dagli oceani». Ma Trafalgar distrusse tutte le sue possibilità di successo; come gli fece notare il vecchio conte Saint-Vincent, «Pitt sarebbe il più grande pazzo che sia mai esistito se incoraggiasse un metodo di guerra navale del quale non hanno affatto bisogno coloro che dominano il mare e che perderebbero tale dominio nel caso che questo metodo riesca». Fulton accettò pertanto 15000 sterline e lasciò cadere il suo progetto.
Durante il periodo napoleonico incomincia l'era della navigazione commerciale a vapore, con il primo viaggio del battello a ruote Clermont che nell'agosto 1807 percorre in 32 ore le 150 miglia che separano New York da Albany. Da allora, i piroscafi si diffondono sempre più anche in Europa e particolarmente nella navigazione fluviale, dove - in relazione alla loro autonomia ancora ridotta - trovano facili e frequenti approdi per il carbone_ Inevitabilmente si passa ben presto a sfruttare la nuova propulsione in campo militare; e sempre per merito di Fulton, alla fine della nuova guerra tra Stati Uniti e Inghilterra (1812-1815) compare
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ivi, p. 371.
89
W .O . Steven -A. Westcott, Sea Power, Paris, Payot 1937, pp. 310-311 e 318-319.
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la prima vera e propria nave da guerra corazzata a vapore destinata alla difesa delle coste, il Demologos (poi Fu/ton/). E' praticamente una batteria galleggiante di 20 cannoni da 32 libbre, fortemente protetta, con scafo blindato a catamarano, ruota centrale di propulsione e velocità di oltre 5 nodi. Proposta da Fulton nel 1813 e messa in costruzione nel 1814, la nave non fa a tempo ad essere impiegata contro la flotta inglese nella guerra del 1812/1815. Pur tra errori, incertezze e resistenze, le Marine inglese e francese seguono l'esempio di quella americana. Nel 1818 l'Inghilterra vara i piroscafi da guerra a vapore Gorgone Cyclops, dando inizio fin da allora a una sia pur contenuta gara di armamenti navali tra Francia e Inghilterra. Nel 1829 il piroscafo americano Savannah attraversa per la prima volta l'Atlantico, e nello stesso anno la marina militare francese vara uno dei primi suoi bastimenti a vapore, la corvetta a ruote Sphinx con macchina a vapore inglese da 160 cavalli, seguita nel 1832 dal1a fregata Gomer armata con 16 cannoni da 30, macchina da 450 cavalli e velocità 10- 16 nodi. La stessa marina francese ha occasione di spcrimcnt.rre la grande utilità delle navi da trasporto a vapore nella campagna d'Algeria del 1830, dove esse vengono impiegate per il rapido afflusso di truppe sulle coste algerine. Dal canto suo l'Inghilterra impiega navi da guerra con propulsione a vapore nella guerra dell'oppio contro la Cina (1842), che secondo l'Osterhammel è stata «la prima guerra, il cui esito venne deciso dall'impiego di cannoniere azionate dalla Forza vapore». 90 La battaglia di Navarino del 1827, invece, è l'ultima tra flotte in legno, e in essa viene alla luce piuttosto la superiorità delle artiglierie e dei cannonieri europei rispetto a quelli turchi. L'applicazione della propulsione ad elica introdotta dallo svedese Ericsson nel 1837 elimina uno dei principali inconvenienti nena propulsione a vapore del1e navi da guerra, dovuto alla vulnerabilità delle grandi ruote sui fianchi; e anche in questo caso, la prima grande nave da guerra ad elica è americana (la Princeton, varata nel 1843). Intanto dopo un periodo di stasi durato dal 1830 fino al 1840 nel quale si avvantaggiano le costruzioni de11a Royal Navy, il Governo francese decide di assegnare alla marina le risorse necessarie per il potenziamento della flotta a vapore. L'ordinanza del 9 marzo 1842 fissa la composizione della flotta a vapore a 70 bastimenti armati di cannoni da 80 e da 30, dei quali 5 fregate da 540 cavalli, 15 fregate da 450 cava11i, 20 corvette da 320 cavalli
90
Cfr. J. Osterhammel, Storia della Cina Moderna - sec. XVIII - XX, Torino, Einaudi 1992.
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a 220 cavalli, e 30 bastimenti da 160 cavalli. Al 1° gennaio 1844 la flotta francese è composta da 103 bastimenti a vapore, dei quali 45 navi d'alto mare in servizio, 18 in costruzione, 18 vapori transatlantici, 24 navi postali da 220 a 50 cavalli.91 Dal 1845 in poi soprattutto per merito delJ'ingegnere navale Dupuy de Lòme la Francia è in grado di progettare e costruire un primo modello di nave a vapore, che si avvicina notevolmente alla corazzata anche se non abbandona i vecchi stilemi dei vascelli a vela come te artiglierie numerose, disposte sui fianchi dello scafo e pluricalibri. 92 Il progetto presentato nello stesso dal Dupuy de Lòme prevede «una fregata a vapore che riunisca le condizioni di velocità e potenza, macchina a vapore a elica, scafo in ferro blindato», nella quale sia finalmente invertito il normale ruolo della propulsione a vapore rispetto alla vela, facendo di quest'ultima solamente un sistema ausiliario. La fregata stazza 2366 tonnellate, ha 63 metri di lunghezza ed è armata con 14 obici da 80 e 14 cannoni lunghi da 30. Dopo varie traversie, il 16 maggio 1850 viene varato a Tolone il Napoléon, piroscafo che risente di vari compromessi a cominciare dalla velatura (che si vuole equivalente a quella di un vascello a vela) e dall'armamento (circa 100 cannoni), ma che tuttavia ha buona velocità sia con propulsore a vapore che a vela. A metà secolo XIX, più che la corazzatura o le artiglierie, è il sistema di propulsione delle navi ad attrarre maggiormente l'attenzione; la vittoria definitiva del vapore sulla vela è tuttavia assai graduale. Secondo gli americani Stewens e Westcott, ali' inizio della guerra di secessione americana [ 1861-1865 N.d.a.] ogni nave da guerra aveva ancora una velatura. almeno con funzione ausiliaria [quindi il rapporto tra vela e vapore si era già capovolto a favore di quest'ultimo sistema - N.d.a.]. Se, a cavallo del 1850, l'Inghilterra aveva tre grandi navi da guerra con un motore a vapore ausiliario, è solo nel I 869 che la Devastation, per la prima volta nella marina da guerra britannica, non ba avuto che un solo sistema di propulsione, il vapore.93 Un altro problema nasce per il passaggio dalle costruzioni in legno a quelle in ferro. Come scrive il degli Uberti, l'ammiragliato britannico 91 De
Joinville, Op. cit. , pp. 170-171. Si veda soprattutto, in merito, l'ampio saggio di R. Estienne Dupuy de Lome et le «Napoléon» (in Service Historique de la Marine, Op. cit., pp. 201-257). 93 W.0. Stevens - A. Westcott. Op. cit.• p. 311. 92
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in proposito ha avuto parecchi ripensamenti e comunque non è stato il primo ad abbandonare le costruzioni in legno, al tempo ritenute molto più robuste di quelle in ferro perché il foro prodotto dalle palle sferiche piene di cannone nelle murate si rinchiudeva spesso automaticamente e data la regolarità dei suoi margini era comunque facile turarlo: nel caso invece di navi con fasciame formato da lamiere di ferro di un paio di centimetri di spessore al massimo (da 4 mm a 20 mm), durante prove eseguite in Inghilterra, il proiettile entrava da un lato con foro regolare e usciva dall'altro, lacerando la lamiera irregolarmente. Era quindi difficile eseguire una riparazione rapida. Per di più si producevano schegge molto pericolose anche se in numero minore del legno [...] gl'lnglesi, sempre conservatori ad oltranza, arrivarono al punto di trasformare in navi mercantili quelle da guerra in ferro già costruite, e negli anni tra il 1854 e il 1857, delle 286 cannoniere costruite nel Regno Unito, solo 58 ebbero lo scafo in ferro e soltanto per le insistenze dei partigiani degli scafi metallici.94
A conferma di quanto abbiamo sostenuto, lo stesso degli Uberti pur affermando come tanti altri, a torto, che «le prime navi protette contro i proietti furono le batterie corazzate» impiegate contro i forti di Kinbum in Crimea - riferisce che fin dal 1840 circa, gl'inventori cominciarono a subissare le autorità marittime con progetti di navi corazzate, specialmente negli Stati Uniti. Un certo Stimpson scriveva al Presidente della Confederazione J.K. Polk che una sola nave del tipo ideato da lui «potrebbe spazzare dalle nostre coste le flotte combinate di tutta Europa. Impedirebbe tutte le future guerre e la Gran Bretagna si sarebbe dovuta accontentare della sua isoletta».
Proprio come voleva fare Fulton ali' inizio del secolo XIX ... Possiamo dunque concludere che nella prima metà del secolo XIX fanno la loro comparsa, nel campo delle costruzioni navali, tutti i topoi, i miti e le speranze dell'arte della guerra nei tre elementi, fino ai nostri giorni. Sarà perciò nostro obiettivo primario indicare in che misura la teoria tattica e strategica sulla guerra marittima tiene subito conto di queste realtà, e in che misura ne rimanda al futuro le implicazioni teoriche, rimanendo piuttosto ancorata al passato.
94
U. Degli Uberti, Op. cit., pp. 32-33.
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Paixhans precursore della corazzata: il trinomio artiglieria di grande potenza-vapore-corazza Come già accennato, l'applicazione in campo marittimo e militare del vapore è il fatto nuovo e rivoluzionario del periodo post-napoleonico. Fino a quando la propulsione rimane a vela, assai meno rivoluzionari si dimostrano, al confronto, i riflessi dell'introduzione in campo navale delle artiglierie, che invece secondo taluni rivoluzionano - se non la strategia - la tattica terrestre. Naturalmente l'installazione sulle navi di una macchina non ancora perfezionata come quella a vapore, con problemi anche di autonomia in relazione all'elevato consumo di carbone, suscita molte perplessità e dà origine al solido dibattito tra innovatori - o avveniristi - e conservatori, anche tra nazioni. Con la sua impareggiabile flotta di vascelli in massima parte di costruzione antecedente il 1815, l'Inghilterra non ha molto bisogno di innovazioni; invece la Francia, per la quale dopo il 1815 si pone un problema urgente di recupero della sua influenza sui mari, è più sensibile alle novità in campo navale e più attenta a quello che può offrire il vapore. I tecnici, i costruttori, gli ufficiali francesi sono più attratti dall'innovazione per ragioni fondamentali e specificamente nazionali, tali da dare luogo a dei veri e propri topoi da allora in poi di frequente ricorrenti anche in Italia, e ben messe in luce dall'ammiraglio de Joinville nel suo citato Essai sur la Marine francaise del 1852. Le ragioni dell'interesse francese sono legate al progresso delle tecnologie accellerato dalla rivoluzione industriale, alla natura di paese continentale - più che marittimo - della Francia, e ciononostante, alla perdurante necessità di neutralizzare la superiorità inglese sul mare, mai messa in dubbio. Scrive, in proposito, il de Joinville: sono le tradizioni a fare la forza della Marina inglese, e ad essere la sua prima ragione di vita. In questo paese così fedele al culto del passato, esse sono state dopo più di un secolo come un'eredità che le generazioni si sono trasmesse, come un tesoro che ciascuna ha religiosamente conservato per trasmetterlo a quella che la segue. Senza dubbio la situazione insulare della Gran Bretagna, il carattere essenzialmente commerciale e marittimo della nazione, i ricordi gloriosi dei quali la sua storia navale abbonda, contribuiscono per la gran parte a creare la superiorità della sua marina: ma agli occhi dell' osservatore attento, le tradizioni sono altresì parte importante di questa superiorità. 95
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De Joinville, Op. cit., p. 9.
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Al confronto - prosegue il de Joinville - la Marina francese non ha affatto questi vantaggi: la natura ha fatto di noi anzitutto dei soldati, e noi siamo marinai solo artificialmente, non per temperamento ma per necessità e per forza di volontà. Se a noi è stato dato, in altri tempi, di ottenere dei brillanti successi sul mare, questi tempi sono ben lontani da noi. Le rivoluzioni del nostro secolo hanno crudelmente colpito la marina; per più di vent' anni la nostra storia navale non offre che una lunga serie di rovesci, sopportati con un eroismo tanto più grande quanto misconosciuto, e bisogna ben dirlo, questi rovesci [c'è da dubitarne - N.d.a.] si spiegano soprattutto con il malvezzo di distruggere con la violenza tutte queste tradizioni [o, piuttosto, per il fallimento del tentativo di eliminare i tradizionali limiti della marina francese N.d.a.].96
A suo giudizio, l'importanza della propulsione a vapore è dovuta proprio al fatto che essa per la prima volta consente l'annullamento - o almeno una forte riduzione - dei tradizionali vantaggi inglesi sul mare. La navigazione a vela richiedeva equipaggi e Quadri estremamente esperti nell'arte di navigare; così stando le cose, fino alla comparsa del vapore la marina francese «non poteva essere che un organismo artificiale», senza basi solide, perché il dominio del mare rimaneva pur sempre alla nazione che era in grado di mettere sull'acqua il maggior numero di esperti marinai, e la marina mercantile francese - poco sviluppata e rovinata dagli inglesi - non poteva fornire a sufficienza a que11a da guerra equipaggi in grado di reggere il confronto con quelli inglesi. Una situazione senza sbocco e senza possibilità di rivalsa, insomma: ma la marina a vapore ha finalmente cambiato la faccia delle cose; sono, infatti, le nostre qualità militari a prendere ora il posto dei nostri scarsi equipaggi. D' ora in poi noi avremo ufficiali di marina ed equipaggi in numero finalmente sufficiente per ricoprire il ruolo più ridotto che su una nave a vapore hanno i marinai. La macchina sostituirà le centinaia di braccia necessarie per governare le navi a vela, e non c'è nemmeno bisogno di dire che alla Francia il denaro non mancherà mai per costruire delle macchine, così come non mancheranno mai dei buoni soldati quando si tratterà di difendere l'onore del paese.97
96
97
ivi, p. 10. ivi, pp. 132-133.
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Questi vantaggi fondamentali prevalgono, di gran lunga, su quelli che lo stesso de Joinville ben mette in luce nei suoi Vieux Souvenirs 1810-1848. Egli scrive che nel 1844, quando comandava la squadra del Mediterraneo, un nuovo orizzonte, un nuovo modo di comandare si è aperto per me con l'aggiunta fatta per la prima volta alla mia squadra di un certo numero di navi a vapore. Io avevo già navigato in parecchie squadre: quale che fosse il numero di vascelli che le componevano, le tattiche, le manovre ... dipendevano da un solo fattore uniforme, il medesimo per tutti: il vento, la sua direzione, la sua forza e questa tattica frutto di una esperienza secolare, noi l'avevamo sempre applicata e la conoscevamo a menadito. Era il nostro catechismo, ma l'arte nuova di far navigare insieme, senza che venissero a collisione, delle navi per le quali la legge del vento non esisteva più, e che potevano muoversi a gran velocità in ogni direzione e in ogni senso, a discrezione dei loro capitani, era ancora tutta da inventare. [ ...] Onnai il superamento delle bonacce e delle piccole brezze di vento era avvenuto, e la celerità delle operazioni navali ne risultava fortemente accresciuta.98
Questo è il terzo dei topoi che in Francia e altrove ispirano i fautori della navigazione a vapore, e anzi è quello più importante dal punto di vista teorico, perché - come vedremo meglio in seguito - segna dopo la seconda metà del secolo la nascita di una teoria strategica marittima fondata su principi sovente analoghi a quella terrestre, già da tempo oggetto di studio e di dibattito. Ma quella del de Joinville - le cui considerazioni sui vantaggi per la Francia della propulsione a vapore sono senz' altro ottimistiche alla prova degli eventi dei secoH XIX e XX - è solo una delle voci di un animato dibattito, che si sviluppa in Francia tra il 1815 e il 1850, nel quale non mancano i conservatori che in relazione agli inconvenienti che comportano le macchine e le eliche (non ancora bene a punto) ritengono che la vela sia ancora insostituibile, e che le navi a vapore possano avere solo un ruolo ausiliario, magari costiero o fluviale, o possano servire per il rimorchio di quelle a vela in caso di vento non favorevole. Per gli aspetti specifici di tale dibattito in Francia rimandiamo ai numerosi studi, con ricca bibliografia, riportati nel recente volume del Ser-
98
Cit. in J. Meyer, Marine et economie (in Service Historique de Marine, Op. cit. ,
pp. 35-36).
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vice Historique de la Marine francese Marine e Tecnique au X/Xe Siécle. 99 Il problema della propulsione, comunque, porta a trascurarne altri due di grande importanza: quello deHa tattica navale, per la quale dal J815 in poi in nessun paese compaiono studi tali da aprire nuovi orizzonti, e quello più tecnico delle artiglierie, per le quali - a prescindere dalla potenza e dall'efficacia del colpo singolo - si continua a cercare la superiorità non tanto in perfezionamenti tecnici, ma nel numero. Questo vale anche per Puy de Lome, che è un ingegnere navale ma non un artigliere, e appare ancora legato alla formula tradizionale dei molti cannoni. I fautori del ruolo preponderante della propulsione a vapore - come lo spesso Dupuy de Lome, l'ammiraglio de Joinville e altri - non mancano in Francia: ma chi, a parer nostro, ha avuto idee ancor più lungimiranti e nuove fino a poter essere definito il vero padre della formula della corazzata con pochi cannoni monocalibro dei primi anni del secolo XX, è stato il tenente colonnello d' artiglieria dell'esercito francese H.J. Paixhans, spesso ricordato solo come fautore della massiccia introduzione in campo navale e terrestre dei proietti scoppianti che portano il suo stesso nome. Così lo ricorda anche la nostra Enciclopedia Militare, che ne cita le opere più significative e afferma che il suo «cannone a bomba» ba deciso a favore della flotta russa la battaglia di Sinope (30 novembre 1853), nella quale l'ammiraglio russo Nachimoff con 6 vascelli di linea, 2 fregate e alcune navi a vapore distrugge totalmente una flotta turca di 7 fregate, 3 corvette e 2 trasporti, con un numero assai alto di morti (4150) .. Paixhans è a volte ricordato in modo riduttivo anche in Francia, il che è strano, vista la singolare capacità francese di valorizzare la cultura nazionale. Hervé Coutau-Bégarie gli ha dedicato di recente solo poche righe, 100 mentre Thomas Adams restringe il suo apporto al settore delle artiglierie navali e a conclusione del suo saggio in Marine e tecnique au XXe siécle afferma che Paixhans non ha inventato niente e non pretende di aver inventato niente. Il suo merito è di aver presentato in modo irrefutabile un sistema di cannone-obice, la cui concezione era basata su molteplici esperienze fatte in precedenza, e di aver insistito con il governo per la sua adozione.
99
Service Historique de la Marine, Op. cit., pp. 23-43 e 169-257. H. Coutau - Bégarie, Op. cit., pp. 39-40.
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Delle numerose opere di Paixhans (di argomento prevalentemente terrestre e riguardanti problemi generali) l'Adams cita solo il suo libro del 1822 Nouvelle force maritime et artillerie; 101 ma se si considera e si legge attentamente anche l'altro meno noto Experiences faites pour la marina francaise sur un 'arme nouvelle (1825),102 si arriva a definire il Paixhans come precursore e primo teorizzatore della «nave assoluta», cioè della nave che al più potente armamento e alla più forte protezione abbina una superiore velocità, diventando la Regina dei mari capace di distruggere le flotte altrui. Se si preferisce, il Paixhans è il primo in Europa a teorizzare la corazzata e la «nave inaffondabile» o quasi, mito che percorre il pensiero navale non dai primi de] 900 fino al 1941 ma per tutto il secolo XIX, dando tra l'altro origine a poco note teorie del generale Cavalli 103 intorno a metà secolo XIX. Vapore e corazza hanno un ruolo ragguardevole anche ne11' opera del 1822 del Paixhans, dove lo spazio maggiore è riservato alla dimostrazione della necessità di costruire un tipo di artiglieria non solo navale, capace di avere la prevalenza su tutte le altre al momento in uso. Il motivo dominante è comunque quello di una flotta economica capace di sopraffare quella inglese, e in tal modo il Paixhans mostra di raccogliere sul piano tecnico l'eredità di Richelieu, mettendo anch'egli in forte luce le secolari e numerose sopraffazioni che grazie aJla superiorità della sua flotta l'Inghilterra si è potuta permettere impunemente nei riguardi degli altri Stati del Continente europeo. Flotta economica abbiamo detto, cioè una flotta che fornisca alla Francia con la minima spesa il massimo risultato. In proposito, l'Inghilterra è stata fino a quel momento maestra insuperata: le flotte moderna d'alto mare sono il più ammirevole prodotto dell'ingegno e del lavoro dell'uomo: costruite da valenti ingegneri, con marinai tanto istruiti quanto bravi, e sfruttando il vento per far muovere le armate, esse sembrano assicurare il dominio del mondo. Ma queste magnifiche flotte oggi non sono realmente convenienti che alla sola Inghilterra; per tutti gli altri Stati esse sono una rovina; e non si saprebbe pensare senza rammarico al bene che a101
Paris, Bachelier, 1822. Paris, Bachelier, 1825. 103 Cfr., in merito, F. Botti, La nave invulnerabile e le teorie del generale Cavalli, «Rivista Marittima» n. 7/1988, pp. 107-118. In merito al concetto di nave corazzata del Paixhans, molto più esauriente di quello dell'Adams è il recentissimo, pregevole saggio di Etienne Taillernile in, L'Evolution de la penseé navale W (a cura di H. Coutau Bégarie), Paris, Centre D' Analyse Polique Compareé 1994, pp. 105-132. 102
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vrebbe potuto essere fatto in Europa, con tanti miliardi profusi per trent'anni dalle marine di tutte le altre nazioni, senza altro risultato, malgrado i loro coraggiosi sforzi, che di avere constatata la loro impotenza. 104
La Marina inglese - prosegue il Paixhans - ha fatto a tutte le marine ciò che l'esercito francese ha fatto a tutti gli eserciti, ma diversamente da quest'ultimo, più che alla gloria ha badato alla convenienza economica_ L'Inghilterra, è vero, ha speso molto per la flotta, ma quest'ultima con il commercio le ha restituito ricchezze immense. E «prodigo di un oro seminato per raccoglierne utili, questo popolo ha saputo essere talmente e così saggiamente economo di un sangue prezioso, che a vederlo si esita a crederlo». La guerra dei sette anni e la guerra d'indipendenza degli Stati Uniti sono costati alla flotta inglese solo 1500 caduti ciascuna. I dodici più importanti scontri delle guerra napoleoniche, solo 1720 morti e 6360 feriti; a Trafalgar Nelson ha avuto 412 morti e 1112 feriti. Con i suoi nuovi sistemi d'arma, perciò, Paixhans si ripromette di dimostrare che, per l'avvenire, «la conquista del dispotismo navale [al momento riservato solo Inghilterra - N.d.a.] potrà essere costretta a pagare un prezzo più alto», perché non sarà più difficile - come sempre è avvenuto - distruggere i vascelli d'alto bordo irti di cannoni e a vela sui quali si basa ancora la forza inglese: «essi sfidano le normali artiglierie; ma nulla è più facile che di disporre di un'artiglieria che essi non potranno più sfidare. E quale rimpianto si potrà avere per queste macchine irte di cannoni, dal momento che esse, causa di rovina per tutti i popoli, sono utili solo a quello Stato [l'Inghilterra - N.d.a.] che, considerando la forza come un diritto, si arroga la padronanza assoluta del mare?». 105 Paixhans non è un inventore, un teorico neutro: prima di essere studioso e tecnico, egli è francese. Le nuove armi da lui proposte rispondono a motivazioni generali prettamente anti-inglesi. Esse intendono colpire la Royal Navy dove è più debole e neutralizzare a tutto vantaggio della Francia la sua forza. E, naturalmente, si ripromettono di valorizzare i tradizionali e ormai ben noti punti di forza della Francia attenuando al tempo stesso gli effetti della scarsità di Quadri ed equipaggi ben sperimentati nell'arte dinavigare, dovuta al fatto che la Francia non è un paese marinaro. Abbiamo parlato di armi nuove e non di una sola arma. Perché ciò che egli propone non è solo un cannone più potente ma: - un cannone di grosso calibro da 80, che dovrebbe sostituire come
104
H.J. Paixhans, Nouvelle Force... (Cit.), pp. lii - IV.
105
ivi, pp. V-VI.
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armamento unico delle navi i cannoni di vario calibro (da 12,18,24,32,36 libbre) dei vascelli, e armare anche le unità minori. In casi particolari, il cannone potrebbe avere un calibro da 150 o 200; - una granata scoppiante lanciata a tiro teso e con forte velocità iniziale da tale cannone, destinata a sostituire le palle piene lanciate esclusivamente dai cannoni navali dell'epoca, che producevano pochi danni facilmente riparabili nelle murate; - l'abbinamento di tale cannone a navi costruite in ferro e a vapore; - la corazzatura dei piroscafi di maggior tonnellaggio, da costruire in ferro; - l'economica trasformazione dei vascelli in legno a vela a tre ponti esistenti in vascelli corazzati a vela, con sostituzione parziale delle artiglierie con 6-8 dei suoi «cannoni a bomba». Il lancio di palle scoppianti con i cannoni (cioè a tiro teso) o con mortai (cioè a tiro curvo) era da tempo conosciuto, e se ne conoscevano anche gli effetti distruttivi. Ma questo sistema non aveva avuto molta diffusione specie in campo marittimo, a causa degli inconvenienti provocati durante il tiro da proietti non ben perfezionati e dei pericoli di incidenti ed esplosioni nei depositi che presentava. Scartati i mortai perché poco precisi, Paixhans con molteplici esempi storici dimostra la capacità distruttiva e la convenienza di sviluppare, perfezionare ed estendere senza inconvenienti il sistema alle artiglierie navali, presentando un suo progetto per il nuovo cannone a forte velocità iniziale. Al tempo stesso, elenca i vantaggi che presenterebbe l'installazione della nuova arma su navi a vapore, nell'intesa che (argomento continuamente ricorrente) con il vapore la forza navigante dei popoli sarà finalmente proporzionale alla quantità della popolazione complessiva e non alla quantità della popolazione marinara. 106 Il materiale navale diverrebbe meno complicato e l'istruzione del personale meno importante: naturalmente questi vantaggi giocheranno interamente a favore della Francia, che ha frontiere territoriali troppo estese, per concentrare la maggior parte della sua attenzione dalla parte del mare; ma che sarà sicura di avere sempre al bisogno una marina forte, se essa potrà disporre di un sistema navale, nel quale il coraggio dei marinai non abbia più bisogno di essere accompagnato da una così consumata esperienza come avviene oggi, e nel quale le costruzioni - meno colossali - non richiedano più così lunghe e costose predisposizioni. 107
106 107
ivi, p. XIV. ivi. p. VIII.
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lJ risultato ultimo che il Paixhans intende ottenere, è rendere soccombenti i grandi vascelli di linea a vela che fanno la forza dell'Inghilterra di fronte a nuovi piroscafi a vapore di minor tonnellaggio, più manovrieri e con armamento più potente, che farebbero la forza della Francia. Il problema della corazzatura nel libro del 1822 viene affrontato, ma non ha ancora gran rilievo e risente dei severi, invalicabili limiti tecnici e degli scarsi studi ed esperimenti in merito, che portano il Paixhans ad essere assai prudente. Le corazze in ferro - egli scrive - saranno senza dubbio perforate dai nuovi cannoni , perché al momento non è ancora possibile disporre di corazze che possano resistere alle granate di grosso calibro da lui proposte. Potrebbero già essere costruite, comunque, delle corazze capaci di resistere alle palle piene da 24 a 36 delle artiglierie navali del momento, da installare su bastimenti con scafo poco alto e convenientemente costruiti. Anche così «questo tipo di bastimento avrà per questo solo fatto, e indipendentemente dalla potenza dei suoi cannoni a bomba, una superiorità difensiva straordinaria a fronte dei grandi vascelli, perché questi ultimi, a causa delle loro grandi dimensioni e soprattutto dell'altezza dei loro scafi, non potranno mai essere rivestiti di una siffatta armatura». I nuovi bastimenti a vapore avranno le dimensioni strettamente necessarie per installarvi (solamente a prora e a poppa) qualche cannone di grosso calibro, e per ottenere il massimo della velocità con una potente macchina a vapore. Combatteranno senza mostrare i fianchi, avanzando e retrocedendo lungo la rotta, e pertanto forniranno un bersaglio minimo al tiro nemico. E nonostante le dimensioni e gli equipaggi assai ridotti (da 30 a 50 uomini, contro gli 800 di un vascello) daranno agli Stati più abituati a percorrere il mare «una forza sufficiente per distruggere i più grandi e potenti vascelli di linea».108 L'impiego di queste piccole navi a vapore sarà ristretto ai combattimenti in prossimità delle coste: ma dando loro maggiore stabilità, installando le batterie a una maggiore altezza rispetto al mare sarà possibile impiegarli anche in pieno oceano. Essi, al di là delle apparenze, realizzano nel miglior modo il principio della massa anche sul mare. Una sola grossa bomba ha un effetto maggiore di un gran numero di palle piene lanciate dai normali cannoni navali. L'azione di fuoco di parecchie piccole navi può convergere su un solo grande vascello, mentre il fuoco di quest'ultimo - e di conseguenza il pericolo che corrono i piccoli vascelli - è distribuito su più bersagli anziché concentrato su un solo bersaglio.
108
ivi. p. 298.
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Di conseguenza «sembrerebbe a prima vista che la forza è meglio concentrata quando è riunita su un unico grande bastimento; ma quel che importa per ottenere la concentrazione, è l'effetto e non sono i mezz.i; concentrare i mezzi per disseminare gli effetti sarebbe contrario al principio della massa».109 Oltre ai battelli a vapore, il Paixhans accenna ad altri tipi di costruzione che lo indicano come precursore oltre che della corazzata, della batteria corazzata costiera poi impiegata in Crimea e nelle guerre di secessione americana. Sarà pur sempre possibile - egli afferma - rivestire con una corazza capace di resistere anche ai colpi del nuovo cannone «dei solidi bastimenti, che pur non avendo mobilità sufficiente per navigare in pieno mare, non potranno essere impiegati che in prossimità delle coste e offriranno per la difesa delle eccellenti fortezze navali». 110 Si potrà sperimentare - prosegue Paixhans - anche una batteria galleggiante costiera, che compirebbe i movimenti poco frequenti e poco rapidi necessari per prendere posizione avvalendosi di una macchina a vapore o di qualsiasi macchina azionata dall'equipaggio. Il suo armamento sarà esclusivamente composto da cannoni a bomba, non avrebbe alberi e vele o ne avrebbe in misura minima, e in tal modo offrirebbe ai colpi del nemico solo le sue murate convenientemente rafforzate. Sarebbe superiore ai più grandi vascelli; e per l'avvenire, rivestita di un'armatura a prova dei cannoni a bombe, potrebbe offrire vantaggi alla difesa contro qualsiasi tipo di bastimento. Fin qui abbiamo sintetizzato le considerazioni del Paixhans nella Nouvelle force maritime del 1822. Ma nelle Experiences faites pour la marine francaise del 1825, libro nel quale egli critica le conclusioni tratte dai risultati delle esperienze del 1824 da un apposita commissione ministeriale di Brest, compare ancor più nitidamente l'idea della nave corazzata. E' questo libretto di poche pagine il più importante di Paixhans: eppure né l' Adams, né il Taillernite, né l'Enciclopedia Militare o il Fioravanzo o altri autori francesi hanno finora sentito il bisogno, a quanto risulta, di citarlo e studiarlo a fondo. In questa occasione il Paixhans conduce a piena maturazione e precisa le sue idee, fino a parlare - per primo - di vascelli corazz.ati in f erro (vaisseaux cuirassés enfer) e di vascelli da battaglia (vaisseaux de bataille), armati solo di pochi cannoni monocalibri. Egli parte da talune conclusioni della commissione di ministeriale Brest che nel 1824 ha
109 110
ivi, p. 299 Nota (1). ivi, p. 295.
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compiuto una serie di esperienze per vagliare quanto da lui proposto. Nel suo rapporto al Ministero, la commissione riconosce che il cannone a bombe è capace di «produrre effetti prodigiosi, che possono provocare grandi mutamenti nelle forze navali», senza richiedere per l'impiego particolari difficoltà rispetto alle normali artiglierie. E di fronte a una batteria di nuovi cannoni «nessun vascello, quale che sia la sua forza, a una distanza da 300 a 600 tese [da 450 a 900 m - N.d.a.] potrebbe resistere». 111 Tutto bene, dunque? Nemmeno per sogno perché - e questo non piace al Paixhans - dopo tante lodi al nuovo sistema d'arma la commissione, ritenendolo ancora troppo pericoloso specie a bordo delle grandi navi, ritiene che esso «sarà di un'utilità incalcolabile» se installato nelle batterie da costa, sulle scialuppe cannoniere, sulle batterie galleggianti e a vapore ecc.; ma sui vascelli di linea il cannone a bombe potrà essere installato solo «in piccola quantità e prendendo qualche precauzione» . 112 In tal modo - obietta il Paixhans - i vascelli di linea potranno essere agevolmente distruUi con armi, ddle 4uali essi non useranno fan: uso, e si vedranno dei bastimenti con equipaggio di pochi uomini e poco costosi, attaccare un vascello d'alto bordo con equipaggio di 800 uomini. Grazie alla sua mole il grande vascello potrebbe schiacciare le navi minori; ma per schiacciarle bisogna colpirle, e prima di colpirle, come potrà evitare di ricevere delle bombe? e allora che cosa impedirà di combattere un grande vascello per mezzo di una fregata forte e rapida, che armata di qualche cannone a bomba, sarà abbastanza veloce per sottrarsi all'offesa del suo grosso avversario e insieme abbastanza potente da portargli dei colpi mortali? La questione - egli prosegue - non è solo di sapere se i vascelli di linea potranno essere armati con la nuova arma, ma è soprattutto di sapere se questa arma imporrà l'abbandono della costruzione di vascelli così costosi e difficili da manovrare, dal momento che una nave più piccola con la nuova arma sarà in grado di affondarli o incendiarli. Siffatte piccole navi, più economiche, più facili da manovrare, con un numero maggiore di porti francesi che le possono ospitare, saranno meno sfavorevoli alla Francia dei vascelli di linea, che favoriscono l'Inghilterra perché è più ricca e ha equipaggi più esperti di quelli francesi. E poiché il nuovo cannone distrugge o incendia le navi in legno, esso imporrà l'adozione di vascelli in ferro o ricoperti di una corazzatura sufficiente contro i col-
111
H.J. Pixhans, &periencesfaites... (Cit.), pp. 16-17.
112
ivi, p. 12.
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pi d'artiglieria ivi comprese le granate da 80, perché anche contro di esse sarà possibile studiare una nuova protezione. A prima vista la costruzione delle navi in ferro, molto costosa, potrebbe riuscire vantaggiosa all'Inghilterra: ma in realtà anche questa innovazione secondo Paixhans favorisce la Francia, perché (e qui è assai cattivo profeta), con queste fortezze di ferro i combattimenti in mare non potranno più essere decisi con i colpi di artiglieria e con le manovre che ne assicurano il maggior rendimento, essi non potranno decidersi che a corpo a corpo all'abbordaggio; e in questo caso la potenza delle nostre flotte sarà accresciuta dalla potenza delle nostre armi: vantaggio immenso! 113
I vantaggi - egli aggiunge - saranno sempre dalla parte della Francia. Se i cannoni a bomba distruggeranno le attuali flotte in legno, la Francia potrebbe al massimo perdere 160 bastimenti, contro i 500 che compongono la flotta inglese. Anche gli inglesi potranno introdurre come la Francia dei vascelli corazzati in ferro a prova di artiglieria: ma allora i combattimenti navali si decideranno col corpo a corpo, e in questo caso non sarà facile per nessuno aver ragione delle armi francesi. E, anche ammesso che l'Inghilterra possa comunque avere la superiorità in fatto di navi e di buoni marinai, perché quello inglese è un popolo navigatore, noi avremo la superiorità del numero di buoni soldati e con la marina proposta, essi avranno grande influenza. Riguardo a1le costruzioni, con modifiche dal costo non eccessivo (600.000 franchi, a fronte dei 3.000.000 del costo totale) anche i vascelli di linea a tre ponti potranno imbarcare 6-8 dei nuovi cannoni ed essere rivestiti di corazzature capaci di proteggerli anche contro tali nuove armi, il che è conditio sine qua non per la loro sopravvivenza. Non sarà invece possibile dotare di corazza le navi minori e i vascelli normali, che pertanto rimarranno indifesi contro i cannoni. Ma i grandi vascelli corazzati a tre ponti diventeranno delle autentiche fortezze; e il loro armamento, installato meno in alto, consentirà loro una miglior tenuta del mare. Essi disporrebbero di una incomparabile potenza capace di tutto distruggere, e potrebbero essere espugnati solo con un combattimento all'abbordaggio. 114
113
ivi, pp. 24-25.
114
ivi, pp. 92 e 96 e Nota 19.
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D'altro canto le navi con normale velatura rimangono vulnerabili, anche se con scafo protetto; e quelle con poca velatura, oltre ad essere meno vulnerabili, sono le sole a consentire l'installazione di una corazza mantenendo dimensioni contenute. Anche questi fattori rendono conveniente la propulsione a vapore; sarà perciò più conveniente destinare le risorse alla costruzione di navi a vapore, che costruire ancora dei vascelli. Esse saranno di due tipi, uno leggero e non a prova di bomba, e l'altro fortemente corazzato. Ambedue i tipi di nave dovranno conservare un po' di velatura, per aumentare la velocità e diminuire il consumo di carbone. Le navi a vapore del primo tipo saranno «la truppa leggera dell'armata navale», avranno ridotte dimensioni e saranno armate di alcuni comuni a bomba che le renderanno temibili anche a grandi distanze. Quelle del secondo tipo, saranno le navi fondamentali (batiments principals) o i vascelli da battaglia della flotta. Potendo eliminare quasi completamente la velatura e quindi ridurre il peso della zavorra e le dimensioni della carena, queste navi potranno avere le stesse dimensioni delle fregale a vda, e data la grande potenza dei cannoni a bomba avranno una minor quantità di artiglierie. Avranno quindi meno marinai, meno cannonieri e meno viveri, e senza costare quanto un vascello da 74 risulteranno più temibili anche dei vascelli a tre ponti, «perché potranno riunire i vantaggi offensivi e difensivi che possono assicurare le macchine a vapore, le armature metalliche e i cannoni a bomba». Idee siffatte danno ali' opera di Paixhans uno spessore assai diverso, e più consistente, di quello che di recente gli hanno attribuito taluni studiosi. Preconizzando l'abbordaggio e intravedendo grandi vantaggi per la Francia se verranno accettate le sue proposte, Paixhans certamente esagera, e anche il cannone a granata scoppiante alla prova dei fatti non avrà gli effetti miracolistici da lui previsti: ma non vi è dubbio che, nelle linee fondamentali, egli meglio di tutti nella prima metà del sec. XIX intravede i futuri indirizzi costruttivi e il tramonto dei grandi velieri irti di cannoni a palla piena, che a metà secolo sono XIX ancora la spina dorsale delle flotte.
Risvolti navali delle teorie di ]omini, Clausewitz e Carrion-Nisas Questi autori hanno - inutile dirlo - un'ottica eminentemente terrestre, anzi di essa sono i campioni. Ma ciò non toglie che specie in Jomini si trovino considerazioni da non trascurare, incominciando da quella che noi riteniamo valida anche in campo navale - che «l'arte della guer-
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ra è esistita in ogni tempo, e soprattutto la strategia fu la medesima sotto Cesare come sotto Napoleone».' 15 Per Jomini la strategia è l'arte di fare la guerra sulla carta, mentre la tattica è l'arte di farla sul terreno. Si può ben capire che, se si attua una trasposizione di questi concetti in campo navale, fino a quando - come nel periodo velico - i movimenti delle flotte sul mare erano soggetti ai capricci del vento non era possibile pianificarli sulla carta, quindi non poteva esistere una teoria strategica - cosa diversa dalla prassi - e in particolare quell'accurata pianificazione, che lo stesso Nelson nel suo citato memorandum di Trafalgar non giudica possibile, facendo così della tattica come della strategia navale l'arte degli espedienti, l'arte di cogliere delle opportunità, una questione solo di coup d'oeil. Nel precedente capitolo II abbiamo già citato alcune considerazioni di Jomini a proposito del ruolo della flotta inglese nella guerra di Spagna. Nel Précis egli ritiene, peraltro, che non possa essere eretta a principio generale la tendenza inglese - tipica di Wellington - ad operare con eserciti che possono contare solo sul sostegno logistico delle flotte, e afferma che una potenza forte sia in terra che sul mare, e le cui squadre sono in grado di dominare un mare vicino aJ teatro delle operazioni, è in grado di far operare un piccolo esercito di 40 - 50000 uomini lungo le coste, assicurandogli un rifugio ben protetto e qualsiasi tipo di rifornimenti: ma prevedere una siffatta base d'operazioni per un grosso esercito continentale di 150000 uomini, impegnato contro forze regolari più o meno uguaJi in numero, sarebbe in ogni caso un atto di follia. 116
Ciò che per l'esercito inglese è un vantaggio. per un esercito «continentale» è dunque uno svantaggio. E qui Jomini polemizza con il colonnello Carrion-Nisas, il quale, troppo affascinato dall' exemplum di Wellington a Torres Vedras, ha osato scrivere che nel 1813 Napoleone avrebbe dovuto dislocare la metà del suo esercito in Boemia e gettare 150000 uomini alla foce dell'Elba presso Amburgo! Dimenticando che la prima regola per stabilire le basi di operazioni di un esercito continentale è quella di dislocare la base d'operazioni su un fronte il più possibile lontano daJ mare, vale a dire in una posizione tale da metterla al cen-
115 I 16
Jomini, Précis (Cit.), Voi. I pp. 11-12. ivi, p. ) 89.
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tro degli elementi che formano la potenza militare dello Stato e delle regioni più popolate, dalle quali si troverebbe separata e tagliata se commettesse l'errore di appoggiarsi al mare. Per Jomini si può ammettere una sola eccezione a questo criterio: quando ci si trova di fronte a un avversario terrestre poco temibile, e avendo conquistato il dominio del mare, è possibile approvvigionarsi agevolmente da questa parte, mentre allontanandosi dalle coste i rifornimenti diverrebbero difficili. Naturalmente una potenza insulare come l'Inghilterra, che agisce sul continente, deve fare un calcolo diametralmente opposto, proprio per applicare il medesimo assioma che «la base d'operazioni deve essere stabilita nei punti nei quali l'esercito può meglio essere sostenuto da tutti i suoi mezzi di guerra e allo stesso tempo trovarvi un rifugio sicuro». Sempre nel Tableau e nel Précis Jomini dedica diverse pagine al problema degli sbarchi, ma ciò non vuol dire che non comprenda o ignori del tutto le fondamenta della guerra marittima. Già nel Traité del 1811-1816 - Tomo VIII, mostra di cogliere bene le ragioni - non solo «terrestri» e «continentali», ma marittime e mondiali - che nel 1796 spingono l'Inghilterra a cercare un accordo con il Direttorio. Il Gabinetto inglese - egli scrive - era allarmato dall'alleanza della Francia con due Stati marittimi e coloniali come la Spagna e l'Olanda. In particolare la Spagna, concludendo nel 1796 un trattato di mutua assistenza con la Francia, «aveva esposto la sua marina a una disfatta inevitabile [quella di Capo San Vincenzo - 1797 - N.d.a.] sostenendo una lotta nella quale il suo alleato non la poteva sostenere». Anche se le vicende della guerra terrestre in Europa erano state tutt'altro che favorevoli ai suoi alleati, grazie alla sua prevalenza in campo marittimo su scala mondiale l'Inghilterra in quel momento si trovava, secondo Jomini, in vantaggio strategico. Infatti il ministero britannico aveva pressoché raggiunto gli scopi della guerra. Esso si era crudelmente vendicato delle umiliazioni sublte in America [nella guerra d'indipendenza - N.d.a.l. Le sue squadre navali dominavano nel Mediterraneo e nell'Oceano. La più importante delle colonie francesi era perduta senza scampo: la Martinica, Santa Lucia, Grenada e San Vincenzo erano conquistate; le flotte francesi erano distrutte. Anche i possedimenti olandesi non erano più sicuri: il Capo, questa stazione decisiva considerata come la chiave dell'India, era sotto dominio inglese; Ceylon, Amboine e le Molucche, avevano subìto la stessa sorte [... ] L'Inghilterra poteva perciò fare una pace di qualche anno per dar tempo ai suoi alleati continentali di riorganizzare i loro eserciti, tanto più che la marina
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francese, privata dei suoi migliori ufficiali e degli equipaggi più sperimentati, non avrebbe avuto il tempo di riprendersi prima di una nuova dichiarazione di guerra. 117
Jomini non esamina compiutamente gli aspetti marittimi delle guerre napoleoniche, ma il ruolo che assegna agli sbarchi nella guerra terrestre e le circostanze nelle quali egli li ritiene possibili e convenienti dipendono sempre dalla giusta premessa che ciò che va bene per un paese insulare e con flotta superiore come l'Inghilterra, non va affatto bene per un Paese continentale e con un grande esercito da contrapporre ad altri sul Continente, come la Francia. Jomini giudica gli sbarchi un'operazione rara e difficile, e non gli sfugge la condizione fondamentale per fare sì che essi riescano: dopo l'invenzione dell' artiglieria, e i mutamenti che essa ha prodotto in campo navale, le navi da trasporto sono troppo soggette ai colossi a tre ponti armati di cento cannoni, perché un esercito possa compiere degl i sbarchi senza il concorso di una flotta nurm::rosa di vascelli d'alto bordo, che controlla il mare almeno fino al momento dello sbarco. 118
Per poter effettuare degli sbarchi, bisogna prima assicurarsi il dominio del mare. Ciò non avveniva - egli scrive - prima dell'introduzione delle armi da fuoco, quando le navi da trasporto erano anche da guerra, potevano costeggiare la terraferma, si muovevano anche a remi, erano leggere e, a parte le tempeste, le operazioni di una flotta potevano essere condotte come quelle terrestri. E' perciò la storia antica - e non quella moderna - a fornire parecchi esempi di grandi sbarchi, e dopo l'invenzione del cannone «la troppo celebre Armada di Filippo Il è stata la sola grande impresa del genere, fino a quella che Napoleone aveva progettato contro l'Inghilterra nel 1803. Tutte le altre spedizioni hanno avuto fisionomia ridotta e scopi limitati». Poiché i forti eserciti continentali non possono essere attaccati sbarcando sulle coste 30 o 40000 uomini, si possono prevedere sbarchi solo contro potenze minori: infatti «è estremamente difficile imbarcare 100 o 150000 uomini con l'immenso gravame delle artiglierie, delle munizioni, della cavalleria ecc.».119 Il progetto di invasione dell'Inghilterra attraverso la Manica - concepito ma non portato a termine da Napoleone - viene giudicato da Jo-
117
Jomini, Traité (Cit.), Tomo VIII pp. 339-340. Jomini, Précis, Voi. Il p. 138. 119 ivi, p. 140. 118
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mini «una delle più importanti lezioni che questo secolo memorabile abbia lasciato allo studio dei militari e degli uomini di Stato», ma questo non gli fa vincere il suo scetticismo di fondo nei confronti dell'effettiva possibilità di effettuare sbarchi su scala cosl vasta: non era impossibile riunire 50 vascelli di linea francesi nella Manica, cercando di ingannare quelli inglese: questa riunione è stata sul punto di essere compiuta; e una volta fatto questo non sarebbe stato impossibile, con il favore del vento, far passare la flottiglia in due giorni ed effettuare lo sbarco. Ma che cosa sarebbe avvenuto dell'esercito francese, se un colpo di vento avesse disperso la flotta di alto bordo, e se gli inglesi ritornati in fone nella Manica, l'avessero battuta o l'avesse costretta a riguadagnare i suoi porti? 120
Jomini non parla mai di una battaglia decisiva come quella di Trafalgar e dei suoi effetti, ma è attratto soprattutto dalla difficoltà - prima di tutto logistica e legata ai problemi della navigazione - di spostare per mare grandi masse di uomini e materiali: ma anche ammettendo la possibilità di riuscita di un grande sbarco effettuato su una costa assai vicina a quella di Boulogne, quel successo poteva ugualmenle essere ottenuto, se un' Armada così grande avesse dovuto affrontare una navigazione più lunga? quale possibilità vi era di far marciare una siffatta moltitudine di piccoli bastimenti, sia pur solamente per due giorni e per due notti? e a quale sorte quest'ultimi si sarebbero esposto in una siffatta navigazione d'alto mare, scontrandosi con dei leggeri battelli da guerra? Oltre a ciò l'artiglieria, le munizioni da guerra, l'equipaggiamento, i viveri, l'acqua dolce che bisogna imbarcare con questa moltitudine, esigono dei preparativi e un apparecchio immenso. 121
L'esperienza ha dimostrato le difficoltà di una spedizione lontana anche per corpi di truppa che non sorpassano i 30000 uomini. Di conseguenza per Jomini, uno sbarco con forze non superiori a questi limiti si può solo effettuare in quattro casi: 1° contro delle colonie o dei possedimenti isolati; 2° contro delle potenze di secondo rango che non potrebbero essere immediatamente soccorse da un alleato più forte;
120
ivi, p. 141.
121
ivi. p. 142.
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3° per effettuare una momentanea diversione di forze, oppure per assicurarsi il possesso di una posizione la cui occupazione per un determinato tempo abbia un'alta importanza; 4 ° per ottenere una diversione politica e militare contro uno Stato già impegnato in una grande guerra, le cui truppe sarebbero di conseguenza impegnate lontano dalla zona di sbarco. 122
Jomini compie poi una serie di riflessioni sui problemi che lo sbarco crea a chi lo effettua e a chi difende le coste, e suU 'influsso del terreno della zona dove si effettua 1o sbarco; parecchie di tali riflessioni sono tuttora valide. Queste operazioni - egli osserva - difficilmente possono essere condotte con regole fisse. In genere si deve cercare di ingannare il nemico sul punto di sbarco; scegliere un ancoraggio col quale esso possa essere fatto simultaneamente; effettuare le operazioni il più celermente possibile; impadronirsi prima di tutto di un punto d'appoggio per proteggere il successivo spiegamento delle truppe; mettere al più presto in posizione l'artiglieria per garantire sicurezza e protezione alle truppe sbarcate.
La difficoltà e i rischi maggiori nelle operazioni di sbarco derivano dal fatto che le truppe normalmente non possono prendere terra direttamente dai vascelli che li trasportano, costretti ad ancorarsi a una certa distanza dalla spiaggia; a questo punto l'inevitabile trasbordo sulle scialuppe rallenta lo sbarco, conferendo al nemico grandi vantaggi. E se poi i1 mare è anche leggermente agitato, lo sbarco diventa assai rischioso, perché in questo momento critico poco possono fare delle fanterie ammassate sulle scialuppe, sbattute dalle onde, di solido in preda al mal di mare, e non in grado di servirsi deUe 1oro armi. I consigli che dà al difensore non sono meno realistici e ponderati: egli deve anzitutto evitare di spargere le sue forze con la vana pretesa di guarnire tutte le coste, mettendosi invece in grado di difendere solo i punti più importanti. Deve organizzare un sistema di segnalazioni per venire immediatamente a conoscenza dei punti di sbarco, ed essere possibilmente in grado di concentrare le sue forze e i suoi mezzi, prima che il nemico abbia finito di consolidarsi sulla testa di sbarco. Lo stesso principio che sconsiglia un esercito continentale dal portare la massa delle sue forze tra il mare e l'esercito nemico [distaccandosi così dalle sue basi d'operazione - N.d.a.], esige al contrario che l'esercito che
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ivi, p. 143.
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sbarca mantenga la massa delle sue forze in comunicazione con la costa, considerandola al tempo stesso la sua linea di ritirata e la sua base d' approvvigionamento. Per la stessa ragione, un corpo di sbarco deve anzitutto assicurarsi il possesso di un porto fortificato o di un tratto di costa facilmente difendibile e tale da fornire un buon ancoraggio, in modo che, all'occorrenza, il reimbarco possa essere effettuato senza troppa precipitazione e troppe perdite. In calce al Tableau e al Précis Jomini riporta un'interessante sintesi storica degli sbarchi dai tempi degli antichi Egiziani, dai Fenici e dai Rodii fino al 1814, quando un pugno d'inglesi (7-8000) sbarca negli Stati Uniti, che sono pur sempre uno Stato con 10 milioni di abitanti, punta sulla capitale Washington e la distrugge. Défaillance degli eserciti di milizia? Jomini non giunge a tanto, e il suo giudizio è equilibrato: «si sarebbe tentati di mettere sotto accusa lo spirito repubblicano e antimilitare degli abitanti delle province americane, se non si fossero viste quelle stesse milizie difendere molto meglio i loro focolari contro degli aggressori molto più forti; e se, nel medesimo anno 181.5, un hen più numeroso corpo di spedizione inglese non fosse stato totalmente disfatto dalle milizie della Luisiana agli ordini del generale Jackson». 123 Considerazioni equilibrate che richiedono particolare attenzione: perché pare evidente che, anche oggi, pecca di parzialità sia chi dalla vittoria delle milizie del generale Jackson trae deduzioni generali a favore della ricetta dell'esercito di milizia, sia chi dall'incendio di Washington da parte di alcune migliaia di mercenari inglesi deduce la necessità di eserciti a lunga ferma o magari di disporre di flotte capaci di assicurare il dominio del mare; ancora una volta, l' exemplum può portare fuori strada. Clausewitz accenna alla guerra marittima solo alla fine della sua opera, nell' «Esempio di piano di guerra [della Prussia] contro la Francia ( 1828)». E la concepisce in modo tale, da mostrare - diversamente da Jomini - che egli crede a una difesa a cordone delle coste. Nella fattispecie, essa distoglierebbe notevoli forze francesi dalla frontiera dell'est, come se lo sbarco di ridotte forze inglesi sulle coste francesi fosse cosa agevole o almeno possibile: poiché l'Inghilterra possiede la preponderanza sul mare [fatto che evidentemente nessuno al tempo, né tanto meno Clausewitz, mette in discussione - N.d.a.], ne deriva che la Francia è molto sensibile (sic) lungo tutta la sua costa atlantica, e deve presidiarla più o me-
123
ivi, p. 338.
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no fortemente. Ora, per quanto debole sia l'organizzazione di questa protezione costiera, non è meno vero che la frontiera di Francia si trova perciò triplicata (sic), e che questa circostanza deve sottrarre elementi notevoli alle forze francesi sui teatri d'operazione; 20 o 30000 uomini di truppe da sbarco disponibili, colle quali gli Inglesi minacciassero la Francia, neutralizzerebbero forse il doppio o il triplo di forze francesi; e non bisogna pensare, in proposito, solo alle truppe ma anche al denaro, ai cannoni ecc. necessari per la flotta e per le batterie costiere. 124
Vi è comunque, in Europa, almeno uno scrittore terrestre che sulla guerra marittima, e sul vapore, dice cose assai più originali di molti scrittori navali. E' il colonnello francese Carrion Nisas, autore di un Essai sur l'histoire generale de l'art militaire (1824) 125 nel quale riesce a non citare Jomini, che a sua volta - come si è visto - lo nomina solo per criticarlo, e anzi nella Notice sur la theorie actuelle de la guerre che precede il Précis lo stronca con insolita durezza: «Carrion-Nisas, troppo verboso sulla storia militare antica, mediocre per il periodo che va dal Rinascimento alla guerra dei Sette anni, ha completamente fallito sul sistema moderno». 126 Ciò non toglie che molte idee del Carrion-Nisas siano originali e meritevoli di attenzione. Diversamente da Jornini e da tanti altri scrittori navali, egli rammenta che Roma e l'antica Grecia destinavano alla flotta la feccia della popolazione e dell'esercito, i più poveri, i più indisciplinati o i malfattori (sistema di reclutamento rimasto in uso per le galere e poi imitato, in tempi moderni, dall'Inghilterra). Ma ormai, egli afferma, «la marina è tutt'altra cosa dopo le conquiste della civiltà e delle conoscenze moderne. Probabilmente i battelli a vapore le stanno preparando una rivoluzione assai più grande di quelle che ha dovuto subire la tattica terrestre». 127 Le sue idee si avvicinano a quelle prima citate di Napoleone a proposito della differenza tra leadership terrestre e leadership marittima; in proposito, egli contesta l'affermazione di Machiavelli che «sarebbe stato facile ai Veneziani, se l'avessero voluto, di avere delle truppe e dei buoni generali di terra, dato che essi hanno avuto degli eccellenti generali di mare, scienza ben più difficile». Il Carrion-Nisas critica quest'ultima frase e si dichiara di parere opposto, perché
124
C. Von Clausewitz, Della guerra, Mondadori, Milano 1970, Voi. Il p. 858. Paris, Delaunay 1824 (2 Voi.). 126 Jomini, Précis, Voi. I p. 25. 127 Carrion - Nisas, Op. cit., Voi. I p. 599.
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che occorrano in notevole misura degli studi preliminari per formare un buon ufficiale di marina, che ne occorrano assai di più che per formare ufficiali dell'esercito dei gradi inferiori o intermedi, su questo io posso essere d'accordo; ma ciò che io nego, è che;quando due armate - l'una di mare, l'altra di terra - si trovano in presenza del nemico, occorre maggiore arte, abilità e genio nel primo caso piuttosto che nel secondo; io credo invece che con un po' di approfondimento, di riflessione e di buona fede, si arriverà precisamente alla conclusione contraria. 128
Napoleone tendeva a ridurre a piatta esperienza, a routine, le doti del comandante in mare; Carrion-Nisas si limita a constatare che nella guerra marittima l'ambiente naturale tende a stabilire parità di chances tra i contendenti: sul mare nulla può essere nascosto agli occhi; tutti i dati possono essere apprezzabili, tutte le forre sono note. L'occhio nudo, senza ausilio, abbraccia uno spazio talmente vasto. da non consentire l'impiego di riserve che rimangono nascoste [ ... ) si sa sempre a quale distanza ci si trova dagli approdi pericolosi o sicuri, dai pericoli o dalle risorse[...). Il vento e le condizioni del mare, che hanno una cosl grande influenza, non rimangono nascosti più a colui che li combatte che a colui che li sfrutta a proprio vantaggio. Tutto ciò che esiste per il vostro nemico esiste anche per voi; tutto a voi è noto come a lui; voi potete calcolare tutto in modo esatto e certo; voi conoscete il numero di vascelli che il nemico ha davanti a voi; voi potete conoscere pressapoco quello dei suoi cannoni e dei suoi uomini; tutto ciò che li aiuta, o il suo contrario, è per voi ugualmente palese; non c'è bisogno di nessuna sottile o rischiosa congettura; non si è obbligati a procedere, in maniera al tempo stesso dotta e audace, dal noto all'ignoto [...) Sul mare si è al riparo dei disinganni; non è la stessa cosa nella guerra terrestre, dove la minima piega del terreno, una ondulazione inavvertita, possono sottrarre alla vostra vista una forza importante e i suoi movimenti.129
Sul mare i fattori morali - prosegue il Carrion-Nisas - in linea di principio sono gli stessi che nella guerra terrestre, ma i loro effetti in campo terrestre si manifestano con ben altra estensione. Quattro uomini che si spaventano su un vascello non fanno cambiare la sua direzione e le sue manovre; quattro uomini che in un combattimento terrestre grida-
128 ivi, 129
p. 487. ivi, pp. 487-488.
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no si salvi chi può possono causare la rotta di un battaglione o di un reggimento, o sguarnire un punto-chiave. 11 Carrion-Nisas mette poi in evidenza le differenze di carattere logistico tra la guerra terrestre e marittima, a tutto vantaggio di quest'ultima. Infatti in campo terrestre gli eserciti corrono continuamente il pericolo di essere separati dalle loro basi logistiche, e più il livello di comando è elevato, più è gravato e complicato dalle esigenze sempre nuove della logistica. Al contrario, nelle flotte le esigenze logistiche sono calcolate una volta per tutte e per l'intera navigazione, durante la quale i magazzini fanno parte dell'armamento delle navi e quindi le seguono ovunque. Se, infatti, i Romani hanno sempre destinato alla flotta i più poveri e gli scarti dell'esercito, è stato perché sulle navi era impossibile fuggire e si era comunque costretti a combattere, mentre i rifornimenti erano assicurati a cura dello Stato. Ciò non avveniva nelle Legioni, perché il soldato romano dei tempi della Repubblica era obbligato a portare al seguito lui stesso i viveri. Queste ottimistiche considerazioni che mirano soprattutto a sminuire le difficoltà e i problemi della guerra marittima, sembrano trascurare che proprio perché l'ambiente naturale può giocare in ugual misura a favore o contro ambedue i contendenti e tende a livellare le loro condizioni di partenza, ciò che «fa la differenza» sono a maggior ragione proprio il genio e l'intuito del condottiero, e i fattori morali. Né è vero che, sul mare, allora come oggi si potevano facilmente prevedere, calcolare in anticipo le chances e le intenzioni dell'avversario, e scoprire subito le sue forze in campo. Comunque, attraverso questo considerazioni il Carrion-Nisas intende dimostrare un principio generale anch'esso discutibile e non sempre valido, una «verità al di sopra di tutte le altre»: quella che l'arte della guerra decade dalla sua sublimità e dalla sua importanza, nella misura in cui la guerra viene fatta ricorrendo a qualsivoglia tipo di macchina, anziché agli uomini. 130
Abbiamo già dimostrato a sufficienza che l'uso del termine «decadenza» applicato all'arte della guerra è alquanto improprio, perché presupporrebbe che l'arte stessa - e quindi il genio che la esprime - siano soggetti a evoluzioni e involuzioni di sostanza, anziché solo di forma e di pelle. Più correttamente si potrebbe dire che il peso crescente della macchina, del1e scienze rende l'arte della guerra più complessa e più dif-
130
ivi, p. 491.
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ficile da esercitare. Il genio artistico non scompare: diventa più raro, e ha effetti meno importanti.
Conclusione Il Carrion-Nisas è uno scrittore importante anche dal punto di vista navale, perché pone il problema delle differenze tra arte militare terrestre e marittima alla vigilia dell'introduzione della propulsione a vapore, e di conseguenza anche dei mutamenti che essa provoca nell'arte della guerra sul mare. Le affermazioni degli autori francesi prima citate sono troppo nazionaliste, troppo incentrate sugli ipotetici vantaggi dell'introduzione del vapore nel caso specifico di una grande potenza terrestre e continentale rivale dell'Inghilterra, per essere tutte accettate a scatola chiusa. Vogliamo ora rispondere brevemente a due domande: fino a che punto le differenze tanto rimarcate dal Carrion-Nisas possono essere valide per il periodo velico? e fino a che punto è condivisibile quanto scrivono in merito sull'Enciclopedia Militare 1933 i capitani di fregata Almagià e e Pittaluga, alla voce arte militare marittima? 131 Anzitutto, secondo Almagià e Pittaluga quest'ultima «si fonda, come quella terrestre, su tre capisaldi principali: 1°) l'insegnamento della storia; 2°) l'applicazione delle scienze alla guerra; 3°) la logica, il buon senso e l'esperienza». In secondo luogo dalla loro analisi si deduce che nel periodo velico non solo la strategia marittima (s'intende: quella istintiva, praticata) è esistita, ma essa (come del resto quella terrestre della Rivoluzione e di Napoleone, basata sui grandi spazi) ha avuto la massima espressione. Infatti essi affermano che nel periodo velico si ha la grande strategia che non ha alcuna limitazione nello spazio e nel tempo r... ] Vediamo così nascere arditi piani strategici come quelli del periodo nelsoniano, per l'esecuzione dei quali le squadre sono costrette ad attraversare più volte gli Oceani per combattere nel Mediterraneo, alle Antille, sulle coste della Spagna [... ] La manovra delle navi, le evoluzioni delJe squadre diventano più complicate [rispetto al periodo remico - N.d.a.] e richiedono l'applicazione di principi che sono esclusivamente di carattere marinaro [come quelli di Padre Hoste - N.d.a.]. L'elemento nautico ha ora la prevalenza su quello militare e succede il
131
Enciclopedia Militare (Cit.), Voi. I pp. 730-731. .
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contrario di ciò che era avvenuto nel periodo remico, ossia è ora un ammiraglio che comanda le navi e le truppe imbarcate su di esse ...
Anche Jomini ha chiaramente riconosciuto che, prima di effettuare sbarchi, bisogna togliere di mezzo i vasce11i da guerra nemici. E Almagià e Pittaluga collocano al periodo velico la nascita del concetto attuale di potere marittimo, che cioè può essere ottenuto solo liberando il mare dalla flotta avversaria: nel periodo velico non erano possibili le operazioni combinate con gli eserciti per la ovvia impossibilità di far convergere sullo stesso obiettivo le flotte che erano alla mercé del vento e gli eserciti che camminavano sulla terra ferma. Ebbe origine così il vero concetto moderno di potere marittimo [nostra sottolineatura - N.d.a.) e quando era necessaria l'occupazione territoriale per parte delle truppe, ad esempio di una isola o di una colonia, operavano prima le flotte ricercandosi e combattendosi tra di loro, e solo a mare reso libero sopravvenivano le navi onerarie cariche di armati che eseguivano gli sbarchi e l'occupazione. Le lotte d'oltre Oceano del secolo XVII e XVIII sono tutte di questo tipo.
Noi non saremmo così drastici, ma non è questa la sede per verificare fino a che punto gli sbarchi nel sec. XVII e XVIll si sono svolti (sempre?) in due tempi. Piuttosto ci preme ricordare quanto affermano gli stessi autori, a proposito della tattica di Nelson e dei mutamenti imposti dal vapore: dapprima le navi combattono a gruppi (guerre anglo-olandesi), poi diventa generale l'uso della linea di fila (guerre anglo-francesi) e poscia si ritorna con i principi nelsoniani al concetto della concentrazione delle proprie navi per portare la offesa su di un solo punto della flotta avversaria. Con le vele dunque l'arte militare marittima è completamente seperata da quella terrestre, ma le vediamo nuovamente riavvicinarsi nel periodo delle navi a vapore, come lo era in quello remico, per i numerosi punti di contatto di carattere logistico che, fatte le debite proporzioni, esistono tra i due mezzi di propulsione: braccia dell'uomo - potenza del vapore.
Sia le braccia dell'uomo che il vapore consentono di dirigere lanave (e la flotta) dove il comandante vuole, senza bisogno del vento: ma a parer nostro le analogie si fermano qui. Né è vero - o è sempre vero che nelle guerre anglo-olandesi non c'era ancora la linea di fila; e più che essere «superata» da quella terrestre, l'arte militare marittima in
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questo periodo ha avuto diverse modalità d'app1icazione. Il principio della concentrazione delle forze era già noto, teorizzato e applicato in campo marittimo anche prima di Nelson. Ciò che invece fa di Nelson come del resto di Napoleone - un genio, è la capacità di applicare in massimo grado questo principio ricercando decisamente la debellatio del nemico. V'è comunque da concordare pienamente con Almagià e PittaJuga sul riavvicinamento tra guerra terrestre e marittima che provoca la propulsione a vapore, e sulla loro affermazione conclusiva che «i grandi aforismi della guerra terrestre si applicano anche sul mare, e l'arte marittima considera, studia e consiglia il miglior modo di applicarli a seconda delle circostanze». Sono, quindi, le diverse circostanze e il diverso ambiente naturale a creare - in qualsivoglia periodo - le differenze tra arte mi1itare marittima e terrestre, riferite non tanto a principi, criteri generali, incidenza dei fattori spirituali e del prestigio del capo, ecc., ma alle diverse modalità di applicazione. In ultima analisi la propulsione meccanica non fa che ridurre le differenze tra modaJità applicative, anche se almeno nel secolo XIX - rende la marina più dipendente dell' esercito dal progresso delle tecnologie e della metallurgia, in una parola: più «tecnica». Ormai al tramonto del periodo velico, Bourdé e Ramatuelle ci avvicinano a questa realtà richiamando parecchi fattori clausewitziani e napoleonici. Ma, dopo il 1815, non c 'è in campo navale nessun Clausewitz e nessun ]omini a raccogliere l'eredità delle guerre del periodo napoleonico. Del vapore per il momento si intravede solo la valenza tattica, non quella strategica. Per questo quando l'ammiraglio Bouet-Wilaumez nel 1865 - cioè quando il vapore e la corazzata si sono ormai affermati scrive ancora che la strategia «non ha senso pratico» per le flotte, non dimostra il primato della tattica navale come vorrebbe il Ferrante: 132 dimostra semplicemente di non aver capito il tempo in cui vive, e quindi la storia. La Restaurazione dimentica Rodney, Suffren e Nelson ancor di più di Napoleone; anche Paixhans e gli altri che intravedono i vantaggi operativi del vapore si fermano al campo tattico. La porta del formalismo pre-nelsoniano rimane così aperta, anzi spalancata. Tant'è vero che sulla voce «tattica navale» della Grande Enciclopedie Française di fine secolo XIX si proietta ben viva e operante l'ombra di Hoste, con la persistente confusione tra evoluzioni, e segnali e tattica vera e propria. Infatti la
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E. Ferrante, la marina ... (Cit), pp. 126-127.
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definizione che vi si trova andrebbe benissimo a Hoste, ed è assai diversa - e peggiore - rispetto a quella di Ramatuelle: «la tattica navale è l'insieme delle regole (sic) che presiedono non solamente alle evoluzioni d'una armata navale o di una squadra, vale a dire al loro passaggio dall'una all'altra formazione, ma altresì a tutte le altre operazioni che questa armata e questa squadra effettuano in marcia o in combattimento». Si ammette, tuttavia, che «lo scopo della tattica navale è di esercitare una scelta ragionata nelle disposizioni da prendere sul teatro della azione per far produrre alle armi delle navi il massimo rendimento nel minimo tempo». Se è così - noi riteniamo -la tattica navale non può essere solo un insieme di regole per le evoluzioni; e si spiega anche perché il compilatore della voce precisa che «si chiama d'altra parte, nella lingua marittima, con il nome di tattica ufficiale, un volume speciale del libro dei segnali che indica le formazioni e le evoluzioni che deve compiere la squadra [...] Ne è disgraziatamente risultata una confusione di termini e di fatto. Per i più, la tattica ufficiale è tutta la tattica, e lo studio delle evoluzioni, nella loro applicazione quotidiana al servizio di squadra, ha fatto rilegare in secondo piano le operazioni vere e proprie». Dalla persistenza di vecchi, secolari topoi fonti solo di sconfitte si può dedurre che in Europa, nonostante un maggior influsso del progresso tecnico sugli armamenti navali rispetto a quelli terrestri, a metà secolo XIX la strategia navale non esiste ancora e la tattica navale è assai più anchilosata di quella terrestre. L'introduzione del vapore la mette in crisi: ma, come meglio vedremo in seguito, per lungo tempo non si sa bene come uscire dai vecchi schemi, che sopravvivono spesso inimeritatamente specie nella mentalità dei Quadri meno preparati.
CAPITOLO XVI
IL MEDITERRANEO E LA GUERRA MARITTIMA NEL PENSIERO POLITICO - MILITARE ITALIANO
Premessa Tra le domande alle quali intendiamo rispondere: come e in che misura vengono recepiti in Italia gli ammaestramenti delle guerre sul mare a partire dalla seconda metà del secolo XVill; se nel campo puramente teorico esistono scritti che esprimono peculiarità ed esigenze di carattere nazionale; fino a che punto vale per le forze marittime d'Italia l'asserto che uno strumento militare è sempre espressione di specifiche condizioni politico-sociali e geografiche di uno Stato, e dell'indole degli abitanti. Il buon giorno si vede dal mattino: quando (vds. capitolo XV) il Fioravanzo a proposito degli scrittori navali italiani antecedenti il secolo XIX accenna solo a Pantero Pantera, volente o nolente accredita un vuoto che in Italia non esiste affatto. Ciò è assai più perdonabile negli scrittori stranieri che negli scrittori italiani: perché bisognerebbe ricordare almeno il veneziano Francesco Zarnbini, che nel 1682 scrive un libro intitolato Del dominio del mare Adriatico, 1 oppure Mario Savorgnano Conte di Belgrado, che nel 1599 pubblica l'Arte militare terrestre e marittima secondo ragione et uso de' più valorosi capitani antichi e modemi. 2 Dopo quanto abbiamo detto della lessicografia marittima della prima metà del secolo XIX (vds. capitolo V) ove non si parla ancora di arte militare marittima, non è cosa da poco constatare che un secolo prima il Savorgnano parli di arte militare sia terrestre che marittima con pari dignità, aggiungendo considerazioni veramente d'avanguardia sulle analogie tra le due arti, e sulle qualità che deve possedere il Capo nei rispettivi elementi: avendo fin qui trattato degli uomini, e degli stromenti per le guerre terrestrj, segue che si dica, con l'istesso ordine, degli uni, e degli 1
2
Venezia, 1682 (senza indicazione della Casa Editrice). Venezia, Franco Franceschi 1599.
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altri per l'imprese maritime: il che si farà molto brevemente, poiché in gran parte rispondono gli apparecchi d'ambedue. Et perché in queste altre sì alcuni comandano, e alcuni obediscono, diremo, che nel Generai supremo dell'armata [navale] si desidera, oltre al valore, la scienza e l'uso della navigazione e delle guerre navali; e in esse occorrono tutte le azioni, come nelle terrestri, cioè di marciare, ritirare, alloggiare, combattere in luoghi aperti, e rinchiusi; e sì come l'un Capitano [di terra] si vale de' cavalli leggeri, e trascorritori, l'altro si serve di legni agili, e presti, chiamati dagli antichi speculatori [cioè esploratori - N.d.a.] e da' moderni, fregate. Ha l'uno uomini di grave, e di leggera armatura, così a piedi, com'a cavallo; e l'altro ha navi, galeazze, galee sottili, e fuste, che sono alla medesima sembianza; colui che in terra si trova meglio guarnito dì fanteria, che di cavalli, procura d'alloggiar su le colline, e né luoghi forti, e tiene a bada il nemico; e in mare chi ha legni pesanti, e meno agili, sta lungi da' liti, e si scosta da' porti con mezano intervallo, né lascia del tutto la traccia del nemico, né molto si accosta a lui; dove colui che ba legni più veloci, e migliori, possedendo il mare tenta una parte, e minaccia a gli altri, facendo ogni sforzo di cavarli fuori de' porti, e di allontanarli da terra, a guisa dì colui che in guerra essendo superiore di cavalleria tien la campagna e chiama a battaglia il nernìco. 3
Fin da ora, si può affermare che l'arte militare marittima italiana nel periodo esaminato è ben viva_ Lo hanno già dimostrato le opere - assimilabili a enciclopedie trattati più che a dizionari - dello Stratico, del Ballerini e del Parrilli (capitoli IV e V), dalle quali risulta ben nitida la situazione degli studi di carattere tattico e tecnico in Italia e in Europa. Di Stratico ricordiamo, oltre al suo vocabolario del 1813, la Bibliografia di marina nelle varie lingue d'Europa e sua raccolta dei titoli dei libri nelle suddette lingue i quali trattano di quest'arte (Milano 1823). Nonostante i loro meriti, lo Stratico, il Ballerini e il Parrilli - un veneto e due napoletani - sono rimasti degli sconosciuti nella letteratura navale italiana dei secoli XIX e XX, e manca tuttora una qualsivoglia analisi critica dei loro scritti. Più in generale, dobbiamo constatare che in fatto di pensiero navale italiano della prima metà del secolo XIX, a parte Giulio Rocco ci si trova di fronte a una tabula rasa, o quasi. Invano cercheremmo in un «classico» come la Storia del pensiero tattico navale del Fioravanzo un solo nome di un autore navale del periodo. A maggior ragione questi nomi non li troviamo nel Pensiero strategico navale in I-
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ivi, pp. 29-30.
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talia di Ezio Ferrante (allegato alla Rivista Marittima n. 11/1988), oppure in studi come L'Evoluzione della tattica nelle grandi battaglie da Salamina allo Jutland di Cosimo Basile (Rivista Marittima n. 2/1994) nel quale, tra l'altro, non si affronta il problema della disposizione (o meno) dell'intera flotta in un'unica linea di fila e del mantenimento (o meno) di quest'ultima ad ogni costo, che come si è visto è la maggior fonte di dispute tra i teorici navali di fine secolo XIX. Né ci si può meravigliare troppo se i due saggi critici di Enrico Rocchi L'evoluzione del pensiero italiano nella scienza della guerra («Nuova Antologia» - 1900) e di Angelo Tragni L'arte militare da Alessandro a Ohyama («Rivista Marittima» 1906) si riferiscono unicamente (così come fa il Pieri) alla componente terrestre, nena quale vedono riassunte l'arte o la scienza militare. Di ben poco aiuto possono essere anche il d ' Ayala e lo Sticca; il primo nella sua più volte citata Bibliografia Militare Italiana (Parte IV) accenna a ben pochi scrittori di cose navali (tra i quali ancor meno sono quem della Restaurazione), mentre lo Sticca dedica a quest'ultimi solo undici righe, parlando di «rifacimenti e compilazioni» come tali privi d'interesse, e storpiando Giulio Rocco in «Giulio Bono». 4 Il giudizio riduttivo dello Sticca ha fatto scuola, visto che, in merito, uno dei lavori più interessanti ci sembra tuttora quello di Gaetano Bonifacio sulla Nuova Antologia del 1948, con un titolo alquanto anomalo, che non ne rende bene i contenuti: Romanticismo politico-navale. 5 Ad esso aggiungeremmo un volumetto ben documentato e ricco di citazioni come Il problema del Mediterraneo nel Risorgimento di F. Barbieri e D. Visconti, assai poco noto forse perché uscito nell'immediato dopoguerra, cioè in un contesto internazionale non favorevole, e pensato assai prima.6 Interessante, infine, la voce Letteratura marinaresca del Risorgimento (a cura di G. Zimolo) sul Dizionario del Risorgimento Nazionale (a cura di M. Rosi), Voi. I. D'altro canto, date le circostanze (rivoluzione industriale in Italia solo agli albori; modesta consistenza delle flotte militari e mercantili; sfavorevoli premesse politiche e culturali) sarebbe troppo pretendere che i nostri autori esprimano un pensiero navale d'avanguardia, e fin da adesso dobbiamo realisticamente mettere in conto forti influssi di correnti di pensiero straniere, come del resto dimostra il testo del Ramatuelle citato nel capitolo XV.
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G. Sticca, Op. cit., pp. 222-223. «Nuova Antologia» Fase. 1776 - dicembre 1948, pp. 390-404. 6 Milano, Vallardi, 1948. 5
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SEZIONE I - Vitalia nel contesto politico-militare del Mediterraneo
Possibilità, realiz.zazioni e limiti delle due principali Marine pre-unitarie
Nel periodo considerato qualsivoglia angolatura «nazionale» del problema navale italiano deve tener conto - lo voglia o meno - di tre fattori: il predominio inglese e la rivalità anglo-franco-russa nel Mediterraneo; la preminenza dei «modelli» teorici stranieri; 1e modeste possibilità economiche e tecnologiche degli Stati italiani, che li costringevano a dipendere dall'estero - e specie dall'Inghilterra - per le soluzioni costruttive più avanzate. Fin da11e guerre della Rivoluzione, la competizione nel Mediterraneo è tale da non creare a1cun incentivo ano sviluppo di forze marittime importanti e autonome - e quindi di un pensiero navale - da parte degli Stati italiani pre-unitari. La situazione non migliora dopo il Congresso di Vienna, quando «la penisola italiana non poteva essere che un elemento passivo tra il contrasto dene competizioni franco-inglesi nel bacino occidentale ed anglo-russo-austriache nel bacino orientale». 7 In queste competizioni, come ben scrive il Silva, l'ago della bilancia è l'atteggiamento de]]'lnghilterra, potenza dall'indiscussa supremazia navale padrona di Malta, di Gibi1terra e de11e isole Ionie. Almeno fino all'inizio del 1847 l'Inghilterra è amica deil' Austria, vedendo in questo Stato un freno e un contrappeso all'espansione russa verso ovest e verso il Mediterraneo (favorita dalla crisi dell'Impero turco) e al tempo stesso, una pedina da giocare in funzione antifrancese in Italia e quindi anche nel Mediterraneo Occidentale. A partire dal 1847 si delinea però un riavvicinamento tra 1' Austria, il Governo conservatore francese del Re Luigi Filippo e 1'Impero assolutista dello Zar, in nome del comune interesse alla lotta ai movimenti costituzionali anche in Italia. Di conseguenza l'Inghilterra fino al febbraio 1848 (rivoluzione francese che spazza via il regime di Luigi Filippo), all'atteggiamento antifrancese che non le fa vedere di buon occhio l'espansione francese in Algeria iniziata nel 1830, unisce dal 1847 al febbraio 1848 un atteggiamento antiaustriaco, quindi favorevole ai movimenti costituzionali in Italia. Atteggiamento, però, che cambia di nuovo
7 Cfr., in merito, P. Silva, Il Mediterraneo dall'unità di Roma all 'Impero italiano, Milano, Ispi 1942, pp. 227-253 e F. Barbieri - D. Visconti, Op. cit., p. 73.
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a partire dal febbraio 1848, quando si tratta di impedire una rinnovata espansione francese in Italia in nome dei principi liberali e socialisti ai quali si ispira il nuovo governo repubblicano francese nato dalla rivoluzione, e quindi anche di frenare i movimenti antiaustriaci in Italia, assicurandovi comunque la sopravvivenza del predominio austriaco in prevalente funzione anti francese. In questo scenario dominato dai contrapposti interessi delle grandi potenze, appare chiaro che la dimensione principale del problema geopolitico dell'unità e indipendenza italiana non è affatto continentalista, ma è marittima e mediterranea, e va anzitutto ricercala nelle grandi linee della politica inglese nel Mediterraneo. Se senza e contro la Francia poco si può fare in campo terrestre, molto di meno si può fare - sia in campo marittimo che terrestre - senza e contro l'Inghilterra, fino a fare dell'atteggiamento inglese la chiave più o meno nascosta della situazione anche durante le guerre d'indipendenza. In questo contesto, anche in campo marittimo i due unici Stati italiani che hanno sia pur limitate possibilità di manlenere una flotta e di esercitare una politica navale con un minimo di autonomia sono sempre il Regno di Sardegna (che ha ereditato Genova dal Congresso di Vienna) e il Regno di Napoli, al quale la stessa geografia assegna una vocazione marittima. Non ci addentriamo nei particolari delle costruzioni e delle istituzioni navali dei due Stati dal 1815 al 1848, rimandando, per questo, soprattutto al libro del Randaccio e ad alcuni recenti studi sulla Rivista Marittima. 8 Sta di fatto che il Regno di Napoli - il che non può sorprendere, vista la sua posizione geografica e la vasta estensione delle sue coste dimostra una cura assai maggiore per la sua Marina ao~he sotto l'aspetto deHa propulsione vapore, cioè dell'autentica cartina da tornasole che dimostra il grado di progresso delle forze marittime del momento. Napoletana è la prima nave a vapore entrata in servizio nel Mediterraneo, il postale in legno Ferdinando I varato a Napoli il 24 giugno 1818 8 Sullo stato e lo sviluppo delle marine piemontese e napoletana si veda soprattutto C. Randaccio, Le marinerie militari italiane nei tempi moderni (1750-1850), Torino, Artero e Compagnia 1864, pp. 30-40 e 87-95; G. Galuppini, La marina del regno di Sardegna - istituzione del corpo degli ingegneri costruttori, «Rivista Marittima» n. 5/1993, pp. 61-77; A. Formicola - C. Romano, La propulsione a vapore nella Real Marina borbonica, «Rivista Marittima» n. 1/1993, pp. 91 -108; A. Manno, La Marina Sabauda dal Conte Rosso a Carlo Alberto (1388-1848), «Rivista Marittima» n. 7-8/1966, pp. 32-61. Sui risvolti marittimi , invero modesti, delle vicende italiane fino al 1848-1849 e sugli interventi delle marine francese e inglese si veda J. La Bolina, La marina nel periodo preparatorio del Risorgimento, «Rivista Marittima» n. 7/1903.
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con macchina inglese, perché al momento non vi è possibilità di produrre nel Regno macchine a vapore. Seguono parecchi anni di esitazioni dovute a oggettive difficoltà, fino a quando nel settembre 1839 ha inizio la trasformazione a vapore di due brigantini e una corvetta, che pertanto sono le prime navi da guerra a vapore entrate in servizio nella Marina napoletana. Nel 1841 viene varata la goletta Flavio Gioia, costruita dall'arsenale di Napoli e armata di 4 cannoni da 6 pollici. Nel 1843 è la volta della fregata Ercole da 1306 t, con un cannone da 117 e 5 obici da 16 cm. Tra il 1843 e il 1844 sono consegnate dalla Ditta inglese Pitcher 4 pirofregate a vapore e vela da 1264 t, con 2 cannoni e 4 obici. Nel 1844 il cantiere francese Bi net di Marsiglia consegna due postali a vapore, dei quali uno, il Miseno, viene trasformato in pirocorvetta armata con 6 obici. Infine, dal 1843 al 1846 l'arsenale di Castellammare di Stabia vara ben 4 navi da guerra a vapore (goletta Delfino; fregate Archimede, Carlo III e Sannita), che nel loro armamento hanno anche un «cannone a bomba» tipo Paixhans da 117. E per affrancare la Marina napoletana dalla dipendenza dai costosi propulsori a vapor~ ~ relativi specialisti inglesi, nel 1840 viene fondato l'opificio di Pietrarsa per la produzione di motrici a vapore, e nel 1847, sempre a Pietrarsa, una Scuola Prattica che forma ottimi specialisti. Da parte piemontese nel 1820 scende in mare a Genova il postale Eridano, destinato solo alla navigazione sul Po; dal 1834 al 1837 sono varati i due avvisi a ruote Gulnara (costruito a Londra) e lknusa (costruito a Genova con macchina inglese). Nel 1840 viene varata a Genova la pirocorvetta Tripoli; nel 1844 la pirocorvetta Malfatano, seguita nel 1847 dall'avviso a ruote Authion costruito a Londra. Alla vigilia della prima guerra d'indipendenza, la flotta sarda secondo il Randaccio è composta da 4 fregate, 2 corvette, 3 brigantini, una goletta, una nave oneraria, 1O cannoniere a vela, 2 pirocorvette e 3 avvisi a vapore, per un totale di 350 cannoni e 690 cavalli-vapore. Diversi i dati forniti dal Manno, che parla di 4 fregate, 2 corvette, 3 brigantini, 2 golette, 10 cannoniere, 2 navi da trasporto a vela, 3 avvisi vapore a ruote (Authion, Malfatano e Tripoli) e 2 piroscafi a vapore a ruote (lknusa e Gulnara). Infine, il Galuppini aggiunge il trasporto a vapore Goito (acquistato in Inghilterra nel 1846).9 Secondo il Randaccio, la propulsione a vapore è stata incrementata dal Re di Napoli anche per disporre di uno strumento di rapido int!!rvento contro le frequenti insurrezioni siciliane. Sempre secondo il Randaccio, la Marina napoletana naviga poco, ha un'amministrazione piuttosto
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A. Manno, Art. cit. (specc hio 5) e G. Galuppini , Art. r.it..
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corrotta e non cura a sufficienza lo spirito degli equipaggi e la perizia dei capitani. Vi domina un clima di apatia generale, nel quale «Sott'uffiziali e marinai sono quasi tutti illetterati, in cambio della scuola faceasi loro la predica; si volevano convertire navi e caserme in fraterie». La figura dominante della Marina sarda è l'ammiraglio Giorgio des Geneys, morto nel 1839, definito dal Randaccio «prode soldato e mediocre marinaio». Il Randaccio condanna anche il malvezzo di alcuni ufficiali di Marina piemontesi di percuotere i marinai, «che fu tra le cagioni onde i liguri si alienarono dalla milizia marittima». Sta di fatto che nonostante la modestia delle loro forze, ambedue i Regni conducono una politica navale oscillante tra atteggiamenti eccessivamente remissivi, invocazioni di aiuto allo straniero e obiettivi al di sopra delle loro effettive possibilità. 10 Mentre il Regno di Napoli aspira addirittura a Malta, cioè a uno dei capisaldi della presenza navale inglese nel Mediterraneo, anche il Regno Sardo si vorrebbe espandere nel Mediterraneo ed è particolarmente attivo - nonostante le sue forze insufficienti - nella lotta contro i corsari barbareschi. Nel 1832 le flotte piemontese e napoletana effettuano finalmente unite una dimostrazione navale contro il Bey di Tunisi, che lo induce a più miti consigli. . Nel 1825 il Governo sardo decide una spedizione punitiva della Marina sarda contro Tripoli, nella quale ufficiali e marinai piemontesi si battono valorosamente, 11 e dopo la spedizione francese contro l'Algeria nel 1830 il Piemonte mira a stabilire un'ipoteca almeno politica ed economica su Tunisi, fino a ventilare la sua occupazione. Ne è testimonianza la relazione inviata a Torino dal console sardo a Tunisi conte Filippi, che tra le proposte per mettere fine alla malafede di quel Bey e alla sua condotta arbitraria e vessatoria nei riguardi del commercio sardo, contempla, oltre al blocco navale deHa città, l'occupazione dei forti della Goulette o in alternativa l'occupazione completa della Reggenza con un corpo di 15000 uomini. Per contro, proprio nelle alterne vicende della lotta ai pirati barbareschi emergono continuamente i pesanti e spesso umilianti condizionamenti delle grandi potenze all'autonomia politica estera e navale del Piemonte, che spinge la sua dipendenza dalla politica inglese fino a chiedere in prestito all'Inghilterra delle navi, a supplicare la squadra inglese del Mediterraneo di intervenire per difendere dai pirati barbareschi le
'° F. Barbieri -
D. Visconti, Op. cii., pp. 73-85. Cfr. G. Ferrari (Teo.Col.), La spedizione della Marina Sarda a Tripoli nel 1825, «Memorie Storiche Militari» n. 1/1912. Roma. Off. Poligr. Ed.. 11
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coste della Sardegna che la marina sarda da sola non riesce a proteggere, e persino a chiedere l'autorizzazione a far battere alle proprie navi bandiera inglese, bastando questa a proteggerle: dimostrazione del meritato prestigio inglese sui mari, ma anche dello scarso senso di dignità, dello scarso spirito nazionale e dello scarso valore attribuito ai fattori morali da parte del Governo piemontese, che inaugurando una linea di tendenza della politica estera italiana destinata ad avere molto seguito, per «economia» ricorre ad altri per risolvere i problemi della propria sicurezza.
L'Italia, il Mediterraneo e l'importanza delle forze marittime nella pubblicistica coeva Nel capitolo VI abbiamo già preso in esame il pensiero di Gaetano Filangieri, un vero e autentico precursore anche in campo navale, nel quale troviamo, in nuce, molti dei motivi salienti del problema marittimo fino ai nostri giorni. Ma egli non è il solo: prima e dopo di lui, si levano al Nord come al Sud dell'Italia numerose altre voci, che pur con toni diversi tutte intendono dimostrare la necessità che l'Italia acquisti, anzi riacquisti un ruolo economico e militare ragguardevole nel Mediterraneo.12 A metà secolo XVill Antonio Genovesi, nelle sue Lezioni di economia civile, ritiene necessario far rifiorire i commerci marittimi sviluppando la marina mercantile, e nello scritto Del commercio marittimo (1754-1756) indica la causa principale della decadenza anche economica dell'Italia nella divisione dei Principi e degli Stati, che ha causato la nostra debolezza militare, marittima e terrestre. E aggiunge: «Potrebbe avere l'Italia nostra delle formidabili armate navali, e tante truppe terrestri che la facessero stimare e rispettare, nonché da11e potenze d'oltremare, che pure spesso la infestano [riferimento alle scorrerie dei pirati N.d.a.], ma delle più ragguardevoli che siano in Europa. Essa non vorrebbe sentire altro imperio che quello che natura le ha circoscritto; ma ella dovrebbe difendere il suo. Potrebbe veder rinascere in tutti i suoi angoli, le arti e le industrie, dilatarsi il commercio... ». 13 Gli fa eco un altro napoletano, l'abate Ferdinando Galiani assertore anch'egli del1a libertà dei mari, che in una lettera del 1769 a Bernardino Tanucci scrive che «se
12 Si veda, in particolare, F. Barbieri - D. Visconti, Op. cit., pp. 87-99.Sul pensiero navale del periodo si veda anche F. Botti, il pensiero navale italiano nella prima metà del secolo XIX, «Rivista Marittima» dicembre 1994, pp. 13-29. 13 ivi, pp. 41-43.
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noi avremo Tunisi sola, saremo una potenza dispotica del commercio di tutto il Levante». E anche l'ammiraglio Caracciolo nel 1791 in una lettera all' Acton sottolinea la convenienza che il Re di Napoli riprenda Malta «Emporio del Mediterraneo». Qualsiasi movimento o progetto unitario non può d'altronde prescindere dal fatto elementare - dettato dalla geografia - che l'Italia è immersa nel Mediterraneo ed è un ponte verso l'Oriente: questo ben lo considera anche Gian Francesco Galeani Napione, che nella sua «Idea di una confederazione delle Potenze d'Italia» compilata nel 1791 per incarico del Capo di Gabinetto piemontese conte di Hauteville ritiene necessario sviluppare anzitutto l'economia e il commercio interno, e «soprattutto estendere la sfera dei traffici marittimi e far rinascere l'antica potenza navale dell'Italia, segnatamente negli scali del Levante». Dal Piemonte a Napoli: altra testimonianza della comune aspirazione delle menti più dotte dell'Italia a una sua più forte presenza sul mare è quella del napoletano Matteo Galdi, che nel 1797 (quando già è nata la Repubblica Cisalpina sotto patrocinio francese) suggerisce un condominio mediterraneo - quindi anche africano - della Francia e dell'Italia, eliminando da questo mare la presenza commerciale e militare dell'Inghilterra. A tal fine, egli prevede che la libertà della Francia e dell'Italia le renderà padrone del Mediterraneo, non essendovi gelosie, ma bensì un'assoluta libertà di commercio [... ] non bisognerà opporre alle nazioni del Nord alcuna resistenza per allontanarle dal Mediterraneo; la natura da sé stessa opererà questa rivoluzione. Noi vinceremo per la maggiore facilità dei trasporti, per la maggiore sicurezza della navigazione, perché potremo offrire a minor prezzo le nostre merci ...
Dopo la conquista da parte italiana del predominio nel commercio con l'Oriente, «sarà presto il momento di penetrare nell'interno del]' Africa, di dirozzare quei popoJi barbari, e far rinascere in quelle regioni deserte, per mezzo delle nostre colonie, l'antica cultura e libertà». Naturalmente, per raggiungere questi obiettivi occorre disporre di una grande flotta ottenuta con la fusione di tutte le forze navali d'Italia, e composta da almeno 44 vascelli di linea più naviglio minore. In tal modo - prosegue il Galdi - le forze navali riunite di Francia e Italia potranno assicurare la libertà dei mari, eliminare l'egemonia inglese dal Mediterraneo e il suo monopo1io del commercio marittimo, e infine creare le condizioni per «l'apertura dello istmo di Suez e degli antichi canali dal Nilo fino al Mar Rosso, per ritornare sulla via delle Indie, alle quali i popoli mediterranei sarebbero andati in minor tempo e con maggior sicurezza».
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Questi progetti, peraltro assai significativi, fal1iscono per ragioni intuibili: gelosie interne e rivalità tra i vari Stati italiani, nessuno dei quali - a cominciare da Venezia - vuol dividere con altri i suoi obiettivi e interessi sul mare; antica propensione della Francia a vedere nell'Italia non un partner con pari dignità, ma una nazione vassalla e succube ai predominanti interessi francesi; secolare tendenza inglese a non cedere mai niente di ciò che ha conquistato, tanto più se si tratta di quelle chiavi del Mediterraneo, che sono anche le chiavi dell'Impero Inglese e del controllo politico e economico dell'Oriente. Sotto questo aspetto, il Governo inglese non segue il malaccorto consiglio di Nelson, che ritiene il possesso di Malta «una spesa enorme e inutile» facendo torto al suo genio strategico. Nelle guerre napoleoniche oltre che con la prepotenza e il miope egoismo francese, gli Stati Italiani devono fare i conti anche con i negativi riflessi economici del blocco inglese delle coste e del predominio navale inglese nel Mediterraneo, mai venuto meno. Si spiegano con queste circostanze le pagine antinglesi di Melchiorre Gioia, che già abbiamo citato (vds. capitolo VI) e quelle ancor più veementi di Vincenzo Cuoco (1804), sostenitore di un'alleanza in funzione mediterranea e antinglese a tre: Francia, Spagna e Italia. Il Cuoco - smentito dalla storia - prevede che «il vero, il solo colpo mortale per l'Inghilterra è il Risorgimento d'Italia», perché una volta riunificata l'Italia l'Inghilterra non sarà più padrona del Mediterraneo. Lo scenario in questo mare cambierà totalmente: «Non ci sarà più quella potenza che ha interesse di tener la Grecia e il Levante nell'avvilimento della barbarie; l'Egitto risorgerà. E allora quel colosso, che gl'inglesi hanno innalzato nella India, e che, malgrado la sua testa d'oro, ha i piedi di creta, quel colosso cadrà; le antiche vie del commercio si riapriranno; risorgerà l'antica industria europea ... » . Dopo il congresso di Vienna del 1815 questo humus non può essere disperso e cova sotto la cenere, acquistando nuova forza con le applicazioni terrestri e marittime del vapore e con la prospettiva dell'apertura del Canale di Suez. Negli scritti del Lippi (1820) e del Cavedalis (1844) si arriva a proporre di congiungere Tirreno e Adriatico con un canale scavato al centro dell'Italia e percorso da battelli a vapore, affiancato da un ferrovia. Nel 1822 il Viesseux mette in luce sull'Antologia di Firenze (n. 59, XX) il grande contributo che l'Italia può dare alla lotta contro i pirati barbareschi. La ripresa degli studi per il taglio dell'istmo di Suez fa auspicare al Galli nella sua opera Sull'opportunità delle strade ferrate nello Stato pontificio ( 1846) l'attuazione di questo antico progetto, che abbinando la navigazione alle ferrovie avrebbe rafforzato il ruolo geopolitico e geoeconomico dell' Italia, facendone «lo scalo e il passaggio naturale tra l'India e il Centro Europa».
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Quest'ultimo è un motivo continuamente ricorrente, oltre che nel Balbo, anche in coloro che studiano i tracciati più convenienti per le ferrovie italiane, nei quali gli elementi da collegare sono tre: porti, ferrovie e centri di produzione, tenendo sempre ben ferme le favorevoli prospettive che si aprono per l'Italia nel Mediterraneo e nel Levante, grazie a una posizione geopolitica magistralmente inquadrata nel 1839 da Terenzio Mamiani, che attribuisce le tante glorie passate d' Italia a tre fattori principali: «positura, qualità e configurazione del suolo; temperatura e varietà del clima; razze che ci vivono». Per il Mamiani la conformazione della penisola italiana, che si diparte dal centro dell'Europa continentale e si spinge in mezzo al Mediterraneo, fa dell'Italia una naturale potenza marittima, grazie alla lunghezza delle sue coste, all'abbondanza di buoni porti e a un retroterra ove si trova tutto il necessario per navigare: ben si vede che una contrada così fatta, per poco che gli abitatori suoi riescano arditi e ingegnosi, sembra ordinata appositamente per conseguire il dominio del mare in mezzo al quale si stende. Ma di più si consideri che rimpetto a lei si dispiega la felice regione dell' Atlante e della Cirenaica; che alla sua sinistra ella tocca per così dire con mano la Grecia e a non molta distanza ha l'Egitto, la Siria e l'Asia minore. E se somma parte della civiltà e deila potenza del mondo risiedeva per appunto in coteste provincie, agevole è il concepire quanto se ne dovesse avvantaggiare l'Italia, signoreggiando il Mediterraneo, e stringendo per tutte le riviere all'intorno relazioni commerciali, intellettuali e politiche. 14
Quando pensa, un po' ottimisticamente, a un retroterra che fornirebbe tutto il necessario per navigare (legno e vele?), il Mamiani non considera ancora il vapore e le ferrovie: ma questi due potenti fattori di progresso non sono assenti nella dimensione mediterranea dal pensiero di grandi figure del Risorgimento come Mazzini, Cavour e D'Azeglio. Per il genovese Mazzini l'Italia deve potenziare il suo sistema portuale e in particolare il porto di Genova, per assicurarsi «il predominio del Mediterraneo e, col taglio di Suez, in Oriente». Il Cavour trattando nel 1846 delle ferrovie in Italia prevede che la penisola italiana, naturale collegamento geografico tra Europa e Africa, una volta percorsa in tutta la sua lunghezza dalla ferrovie sarebbe diventata la via migliore per l'Oriente. Sempre nel 1846 Massimo D'Azeglio esprime idee analoghe, indicando
14
51.
T. Mamiani, Cenni sulla istoria civile d 'Italia, «Il Politecnico» 1839 (II), pp. 50-
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nell'apertura del Canale di Suez l'evento decisivo che, insieme con le ferrovie, avrebbe consentito all'Ita1ia dj riacqujstare la perduta importanza nei traffici con l'Oriente. E anche l'abate torinese Giuseppe Filippo Baruffi caldeggia insieme con il traforo del Moncenisio il taglio dell'istmo di Suez, propone che gli istmi di Panama e Suez, i Dardanelli col Bosforo, i passaggi fra il Baltico e il Mare del Nord siano considerati proprietà comune di tutte le nazioni, e intuisce anche il grande avvenire della navigazione aerea. Le idee di Vincenzo Gioberti, Cesare Balbo, Giacomo Durando e Guglielmo Pepe sul futuro ruolo dell' Italia nel Mediterraneo e sulle forze marittime, alle quali abbiamo già accennato nei capitoli XI e XII, non sono dunque un fenomeno isolato o una rottura, ma nascono in un contesto culturale assai ampio, che affonda le sue radici nel secolo precedente e denota comuni e costanti aspirazioni mediterranee degli italiani del Nord e del Sud. Si può perciò ben dire, con il Curcio, che la letteratura politica italiana del tempo «quanto ha di più pratico e di più realistico, ha espresso dalla volontà di innestare il Risorgimento politico nazionale nel più vasto quadro degli interessi europei e, in ispecie, nel quadro mediterraneo, nel quale le maggiori nazioni riflettevano esigenze e direzioni di forze». 15 Gran parte degli autori italiani guarda a Oriente, ma anche nel bacino occidentale il possesso da parte francese della Corsica genera preoccupazioni di carattere geopolitico. 11 console sardo a Livorno, amico di Pasquale Paoli, scrive che la Corsica è «la chiave del Mediterraneo, del1'Italia e del1a Barberia» e che la Francia ne vorrebbe fare «il centro del comando sopra il Mediterraneo e sopra l'Italia», mentre lo stesso Pasquale Paoli, profondamente italiano oltre che còrso, prevede che il dominio francese sulla Corsica metterà all'Italia «la briglia in bocca». Anche Pietro Verri scrive: mi pare che il destino della Corsica decida per l'Italia[ ...] Padroni dell'isola, i francesi saranno padroni del commercio di Genova e con Genova domineranno il commercio di Milano. Invaderanno la Toscana[ ... ) E poi cosa varranno più i Savoia, con i loro paesi poveri e senza industria? 11 giuoco che ha reso importante il Re di Sardegna si è il passaggio di Italia. Se la Francia ha la Corsica, egli diventa un piccolo sovrano [...] Finché la Corsica era di Genova e dei suoi montanari, formava il teatro di una piccola guerra curiosa e nulla più [ ... ] Ma ora, nelle mani della Francia, è una posizione che decide dell'equilibrio della Italia.
15
C. Curcio, Ideali mediterranei nel Risorgimento, p. 49.
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In questo rigoglio persino eccessivo e a volte fin troppo futuristico di idee, progetti, fermenti, spicca la voce stonata di Niccolò Tommaseo, che nonostante la sua origine dalmata e la sua fonnazione culturale veneta, con un tipico approccio «continentalista» ancora nel 1832 pensava a un allargamento della lelleratura «marittima» come a una minaccia, e considerava una specie di attività inferiore il commercio e la navigazione. «La letteratura marittima egli scrive - diventa uguale e malinconica come un deserto, se l'affetto e il pensiero dell'uomo non le dia grazia e varietà». E' il Tommaseo (un autore) per il quale il mare significativa solitudine, soli cocenti, venti rabbiosi, maree infernali, borracce tediose, porti disabitati, vita di rischio inglorioso, avventure monotone [ ... ] Non fu certo pratico spirito di avventura ma estetismo di edonista ozioso a suggerire, sempre al Tommaseo, le seguenti affermazioni: «Tutte le magnificenze della ricchezza commerciale non ispirano un alito di quell' affetto che mette la vista di un frammento d'arte; né una selva di navi mercantili dice all'anima tanto quanto una colonna o una statua».16
Ma quando nel Tommaseo anziché il letterato in odore di vuota arcadia parla il patriota e l'apostolo della riscossa nazionale, il suo atteggiamento è diametralmente opposto, fino a fargli esclamare nel 1848: «in tutte le città marittime, alla milizia marittima si dia cura; la forza navale con ogni sussidio va ampliata. Solo il commercio marittimo, dalle debite forze difeso, può fare all'Italia men gravi i danni che il commercio terrestre viene ad ogni istanze soffrendo». 17
SEZIONE II - Il potere marittimo negli scritti di Giulio Rocco e di Giuseppe Cridis
Lineamenti generali del pensiero di Giulio Rocco ( 1814-18 I 6)
Pur essendo la figura dominante del pensiero navale italiano della prima metà del secolo XIX, Giulio Rocco, napoletano, è stato riesumato per breve tempo nel 1911 - in significativa coincidenza con la guerra di Libia - per poi ricadere in un immeritato oblìo, forse perché oscurato da
16 G.
17
Bonifacio, Ari. cit., pp. 392. ivi. p. 399.
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Mahan nonostante l'angolatura non solo napoletana, ma prettamente italiana, mediterranea e nazionale del suo pensiero. L'Enciclopedia Militare del 1933 non lo cita nemmeno; tra le due guerre mondiali l'unico autore italiano a ricordare la sua opera e le circostanze in cui è nata - senza peraltro affrontarne l'analisi critica - è stato Alberto Lumbroso nel suo citato libro Napoleone e il Mediterraneo; anche il Bonifacio non ne fa cenno. Solo in tempi assai recenti il Brauzzi e il Ferrante gli hanno dedicato dei brevi saggi, ma a parer nostro non sempre colgono i tratti salienti, i motivi ispiratori delle sue teorie, che non possono essere presentate come semplice esposizione delle ragioni che fanno ritenere già allora di importanza fondamentale il potere marittimo. 18 Educato nel Collegio di Marina spagnolo di Napoli e ufficia1e della marina spagnola fino al 1813, Giulio Rocco combattendo la superiore flotta inglese ha modo di provare sulla propria pelle che cosa significa essere inferiori sul mare e non essere in grado - come il Regno di Napoli fino al 1815 - di difendere efficacemente le proprie coste. La sua opera principale, le Riflessioni sul potere marittimo del 1814, 19 nasce da questo humus di carattere morale, al quale si aggiunge la vasta esperienza amministrativa da lui maturata in incarichi di grande rilievo: ciò gli consente di fare del suo libro non un trattato teorico, masoprattutto un esame organico e equilibrato dei provvedimenti e delle modalità amministrative da adottare nei vari settori per gettare le basi di una futura, efficiente Marina napoletana. Il suo orizzonte intende essere anzitutto napoletano, con scarsissimo spazio dedicato all' exemplum historicum, alle passate glorie d'Italia; non parla mai delle Repubbliche marinare, e il suo sguardo è rivolto all'attualità e al futuro del Meridione sul mare, con larga parte dedicata ai problemi del commercio marittimo. Dunque il suo è un intento pratico e non speculativo, nel quale a dominare è la realtà del momento. Da un punto di vista strettamente teorico, nelle grandi linee G.R. non dice niente di nuovo. Troviamo già in Richelieu e nel marchese di Santa Cruz (vds. capitolo XV) riflessioni analoghe alle sue; e per altro verso, egli si riallaccia - pur senza nominarlo - al Filangieri, inserendosi in una tradizione marinara del pensiero militare napoletano già esistente.
18 A. Brauzzi, Un precursore italiano del Mahan, «Rivista Marittima» n. l/1972, pp. 61 -74; E. Ferrante, Giulio Rocco e le sue riflessioni sul potere marittimo, «Rivista Marittima» n. 5/1981, pp. 45-50. 19 Napoli, Trani 1814 (noi ci riferiamo alla ristampa 1911 a cura della Lega Navale Italiana, con prefazione dell' Amm. Bettòlo).
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Nel «messaggio al lettore», nel «discorso preliminare» che precedono l'opera e nella «conchiusione» troviamo condensata la parte più propriamente teorica delle Riflessioni sul potere marittimo, che si aprono con la prima definizione di potere marittimo che si conosca in ltaJia e forse all' estero, inimeritatamente ignorata da nomi illustri come il Mahan e il Bonamico. Essa è «nell'ordine politico una forza somma risultante da quella di una ben ordinata Marina Militare e di una numerosa Marina di Commercio. Sono questi i suoi soli elementi, i quali esercitando tra di loro una reciproca influenza concorrono alla composizione di quel prodotto, i cui irresistibili effetti sono del pari noti all'uomo speculativo, e alla massa delle Nazioni».20 L'accrescimento di una delle due componenti non può aver luogo senza quello deH'altra; comunque la Marina mercantile è fondamentale sempre, perché «con maggiore facilità può darsi una marina mercantile senza quella da guerra, che non questa senza di quella». Il potere marittimo è finalizzato alla conquista e al mantenimento del dominio del mare: «l'opinione dei grandi uomini asserisce, e il fatto dimostra come prove di evidenza, che colui il quale ha il dominio de' mari, necessariamente signoreggia». È questa - prosegue G.R. - una massima così vera, e così importante, che il signor Raynal è giunto a dire delle flotte: «esse prepareranno le rivoluzioni, esse guideranno i destini de' popoli, esse saranno la leva del mondo».2 1 L'inevitabile «modello» inglese viene visto da G .R. - come tanti altri autori italiani del periodo - più in negativo che in positivo. Accanto alla tenacia, al valore, alla costanza, alla continuità di indirizzi e al senso pratico con i quali l'Inghilterra è stata in grado di approntare una flotta sempre più potente e di trarne il massimo rendimento impegnandola nell'economica difesa degli interessi nazionali, vi è la disapprovazione per la ben nota tendenza dell'Inghilterra ad appropriarsi nel suo esclusivo interesse di un patrimonio - il mare e i relativi traffici - che invece dovrebbe essere di tutti. Siamo nel 1914, e senza dubbio G.R. si riferisce a1l'azione della Royal Navy contro l'Europa continentale controllata dalla Francia, quando osserva che, avendo potuto constatare nel corso dei suoi viaggi per mare, «gli insulti, le soperchierie e le depredazioni fatte alla fortuna pubblica e privata delle Nazioni» dalle flotte, forse sarebbe meglio, per il genere umano, che l'arte del navigare dovesse ancora nascere: ma dal momento che essa esiste,
20 ivi,
21
p. 1. ivi, p. 193.
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si rendono indispensabili a tutti i popoli bagnati dall'Oceano e da' suoi differenti golfi, delle forze marittime per mantenere principalmente la sicurezza delle proprie coste. Né è sufficiente di essere forte abbastanza da non temere in essa delle conquiste; sono altresì necessari i mezzi per allontanare ogni nemico e le sue scorrerie, perché i loro abitatori possano seminare e raccogliere tranquillamente; e anche perché gli individui delle città marittime non corrano il rischio di essere schiacciati sotto i di loro tetti. La propria conservazione, adunque, la di cui voce s' innalza imperiosamente al di sopra di ogni altro riguardo, ci prescrive di preparare delle forze marittime.22 Esse hanno anche una funzione dissuasiva, perché nella pace l'apparenza di una flotta pronta a mettere alla vela si impone in modo, che ognuno è tenuto a serie precauzioni se mai voglia provocare la guerra; in questa poi tale apparenza si rende del pari molto imponente; perché le diversioni e i danni, i quali può cagionare, non sono ristretti a limiti facili a prevedersi, onde prevenirli; né per qualunque precauzione si adoperi, può mai conseguirsi lo scopo della propria sicurezza in tutta la estensione, ogni qualvolta il nemico conduce le sue operazioni con attività, ed accorgimento.23
Una Marina inferiore ha pur sempre buone chances, perché basta che si profili la possibilità di ricevere dei danni da parte delle navi nemiche, per paralizzare o rallentare il traffico mercantile. Comunque le forze marittime non vanno impiegate o arrischiate, se non quando si può ottenere un vantaggio considerevole. Non si deve attaccare frontalmente le forze nemiche, se esse sono superiori o se non si dispone dei mezzi per mettere rapidamente rimedio alle perdite e ai danni, che soffre anche il vincitore. Più in generale nelle imprese marittime bisogna ponderare con somma avvedutezza le proprie circostanze e quelle del nemico sotto di ogni aspetto; e non già sotto quello della sola forza [ ... ] E' pure necessario il riflettere, che le azioni sono per lo più decisive; e calcolando i danni, che gli elementi possono produrre, ed il ritardo, che può risultarne nel piano generale delle operazioni, non alienare giammai il pensiero dallo scopo principale delle medesime;
22 23
ivi, pp. 3-4. ivi, pp. 89-90.
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infine combinar sempre l'onore delle armi cogl'interessi dello Stato_24
Giustificazione della tradizionale prudenza degli ammiraglio franco-spagnoli? A tal proposito G.R. ritiene ingiusto attribuire «il totale decadimento delle forze marittime pei porti principali d'Europa» provocato dalle sconfitte delle Marine spagnola e francese (siamo sempre nel 1814) solo all'imperizia dei comandanti: quando con impanialità si vogliano attribuire gli effetti alle di loro vere ragioni si riconoscerà, che un tale decadimento è derivato soprattutto dal non considerare le osservazioni medesime !cioè dal non aver valutato bene, sotto tutti gli aspetti, la convenienza o meno dello scontro con il nemico - N.d.a.], e dall'aver impiegato talvolta nelle rispettive operazioni più orgoglio, che metodo. L' accorto Segretario fiorentino [Machiavelli, più volte citato da G.R. N.d.a_] ha dimostrato che una serie continuata di funesti avvenimenti si deve sempre alla imperfezione del sistema.25
Per la verità G.R. in fatto di prudenza e pericoli provenienti del mare esagera, fino a sostenere la necessità che, dopo il perfezionamento del cannone e del mortaio, le future città marinare siano costruite lontano dalla costa e fuori portata da queste armi, anche se «questa disposizione cagiona qualche incomodo al traffico marittimo». Non si tratta solo di difendere le coste e le città dall'offesa proveniente dal mare: si deve soprattutto proteggere con sufficienti forze marittime la propria navigazione e «reprimere il dispotismo de' mari», assicurando l'indipendenza della navigazione. Come già per il Filangieri, anche per G.R. queslo è un principio fondamentale, perché «poggia sulla equità naturale, la di cui espressione generale è il pubblico bene, ed il comune interesse; né havvi per lo opposto un dominio più ingiusto e più mortifero, quanto l'assoluta sovranità dei mari, che vieti questa libertà di navigazione». Evidente, in questo severo giudizio, il riferimento all'Inghilterra: tutti abbiamo diritto di esercitare liberamente i traffici marittimi, «pel cui mezzo, giusta le espressioni del Signor Raynal, si mantiene fra i popoli del Continente e dell'Oceano una facile comunicazione, un cambio delle produzioni del di loro suolo, e della loro industria; e quella introduzione, ed e-
24
25
ivi, pp. 90-91. ivi, p. 91.
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strazione del bisognevole e del superfluo, che ha per iscopo l'utilità generale».26 Ne consegue che i popoli marittimi devono estendere per quanto possibile la loro navigazione, «ed evitare che per propria dappocaggine si concentri in un solo punto del Globo [altro riferimento all'Inghilterra - N.d.a.], in guisa che possansi ripetersi allo stesso riguardo le parole che l'Istoria rivolge al commercio fenicio, quando dice omnes naves maris, et nautae earum fuerunt in populo negotiationis tuae». E' vero che le potenze minori spesso non sono in grado di scegliere tra la guerra e la pace e vengono trascinate dalle grandi potenze nei loro conflitti, ma in tal caso quelle prive affatto di proprie forze debbono servire in modo del tutto passivo gli alleati, che sono alla testa degli affari, e vengono costrette di affidare ai medesimi la propria difesa; laddove avendo de' mezzi da ciò fare, e degli altri, se possibile, onde cooperare cogli stessi alleati al felice esito delle operazioni, possono meglio badare alla propria salvezza, ed ottenere dei vantaggi nelle vicende, che presenti la guerra, oltre di quei, che hanno a sperarsi nei trattati di pace.27
Un altro argomento che occupa una parte cospicua della riflessione di G.R. è l'approntamento delle forze navali in stretta connessione e in armonia con la politica interna ed estera e con 1'economia e la finanza. In linea generale, egli ritiene che una Marina non deve riguardarsi come ogni altra forza militare, il di cui potere, e modo di agire dipendono soltanto da un piano di disciplina, che la regola in tempo di pace e la muove in tempo di guerra. La forza marittima ha di bisogno nel primo stato della più accorta politica onde promuovere e ravvivare i principi da' quali deriva la sua identità. Il danaro, la disciplina e la volontà dei Capi possono formare, ed accrescere un'Armata di terra. Il commercio e l'industria di mare sono i soli mezzi da sostenere e ingrandire la Marina. Quale differenza!
Affermazione non condivisibile, perché - come osserva Jomini dal canto loro le forze terrestri hanno bisogno di una politica militare lungimirante che, in pace, crei le reali premesse per la loro entrata in
26
ivi, p. 5.
27
ivi, pp. 7-8.
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guerra in buone condizioni di efficienza: quindi nemmeno le forze terrestri si improvvisano. Si deve però convenire che l' indispensabile sviluppo preliminare della marina mercantile ha tempi assai lunghi; e anche se G.R. calca troppo la mano sulle differenze, non ha tutti i torti quando riafferma l'importanza preliminare del commercio marittimo, fermo restando che la disciplina e la volontà dei Capi pesano, e come, anche sull'efficienza delle forze marittime! Così come, G.R. ha più torto che ragione ad attribuire alla preparazione delle forze marittime delle peculiarità, che riguardano piuttosto la preparazione militare in generale: le forze marittime hanno un altro carattere distintivo, cioè quello, che il di loro mantenimento non ammette mediocrità in qualsivoglia tempo: poiché i bisogni della navigazione sono sempre mai gli stessi così in pace, come in guerra. Questa d'altronde può scoppiare repentinamente, e non avendo de' mezzi pronti da sostenersi , il commercio marittimo (la cui protezione deve essere il primo oggetto della Marina Militare) può soffrire dei danni considerabili; ed intanto finché giungasi ad essere in istato di far fronte alle aggressioni, il nemico ha di già ottenuti quelli vantaggi, che nella guerra di mare segnatamente si presentano all'apertura della campag na.28
Che cosa avviene - noi osserviamo - se le forze terrestri non sono pronte a respingere un'aggressione improvvisa? Parecchi autori terrestri, si sono preoccupati proprio di questo ... e son giunti ad analoghe conclusioni sulla necessità di avere un buon nerbo di forze sempre pronte anche in tempo di pace, sotto la cui protezione mobilitare all 'occorrenza le rimanenti forze terrestri. Rispecchiano, invece, le reali peculiarità delle forze marittime le numerose considerazioni - spesso ancora attuali - riguardo al loro approntamento, che qui riassumiamo: - il progresso di una Marina militare è sempre assai lento, e va sostenuto sviluppando armonicamente anche i fattori che lo sostengono: se ciò non avviene, lo sviluppo de11a Marina non sarà durevole, «e tutto al più potrà ricevere uno splendore passeggiero, che in ultima analisi servirà di aggravio allo Stato, anzi che di vantaggio»;29 - in particolare, tre sono i fattori che possono ritardarlo e ostacolarlo: l le spese considerevoli che comporta la costruzione e il manteni0
)
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ivi, p. 1% .
29
ivi, pp. 200-201.
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mento in attività del naviglio; 2 °) la necessità di affidare il comando delle navi da guerra a uomini ben preparati e con lunga esperienza di navigazione [che - è sottinteso - sono difficili da trovare - N.d.a.]; 3°) lo sviluppo parallelo della marina mercantile, «per somministrare le ciurme degli stessi legni, e facilitare altre operazioni, che riguardano il di loro mantenimento» ;30 - una Marina militare è necessariamente assai costosa, quindi occorre essere in grado di trarne un ragionevole profitto: «non v' ha certamente peggior sistema di quello di spendere, ancorché poco, per nulla ottenere». Ciò che a seconda dei casi può provocare economie o sprechi, è «la condotta della parte politica, ovvero l'ordine delle sue operazioni»; - è necessario scegliere accuratamente gli ufficiali dei corpi amministrativi, e stabilire i principi più opportuni per prevenire le frodi e favorire le economk; - «la Marina più che tutte le altre istituzioni sorge o decade giusta i principi sani. o viziosi della Polizia ed Economia marittima, che si praticano, qualora non vi siano degli ostacoli fisici o morali derivanti dalla natura del sito, o da quella degli abitanti, de' quali impedimenti nulla abbiamo a temere dopo quanto si è da noi dimostrato. Abbiamo a gloriarci di essere Fenici e Greci in origine»;31 - «lo stabilimento e la prosperità delle forze marittime, non bisogna attribuirli esclusivamente alle istituzioni più prossime, che si presentano a prima vista». G.R. applica al caso concreto del Regno di Napoli le considerazioni generali prima esposte, per dimostrare anzitutto l'utilità - evidentemente non da tutti riconosciuta - di una buona Marina da guerra. Al momento le poche forze marittime, le quali possonsi sostenere dal Regno, non sono tali da ispirare gelosia alcuna [da parte delle grandi Potenze - N.d.a.]; né dall'altra banda la di loro abolizione lo esenterebbe dal prendere parte ne11e altrui querele, siccome alcuni suppongono: anzi potrebbe renderlo soggetto a condizioni poco favorevoli a' suoi interessi, egualmente che al suo onore.
Data la sua posizione geografica, il Regno di Napoli sarà talvolta costretto a prendere parte ai conflitti tra grandi potenze: tuttavia la disponibilità di forze navali potrà consentirgJi di rimanere neutrale, quando ragioni di distanza o di interesse renderanno difficile o oneroso per le
30
31
ivi, p. 57. i vi, pp. 13-14.
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potenze belligeranti costringerlo a entrare in guerra. Inoltre le forze navali del Regno potrebbero diventare ago un prezioso della bilancia, nel caso che nessuna delle grandi Marine sia sicura di ottenere l'aiuto delle sue forze. 32 A questo punto G.R. condanna «un sistema del tutto passivo che spande bensì nel cuore dei privati cittadini una mortale indifferenza per gli affari di pubblico interesse e distrugge perfino lo spirito nazionale, che seco trascina il totale decadimento della propria fortuna». A suo giudizio, la situazione economica e le altre circostanze del Regno «non sono di così poco rilievo da adottare un sistema politico del tutto passivo»; l'esempio è dato dalla Danimarca e dalla Svezia, che pur con ridotto numero di abitanti e scarso reddito nazionale mantengono cospicue forze di terra e di mare. Eppure, per la difesa del Regno vale la considerazione generale che, sul continente europeo, «spesso trovansi delle isole, o de' punti, nei quali le forze marittime (anche composte di piccoli navigli) riunite a quelle di terra, e condotte coll'arte e colla forza di animo necessarie, arrestano i passi di ogni poderoso conquistatore, esauriscono di mano in mano i di lui mezzi, e pongono talvolta il termine ai di lui trionfi». 33 Questo vale sia per le isole che possono proteggere il Golfo di Napoli e la capitale, sia per le penisole del Regno: è dunque possibile individuare dei punti di appoggio, che consentano al Regno di «garantire i suoi diritti, e non ondeggiare a voglia altrui»,34 garantendo nel contempo sia per la marina da guerra che per quella mercantile un sicuro rifugio in caso di tempeste, e la possibilità di sfuggire agli attacchi del nemico. I grandi obiettivi della politica navale napoletana debbono essere: a) la piena libertà della pesca, incoraggiando in particolare la pesca d'altura e quella del corallo; b) la protezione del traffico marittimo costiero, da assegnare in esclusiva alla bandiera nazionale. Quest' ultima deve inoltre avere la preferenza nei trasporti verso l'estero dei prodotti del Regno; c) il perfezionamento delle costruzioni marittime e delle arti connesse, e la cura per la preparazione dei capitani, la disciplina della marineria e il perfetto armamento delle navi [obiettivo che mal si concilia con la possibilità di navigare poco dianzi sostenuta - N.d.a.]; d) l'istituzione di porti franchi; e) l'incoraggiamento del commercio con il Levante, «il quale è quello, che a noi più conviene per la prosperità della Marina mercantile, e della ricchezza nazionale, senza metterci a rischio di dissenzioni politiche» (tanto più
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ivi, p. 8. ivi, p. 4. 34 ivi. p. 8.
33
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che al momento - ritiene a torto G.R. - l'Inghilterra non è gran che interessata a questo commercio); t) la formazione di buoni equipaggi per la marina da guerra, alla quale conduce appunto il predetto commercio; g) la istituzione di un Banco o Compagnia «per Ja speciale sicurtà della propria bandiera», e per concedere prestiti ai capitani e padroni di navi. A tal fine, il vertice della Marina da guerra dovrebbe essere suddiviso in due parti: la politica, di competenza del Ministro, «che in sé comprende i pensieri di tutte le operazioni annesse alle vedute politiche dello Stato», e ha per oggetto l'azione; la economica, facente capo a «un Consesso di uomini intelligenti del mestiere, prescelti con la massima avvedutezza» (Consiglio Marittimo), il quale ha per oggetto la preparazione, cioè l'amministrazione, la polizia marittima, la disciplina, la leva, le costruzioni, gli armamenti ecc .. Peraltro l'esecuzione degli ordini relativi alla preparazione delle forze dovrebbe essere affidata a un solo ufficiale con tutti i poteri necessari [e la parte più propriamente operativa e addestrati va, a chi verrebbe affidata? - N.d.a_]. Le forze marittime non dovrebbero essere concentrate in un solo porto, ma è conveniente ripartirle in più basi, sia pur tenendo presente la necessità di riunirle in ogni momento con facilità e ovunque sia necessario: «il sistema proposto tende a proteggere, conservare, e spandere sulle coste la Polizia, e Disciplina marittima. Le Capitali in generale, e quella del Regno in particolare debbono escludersi per Ripartimenti del1a Marina Militare; poiché ne risultano tristi conseguenze di molto rilievo».35 I punti d'appoggio proposti da G.R. per la flotta sono: Castellamare, dove i lavori sono già cominciati, che dovrebbe dare asilo alle forze destinate a difendere il Golfo di Napoli ed impedire per quanto possibile la «crociera» del nemico nelle sue vicinanze; Baia, dove dovrebbe essere costruito un arsenale risanando il terreno paludoso; un porto militare nel Golfo di Taranto, «il quale potrebbe essere pel Regno di sommo vantaggio sotto ogni aspetto». Riguardo al1e costruzioni navali, secondo G.R. non bisogna guardare solo al presente ma tenersi in misura anche di sfruttare le contingenze future; 36 si deve comunque tener presente che la Marina militare deve proteggere Je coste e il traffico marittimo «fin dove glie lo permettono i propri mezzi». A questa definizione per la verità piuttosto generica dei compiti, dovrebbero corrispondere una flottiglia, e de' legni proporzionati pel corso», i quali servirebbero «a prevenire soprattutto gl'insulti, e
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ivi, p. 200. ivi, p. 195.
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le depredazioni de' barbereschi, contro la malafede dei quali bisogna essere sempre guardinghi». 37 E' infatti necessario che la bandiera napoletana sia temuta dai corsari e a Tripoli, in modo che le loro navi difficilmente possano salpare: altrimenti dovendo poco contarsi sulla buona fede dei trattamenti (siccome più volte abbiamo detto) e non volendo incorrere in mali maggiori, si cade nella necessità di dover permettere ai propri legni d'inalberare bandiera estera (sic). Da ciò seguono del pari gravi pregiudizi agl'interessi della nazione, atteso che tali vantaggi non si ottengono senza grande dispendio; ma deve prendersi in considerazione soprattutto, che il navigare sotto di altra bandiera sempre fa acquistare per la medesima una speciale propensione alla marineria, che ne usa, e lo spirito nazionale di molto diminuisce, se interamente non si distrugge. 38
Se poi si tengono presenti le relazioni politiche che il Regno dovrà o potrà stabilire con altri Paesi per la tutela dei suoi interessi, occorre anche un sia pur limitato numero di navi maggiori di linea, cosa che peraltro non riuscirà troppo onerosa economicamente quando i movimenti di tali navi vengano riguardati come un oggetto del tutto secondario, ed abbiano luogo soltanto allorché siasi nel bisogno indispensabile di secondare le vedute delle altre potenze preponderanti.39
Sì alle grandi navi dunque: ma, per ragioni di economia, queste devono navigare poco e solo quando lo vogliono le potenze maggiori. Questo escamotage di dubbia validità, che in contraddizione con altre affermazioni presuppone equipaggi poco addestrati e la rinuncia a una politica navale autonoma, viene rafforzato dal Rocco con considerazioni di carattere più propriamente tecnico e strategico. A suo giudizio, non è corretto sostenere che per la difesa delle coste e per la guerriglia contro il traffico marittimo dei nemici più potenti basti una flottiglia e del naviglio da corsa, perché queste forze diventano insufficienti quando non si possa in modo veruno conservare la propria quiete nei diversi avvenimenti di
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ivi, p. 194. ivi, p. 94. 39 ivi, p. 195. 38
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guerra che sopraggiungono alle altre nazioni più potenti, e delle quali per consenso debbono partecipare le altre inferiori.40
Seguono due densi capitoli di interessanti anche se poco originali considerazioni, sulle caratteristiche più convenienti del naviglio per la Marina napoletana, sul ruolo che ciascun tipo di nave deve assolvere, sul tipo e calibro delle artiglierie, sulla velatura ecc .. Ricordiamo l'accenno alla necessità di costruire «lance cannoniere» armate di un solo pezzo da 24 o da 18, aventi il compito di «allontanare dal lido le grandi navi da guerra». Esse dovrebbero inoltre imbarcare un mortaio, ed essere predisposte per l'imbarco di un fornello, «onde far uso delle palle roventi, i funesti effetti delle quali sono i soli, che le navi da guerra paventano fortemente». G.R. accenna a tal proposito all'invenzione del capitano del genio danese Shumaker, che avrebbe studiato e starebbe sperimentando «una nuova maniera di lanciare bombe a razzi senza mortaio».4 1 E raccomanda di procurarsi maggiori informazioni in merito, perché la predetta invenzione «sarebbe della più grande utilità per la salvezza delle città marittime».4 2 Altri tre capitoli sono dedicati alla parte amministrativa e logistica (con particolare riguardo al problema degli appalti), con una serie di criteri e di suggerimenti pratici che denotano, oltre che la grande esperienza diretta di G.R. nel settore, la necessità quasi ossessiva di prevenire le frodi e gli abusi che evidentemente al tempo si verificano. Elenchiamo alcune delle massime più pregnanti: - il grado di perfezione del sistema aquninistrativo è tanto più soddisfacente, quanto meno esso fa affidamento sull'integrità degli amministratori; - il conteggio e la dimostrazione delle spese devono essere snellite, perché «una distribuzione molto minuta delle stesse parti, e la molteplicità dei documenti, inviluppano [cioè complicano -N.d.a.] e ritardano le operazioni relative»;43 - di conseguenza, bisogna considerare e control1are attentamente soltanto i movimenti principali. I documenti giustificativi devono riguardare solo quest'ultimi, perché non è conveniente «di vigilare in grado sommo su di alcuni articoli di poco o di nessun valore»; - nessuna delle operazioni amministrative, e ancor meno la totalità di esse, deve essere portata a termine da un solo uomo;
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ivi, p. 95. ivi, p. 107. 4 2 ivi, p. 108. 43 ivi, p. 136. 41
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- la direzione del corpo amministrativo marittimo dovrebbe andare a «un uffiziale militare, che abbia frequentato il corso dei mari, gli arsenali, i cantieri, e che possegga dei talenti e de1Ie cognizioni amministrative».44 Egli si troverebbe molto avvantaggiato rispetto ad altri, che conoscono solo la parte amministrativa; - il corpo degli amministratori deve essere interamente separato da quello degli «uffiziali militari». Ciò crea «una onorata emulazione», e «produce un ordine migliore nel disimpegno degli interessi dello Stato»; - «la Parte militare non deve soggettarsi ali ' Amministrativa ma ali' opposto; e tutti i vantaggi di economia sono da rigettarsi, quando possono nuocere al buon andamento de1Ia prima, che per la sua indole è il centro, a cui tutte le altre devono essere dirette» ;45 - l'acquisto, la ricezione e il consumo del materiale devono essere eseguiti da persone diverse; - tutte le operazioni amministrative devono essere esaminate nel Consiglio Marittimo; - le esigenze di acquisto e gli appalti da indfre devono figurare in pubblici atti; - i contratti, stipulati da1lo stesso Consiglio, devono essere preceduti dalle considerazioni, che hanno consigliato la loro stipulazione; - un Consesso nominato dal Consiglio deve presiedere al ricevimento dei materiali e alla loro consegna alle persone che sovraintendono ai depositi. Questo, allo scopo di evitare i due tipi di frode più frequenti (mancata consegna da parte del venditore di una parte dei generi acquistata e pagati dalla Marina; consegna di generi di cattiva qualità); - le uscite devono essere autorizzate dal responsabile dei depositi e da colui che effettua il consumo; - i dipartimenti rendono i conti ogni mese al Consiglio, che alla fine di ogni anno trasmette al Ministro il conto generale. A sua volta il Ministro lo trasmette alla Corte dei Conti. Il lungo esame che G.R. compie del sistema degli appalti ruota intorno a un motivo centrale: essi non sono convenienti per l' Amministrazione della marina, perché nel contrasto insanabile tra gli interessi dello Stato e quelli dell'appaltatore, questi ultimi finiscono quasi sempre per avere la meglio, al di là dei vari accorgimenti e delle regole e dei controlli. Se a volte con questo sistema si ottiene qualche economia, «essa pog-
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ivi, p. 139. ivi, p. 140.
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gia sovente se non sempre, sulla negligenza della bontà del servizio, al quale inconveniente con difficoltà può presentarsi argine da per ogni dove».46 Tanto più che il controllo amministrativo in questo settore ha dei limiti, oltre i quali esso diventa troppo oneroso per la gran quantità di personale che bisogna impiegare, e per la complicazione del servizio che ne deriva. In definitiva può essere necessario ricorrere agli appalti «nella complicazione, e nella urgenza degli affari, s} per dinùnuire le cure del Governo, che per regolare gl'interessi del medesimo su di basi più sicure e determinate: le quali considerazioni sono d'importanza somma nella posizione enunciata. Ma la complicazione, e l'urgenza degli affari non possono determinare al1a preferenza per un sistema in generale».47 Si tratta inoltre di evitare i subappalti, «siccome spesso accade con gran discapito della sicurezza, e bontà del servizio; «poiché cresce in questa guisa il numero delle persone che debbono lavorare».48 Questo vale in particolar modo per il vettovagliamento, perché la buona qualità del vitto riguarda tanto l'esistenza, quanto la conservazione dell'individuo, e procura allo Stato la affezione di tutti coloro, che lo servono. Quindi è da evitarsi, che la sorgente di tali importanti proprietà sia in qualche maniera in opposizione coll'interesse particolare di un appaltatore. Tutte le diligenze, che si possono impiegare ad oggetto di prevenire gli abusi in questa parte, non sono sufficienti, secondo dimostra l'esperienza. D'altronde non v'ha dubbio, che l'affezione dei suoi difensori giovi allo Stato molto più che qualche risparmio, se pure questo si giunge ad ottenere. 49
G.R. si dichiara pertanto favorevole all'acquisto centralizzato dei generi in economia e alla distribuzione del grano o delle farine a cura dello Stato «abbegnacché l'ammassamento del pane o del biscotto facciasi talvolta per appalto»; è inoltre necessario che «lo Stato impieghi tutte le sue cure per riunire, e ben ordinare i propri magazzini, onde vigilare agevolmente su di ogni sorta di disordine». Con questi accorgimenti - precisa G.R. - non si evitano del tutto le irregolarità, ma almeno esse non sono più il prodotto inevitabile di un sistema, e diventano un fatto accidentale molto più facile da individuare e quindi da prevenire.
ivi, p. 153. ivi, p. 152. 48 ivi, pp. 159-160. 49 ivi. p. 161. 46 47
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I grandi acquisti di vettovaglie, il loro deposito negli arsenali, la loro consegna alle navi da guerra, il vettovagliamento del personale che presta servizio a terra devono essere fatti nei grandi porti a cura di funzionari del Governo; sarebbe vantaggioso ricorrere ad appaltatori solo per la conservazione dei viveri a bordo e per la loro distribuzione agli equipaggi, perché in tal modo essi risponderebbero direttamente e senza equivoci di tutti gli inconvenienti e di tutte le avarie. Riguardo alle costruzioni navali G.R. ritiene che specie per il Regno di Napoli il sistema degli appalti a cantieri privati sia più che mai da escludere, perché «mancano i mezzi per istabilire col dovuto accorgimento i contratti all'uopo». Se ad esso si ricorre in talune grandi nazioni marittime come la Gran Bretagna, ciò non avviene per economia ma per rimediare alla lentezza delle costruzioni negli arsenali dello Stato, solo in circostanze straordinarie nel1e quali è invece necessario accelerare al massimo le costruzioni stesse: finalmente per appalto, parlando in genernle, si possono fare tutt'i lavori, la manodopera de' quali può essere ocularmente esaminata in tutta la estensione quando si ricevono compiti; conviene parimenti, che in essi le frodi siano difficili da eseguirsi, e facile a rilevarsi, siccome accade per ragione di esempio nel segamento del tavolame e nel taglio de' pezzi per la costruzione de' navigli .w
Formazione dei Quadri51
Anche il problema della formazione dei Quadri viene affrontata da G.R. senza distogliere lo sguardo dalle concrete esigenze di una piccola Marina che naviga poco come quella napoletana, «a cui mancano le occasioni per segnalarsi nelle grandi azioni militari, e nelle lunghe navigazioni». In questa situazione, il metodo di imbarcare sulle navi i giovanetti non appena il loro fisico lo consente, e di far loro apprendere dal vivo le nozioni teoriche e pratiche necessarie [tipico della Royal Navy, che ha prodotto Nelson - N.d.a.] è ritenuto da G.R. «forse il migliore» sul piano generale ma non adatto per la marina napoletana. Quindi (come del resto fanno le Marine francese e spagnola)
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ivi, p. 204. Giulio Rocco ha approfondito questo argomento nell' opera Memoria sulla scelta e istmzione degli allievi di marina Napoli, Trani 1816. 51
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è utile lo stabilimento di convitti (quali presso di noi esistono) ove educare i giovinetti, ed insegnar loro le nozioni fondamentali delle scienze necessarie al mestiere; a bordo dei legni da guerra potranno essere ammaestrati nella pratica, ed applicazione delle teorie da essi studiate. 52
Così come avviene in altre nazioni «che fanno autorità al riguardo», il comandante in capo di questi istituti deve essere tratto dai Quadri in
attività di navigazione, mentre il corpo insegnante, accuratamente scelto dal Consiglio Marittimo, deve essere composto da due categorie: - ufficiali fissi, prescelti tra quelli non più in attività di servizio, ai quali verrebbe affidata la vigilanza sugli allievi e la loro istruzione nelle materie teoriche e scientifiche propedeutiche all'arte di navigare; - ufficiali amovibili (cioè ufficiali naviganti in attività di servizi o, assegnati non in via permanente all' Istituto), che avendo pratica di navigazione sarebbero in grado di far apprendere tutte le parti del mestiere alle classi superiori, il cui insegnamento sarebbe più efficace «per quella reputazione, di cui sempre godono gli uffiziali naviganti, e dalla quale decadono coloro, che solo ragionano per rimembranza del mestiere marittimo».53 Circa i concreti contenuti de1l' insegnamento, si deve tener conto che conviene rivolgere sopra ogni altro il pensiero all'arte della guerra, la quale costituisce veramente la di loro essenza, e li distingue da altri naviganti. A ciò si aggiunga, che in tutte le disposizioni militari da darsi a bordo, l'Uffiziale deve essere solo [ ... ]. L'arte della guerra è il mezzo necessario, che riunisce l'effetto alla causa, e per la di cui azione, la Marina militare adempie al principale scopo del suo stabilimento.54
Ne deriva che «l'ufficiale di Marina più stimato sarà quegli, che sa star bene sulle acque del mare, e meglio a fronte del nemico». L'opinione di coloro i quali sostengono che si potrebbero evitare le spese d'istruzione, inviando i futuri ufficiali della Marina militare a fare pratica di navigazione sulle navi mercantili è da respingere; il servizio nella marina mercantile distrugge la severa disciplina che deve essere osservata sulle navi da guerra, e per di più, «fa nascere l'avidità del negozio [cioè del guadagno - N.d.a.], donde deve seguire di necessità la rovina di un
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G. Rocco, Op. cit., p. 176. ivi, p. 178. 54 ivi, p. 186. 53
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Corpo, il servizio del quale richiede un disinteresse senza limite, che solo può essere prodotto dalla passione della gloria. e dell'onore».55 Se i buoni ufficiali si formano solo a bordo delle navi da guerra, l'istruzione deve essere sia teorica che pratica. tenendo presente che colla pratica sola e scompaginata dalla teorica si formano gli uomini limitati, i quali ancorché pieni di genio, non possono mai istituire una accurata analisi delle lezioni, che ad essi presenta l' esperienza; e tutte le di loro cognizioni si estendono ad imitare in un modo servile le altrui imprese. Manca loro l'istruzione necessaria, che ti rende perspicaci, e ingegnosi, e che loro insegna l'arte di conoscere le conseguenze, che derivano da' fatti, ovvero il modo, in cui da questi nascono i principi della scienza. La sola teorica né anche può dall'altra banda contribuire a' progressi della medesima, soprattutto nella parte marittima.56
Secondo G.R . l'applicazione ai corsi di questi principì richiede un' organizzazion~ dell'iter dell'allievo basata su: a) apprendimento iniziale delle nozioni matematiche e scientifiche che formano la base dell' arte di navigare; b) istruzione sulla pratica della navigazione a bordo di due corvette - scuola costruite ad hoc e comandate dagli ufficiali più intelligenti, scelti tra coloro che già hanno insegnato all'Istituto; c) successivo imbarco il più presto possibile sulle navi da guerra, dove gli allievi (guardiamarina) si dedicano allo studio della «pratica ragionata del mestiere»; d) mantenimento in armamento anche in tempo di pace, ad ogni buon conto, di un numero di navi da guerra sufficiente, che oltre a proteggere il commercio consentirebbe a un conveniente numero di ufficiali di esercitarsi; e) organizzazione a parte di un corso superiore di costruzioni navali per gli ufficiali del genio navale, al quale non devono partecipare tutti i guardiamarina ma ufficiali scelti tra coloro che dimostrano talento e attitudine per le materie scientifiche. A tal proposito, G.R. lamenta la mancanza di un corso elementare di studi di architettura navale, i cui contenuti scientifici e pratici dovrebbero essere fissati da «un'assemblea di distinti uffiziali» e da «intelligenti professori», mentre per quanto attiene all'applicazione delle «scienze meccaniche» alla manovra egli rimanda ali' Esame marittimo di Giorgio Juan [autore finora mai citato e studiato - N.d.a.], che per G.R. «alla
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ivi,p. 187. ivi, p. 189.
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grande penetrazione del suo ingegno accoppia la circostanza di essere ufficiale di marina». 57
Critica alla critica a Giulio Rocco: perché non è stato un Mahan italiano
Se sullo sfondo dell'indagine di G.R. non compare mai il problema dell'unità nazionale, la problematica marittima dell'Italia meridionale nella prima metà del secolo XIX coincide, in gran parte, con la problematica marittima italiana in senso lato. La lotta contro i pirati barbareschi, come si è visto, è stata nel periodo la preoccupazione prevalente anche per il Piemonte; e il ruolo geopolitico del1'Ita1ia nel Mediterraneo e nel Levante è un patrimonio che G.R. condivide con molti autori italiani coevi del Nord e del Sud. Come avviene per il francese Paixhans (vds. capitolo XV), le sue considerazioni partono dalla necessità di creare e mantenere una marina militare economica, ma efficiente, in grado di proteggere gli interessi nazionali e di assicurare la difesa delle coste. Superfluo richiamare l'attualità del1e considerazioni di G.R. sia sui concreti contenuti del potere marittimo, sia sul legame tra sviluppo del commercio e dell'economia, sviluppo della marina mercantile e incremento di quella militare. Elemento centrale delle sue Riflessioni è l'im-
57 ivi, p. 181. La biblioteca dell'ex Ministero della Marina custodisce diverse edizioni delle opere dello spagnolo Jorge Juan: Compendio de navigacion para eluso de los caballeros Guardias-Marinas, Cadiz, Tip. De Marina 1757; Examen maritimo theorico practico, à tratado de mechanica aplicado à la co11structio11, conoscimento y maneya de /os navias y de mas embarcaciones, Madrid, F.M. De Mena, 1771 (2 Voi.). Una seconda edizione (Madrid, Tipografia Real) è del 1793. Ne esiste anche una traduzione francese (Nantes, .1783 - tradotto con aggiunte a curn ili Monsieur Leveque). L'unica traduzione italiana della quale si ha conoscenza è quella del 1820 - quindi posteriore ali' opera del Rocco - citata dal ò' Ayala, che ne storpia il nome in Ivan Giorgio e la attribuisce a Simone Stratico: «Esame marittimo teorico e pratico, ovvero trattato di meccanica applicata alla costruzione e manovra dei vascelli e altri bastimenti, con le aggiunte e annotazioni di M. Lavègne fsic; anche questo nome è storpiato - N.d.a.] ingegnere idrografico di marina; fu questa edizione italiana aumentata d'altre annotazioni. Milano 1820, Tomi 2 in - 4°, della Imperia! Regia Stamperia. L 'editore italiano fu Simone Stratico, il quale vi aggiunse alcune annotazioni tratte dal volume di Gabriele Ciscar, e molte altre da opere inglesi e francesi» (M. d' Ayala, Bibliografia Militare Italiana - Cit., p. 174). Titolo e data di edizione di quest'opera, e il significativo riferimento che ad essa fa il Rocco, dimostrano sia la dipendenza dei canoni didattici e della tattica navale italiana dai «modelli» geometrici e matematici tipici della scuola franco-spagnola e di Padre Hoste, sia la lunga e secolare durata - nell'età della vela - delle nozioni tecnico-tattiche relative alla navigazione.
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portanza di buoni e sperimentati capitani e di equipaggi bene addestrati, che solo la marina mercantile può dare; non altrettanta insistenza troviamo, nella sua visione, nel continuo addestramento di pace degli equipaggi. L'aspetto più caratteristico e nuovo della sua elaborazione teorica è dato dall'esposizione delle ragioni, estremamente attuali, che rendono necessario anche per una media potenza mediterranea con limitate possibilità economiche disporre di una marina piccola ma efficiente, in grado di farsi rispettare sia dai potenti alleati che dominano indefettibilmente il mare, sia da coloro che dalle coste settentrionali dell'Africa disturbano il traffico marittimo; sotto questo aspetto, G.R. non sogna e non propone obiettivi irrealizzabili. In definitiva, l'opera del napoletano G.R. è nazionale senza volerlo, assai più di quella del Filangieri, del Blanch e di altri piemontesi più celebri. G.R. non approfondisce la tematica tattica, né si occupa - siamo in pieno periodo velico, e i tempi non sono ancora maturi - della tematica strategica e di quella riguardante i particolari tecnici della navigazione; ciononostante, la sua indagine - a quanto ci consta, unica nell'Europa del tempo - sui contenuti del potere marittimo e sugli aspetti principali dell'organizzazione delle forze marittime, ne fa il padre autentico del pensiero navale italiano contemporaneo, con un complesso di riflessioni saldamente ancorato alla realtà napoletana e una volta tanto non dipendente dalle solite fonti francesi e non basata su precedenti lavori, ma sull'esperienza diretta dell'autore. Più che di strategia (o geostrategia) e tattica, il suo è un libro di politica navale, e soprattutto di organizzazione, di logistica e di organica navale: argomenti di estrema importanza ingiustamente trascurati dalla letteratura navale d'ogni tempo e d'ogni nazione. Nei suoi scritti rivolti al presente o al futuro, scarso peso ha l' exemplum historicum, né la sua ottica tecnica è quella dei Hoste e dei Clerk. Ci troviamo di fronte, insomma, a «un'altra cosa» sia rispetto ai pensatori navali coevi, sia rispetto al Mahan, al quale lo uniscono solo la comune considerazione per le specificità nazionali e per l'importanza del potere marittimo. Chiamarlo «il Mahan italiano» sarebbe improprio, non solo perché, se mai, si potrebbe parlare di un «Mahan napoletano». Senza dubbio ha ragione Alberto Lumbroso - al quale fa eco il Brauzzi - a chiamarlo «un precursore dei più rinomati celebratori delle teorie e degli effetti del potere marittimo»,58 e tra quest'ultimi è lecito includere anche Mahan. Il Lumbroso trova negli scritti di Napoleone ampie tracce del (fallito) pro-
SH A.
Lumbroso, Op. cit., p. 143.
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getto antinglese di libertà dei mari, e anche questo è lecito; ma sbaglia affermando che G.R. «pensava proprio allora alla necessità per la penisola di assicurarsi il potere marittimo sul Mediterraneo». 59 Non è mai giunto a tanto, e realisticamente dava, al contrario, per scontato uno scenario mediterraneo dominato da11e grandi potenze, fino a preoccuparsi della loro gelosia per una risorgente marina peninsulare. Ha torto anche il Ferrante, a individuare non ben specificate «convergenze singolari» tra Mahan e Rocco. Pur avendo diverse analogie, i due autori si muovono in campi assai diversi, le loro opere sono inconfrontabili perché non omogenee. I vasti interessi geostrategici e storici di Mahan, la sua insistenza sul mode11o inglese, i riferimenti all'influsso del vapore e alle possibilità di una flotta di grandi corazzate, il suo stesso culto della battaglia decisiva sono del tutto estranei a G.R., che tra l'altro, a torto, cerca di difendere in qualche modo l'operato della invero modesta leadership navale spagnola e francese e non propende affatto per l'impiego aggressivo e spregiudicato della flotta tipico della scuola inglese tanto ammirata da Mahan. Quali le cause dell'ob1ìo della sua opera? Il Lumbroso le attribuisce alle circostanze nelle quali essa vede la luce, in quell'anno 1814 nel quale il regno di Napoli passa dal campo napoleonico a quello inglese, con la sua flotta che da ragguardevole pedina mediterranea di Napoleone diventa in tal modo una forza trascurabile, visto che la Royal Navy da sola già dominava il Mediterraneo.6() Questo, però non avrebbe impedito alla Marina borbonica - e poi a quella italiana - di prendere in considerazione in tempi successivi le idee di G.R.; ciò non è avvenuto e come già detto la ristampa delle sue Riflessioni compare solo nel 1911, in coincidenza con l'impresa di Libia, a cura della Lega Navale Italiana. La ragione vera del suo scarso seguito ci sembra semplice: la scarsa diffusione degli studi teorici e storici navali anche dopo il 1861, in uno scenario dominato dal vapore, dalla corazza e da questioni tecniche e di tattica navale, dove il Rocco poco poteva dire, e dove dominavano autori stranieri. Gli ufficia1i di Marina del Regno di Napoli in servizio dal 1815 al 1860 avevano in grande maggioranza combattuto con Napoleone e contro l'Inghilterra: quindi G.R. era uno dei loro, e se fosse stato solo per questo le sue idee avrebbero dovuto essere bene accette, tanto più che è alieno da nette e chiare posizioni politiche pro o contro Napoleone e/o 1' ancien régime, e ciò che egH dice, a maggior ragione va bene per la Marina borbonica.
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ivi, p. 145. ivi, p. 142.
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Nel 1911, quando l'Italia intende allargare la sua influenza mediterranea occupando la Libia, ormai è Mahan a dominare la scena anche per la Marina italiana, a sintetizzarne le ambizioni persino eccessive. La sua opera - come scrive nell' introduzione alla ristampa il direttore generale della marina mercantile dell'epoca C. Bruno - viene pubblicata «affinché i giovani italiani sappiano che un italiano scrisse del potere marittimo molti anni prima che giungessero dall'America le teorie del Sea Powen>, il che dimostra il predominio di queste ultime anche in Italia. E nella sua prefazione il Ministro amm. Bettolo ricorda che G.R. si riferisce alle esigenze della marina napoletana, pur affermando che l'opera «trova in questa nostra epoca[ ...] la sua massima espressione di attualità e opportunità». Nessuno dei due riconosce esplicitamente, con la necessaria chfarezza, che G.R. vale non in quanto celebratore del potere marittimo, ché in questo è stato preceduto_anche da Richelieu, dall'Encliclopedia Francese, dal Raynal e da tanti altri; ma in quanto sostenitore di criteri specifici e indirizzi validi soprattutto - ieri, come nel 1911, come oggi - per una media potenza mediterranea come J' Italia, in un mare da sempre dominato da altri, al cui contro11o non ha mai potuto seriamente aspirare. Anche nel 1911, senza il consenso dell'Inghilterra e il non-intervento della Francia, la Marina italiana non avrebbe potuto vedere le coste della Libia.
Il concetto di potere marittimo di un piemontese: Giuseppe Cridis (1824)
Piemontese e magistrato, Giuseppe Cridis non è mai stato uomo di mare. Eppure - inaspettatamente - in due paginette del suo libro del 1824 Della politica militare (vds. capitolo Vlll)61 riesce a dare un'immagine estremamente efficace e attuale dell'importanza e utilità del potere marittimo e ad esporre i principi capitali della politica navale di ieri e di oggi, anche se non scende in particolari tecnici e non si riferisce espi icitamente - come Giulio Rocco - alla penisola e al Mediterraneo. In linea generale, secondo il Cridis le navi possono essere considerate delle fortezze mobili, e «sono necessarie per protegger il commercio marittimo, i1 quale è una delle principali basi della ricchezza, della popolazione, e della potenza delle nazioni» (idea-chiave, questa, del Rocco). Come il Richelieu e il Santa Cruz, anche il Cridis sottolinea che un Sovrano forte sul mare «ha dell' influenza negli affari politici delle più re-
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G. Cridis, Op. cit., pp. 155-156.
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mote regioni, e si fa colle sue navi rispettare, e temere da tutti i popoli del mondo»; al contrario, una nazione forte solo in campo terrestre è esposta a ricevere danni e ingiurie non solo dalle armate navali dei paesi nemici, ma anche dai corsari. Le navi non solo mantengono o tolgono le comunicazioni con i paesi che possono essere raggiunti solo per mare, ma sono altresì in grado di ostacolarle o favorirle con quei paesi, con i quali è più agevole comunicare per mare che per terra; infatti il trasporto via mare è molto più economico e rapido che via terra, e le navi «conducendo tutto ciò che si vuole, procurano il risparmio di molte spese nei rapporti coi paesi stranieri». Da un punto di vista strettamente militare, le armate navali, oltre ad evitare che le truppe trasportate per mare si stanchino con lunghe marce, consentono una rapidità nei movimenti e nelle operazioni assai maggiore di quella che si può ottenere da forze che si spostano solo via terra, e «possono in breve tempo agire in varii luoghi tra di loro molto distanti, giungere addosso al nemico ove, e quando non se lo pensa, e con improvviso assalto impadronirsi de' di lui paesi marittimi». Inoltre esse riescono ad assicurare meglio i rifornimenti per le truppe imbarcate, evitando che «cadano nelle angustie, in cui non di rado si trovano le armate terrestri per mancanza di viveri, o di altra cosa necessaria». L'influsso delle forze navali nella guerra terrestre è perciò di grande rilievo: la minaccia di sbarchi da parte di una flotta superiore, anche con forze imbarcate non ingenti, «obbliga i1 nemico a tenere gran numero di soldati sparsi lungo le spiagge del mare; mentre per altra parte chi è più potente in forze navali ha in esse una buona difesa per le sue coste marittime, che non è costretto di proteggere verso il mare con truppe di terra contro le aggressioni ostili». Il Principe che dispone di forze navali superiori può ampliare, di molto, le sue possibilità operative: può agevolmente inviare soccorsi ai suoi paesi o a quelli alleati raggiungibili via mare o ricevere da essi soccorsi; al tempo stesso, può impedire agevolmente che il nemico faccia altrettanto. La conclusione ancora una volta richiama, alla lontana, le idee del Rocco: uno Stato deve dedicare molta cura alle forze marittime, se non altro perché occorre as,ai più tempo per procurarsi una buona flotta che per formare un buon esercito. E per avere una buona armata navale «è necessario che fiorisca il commercio, marittimo; perché senza commercio marittimo non si hanno periti marinaj, e senza periti marinaj è impossibile avere una buona flotta». Senza diffondersi in particolari teorici e senza mai citare il termine «potere marittimo», il Cridis riesce dunque a indicarne assai bene i contenuti, con ottimismo persino eccessivo specie a proposito delle possibilità di sbarco.
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SEZIONE m - La guerra marittima secondo Andrea Zambelli, Carlo Cattaneo e Cesare Cantù Nonostante il suo intento di prendere in esame i mutamenti nel rapporto tra società, progresso tecnico e istituzioni militari, Luigi Blanch (vds. capitolo Vll) rimane uno scrittore eminentemente terrestre, fino a far pensare che in tale rapporto le forze navali - da sempre massima espressione della capacità industriale e tecnica di un popolo e del potenziale espansivo della sua economia - siano qualcosa di trascurabile. L' unica sua espressione, a tale riguardo, è che tra la seconda metà del secolo XVIl e l'inizio del secolo XVUI «la marina militare serviva col suo avanzare per prova del progresso della società, del commercio, dell'industria, e del vincolo che unisce le forze conservatrici alle produttrici».62 L'altra sua affermazione (vds. capitolo VU) a proposito dell ' applicazione del vapore alle armi, che sarebbe destinata ad aprire una nuova era, sembra riferirsi soprattutto alla possibilità di utilizzare il vapore come mezzo di lancio di ordigni alternativo alla polvere, allora allo studio (cannone a vapore Perkins): un po' poco. Non ha detto niente, al Blanch, lo spettacolo della guerra antinapoleonica dell' Inghilterra e del ruolo della Royal Navy non solo in quella guerra, ma nella struttura militare, sociale, coloniale, economica e industriale di quella grande Nazione, all'avanguardia in molti settori? Nessuna attenzione è stata finora dedicata agli aspetti marittimi della teoria della guerra di Andrea Zambelli, Carlo Cattaneo e Cesare Cantù, ignorati anche dal Barbieri-Visconti, dal Bonifacio e dal Fioravanzo. Nonostante talune sue discutibili tesi, ci sembra invece che lo Zambelli fornisca delle chiavi interpretative tuttora di primissimo ordine e assai più complete. documentate e attendibili di quelle degli storici più recenti, ivi compreso il Fioravanzo. Gli nuocciono indubbiamente il non essere un marinaio, la manìa degli exempla historica che fanno perdere il filo del discorso, lo stile involuto: ma ha il grande merito di far venire bene alla luce, in ogni momento, il legame tra tattica, tecnica della navigazione, costruzioni navali e guerra marittima e terrestre. Le fonti teoriche da lui più frequentemente citate sono quelle che potrebbero definire i «classici»: Clerk, Bourdé, Ramatuelle e Stratico. Ad essi vanno aggiunti il De La Rouvraye (Traité pour l 'art des combats de mer), il Boismelé (Histoire général de la Marine), e infine, per le applicazioni del vapore al naviglio militare, il Janvier (Nouveau manuel
62
L. Blanch, Op. cit., p. 144.
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des ma,chines à vapeur, tradotto in italiano -Napoli, 1844) e (specie per gli sbarchi) il Jomini. Molto citate anche le Lezioni di marina del veneziano Gaspare Tonello, che verranno da noi esaminate nel prosieguo della trattazione, e la Storia della guerra d'indipendenza americana di Carlo Botta, che contiene frequenti riferimenti alJa guerra navale tra Francia e Spagna da una parte e Inghilterra dall'altra, oltre che alla redditizia guerra di corsa scatenata dagli americani contro le navi inglesi che riforniscono le truppe combattenti contro gli insorti sul suolo americano.63 Una siffatta, rara profluvie di fonti serve allo Z. per estendere anche alla guerra marittima le tesi sul ruolo predominante dell'artiglieria nelle trasformazioni della tattica e della tecnica, che già egli aveva sviluppato per la guerra terrestre (vds. capitolo X). E, una volta tanto, egli mette nel dovuto rilievo sia l'importanza determinante delle battaglie di Aboukir e Trafalgar, sia le ragioni delle vittorie di Nelson e più in generale della prevalenza inglese sui mari dalle guerre napoleoniche in poi. La sua tesi di fondo è semplice: anche sul mare, nel periodo remico «a differenza del tempo noslro non vi aveano le masse la superiorità, né poteano averla per conseguenza que' tattici accorgimenti che facendo prevaler quelle assicurano oggigiorno la vittoria a chi sappia opportunamente impiegarli».64 Rispetto alla massa e alla bravura del Capo era più importante il valore dei combattenti, data anche la frequenza degli abbordaggi. Lo scontro navale si riduceva a «un lanciar di pietre, di frecce e di materie incendiarie; un troncar di funi da timone col mezzo delle scuri; un tagliar di vele mediante le falci; uno spezzar di remi per rendere le navi incapaci di moversi; rostri o sproni per romperle o fracassarle; raffii adunchi, corvi e gru per gli arrembaggi».65 La conquista dei vantaggi del vento non aveva alcuna importanza, e le evoluzioni navali erano «più di pratica che di teoria, più manuali che ingegnose, quindi più proprie di chi combatte che di chi dirige». Tant'è vero che i Romani, popolo non marinaro, hanno avuto la prevalenza su quegli esperti navigatori che erano i Cartaginesi, e dopo il Console Duilio [che ha usato il corvo, specie
63 Cfr. C. Botta, Storia della guerra d'indipendenza degli Stati Uniti d'America, Parma, Blanchon 1917 (in 14 libri e tre parti). Questa è la prima edizione italiana dell'opera del Botta, pubblicata per la prima volta a Parigi nel 1809; sul «Dizionario Biografico degli Italiani» il Talamo afferma invece - erroneamente - che l'opera è stata ristampata a Milano dieci anni più tardi. Sulla guerra marittima di corsa degli americani si veda, in particolare, il Tomo li dell' opera. 64 A. Zambelli, Op. cit., Vol. I Libro I, p. 100. 65 ivi. p. 45.
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di passerella lanciata sulla nave nemica per facilitare l'abbordaggio, nella battaglia di Milazzo contro i Cartaginesi - N.d.a] «divenute le battaglie marittime altrettante battaglie terrestri, vi primeggiò necessariamente quell'elemento di vittoria che primeggiava in queste». Con poche vele triangolari dette appunto «latine», i bastimenti latini «non erano atti a tenere il mare, e quindi non poteano né bloccare né incrociare». Ne consegue che «la potenza marittima non poteva in quei tempi essere gran cosa», e che la superiorità navale «non aveva in antico il potere di oggidì», visto - come dimostra anche la vasta diffusione della pirateria - chi aveva il dominio del mare non era effettivamente in grado di impedire che il nemico solcasse il Mediterraneo o l'Adriatico: «non della marineria degli antichi si avrebbe potuto dire, essere il tridente di Nettuno lo scettro del mondo; il che al dì d' oggi è vero». Questo afferma Napoleone, e bene il poteva affermare egli che duramente lo sperimentò.66
Riguardo alle caratteristiche del naviglio da guerra, la meccanica degli scontri navali succedutisi fino al Medio Evo compreso dimostra che erano le navi leggere e veloci a prevalere su quelle pesanti, e il piccolo numero di combattenti scelti e valorosi imbarcati sulle navi a prevalere sulla massa. Infatti le navi grosse a fatica dalla ciurma sospinte mal poteano fare le necessarie evoluzioni e[ ... ] non riescivano di gran momento né molteplici servigli della guerra navale; all'incontro le navi sottili più atte alla varietà di essi per la leggiera e sbarazzata lor forma o che l'uno o l'altro di quelli facessero, erano di propria natura assai più infeste ai navigli del nemico e ne calavano a fondo assaissimi. Per la ragione istessa, essendo nelle guerre d'allora indispensabile il navigare a remi, le flotte molto numerose non poteano evitare che per l' impedimento di essi non s'intricassero insieme negli infiniti giri e rigiri di quei combattimenti navali, oltre lo spesso urtarsi dell'un bastimento con l'altro in una faccenda, in cui, anziché la mole, giovava la breve dimensione; onde l'imbarazzo ne veniva ad essere maggiore, minore la rapidità e efficacia dei colpi, minima la probabilità del vincere.67
È così avvenuto che nella decisiva battaglia navale di Salamina, che
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ivi, p. 101. ivi. p. 46.
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ha visto il tramonto della potenza persiana, le triremi greche - assai meno numerose - hanno avuto la meglio sulle navi persiane molto più grandi e numerose, benché guidate da esperti marinai. La superiorità greca era appunto dovuta al valore degli equipaggi e al «naviglio leggero e spedito, il quale dalle evoluzioni odierne sarebbe stato distrutto in poco d'ora, ma nelle antiche avea la prevalenza, massimamente vicino alle coste, dove pel costante usi de' remi commetteansi ordinariamente le battaglie».68 Gli sbarchi erano molto più frequenti, e riuscivano meglio per tre ragioni essenziali: a) contatti rari tra i popoli e comunicazioni e informazioni difficoltose, che rendevano facile assalire e depredare una regione prima che colui che veniva assalito avesse tempo di radunare le sue forze e concentrarle; b) mancanza di forze terrestri permanenti e numerose, che rendeva poco probabile che gli assalitori incontrassero resistenze forti; c) mancanza di macchine da guerra terrestri di efficacia paragonabile a quella delle artiglierie, che rendeva superfluo l'intervento di navi da guerra per neutralizzarle prima dello sbarco, mentre invece ora «occorrerebbe dapprima accostare alla spiaggia le navi di linea per soffocare con le loro fiancate le batterie nemiche e proteggere la discesa, operazione assai malagevole e dubbia, anzi talora impossibile ad eseguirsi con vascelli che pescano tanto».69 In tre densi capitoli del Libro secondo (V, VI e Vll), lo Z. spiega come, quando e perché la guerra marittima dell'antichità si è trasformata e ha accresciuto la sua importanza. Egli deplora, anzitutto, che «alcuni scrittori d'arte bellica, per altro assai ragguardevoli, abbian posta la navale dall 'un dei lati , quasi argomento fosse da non spendervi parole intorno». Atteggiamento ingiustificato, perché anche se la vastità degli spazi marittimi ha reso più facile per i vinti evitare sconfitte complete, le battaglie navali «riescono anch'esse di grave momento pei destini politici degli Stati». Se poi si considera che la disfatta della Meloria ha segnato la decadenza di Pisa, che il miglior naviglio e la migliore perizia nautica ha portato gli inglesi a ottenere nella guerra del Canada una vittoria «feconda di conquiste», e che «dalla giornata di Aboukir nacquero altre sorti in Europa», si deve convenire che i combattimenti navali sono una parte principale della guerra non meno di quelli terrestri. La «causa potente» che ha cambiato la guerra marittima è stata sem-
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ivi, p. 47. ivi, p. 57.
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pre l'artiglieria; non appena essa è stata perfezionata a sufficienza ha imposto alle navi di rafforzare lo scafo. In tal modo per resistere al cannone ci vollero navi grosse, le quali essendo per la gravezza loro sproporzionate alla forza dei remiganti, fu mestieri andare a sole vele; né a ciò bastarono le latine, ma convenne sostituirvi le quadre, che pel maggior numero e perché portano in maggior copia il vento sono le più acconce ai grossi bastimenti. Quel tagliar di funi e di vele mercè le falci e le scuri, quelle spronate, quegli abbordaggi così frequenti ne' secoli antichi e di mezzo non poteano più essere il caso, poiché la moschetteria, i cannoni, gli obici, da ultimo le carronate furono tali da volgere in fuga e far gire di traverso o sconquassare qualunque nave osasse di accostarsi ; e, siccome col venir meno di quella maniera di combattimenti veniva pur manco la correlativa utilità de' remi e de' legni leggeri, siccome all'antico modo di combattere sottentrò quello delle fiancate, così l'antica leggerezza delle navi da guerra, dovette necessariamente dar luogo alla grossezza de' nostri vasl:dli di linea, per cui il cannoneggio acquista quella terribile efficacia che richiede la condizione delle odierne guerre marittime. Quindi l' importan7..a guerriera di un naviglio si misura presentemente colla quantità e colla portata de' suoi cannoni .... 70
L' accresciuta importanza del fuoco ha portato ad aumentare continuamente il numero delle artiglierie. Ciò ha provocato anche l'aumento delle dimensioni delle navi, costringendo a ricorrere esclusivamente alla vela; e poiché per ogni cannone occorrono circa I O uomini se non più, è stato necessario anche accrescere di molto la forza degli equipaggi. Diversamente dall'antichità, con l'artiglieria hanno dunque acquistato la prevalenza le grandi navi di linea, e la massa. Ma tale prevalenza non è assoluta, perché ha acquistato molto maggior peso anche la perizia tattica dei comandanti, essendo anzi Ja tattica cosl di mare come di terra l'arte di far sua · codesta legge del più forte col conoscere, combinare ed impiegare le forze risolutive: laonde il gran segreto, al quale si riferiscono e da cui dipendono tutti i precetti, tutti i metodi delJa marineria militare, in breve il principio fondamentale di essa consiste nel metter fuori d' attività la maggior somma possibile delle forze dell' avver-
70
ivi, Vo i. ll Libro Il, p. 9.
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sario e nello spiegare contro ciò che gliene resta, ma con intelligenza e congiuntamente, la maggior somma possibile delle proprie.7 1
Accanto ali' applicazione alla guerra marittima del principio fondamentale jominiano - e napoleonico - della concentrazione delle forze nel punto decisivo (vds. capitolo Il), ha acquistato grande importanza il vento, perché «checché ne dicano i contradditori del sopravvento, chi lo goda e lo mantenga e chi non avendolo sappia guadagnarselo avrà nè combattimenti marittimi per l'orctinario la prevalenza». 72 In tal modo, anche la conoscenza della teoria dei venti e la perizia nautica portano «il comandante nostro da perdente o almeno pericolante divenir vittorioso per virtù della maggior massa di fuoco, che la sua perizia ha saputo procacciarsi contro il nemico, mettendo costui nella impossibilità di valersi della maggior parte dei suoi cannoni». Fin che le navi erano a remi, il combattimento navale era assai più semplice, quindi un comandante terrestre poteva diventare in breve tempo un buon comandante navale: invece «modernamente il generale d'un'armata navale ne dee sapere assai di più che non un condottiero di milizie terrestri [... ] Attese le mutate armi, che necessitano altre navi, altra maniera di navigare e di combattere, nel capitano di mare richiedesi e senno e perspicacia e fermezza ed esperienza maggiore che non in que1lo che guidi una battaglia terrestre». 73 Lo Z. si preoccupa anche di controbattere le possibili obiezioni a queste sue tesi, a cominciare da quella che attribuisce l'abbandono degli abbordaggi (da lui definiti «atroci mischie più proprie di chi eserciti la pirateria che non d'una guerra giusta») non al perfezionamento delle artiglierie e in particolare all'introduzione delle carronate,74 ma ai progressi delle evoluzioni navali e delle costruzioni (fiancate rientranti delle navi). Egli non concorda nemmeno con coloro i quali sostengono che i bastimenti leggeri e con vela latina sarebbero adatti solo al Mediterraneo e al Baltico, mari dove è molto diffuso il cabotaggio costiero, mentre 1' aumento delle dimensioni delle navi e la navigazione a vela (anziché a remi) sarebbero dovuti non all'introduzione delle artiglierie, ma ai progressi della nautica e all'invenzione della bussola, che hanno resa possibile la navigazione attraverso gli oceani. 71
ivi, p. 11. ivi, p. 13. 73 ivi, p. 21. 74 Le carronate erano obici leggeri, corti, di calibro consistente ma con poca carica di polvere, senza orecchioni, con discreta precisione di tiro alle brevi distanze, costruiti per la prima volta - non casualmente - in funzi one anliabbordaggio in Inghilterra dalla fonderia Carron e usati fino all'inizio del secolo XIX. 72
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Le galere a remi - egli obietta - sono state impiegate anche nei mari del nord e nell'oceano, e già nell'antichità erano possibili navigazioni d'alto mare e di lungo corso. Le imprese dei Normanni dimostrano, inoltre, che anche senza la bussola «era possibile approdare al nuovo mondo per mezzo del cabotaggio, al cui felice e lontano corso, anziché nuocere, giovar poteano non poco le vele latine». Inoltre le grosse navi erano in uso anche nell ' antichità, ma solo per le esigenze di trasporto: per quelle di combattimento sono sempre state preferite le navi leggere e veloci, e solo le artiglierie hanno portato a capovolgere questo_orientamento. In quanto all'abbordaggio, nonostante i fianchi rientranti è pur sempre possibile abbordare le navi nemiche da prua, e in aJcuni casi da poppa. La prevalenza dei grandi vascelli di linea con artiglierie sempre più numerose - prosegue lo Z. - diventa definitiva a partire dalla seconda metà del secolo xvm, e da tale data comincia anche la superiorità inglese nei combattimenti navali. Infatti per grande che sia la reputazione dell'armi francesi, non stimo di farle torto coll'affermare, che nell'arte delJe evoluzioni navali, dalla cui perfetta intelligenza e dal pronto eseguimento risulta appunto l' odierna tattica, hanno gli inglesi la preminenza [... ]. Gli inglesi inventarono le carronate per fare che al coraggio francese, di gran lunga superiore al loro, prevalesse la precisione e la celerità delle mosse d' una battaglia a vele ed in tutto navale, in cui sogliono avere il vantaggio: fatto assai dimostrativo, se mal non m'appongo, siccome quello, che impediva o per lo meno scemava gli abbordaggi, in cui domina il valore, e dava all'arte marinaresca il principal merito dei combattimenti.75
Con questa diagnosi lo Z. coglie nel segno, visto che dello stesso avviso sono gli scrittori francesi coevi, a cominciare dal Paixhans (vds. capitolo XV). E lo Z. coglie nel segno molto più dello stesso Paixhans sostenitore dell'abbordaggio - quando afferma che proprio i cannoni a bomba dello stesso Paixhans hanno dato il colpo di grazia agli abbordaggi resi già difficili dalle carronate inglesi: se Bourdé e Ramatuelle avessero viste queste nuove artiglierie, «non avrebbero certamente così consigliati gli abbordaggi».76 Qui però si ferma la sua chiaroveggenza: perché critica la Marina francese del tempo per aver introdotto sulle navi «quegli smisurati can-
75
76
A. Zambelli, Op. cit., Voi. Il Libro Il, pp. 55-56. ivi. p. 17 .
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noni che buttano ottanta libbre di palla», rendendo così più difficile l'arrembaggio. E ne deduce, erroneamente, che il Governo francese «fa gran fondamento sopra quell'alleanza inglese, come su d' una base perenne, altrimenti, perciocchè ai francesi torna più conto battersi dappresso che non di lontano e il contrario avvien degli inglesi, si verrebbe a fare il fatto di questi anziché di que11i».77 Evidentemente Z. non ha letto bene le opere di Paixhans o dell'ammiraglio de Joinville: se lo avesse fatto, si sarebbe reso conto che, con le potenti artiglierie e ancor più con la propulsione a vapore, questi ultimi intendevano proprio neutralizzare Ja superiorità marinaresca di queJlo che unanimamente consideravano il nemico tradizionale del loro paese, anche dopo la caduta di Napoleone. E nonostante il suo approccio scientifico e materialista al problema delJa guerra e della guerra marittima, sul fondamentale problema del vapore egli dimostra di avere vedute non dissimili da quelle espresse dal Parrilli nel 1846 (vds. capitolo V) fino a far pensare che quest'ultimo abbia preso da lui parecchi concetti assai riduttivi sulle effettive possibilità belliche del nuovo ritrovato. In sintesi Jo Z. ritiene che la propulsione a vapore recherà numerosi vantaggi nel campo dell ' industria, de] commercio, delle relazioni anche politiche tra i popoli, provocando in questi settori una rivoluzione analoga a quella della bussola e della stampa. Anche nel campo militare, se essa fosse estesa alla totalità del naviglio darebbe effettivamente origine a una rivoluzione nella tattica e [come già sostenevano Paixhans e de Joinville - N.d.a.] rendendo non indispensabili equipaggi ben addestrati, vibrerebbe un coJpo mortale al predominio inglese. Ma pur ammettendo che per esigenze militari di trasporto, esplorazione, collegamento ecc. le navi a vapore possano essere molto utili, che una nave da guerra a vapore a parità di forze possa essere avvantaggiata rispetto a una vela, e che infine sia possibile per una nave a vapore anche il fuoco da prua a poppa, lo Z. ignora del tutto la minore vulnerabilità che consente l'elica ormai allo studio, e per il resto mostra di non credere ai futuri perfezionamenti e di dare troppo credito alle difficoltà del presente, mettendo in dubbio la effettiva possibilità di estendere il vapore alla navi maggiori. Le obiezioni e difficoltà sono più o meno Je soJite: se si vuo]e ottenere la maggiore massa di fuoco possibile, un vascello deve presentare al nemico la fiancata; possono essere protette dai colpi del nemico la caldaia e i] meccanismo, ma non le ruote, la cui rottura causerebbe una
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ivi, p. 56.
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serie d'inconvenienti tale, da rendere la nave facile preda del nemico; per far muovere a vapore le navi maggiori occorrerebbe una potenza tale, da poter far esplodere per lo sforzo eccessivo la caldaia; la macchina a vapore e il carbone toglierebbero troppo spazio alle munizioni, estremamente necessarie; è impossibile mantenere, a causa delle ruote, le formazioni navali molto raccolte che sono necessarie per sviluppare un fuoco concentrato. In conclusione fino a tanto che questi problemi non vengono sciolti in maniera definitiva, non sarà senza ragione il sospettare, che le navi a vapore, opportune per avventura ne' parziali combattimenti e nelle altre cose ricordate di sopra, non sian per esserlo in una generale battaglia, e che essendosi pur questa il vero campo, in cui alla fine riducesi ogni guerra marittima, le teorie di essa e la relativa politica abbiano a rimanere quelle di prima.78
E se negli sbarchi il minor tonnellaggio delle navi a vapore consentirà loro di avvicinarsi di più alla costa per proteggere meglio lo sbarco, «per altra parte la copia di esse non potrà supplire giammai al difetto delle fiancate di una nave di linea» (altro concetto opposto a quello dei Paixhans). Meriterebbero la dovuta attenzione anche le azzeccate considerazioni dello Z. sulle innovazioni tattiche introdotte dal l'ammiraglio inglese Rodney, sulle gesta di Nelson, sulle sue doti di carattere e di tenacia e sulle fondamentali battaglie di Aboukir e Trafalgar. Esse non sarebbero in sostanza che una ripetizione di quanto già emerso dal capitolo XV: ci sembra quindi più utile una breve riflessione sull'effettiva validità delle tesi dello Z .. È indiscutibile che le sue tesi sull'influsso delem1inanle del perfezionamento delle artiglierie si atlagliano di più alla guerra marittima che alla guerra terrestre. Nessun dubbio anche sul fatto che la navigazione a vela richiede marinai esperti e adusi alla vita di mare, quindi favorisce il predominio di nazioni eminentemente marittime come l'Inghilterra; ma ciò non significa che basti agli equipaggi il solito «coraggio della rassegnazione», o che il vapore elimini la necessità di buoni equipaggi. Che i francesi fossero più coraggiosi degli inglesi, è tutto da dimostrare, e le vicende dei corsari hanno dimostrato che non è mai mancato - anche agli inglesi - il coraggio nei corpo a corpo. D'altra parte, il coraggio in genere, le doti morali, la fede nei capi ecc. non sono necessari solo
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ivi. p. 274.
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nell'abbordaggio ... In quanto al vapore, esso richiede semplicemente dei tecnici accanto ai marinai, ma non elimina i marinai. Più appropriati taluni paralleli dello Z. tra guerra marittima e guerra terrestre, che non cessano nemmeno nell'età della vela e che abbiamo visto già indicati dal Savorgnano; per contro ci sembrano esagerate le differenze tra capo marittimo e capo terrestre. 79 In merito si potrebbe di- . re, semplicemente, che a un complesso di doti di base comuni a tutti i capi il primo deve aggiungere l'esperienza e la perizia nautica, e il secondo il senso del terreno e, più in generale, la conoscenza minuta di tutti gli aspetti del Paese nemico e delle risorse che può fornire il paese amico. Quindi, non può essere condivisa l'affermazione dello Z. che, diversamente dal passato, «attese le mutate armi, che necessitarono altre navi, altra maniera di combattere e di navigare, nel capitano di mare richiedesi senno e perspicacia e fermezza ed esperienza maggiore che non in quello che guidi una battaglia terrestre». Sono state le artiglierie, oppure il perfezionamento dell' arte nautica e la navigazione oceanica a rendere necessarie le grandi navi pluriarmate? A parte il fatto che - come fa notare anche lo Z. - la bussola era conosciuta assai prima di Flavio Gioia e del secolo XIV, Colombo e i grandi navigatori del secolo XV usavano ancora galee di ridotte dimensioni. Non c'è dubbio, quindi, che è stata la corsa alle sempre più potenti artiglierie e corazze l'elemento più importarite - ancorché non esclusivo di un processo che continua per tutto il secolo XIX, fino a raggiungere l'apice nel 1940-1945. Un ultimo aspetto riguarda le analogie tra combattimento terrestre e navale nell'età del remo (non solo con i «corvi» del console Duilio, ma con l'abbordaggio) sostenute dallo Z. e negate in tempi recentissimi da altri. Ad esempio Domenico Carro sulla Rivista marittima 1992 ritiene «assurda» la tesi che Duilio con i corvi ha trasformato il combattimento marittimo in terrestre, perché «stare a bordo, navigare, arrembare una nave nemica e combattervi sono tutte attività tipicamente navali, che richiedono un addestramento specifico oltre al necessario piede marino. La fanteria imbarcata è necessariamente una forza marittima». 80 Al di là delle suscettibilità di forza armata, noi riteniamo invece che la fanteria imbarcata del tempo era una forza marittima, ma solo fino a quando era imbarcata; quando metteva piede a terra, diventava una forza terrestre. Senza contare che, anche quando era imbarcata, era solo in
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ivi, pp. 20-27. D. Carro, Storia della Marina di Roma - la testimonianza dell'antichità (Allegato alla «Rivista marittima» n. 12/1992), p. 48. 80
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Fig. 33 Fortificazione campale : sistema per segnare sul terreno angoli retti, salienti e rientranti (Da Istruzione sui lavori di campagna del col. Gaudi, allegata alla 2A Ed. del Dizionario teorico militar - Bologna 1848)
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Fig. 34 Fortificazione campale: pianta di trinceramenti «a freccia» (Da Istruzione sui lavori di campagna del col. Gaudi, allegata alla 2" Ed. del Dizionario teorico militare Bologna / 848)
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Fig. 35 Fortificazione campale: pianta di un fortino di campagna (Da Istruzione sui lavori di campagna del col. Gaudi, allegata alla 2" Ed. del Dizionario teorico militare Bologna 1848)
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Fig. 36 Ritratto del generale Giacomo Durando
Fig. 37 Busto dell'Ammiraglio e corsaro francese Jcan Bart (sec. XVll) (Parigi, Museo della Marina francese)
Fig. 38 Cannone da Marina - secolo XIX (Arsenale di La Spezia)
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( Da A. Ramatuelle, Corso di tattica navale, Napoli 1813)
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Fig. 42 Le complicate tavole numeriche per misurare le distanze tra navi a vela in mare (sec. XIX) (Da A. Ramatuelle, Corso di tattica navale , Napoli 1813)
Fig 43 Progetto di battello a vapore di Joulfroy d' Abbans (1782) (Modellino - Parigi, Museo della Marina francese)
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Fig. 47 La nave a vapore Etna: sezione verticale (Da L Serristeri, Sopra Le macchine a vapore, Firenze 7816)
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Fig. 49 Pier Ilario Mercanti detto Spolverini: battaglia navale (secolo XVIII) (Collezione Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza)
Fig. 50 Disegno e modellino del GuJnara, prima nave a vapore piemontese (scc. XIX) (Museo Navale di La Spezia)
XVI - LA GUERRA MARJITIMA NEL PENSIERO ITALIANO
1057
parte una forza marittima perché, nei limiti consentiti dal particolare ambiente, conservava addestramento individuale, armi, struttura organica ecc. tipici delJa guerra terrestre; si trattava dunque - senza che ciò suoni offesa per nessuno - di una forza «bivalente» e «anfibia», nelJa quale a seconda della situazione prevalevano caratteri terrestri o marittimi. Come riferisce lo stesso Carro, nella battaglia di Milazzo contro Duilio la superiorità dei comandanti e degli equipaggi cartaginesi nell'arte nautica a poco ha giovato, perché le navi cartaginesi, più leggere e voloci di quelle romane, non hanno potuto sfruttare la loro superiore capacità di manovra. Così come - secondo la communis opinio degli stessi autori francesi - i loro equipaggi, assai forti nel combattimento individuale, potevano avere la meglio sugli equipaggi inglesi (più esperti navigatori e più abili cannonieri) solo nel corpo a corpo. Giusta è anche l'osservazione dello Z. che neI1'età remica i combattimenti navali avvenivano in prossimità de1le coste; se si raccolgono insieme questi elementi staccati si arriva perciò a11a conclusione che la tattica navale dell'età remica era assai simile a quella terrestre, e che - in assenza di artiglierie e in combattimenti vicino alle coste - molto vi contava il valore individuale delle fanterie imbarcate, che erano l'arma offensiva decisiva delle navi. Il rostro (o sperone) e le macchine da guerra che esse portavano a prora non erano considerati armi risolutive ma per lo più sussidiarie, aventi lo scopo di danneggiare le navi nemiche prima de11'entrata in azione della fanteria; così afferma il Fioravanzo, che anch'egli è dell'avviso che il corvo, una volta calato sulla nave nemica, «permetteva ai soldati romani di passarvi rapidamente trasformando - come dice Polibio - la battaglia navale in battaglia terrestre, nella quale i Romani erano assai più abili dei cartaginesi». Per il Fioravanzo, neI1'età remi~a «in definitiva vinceva la flotta che riusciva a prevalere sull'avversario per numero o per valore dei propri soldati [40 su circa 200 - in gran parte vogatori sulle triremi; 100-120 su 300 sulle quinquiremi- N.d.a.], a meno che coi mezzi di offesa essa non fosse già riuscita ad affondare o a danneggiare irreparabilmente una sufficiente aliquota di navi nemiche, costringendo le rimanenti alla fuga». 81 Non si ha notizie di battaglie navali dell'età remica vinte solo grazie al rostro e/o con le macchine da guerra: risulta quindi sostanzialmente confermata la tesi dello z., che ha il solo torto di esasperare i concetti a pro delle sue tesi, perché anche neJl'antichità e con i remi la perizia nau-
81 D.
Fioravanw. Op. cit., pp. 65-66.
IL PENSIERO MILITARE ITALIANO (1789- 1915)- VOL. I
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tica dei capitani, se non bastava, era assai utile, per esempio nello sfruttare il rostro con abili manovre. Nel saggio Della milizia antica e moderna (1839) Carlo Cattaneo riprende sostanzialmente le tesi dello Zambelli, ma da una parte sembra apprezzare meglio il peso della perizia nautica di capitani e equipaggi anche nel periodo remico, e dall'altra ha ben altra considerazione per il vapore e per le innovazioni del Paixhans. 82 Secondo C.C. anche se «i Romani afferravano con uncini le navi per venire a battaglia di mano», negli scontri del periodo remico in generale il modo d'assalto più marinaresco e artificiale era una continua serie di volte e rivolte, colle quali si cercava di tutta forza coll'acuto sprone della prora il fianco della nave nemica, romperla, mandarla a fondo. Questi movimenti erano tutti di timone e di remi, e valevano legni spediti, spazio libero, somma perizia di mare, impetuosa ferocia nelli abbordi.
Sul Politecnico del 1841 C.C. descrive i nuovi cannoni a bomba del Paixhans e i vantaggi che essi comportano, non escluso l'aspetto economico (sono meno costosi, perché le bocche da fuoco possono essere fuse in ghisa anziché in bronzo).83 Egli non è dell' avviso che il pezzo da 80 proposto da Paixhans sia poco conveniente per i francesi (come pensava lo Zambelli): al contrario, quest'arma troverebbe il suo impiego più efficace sulle navi a vapore, «le qualj rivolte improvvisamente dagli usi ili pace agli usi ili guerra, senza servitù di venti o di marea, e senza che siavi bisogno di numerosi marinaj e di lunga perizia ili vele, potrebbero affrontare le più agguerrite marine». Evidente il riferimento all'Inghilterra, e ai vantaggi della Francia con questi nuovi ritrovati; in merito C.C. riprende l'affermazione del Paixhans che la Francia potrebbe avere ben cento porti idonei ad ospitare le navi a vapore, a fronte dei soli cinque che al momento possiede per i granili vascelli a vela. Mentre per lo Zambelli anche senza il Paixhans l'artiglieria ha raggiunto ormai l'apice della sua evoluzione, per C.C. quella del Paixhans è addirittura una riforma «simile a quella che col primo uso del cannone sottomise all'ingegno dell'artigliere gli squadroni coperti di ferro e le rocche merlate dei feudatari», fino al punto che apre una nuova era. La conclusione di C.C. è profetica, e ancora una volta denota una visione
82
C. Cattaneo - Op. cit., pp. 318-321. C. Cattaneo, Alcune notizie sulla riforma delle artiglierie, «Il Politecnico» Voi. IV (1841), pp. 186-189. 83
XVI - LA GUERRA MARllTIMA NEL PENSIERO ITALIANO
1059
meno settoriale di quella dello Zambelli: «nell'applicazione della polvere, del vapore, e delle altre invenzioni della scienza della guerra, il pri mato rimarrà sempre alle nazioni che coltivano con più ardore e più franchezza e fiducia le scienze. I popoli che temono la luce, saranno sottomessi dal fuoco». Queste idee di carattere marittimo nel pensiero di C.C. non sono come avviene per l'opera dello Zambelli - confinate all'ambito strettamente militare, senza un più ampio respiro geopolitico e geostrategico. Lo Zambelli si limita a «non negare» (senza esserne troppo entusiasta) l'utilità delle navi a vapore in campo civile e per il trasporto truppe; C.C. invece nello stesso anno 1839 inserisce il vapore nella specifica realtà mediterranea, affermando che «questa potente invenzione si va propagando nel Mediterraneo, e tende a renderlo un ameno lago e un convegno delle nazioni». Navigano già nel Mediterraneo 70 navi a vapore (delle quali quaranta francesi , venti itaJiane - otto triestine - cinque inglesi ecc., per un totale di circa 7000 cavalli - vapore. Ma questo non è che l'inizio di quello che avverrà in seguito, quando l'incivilimento avrà compiuto di purgare le coste asiatiche ed africane dalla peste dalla pirateria e da quella sanguinosa intolleranza che desolò per l'addietro quella bella frontiera delle due grandi stirpi viventi, la cristiana e l'islamica. L'Italia si troverà un'altra volta nel centro del commercio e dell'incivilimento dopo essere stata in questi ultimi secoli relegata alla estremità.84
A questa visione che lo avvicina assai al Balbo C.C. aggiunge altre considerazioni eminentemente geopolitiche e geoeconomiche a proposito della preponderanza marittima dell'Inghilterra, del carattere continentale e non marittimo della Francia, e del rapporto tra libere istituzioni, economia e dominio del mare. Sul piano generale, «la navigazione è un ramo d'industria che si genera da tutti gli altri, e tutte le forze industriaJi d'una nazione sono condizionate alla sicurezza civile». Essa richiede audacia e perseveranza e «a nessun'arte tanto nuoce l'indolenza, la superstizione, la viltà». Lo dimostra il fatto che, prima che sorgesse la potenza marittima olandese e inglese, la marina spagnola e quella portoghese erano ormai in decadenza. Come il benessere economico, anche il potere marittimo è legato alla libertà: per questo «il primato sui mari appartiene oggidì ad ambo i ra-
84 C. Cattaneo, Navigazione a vapore nel mediterraneo, «li Politecnico» Voi. II (1839), pp. 287-288.
1060
Il. PENSIERO MILITARE ITALI ANO (1789-1915)- VOL. I
mi della stirpe anglobritannica [cioè agli abitanti dell'Inghilterra e degli Stati Uniti - N.d.a.], ch'è quella fra tutte le grandi nazioni che serbò fedele e costante il culto della libertà. Le sue ricchezze sono maggiori di quelle degli altri popoli per forza di libertà; cioè per una causa che risiede nella sfera della volontà. Epperò, per nostro conforto, sono accessibili a tutte le nazioni». 85 Noi giudichiamo quest'affermazione discutibile, sia perché non considera le ombre interne della libertà inglese - che al momento è libertà solo di pochi - sia perché se proiettato all'esterno e in campo marittimo, il nobile principio della libertà - come mettevano in evidenza parecchi autori italiani e francesi coevi - in pratica diventava monopolio inglese del commercio marittimo e libertà soprattutto per l'Inghilterra di far bene i suoi affari. Del resto lo stesso C.C. si contraddice, quando commentando il Sistema nazionale d'economia politica del List espone lucidamente le ragioni geopolitiche della preponderanza inglese sul mare, e dell'inferiorità sul mare della Francia. 86 Mentre l'Inghilterra non ha monti che inceppano le comunicazioni e tutte le sue principali città sono vicine al mare, il grande altopiano francese «sembra preordinato ad essere base d'una formidabile potenza terrestre», ma non ha agevoli comunicazioni sul mare, anche perché gran parte dei fiumi navigabili francesi sbocca in mare «tra genti straniere». Per collegare i porti del Nord della Francia con quelli del Mediterraneo si è costretti a compiere una navigazione più difficile e lunga che non tra le isole britanniche e il Canada, quindi le flotte francesi non possono facilmente essere riunite; molte città importanti sono assai lontane dal mare, e la navigazione interna è assai ardua e stentata; per tutte queste cause la popolazione in Francia è assai rada e sparsa, quindi le comunicazioni sono meno agevoli, il che è un danno perché «due campi commerciali d'ugual popolazione non s'equivalgono, ma stanno in ragione inversa della loro superficie». C.C. interpreta il passaggio dall'età feudale all'età mercantile, con il prosperare dei Comuni e delle Repubbliche Marinare, in chiave di progressivo abbattimento delle barriere e di ampliamento dei mercati per l'industria, che culmina con la costituzione dei grandi Stati nazionaÌi. Quest'ultimo evento ha provocato la decadenza delle Repubbliche marinare, che non avevano alle loro spalle sufficienti spazi economici e commerciali: per questo il C.C. respinge il concetto di nazione e
85 C. Cattaneo, Dei pensiero come principio d 'economia pubblica (in Opere edite e inedite a cura di C. Bertani - Cit., p. 393). 86 «Il Politecnico» Voi. V [ (1843). pp. 285-340.
XVI - LA GUERRA MARITTIMA NEL l'ENSTERO ITALIANO
1061
di economia nazionale del List, secondo il quale ogni grande nazione dovrebbe chiudersi in un recinto doganale, respingere i prodotti stranieri e sviluppare al suo interno tutte le industrie. A maggior ragione egli non condivide l'affermazione del List che una nazione è tale solo se, oltre a possedere lingua e letteratura comune e vasto territorio «ben arrotondato», dispone di «forze terrestri e marittime, capaci d'assicurarle indipendenza e commercio», mentre sempre secondo il List il commercio dei prodotti coloniali dovrebbe essere organizzato da ciascuna nazione con navi proprie, senza alcun riguardo all'indole naturale dei popoli e agli elementi geopolitici che favoriscono o meno la loro predisposizione al commercio marittimo e perciò creano delle peculiarità e delle specifiche attitudini. Contro List C.C. indica come fondamento dei rapporti internazionali il principio delle libertà dei mari e della libera concorrenza, osservando che, se si accettano le idee del List, paesi con scarso numero d'abitanti ma con grossi Imperi coloniali come Belgio, Olanda, Danimarca, Portogallo o i paesi senza forze marittime verrebbero assorbiti dalle nazionalità maggiori vicine, e «non varrebbero parimenti nella sua dottrina tutti gli imperj che comprendono più nazioni e più lingue, e perciò l'Imperio Britannico anzitutto e la Russia, l'Austria, la Turchia. Qui si vede chiaro che l'idea di nazionalità è un mero allettativo, per conciliar favore a una dottrina che tende a isolare i popoli e imbarbarirli. E quindi, o bisogna in sostanza tradurre l'idea di Nazione in quella di Stato, oppure attendere che il corso dei secoli abbia cancellato ogni differenza tra i confini degli Stati e quelli delle Lingue». Il che è vero. Ma pur constatando che «sotto il peso della massa geografica» e «in faccia alle sorgenti moli della Francia e dell ' Inghilterra» il tramonto di Venezia, dell'Olanda e del Portogallo era inevitabile, forse perché in quel momento (1843) l'Inghilterra è arnica dell'Austria e non favorevole all' unità italiana, C.C. trascura di dire due cose scomode: che secondo le teorie del List l'Italia (Lombardo-Veneto compreso) dovrebbe essere una nazione e quindi un unico Stato senza barriere interne, il che va bene anche alle sue tesi sul libero commercio; e, che, secondo le sue stesse tesi, il monopolio del commercio marittimo da parte dell'Inghilterra non era giustificato, cosa che - come si è visto anche nel precedente capitolo X - egli non ammette mai esplicitamente. Il rifiuto di misurarsi con i riflessi delle sue teorie sul problema dell 'unità italiana e del predominio mediterraneo dell 'Inghilterra non può tuttavia far dimenticare che, nelle linee generali, C.C. inquadra con assai maggiore equilibrio dello Zambelli il p~oblema della guerra marittima e della tattica navale. E diversamente dallo Zambelli ~ da altri, egli
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valuta nella giusta misura le teorie del Paixhans e i riflessi anche militari della propulsione a vapore: non è poco. Nel volume sulla guerra della sua Storia universale, Cesare Cantù poco o nulla di nuovo aggiunge alle idee dello Zambelli e del Cattaneo. 87 La guerra marittima trova in quest'opera un certo spazio, ma anche su questo argomento il Cantù più che idee originali fornisce un ottimo collage, con abbondanza di particolari sulla guerra marittima degli antichi che non si trovano da nessun'altra parte, e con numerose citaziom. In linea generale egli non si discosta dal Cattaneo, pur senza occuparsi come quest'ultimo di argomenti di carattere geopolitico e geoeconomico. E come il Cattaneo si mostra assai favorevole allo impiego bellico deJla propulsione a vapore, preoccupandosi anche di replicare aJle obiezioni e ai dubbi dello Zarnbelli (senza nominarlo). A suo giudizio l'introduzione delle navi a vapore «dovrà cambiare la guerra di mare, anche tacendo la facilità che recheranno alla terrestre col portare avvisi e soccorsi e batter le coste».88 Per suffragare questa tesi cita tutte le argomentazioni dei sostenitori del vapore francesi e italiani; e in quanto agli inconvenienti (vulnerabilità delle caldaie e del meccanismo; eccessivo spazio richiesto dal combustibile e dalle caldaie nelle navi maggiori; difficoltà nelle manovre ravvicinate ecc.) osserva che «obiezioni di tal natura sono solite ad ogni novità, di cui non sieno per anco conosciuti tutti gli effetti». Dal momento che il vapore già si è diffuso ed è ormai al servizio del commercio, deJrindustria e delle comunicazioni, qual meraviglia se non altrettanta prontezza acquistò nelle applicazioni alla guerra? Ma già alle ruote si supplisce colla vite posta nel mezzo [riferimento al Demologos di Fulton, assente nello Zambelli e nel Cattaneo - N.d.a.], ciò che dà agevolezza di allinearsi serrati; battelli di grossissima portata già vediamo; forse s'imparerà arisparmiare il combustibile e l'acqua dolce; e chi dirà i futuri miglioramenti di un'arte che si fa gigante, eppur è nata ieri? e forse un giorno la forza stessa che move questi legni verrà adoprata anche per arma, e potrà o lanciar torrenti d'acqua bollente, o una salva di scaglie, o mover irresistibili falci che impediscano I'abbordo. 89
87
C. Cantù, Op. cit., pp. 240-254; 322-330; 568-580. ivi, p. 698. 89 ivi, p. 699. Si vedano anche i dati statistici del Cantù sulle principali nazioni del tempo (pp. 648-649, 669-670; 672). 88
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Interessanti anche i dati statistici sulle principali marine del tempo, completati da un riferimento preveggente alla possibile, futura potenza marittima della Prussia: «si è più volte discorso di dar una bandiera sola alla marina mercantile germanica, e farla rispettata mediante una militare federazione, rinnovando i tempi della Lega anseatica. Allora la Prussia acquisterebbe quella forza di mare, della cui mancanza oggi soffre».90 Affermazione, quest'ultima, che sarebbe piaciuto molto all'economista nazionalista List, avversato dal Cattaneo. Il Cantù cita anche Ja relazione dell'ambasciatore veneto Daniele Barbaro (1551), che dopo aver lodato Ja gagliardia e il coraggio del soldato inglese, testimonia quali radici antiche ba la potenza marittima dell'Inghilterra: gl'Inglesi, per la moltitudine dei porti e dell'isole, hanno una grandissima copia di navi e di marinari, e nel mare valgono assai. Possono fare nei bisogni da cinquecento navi, delle quali cento e più sono coperte, e molte per uso della guerra continuamente sono servate in diversi luoghi . Ci sono anche da settanta navigli ch'essi chiamano galeoni, non molti alti, ma lunghi e grossi, con li quali hanno fatto nelle guerre passate tutte le fazioni. Non usano galere per la grandissima forza dell'Oceano [ ... ]. La disciplina militare degl'Inglesi sarebbe compitamente ordinata, se avanti il bisogno fossero i soldati esercitati come si conviene [nel 1551 l'Inghilterra in campo terrestre poteva contare solo su milizie mobilitale all'occorrenza - N.d.a.], e come sono quelli di mare, che tengono il mare continuamente sicuro dai corsari fiamminghi e bretoni, e specialmente dagli scozzesi, che non riguardano né a pace né a tregua, essendo molto bisognosi, ma con tutto ciò non ardiscono molestare i luoghi e porti inglesi. 91
A proposito dei vantaggi che assicura il potere marittimo il Cantù cita Richelieu (vds. capitolo XV) ma non il nostro Rocco; nessun accenno ai problemi specifici del Mediterraneo, e per quanto riguarda le forze militari e marittime degli Stati italiani, solo poche frasi. Pur possedendo piazzeforti ben munite e «opportunissime linee geografiche strategiche», l'Italia ha «scarsi gli eserciti e la marina». Il regno di Sardegna «possiede alcune grosse fregate, ma non navi di linea». La Marina del regno delle due Sicilie «ha due vascelli di linea da 80 a 82, tre fregate da 60, 48, 46, e si va crescendo il numero delle navi a vapore». 92 E' tutto, ed è un po' poco.
90
ivi, p. 654. ivi, pp. 398-399. 92 ivi, pp. 659-661. 91
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SEZIONE IV- Le contrapposte tesi sulle possibilità tatticostrategiche della propulsione a vapore
Gli accenni alle applicazioni militari della propulsione a vapore dello Zambelli, del Cattaneo e del Cantù rimangono un aspetto piuttosto marginale di teorie rivolte ad altri obiettivi: ma vi sono anche studi esclusivamente dedicati a questo argomento. Come già abbiamo accennato nel capitolo V, nel 1816 - cioè a due anni dal varo del Demologos di Fulton - il toscano Cav. Luigi Serristori pubblica a Firenze un Saggio sopra Le macchine a vapore che è il primo in Italia a lumeggiare con sufficiente approfondimento - e con fiducia persino eccessiva negli sviluppi futuri - le applicazioni militari della propulsione a vapore. Oltre a fornire la consueta, minuta descrizione dei progressi tecnici della macchina a vapore e dei vantaggi generali che la sua applicazione alla navigazione comporta (senza menzionare gli svantaggi), il Serristori afferma che, dopo il positivo esperimento di navigazione commerciale a vapore tra New Yurk e Charlestown nella Carolina Meridionale, negli Stati Uniti si è ormai arrivati a progettare navi da guerra a vapore in grado di attraversare l'Atlantico: incoraggiati gli abitanti degli Stati Uniti da questo fortunato sperimento hanno applicato i primi il vapore agli oggetti di guerra, avendo costruite due Fregate, la prima delle quali chiamarono Fuiton the first in onore del loro ingegnoso Concittadino. A differenza delle altre Navi mosse da simile forza, avvi in queste una sola ruota a pale, che è situata nella loro metà. Il loro ponte è a prova di bomba, e le loro pareti sono costruite in modo, che le parti interne, ove si trovano la ruota e la Macchina, sono al coperto di ogni danno. Non vi si vedono né alberi, né vele, né tampoco timone esterno, giacché per mezzo di un conveniente meccanismo si governano internamente. Si muovono indifferentemente sì progredendo, che retrocedendo. Ripetute sperienze hanno mostrato che navigano felicemente, malgrado che un vento gagliardo investa direttamente la prua, e che con gran facilità resistono alla forza delle correnti, circostanza, che le rende molto superiori a tutti gli altri vascelli da guerra, che non possono essere posti in azione senza la forza del vento, e dei quali molto aumentano la velocità le maree, e le correnti. Sono fabbricate in guisa tale, che si manovra al coperto al disotto del livello della acqua essendo le batterie, come suol dirsi, a fior d'acqua, ond'è che avvicinar si possono moltissimo al nemico senza verun rischio. La prima fu varata alla Nuova-York nell'anno 1814; le sue pareti avevano 5 piedi di profondità; era armata di 32 pezzi di cannone da 18. La seconda fregata che fu lanciata in mare
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l'anno scorso pure alla Nuova York è costruita in dimensioni più grandi. La lunghezza è di 300 piedi inglesi; la larghezza di 200; la profondità di 13; le sue pareti sono formate di tavole di quercia, e di sughero alternate. E' annata di 44 pezzi di cannone, di cui 4 sono da 100 libbre di palla; gli altri sono da 60, e da 42. E' da notarsi che le palle, che lanciano, sono infuocate a quel fornello stesso situato al disotto la caldaja della Macchina. Sono tanto più terribili queste fregate, che non solo distruggono i vascelli tutti, ogni qualvolta sieno impediti dal vento o dalla marea di prendere la fuga, ma pur anco allorquando si volesse tentate l'arrembaggio per mezzo di piccoli legni. In tal caso possono queste fregate per mezzo di un'opportuna meccanismo far muovere avanti le loro batterie 300 sciabole con una perfetta regolarità, 4 volte per minuto vibrare al di fuori con una forza incredibile altrettante lunghe picche, che rientrano vicendevolmente nel loro seno per uscire nuovamente, e finalmente scaricare I 00 botti di acqua bollente per minuto. Qual forza umana può vincere simili macchine? Risulta, che l'eminente qualità, che le contraddistingue, e le rende superiori a tutte le altre Navi da guerra è che possono offendere per ogni modo senza ri schiare di esserlo. Possono considerarsi come fortezze mobili, atte a colare a fondo in una rada una squadra navale. Così ogni porto di mare possiede adesso i mezzi i più distruttori da proteggersi da se stesso, e rendersi inattaccabile contro i tentativi di un nemico, comunque formidabile. Pare, che si persista tuttora nel progetto di costruire una Nave a vapore per passare dagli Stati Uniti in Europa. Ardita idea! Avvi però gran motivo di credere, che la lunghezza del viaggio possa farne mancare l'esecuzione.93
Segue una particolareggiata descrizione delle già numerose e positive applicazioni del vapore alla navigazione commerciale d'altura in Europa, incominciate nel 1814 con il viaggio di una nave passeggeri da Dublino a Londra, accompagnata da considerazioni - anch'esse fin troppo ottimistiche - relative alle prospettive che si aprono per l'Italia: l'Italia, che ha la capacità di essere tutto, quando lo voglia efficacemente, è a senso mio in circostanze più favorevoli di qualunque altro Paese, onde profittare con incalcolabile vantaggio di questa oltramontana invenzione. I due mari, che la circondano, le sue coste estesissime, il copioso numero di ragguardevoli città marittime, le considerabili isole, che le appartengono, la varietà dei prodotti
93
T.. Serristori, Op. cit., pp. 73-76.
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del suolo, la diversità che n'è conseguenza anche nelle sue opere di manifattura, i molti cospicui fiumi, che in ispecie nella sua parte settentrionale la irrigano, sono tutte circostanze speciali che sembranmi dimostrare con tutta evidenza la verità della mia qualunque siasi asserzione.94
Secondo il Serristori la mancanza di carbone non è un problema, perché in Toscana, nell'Isola d ' Elba, in Piemonte e nel Regno di Napoli si trovano cospicui giacimenti d'antracite che potrebbero essere sfruttati, e altri se ne potrebbero trovare. Lo sviluppo della navigazione a vapore sui fiumi del nord e del cabotaggio nel sud potrebbe rendere molto più agevoli e economiche le comunicazioni, sviluppando l'industria e il commercio e unendo maggiormente gli italiani. Il breve saggio termina con un appello agli italiani perché «risorgano da quella specie di abbandono, che ha spento in loro una parte del sentimento antico per l'onesta fatica», e sviluppino la navigazione a vapore, «il quale uso produrrà una prospera mutazione in tutte le nostre relazioni». Dobbiamo rinunciare dice il Serristori - a qualunque genere di gloria, che non sia «quella, che dipende dai progressi dell'industria, e da11a coltura d'ogni ramo dell' umano sapere». In tal modo «faremo cessare in gran parte le declamazioni dello straniero contro di noi, e si mitigherà quel disprezzo, che se non del tutto, almeno in parte ci si compete».95 Come già si è visto nel precedente capitolo V, il napoletano Parrilli sostiene tesi esattamente opposte a quelle del Serristori; se quest'ultimo sconfina nel futurismo, il Parrilli non va al di là del presente e di difficoltà pratiche peraltro superabili alle quali accenna anche lo Zambelli. Oltre che nel suo già citato Vocabolario militare di marineria francese-italiano del 1846, il Parrilli espone il suo punto di vista conservatore in una lunga Memoria intorno ai piroscafi da guerra sull'Antologia Militare del 1844 (la prima del genere), compilata avvalendosi dei disegni di costruzione della nave inglese Fenice, che aveva sostato a Napoli nel 1840.96 Il giudizio riduttivo sulle possibilità di applicazione del vapore alle navi da guerra che abbiamo già riportato nel precedente capitolo V, è solo la sintesi di questa Memoria, nella quale - diversamente da quanto avviene nel vocabolario - non si trova alcun accenno alla minore vulnerabilità ormai consentita dalla propulsione ad elica. Vi si descrivono assai bene i vantaggi dei cannoni a bomba del Paixhans, ma - more soli-
94
ivi, p. 87.
95
ivi, p. 96. «Antologia Militare» 1844, Anno IX - Voi. XVII Primo Sem., pp. 193-245.
96
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to - non vi si parla della possibilità di rivestire con una corazza le nuove navi a vapore, assicurando loro quella superiorità decisiva sui grandi vascelli a vela, che è pervicacemente negata dal Parrilli e invece ben sostenuta dal Paixhans. Interessante e nuovo, tuttavia, l'accenno al perfezionamento tecnico del sistema Paixbans da parte del generale inglese Millar, il quale è riuscito a diminuire il peso dei cannoni del Paixhans e a ridurne il rinculo, di modo che i piroscafi inglesi al momento sono armati di due cannoni a bomba «alla Millar», uno da 128 libbre e l'altro da 64, e di 4-8 cannoni lunghi da 32, mentre quelli francesi hanno tre obici - cannoni alla Paixhans da 80 e 6-8 cannoni da 30. I piroscafi della marina napoletana - secondo quanto riferisce il Parrilli - sono armati con un miscuglio di artiglierie dell'uno e dell'altro tipo, e precisamente di due cannoni a bomba alla Millar delle stesse dimensioni degl'Inglesi, che ridotti alla misura in uso presso il nostro Real Corpo di Artiglieria rispondono a 117 e 60 libbre, non che quattro obici-cannoni-obici alla Paixhans da 30, ai quali si sono voluti aggiungere due obici di bronzo da montagna, da 12 libbre, da servir per uso delle milizie da sbarco.
Queste artiglierie - precisa il Parrilli - sono state costruite nei Reali stabilimenti della Fonderia e del Parco di artiglieria di marina di Napoli, sotto la direzione degli ufficiali d'artiglieria colonnello Raffaele Carrascosa e maggiore Francesco D'Agostino, «nulla lasciando a desiderare, e per la resistenza del metallo, e per la loro gettata, e per la perfetta struttura dei loro carretti», e sono state montate a bordo del piroscafo da 300 cavalli Ruggero. In conclusione, non si sa se volutamente o meno il Parrilli trascura completamente la fondamentale funzione di trasporto di truppe che già nella guerra d'Algeria le navi a vapore avevano mostrato di essere in grado di svolgere con ottimi risultati. E le due prime navi da guerra corazzate a vapore costruite negli Stati Uniti e tanto esaltate dal Serristori, a causa dei difetti e pericoli che presenta il loro impiego vanno considerate, a suo giudizio, «più come uno sforzo di meccanica, che come macchine adatte alle presenti condizioni della navigazione e della guerra navale». Contemporaneamente - e qui sta la contraddizione - il Parrilli riconosce che gli inglesi sono riusciti a perfezionare notevolmente questi due primi modelli di navi da guerra eliminandone i difetti, cosicché «risoluti favorevolmente tali problemi, sono divenute queste navi di uso comune presso tutti i popoli inciviliti che posseggono forze navali, fra i
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quali primo ad annoverarsi fra gli Stati Italiani era il Regno delle due Sicilie». Se - a detta dello stesso Parrilli - gli inconvenienti erano stati eliminati e se i pfroscafi erano in via di continuo perfezionamento, se anche la marina del Regno di Napoli al tempo già possedeva un buon numero di navi a vapore, che cosa impediva la sia pur progressiva estensione delle nuove artiglierie e delle nuove navi a tutta la flotta? Questo il Parrilli non lo dice. Tra il Serristori entusiasticamente a favore dell'impiego militare della propulsione a vapore e il Parri11i accesamente contrario, una posizione intermedia occupa il veneziano Gaspare Tonello, «pubblico professore di costruzioni navali e di manovra nell'I.R. Accademia Nautica di Trieste» e autore assai citato al suo tempo. Nelle sue Lezioni intorno alla Marina, sua storia ed arte con notizie di arte propria97 il Tonello fa la storia della propulsione a vapore e ne esalta i vantaggi commerciali, senza nasconderne i difetti che a suo dire la rendono adatta solo per la navigazione fluviale, mentre la sua utilità nei lunghi viaggi per mare al momento (1829) non è ancora stata dimostrata. In quanto all'impiego militare, pur dedicando la sua opera al comandante della marina austriaca e pur insegnando in un'accademia navale il Tonello si dimostra insolitamente pacifista, quasi rifiutandosi di andare a fondo su questo problema: purtroppo però tutti questi immensi vantaggi [della propulsione a vapore] vengono resi inutili dall'impiego inumano col quale la ferocia dell'uomo cerca di far servire il vapore. Già molti saggi si fecero per islanciare i proiettili con questa nuova potenza, e quel gran galleggiante ideato ed eseguito dal Fulton negli Stati Uniti, è una terribile prova della forza del vapore, e dei mezzi di farlo servire per danneggiare soverchiamente un nemico, tanto che forse resta indecisa l'utilità dell'invenzione nel cuore dell' uomo filantropo. 98
D'altro canto, pur fornendo risultati considerevoli - prosegue il Tonello - la macchina a vapore è ancora all'infanzia, e sarebbe troppo azzardare previsioni sui cambiamenti ai quali potrà dare luogo «nelle costruzioni, nella navigazione e nella guerra marittima, tenendo conto che «l'invenzione dei bastimenti di ferro, e dei battelli submarini possono portare pure delle modificazioni all'attuale sistema».
97
Venezia, Tipografia di Alvisopoli 1829 (4 Volumi).
98
ivi, Voi. Ili (appendice sui bastimenti a vapore), p. 145.
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Il Tonello avverte il lettore che questi argomenti non sono attinenti alle finalità della sua opera, ma quel poco che ne dice non manca d'interesse, anche perchè sull'impiego militare dei piroscafi si ripercuotono a maggior ragione gli inconvenienti dei quali egli fa un lungo elenco. A quanto ci risulta, è anche il primo ad accennare al futuro avvento del sommergibile; forse egli si riferisce agli esperimenti dell'ingegnere americano del Connecticut David Bush, inventore della torpedine (1775), che durante la guerra d'indipendenza americana aveva proposto al Governo provvisorio degli Stati Uniti un battello sottomarino denominato «testuggine americana», atto a portare le torpedini sotto la chiglia delle navi nemiche. Nel 1777 questa prima arma subacquea, pilotata dallo stesso inventore, era riuscita a far esplodere una piccola nave inglese.99
SEZIONE V - Spunti di strategia e tattica navale Forse per ragioni politiche e di censura, il Parrilli ignora le tesi di un grande scrittore meridionale coevo come Guglielmo Pepe, che fin dal 1836 (vds. capitolo XIIT) inserisce per primo - con ottica interforze - le navi da guerra a vapore nella prospettiva strategica della guerra per l'indipendenza nazionale. Come già si è visto, ne L'Italia Militare il Pepe prevede che in caso di guerra contro 1'Austria la flotta napoletana con l'aiuto di quella francese avrebbe dominato l' Adriatico, minacciando non solo le coste italiane deJJ' Adriatico in mano ali' Austria ma anche l'Istria e la Dalmazia; inoltre gli austriaci avrebbero potuto essere attaccati anche dalla parte del Tirreno, mentre sarebbe bastata la comparsa della flotta inglese al largo delle coste siciliane per far insorgere l' intera isola. Il Pepe ammette di non essere competente in fatto di cose di marina: ma questo non gli impedisce di riconoscere che la marina è «un'arma per la quale Italia un giorno primeggiar debbe, ed a cui rivolger dovrebbe le sue cure fin da' primi momenti della sua esistenza politica» e di indicare nelle grandi linee il ruolo geostrategico e la composizione delle forze di mare napoletane: queste nè primi tempi composte andar dovrebbero di legni atti a proteggere i nostri estesi lidi, non tanto da sbarchi, da' quali poco tener dovremmo, quanto dalla presenza delle nemiche armate, che cercassero di far divenire incerte le nostre operazioni strategiche,
99
«Enciclopedia Militare». Voi. II. p. 514.
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opponendosi al loro rapido passaggio da un punto all'altro della penisola. Il sistema da noi indicato nella prima parte di questo lavoro, sulle piazze forti marittime, e la recente scoperta de' battelli a vapore sarebbero molto adatti per porne in stato di conservare aperto il mare alle nostre mosse, con marina anche di molto inferiore alla nemica. Le piazze marittime gioverebbero offrendo asilo contro la fortuna di mare, e contro nemiche forze; ed i legni a vapore non solo trasporterebbero i nostri battaglioni da un lido all'altro, ma anche ognuno di essi a dispetto de' contrari venti, seguir si farebbe da altri legni che a vapore non fossero. Né il nemico opporrebbe alla nostra marina un numero di battelli a vapore proporzionato a' nostri, dacché niuno ignora quanto tempestoso sia il Mediterraneo, e che tali battelli azzardati andrebbero oltre il dovere, quando navigassero a grande distanza de' porti nemici. 100
Si tratta, in sostanza, di un sistema integrato e basato sul trinomio navi a vapore - truppe da sbarco - piazze marittime, tra le quali occuperebbero un posto di grande rilievo le basi di Taranto, Otranto e Brindisi, anche in vista delle possibili proiezioni di potenza verso la Grecia e l' Oriente. JOt E nell' ltalie politique et ses rapports avec la France et l'Anglelerre del 1839 il Pepe dedica un intero capitolo, i1 terzo, ai «vantaggi che l'Italia potrebbe trarre dai battelli a vapore in caso di guerra difensiva o insurrezionale». 102 In questa occasione egli si ripromette anzitutto di dimostrare che le piazzeforti marittime forniscono un rendimento sotto tutti gli aspetti superiore a quelle che si trovano all'interno, perché possono essere sostenute e alimentate dal mare. Le argomentazioni addotte a sostegno di questa tesi sono interessanti e spesso condivisibili, ma non considerano a sufficienza che, nella maggior parte dei casi, colui che stringe d'assedio una piazzaforte marittima ha anche il dominio del mare, che è premessa ineludibile perché l'assedio risulti efficace. Infatti il Pepe afferma che «in primo luogo, una piazza marittima non si può prendere per fame, a meno che il nemico sia ugualmente superiore per terra e per mare». Proprio qui sta il punto: e il Pepe si dimostra assai ottimista, prevedendo che con una buona flotta a vapore l'Italia non avrà nulla da temere. Le altre ragioni ruotano tutte intorno a questa possibilità ipotetica, che è solo tale: «il mare libero non fornisce solamente dei viveri, ma consente lo sgombero dei malati e dei feriti, facilita il rimpiazzo delle
100 G . Pepe, L'Italia
Militare ... (cit.), p. 46. ivi, pp. 20-21. 102 G. Pepe, L'Italie politique ... (cit.), pp. 69-84.
101
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perdite di personale e materiale, e gli abitanti possono lasciare la piazza quando lo vogliono o quando ciò si rende necessario». Inoltre: a) se il nemico distaccasse un corpo d'osservazione per tenere sotto controllo dalla parte di terra una piazza marittima, potrebbe trovarsi a mal partito, perché la guarnigione di quest'ultima potrebbe essere facilmente rafforzata; b) le guarnigioni delle piazze marittime possono essere in ogni momento recuperate e impiegate altrove; e) pertanto esse se cade la piazza, non cadono in mano al nemico; d) non vi è niente di più triste e di più malsano per gli abitanti e la truppa delle piazzeforti assediate lontane dal mare: al contrario, le piazzeforti marittime possono sempre contare sulla salubrità dell'aria e su viveri freschi e abbondanti, il che rende i difensori più determinati; e) le piazzeforti marittime sono meno costose, perché le opere per la difesa del fronte a mare non hanno bisogno di essere forti come quelle che danno sull'aperta campagna, e il trasporto del personale e del materiale per la piazza è più economico via mare che via terra. L'altro baricentro de11a riflessione di G.P. è la peculiarità dei vantaggi geostrategici che l'Italia potrebbe trarre da una flotta di battelli da trasporto a vapore, a causa della sua favorevole conformazione geografica: il territorio della Spagna, della Francia e dell'Inghilterra non ha la forma stretta e lunga di quello dell'Italia, e le loro coste sono meno cslese e non hanno così vicine alte catene montagnose: di conseguenza, queste nazioni in caso di guerra difensiva non potrebbero trarre dai battelli a vapore i medesimi vantaggi delTa penisola italiana.
Se l'Italia disponesse di un numero di battelli a vapore utili per il commercio in tempo di pace, e sufficiente per trasportare in caso di guerra un corpo d'armata (sia pur con l'aiuto di altri bastimenti non a vapore), «le operazioni strategiche che potrebbero essere richieste a questo corpo sarebbero varie e numerose proprio come le combinazioni ottenibili dalle pedine sullo scacchiere». Secondo G.P., supponendo che l'Italia, una volta unita e indipendente, sia attaccata dall' Austria e che 1'esercito austriaco occupi la Lombardia, da parte nostra servendosi dei battelli a vapore e delle sue piazzeforti di Venezia e Genova, sarebbe possibile «portare le nostre forze e anche i due terzi delle guarnigioni delle altre piazze marittime sul tergo dell'avversario o anche ai suoi fianchi, a nostra scelta». E in caso di esito sfavorevole delle operazioni le nostre truppe avrebbero pur sempre aperta la via della ritirata verso Genova, verso Venezia e verso gli Appennini, «e da qui essi potrebbero puntare su La Spezia oppure gettarsi su Bologna, imbarcando le loro artiglierie».
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Una volta padroni del mare, gli italiani non potrebbero mai perdere Venezia, e se il nemico dovesse assediare Genova sarebbe la sua fine, perché tutte le forze italiane, ivi comprese quelle che si trovano in Sicilia e nelle piazzeforti dell'Adriatico, potrebbero facilmente essere concentrate con rapidità, via mare, in Liguria. Se il nemico dovesse marciare su Bologna, dai due mari opposti potrebbero essere qui concentrate tutte le forze italiane. Meglio ancora se, superati tutti gli ostacoli, il nemico avanzasse in profondità nell'Italia peninsulare verso Foligno: perché in questo caso le forze itaJiane avrebbero la possibilità di attaccare la Lombardia attraverso Venezia, e Bologna attraverso Portoferraio. E più lo straniero s'inoltrerà nell'Italia Meridionale, più sarà facile per le nostre forze manovrare dall'Appennino e dai due mari contrapposti, sia per sbarrare il passaggio al nemico, sia per investirne i fianchi e il tergo. L'ipotesi che il nemico penetri così in profondità - precisa G.P. - è però solo tale: essa è stata formulata «per meglio indicare i vantaggi che i battelli a vapore fornirebbero agli italiani nel cac;o che fossero obbligati a difendersi». Con molto ottimismo, egli ritiene che siano sufficienti uno o due anni per organizzare forze sul tipo di quelle descritte: una volta fatto questo «qualsiasi esercito straniero che osasse attaccarle andrebbe incontro alla sua fine tra le Alpi, Genova, La Spezia, Bologna e Venezia. L'invenzione dei battelli a vapore contribuirebbe molto alla sua rovina su questo terreno; tuttavia man mano che si scende verso il meridione l'importanza di questi battelli aumenterebbe». Fantastrategia? ci siamo vicini: ma non senza un briciolo di utile genialità. Il destino ha voluto che G.P., generale comandante della eroica ma sfortunata difesa di Venezia nel 1849, constatasse di persona la fallacità delle sue teorie. Anche la sua fede nei rapidi trasporti di truppe su navi a vapore e nella possibilità per le forze navali italiane di diventare padrone dell'Adriatico e comunque di poter liberamente manovrare lungo le coste, non sarà confermata dagli avvenimenti; la sua comunque rimane la prima concreta indicazione strategica sull ' impiego delle forze navali italiane, il cui pregio è accresciuto dalla ricerca di un coordinamento con le forze terrestri. Né possono essere definite strategicamente prive di fondamento le sue considerazioni sull'importanza delle piazzeforti marittime di Genova, di Venezia e della Puglia, e sulle possibilità di sbarchi dai due mari contrapposti, per prendere alle spalle l'avversario in una guerra lungo la penisola. E la guerra di secessione americana 1861-1865 avrebbe in certo senso accreditato le sue teorie sull'importanza degli sbarchi e del rapido spostamento di truppe lungo le coste e i corsi d 'acqua. Il pregio maggiore della parte navale del pensiero di G.P., di essere
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cioè la prima concreta indicazione delle grandi linee di una strategia nazionale e interforze per le forze marittime, è anche un limite: perché non solo e non tanto nel campo della teoria strategica, ma anche nel capo della tattica navale il trattato del francese Ramatuelle ad uso della marina napoletana (capitolo XV) brilla di luce solitaria e non ha alcun corrispettivo nell'altra grande Marina italiana, quella piemontese. Secondo l'amm. lachino, in quest'ultima prima del 1861 erano in vigore norme di Tattica regolamentare che prevedevano solamente la linea di fila o di fronte semplice, o le colonne di squadra. Inoltre «la tattica prevedeva le evoluzioni per passare dall'una al1'altra di tali formazioni, e conteneva anche, come vedremo, qualche breve cenno sui criteri di condotta del combattimento, i quali non erano però stati ancora collaudati da nessuna esperienza di vera guerra». 103 Non abbiamo potuto rintracciare un testo o regolamento che contenga queste norme; il Giornale Militare del tempo contiene numerosi provvedimenti che riguardano l' «armata di mare», ma - come avviene anche per l'annata sarda di terra - essi si riferiscono essenzialmente a questioni di routine e logistico-amministrative, rivelando un carattere per così dire jominiano, con quell'esagerato amore per le minute prescrizioni e per le inutili distinzioni che contraddistingue la mentalità militare piemontese del periodo. Il più importante di questi regolamenti, che tutti denotano la solita cura eccessiva dei particolari e delle minute prescrizioni, è L'Istruzione provvisoria per il servizio dei bastimenti da guerra della Marina di Sua Maestà dell'ammiraglio Giorgio des Geneys, comandante della marina sarda fino al 1821. 104 E' tutto meno che un trattato di tattica navale, anche nel senso comunemente attribuito a tale termine al tempo, cioè di istruzione tecnica per il mantenimento delle formazioni e per il passaggio da una formazione all'altra. All'inizio del volume, l'ammiraglio Des Geneys raccomanda ai comandanti dei bastimenti da guerra e ai suoi luogotenenti di procurarsi le Observations et instructions à l 'usage des officiers entretenus, jeunes officiers, et autres de la Marine anglaise, par un capitaine de vaisseau de la Marine britannique. I comandanti de]]e navi - egli aggiunge - sono autorizzati ad applicarle per quanto non in contrasto con le istruzioni contenute nel suo libro, facendone però rapporto. Indicazioni assai significative, che dimostrano quanto precaria poteva essere l'efficienza bellica e morale di una
103 104
A. lachino, i.A tattica navale a Lissa, «Rivista Marittima» n. 7-8/1966 pp. 17-18. Genova, F.lli Pagano 1826.
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marina, il cui Capo da una parte rimandava a un testo inglese tradotto in francese, e dall'altra però pretendeva un rapporto da parte di chi le applicava, il che indica quale precario grado di autonomia avevano i comandanti delle navi e quanto evanescente fosse la prospettiva di un pensiero, di una dottrina navale nazionale. Il libro comprende essenzialmente una raccolta di minute disposizioni logistico-amministrative (542 articoli, più 22 addizionali) concernenti la vita a bordo, i servizi previsti, le attribuzioni dei vari livelli gerarchici, le modalità per l'ingresso e la permanenza nei porti, per saluti, segnali, onori, ecc.; norme per l'uniforme; norme per l'esercizio e la manovra delle bocche da fuoco, con tavole relative ai calibri e polveri etavole comparative delle artiglierie navali francesi e inglesi; regolamento di disciplina militare per gli equipaggi e le truppe di marina. Due gli argomenti che colpiscono di più: l'elencazione degli interminabili doveri dell'ufficiale di Marina e delle estese conoscenze che si pretende possegga nei più svariati settori anche non militari, e il rigore estremo delle punizioni, corporali e non. Nella prefazione, il Des Geneys si dichiara persuaso che i Sigg. ufficiali saranno penetrati, quanto io lo sono, che dall'uniformità nell'ordine di servizi, e daJla perfetta disciplina ne dipende l'esito felice di tutte le operazioni militari e soprattutto delle navali; che sulla regolarità del regime amministrativo, di cui essi sono incaricati a bordo dei bastimenti che comandano, è fondato pur anco lo stabilimento della marina sovra una base stabile; e che in fine non si può trovare altro mezzo di continuare a sostenere senza svantaggio il parallelo tra i legni Regj, e quelli delle altre potenze, se non quello d'una economia costante, e ben intesa della loro manutenzione.
L'indicazione della figura dell'ufficiale di Marina e delle conoscenze che deve possedere dimostra implicitamente che que1la piemontese è una marina che non è fatta per combattere battaglie decisive alla maniera nelsoniana, ma deve essere soprattutto strumento diplomatico e politico, in grado di condurre anche limitate operazioni di «proiezione di potenza» in cooperazione con l'esercito. Nelle pennellate del Des Geneys l'ufficiale di Marina è una specie di monstrum, al quale si chiede tutto, ma in compenso non si chiede che marginalmente di combattere animosamente il nemico con la sua nave. Non gli basta conoscere le scienze nautiche, quelle dell'artiglieria, dell'architettura navale e dell'idraulica, «ma deve pur anco essere geografo, idrografo, e persino naturalista; egli deve essere al corrente
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degJ'interessi commerciali, e delle leggi, regolamenti consolari, e di navigazione del Regno, come di tutti i paesi; cognizioni tutte senza cui non può essere in grado di scrivere le sue memorie, rapporti, e giornali colla chiarezza, e l'intelligenza». Scrivere un rapporto diventa in tal modo importante come saper guidare la nave in combattimento, ma non basta: l'ufficiale di Marina deve essere anche una sorta di organo del servizio di informazioni, eriferire su navi e porti di altre nazioni che ha modo di frequentare, per proporre ciò che gli parrebbe utile adottare per la marina sarda. E deve conoscere i trattati commerciali internazionali, gli usi e costumi dei vari popoli, le lingue ecc., perché può essere incaricato di condurre un negoziato, «sia per sostenere l'onere della bandiera, ed i diritti dei sudditi di Sua Maestà, sia per esigere una giusta riparazione, sia per preparare dei trattati utili, prevenire dei messaggi lontani, e render vane le mire rivali, e ostili». Tutte cose che, al tempo, potevano essere fatte dalla Marina sarda solo contro (o con) i corsari nordafricani, e i potentati musulmani che li sostenevano. Anche per questo il Des Geneys aggiunge che l'ufficiale di marina deve conoscere l'arte militare terrestre, la fortificazione ecc., perché può essere destinato a comandare degli sbarchi e a cooperare - isolato - con le forze terrnstri. Infine deve essere un buon amministratore non solo a bordo della nave al suo comando, perché può essere chiamato anche a dirigere degli arsenali. Uno dei pochi accenni alla tattica navale, che dimostrano quale sia il clima a bordo del1e navi sarde e lo spirito burocratico e il culto della formazione tipico di padre Hoste che vi domina, è un'indicazione delle procedure da seguire nel caso che, per un qualsiasi motivo, il bastimento in navigazione si trovi ad essere separato dal resto della squadra: il comandante dovrà allora «convocare tutti gli ufficiali comandanti di quarto per conoscere, e constatare la vera causa di una tale navigazione; ne farà redigere un verbale che sottoscriverà unitamente a tutti gli ufficiali suddetti, e alla fine della campagna, o quando i bastimenti approderanno a Genova, un tale processo verbale dovrà essere rimesso a1 comandante in capo della marina per essere sottoposto all'Ammiragliato». In conclusione, quella piemontese può essere definita una Marina jorniniana, così come jominiana è l'armata sarda: molta burocrazia, molti, troppi regolamenti e minute prescrizioni che soffocano lo spirito d'iniziativa dei comandanti, indispensabile in battaglia; un profilo ideale dell ' ufficiale di Marina che ne fa un diplomatico, un amministratore, un uomo di mondo e di cultura più che una combattente. Del resto - e ciò avviene anche in campo terrestre - la guerra classica tra flotte di nazioni
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europee non era nelle prospettive militari del tempo; ciò non può non avere dei riflessi in campo teorico. Naturalmente una siffatta Marina non ha, nemmeno in nuce, alcun spirito nazionale; e anche l'attenzione per gli sbarchi è derivata dalla marina francese, in quei tempi ormai proiettata sulle esigenze della guerra d'Algeria. Così l'austriaco barone colonnello Werklein, nel suo citato volume (tradotto dal tedesco) Ricerche intorno al servizio dello Stato Maggiore Generale e il Governamento degli Eserciti con un progetto su le discipline di quello (1830), dedica la Sezione Undecima all' «imbarcazione e sbarco delle truppe», corredandola di interessanti specchi e precisando di aver tratto la materia «dall'opera del generale Grimoard, voltata dal francese in tedesco». Non ci soffermiamo sui particolari, e ci limitiamo a mettere in rilievo solo due cose: che l'opera del Grimoard riportata dal Weklein è la prima che si conosca ad affrontare nei particolari tecnici questa materia, e che anche allora - si pensi alle artiglierie, ai quadrupedi, alle attrezzature logistiche ecc. - lo sbarco era operazione estremamente complessa, anche se relativamente facile da concepire nelle linee essenziali. Sarebbe errato, comunque, fare del des Geneys il più illustre rappresentante del pensiero navale piemontese o settentrionale. A parte Carlo Botta (unico autore italiano del periodo sia pur fuggevolmente citato dal Mahan nella sua Influenza del potere marittimo sulla storia, p. 16), anche il generale del genio dell'I.R. esercito Camillo Vacani nella sua Storia delle campagne e degli assedi degl'italiani in Spagna dal 1808 al 1813 (1823-1825) dedica una certa attenzione alla guerra sul mare tra Spagna e Francia e Inghilterra e alla sua influenza sul1e operazioni terrestri. Un'opera autentica di strategia e tattica navale nel senso attuale del termine è però quella - finora ignorata sotto questo profilo - di Giacomo Lombroso (da non confondere con Alberto Lumbroso), che nelle sue Vite dei primarj Marescialli e Generali francesi, italiani, polacchi, russi, inglesi, prussiani e spagnuoli che ebbero parte nelle guerre napoleoniche dal 1796 al 1815 dedica largo spazio alla figura dei due grandi protagonisti della guerra sul mare, Nelson e Villeneuve, senza dimenticare il valoroso e capace ammiraglio meridionale Gravina (l'unico italiano), caduto a Trafalgar. 105 Sullo sfondo delle biografie dei due ammiragli rivali - magistralmente tracciate - vi è la guerra sul mare tra Francia, Spagna e Inghilter-
105
Milano, Borroni e Scotti, Parte Prima (1840) e Parte Terza (I 848).
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ra, e si trovano considerazioni di carattere strategico e tattico che vanno al di là delle battaglie decisive di Aboukir (1798) e Trafalgar (1805), delle quali viene data la miglior descrizione anche oggi conosciuta in Italia. Troviamo, infine - come avviene in altri scrittori coevi - un ampio anche se opinabile esame delle differenze tra guerra marittima e terrestre e tra Capo di forze di mare e di terra. Pur riconoscendo che «sul mare il Britanno non conosce né legge né fede» 106 e che nella vita privata e nella riprovevole condotta a Napoli Nelson dimostra tutti i difetti del popolo inglese, il Lombroso ammira il grande patriottismo e il freddo coraggio di questo popolo, e nella condotta strategica e tattica di Nelson riscontra la magistrale applicazione dello stesso principio della massa e della celerità di movimento, che anche in campo terrestre sono «la gran legge di guerra, senza la quale non avvi vittoria». Come avviene per Napoleone, «nel concepimento di Nelson scorgere, attaccare, distruggere era una medesima cosa». Egli è chiamato dal Lombroso «il Bonaparte dei mari», e i suoi successi come quelli di Napoleone sono dovuti «alla novità della tattica, alla grandiosità de' concepimenti, e molto ancora egli dovette agli esecutori secondarj, i quali seppero a tempo opportuno attenersi scrupolosamente agli ordini, ed a tempo opportuno pure discostarsene, allorché imprevedute ed imprevedibi Ii circostanze imponevano tale deviazione». HJJ Lombroso parla solo di tattica: ma non a ca<;o A.T. Mahan dedicherà un libro al Nelson stratega, visto che, come ricorda lo stesso Lombroso, la tattica [noi diremmo meglio, la strategia e la tattica - N.d.a.] di Nelson sul mare era appunto quella adottata da Napoleone sulla terraferma; quella di Alessandro, quella di Cesare, quella di Federico, dell'arciduca Carlo, di Eugenio e di tutti i celebri capitani ; quella insomma da cui scaturisce la vittoria, cioè l'arte di concentrare le proprie forze per dirigerle a proposito dove il bisogno, dove l'opportunità li chiedessero. Napoleone ha vinto perché con pari, ed anche minori forze, seppe con una saggia e ben combinata distribuzione concentrarne maggior numero nel punto decisivo e strategico Inostra sottolineatura; dunque era anche grande stratega - N.d.a.], mentre teneva a bada con falsi attacchi i corpi più numerosi dell'armata avversaria. Così Nelson, ancorché inferiore nel numero e nella forza de' suoi vascelli e nella quantità de' loro fuochi, vincer seppe e debellare i suoi avversari per la superiorità della sua tattica e delle nautiche sue cognizioni. 108 106
ivi, Parte prima, p. 267. ivi, p. 215 e 241. 108 ivi, p. 242. 100
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Il Lombroso coglie bene anche il culto eccessivo della linea di fila derivato da Padre Hoste, che già mette la flotta francese in stato di inferiorità rispetto a quella britannica. Dimenticando peraltro Suffren e de Grasse, egli afferma che gli ammiragli francesi non conoscevano altra legge per distribuire i loro vascelli che la linea retta, che era appunto sul mare come sulla terra quella dell'infanzia dell' arte. Nelson adottò la linea obliqua, invenzione foriera del perfezionamento dell'arte, e mentre la linea francese imbarazzavasi per la natura stessa della sua configurazione, la linea inglese destra ed instruita agio aveva, come meno estesa e più concentrata, di slanciarsi ove e come voleva sui vascelli i più esposti che ben presto rendeva inabili al servigio [... ] per cui mentre gli altri vascelli manovravano per giungerne in soccorso, trovavano ali' arrivare troppo tardi eguale e terribile la sorte dei loro già vinti compagni.
Se la leadership francese sul mare si è dimostrata inferiore a quella inglese, è perché «a giustificazione degli ammiragli e capitani francesi, l'indole loro e quella dei loro equipaggi e delle loro ciurme non era dotata dalla natura di quella passiva rassegnazione e di quella impassibile impazienza che rendeva suscettibili i marinari inglesi della cieca obbedienza, della schiavitù indispensabile né subalterni delle marittime turbe; uomini che il loro mestiere istesso rende da meno delle bestie, per cui è d'uopo ora frenarle ora scioglierle come le circostanze lo richiedono». Giudizio discutibile, non coincidente con il diffuso topos che i francesi sono sempre stati un popolo assai meno marinaro degli inglesi. Un topos in fondo assai vicino al vero, perché se tutto ciò che dice il Lombroso degli equipaggi inglesi fosse vero, non si spiegherebbe ciò che contraddittoriamente nota il Lombroso stesso, che cioè Nelson - diversamente dallo stesso Napoleone - una volta stabilito nelle grandi linee il piano generale poteva contare su capitani intelligenti, fedeli, coraggiosi e pieni d'iniziativa, capaci di «abbandonare a proposito i posti meno importanti per volare con rara perspicacia dove il bisogno, dove l'onore chiamavanJi a dividere i pericoli e riparare i rovesci». 109 In altra parte del testo il Lombroso attribuisce l'inferiorità francese sia al fatto che la rivoluzione è riuscita benefica alle forze terrestri francesi ma assai dannosa ali' efficienza anche morale delle forze marittime, sia al fatto che «il francese prode ed intrepido mostrasi combattendo sulla terra ferma, assoggettan-
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ivi, p. 220.
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dosi eziandio alle leggi della più severa disciplina, ma non è atto a que1la passiva obbedienza, a quella macchinale immobilità che si richiede negli uomini destinati a combattere sull'acque; e questo nasceva e nasce per effetto d'indole viva e caratteristica della nazione». I 10 Insomma: non dice mai la cosa più semplice che molti allora in Italia e fuori dicevano, che cioè i francesi erano un popo1o meno marinaro di que11o inglese, e davano il meglio di sé nella guerra terrestre. D'altro canto il coraggio, il patriottismo, lo spirito pratico, il carattere fermo e determinato degli inglesi anche sul mare sono sempre state la vera carta vincente della Gran Bretagna e de11a sua leadership; doti ben diverse, queste, dalla «passiva obbedienza e da1la macchinale immobilità» ne11a quale secondo il Lombroso si riassumeva la superiorità inglese, e che non spiega i grandi ammirag1i che l'isola ha sempre espresso diversamente dalle altre nazioni del continente. Non condivisibili nemmeno le idee del Lombroso a proposito delle differenze tra doti del capo terrestre e navale, sintetizzate dalla frase piuttosto infelice che «il generai di terra ha bisogno d'inspirazione e di genio, mentre talento, perizia ed esperienza bastano al marittimo condottiero» (lo stesso più o meno pensava Napoleone - vds. capitolo XV). Dunque il capo navale non avrebbe bisogno di genio e d ' ispirazione! Per oltre due pagine il Lombroso si preoccupa di accentuare le difficoltà della guerra terrestre, e di alleggerire quelle del1a guerra marittima: la scienza della navigazione lungi dal1'essere soggetta all'imprevedibilità del vento e degli eventi atmosferici, è «ormai stabilita da anteriori positive e invariabili leggi»; diversamente da quanto avviene in campo terrestre il campo di battaglia sul mare è sempre noto e privo di ostacoli, per cui si possono facilmente scoprire le riserve del nemico [ma Nelson ha dimostrato che non è vero - N.d.a.]; quest'ultime nella battaglia navale contano poco, perché giungono normalmente in ritardo; nella battaglia navale l'ammiraglio è sollevato dall'obbligo di dirigere le sue navi, e non <leve come in campo terrestre appostare le batterie e coordinare l' azione delle varie Armi; in mare i1 Capo non si deve preoccupare di organizzare le ritirate, né dell'afflusso dei rifornimenti; infine le battaglie e i combattimenti terrestri sono molto più frequenti, quindi la guerra terrestre «è più faticosa, costa maggior sangue e maggior perdita di uomini, e più minuziose particolarità esige nel dirigerne i movimenti». 111 Tutto sommato era più nel giusto lo Zambelli, che si era sforzato di
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I II
ivi, p. 328. ivi, p. 244.
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dimostrare - a sua volta esagerando- esattamente il contrario. Ma aspetti meno brillanti del suo pensiero come questo non possono far dimenticare che tutta l'opera di interesse marittimo del Lombroso è la nùglior dimostrazione che nelle guerre napoleoniche la strategia marittima, per quanto non ancora scritta, teorizzata e inserita in un sistema organico come quella terrestre, è già ben viva nella realtà della guerra sul mare, quindi nell'istinto, nel quotidiano operare, nelle scelte e nelle previsioni dei grandi capitani. In merito, va osservato il principio jominiano della concentrazione delle forze nel punto decisivo governa non solo la tattica, ma anche la strategia navale: chi meglio di Nelson ha saputo creare le condizioni nùgliori per iniziare la battaglia navale in condizioni di vantaggio? Il contrario hanno fatto gli amnùragli di Napoleone, e così Aboukir e Trafalgar non hanno fatto altro che premiare che lo meritava per precedenti decisioni, chi aveva creato tutte le premesse materiali, operative e morali per la vittoria, dimostrando la verità dell'asserto di Clausewitz che bisogna credere nel successo, in ciò che esso dimostra. Ben a ragione, dunque, Philip Masson ha di recente definito Nelson «remarquable stratége» dotato di un senso acuto della tattica, che ha saputo affrancarsi dal formalismo tipico del secolo XVIII e condurre battaglie di dislruzione, creandone le premesse anche con l'educazione dei Quadri. 112 E l'indovinato parallelo del Lombroso tra la visione strategica di Nelson e quella di Napoleone è la miglior dimostrazione della veridicità dell'asserto del Carrion-Nisas, citato dallo Sponzilli nelle sue Lezioni di strategia, che «la esistenza del Sole e della Luna non porta di necessità quella di una scienza scritta che ne particolarizzi le leggi». Del Lombroso merita di essere ricordata anche la chiusa della biografia di Villeneuve, del quale sinteticamente si può dire che è stato l'esatto opposto di Nelson, anche se Napoleone non gli ha fatto mancare buone direttive: riflettendo sugli avvenimenti guerreschi che resero così memoranda l'epoca dal 1793 al 1814, e meditando su quelli così avviluppati che accaddero da quell'anno sino al 1848, indi ponendo mente ai problematici eventi di cui fummo testimoni oculari sino alla fine dello spirato 1849, dovremmo convincerci che anche gli Stati italiani che conservano tuttora la loro effimera indipendenza, non potranno mai rassodarla se non cangiando affatto di sistema, cioè dando alle isole, ai porti di mare ed alle flotte quell'importanza che sinora si diede alle città e alle provincie del continente, ed agli e-
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R. Corvisier, Dictionnaire d 'art et d'histoire militaires, Paris, PUF 1988, p. 630.
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serciti terrestri, i quali pel corso di 34 anni assorbirono circa la metà dei redditi dello Stato, spopolando le campagne, rendendo infeconde le terre, per deficienze di braccia, e poi -·· alla prima prova, che riescì infelice, una seconda se ne aggiunse più sventurata ancora, senza che gli uomini che ci reggevano abbiamo né punto né poco approfittato delle lezioni dell'esperienza, la quale se talora si acquista a costo di molti sacrificj, se ne possono però ritrarre immensi ed incalcolabili vantaggi per l'avvenire dell' Italia, e pei futuri destini cui la provvidenza vorrà serbarla. 113
Questa tes i della maggiore economicità ed efficacia delle forze navali che già troviamo nel Filangieri (vds. capitolo VI), è un altro dei topoi periodicamente affioranti, che fanno del Lombroso uno scrittore anche navale da non trascurare. Accanto al Pepe, il Lombroso è l'unico scrittore di strategia e tattica navale del periodo autenticamente italiano, oltre che capace di considerare queste due discipline in un'ottica assai affine a quella attuale: le altre sono figure minori nelle qua1i brilla quakhe lampo di luce. Ad esempio il veneto Gaspare Tonello ne11'introduzione alle sue citate Lezioni intorno alla marina nonostante la sua competenza in materia di arte nautica non sa far di meglio che esaltare l'eredità dell'ormai tramontata marina di Venezia e della sua tattica navale, peraltro senza addentrarsi nei particolari. Secondo il Tonello l'elenco degli ammiragli più valenti di quella marina è «per certo superiore a quello di qualunque altra nazione». E la giusta ammirazione che al momento viene tributata alle grandi marine di alcuni Stati, ormai «giunte all'apice della perfezione e grandezza», non dovrebbe impedire agli italiani il ricordare la maestra della moderna marina, ed il rammentare i lumi, ed il potere di coloro che ne furono i primi restauratori. Agl'ltaliani, e particolarmente ai Veneziani, è senza contrasto dovuta la gloria di aver ristabilito la Marina su novelli principi, affatto opposti alle vedute e al sapere degli antichi; quei medesimi principi che poi servirono di lezione e di esempio alle Marine in oggi giustamente encomiate.
Nel prosieguo dell' opera, però, non si capisce bene quali siano questi principi, né quale sia stata nel concreto e nel dettaglio la tattica della
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G. Lombroso, Op. rit., Parte Terza, pp. 420-42l.
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marina veneta. T1 Tonello si limita a ricordare, in proposito, che la disciplina è la base fondamentale della tattica, e che sulle navi veneziane essa era «esattissima», fino a far assomigliare l'obbedienza degli equipaggi ai loro ufficiali «a quella delle pecore verso i loro pastori». Comunque anch'egli, come Giulio Rocco e altri, riconosce che «i rapporti del commercio e della navigazione sono così intimi che debbono necessariamente fiorire, e morire insieme», e nel Corso ristretto di navigazione teorico-pratico 114 fornisce interessanti indicazioni, di importanza sia militare che commerciale, sull'arte della marina, la quale consiste «nel poter conoscere ad ogni istante il punto della superficie del mare ove uno si trova». l metodi sono due: geografico (basato sul calcolo della direzione e lunghezza della rotta) e astronomico (nel quale la posizione della nave si deduce da osservazioni astronomiche). I Veneziani, comunque, formano l'anello della catena nautica più interessante, perché uniscono le antiche cognizioni alle moderne scoperte. Dopo aver deprecato che gli storici abbiano abbandonato «alla perfetta ignoranza nautica» tutti i secoli dalla caduta dell'Impero Romano fino all'epoca dei grandi navigatori portoghesi e spagnoli [e quelli italiani? - N.d.a.] che hanno applicato una nuova scienza della navigazione, il Tonello fornisce inconsapevolmente una preziosa chiave di lettura delle origini e dei caratteri delle contrapposte scuole nautiche francese e inglese, alle quali - notiamo noi - ben corrispondono le due contrapposte tattiche di Padre Hoste e di Clerk (vds. capitolo XV).115 Il metodo inglese per i calcoli attinenti alla scienza nautica, al punto nave ecc. è di gran lunga il più semplice e rapido, ha carattere empirico e pratico, e chiede al navigante solo di consultare tavole numeriche già predisposte. Al contrario, il metodo francese è assai più pretenzioso: per applicarlo il navigante deve essere in possesso di un cospicuo bagaglio teorico, dal quale ricavare tutti gli elementi per il calcolo che intende compiere, e deve conoscere i principì dai quali derivare le formule, senza avvalersi di tavole speditive ma utilizzando solo i logaritmi. Va infine ricordato che il Voi. IV delle Lezioni intorno alla marina del Tonello comprende un succinto vocabolario che è assai meno ricco di voci di interesse militare rispetto a quello dello Stratico, stranamente mai citato. Non vi si trovano, come nello Stratico o nel Ballerini ( vds. capitolo V) voci militari fondamentali come tattica navale, armata na-
114 Cfr. G. Tonello, Corso ristretto di navigazione teorico-pratico, Trieste, Fondo 1drogr. Libr. H.F. Favarger 1842, 2 Voi. (resto e Tavole) m ivi, pp. IV-V.
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vale, battaglia navale ecc .. ; da notare però la differenza che egli fa tra abbordaggio e arrembaggio, riprendendo almeno in parte lo Stratico. L'abbordaggio avviene quando due bastimenti si avvicinano e si urtano o si agganciano fra di loro (per il lungo; di prora o di poppa), anche senza che gli equipaggi combattano corpo a corpo; se, invece, uno dei due equipaggi si lancia sul bastimento avversario per conquistarlo combattendo corpo a corpo, allora avviene l'arrembaggio. Il Tonello ammette che l'arrembaggio era più usato dagli antichi che non avevano artiglierie, ma aggiunge che vi si ricorre anche nella tattica moderna, «e molto dipende dalle disposizioni del capitano, e dal coraggio dei combattenti l'esito dell'impresa, che risulta però sanguinosissima e difficile specialmente per l'offensore, avendo molta analogia con l' assalto». Affermazione troppo superficiale: va ricordato che lo Stratico lo esclude dalla tattica del momento, ma aggiunge che «i vascelli maggiori vanno di rado all'arrembaggio, perché il cannone li tiene lontani, e perché hanno murata rientrante dall'alto per cui è difficile accostarsi abbastanza onde gli uomini possano saltare dall'uno all'altro. L'arrembaggio ha luogo nei bastimenti minori (sciambecchi, galee). Per sorpresa si fa l'arrembaggio da un bastimento minore a un maggiore di forza superiore; ma è azione temeraria». 11 ParrilJi traduce il francese abordage in abbordo, e afferma che le voci abbordaggio e arrembaggio «non si leggono in veruno scrittore reputato»; ciò premesso, più degli altri dà ragione ano Zambelli, dimostrando indirettamente che anche a questo proposito il Tonello è assai sbrigativo e superficiale. Dopo aver distinto tra «abbordo accidentale» e «abbordo volontario», che per lui coincide con l'arrembaggio, il Parrilli afferma che siffatto modo di combattere, pel quale altro non è mestieri che ardire e valor personale, è stato comune a tutte le zuffe navali, ed anche nelle battaglie navali fino al cader del secolo XVTII; ed è forza confessare che in siffatta specie di combattimenti i Francesi abbiano una manifesta superiorità. Ma i miglioramenti avvenuti in questi ultimi anni in fatto di artiglieria navale, han dovuto dar bando a tale uso ...
Per il Parrilli sono state dunque le artigliere a far escludere ormai l'abbordaggio (e non solo a farne diminuire la possibilità, come afferma il Tonello). Tanto più che alla voce «slanciarsi all'abbordo» egli afferma che la rientranza delle fiancate de11e navi verso l'alto non è un ostacolo decisivo, perché «vi si ovvia slanciandosi ne11e parasartie, o sulle grue di cappone, e talvolta abbassando i pennoni maggiori per servirsene come ponti: così il vascello francese il Terribile alla battaglia di Trafalgar».
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In sintesi da un punto di vista militare il Tonello è autore navale minore con un approccio spesso fuorviante, anche perché al termine dell'età della vela e all'inizio di que11a del vapore la tattica e le norme della marina veneta non potevano avere gran valore pratico. Rispetto a lui, in materia di tattica navale spicciola come di strategia dice cose più concrete e utili il magistrato napoletano Donato Ricci, che nel suo citato libro del 1824 La scienza della guerra in progetto militare (vds. capitolo IX) indica, tra le mille altre, anche delle massime per la guerra marittima, insieme con molte altre valide sia in campo terrestre che marittimo, come quella - trascurata nel 1940 dalla Francia - che «se non si ha l'armata formidabile per terra, o per mare, poco deve sperarsi dalle mura». Nel campo strettamente marittimo, si deve conoscere le forze facoltative, e guerriere dell'armata navale! Conoscere le forze necessarie per battere e sostenere le Penisole! Tagliare le comunicazioni di mare! Occupare le rade e fortificare le coste! Conoscere il modo di hattere le navi nemiche! Speculare sull' obbedienza delle navi! Giocare le grosse navi, e le leggere al proprio fine! Assicurare la ritirata alle imbarcazioni da remo! Imbarazzare i porti! Conoscere se le isole possano battersi con forti dentro terra! Aprire le brecce con le navi di linea! Esporre ai tiri del cannone le navi nemiche! Assicurare i sbarchi con opere di fortificazione! Attaccare alla retroguardia le navi da assedio! Conoscere se sulle antenne de' lancioni possansi elevare de' martelletti sulle mure della Piazza! Tagliare le navi nemiche! Conoscere la fortezza delle imbarcazioni armate! Giovare [cioè aiutare - N.d.a.l le armate navali con piccole imbarcazioni! [... ] Conoscere de' vantaggi de' ponti mobili negli sbarchi! Proporzionare alle resistenze il fondo delle forze di terra, o di mare! Vantaggiarsi con le batterie galleggianti! Vantaggiarsi con de' ponti mobili! Somministrare i viveri nelle botti, ed otri galleggianti! Deviare il lìume che difenda da qualche lato l'inimico! [...] Conoscere della vittoria col lento mezzo de' blocchi! Bombardare le piazze e distruggerle qualora non si possano ottenere! [...] Organizzare le corrispondenze con de' volatili, e nuotatori. 116
Accanto a questi aforismi marittimi di un magistrato, un certo interesse assumono due opere che sono soprattutto di carattere tecnico, il Trattato di navigazione esposto in 50 Lezioni del «Professore della Real Marina napoletana» Gaetano Poderosi (1841) 117 e la Manovra pratica
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D. Ricci, Op. cit., pp. 90-92. Napoli, Reale Tip. Militare 1841.
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navale (1847) dell' «Alfiere di vascello austro-ungarico» (poi ammjraglio italiano) Luigi Fincati, 118 il primo dei numerosi scritti di questo eminente autore navale del secolo XIX oggi ingiustamente dimenticato. Definito dal Parrilli nell'introduzione al suo dizionario «opera superiore a quanto sia,;i finora pubblicato in tal materia», il trattato del Poderosi è a sfondo eminentemente scientifico e matematico, senza risvolti specificamente militari. E' diviso in quattro parti, delle quali la prima riguarda l'astronomia, la seconda la «navigazione per istima», la terza la trigonometria sferica, e la quarta l'astronomia nautica. Anticipando la netta propensione dell'autore per la problematica della tattica navale nel senso autentico del termine (sulla quale ritorneremo nel prosieguo dell'opera), il lavoro del Fincati - che ha il limite di essere esclusivamente riferito alla navigazione a vela - non manca invece di accenni al combattimento navale, e si ·a pre con un'indiretta critica all'eccesso di teorizzazioni tipico della scuola francese: a nessun'arte come alla manovra di un bastimento - egli afferma - «va così bene applicato il proverbio: d,e più della scienza vale la pratica. Sono ben lontano dal volere con ciò scemare l'importanza della teoria: io ebbi troppe occasioni per convincermi che male una si sostiene senza l'appoggio dell'altra [concetto già del Rocco-N.d.a.]». li capitolo X si intitola «Della caccia», e vi si afferma che non si può cacciare un bastimento senza avere velocità superiore; ciò si verifica facilmente tenendo la stessa velatura e la stessa rotta e rilevando il legno cacciato con la bussola. Dal canto suo, al bastimento cacciato e con velocità inferiore non rimane che «mettere ogni sua cura nell'approfittare di tutti i vantaggi che gli offrono le sue possibilità intrinseche e i cangiamenti di tempo e di vento». 11 capitolo XI è dedicato all'abbordaggio, «manovra ardita che tende ad accostare un bastimento nemico tanto da presso da potervi gettare a bordo facilmente, e mal suo grado, i grappini destinati ad unire strettamente i due bastimenti assieme perché l'equipaggio possa saltare a bordo del nemico e impadronirsene a mano armata, ciocché chiamasi andare o montare all'arrembaggio; l'abbordaggio è adunque la parte marittima e l'arrembaggio la parte militare dell'azione». Nessun accenno, da parte del giovane Fincati, alle crescenti difficoltà e alla ormai scarsa frequenza degli arrembaggi; egli afferma solo che, di due navi che si affrontano, ve ne è sempre una per la quale l'arrembaggio è vantaggioso, e mentre l'altra cerca in tutti i modi di evitar
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Trieste, A spese di H.F. Favarger I 847.
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l'arrembaggio. In ogni caso, chi intende tentarlo deve avere velocità superiore; se ciò non avviene, l'altro bastimento potrà a suo talento sfuggire all'arrembaggio, a meno che qualche danno all'alberatura non locostringa a manovrare. Con il vantaggio della velocità, H legno che vuole abbordare otterrà certamente il suo scopo; ma se l' altro è governato da un capitano esperto e dotato di sangue freddo, potrà non solo evitare l'arrembaggio ma mettere il nemico in una situazione molto critica.
Conclusione Facendo da contraltare marittimo ai giudizi riduttivi degli scrittori terrestri della Restaurazione già da noi citati, Domenico Bonarnico afferma, più a torto che a ragione, che «la grande guerra che si chiuse navalmente a Trafalgar, 21 ottobre 1805, è improntata a concetti strategici territoriali che la grande mente di Napoleone suppose di poter applicare tanto colle armate veliche quanto cogli eserciti». 119 Estremamente riduttivo anche il suo giudizio sul pensiero navale del periodo qui esaminato, giudizio nel quale, tra l'altro, il Bonamico ignora un nome come Giulio Rocco: la prima metà del secolo XIX è caratterizzata da una completa, quanto incomprensibile, mancanza di studi, non solo strategici, ma benanche tattici ed evolutivi. Il pensiero marittimo dal 1800 al 1850, si raccolse in una estasi contemplativa della grande epopea colla quale si chiuse il periodo velico, e da questa contemplazione fiorì una bella letteratura storica, romantica, biografica ma poco o punto tecnica o tattica. Il tecnicismo si rivolse anzitutto a studiare e risolvere la prima parte del problema marittimo, che si rinnovava radicalmente colla esistenza della nave a vapore. Come preoccuparsi, infatti, di nuova tattica o di nuova strategia, quando la neonave non aveva ancora affermato la sua validità? Questo periodo d'incubazione vitale si sarebbe anche maggiormente protratto se la sostituzione dell'elica a11e ruote non avesse conferito alla nuova nave l'invulnerabilità del propulsore e del motore. Il pensiero navale seguì quindi la sua logica evoluzione, dal tecnicismo della nave a quello della tattica, per culminare colla strategia e colla organica delle nuove navi a vapore. 120
119
D. Bonamico, La strategia nel secolo XIX, <~vista Marittima n. 4/1901 , p. 61.
120
ivi, p. 67.
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Questo giudizio è eccessivamente severo, quindi non può essere de] tutto condiviso. L'esame condotto in questo capitolo e nei precedenti capitoli XV e V dimostra a sufficienza l'estrema attualità del pensiero navale nel periodo considerato, sotto tutti gli aspetti: il ruolo geopolitico e geostrategico dell'ItaJia in un Mediterraneo dominato dalle grandi potenze e quindi mai nostrum, J'importanza del principio della libertà dei mari e del potere marittimo sia sul piano generale che per le specifiche esigenze di una media potenza mediterranea come l'Italia, gli aspetti organizzativi e logistici da considerare per avere una marina efficiente ed economica, l'evoluzione della tattica navale e la funzione trainante del progresso delle artiglierie abbinate alla propulsione a vapore e ormai anche alla corazza, la ricerca della battaglia decisiva e le doti del Capo navale, il paraJlelo tra operazioni terrestri e navali e le qualità di chi le deve redigere. Ciò non può stupire più di tanto: in fondo TrafaJgar e Nelson rimangono un modello insuperato anche nel secolo XX, da Tsushima a Punta Stilo nel 1940. Si tratta ora di prenderne atto, spostando a fine secoJo XVlll - e non al periodo che segue la nascita del Regno d ' Italia nel 1861 - l'inizio di quella prospettiva geostrategica e geopolitica marittima e mediterranea per l'Italia unita, nella quale per gli spiriti più i11uminati delJa Restaurazione già si inquadra in primis il Risorgimento. Una forte remora, che ha contribuito aJla scarsa conoscenza del pensiero navale del periodo, è stata la mancanza - con la sola eccezione del Rocco - di nuovi testi organici e nazionali di tattica e di politica navaJe, sia pur non solo in Italia. E' anche indubbio che, al tempo, per entrambe le Marine italiane - e per quella piemontese in particolar modo - il modello prima di tutto spirituale e caratteriaJe di Nelson e Trafalgar diceva poco, troppo poco. La battaglia navale decisiva tra flotte europee 11011 era all'ordine del giorno e la prospettiva bellica si esauriva nelle «proiezioni di potenza» contro le coste nord-africane, nella protezione delle coste dai corsari e nelle missioni dimostrative, di rappresentanza e commerciali. Nella Marina piemontese poi, la tattica navale anche ne] concetto dell'epoca cedeva di gran lunga alle preoccupazioni per regolamenti e procedure, tra i quaJi non trovava aJcun spazio l'educazione dei Quadri all'autonomia, all'iniziativa e all'amore per la responsabilità, quintessenza dell'insegnamento pratico nelsoniano e requisito indispensabile in combattimento. A questi limiti si aggiunge una presa di coscienza ancora embrionale e frammentaria del rapporto tra istituzioni socio politiche di un popolo e stato e ruolo della sua Marina. Al di là delle pur numerose acquisizioni di pochi spiriti illuminati , ma isolati nella classica turris eburnea, tutto
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insomma concorre a rendere le forze marittime una pedina sicuramente non essenziale alla vigilia della prima guerra d'indipendenza e anche dopo, fino a far dire al Vecchj che «nella glorificazione di coloro che prestarono la mano e il cervello all'integrazione della Patria, il marinaio è stato dimenticato. A malapena in alcune statue di Garibaldi, un basso rilievo de11a base rammenta lo sbarco a Marsala; e egli v'è scolpito traghettato da bordo a terra da un paio di barcaioli. A ciò si riduce la geopolitica del marinaio del Risorgimento!». 121 Tutto ciò contribuisce a creare un divario assai profondo tra spunti teorici, idee, squarci strategici e tattici - che non mancano - e un'asfittica realtà: ma questo non autorizza a giudicare vuoto un periodo assai più ricco di voci di quanto sembri. Rispetto a quanto il Bonamico, ci sembra quindi più aderente alla realtà quanto scrive nello stesso periodo il Manfroni: dalla Restaurazione del 1814 comincia veramente il periodo nascente della marineria italiana [... ]. La maggior parte degli storici, rivolgendo la loro attenzione soltanto alla politica italiana di quell'epoca, ha gettato una triste luce su quei governi; ma chi vuol giudicare imparzialmente, chi legge i regolamenti, i decreti che disciplinarono dal 1814 fin circa alla metà del secolo le marinerie regionali, deve riconoscere che, per ciò che riguarda la Marina, essi quantunque in diversa misura, s'ispirarono a criteri sani, al desiderio di far rifiorire la marineria, di approfittare della momentanea prostrazione di forze dei grandi Stati, stremati dalla lunga lotta napoleonica, per ottenere, nel Mediterraneo e anche fuori, qualche vantaggio, per raccogliere almeno qualche briciola caduta della mensa dei ricchi. 122
Gli scritti degli autori navali italiani del periodo rispecchiano queste ac;pirazioni e gettano le prime basi di un pensiero nazionale: per questo non vanno trascurati. Lo stesso avviene per gli scrittori «terrestri», tanto più che spesso non dimenticano il ruolo e l'importanza delle forze nava1i. In questa constatazione, semplice ma pregnante, si compendia il risultato principale di questo primo volume.
121 J. La Bolina, La Marina nel periodo preparatorio del Risorgimento, «Rivista Marittima» n. 7/1903, p. 109. 122 C. Manfroni, L'avvenire marittimo dell'Italia, «Rivista Marittima» luglio 1900, p. 24.
INDICE DEI NOMI DI PERSONA Abate di Saint Pierre, 582. Acton, J.E. (amm.), 1021. Adams, T., 990, 991 e nt. 103, 995. Afan de Rivera, C. 533. Alberini, R. (comandante), 51, 52 e nt. 8,407. Alberti (di ViUanova), F., 242, 245, 268,276. Albrizzi, G.B., 243. Alessandro (lmp. di Russia), 514. Alessandro Magno, 79, 416, 510, 559,562,564, 675,927, 1077. Algarotti, F., 259, 267, 443. · Almagià, G. (cap. di vasc.), 1008, 1009, 1010. Amblimont (de), F. (conte), 337, 956. Amiot (Padre), 143. Angelini, A. (gen.), 298 e nt. 97. Angeloni, L., 771 e nt. I, 772, 773, 774,775,776,777,831,832,893 . Angelucci, A. (magg.), 263. Annibale, 79, 413, 416, 510, 562, 565, 927, 953. Archimede, 343. Arciduca Carlo, 97, 98, 101, 102, 147, 149 e nt. 86, 150, 151, 152 e nt. 91, 153, 154, 155, 156, 163, 168,195, 203,206,208,292,308, 309,311,322,344, 345,346, 348, 386,389,400,401,402, 405,407, 416,420,421,422,423,427,428, 444,463,468,469,470,473,474, 479,484,497,498,508,509,511, 512,513, 516, 517,521,522,523, 524,539, 551,552,553, 554,556, 565,570,571,599,627,675,679, 681 , 718, 729,732, 756, 757,771, 816, 1077. Argan, C., 22 e nl. 14, 224 e nl. 27,
593 e nt 70. Argenti, F. (cap.), 492. Aristotele, 233, 396, 559, 737. Amò, F. (cap.) 234, 239, 265, 273, 274 e nt. 66, 275, 276, 277, 279, 284, 292, 322,323,324,325,327, 328,329,330, 334,442 Aron, R., 29, 98 (nt. 3), 182, 186 e nt. 40, 188 e nt. 42, 189,190,200. Augusto (Imp.), 295,381. Bacchiega, G., 550. Badoglio, P. (mar.), 198. Balbo, C., 218,353,354 e nt. 1, 389, 390,391,408, 423, 491,578,645, 662, 664, 669, 670, 671 (e nt. 58, 59 e 63), 672, 673, 674, 675, 676 e nt. 64, 677, 678, 679, 680 e nt. 72, 681 e nt. 73, 682 e nt. 75, 683 e nt. 76, 684, 685 e nt. 79, 686, 687, 688 e nt. 84, 689, 690 (e nt. 86 e 89), 691 e nt. 91, 692, 693, 694, 695, 696 (e nt. 100 e 101), 697, 698,699,700,701,705,706,707, 708, 709, 710, 711 , 712, 713, 714, 715,717,718,720,725,739,747, 756,761,763,764,768,769,771, 779,785,822,824,831,834,835, 838, 865, 867, 868 e nt. 19, 875, 877,882,884,893,895,906,918, 922, 1023, 1024, 1059. Baldini, A. (gen.), 21 e nt. 13, 25 e nt. 16. Ballerini, G. (cap.), 234, 239, 265, 266,267,268,269,270, 271 , 272, 273, 274,275,276,278,279,280, 281,289,317,318,319, 320,321, 322, 325, 326,327,330, 335,338, 339,348,533 e nt. 74,871 , 1014, 1082.
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Baratta. M., 877 (nt. 29). Barbaro, D. (ambasciatore), 1063. Barbieri, F., 1015, 1016 (nt. 7), 1019 (nt. 10), 1020 (nt. 12), 1047. Bardin (gen.), 264. Bargilli, G., 375 (nt. 39). Barone, E., (col.), 22, 83 e nt. 37, 84, 85 (nt. 39). Bertolomeis, G.L. (cap.), 492. Baruffi, G.F. (abate), 1024. Basile, C., 1015. Bastico, E. (maresciallo), 27, 64 (nt. 19), 75, 76 e nt. 31, 81, e nt. 34, 84 (nt. 38), 144 e nt. 75, 146 e nt. 82, 147, 149 (nt. 86), 156 e nt. 97, 195 e nt. 54, 196, 386, 431 (nt. 63), 440, 552 e nt. 102, 593, 670 e nt. 55,833. Beaufre (gen.), 29. Begouen, M., 193. Bellini, B., 217 (nt. 14), 546. Bentivoglio, G., 249. Berengo, M., 640 e nt. 135, 641. Bersezio, V., 833. Bertani, A., 593 (nt. 68), 605, 1060 (nt. 85). Bettòlo, G. (amm.), 1026 (nt. 19), 1045. Bianchi (gen), 518. Bianchi - Giovini, A., 641. Bianchi, M ., 538. Bianchini, D., 273. Bianco (di Saint Jorioz), C., 874, 891,892,893,894,895,896,897, 898,899,900,906,907,912,913, 914,915,916,917,919,923. Biringuccio da Siena, 249. Bismarck, O. (Primo Ministro), 185. Bismark (Von), F.W. (gen.), 486, 546. Blanch, L., 98, 145, 192, 211, 212, 215, 278, 386, 389, 390, 391 e nt. 2, 392, 393 e nt. 4, 394, 395, 396, 397,398,399,400,401,402,404, 405, 406, 407, 408, 409 e nt. 29, 410,411,412,413,414,415,416
e nt. 47,417,418,419,420, 421, 422, 423, 424 e nt. 52, 425, 426, 427 e nt. 60, 428, 429, 430 e nt. 62, 431 e nt. 63, 432, 436, 437, 438,439,495,509,510,519,521, 522,541,546,552,561,563,569, 570,580,594,600,617,621,622, 623, 633, 637, 670, 687 e nt. 83, 718,729,735,816,831,883,914, 915, 1043, 1047 e nt. 62. Blatto, O. (col.), 191, 192, 197, 198. Bliicher, G.L. (maresciallo), 31. Bobbio, E. (col.), 145, 146 e nt. 80, 196 e nt. 55, 197,431 e nt. 63. Boccaccia, E. (col.), 832 (nt. 87). Boismelé (Torchet De), J.B., 1047. Bollati, A. (gen.), 191. Bonamico, D. (cap. di fregata), 22, 959, 980, 1027, 1086 e nt. 119, 1088. Bonifacio, G., 1015, 1025 (nt. 16), 1026, 1047. Bonino, G.G., 537. Bonsi, F., 537. Bosi, P. (cap.), 768 e nt. 89. Botta, C., 250, 254, 257, 283 e nt. 79,286,288,296,355,389,423, 660, 739, 865, 866, 867 (nt. 18), 868,871,895,914,918,922,941 (nt. 20), 982 e nt. 87, 1048 e nt. 63, 1076. Botti, F., 7 (nt. 1), 8 (nt. 2), ~ 1 (nt. 30), 38 (nt. 36), 53 (nt. 10), 74 (nt. 29), 91 (nt. 45), 117 (nt. 39), 192 (nt. 45), 321 (nt. 10), 350 (nt. 18), 534 (nt. 76), 794 (nt. 30), 926 (nt. 5), 927 (nt. 8), 939 (nt. 19), 944 (nt. 25), 977 (nt. 79), 991 e nt. 103, 1020 (nt. 12). Boi.iet - Willaumez, E. (amm.), 268, 925, 1010. Bouguer, M., 963. Bourdè de Villehuet, M., 961, 962, 963, 964, 966, 970, 1010, 1047, 1053.
INDICE DEI NOMI
Brakenridge, H.M., 579. Branca (inventore), 293. Brancaccio, N. (ten. col.), 431 e nt. 65, 439 (nt. 3), 440 e nt. 5, 441, 442, 458, 471 , 475, 476, 478, 481, 484, 485,521,552. Brauzzi , A.(amm.), 1026 (nt. 18), 1043. Brueys, F. (amm.), 954. Brugnatelli (inventore), 293. Bruno, C., (dir. gen.), 1045. Buache, Ph., 766. Budini, G., 889, 891, 899. Bujoni, A., 662. BUlow (Von), J.D. (geo.), 98, 101, 104, 147, 151 , 156, 162, 163, 193, 203,207, 385, 416,487,512, 539, 540, 553, 848. Buonamici, V. (magg.), 490, 491 . Bush, D. (ing.), 1069. Byng (amm.), 807. Cadorna, L. (maresciallo), 49 e nt. 6, 216 (nt. 13), 378, 384. Caffarelli, A. (gen.), 378, 381. Caforio, G. (gen.), 431 e nt. 66,432. Caio Duilio, 1048, 1056, 1057. Campanella, T., 215. Cancrin (geo. Intendente), 121. Canevari, E, (gen.), 27, 28 (nt. 23), 64, 65 e nt. 20, 75 (nt. 30), 83 (nt. 37), 145 e nt. 79, 191 , 192, 193 e nt. 48, 194 e nt. 49, 195 (e nt. 50 e 51), 198, 199, 215 (nt. 10), 220 (nt. 20), 440 e nt. 4. Canova, A,, 229. Cantù, C., 40 (nt. 38), 82 e nt. 35, 557, 558,621 , 622,623, 624,625, 626, 627,628, 629,630,631,632, 633, 634, 635, 636,637, 638, 639, 640, 1047, 1062 (e nt. 87 e 89), 1063, 1064. Capecchi, B. (serg.), 550. Caprariis, V., 34 (nt. 31 ). Caracciolo, F. (amm.), 1021 . Carani, L., 88 e nt. 44.
1091
Carbone, G. (cap.), 234, 239, 265, 273, 274 e nt. 66, 275, 276, 277, 279,284,292,322,323,324,325, 327,328,329, 330, 334, 442. Carena, G., 252,277. Carlo Alberto, 7, 25, 217 (nt. 14), 312,354, 473, 476, 481 , 492,593, 691,825, 877. Carlo XII (Re di Svezia), 60. Carlo VIII, 390, 589, 590. Carlo V, 395, 564. Carlo VII, 369, 574, 578 e nt. 56. Carnot, L., 72, 75, 76, 78, 80, 87, 90,148, 402,416, 443, 457. Carrascosa, Michele (gen.), 832. Carrascosa, Raffaele (col.), 1067. Carrion - Nisas, H. (col.), 5, 418, 430, 510, 512, 563, 572, 766 e nt. 85, 998 , 999, 1005 e nt. 127, 1006, 1007, 1008, 1080. Carro, D., 1056 e n t. 80, 1057. Casarotti, I., 294. Castex (amm.), 933 e nt. 13, 976, 977, 979. Caterina di Russia, 58. Catone il Censore, 548. Cattaneo, C., 5, 439, 557, 558, 593 (e nt. 73 e 74), 604, 605 e nt. 75, 606 e nt. 76, 607, 608, 609 e nt. 78,610,611,612,613, 614, 615 e nt. 85, 616, 617, 618, 619, 620. 621,640, 641,645,646,751,805, 883, 939, 1047, 1058 (e nt. 82 e 83), 1059 e nt. 84, 1060 e nt. 85, 1061, 1062, 1063, 1064. Cavaciocchi, A. (gen.), 149 (nt. 86), 155 e nt. 96, 156. Cavalli, G. (gen.), 991 e nt. 103. Cavour, C., 281 , 1023. Ceresole, G., 537. Cervelleri, F., 536. Cesarotti, M ., 47. Chaliand, G., 65 , 76 e nt. 32, 92, 145, 848 (nt. 8), 928 (nt. 10), 955, 960 (nt. 52).
1092
1LPENS1ER0MTIJTARE ITALIAN 0 ( 1789-191 5)
Chambray (gen.), 510. Chambure (cap.), 902. Championnet, J. (gen.), 749. Chamay, J .P., 76. Chasles, F., 608. Chiappe, C., 631. Chopart (scrittore nav.), 956. Ciampini, R., 492 (nt. 84). Cicerone, 737. Ciro il Grande, 377. Clapeyron, 698. Clausewitz, K. (gen.), 21, 24, 31, 34, 35, 39, 43, 48, 49 (nt. 2), 54, 57, 65, 66, 77, 97, 98 e nt. 3, 101, 103, 104, 105, 109, 127, 130, 138, 146, 157, 158 (nt. 1), 160, 162, 164, 165, 166, 167, 169, 171, 173, 174, 175, 176, 177 e nt. 31, 178, 179, 180, 181, 182, 183, 184, 185, 186, 187, 188 e nt. 41, 189, 190, 191, 192 e nt. 45, 193, 194 e nt. 50, 195, 196, 197, 198, 199 e nt. 60, 200, 201, 202, 203, 205 , 206, 207, 208, 214, 221, 224, 232 e nt. 33, 233, 311, 348, 350, 381, 382, 383, 384,386,390,393,400,405, 407,409,410,411, 414,415,416, 421,429,430,431,439,460,461 , 470,478,484,497,503,508,509, 512, 517,519,523,524,539,542, 543,550,553,554,556,564, 572, 587, 617 e nt. 87, 618, 620, 627, 645,653,675,676,677,678,679, 681 , 726,735,757,816,834,837, 838, 842, 846, 848, 852, 853 e nt. 11, 854, 855, 856, 857, 859, 860, 862,863, 867,881,887,901,911 , 912, 914, 919, 944 e nt. 25, 954, 967, 998, 1004, 1005 (nt. 124), 1010, 1080. Clerk of Eldin, J., 954, 957, 958, 959, 962 e nt. 55, 965, 966, 974, 1043, 1082. Cohen, B., 42, 43. Colbert. J. B .. 609.
VOL.l
Colin, J., 193. Colletta, P., 250, 254, 255 e nt. 53, 256,257,263,315, 316, 355,508, 547, 563,565, 599,673,972. Collier, T.W., 920. Collina, F., 234, 330, 331. CoUingwood (amm.), 975. Colombo, Cristoforo, 560, 813 , 1056. Colson, B., 29 (nt. 28). Coltelli, A. (cap.), 492. Congrève, W. (Lord), 326, 566, 680. Consalvo De Cordova, 591 . Constant, B., 578. Conte, D., 42 (nt. 42). Corbett, J., 934, 958. Corcione, D. (gen.), 198. Corneli, A., 925. Corridoni, F., 24. Corsi, C. (gen.), 14 (nt. 6), 22. Cortese, N., 408, 429,431. Corvisier, A., 54 (nt. 11 ), 65 e nt. 23, 76 e nt. 33, 92, 120 (nt. 45), 145, 185 e nt. 39, 955, 1080 (nt. 112). Costa, A., 534. Costanzo, F., 533. Cotty (gen.), 276. Courtin, E.M.P.A., 425. Cousin, V., 392. Coutau - Bégarie, H ., 28 , 29 (nt. · 26), 30 e nt. 29, 926 e nt. 5, 982 (nt. 86), 990 e nt. 100, 991 (nt. 103). Croce, B., 13, 20, 23, 33, 34 e nt. 32, 41 e nt. 39, 48, 52, 56 e nt. 13, 175, 199 e nt. 60, 200, 201, 219, 220 ( nt. 19), 221, ( e nt. 23 e 25), 225 e nt. 28, 227, 230, 354, 355 e nt. 3, 389, 390 e nt. 1, 391 , 392 e nt, 3, 404, 416 e nt. 46, 430, 594, 598,641, 670. Cridis, G., 435, 442 e nt. 6, 443, 444, 445, 446, 447 e nt. 9, 448, 449,450,453,455,456,457, 458,
INDICE DEI NOMI
482, 493, 496, 507, 509, 526, 1025, 1045 e nt. 61, 1046. Crowl, P.A., 29 (nt. 28). Cullmann, F. (gen.), 350 e nt. 19. Cuoco, V., 1022. Curcio, C., 1024 e nt. 15. Cuvier, 411. Czernischef (capo guerrigliero), 901. Da Canale, C. (amm.), 936. D'Agostino, F. (magg.), 1067. D' Alembert, J., 276. D' Ambrosio, A. (gen.), 215 (nt. 10). Dante (Alighieri), 52, 295, 469. Dario (Re dei Persiani), 122. Davidoff, D. (gen), 539, 845 (nt. 3), 848, 849. Davila, E. (gen.), 88,246, 249. D' Ayala, M. (gen.), 15 e nt. 7, 16 e nt. 8, 26 e nt. 17, 234 e nt. 35, 237, 239, 243 e nt. 41, 250 e nt. 47, 254 e nt. 51, 255, 259, 265, 270 e nt. 64, 273, 277, 278 e nt. 69, 279 e nt. 70, 281, 282, 283 e nt. 79, 288, 289, 291 e nt. 85, 296, 332, 334 e nt. 15, 344, 346, 355, 356, 431, 442 e nt. 7, 483 e nt. 61, 486, 487, 508, 521, 532 (nt. 66), 533,534,535,538,539,541,547, 549, 550, 62 l, 670, 671 e nt. 60, 765, 766 (nl. 83), 767, 832 e nt. 88, 868 (nt. 20), 872, 873 e nt. 22, 1015, 1042 (nt. 57). D'Azeglio, M., 1023. De Ambris, A., 24. De Biase, L. (cap.), 20 e nt. 12, 26, 27 (nt. 18). Decker, K. (col.), 484, 486, 525, 539, 845 e nt. 3, 846 e nt. 4, 847 e nt. 6, 848, 850. De Cristoforis, C. (cap.), 145, 146, 192, 212, 670. De Gaulle, Ch. (gen.), 144 e nt. 74, 199.
1093
Degli Uberti, U., 982 (nt. 86), 985, 986 e nt. 94. De Grandmaison, 844. De Grasse (Tilly), F.J. (amm.), 959, 1078. De Guibert, J. (ten. col.), 70 (nt. 25), 92 e nl. 47, 119, 120, 123, 141,207,267,370,381,382,416, 492,539,563,564,620 e nt. 91. De Guichen (amm.), 978. De Joinville (amm.), 941, 942 (nt. 21), 985 (nt. 91), 987 e nt. 95, 988,989,990, 1054. De La Barre Duparq, E. (gen.), 58, 942 e nt. 23, 943. De Laroche - Aymon, 100. Delarouvraye, Ch. L.V. (cap.), 1047. Del Como, N., 214 (nt. 7). Delfico Di San Marino, M., 559. Della Peruta, F., 864 e nt. 17, 899. Della Scaletta (principe), 496. Del Negro, P., 22 e nt. 15, 872 e nt. 21, 873, 874 (nl. 24), 901, 917, 918,919. De Maistre, J., 214, 622, 623, 625, 667. De Maizeroy, J. (ten. col.), 90, 91 e nt. 45, 92, 93, 99, 119, 120, 141, 416,620 e nt. 92. De Mayo, G., 910, 911. Depeyre, M., 932 e nl. 11, 933, 934, 935 e nt. 14, 936 e nt. 17, 956, 958 e nt. 48, 963, 965 e nt. 60, 967, 973 (nt. 72), 974 e nt. 74, 975, 976 e nt. 78, 977, 979, 980. De Ruyter, M. (amm.), 935. De Sauget, R. (ten. Col.), 260 e nt. 57,261,292. Descartes (Cartesio), R., 141, 181, 932. De Schorn, N., 540, 541, 542, 543, 544,545,553,637. Des Geneys, G. (amm.), 1019, 1073, 1074, 1075, 1076. De Silva (marchese), 93, 119, 120.
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IL PENSIERO MTI, JTARE ITALIANO ( 1789-1915) -
VOL. I
De Tocqueville, A., 6, 33, 34 e nt. Duval, C., 193. 31, 37 e nt. 35, 213, 214, 238, Eliano, 88 e nt. 44, 89. 583. Engels, F., 24. Diderot, P., 71, 276. Didier, Ch., 818, 819. Errard, J. (ing.), 278. Diocleziano 598. Estienne, R., 985 (nt. 92). Di Sambuy, D., 717 (nt. 1). Eugenio Di Savoia (gen.), 60, 132, Di Santa Cruz (marchese), 306,443, 1077. Euripide, 87. 937,938, 1026, 1045. Fabris, Cecilio (col.), 212. Don, T. (ing.), 343. Fabris, Francesco, 38 e nt. 37. Doria, A. (amm.), 813. Fabrizi, N., 896, 897. D'Orvilliers, L., (amm.), 956, 978. Douhet, G. (gen.), 31, 43, 56, 66, Famese (Alessandro), 905. 97, 179, 192 e nt. 45, 198, 202, Fassò, E., 832 (nt. 86). Fauvet, R., 537. 378,415. Federico II di Prussia, 6, 8, 11, 32, Dracone, 806. 47, 56, 57, 58 e nt. 16, 59, 60, 61 Drake, F. (amm.), 31. e nt. 17, 62, 63, 64, 65, 66, 71, 73, Duca D' Angouleme, L.A. (gen.), 74, 78, 79, 80, 81, 82, 83, 84,96, 858,915. 100, 108, 122, 125, 129, 136, 137, Duca D' Aumale, H. (gen.), 75, 473. 141, 147, 148, 153, 164, 176, 181, Duca Di Broglie, V.F. (maresciallo), 201,220,229,273,292, 345,381, 84, 95. 382,383,399,401,414, 416,4]9, Duca Di York, 934, 956. Duhamel, 282. 420,438,468,472,476,480,491, Dubat Cilly, 283. 509,510,540,541,558,559,563, Duhesne (gen.), 443, 456, 546. 568,570,572,573,588,622,675, 679,846,868,869,871,872,942, Dilmmler, F. 193. 943,960,961. Dumouriez, Ch. F. (gen.), 859. Du Pont (gen.), 44, 216, 217 (nt. Ferdinando II (Re di Napoli), 278, 14), 546. 547. Ferrante, E. (comandante), 925 e nt. Dupuy De Lòme, S., 985, 990. 1, 927 , 1010 e nt. 132, 1015, Durando, Giacomo (gen.), 645,646, 659, 660, 664, 665, 717 e nt. I, 1044. 718, 719, 720 e nt. 3, 721, 722, Ferrarelli, G., 14 e nt. 5, 15, 214, 723,724,725,726,727,728,729, 215 e nt. 10, 217,218,833. 730, 731, 732, 733 e nt. 31, 734, · Ferrari, Gian Giacomo (magg.), 260 e nt. 57, 261, 264, 276, 278, 292, 735,736,737,738,739,740,741, 310,311,417,418,419. . 742,743,744,745,746,747,748, 749,750,751,752,753,754, 755 Ferraci, Giuseppe Carmine (gen.), 1019 (nt. 11). e nt. 63, 756, 757, 758, 759, 760, 761,762,763,764,765, 766,767, Ferrario, G., 355. 768,769,771,779,834,838,876, Ferrero Di Ponsiglione, L. (col.), 6, 877,914,944, 1024. 487, 488, 489, 490, 901 e nt. 43, Durando, Giovanni (gen.), 717, 768. 902,903,905. Fergusson (col.), 866. Durelli, G ., 536,537.
INDICE DEI NOMI
Feuquières, A. (gen.), 99, 119,416. Fichte, J.G., 188. Filangieri, Carlo (gen.), 508. Filangieri, Gaetano, 353, 357 e nt. 5, 358, 359, 360, 363, 364, 365, 366,367,368,369,370,374,387, 420,458,497,503,574,576,577, 578,588, 592,626,880,893,939, 1020, 1026, 1029, 1043, 1081. Filippi (conte, amb.), 1019. Filippo li di Spagna, 397 , 885, 1001. Fincati, L. (amm.), 285, 286, 287, 288, 305 e nt. 2, 936 e nt. 16, 957 e nt. 47, 1085. Fioravanzo, g. (amm.), 955, 956 e nt. 45, 957, 959 e nt. 49, 995, 1013, 1014, 1047, 1057 e nt. 81. Flavio Giuseppe, 614. Foch, F. (maresciallo), 31, 207, 208. Focione, 504. Folard, Ch. (ten. col.), 68, 70, 98, 119,267,381,443,457. Formicola, A., 1016 (nt. 8). Foscolo, U., 6, 49 (nt. 5), 222, 254, 307, 312, 353, 354, 375 e nt. 39, 376, 377 (nt. 40, 378 e nt. 44, 379, 380, 381, 382, 383, 384 e nt. 53, 385, 386, 387, 405 e nt. 26, 406,407,408,411,626,576,670, 677,786,917. Fournier, G ., (Padre), 925. Francesco I di Francia, 122. Francesco Di Giorgio Martini, 395. Franklin, B., 370. Fratelli Bandiera, 896. Fulton, R., 334, 339, 340, 341, 983, 984,986, 1062, 1064, 1068. Fusco, F. (ten.), 531. Gabrielli, L., 546. Galdi, M., 1021. Galeani Napione, G.F., 1021. Galiani, F. (abate), 1020. Galilei, G., 267.
1095
Galuppini, G. (amm.), 1016 (nt. 8), 1018. Galvani, L., 293. Garibaldi, G. (gen.), 28 e nt. 24, 31, 571,910, 1088. Garofalo, V. (ten.), 533,547. Gassendi (gen.), 276. Gaudi, (col.), 272. Gazzera (abate), 252. Genovesi, A., 1020. Gentile, G ., 23, 33, 594. Gentilini, E., 900, 901. Gherardi Dragomanni, F., 549. Giacchi, N. (col.), 768. Gifflenga, G . (gen.), 491, 875. Gilbert (cap.), 206. Gioberti, V., 645, 646, 647, 648, 649,650,65 1,652,653,654,655, 656,657,658,659,660,661,662, 663 (nt. 43), 664, 665, 666 e nt. 50, 667, 668, 669, 686, 695, 699, 700,701,707,714,715,717,720, 725,737,739,756,763,768,769, 771,779,83 1,877, 1024. Gioia, Flavio, 813, 1056. Gioia, Melchiorre, 353, 371, 373, 374, 375 e nt. 38, 387, 438, 607, 876, 939, 1022. Giordani, P., 258,259,278, 279. Giorgerini, G., 29 (nt. 27). Giulio Cesare, 26, 74, 79, 99, 122, 132, 133, 143, 257, 413, 416, 491, 562, 564, 565, 675, 929, 999, 1077. Giulio Il Papa, 590. Giustiniani, E. (gen.), 435, 442, 483 e nt. 62, 484, 485, 486, 493. Gneisenau (Von), A.W. (geo.), 203, 860. Gonzales, G., 536. Gourgaud, Ch. (geo.), 533. Gouvion Di Saint-Cyr, L. (maresciallo), 803. Graberg, J., 620 e nt. 90. Gramsci, A., 9, 912 e nt. 52.
J096
IL PENSIERO MILITARE ITALIANO ( 1789-1915) -
Granetti, L., 537. Grassi, Gio. Antonio, 536. Grassi, Giuseppe, 88, 234, 235, 239, 240, 244, 245 e nt. 43, 246, 247 e nt. 44, 248 e nt. 45, 249, 250, 251 (e nt. 49 e 50), 252, 253, 254, 255, 257, 258, 259, 260 e nt. 57, 261 , 262, 263, 264, 265, 266, 267, 268, 269, 270, 271, 272, 273, 274, 275, 277, 278, 279, 283, 288, 289, 290, 291, 292, 293, 294, 297, 307 e nt 4, 308, 311, 312, 313, 314, 315, 316, 317, 318,319,320, 321, 322, 323, 325, 326, 330, 332, 344, 347, 348, 349, 356, 376,386,417,442, 469, 508, 536, 547, 563, 565, 587, 599, 677, 786, 868, 869, 870, 871, 872, 917, 972. Gravina, F.C. (amm.), 1076. Gribeauval (De), J.V. (gen.), 78, 323, 325, 402. Grimoard, P.E. (gen.), 99, 119, 1076. Grozio, U ., 67, 307. Griiss, R., 927 e nt. 9, 973 e nt. 73. Guerrini, D. (col.), 193 e nt. 48, 194. Guibert (vds. De Guibert). Guicciardini, F., 88, 132, 257, 296, 314,443,591. Guichard, 99, 381 . Guiscardo, A. (col.), 431 e nt. 66, 432. Gurwood (col.), 676. Gustavo Adolfo di Svezia, 79, 235, 345,395,397,470,510. Haça (cap.), 429. Hahlweg, W., 922 e nt. 56. Hallam, H., 590. Hauteville (De), conte, 1021. Haushofer, K, 718. Haxo (col.), 426. Hegel, G.W.F., 188. Hitler, A., 57, 61, 186, 187.
VOL. I
Hofer, A., 903. Hoste, P. (Padre), 337, 925 , 927, 931, 932 e nt. 11, 933, 934, 935, 936,937,938,954,955,956,957, 961,963,965,966,969,970,971 , 972, 1008, 1011, 1042 (nt. 57), 1043, 1075, 1078, 1082. Hugo, V., 214 e nt. 8. Hugues (amm.), 959. lficrate, 503. Ilari, V., 31 (nt. 30), 91 (nt. 45), 446 (nt. 8), 845 e nt. 3. Jablonski, L. (gen.), 553, 554, 555 e nt. 110. Jachino, A. (amm.), 926 e nt. 7, 939 (nt. 18), 1073 e nt. 103. Jackson (gen.), 1004. Jacquinot De La Presle, 486, 525, 526. Jean, C. (gen.), 71 e nt. 26, 113 (nt. 32), 191, 198, 718 (nt. 1), 845 (nt. 2).
Jeney, M., 845 (nt. 3). Jervis, J. (amm.), 32, 975. Jomini, A.H. (gen.), 29 e nt. 28, 31, 57, 65, 97, 98 e nt. 1, 99 e nt. 4, 100, 101, 102 e nt. 11, 103 e nt. 12, 104 e nt. 14, 105 (e nt. 15 e 16), 106 (e nt. 17 e 18), 107, 108, 109, 110, 111 e nt. 25, 112, 113, 114 e nt. 33, 115, 116, 117, 118 e nt. 40, 119ent.43, 120,121 ent.47, 122, 123, 125, 128, 129, 130, 131 e nt. 58, 132, 133, 135, 136, 137, 138, 139, 140 e nt. 69, 141, 142 e nt. 73, 143, 144, 146, 147 e nt. 83, 148 e nt. 85, 149, 150, 151 e nt. 90, 152, 153, 156, 157, 162, 165, 166, 167, 168, 173, 175, 176, 177, 178, 180, 181, 182 e nt. 33, 183, 184, 185, 188, 189, 190, 191, 192, 194, 195, 196, 202, 203, 204, 206, 207, 208, 214 e nt 9, 232, 233 e nt. 34, 267,
INDICE DEI NOMI
307, 308, 311, 316, 322, 330, 332, 344,345,346,347,348,381,382, 383, 384, 386, 389, 392, 393, 401, 407, 409, 410, 412, 413, 414, 416, 420,422, 423,429,430,436,439, 444,459,460,461,462, 463,467, 468,469, 470,471,478,479,484, 486, 489, 498, 508, 510, 511, 512, 513, 517, 518, 519, 523,526,528, 539,540,541,543,551 , 552,553, 554, 555, 556, 559, 563, 565, 571, 573, 587, 627, 637, 638, 651, 652, 653, 675, 676, 677, 678, 679, 681, 684, 685, 718, 729, 730, 732, 733 e nt. 30, 734, 736, 765 , 771 , 842, 852, 856, 857 e nt. 13, 858, 859, 860, 861, 863, 865,914,915,920, 927, 970, 998, 999 e nt. 115. 1000, 1001 (e nt. 117 e 118), 1002, 1003, 1004, 1005 e nt. 126, 1009, 1010, 1048. Juvan, J., 1041, 1042 e nt. 57. Juvien (Ministro della guerra), 71. Kant, E., 188, 582, Keith (amm.), 328.
Koehl, S.L., 174 (nt. 28). Kroener, B., 54, 120, 185. Kuby, E., 57, 58 (nt. 15). Kutuzov, M . (geo.), 848. La Marmora, Alessandro (gen), 312,313. Lamarque (geo.), 437. Lamé 698. La Mière De Corvey, A., 845, 850, 851, 862, 870, 894. Lancetti, V., 260, 379. Landi, N., 546. Langendorf, J.J., 10. Larrey, H.B., 537. Lasserre (cap. di vasc.), 961. La Tour Du Pio, 443. Laugier, C., 492 e nt. 84, 550. La Valleé, T., 766.
1097
Lavègne, M., 1042 (nt. 57). Lavena, 430. Legrand, E ., (cap.), 349, 350. Lenin, N., 24, 911 e nt. 50, 912, 922. Leone VI Imperatore, 26,337. Leopardi, G., 215,652. Leopoldo di Toscana, 235. Lescallier, D., 242, 268, 955, 962 (nt. 55). Lessona, e,. 537. Liberti, E., 842, 864 (nt. 17), 882 (nt. 34), 889, 894 e nt. 40, 896, 897, 899, 900 e nt. 41, 901, 904, 907,917,918,919. Liddell Hart, B .H. (cap.), 87 e nt. 40, 94, 95 (nt. 50). Lippi, C., 1022. List, F., 606 e nt. 76, 1060, 1061, 1063. Lloyd, H.E. (geo.), 99, 100, 101, 111, 147, 151,416,512, 539, 540, 563. Lo Forte, F., (cap.), 534 (nt. 76). Lombroso, Giacomo, 254, 355, 492, 1076, 1077, 1078, 1079, 1080, 1081 e nt. 113. Lo Monaco, F., 532 e nt. 66. Longo, A., 236. Lord Cavendish, 866. Lord Palmerston, 939. Lorenzo De' Medici, 590. Luce, S.B. (amm.), 29. Ludendorff, E. (gen.), 185. Luigi XI, 591. Luigi XIV, 122, 229, 369,399,485, 629,652. Luigi XVI, 859, 961. Luigi xvm, 213. Luigi Filippo, 635, 1016. Lumbroso, Alberto, 945 (nt. 27), 946, 947, 950 e nt. 34, 952 (nt. 37), 953, 977 e nt. 80, 980 e nt. 84, 1026, 1043 e nt. 58, 1044. Luraghl, R., (prof.), 378.
1098
ILPENSIEROMILJTARE ITALIANO ( l789-1915) -
Luttwak, E.N., 174 e nt. 28. Liitzow (capo guerrigliero), 90 l. Luxembourg (gen. granduca), 60. Lyautey, L. (maresciallo), 31. Macaulay, B., 588, 589, 591 . Machiavelli, N., 21, 49, 64, 71, 188, 200,212,257,267,296,307,317, 344,376,378,381,385,405,443, 447,469,476,480,565,573,575, 587, e nt. 67, 588, 590, 591, 592, 614, 663,755, 773,806,1005. Mack, K. (gen.), 316, 517. Madison, (Presidente USA), 772. Mahan, A.T. (comandante), 29 e nt. 28, 31, 43, 56, 66, 97, 192, 202, 415, 606, 1026 e nt. 18, 1027, 1042, 1043, 1044, 1045, 1076, 1077. Maizeroy (vds. De Maizeroy). Mame1i, G., 17, 222. Mamiani, T., 5,903, 1023 e nt. 14. Manfroni, C., 1088 e nt. 122. Manno, A., 1016 (nt. 8), 1018 e nt.
9. Mao Tse Tung, 922. Maravigna, P. (gen.), 27. Maria Luigia, 545. Marini, L., 259. Mario, 380, 598. Marlborough, G.C. (geo.), 31 , 60, 132. Marmont, A. (maresciallo), 192, 203, 327 (nl. 11). Marselli, N., (gen.), 22, 27, 139, 140 (nt. 69), 141, 142 (e nt. 72 e 73), 149, 192, 212, 217, 218 e nt. 15, 226, 263, 392, 430, 432, 832 e nt. 87. Marx, K ., 140,912,913. Massena, A. (geo.), 427, 815, 905. Massobrio, G., 28 e nt. 25. Masson, Ph., 960 e nt. 51, 961 e nt. 53, 1080. Maurizio Di Gomez (gen.), 629.
VOL.1
Maurizio Di Sassonia (De Saxe, maresciallo), 82, 84, 99, 300, 511, 564. Mazza, V., 536. Mazzzini, G., 874, 875 (e nt. 25 e 26), 876, 877 e nt. 29, 878 (e nt. 30 e 31), 879, 880, 881, 882 (e nt. 34 e 35), 883, 884, 885, 886, 887, 888, 890, 891, 892, 893, 894 e nt. 39,895,896,897,899,900,905, 906,907, 91 I , 912, 913, 914, 915, 916,917,919,920,923, 1023. Mazzonis, F., 28 (nt. 24). Medini, G., 234, 330, 331. Menil - Durand, F., 99. Meyer, J., 989 (nt. 98). Michaud (geo.), 77. Millar (col.), 1067. Minarelli, M., 234,330,331. Minart (comandante), 845 (nt. 3). Mirabeau, V., 443, 447. Missiroli, M., 216 e nt. 13. Mollat, M ., 926 e nt. 6. Montecuccoli, R., (gen.), 26, 49 e nt. 6, 60, 67, 80, 104, 235, 236, 246,249,254,263,267,296,307, 309,314,376,378,381,382,383, 384,385, 386,396,405,443,460, 500,573,622,670,834,868,869, 905. Monroe (Pres idente USA), 772, 773. Montesqieu, Ch., 106, 188, 381, 410,559,578. Monthenot (gen.), 533. Monti, V., 250, 260 e nt. 57, 283, 469. Montluc, De (maresciallo), 443. Morandi, C., 833. Morardo, G. (abate), 93 e nt. 19. Mordacq (comandante), 5, 89, J19 e nt. 44, 203 e nt. 62, 204, 205, 206, 554 e nt. 109,555 e nt. 111, 556. Morin, E ., 181. Morogues(De),337,925, 956, 963.
INDICE
Moscati, S., 779 (nt. 12), 781 (nt. 13), 831 e nt. 84, 832, 833 e nt. 90. Mi.iller, L.K. (gen.), 41 l, 486, 629. Munoz, G., 550. Mural, G., 518, 760, 779, 780, 789, 805, 825, 964, 966. Musil, R., 48. Mussolini, B., 24, 186. Nachimoff (amm.), 990. Napier, Ch., (amm.), 342. Napier, W.F.P., 437. Napoleone I, 5, 8, 9, 11, 26, 31, 47, 48, 54,55, 58,64,66, 72, 73, 75, 76, 78, 79, 80,81,82, 83, 84, 85, 86, 87, 95 e nt 50, 96, 97, 98, 99, 100, 102, 104, 106, 108, I 15, 116, 124, 137, 140, 141, 142, 143, 145, 147, 148, 149 e nt. 86, 153, 154, 155, 164, 167, 171, 173, 175, e nt. 29, 176, 178, 181, 188, 190, 192, 196, 201,212, 213, 214,215,216, 217, 218,219, 220,223,224, 229, 230,235,249, 262,292,313,327 (nt. 11), 344, 345, 355, 370, 371, 376,379,380,382,400,401,403, 404,413,416,418,422,425,427, 436,437,438,444,446,460,461, 462,463, 467,468,472,473,476, 483, 489, 490,493,502, 503, 509, 510,511,513,514,515,516,517, 518,519, 520,524,526,527,528, 529,532,541,552,559,563,565, 570,571,572,573,579,580,584, 609,626,628,629,631,632,640, 650,652,658,672, 674,675,676, 682,685, 713,734,744,749,754, 774,775,776,784,785,845,849, 850,885,905,921,940,942,943, 944 e nt. 24, 945 e nt. 27, 946, 947,949,950,951,952,953,954, 958,960,961,963,965,973,977, 983,999, 1001 , 1005, 1006, 1008, 1026, 1043, 1044, 1049, 1054,
oer NOMI
1099
1077, 1078, 1079, 1080, 1086. Napoleone Ill, 982. Nassau (gen.), 395. Negri, C., 603 e nt. 74, 604. Neipperg, A. (maresciallo), 546. Nelson, H. (amm.), 31, 32, 416, 509,927,928,934,943,944,945, 946,947,953,957, 958, 959,960, 962,963,967,975,977,999, 1009, 1010, 1022, 1048, 1055, 1076, 1077, 1078, 1079, 1080, 1087. Nencioni, G., 237. Nerone (console), 132. Nevens (magg.), 193. Niessel, A. (cap.), 193. Niessel, M ., 193. Niola, R., 533. Novi, G., 547. O'Brien (ten. vasc.), 955. Odier, P.A., 535. Odoacre, 695. Okouneff, N., 486, 539, 553. Omodei, F. (col.), 252,273,277. Onosandro, 88. Opdam (amm.), 934. Osterhammel, J., 984 e nt. 90. Oudinot, N.C.V. (gen.), 429. Pagano, F., 533. Paixhans, H.J. (ten. col.), 325, 342, 584, 680, 951 e nt. 36, 987, 990, 991 e nt. 103, 992 e nt. 104, 993, 994, 995, 996 e nt. 111, 997, 998, 1010, 1018, 1042, 1053, 1054, 1055, 1058, 1062, 1066, 1067. Palat, B.E. (geo.), 197. Palmieri, G. (col. marchese), 14, 219,228,236,254,267, 405,432, 443,457, 531,552. Pantera, Pantero, 278, 936, 955, 956, 1013. Paoli, Pasquale, 1024. Papi, L., 355.
1100
IL PENSIERO MILITARE ITALIANO ( 1789- 1915) -
Paret, P., 29 (nt. 28), 65 (nt. 22), 72 (nt. 27), 82 e nt. 36, 85, 148 (nt. 85), 182, 186 e nt. 40, 190, 191, 193. Parker, G., 666, 767 e nt. 86. Parrilli, A., 234, 239, 265, 279, 280 e nt. 72, 281, 282, 283, 284, 285, 286,287,335,336,337,338,339, 340, 342, 343, 344, 348, 964, 1014, 1054, 1066, 1067, 1068, 1069, 1083. Passamonti, E., 354 (nt. 1 ), 670, 671,674,675, 715. Passerin D'Entrèves, E., 669. Pepe, Guglielmo (gen.), 769, 771, 778, 779 e nt. 12, 780, 781, 782, 783, 784, 785, 786, 787 e nt. 14, 788,789, 790,791 , 792,793,794, 795 e nt. 31, 796, 797, 798, 799, 800,801,802,803,805,806,807, 808, 811,813,814,815,816, 817, 818, 819, 820 e nt. 65, 822, 823, 824,826,827,828,829,830,831 e nt. 84, 832, 833, 834, 835, 836 e nt. 92, 837, 865, 875, 877, 880, 889, 890, 892, 895, 898, 903 e nt. 44, 904, 905, 906, 907, 914, 918, 942, 1024, 1069, 1070 e nt. 100 e 102, 1071, 1072, 1081. Pera, M., 42 (nt. 43). Perlcins. 470, 584, 1047. Persano (Pellion Di), V. (amm.), 285. Pectici, G., 875 (nt. 25). Pétain, Ph. (maresciallo), 31. Petrarca, Francesco, 295. Pier Capponi, 590. Pieri, P., 23, 27 e nt. 19, 65 e nt. 21, 14 e nt. 84, 149 (nt. 86), 191, 193 e nt. 47, 202 e nt. 61, 208 e nt. 68, 212 e nt. 3, 430 e nt. 62, 431, 439 e nt. 2, 593 e nt. 70, 669, 670 e nt. 56, 674, 687 e nt. 82, 688, 768 e nt. 94, 769, 833 e nt. 91, 834, 835, 897, 907, 915, 916 e nt. 54, 917,
YOL. I
923 e nt. 57, 1015. Pindemonte, I., 250. Pipino (Re dei Franchi), 743. Pirenne, H., 37 e nt. 34. Pirro, 619, 902. Pisacane, C., 22, 432. Pitt, W., 633, 983. Pittaluga, E. (cap. di fregata), 1008, 1009, 1010. Plutarco, 67, 902. Poderosi, G., 1084, 1085. Podestà, C., 375 (nt. 39). Poerio, E ., 549. Poirier, L., 29, 43 (nt. 44). Polibio, 39, 40, 67, 68, 257, 390, 402. Pougni - Guillet, G. (geo.), 435 , 439, 471,472,473,474,476,482, 483,493,508,513,514,516,521, 552,914. Pounds, N.J.G., 767 (e nt. 86 e 87). Potiorek (gen.), 909. Prassitele, 737. Premoli, P., 973. Prezzolini, G., 27, 28 (nt. 23), 64, 65 e nt. 20, 75 (nt. 30), 83 (nt. 37), 145 e nt. 79, 195 e nt. 52, 215 (nt. 10), 220 (nt. 20). Probo, 598. Prunetti, G.B., 442. Puysegur. J. (maresciallo), 99. 119. 120,381,416,539,546, 564. Quaglia, G., 547. Quaglia, L., 273. Quarenghi, C., 237,238, 249 e nt. 46, 264, 265 e nt. 61, 297 e nt. 96. Quarto, P. (ten.), 533, 534, 871. Quinet, 692. Quintiliano, 55. Racani, O., 871. Racchia, P. (ten. col.), 435, 439, 442,458, 459,460, 461,462,463, 464, 465, 466, 467, 468 e nt. 37,
INDICE DEI NOMI
469,470, 473,474,475,476,478, 479,480,481 , 482,483,484,486, 493,508,513, 514,521,527,552, 735,914. Raleigh, W. (amm.), 928, 929. Ramatuelle, A., 337, 964, 965 e nt. 60, 966, 967, 968 e nt. 62, 969, 970,971,972,973,974,975,976 e nt. 77, 977, 978 e nt. 81, 979, 980, 1010, 1011, 1047, 1053, 1073. Ramorino, G. (gen.), 916, 917. Randaccio, C., 1017 (nt. 8), 1018, 1019, 1025. Ratzel, F., 876. Raulich, I., 600 (nt. 72). Ravenni, A. (ten. col.), 909 (nt. 48). Raynal , G. Th. F., 1027, 1029, 1045. Ribera, A., 768 (nt. 93). Ricci, Agostino (gen.), 27. Ricci, Donato, 495, 496, 497, 498, 499,500, 503, 504, 505, 506, 507, 535, 835, 1084 e nt. 116. Richelieu, A.J., 609, 927, 928, 929, 930,931,932,937,938,950,951, 953, 1026, 1045, 1063. Ricotti, E., 355. Ritter, G., 61 e nt. 17, 62, 63, 72 (nt. 27), 73 e nt. 28, 140 e nt. 70, 182, 186 e nt. 40, 188, 189. Robertson, G., 589. Robiola, A., 273. Rochat, G., 28 e nt. 25. Rocchi, E. (gen.), 19 (nt. 10), 145 e nt. 76,431 (nt. 63), 1015. Rocco, G., I014, 1015, 1025, 1026 e nt. 18, 1027, 1029, 1030, 1031, 1032, 1033, 1034, 1035, 1036, 1037, 1038, 1039 e nt. 51, 1040 e nt. 52, 1041, 1042 e nt. 57, 1043, 1044, 1045, 1063, 1082, 1085, 1086. Rocquancourt, J. Th. (col.), 486, 525.
1101
Roding, J. H., 242, 282. Rodney, G. (amm.), 32, 958, 959, 1010, 1055. Rodriguez, F., 540, 541. Rognancourt, 430. Rogniat, J. (gen.), 426, 443. Romano, Baldassarre, 964. Romano, C., 1017 (nt. 8). Romme, Ch., 242, 268. Roosewelt, F.D., 58. Rosa, G., 603. Rosi, M., 549, 768 (nt. 92), 910 (nt. 49), 1015. Rossarol Scorza, G., 532. Rossi, P., 37 (nt. 34). Rousseau, G.G., 582. Ruffo, F. (cardinale), 904,918,919. Ruiz (gen.), 458. Rusconi, G.E., 221 (nt. 24). Salazar, 956 Salerno, N., 533. Saluzzo, Annibale, 356, 492. Saluzzo, Cesare, 252, 355, 356, 379. Salvatorelli, L., 33, 34, 35, 36 (nt. 33), 215, 218 e nt. 16, 221 e nt. 23, 222 e nt. 26, 228 e nt. 31. Sangallo, G. e A., 395. Saverien, 234, 286. Savorgnano Di Belgrado, M., 1013, 1056. Say, J.B., 578, 583. Scararnbone, L., 533, 546. Scerer (gen.), 517. Scharnhorst (Von), (gen.), 203, 486, 860. Scipione l' Africano, 87 e nt. 40, 95, 132,133,416,504,562,927. Ségur (conte), 546. Senofonte, 257. Serristori, L., 320 e nt. 8, 339, 1064, 1065 (nt. 93), 1066, 1067, 1068. Serse (Re di Persia), 122. Sestan, C., 594 e nt. 71.
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IL PENSIERO MILITARE ITALIANO (1789-1915) -
Settembrini, L., 17. Settia, A.A., 263. Sforza, G., 832 (nt. 86). Shy, J., 148 e nt. 85, 149, 920. Silva, P., 1016 (nt. 7). Sismondi, S., 591. Smyth (amm.), 955. Sobrero, C., 273. Solaro Della Margherita, C., 213, 214. Soliani - Raschini, A., 250,869. Solone, 331. Sonetti, F. (ten.), 94. Spadolini, G., 31. Spengler, O., 42 e nt. 42. Spinoza, B., 43. Sponzilli, F. (gen.), 47 e nt. 1, 87, 88 e nt. 41, 89, 150 e nt. 87, 152, 155, 234, 239, 249, 278, 288, 289 e nt. 82, 290, 291, 292, 293, 294, 295, 296, 297, 298 e nt. 98, 308, 316, 344, 345, 346 e nt. 16, 347, 421 , 422, 468 e nt. 37, 469, 470, 484, 495, 507, 508, 509, 511, 512, 513, 514 e nt. 35, 515, 516, 517, 518, 519, 520, 521, 522, 523, 524, 546, 547,627,816,831,915,927, 1080. Stalin, J., 329. Stevens, W.O. (comandante), 983 e nt. 89, 985 e nt. 93. Stewart, D., 588. Sticca, G., 19 e nt. 10, 20, 211, 212 e nt. 1, 213, 218, 223, 224, 226, 237, 243 e nt. 42, 250 e nt. 48, 263 e nt. 58, 270, 271 (nt. 65), 277 e nt. 68, 279, 280 e nt. 71, 288 e nt. 81, 354, 431 e nt. 64, 486, 487, 508 e nt. 29, 521 e nt. 49, 532 (nt. 66), 533 (nt. 72), 534, 546, 547 (nt. 98), 552 e nt. 103, 593, 670, 671 e nt. 62, 768 e nt. 90, 833 e nt. 89, 1015 e nt. 4. Stimpson, 986. Stratico, S., 234, 239, 240, 241 e nt. 38,242,243,244,267,270,271,
VOL. l
277,279,280,281,282,284,286, 289, 300 e nt. l, 301, 305, 306, 318,319,320,322,335,338,339, 348, 1014, 1042 (nt. 57), 1047, 1082, 1083. Subutai, 95. Suffren, P.A. (amm.), 32, 947, 958, 959, 967, 973, 974, 975, 978, 1010, 1078. Sun Tsu, 42, 500. Susani, L., 391 (nt. 2). Taillemite, e., 991 (nt. 103), 995. Taine, I., 17. Talamo, G., 371 (nt. 36), 1048 (nt. 63. Tanucci, B., 1020. Tempelhof, 147. Tenay,486. Tettenbom, 90 I. Thibaudeau, A.C., 782, 783. Thielmann, 901. Tommaseo, N., 739, 831 e nt. 84, 921, 1025. Tonello, G., 286, 287, 1048, 1068, 1069, 1081, 1082 e nt. 114, 1083, 1084. Torrebruna, 458. Tosti, A., 49 (nt. 5), 375 (nt. 39), 376. Tracy, 582. Tragni, A. (col.), 145 e nt. 77, 1015. Trotskij, L., 24,436,911. Truguet (Ministro della Marina), 948. Turenne, H. (maresciallo), 60, 79, 468,510. Turpin, L. (geo.), 99. UIJoa, Antonio, 525, 546. Ulloa, Girolamo (gen.), 484, 495, 525,526,527,528,529,530,531, 546,552. Ulloa, Pietro (col.), 430. Ungaretti, G., 52. Vacani, C. (gen.), 254, 259 e nt. 56,
INDICE DEI NOMI
355,379,895, 1076. Valentini (Von), (gen.), 486, 849, 850. Vallée, 426. Vannutelli, G. (amm.), 953. Varisco, B., 11. Vassalli, S. (col.), 435, 442, 475, 476,477, 478,479, 480, 481,482, 483,486, 493,552. Vasco De Gama, 560. Vauban, S. (maresciallo), 399, 612, 630. Vauchelle, M., 535. Vecchj, A.V., 1016 (nt. 8), 1088 e nt. 121. Vegezio, F.R., 55, 68,212,526,562, 564,629. Veranio (console), 89. Verdi, Giuseppe, 19. Verri, P., 1024. Vespucci, A., 813. Vico, G.B., 411,421. Viesseux, G.P., 1022. Vignot, H. (comandante), 980. Villamarina (ministro), 312,481. Villani, G., 872. Villeneuve (De), P.Ch.J. (amrn.), 943,947,976, 1076, 1080. Visconti , D., 1015, 1016 (nt. 7), 1019 (nt. 10), 1020 (nt. 12), 1047. Visconti Prasca, S. (gen.), 199. Vittorio Amedeo II, 275. Vittorio Emanuele I, 275. Vivanti, C., 912 (nt. 52), 913. Vivezio, G., 536. Voltaire, F.M.A., 30, 64, 66, 588. Von Colmmerer (gen.), 144. Von Colomb (cap.), 845 (nt. 3). Von Der Golz, C. (gen.), 203. Von Ligniz, A.W., 10.
1103
Von Moltke, H. (gen.), 185, 220 (nt. 20). Von Paulus, F. (maresciallo), 43. Von Schlieffen, A. (gen.), 185. Von Steuben, F., (gen.), 374, 865. Wagner (rnagg.), 101. Wallenstein, A. (gen.), 397. Washington, G. (gen.), 374, 416, 424, 579, 861. Watt, 339. Wellington (Duca di), A.W. (gen.), 31 , 86, 124, 143, 416, 426, 580, 631,632,672,673,675,676, 678, 815,850,865,999. Werklein, G. (col.), 545, 546, 1076. Westcott, A. (comandante), 983 e nt. 89, 985 e nt. 93. White Mario, J., 603 (nt. 73). Xylander, 486. Zambelli, A., 439, 557, 558 e nt. 1, 559,560,561,562,563,564,565, 566, 567, 568, 569, 570, 571 , 572, 573,574,575,576,577,578,579 e nt. 57, 580, 581, 582, 583, 584, 585, 586, 587 e nt. 67, 588, 589, 590,591 , 592,593,594,595,596, 597,598,599,603,608,614, 616, 617,618,619,620, 621,622,623, 624,625, 626,628,629,632,640, 641, 645, 751 , 785, 883, 1047, 1048 e nt. 64, 1050, 1052, 1053 e nt. 75 , 1054, 1055, 1056, 1057, 1058, 1059, 1061, 1062, 1064, 1066, 1079, 1083. Zambini, F., 1013. Zanelli, S. (gen.), 5, 220 e nt. 20. Zapponi, N., 140 (nt. 71). Zimolo, G., 1015.
INDICE GENERALE Presentazione ...................................................................... Detti memorabili ................................................................. Introduzione ........................................................................
Pag. Pag. Pag.
3
5 7
PARTE PRIMA DA JOMINI EL' ARCIDUCA CARLO A CLAUSEWITZ: LE FONDAMENTA EUROPEE DEL PENSIERO STRATEGICO ITALIANO
CAPITOLO I - ARTE DELLA GUERRA E STRATEGIA DA FEDERICO II DI PRUSSIA A NAPOLEONE: È STATA UNA RIVOLUZIONE? ......................... ..
Pag.
47
Premessa ............................................................................ .
Pag.
47
SEZIONE I - Arte e scienza della guerra (o militare) a fine secolo xvm ........................................................................
Pag.
48
Epistemologia del fenomeno guerra: guerra, strategia e esperienza storica ............................................................... ..
Pag.
48
Federico li di Prussia e le guerre dinastiche del secolo XVIII: solo guerre di Gabinetto e dfmagazzini? ..................
Pag.
56
Pag.
66
SEZIONE Il - Nascita, rinascita e sviluppo della nuova strategia parlata, scritta e codificata ................................... .
Pag.
72
Dalle direttive strategiche di Camot a Napoleone: rivoluzione, evoluzione o mutamento? ............................... .
Pag.
72
La parola strategia a fine sec. XVIII: nuovi significati, origini lontane e vicine e significato originario ................ .
Pag.
86
Guerra e arte militare secondo l'Enciclopedia Francese (1757) ........................................................................................
1106
IL PENSIERO MILITARE ITALIANO (1789-1915) -
VOL. I
Conclusione ........................................................................ .
Pag.
94
CAPITOLO II - IL BARONE JOMINI E L'ARCIDUCA CARLO, FONDATORI TRASCURATI DELLA STRATEGIA «GEOMETRICA» CONTEMPORANEA .................................... ... ............................................ .
Pag.
97
Premessa ............................................................................ .
Pag.
97
SEZIONE I - II Barone Jomini: «grammatico di Napoleone» o antinapoleone? .......................................................... .
Pag.
97
La ridefinizione teorica della strategia e i meriti di }omini
Pag.
97
ll pensiero di ]omini: tappe e opere principali .................. .
Pag.
102
Il principio fondamentale delle operazioni e la ripartizione del/'arte/scienza della guerra nel «Traité» ( 1803-1816)
Pag.
106
Il «Tableau analytique» (1830): maturazione del pensiero jominiano ............................................................................
Pag.
110
Il «Précis» del 1837: difesa da Clausewitz? .......................
Pag. 130
Appunti per una critica a ]omini ...................................... ..
Pag. 138
SEZIONE II - L'Arciduca Carlo: un Jomini peggiorato e . in tono minore..................................................................... Pag.
149
Conclusione.........................................................................
Pag.
156
CAPITOLO III - CLAUSEWITZ, L'«ANTI JOMINb: ANALISI COMPARATIVA E ERRATE INTERPRETAZIONI DI UN'OPERA INCOMPIUTA.............
Pag.
157
SEZIONE I - Analisi sommaria e comparata del «Vom Kriege» .................................................................................. .
Pag.
157
Caratteri e limiti dell'approccio .........................................
Pag.
157
Definizioni principali: loro significato .............................. .
Pag.
157
1107
INDICE GENERALE
Conclusione ........................................................................ .
Pag.
94
CAPITOLO II - IL BARONE JOMINI E L' ARCIDUCA CARLO, FONDATORI TRASCURATI DELLA STRATEGIA ~GEOMETRICA» CONTEMPORANEA ..................................... ............................ .................. .
Pag.
97
Premessa .............................................................................
Pag.
97
SEZIONE I - li Barone Jomini: «grammatico di Napoleone» o antinapoleone?.......................................................... .
Pag.
97
La ridefinizione teorica della strategia e i meriti di }omini
Pag.
97
Il pensiero di }omini: tappe e opere principali .................. .
Pag. 102
Il principio fondamentale delle operazioni e la ripartizione dell 'arte/scienza della guerra nel «Traité» ( 1803-1816)
Pag.
106
ll «Tableau analytique» ( 1830): maturazione del pensiero jominiano ............................................................................
Pag.
110
Il «Précis» del 1837: difesa da Clausewitz? .......................
Pag. 130
Appunti per una critica a }omini ........................................
Pag.
SEZIONE Il - L'Arciduca Carlo: un Jomini peggiorato e in tono minore .....................................................................
Pag. 149
Conclusione.........................................................................
Pag. 156
CAPITOLO III - CLAUSEWITZ, L'~ANTI JOMINI»: ANALISI COMPARATIVA E ERRATE INTERPRETAZIONI DI UN'OPERA INCOMPIUTA .............
Pag. 157
SEZIONE I - Analisi sommaria e comparata del «Vom Kriege» .................................................................................. .
Pag. 157
Caratteri e limiti dell'approccio ........................................ .
Pag.
157
Definizioni principali: loro significato .............................. .
Pag.
157
138
1108
IL PENSIERO MTI, ITA RE 1TALIANO ( 1789-1915) -
VOL. I
Caratteri della guerra moderna - la battaglia decisiva......
Pag.
167
lità dell'esperienza pratica.................................................
Pag.
170
Il «modello» assoluto delle guerre della Rivoluzione e di Napoleone...........................................................................
Pag. 171
SEZIONE II - Clausew_itz nel contesto del pensiero militare coevo e successivo: raffronti, interpretazioni e limiti
Pag. 175
Clausewitz, Napoleone e ]omini ........................................ .
Pag.
175
Critiche e studi stranieri su Clausewitz: da ]omini a Gerard Ritter, Raymond Aron e Peter Paret ........................... .
Pag.
182
Clausewitz in Italia .............................................................
Pag.
192
Conclusione: non Clausewitz o Jomini ma Clausewitz e Jomini ..................................................................................
Pag. 202
La teoria dell'attrito: limiti del «buon teorico» e centra-
PARTE SECONDA PRIME TAPPE DEL PENSIERO MILITARE ITALIANO: DAI LESSICOGRAFI A LUIGI BLANCH
CAPITOLO IV - LE ISTITUZIONI MILITARI ITALIANE TRA DECADENZA E RINASCITA: CONTESTO POLITICO-CULTURALE E DIBATTITO SUL NUOVO LINGUAGGIO MILITARE NAZIONALE
Pag.
211
SEZIONE I - Matrici vicine e lontane della rinascita del pensiero militare italiano.....................................................
Pag.
211
Il contesto politico - culturale e istituzionale della Restaurazione: riflessi sul pensiero militare..................................
Pag. 211
Riferimenti e caratteri specifici del pensiero militare italiano: l'influssofrancese.....................................................
Pag. 229
INDICE GENERAI.E
1109
SEZIONE II - Il rinnovamento del linguaggio militare ita1iano................................................................................... ..
Pag. 23 1
Il dibattito tra puristi e antipuristi militari: suoi esponenti
Pag. 231
Le due principali e contrapposte opere di riferimento comune (vocabolario di marina dello Stratico -1813 e dizionario militare del Grassi - 1817/1833)...............................
Pag. 240
Dall'antipurismo del Ballerini ( 1824) al purismo moderato del Carbone - Amò (1835), del d'Ayala (1841) e del Parrilli ( 1846). ....................................................................
Pag. 265
Dal linguaggio militare regionale italiano a quello europeo: il livore polemico antipurista dello Sponzilli ( 1846) ..
Pag. 288
Conclusione.........................................................................
Pag. 297
CAPITOLO V - LE VOCI PIU SIGNIFICATIVE DELL'ARTE MILITARE TERRESTRE E MARITTIMA NELLA LESSICOGRAFIA ITALIANA ................
Pag. 299
Premessa.............................................................................
Pag. 299
Il «Vocabolario di marina in tre lingue (italiano-francese-inglese)» di Simone Stratico: prevalente influsso francese ................................................................ ..............
Pag. 300
Da Monlecuccoli a Jomini: il «Dizionario Militare italiano» di Giuseppe Grassi ( 1817 e 1833) ................. ..............
Pag. 307
La prima opera linguistica a carattere interforze: il «Dizionario italiano scient~fico-militare» di Giuseppe Ballerini (1824)..............................................................................
Pag. 317
Le voci tecniche e le caratteristiche dei materiali nel «dizionario di artiglieria» dei Capitani Carbone e Amò (1835)..................................................................................
Pag. 323
Il «Gran dizionario teorico-militare contenete le definizioni di tutti termini tattici spettanti all'arte della guerra» di G. Medini - F. Collina~ M. Minarelli ( 1836)......................
Pag. 330
1110
ILPENSlERO MlLITARE ITALIANO (1789-1915) -
VOL. I
Sulla scia del Grassi: il «Dizionario militare francese - italiano» di Mariano D'Ayala (1841) ..................................
Pag. 332
Lo, comparsa dell'arte militare marittima e delle applica-
zioni militari del vapore nel «Vocabolario militare di marineriafrancese - italiano» di Giuseppe Parilli (1846) ......
Pag. 335
«Della lingua militare d'Italia - origine e progresso non che de' miglioramenti di cui pare suscettiva» di Francesco Sponzilli ( 1846): perdurante influsso straniero............
Pag. 344
Conclusione: la strategia italiana alla ricerca di originalità.......................................................................................
Pag. 348
CAPITOLO VI - I PRECURSORI: SOTTOFONDI TEORICO-MILITARI DELLA RINASCITA NAZIONALE NEGLI SCRITTI DI GAETANO FILANGIERI, MELCHIORRE GIOIA, UGO FOSCOLO.............
Pag. 353
Storia e rinascita nazionale ............... .. ............. ... ..... .... .. .. ..
Pag. 353
Gaetano Filangieri, precursore della «nazione armata» e del ruolo sostitutivo della Marina militare (1780-1785)....
Pag. 357
I nocivi riflessi militari della soluzione federalista per l' Italia negli scritti di Melchiorre Gioia.................................
Pag. 371
Le prime basi, gli obiettivi e gli indirizzi morali del pensiero militare italiano contemporaneo negli scritti di Ugo Foscolo...............................................................................
Pag. 375
Conclusione.........................................................................
Pag. 387
CAPITOLO VII - LUIGI BLANCH, «MASTER~ DELLA CULTURA MILITARE EUROPEA DEL SECOLO XIX ........................................................................
Pag. 389
Caratteri generali dell'opera: uno scrittore più europeo che italiano..........................................................................
Pag. 389
I «Nove discorsi della scienza militare» (1832): loro pregi e limiti ....................................................................................
Pag. 391
INDICE GENERALE
1111
Che cosa hanno veramente cambiato le guerre napoleoniche? La polemica del 1833 con Gian Giacomo Ferrari .....
Pag. 417
Guerra e strategia in un saggio del 1838 sull'«Antologia Militare»: riavvicinamento allo spiritualismo di Clausewitz?. .... .. ..... .. ..... .... ... .. .. ... ... .. ....... .. ..... .... ..... .. ... ..... ... .......
Pag. 421
Il giudizio sulla guerra d'indipendenza americana ( 17751782) e sulla guerra nazionale spagnola ( 1808-1813).......
Pag. 423
Conclusione: i poco felici riferimenti al Blanch da parte degli scrittori coevi e successivi .........................................
Pag. 428
PARTE TERZA LA TEORIA DELLA GUERRA TRA ESERCITI: SCRITTORI ITALIANI «SCOLASTICI» E «LAICI».
CAPITOLO VIII - SCRITTORI «SCOLASTICI» PIEMONTESI: GIUSEPPE CRIDIS, PAOLO RACCHIA, GIUSEPPE POUGNI - GUILLET, SEBASTIANO VASSALLI, ENRICO GIUSTINIANI .....................
Pag. 435
Premessa ... ... .... ........ .. .. ..... .... ..... ... ........ .... .. .. ....... ... .... ........
Pag. 435
SEZIONE I - «Della politica militare - libri quattro» di Giuseppe Cridis (1824) .......................................................
Pag. 442
Il concetto di guerra «giusta»: offensiva o difensiva?........
Pag. 445
I problemi del reclutamento e della durata del servizio militare ....................................................................................
Pag. 446
Eserciti permanenti e di milizia: vantaggi e svantaggi: .....
p ag. 450
L'attacco sotterraneo alla strategia, alla logistica e agli ordinamenti napoleonici: inconvenienti dei grossi eserciti e del sacco del paese nemico ................................ ..............
Pag. 453
Stato e avanzamento dei Quadri - ruolo del Principe nel comando dell'esercito. ........................................................
Pag. 455
1112
IL PENSIERO MILITARE ITALIANO ( 1789-1915) -
VOL. I
Le anni da fuoco sono meno efficaci di quelle bianche?....
Pag. 456
SEZIONE II - II «Compendio analitico dell'arte della guerra per l'Accademia militare» (1832) del Ten. Col. Paolo Racchia···················································································
Pag. 458
SEZIONE III - Gli «Elementi di strategia e di tattica secondo i principi moderni, sviluppati con degli esempli applicativi» (1832) del Ten. Gen. Giuseppe Pougni - Guillet
Pag. 471
SEZIONE IV - Le «Lezioni di arte militare ad uso della Regia Scuola d'Applicazione» di Sebastiano Vassalli (1847)..................................................................................
Pag. 475
SEZIONE V - II «Saggio sulla tattica delle tre Armi isolate e riunite» (1848) di Enrico Giustiniani ...........................
Pag. 483
SEZIONE VI - Autori minori .............................................
Pag. 486
Conclusione.........................................................................
Pag. 492
CAPITOLO IX - SCRITTORI «SCOLASTICI» NAPOLETANI (DONATO RICCI, FRANCESCO SPONZILLI, GEROLAMO ULLOA) E STAMPA PERIODICA ..................................................................................
Pag. 495
Premessa ....... .. ... .. .. ............... ................. ... ... ... .. ........ ... ... ... .
Pag. 495
SEZIONE I - Scrittori di politica militare e strategia .........
Pag. 495
«La scienza della guerra in progetto militare, che contiene i grandi mezzi politici, e guerrieri dell'offesa, e difesa per ben servire la sovranità» (1824) di Donato Ricci...............
Pag. 495
Il «Sunto di alquante lezioni di strategia» (1837) di Francesco Sponzilli.....................................................................
Pag. 507
INDICE GENERALE
11 13
Il «Sunto della tattica delle tre Armi -Artiglieria, Cavalleria, Fanteria» (1838) di Girolamo Ulloa............................
Pag. 525
SEZIONE II - Autori minori e traduzioni............ ...............
Pag. 531
Autori minori e scrittori di logistica e amministrazione.....
Pag. 531
Traduzioni...........................................................................
Pag. 538
SEZIONE m - La stampa periodica: cenni sull' «Antologia Militare» e sul «Giornale Militare Italiano» .................
Pag. 546
Conclusione ...................................................................._.....
Pag. 550
CAPITOLO X - TEORICI «LAICI». LA GUERRA E LA SUA STORIA SECONDO LA SCUOLA LOMBARDA DEL «POLITECNICO» (ANDREA ZAMBELLI E CARLO CATTANEO) E IL PUNTO DI VISTA DI UN PIEMONTESE (CESARE CANTÙ)..........
Pag. 557
Generalità: ruolo e caratteri generali del pensiero «laico» .
Pag. 557
SEZIONE I - Il pensiero di Andrea Zambelli: tra materialismo antistorico e spiritualismo storicizzante....................
Pag. 558
La rivoluzione dell'artiglieria nei tre libri sulla guerra (1839)..................................................................................
Pag. 558
Anni nazionali e di cittadini: le considerazioni attualizzanti e contraddittorie intorno al «Principe» di Machiavelli (1840)..........................................................................
Pag. 587
SEZIONE II - L'approccio econornistico, regionalistico e cosmopolita al problema militare di Carlo Cattaneo ..........
Pag. 593
Della milizia antica e moderna (1839)...............................
Pag. 593
Le riflessioni politico-militari sui tre grandi Stati-guida: Inghilterra, Stati Uniti e Francia (1842) ............................
Pag. 603
1114
IL PENSrERO MILITARE ITALIANO(l789-1915)-VOL. I
Ferrovie e non fortezze................................................... ....
Pag. 611
Il Cattaneo è veramente contrario agli eserciti permanenti?.................................................................................
Pag. 615
La ripartizione della «scienza» della guerra per A.M.
(1839) .................:................................................................
Pag. 618
La situazione degli studi geografici....................................
Pag. 619
SEZIONE III - La riflessione sulla guerra di Cesare Cantù (1846): solo un «collage»?..................................................
Pag. 621
PARTE QUARTA PROGETTI GEO-STRATEGICI E SOLUZIONI ORDINATIVE PER LA CONQUISTA DELL'INDIPENDENZA NAZIONALE
CAPITOLO XI - LA VIA GEO-STRATEGICA PIEMONTESE E NEOGUELFA PER LA CONQUISTA DELL'UNITÀ NAZIONALE: VINCENZO GIOBERTI E CESARE BALBO ....................................................
Pag. 645
Premessa ... .......... ......... .. .. ................. .. ....... .. .. ... ...... .... ..... ...
Pag . 645
SEZIONE I - «Il Primato morale e civile degli italiani» (1843) di Vincenzo Gioberti: aspetti militari e geopolitici.
Pag. 646
SEZIONE II - Cesare Balbo e i concreti aspetti geo-strategici e ordinativi della conquista dell'indipendenza nazionale........
Pag. 669
Le opere di interesse militare: loro collocazione................
Pag. 669
L'opuscolo sulla guerra difensiva nella penisola(1827) ....
Pag. 671
Il modello strategico della guerra di Spagna 1808-1813 e delle guerre inglesi contro Napoleone: riflessi teorici e ammaestramenti ~pecifici per il caso italiano.... ................
Pag. 675
INDICE GENERALE
11 15
Il ruolo del Piemonte, di Napoli e del Papato nel conseguimento dell'unità nazionale.............................................
Pag. 692
Il valore geopolitico e militare delle ferrovie .....................
Pag. 695
Il problema dell'indipendenza italiana, l'Europa e il Mediterraneo............................................................................
Pag. 699
ConcJusione.........................................................................
Pag. 713
CAPITOLO XII - IL MODELLO «ANTI-GUELFO~ DI GIACOMO DURANDO NELLA «NAZIONALITÀ ITALIANA« (1846): NASCITA DELLA GEOSTRATEGIA E SUOI RAPPORTI CON LA GEOPOLITICA NELLA CONQUISTA DELL'UNITÀ NAZIONALE .....
Pag. 717
SEZIONE I - La geostrategia: genesi delle nazionaJità ......
Pag. 717
Motivi ispiratori della «Nazionalità italiana» (1846) ........
Pag. 717
Teoria della formazione delle nazionalità: geopolitica e geostrategia .........................................................................
Pag. 720
Il concetto teorico di strategia, gran tattica e tattica: divergenza o convergenza con ]omini?..................................
Pag. 729
Gli elementi geostrategici: definizioni ................................
Pag. 736
SEZIONE II - Ragioni politiche e geostrategiche della mancata unità d'Italia: come essa si può ottenere ...............
Pag. 737
Errori e vizi passati: la polemica con gli scrittori coevi ... .
Pag. 737
Fisionomia geostrategica e geopolitica dell 'Italia: influsso del Papato sulla sua divisione ....................................... .
Pag. 740
Il nuovo ordinamento politico dell'Italia ........................... .
Pag. 744
Aspetti strategici e ordinativi della conquista dell 'indipendenza nazionale: il ruolo delle «milizie cittadine» ............ .
Pag. 748
1116
TI, PENSIERO MILITARE ITALIANO (1789-1915) -
VOL. I
Il piano di campagna per la guerra italiana contro l'Austria: effettive possibilità dell'apporto popolare e guerra per bande
Pag. 756
Conclusione.........................................................................
Pag . 763
CAPITOLO XIII - DAL MODELLO AMERICANO DI LUIGI ANGELONI (1818) AL MODELLO NAZIONALE, PENINSULARE DIFENSIVO DI GUGLIELMO PEPE (1833 - 1836): VERSO LA «NAZIONE ARMATA»?.........................................................
Pag. 771
Premessa .. ...... .. ..... .... .. ... .. ...... .... ........ .. .. ..... ... ...... ..... .... ..... .
Pag. 771
SEZIONE I - Il modello americano di «nazione armata» negli scritti di Luigi Angeloni (1818) .................................
Pag. 771
SEZIONE II - La strategia peninsulare e difensiva di Guglielmo Pepe (1833-1836) ...................................................
Pag. 778
Caratteri generati e motivi ispiratori dell'opera ............... .
Pag. 778
Il terreno italiano: possibilità che esso offre a «eserciti nuovi» e qualità militari delle popolazioni del Meridione.
Pag. 786
L'ordinamento del futuro esercito costituzionale italiano: guardie nazionali, milizie e truppe di linea ........................
Pag. 793
Amministrazione e logistica ................................................
Pag. 803
Disciplina, istruzione e avanzamento .................................
Pag. 805
Argomenti particolari ........................................................ .
Pag. 813
Interesse della Francia e dell'Inghilterra per l'indipendenza italiana. Loro possibile apporto politico-militare ....
Pag. 818
Il contesto politico interno: ragioni della scelta unitaria e monarchico-costituzionale. Pericoli del federalismo .........
Pag. 824
Giudizi coevi e successivi. Pregi e limiti dell'opera dell'autore italiano più clausewitziano ........................................... .
Pag. 831
INDICE GENERALE
1117
PARTE QUINTA
LE TEORIE DELLA «GUERRA PER BANDE« E DELLA GUERRA MARITTIMA: STRATEGIE ALTERNATIVE O COMPLEMENTARI? CAPITOLO XIV - DALLA «PICCOLA GUERRA» ALLA GUERRIGLIA E GUERRA DI POPOLO: TEORIE MILITARI E IDEOLOGIE A CONFRONTO........
Pag. 841
Premessa ..... ... .. ...... .. ........ ...... .. ....... .. ... .. .. .. .... ... ........ ........ ..
Pag. 841
SEZIONE I - La guerra partigiana nel pensiero militare europeo................................................................................
Pag. 842
Piccola guerra, guerra di partigiani e guerriglia: lontana origine militare dei termini..... ............................................
Pag. 842
Guerre di popolo e guerre «nazionali« nel pensiero di Clausewitz e }omini ............................................................
Pag. 852
SEZIONE IT - La guerra partigiana e il suo ruolo nel pensiero politico-militare italiano...... .......................................
Pag. 864
Piccola guerra e guerriglia nei primi studi italiani del secolo XIX e nella lessicografia.............................................
Pag. 864
La guerra nazionale e per bande nel pensiero mazziniano
Pag. 874
Le teorie «militariste» di Carlo Bianco di Saint Jorioz......
Pag. 893
Cenni su alcuni scritti minori ... .............. .. .. .. .. ... ..... ............
Pag. 899
Il ruolo e le modalità della guerriglia nella strategia «peninsulare« di Guglielmo Pepe.............................................
Pag. 903
SEZIONE ID - Le analisi storiche attualizzanti sulla guerriglia nel XX secolo .. ... ..... ... ..... .... ..... ... .. .. .. .. .. .... .... ... .. .......
Pag. 908
l giudizi del periodo tra Le due guerre mondiali: sempre riduttivi ?.... ·······.................. .................................................
Pag. 908
1118
IL PENSIERO MILJTARE ITALIANO (1789-1915) -
VOL. I
Il «revival» degli studi sulla guerriglia dopo il 1975: dubbia validità della chiave ideologica....................................
Pag. 924
CAPITOLO XV - GUERRA MARITTIMA, POTERE MARITTIMO E TATTICA NAVALE NEL PENSIERO EUROPEO..................................................................
Pag. 925
Premessa .. .. .. ... .. ... .. .. .. .. .. ...... ... .. .............. .. .... ...... ....... ..... ... .
Pag. 925
SEZIONE I - De Richelieu a Padre Roste: cenni sul pensiero navale europeo dei secoli XVII e XVIII .......... .... .. .. ..
Pag. 927
Si può parlare di strategia marittima?...............................
Pag. 927
Walter Raleigh e il Cardinale Richelieu .. ... ............ ... ... ......
Pag. 928
Padre Hoste, massimo esponente della scuola tattica «formalista» francese ............ ........... ........ ....... .. ... .. .... ...... ... ......
Pag. 931
La guerra marittima secondo l 'Enciclopedia Francese (1757)........................................................................................
Pag. 937
SEZIONE Il - L'arte militare marittima nella Rivoluzione e nell'età napoleonica.........................................................
Pag. 938
Quadro generale degli avvenimenti....................................
Pag. 938
Il potere marittimo e il ruolo della flotta nella grande strategia di Napoleone........................................................
Pag. 942
Il rinnovamento della tattica navale a fine secolo XVJII: Clerk, Boudé e Ramatuelle ........ ......... ..... ....... .. ....... ... ... .. ...
Pag. 954
SEZIONE III - Il periodo post-napoleonico: riflessi e problemi dell'introduzione del vapore ...... .... ... ... .. ..... ..... ... ... .. .
Pag. 980
Nuovi orizzonti delle costruzioni navali .. ... ... ... .. ....... ... ..... .
Pag. 980
INDICE GENERALE
I I 19
Paixhans precursore della corazzata: nascita del trinomio artiglieria di grande potenza-vapore-corazza....................
Pag. 987
Risvolti navali delle teorie di ]omini, Clausewitz e Carrion - Nisas ..........................................................................
Pag. 998
Conclusione .........................................................................
Pag. 1008
CAPITOLO XVI - IL MEDITERRANEO E LA GUERRA MARITTIMA NEL PENSIERO POLITICO-MILITARE ITALIANO .......................................... .
Pag. 1013
Premessa ............................................................................ .
Pag. 1013
SEZIONE I - L'Italia nel contesto politico-militare del Mediterraneo ...................................................................... .
Pag. 1016
Possibilità, realizzazioni e Limiti delle due principali Marine pre-unitarie ..................................................................
Pag. 1016
L'Italia, il Mediterraneo e l'importanza delle forze marittime nella pubblicistica coeva.............................................
Pag. 1020
SEZIONE II - Il potere marittimo negli scritti di Giulio Rocco e di Giuseppe Cridis.................................................
Pag. 1025
Lineamenti generali del pensiero di Giulio Rocco ( 1814)..
Pag. l 025
Formazione di Quadri.........................................................
Pag. 1039
Critica alla critica di Giulio Rocco: perché non è stato un Mahan Italiano....................................................................
Pag. J 042
ll concetto di poter marittimo di un piemontese: Giuseppe Cridis ( 1824) .......................................................................
Pag. I 045
SEZIONE m - La guerra marittima e la sua storia negli scritti di Andrea Zambelli, Carlo Cattaneo e Cesare Cantù
Pag. 1047
SEZIONE IV - Le contrapposte tesi sulle possibilità tattico-stategiche della propulsione a vapore............................
Pag. 1064
1120
ILPENSIBROMILÌTARE ITALIANO (1789- 1915) -
VOL. l
SEZIONE V - Spunti di strategia e tattica navale ...............
Pag. 1069
Indice dei nomi di persona ..................................................
Pag. 1089
Indice generale ................................................................... .
Pag. 1105